giovedì 25 ottobre 2007

Apcom 25.10.07
GOVERNO/ 'SVOLTA' DI BERTINOTTI SPARIGLIA LE CARTE A SINISTRA
Su simboli e legge elettorale ancora divisi Prc-Pdci-Verdi e Sd
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Corriere della Sera 25.10.07
Governo, è scontro tra Prodi e Bertinotti
Palazzo Chigi e l'affondo del presidente della Camera: un equivoco. La replica: no, ribadisco tutto
di Francesco Alberti


ROMA — Il chiarimento non c'è stato. Anzi, il contrasto rischia di assumere spessore istituzionale con inevitabili ricadute sulla tenuta del governo. Romano Prodi e Fausto Bertinotti, sul cui asse poggiano le fondamenta dell'Unione, si trovano all'improvviso distanti sulle prospettive della legislatura in caso di caduta dell'attuale esecutivo. Il presidente della Camera è fermamente convinto che un eventuale dopo-Prodi debba sfociare in un governo istituzionale per le riforme (elettorale e costituzionale). Il premier, invece, oltre a ritenere che scenari di questo genere altro non portino se non a un ulteriore indebolimento del governo, è dell'idea che l'unico sbocco della legislatura, in caso di crisi, siano le urne.
Doveva essere, tra i due, la giornata del chiarimento. Prodi e Bertinotti si sono telefonati martedì sera. Un colloquio vivace, ma comunque un contatto. Il presidente della Camera ha poi sentito anche il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, pure lui preoccupato per la piega che stava prendendo la vicenda. Passaggi delicati, ma alla fine pareva che le premesse per un rasserenamento fossero state gettate. E invece, ieri sera, si è capito che il solco resta profondo. È successo quando fonti di Palazzo Chigi hanno fatto sapere di «aver positivamente valutato » il fatto che Bertinotti avesse puntualizzato il suo pensiero, chiarendo di confidare sulla durata del governo «per l'intera legislatura».
«Equivoco chiarito» è stato subito il commento dell'entourage prodiano. Sbagliato. Dalla Camera, fonti vicine a Bertinotti hanno immediatamente replicato con toni seccati: «Nessun equivoco perché non ha equivocato nessuno: il presidente non ha fatto che ribadire quanto detto in precedenza». E, cioè, che le riforme vanno fatte, con o senza governo Prodi. Una spaccatura pericolosa, che getta interrogativi su Rifondazione. Il Professore per ora glissa: «Tengo tutto nel mio cuore... ».
Il contrasto con Bertinotti ha dominato una giornata nella quale Prodi non ha lesinato frecciate a Berlusconi. Il no del Cavaliere all'appello lanciato da Napolitano sulle riforme è stato immediatamente sottolineato da Palazzo Chigi: «Ci dispiace che le parole del Colle non siano state condivise da tutti».
Decisamente più duro il giudizio sul modo in cui il leader di Forza Italia ha ricevuto l'altro ieri gli ispettori del Bie, che dovranno dire l'ultima parola sulla candidatura di Milano all'Expo 2015: la decisione di Berlusconi di mostrare agli ispettori sondaggi che lo danno in netto vantaggio su Prodi è stato stigmatizzato dagli uomini del Professore: «Berlusconi ha sbagliato: è un errore mostrare un'immagine disunita del Paese. E poi quei sondaggi hanno scarsa credibilità...».

Corriere della Sera 25.10.07
Il retroscena
Spunta l'asse tra Fausto e Walter Ora si tratta sul sistema tedesco
di Francesco Verderami


ROMA — Fino a tre giorni fa Rifondazione era attestata sulla linea delle elezioni anticipate: nessuna alternativa a Prodi, solo le urne. La svolta di Bertinotti ha spiazzato persino i vertici del suo partito, disvelando così l'asse con Veltroni. Il presidente della Camera e il leader del Pd hanno superato d'un tratto il gelo misto a diffidenza che li teneva distanti. In nome della realpolitik sono stati costretti al passo, a fronte delle disastrose condizioni in cui versa il governo: la rete di protezione che hanno iniziato a costruire, manco a dirlo, ruota attorno alla possibilità di chiudere il cerchio sulla legge elettorale.
Raccontano che Veltroni abbia promesso un'apertura sul sistema simil-tedesco nel discorso di insediamento che terrà davanti alla Costituente democratica. I dettagli tecnici scolorano nel profilo ancora indistinto del disegno, «d'altronde — come spiegava ieri un autorevolissimo esponente del Pd vicino al segretario — sul modello tedesco Walter non chiude. Eppoi in politica esistono obiettivi prioritari e obiettivi secondari». La priorità è dettata dall'emergenza. E se dopo Bertinotti anche Veltroni farà la sua mossa, tutto sarà chiaro: forti dell'appoggio dei maggiorenti del Pd, e facendosi scudo delle esternazioni di Napolitano, chiederanno a Prodi di adeguarsi. Toccherà al premier scegliere se portare avanti l'operazione, altrimenti...
Altrimenti si profilerebbe «l'opzione B», quella che il presidente della Camera ha adombrato nell'intervista al Tg1, quel governo «per le riforme» che dovrebbe spostare al 2009 l'orizzonte delle urne, e che ha mandato fuori dai gangheri Prodi. Il premier si sente assediato. Sarà infatti solo una coincidenza, ma anche Nerozzi, membro della segreteria della Cgil ed esponente della Sinistra democratica, nell'ultimo direttivo sindacale ha accennato all'ipotesi di un «governo tecnico». Marini sarebbe il più accreditato a guidare un gabinetto «istituzionale», però — a seconda della formula che verrebbe scelta — in pista ci sarebbero anche Amato, D'Alema e Fassino. Tutti sono consapevoli che «l'opzione B» è ad alto rischio, e non è detto che riesca: sono troppe le variabili, poche le certezze, certa l'ostilità di Berlusconi. Su questo fa affidamento Prodi. Lo scontro con Bertinotti è proseguito ieri a colpi di comunicati tra palazzo Chigi e Montecitorio, e fa intendere quale sia la linea del premier: «Resistere, resistere, resistere ».
«Invece di fare il risentito, Romano dovrebbe capire che gli ho offerto un assist», commentava ieri il presidente della Camera: «Si muova, reagisca, insomma faccia qualcosa. Perché è impensabile che sulla legge elettorale nessuno sappia qual è la sua idea. Almeno Walter qualcosa l'ha detta». Eccome se l'ha detta, al telefono con Bertinotti. La preoccupazione comune è dettata «dalla situazione allo sbando», dal fatto che il centrosinistra «sta subendo l'accerchiamento di Berlusconi, che più passa il tempo più prende spazio». Basterebbe dare un'occhiata agli ultimi sondaggi riservati: le primarie del Pd non hanno sortito grande effetto, se è vero che la forbice tra il Polo (al 55,1%) e l'Unione (42,9) si è ristretta solo di mezzo punto. Peccato che per il governo si stiano restringendo anche i margini al Senato: Turigliatto, di Sinistra critica, si appresta oggi ad annunciare che non voterà la Finanziaria. Ieri la maggioranza a palazzo Madama sul decreto fiscale era di un solo voto. Si respira aria di smobilitazione nel governo. Raccontano che, chiuso nella sua stanza al ministero, Rutelli abbia sospirato: «Peccato, avremmo potuto fare grandi cose per la cultura...».
Il tempo stringe, nel Pd sono in pochi a volersi immolare per Prodi e pensano a evitare la disfatta. Dice De Mita: «Ho letto che se cade, Romano minaccia di ricandidarsi. E con chi?». Ma «l'opzione B» è impresa ardua: potrebbe essere costruita solo se l'Unione si compattasse sulla legge elettorale. Bertinotti auspica il sistema tedesco, «perché non voglio né un partito condannato al governo né all'opposizione ». Veltroni comprende, ma sa anche quanto sia difficile agganciare un pezzo di opposizione nel disegno. Il meccanismo sarebbe quello già sperimentato nella commissione Affari costituzionali di Montecitorio, dove nelle scorse settimane Udc e Lega si erano astenuti sulle riforme. Peccato che in Aula la musica sia cambiata. «Dovevamo spaccare il Polo e invece li abbiamo ricompattati con l'ostruzionismo», commentava ieri il democratico Giachetti, prendendosela con Violante: «Così dopo il Senato si è bloccata anche la Camera. Siamo nel pantano».
Servirebbe un aiuto dall'opposizione, ma per quanto le sirene del modello tedesco tocchino le corde di Casini, Berlusconi dice di avere in mano l'arma di fine legislatura. Qualcuno nel Polo pensa oggi di sfidarlo?

Corriere della Sera 25.10.07
L'Unità ad Angelucci Bufera nella Quercia
Arriva l'editore di «Libero», irritazione di Veltroni
di Paolo Foschi


ROMA — L'Unità cambia di nuovo padrone. Il «quotidiano fondato da Gramsci» (come recita orgogliosamente la testata) sta per passare nelle mani della famiglia Angelucci, editori di Libero e del Riformista, titolari di un piccolo impero nella sanità privata. Il contratto preliminare - secondo informazioni non ancora ufficiali sarebbe già stato firmato. L'atto di vendita sarà invece siglato fra 45 giorni, quando scadrà il diritto di prelazione dei Ds, ormai confluiti nel Partito democratico. Non ci sono dettagli economici, ma si parla di un investimento da almeno 20 milioni di euro.
L'operazione rischia però di creare una spaccatura nell'anima diessina del Pd. In molti intravedono dietro l'ingresso degli Angelucci la mano di Ugo Sposetti, tesoriere della Quercia che controlla le casse del vecchio partito. «Io non c'entro nulla - taglia corto Sposetti - . Se gli Angelucci vogliono prendere l'Unità, sono affari loro. Di sicuro il partito non ha soldi per esercitare la prelazione». Walter Veltroni però sarebbe infuriato: secondo i suoi le risorse ci sarebbero, ma sono utilizzate per foraggiare le fondazioni che Ugo Sposetti sta creando utilizzando i beni dei Ds, destinati a non finire nelle casse del nuovo Partito democratico. Inoltre, con la vendita del giornale che Veltroni stesso ha diretto negli anni Novanta, i contributi pubblici finirebbero a imprenditori che flirtano con la destra. I suoi rapporti personali con gli Angelucci, del resto, sono tutt'altro che buoni, inutili sarebbero stati tutti i tentativi per organizzare un incontro che Giampaolo Angelucci avrebbe voluto avere con il leader del Pd. «Speriamo che Veltroni blocchi la vendita», è l'appello della redazione del quotidiano storico del Pci.
Maria Lina Marcucci, presidente del cda dell'Unità alla guida di una cordata raccolta in una complessa catena societaria, non smentisce la manovra: «Ci sono contatti». Per gli Angelucci si tratta comunque di un ritorno. La Tosinvest, a cui fanno capo le cliniche della famiglia, già nel 1998 aveva acquistato oltre il 20% del giornale. E non erano mancate le polemiche, con voci di tentativi di utilizzare l'Unità per fare pressioni sulla Regione Lazio, retta dal centrosinistra, per sbloccare alcune convenzioni con le Asl. Allora il «pacchetto» fu venduto.

Corriere della Sera 25.10.07
Colombo: addolorato Mi pare una scelta folle
di Pa.Fo.


«Mi hanno riferito le ultime novità. E non mi piacciono per niente.
Non ho notizie ufficiali, ma so quello che mi hanno raccontato dalla redazione, i colleghi sono molto preoccupati. E hanno ragione. Trovo folle questa situazione»: Furio Colombo ( foto),
ex direttore e oggi collaboratore del quotidiano storico del Pci, rispondendo al telefono in serata si dice «amareggiato, sorpreso, addolorato» per la vendita del giornale alla famiglia Angelucci.
«Non conosco i dettagli dell'operazione, del resto non ho più un ruolo interno all'azienda.
Ma le informazioni che mi sono arrivate mi hanno turbato. Spero che cambi qualcosa nelle prossime ore— aggiunge —. Non riesco proprio a capire perché l'Unità debba finire sullo stesso scaffale di Libero. Per carità, ho il massimo rispetto per Libero e per chi ci lavora. Il direttore Vittorio Feltri e i suoi collaboratori fanno un ottimo giornale, ma è un giornale di destra. Perché adesso il loro editore deve prendere un quotidiano con un passato come quello dell'Unità? Non è una cosa normale. Qualcosa non torna. Mi domando perché un editore deve avere un giornale che sostiene una posizione ed un altro giornale che appoggia la posizione esattamente contraria? C'è poco da stare tranquilli». Secondo Colombo, «uno stesso editore che pubblica due giornali così diversi non c'è in alcun posto al mondo».

Corriere della Sera 25.10.07
Wang Gang esce in Italia: una storia di persecuzioni contro un insegnante «sovversivo»
Mao e le Guardie Rosse, la memoria proibita
Un romanzo rompe il tabù sul passato. E sulle atrocità di allora
di Fabio Cavalera


PECHINO — La Cina non è capace di regolare i conti col passato. È una nazione che guarda al futuro, rapita dal miraggio del benessere, ma che si fa assalire dalla paura di rileggere la pagine più problematiche della sua storia recente.
Un atteggiamento mentale diffuso: non confinato nella autoritaria élite politica che la governa, piuttosto un sentimento condiviso nella società, parte caratterizzante dell'essere cinese oggi, del cittadino cinese che si apre al mondo ma non si apre a se stesso perché preferisce curare in silenzio le ferite, tenere il dolore nascosto e spenta la memoria del secolo. Non è la rassegnazione che ha placato le emozioni e nemmeno l'accettazione degli eventi che ha domato la ragione. È che l'uomo non si ferma a riflettere, semmai cammina lungo il sentiero di una trasformazione lenta. Allora: perché pensare a ciò che è avvenuto ieri se io vivo per il domani e già nel domani? È l'etica di un popolo che — per usare le parole del sinologo francese François Jullien — potremmo definire «un altrove del pensiero». Quando la Cina volge lo sguardo agli anni della guerra civile e della ascesa al potere di Mao, al lungo dominio esercitato dall'Imperatore rosso e ai capitoli fondamentali che hanno segnato la sua dinastia — sia che ciò avvenga con i toni propagandistici di un'ideologia che ha perso la forza della sorpresa e della innovazione e che si è rivelata giustificazione dell'opprimere, sia che ciò avvenga con fredda e veloce rivisitazione alla quale i circoli accademici sono talvolta costretti — si coglie il fastidio di un esercizio che non è considerato espressione di cultura ma rottura del regolare corso della natura: è la stabilità che viene violentata, è la continuità di una grande civiltà messa in discussione, è l'armonia suprema del cielo spezzata. Del tragico Balzo in Avanti, la conversione dall'agricoltura alla industrializzazione pesante che fra la fine degli anni '50 e l'inizio dei '60 portò alla carestia e costò milioni di morti per fame, della sanguinosa rivoluzione culturale scatenata da Mao per sbarazzarsi di chi, fra i suoi compagni di lotta, aveva compreso quale piega stavano assumendo le visioni del Presidente, ne parliamo o discutiamo più noi in Occidente, che in cinesi in patria. I quali, specie i giovani, sanno poco o nulla della storia, vittime della rimozione, testimoni del presente e protagonisti del futuro mai, però, eredi del passato.
Che è un'ombra lontana.
La rivoluzione culturale è stata un insieme tumultuoso di drammi, che ha coinvolto milioni di persone: dove sono finite queste persone?
Hanno pagato, giustamente, i quattro fanatici della Banda di Shanghai con la collerica Jiang Qing a capeggiarla, ma le guardie rosse che avevano terrorizzato la Cina, che l'avevano spogliata delle sue residue forze e risorse, che avevano distrutto il patrimonio rimasto della sua arte e della sua cultura, sono sparite, inghiottite nel nulla, riassorbite dal sistema. Tutti hanno voluto dimenticare. La Rivoluzione Culturale resta sullo sfondo, qualcosa da non evocare. Perché se lo si facesse occorrerebbe ripensare la figura di Mao, trattarlo per ciò che è stato, un despota, dopo che aveva saputo mobilitare l'orgoglio di una nazione ritrovata.
Si capisce lo scandalo che crea un intellettuale quando si appropria delle sue libertà per affrontare un capitolo così delicato quale è la revisione del maoismo. Wang Gang è uno scrittore che in Cina, con il libro dal titolo «English» (ora in distribuzione in Italia per Neri Pozza, lo sarà anche per Penguin in Inghilterra, poi in Francia e Germania), storia del rapporto fra un adolescente e un professore d'inglese che avvicina gli scolari alla cultura "nemica" dell'Occidente e del capitalismo, ha sollevato un bel caso. L'ambiente è la provincia dell'Ovest, lo Xinjiang, e il tempo della trama è proprio quello della rivoluzione culturale quando insegnare la lingua straniera era un attività sovversiva. Un romanzo molto bello che raccoglie il peso di un'epoca e delle follie che l'hanno sconvolta.
Wang Gang era un ragazzino e la sua colpa, pagata con l'ostracismo oggi della Associazione Nazionale degli Scrittori, è di avere raccontato, con linguaggio forte e con ironia, ciò che i suoi occhi riuscirono a fotografare: andava a scuola e in classe i ragazzi con il libretto rosso in mano si accanivano sugli insegnanti, intellettuali borghesi e di destra, lui stesso una volta ne fu partecipe con il fratello. «La maggioranza dei miei colleghi — dice Wang Gang che abita a Pechino — per compiacere il regime parla della rivoluzione culturale addirittura con nostalgia o con distacco. Io no, mi rifiuto. Occorre che le nuove generazioni dei cinesi sappiano bene che cosa è capitato in questo Paese e chi ne è stato il responsabile ». Il libro è uscito due anni fa, ha veduto 150 mila copie, ha preso un premio a Taiwan e solo allora la censura si è accorta della pubblicazione: «Quelli non leggono i romanzi, si preoccupano di Internet, dei giornali, della televisione, del cinema. Ma dei libri poco, salvo poi correre ai ripari».
Wang Gang è rimasto in silenzio otto anni, soffocando l'idea di narrare una pagina della Cina moderna. Ha ritenuto alla fine che il dovere universale di un intellettuale non è fuggire o compiacere o nascondersi ma raccontare ciò che al potere non piace: in Cina è quel periodo nel quale «noi eravamo tutti magri stecchiti, l'uomo del ritratto era invece bello grasso, essendo il presidente Mao». Ecco lo scandalo: in Cina il passato fa paura, meglio lanciarsi nel futuro e nel miracolo dei numeri dell'economia. Altrimenti va in frantumi il Mito. E il tempo non è ancora quello giusto.
Guardie Rosse in marcia verso la città di Canton sventolano il «Libretto Rosso» con i pensieri di Mao (Archivio Corsera)

l'Unità 25.10.07
La Cosa rossa teme la crisi e accelera: l’8 dicembre assemblea nazionale
Migliore ribadisce: «Prodi non cadrà da sinistra». Ma Prc guarda a una nuova legge elettorale
Consultazioni di massa e gruppi parlamentari federati: più veloce il processo che riguarda Rifondazione Sd, Pdci e Verdi
di Simone Collini


Imperativo: accelerare. La sinistra radicale brucia le tappe del processo unitario: federazione dei gruppi parlamentari di Prc, Pdci, Verdi e Sinistra democratica, costituzione di un coordinamento nazionale che gestisca l’operazione, assemblea generale l’8 e 9 dicembre a Roma di tutti i soggetti interessati a dar vita alla “Cosa rossa”. Ufficialmente, non c’è una connessione tra quelle che Franco Giordano definisce le «evidenti difficoltà del governo» e le decisioni assunte ieri dal segretario di Rifondazione comunista insieme a Oliviero Diliberto, Fabio Mussi e Alfonso Pecoraro Scanio. Ma non è un caso che l’accelerazione si concretizzi nel momento in cui nell’ala sinistra dell’Unione finisce di essere un tabù il tema del dopo-Prodi.
Il giorno dopo l’uscita di Fausto Bertinotti sulla necessità di approvare in ogni caso, che questo governo arrivi o meno a fine legislatura, una nuova legge elettorale prima di andare al voto, Rifondazione comunista non nega di star ragionando su una serie di «simulazioni», per dirla con Giordano. Premesso che «il governo non cadrà da sinistra», il capogruppo del Prc alla Camera Gennaro Migliore sottolinea che il superamento del “porcellum” e l’approvazione di una nuova legge elettorale che garantisca rappresentatività e maggiore stabilità è «una promessa fatta agli elettori». Che va mantenuta, prima di tornare alle urne. E se malauguratamente si dovesse andare al voto anzitempo? «Intanto cerchiamo di non far cadere il governo Prodi, noi ne siamo accaniti difensori», dice il capogruppo del Prc al Senato Giovanni Russo Spena. Che però aggiunge: «Se il governo dovesse cadere, indubbiamente esisterebbe il problema di andare a riforme istituzionali e costituzionali. E quello potrebbe farlo, appunto, un governo di larghe intese». Ma nel Prc si sa anche che se la «simulazione» della crisi dovesse avverarsi - e Giordano sottolinea che «le difficoltà del governo non sono un’invenzione di Bertinotti» - il rischio di rimaner tagliati fuori dalle larghe intese potrebbe esserci. Diverso sarebbe il caso in cui un eventuale taglio delle ali comportasse un dover rinunciare a un centinaio di deputati e una cinquantina di senatori (tanti sono i parlamentari della futura “Cosa rossa”). Per quanto riguarda Pdci e Verdi poi, che non vogliono neanche sentir parlare di sistema elettorale tedesco, sanno che all’esame c’è un testo che dalla Germania prende lo sbarramento al 5%.
In questo scenario Giordano, Diliberto, Pecoraro Scanio e Mussi hanno accelerano concordando la road map per presentarsi con simbolo unitario alle prossime elezioni. I gruppi parlamentari verranno federati, individuando anche un portavoce unico per la Camera e per il Senato. A dicembre ci sarà una due giorni «della sinistra e degli ecologisti» aperta ad associazioni e movimenti che dovrà varare un manifesto che sarà poi sottoposto a un’ampia consultazione popolare: le cosiddette «primarie sulle idee e i contenuti». Rimane da sciogliere il nodo della forma organizzativa, visto che Diliberto e Pecoraro Scanio oltre la confederazione non vanno mentre Mussi e Giordano ritengono che si possano fare ulteriori passi verso l’unità.

il Giornale 25.10.07
Il fantasista di Montecitorio
di Massimo Teodori
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il Riformista 25.10.07
Sinistra. Cosa si agita dietro la svolta di Bertinotti
Fausto ha fretta di archiviare Rifondazione
di Stefano Cappellini


C'è stato un tempo, non lontano, in cui parlare di «governo tecnico» in casa di Rifondazione comunista era come agitare la corda in casa dell'impiccato. Finché è toccato a Fausto Bertinotti, nell'intervista al Tg1 di due sere fa, sdoganare quello che dentro Rifondazione comunista è stato sempre considerato lo strumento dei «poteri forti» contro la presenza della sinistra al governo. L'esternazione del presidente della Camera, sebbene parzialmente rettificata, è un segnale forte per Prodi: ora il premier sa che il suo credito col Prc è esaurito. Ma dietro l'uscita di Bertinotti c'è molto altro e sbaglia chi pensa che la sua volesse essere una spallata al Prof. Piuttosto, è un avviso ai naviganti. Ora è ufficiale che Rifondazione ha cambiato linea: niente più elezioni in caso di crisi, magari per cavalcare elettoralmente la caduta da destra dell'esecutivo. Al contrario, i voti comunisti sono pronti a sommarsi a quelli di altri volenterosi per le riforme. Solo così sarà possibile varare quella legge elettorale di tipo tedesco indispensabile al grande progetto bertinottiano: ripartire dal «popolo del 20 ottobre», supposta reincarnazione del disperso «popolo di Seattle», per colmare quello che la terza carica dello Stato definisce nei suoi conciliaboli «il ritardo strategico accumulato nei confronti del Pd». L'obiettivo è chiaro: rompere gli indugi sulla nascita del Partito della Sinistra e prepararsi ad affrontare il dopo-Prodi. Previsto,non certo auspicato. Perché se il governo cade sulla finanziaria, il subcomandante Fausto sa bene che non v'è alcuna certezza che prevalga la sua linea e non invece quella di Berlusconi per andare subito al voto, cui la sinistra radicale arriverebbe impreparata e ancora divisa. Gli Stati generali della Cosa rossa - fissati ieri per dicembre dalla riunione dei segretari di Prc, Pdci, Verdi e Sd - sono per Bertinotti una risposta insufficiente alle sfide cui è attesa la sinistra nell'era del veltronismo democrat. Una semplice confederazione che lasci in vita simboli e organigrammi dei partiti membri sarebbe ai suoi occhi un altro brodino, per dirla con l'espressione che ha fatto infuriare Prodi. Questo - pensa Bertinotti - deve essere il momento dell'avanti tutta.
L'asse con Fabio Mussi, che ieri sul Manifesto ha fatto autocritica sulla mancata partecipazione di Sinistra democratica al corteo di sabato scorso, è solido, nonostante le divisioni su pensioni e welfare. Il metodo per arrivare a dar vita il prima possibile al Partito della sinistra lo suggerisce io storico Paul Ginsborg su Liberazione: primarie di programma, che mescolino strumenti tradizionali e telematici, per coinvolgere il «popolo del 20 ottobre» su profilo, simbolo e nome del nuovo partito. Il leader in pectore c'è già, Nichi Vendola, anche se la svolta bertinottiana non arriva, per ora, al punto di immaginare un voto diretto sulla leadership. Quanto alla parola "comunista" e alla falce e martello, è ormai chiaro che sono destinati a essere dismessi.
Ce n'è abbastanza per creare un trambusto almeno pari a quello che ha agitato i Ds davanti alla prospettiva del Pd. li gruppo dirigente del Prc, che oggi si regge sull'asse tra il segretario Franco Giordano e il ministro Paolo Ferrero, è rimasto spiazzato. Nel caso di Giordano, anche letteralmente: non avvertito dell'intervista al Tg1, si è trovato ospite a Porta a porta in balia di interlocutori che gli chiedevano conto di una svolta di cui non aveva sentore. È soprattutto la narrativa degli ultimi giorni a essere stata riscritta. Quel «forza Prodi» con cui Giordano (e il quotidiano Liberazione) ha accompagnato il 20 ottobre è stato cancellato in pochi minuti dalle metafore senili con cui Bertinotti ha apostrofato il Prof. Non solo: a questo punto, davanti alla volontà del presidente della Camera di archiviare Rifondazione, il congresso del partito fissato in primavera rischia di essere superato dai fatti, reso quasi una inutile necessità burocratica tra il fastidio e lo sconcerto di molti. Inutile dire che per Giordano, ricandidato alla segreteria, questa accelerazione svuota di significato le assise e la sua stessa rielezione, oscurata dalla scesa in campo di Vendola. Il capogruppo al Senato Giovanni Russo Spena non vuoi credere a colpi di mano: «Non penso che Fausto abbia voglia di scimmiottare i metodi del Pd, anche perché sa bene che nel partito non c'è la maggioranza per procedere su quella strada. Del resto, lui stesso ha smentito le indiscrezioni su Vendola».
Ma il sottosegretario allo Sviluppo Alfonso Gianni, sostenitore del balzo in avanti prima ancora, se possibile, di Bertinotti, non ci gira intorno: «La politica non può aspettare i tempi dei congressi. Bisogna arrivare quanto prima alla nascita di un partito vero che, al di là delle formule organizzative, sia percepito in quanto tale da chi era in piazza il 20 ottobre». La risposta al Pd è l'obiettivo numero del presidente della Camera e ormai viene prima del destino del governo: «Prodi - spiega Gianni - ha dato segno di non raccogliere alcuno dei segnali provenienti dalla piazza. E noi non possiamo più far finta di niente». Aggiunge Milziade Caprili, vicepresidente del Senato: «Bertinotti forse è stato duro, ma ha solo fotografato uno stato di cose disastroso. Qui piove sul bagnato».
La tensione nel partito è alta. Mette in gioco strategie di anni. Mina antichi rapporti. Alla manifestazione di sabato scorso Giordano ha piazzato una stoccata verso un amico con cui ha diviso tutto, compreso un appartamento alla periferia di Roma, fin dagli anni avventurosi anni dell'ultima Fgci: «Vendola? Un buon presidente della regione Puglia», ha tagliato corto coi cronisti. Lo stesso Vendola non è stato tenero coi compagni: «I ministri di questo governo sono opachi. Tutti», ha dichiarato all’Espresso. E Ferrero, ministro comunista da sempre fautore di un modello confederale di unità a sinistra, non nasconde la sua irritazione: «Sono pronto a tornare a fare l'operaio», ha spiegato agli amici per sottolineare il suo disagio davanti a uno scenario in cui il Prc non ci fosse più. Nel partito i fronti si stanno rimescolando. Come giura il senatore Claudio Grassi: «Non mi piace la foga con cui si vuole liquidare Rifondazione e i suoi simboli, a partire dalla falce e martello. Non si può tirare sulla nostra storia una riga arcobaleno, dando vita a un partito genericamente di sinistra solo perché Mussi ha deciso di non entrare nel Pd. E comunque, chi pensa di riuscirci si ritroverà minoranza». Bertinotti avrà di che lavorare.

Repubblica 25.10.07
Il segretario di Stato vaticano attacca gli articoli di "Repubblica"
"L'apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società"
Bertone contro le inchieste sulla Chiesa
"Finiamola con questa storia dei costi"


CITTA DEL VATICANO - "Finiamola con questa storia dei finanziamenti alla Chiesa: l'apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società". Il segretario di Stato Tarcisio Bertone, replica con durezza all'inchiesta sui costi dell'ora di religione. "C'è un quotidiano - lamenta - che ogni settimana deve tirare fuori iniziative di questo genere.
"L'ora di religione è sacrosanta". La conversazione del segretario di Stato con i giornalisti tocca poi la "deriva anticlericale" in Spagna. E su questo Bertone si mostra più prudente: ci sono i vescovi spagnoli che prendono posizione in merito, io non so se sia davvero una proposta di Zapatero o solo una delle righe di un programma elettorale...". Esterna a tutto campo il cardinale, dopo la conferenza stampa sul Concerto di Ennio Morricone e dell'Arma dei Carbinieri che si terrà in Vaticano il prossimo 20 novembre. "Le difficoltà delle famiglie di arrivare alla fine del mese - risponde a un gionalista - sono reali. Mi auguro che le promesse del Governo vengano matenute. Il problema è quello delle risorse limitate, noi chiediamo che siano impiegate a favore della famiglia, dei figli, della solidarietà". Cita i cartelli di protesta che lo hanno accolto all'ospedale pediatrico promosso dal Vaticano (e gestito in convenzione con il Ssn e la Regione Lazio). I dipendenti lamentano il mancato rispetto del contratto di lavoro che prevedeva uno scatto che non è stato ancora erogato: "è un problema reale, in questo momento siamo in problemi difficili sia dal punto di vista regionale che nazionale. Mancano le risorse: non parliamo degli stipendi vaticani. Potessi avere la bacchetta magica farei subito dei miracoli". Gli domandano allora: "secondo lei la crisi politica sfiorata ieri è superata?". Serafico replica: "vediamo se è superata".
Tutto questo non basta ai giornalisti che lo hanno seguito al "Bambino Gesù" e così il cardinale è "costretto" a parlare anche dei limiti etici della pubblicità. Non gli è piaciuto lo spot del "neonato gay". In proposito Bertone dice: "è una cosa strana, mi sembra che non sia il caso di arrivare a uno spot di quel genere".

Repubblica 25.10.07
COMMENTO
Democrazia e religione
di EZIO MAURO


"Finiamola". Con questo invito che ricorda un ordine il Cardinal Segretario di Stato della Santa Sede, Tarcisio Bertone ha preso ieri pubblicamente posizione contro l'inchiesta di Repubblica sul costo della Chiesa per i contribuenti italiani, firmata da Curzio Maltese. "Finiamola con questa storia dei finanziamenti alla Chiesa - ha detto testualmente il cardinal Bertone - : l'apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società". Per poi aggiungere: "C'è un quotidiano che ogni settimana deve tirare fuori iniziative di questo genere. L'ora di religione è sacrosanta".
Non ci intendiamo di santità, dunque non rispondiamo su questo punto. Ma non possiamo non notare come il tono usato da Sua Eminenza sia perentorio e inusuale in qualsiasi democrazia: più adatto a un Sillabo.
L'attacco vaticano riguarda un'inchiesta giornalistica che analizza i costi a carico dei cittadini italiani per la Chiesa cattolica, dalle esenzioni fiscali all'otto per mille, al finanziamento alle scuole private, all'ora di religione: altre puntate seguiranno, finché il piano di lavoro non sia compiuto.
Finiamola? E perché? Chi lo decide? In nome di quale potestà? Forse la Santa Sede ritiene di poter bloccare il libero lavoro di un giornale a suo piacimento? Pensa di poter decidere se un'inchiesta dev'essere pubblicata "ogni settimana" o con una diversa cadenza? E' convinta che basti chiedere la chiusura anticipata di un'indagine giornalistica per evitare che si discuta di "questa storia"? Infine, e soprattutto: non esiste più l'imprimatur, dunque persino in Italia, se un giornale crede di "tirar fuori iniziative di questo genere" può farlo. Salvo incorrere in errori che saremo ben lieti di correggere, se riceveremo richieste di rettifiche che non sono arrivate, perché nessun punto sostanziale del lavoro d'inchiesta è stato confutato.
La confutazione, a quanto pare, anche se è incredibile dirlo, riguarda la legittimità stessa di affrontare questi temi. Come se esistesse, lo abbiamo già detto, un'inedita servitù giornalistica dell'Italia verso la Santa Sede, non prevista per le altre istituzioni italiane e straniere, ma tipica soltanto di Paesi non democratici. In più, Sua Eminenza è il Capo del governo di uno Stato straniero che chiede di "finirla" con il libero lavoro d'indagine (naturalmente opinabile, ma libero) di un giornale italiano. Dovrebbe sapere che in Occidente non usa. Mai.
Stupisce questa reazione quando si parla non dei fondamenti della fede, ma di soldi. E tuttavia se la Chiesa - com'è giusto - vuole far parte a pieno titolo del discorso pubblico in una società democratica e trasparente, non può poi sottrarsi in nome di qualche sacra riserva agli obblighi che quel discorso pubblico comporta: per tutti i soggetti, anche quelli votati al bene comune. Anche questo è un aspetto della sfida perenne, e contemporanea, tra democrazia e religione.

Liberazione 25.10.07
Stavolta Prc, Sd, Pdci e Verdi fanno un netto passo avanti
Qualcosa a sinistra si muove
I partiti verso l'unità
di Angela Mauro


La federazione della sinistra comincerà a prendere forma nel giorno dell'Immacolata Concezione. E magari la coincidenza sulla data porterà bene. Chissà. Quello che è certo al momento è che l'8 e il 9 dicembre prossimi si riunirà l'assemblea nazionale della sinistra e degli ecologisti, ovvero l'appuntamento unitario lanciato tempo fa con il nome approssimativo di "stati generali della sinistra". Le modalità di partecipazione sono ancora da definire nel dettaglio, ma l'obiettivo è già chiaro: in quella sede dirigenti, militanti e iscritti del Prc, Sd, Pdci e Verdi si incontreranno con le associazioni, i movimenti, le reti della sinistra sociale per dare un segno tangibile di accelerazione nel percorso unitario intrapreso dalla primavera scorsa.
La convocazione dell'assemblea salta fuori da un vertice di oltre due ore tra Franco Giordano, Fabio Mussi, Oliviero Diliberto, Alfonso Pecoraro Scanio. Il primo incontro dei quattro dopo il successo della manifestazione del 20 ottobre, evento lanciato da Liberazione , il manifesto e Carta , che ha creato non pochi problemi nei rapporti tra i partiti della sinistra dell'Unione. E se i problemi sul corteo in sè si sono dissolti davanti allo spettacolo di un milione di persone in piazza, tanto che persino Mussi ha fatto autocritica rispetto alla scelta di non aderire («Sul 20 ottobre ho sbagliato», dice il leader di Sd in un'intervista ieri al manifesto ), resta sul percorso unitario tutta un'altra serie di ostacoli, che per certi versi si sono addirittura accentuati dopo l'evento di sabato scorso.
E così il vertice dei quattro cristallizza un indiscutibile asse Giordano-Mussi, decisi sulla via dell'unità (senza sciogliere le formazioni esistenti). Meno "disinibiti" (per così dire) appaiono invece Pecoraro e Diliberto che, per motivi diversi, preferiscono puntare sulla carta dell'identità di partito, pur non rinunciando all'interlocuzione e anche a iniziative comuni con gli altri partners a sinistra. Insomma, sembrerebbe che mentre per Prc e Sinistra Democratica i giochi sono fatti (pur restando più che aperta la partita con le resistenze interne, in entrambi i casi), Verdi e Pdci non chiudono (magari con l'intento, nel caso dei Comunisti Italiani, di "annettersi" i rifondaroli più scontenti del percorso unitario).
Oltre alla convocazione dell'assemblea nazionale di dicembre, il vertice partorisce l'intenzione di riempirla di contenuti, con una consultazione popolare («primarie, ma non sul leader», le chiama Diliberto) su «idee, proposte, programmi» della sinistra che verrà (probabilmente già a gennaio). Si costituirà inoltre un coordinamento nazionale, composto dai quattro leader e quattro rappresentanti per ogni partito, con l'incarico di gestire il percorso unitario. In vista dell'appuntamento di dicembre, un primo evento unitario si svolgerà il 10 novembre in piazza Farnese, proposta dei Verdi (accolta da tutti) per celebrare il ventennale del referendum che ha bandito il nucleare in Italia. Decisioni positive e importanti, concordano tutti i protagonisti. Difficile ottenere di più, visto che resta aperto il capitolo dei capitoli: la riforma della legge elettorale.

Liberazione 25.10.07
La sinistra si dà una data:
Assemblea l'8-9 dicembre Vertice dei leader dopo la piazza del 20 ottobre: a gennaio primarie sul programma
L'intenzione comune è di correre alle prossime elezioni con un unico simbolo della sinistra (un apposito gruppo di lavoro si occuperà di definirlo)
di Angela Mauro


L'intenzione comune è di correre alle prossime elezioni con un unico simbolo della sinistra (un apposito gruppo di lavoro si occuperà di definirlo). Ma non sfugge la sterzata partitista di Diliberto, lancia in resta, all'indomani del 20 ottobre, nella difesa di "Falce e martello", che, secondo il leader del Pdci, dovrebbe comparire anche nel contrassegno unitario della sinistra, dove potrebbe essere al massimo tramutata in un'altra icona che però rappresenti il mondo del lavoro. E' il massimo che il segretario dei Comunisti Italiani è disposto a concedere e non basta a fugare i dubbi che alla fine decida di presentare il Pdci con la propria Falce e martello alle elezioni, puntando sul fatto che potrebbe essere l'unica sulla scheda elettorale, se Rifondazione dovesse convergere sul simbolo unitario. Appunto: dipende dal sistema elettorale che regolerà le prossime elezioni e siccome, mentre il governo langue, la trattativa tra i poli è in stallo (con deboli segnali di accordo ieri sera), l'ultima parola non si può dire. Il permanere in vita del "Calderolum" potrebbe incentivare i Comunisti Italiani a correre da soli, l'entrata in vigore di un sistema alla tedesca con sbarramento potrebbe incoraggiarli alla corsa unitaria. Stesso ragionamento per i Verdi, restii ad abbandonare il Sole che ride per paura che possa essere arraffato dai Verdi di destra (ce ne sono, guardando al panorama europeo). E poi c'è il fattore Pd-Veltroni, da non sottovalutare come tentazione aggregativa tra i Verdi.
Saranno state anche queste resistenze a portare al risultato di "federare" e non "unire" i gruppi parlamentari dei quattro partiti, che ormai da tempo portano avanti battaglie emendative unitarie, l'ultima, soltanto agli inizi, sulla Finanziaria 2008. La federazione dei gruppi è un'altra delle decisioni prese nel vertice di ieri: per ogni materia rilevante all'esame dell'Aula verrà scelto un portavoce, a turno per ogni partito. L'unità dei gruppi avrebbe invece presupposto l'individuazione di un capogruppo in pianta stabile: si comprende che nelle condizioni date l'obiettivo non è parso a portata di mano.
Non dispera Fabio Mussi: «L'Ulivo ci ha messo 12 anni prima di arrivare a gruppi unici...». Per la sinistra il processo è solo iniziato, anche se in una fase che evidentemente non ammette ritardi. E' soddisfatto il segretario del Prc Giordano, conscio che l'unità è «un work in progress», che la macchina ormai è in moto e che di certo la grande manifestazione del 20 ottobre è stata chiave decisiva del processo.
Perchè, a sentire i Verdi, non era proprio scontato, prima di sabato scorso, che la sinistra unita avrebbe dato vita all'assemblea nazionale di dicembre. Niente affatto. Ma la piazza ha vinto le resistenze, almeno sull'appuntamento pre-natalizio. E al termine del vertice Pecoraro dichiara: «Siamo tutti convinti che una federazione, aperta anche a forze esterne ai partiti sia oggi un obiettivo comune». «L'esito del vertice va letto in chiave positiva», è certo anche Paolo Cento.
Resta da sciogliere il nodo sulle modalità di svolgimento dell'assemblea nazionale. I leader di Rifondazione e Sinistra Democratica non hanno dubbi sul modello social forum, per permettere una partecipazione di massa e paritaria tra rappresentanti di partito e dei movimenti. Ma al vertice di ieri Diliberto avrebbe espresso riserve anche su questo punto: troppo movimentista per la sua assoluta devozione alla forma partito, nutrita in questi giorni da revanscismi in chiave Urss (vista tutta la pubblicità sul suo prossimo viaggio a Mosca con comizio vicino alla Piazza Rossa nell'anniversario della rivoluzione d'ottobre). Mussi non si impicca alla discussione che «pure c'è - ammette - sulle modalità, ma sono bazzecole: alla fine sarà social forum con un primo giorno - ipotizza - di workshop e il secondo di plenaria». Entusiasta anche Carlo Leoni, deputato di Sd che vede nell'esito della riunione di ieri «l'avvio di un processo irreversibile che deve portare presto a un nuovo soggetto unitario della sinistra». Nel Prc Pietro Folena si complimenta con Mussi per l'autocritica sul 20 ottobre («Un'operazione politica sincera») e lancia l'idea di affiancare alle primarie sul programma anche quelle «sul simbolo e sul nome della Cosa rossa o rosso-verde».
Il treno per definire quella che un po' tutti chiamano già "La sinistra" è partito. Resta da vedere quanti non vorranno salirci: in Sd sono note le resistenze dei più vicini alla Cgil (criticata a sinistra per gli accordi sul welfare), nel Prc la Sinistra Critica di Cannavò lancia un proprio appuntamento con la «sinistra anticapitalista» proprio per l'8 e il 9 dicembre prossimo (e poi ci sono le resistenze dell'Ernesto). Ma sono quelli che in piazza il 20 ottobre non c'erano.

il manifesto 25.10.07
Genetica
L'incubo razzista di Silver e Watson
Non una «gaffe», ma un'ideologia praticata anche nella ricerca. Il progetto di «umanità gen rich», cui affidare definitivamente tutti i poteri
di Francesco Piccioni


Quel vecchio razzista di James Watson (il genetista) ne ha fatta un'altra delle sue, ricorrendo a vecchi e antiscientifici topoi per insinuare ancora una volta che i «neri» siano «meno intelligenti dei bianchi». Scandalo scontato, ma la memoria corta dei media non è riuscita a risalire a quando lo stesso Watson se ne uscì con l'idea che la genetica potesse aiutare a «fare più belle le donne». Come se l'aver meritato un Nobel costituisse anche una garanzia di superiore gusto estetico valido erga omnes.
Men che meno qualcuno si è messo a rimestare sui programmi di ricerca sponsorizzati dal vecchio wasp, tutti caratterizzati dall'idea di «poter far meglio della selezione naturale». Né sulla sua tendenza a convocare meeting semiclandestini con altri genetisti genial-pazzoidi, come quello di Long Island, marzo 2000, sulla «ripro-genetica»; ovvero la clonazione umana.
Su questa strada si è già camminato molto nella pratica scientifica, scatenando integralismi religiosi e timori incapaci di distinguere tra ricerca utile e sogno paranoide. Ma un dato è innegabile: la manipolazione genetica non richiede gli investimenti giganteschi della fisica nucleare (acceleratori di particelle lunghi decine di chilometri, ecc), si può fare quasi «nei sottoscala». Questo implica una caduta di controllo sociale, perché nella big science intervengono necessariamente gli Stati (mediatori istituzionali, anche se certo non immunizzati dalle follie), mentre nel secondo caso le imprese possono pasticciare a piacere, utilizzando ricercatori ambiziosi e molto a corto di scrupoli. Il problema è che la manipolazione genetica è estremamente vicina alla nostra vita, altamente insidiosa proprio nell'ideologia fascinosa costruita a suo supporto: «possiamo migliorare ritoccando qua e là il patrimonio di geni che trasmettiamo ai nostri figli». Nessuno sa dire quali controindicazioni implichi una qualsiasi manipolazione, ma la pura possibilità di un «miglioramento senza fatica della nostra discendenza» (fare figli più belli, atletici, ipervedenti, più svegli) è sufficiente a rendere il più intelligente degli uomini un beota da rinchiudere (per la salute di figli e nipoti).
Insieme a Lee Silver (Princeton) e Gregory Stock (Ucla), James Watson è uno dei profeti del «rifacciamo l'umanità», sciorinando un'ideologia che mescola disinvoltamente liberismo economico, darwinismo sociale, autonomia della scienza e delle tecnologie rispetto alle finalità (e al controllo) sociali. Insomma: quello che si può tecnicamente fare può esser fatto e commercializzato. Il problema è che questi dr. Stranamore sanno anche come farlo, hanno i rapporti con le aziende e quindi quel tanto di finanziamenti che serve.
Ma cosa vogliono fare? Il più esplicito e radicale degli allievi di Watson è Lee Silver, il quale ha pubblicato un libro-programma dal titolo inequivocabile, Remaking Eden, in cui la tecno-eugenetica esce fuori dall'angolo di infamia in cui era stata opportunamente rinchiusa dopo gli esperimenti di Mengele nei lager. Un vero inno al mito della «razza superiore» apparentemente velleitario dopo la sua confutazione scientifica. Ma proprio qui interviene la competenza «tecnica» dei Silver e dei Watson. Siccome non c'è, creiamola! In Remaking Eden si spiega come il dominio del mercato globale imponga una stratificazione sociale così complessa da poter essere governata soltanto da un'umanità che non esiste ancora: quella gen rich, geneticamente «arricchita». A questa andrebbero affidate le leve del potere in tutti i settori, mentre gli altri - i «normal» (e pare di avvertire in sottofondo il «sub-normal» di Frankenstein junior) - sono destinati a sgobbare e basta, senza troppe pretese.
Direte: beh, nell'umanità è sempre andata così. Vero. Ma attraverso un processo di selezione altamente conflittuale, con una mobilità . In questi tecno-eugenetici, invece, troviamo l'eternizzazione della separazione in due «razze umane» diverse, al limite impossibilitate ad incrociarsi per via sessuale (peggio di cavalli e asini, insomma). E' probabile che questo incubo sia irrealizzabile (la struttura del Dna non sembra modificabile sostituire un mattone qua e là,come nel meccano). Ma è certo che questi scienziati pazzi sono all'avanguardia nel loro campo. E che, quindi, possono provare a fare quello che hanno in testa. Giocando anche sul fatto che la manipolazione genetica è una possibilità scientifica totalmente nuova per l'umanità; e che le domande che la circondano sono spesso troppo mal formulate per poter sollecitare risposte adeguate. Ma il tempo stringe.

il manifesto 25.10.07
Dai villaggi a Shanghai, parole partigiane per nominare il mondo
Donne cinesi tra passato e presente. Tre romanzi per parlare, senza vittimismo, di una realtà spesso ignota
di Giulio Abbadie


La narravita contemporanea cinese scritta da donne viene fatta rientrare nella corrente letteraria definita «nuovo romanzo realista» (xin xieshi xiaoshuo): cinica ironia, crudezza dei fatti e narrativa minimalista, erotismo e intrighi. Li Ang, taiwanese classe 1952, considerata una esponente di spicco del movimento femminista cinese, nel suo La moglie del macellaio (Editrice Pisani, euro 14), mette a nudo la crudeltà dei rapporti uomo donna specie nei piccoli villaggi, in nome di un binomio, violenza e sesso, che rende il libro duro, crudo, quasi fastidioso nel suo procedere tra un'angheria e l'altra. Un macellaio abusa della moglie. La protagonista accetta lo scambio spietato: botte e abusi in cambio di cibo e un tetto. Fino alla soluzione devastante di commettere un omicidio liberatorio, perfino per il lettore. Da uno spunto di cronaca nera reale, La moglie del macellaio descrive molte verità della Cina rurale, ben lontana dai ritmi occidentali delle moderne metropoli.
In un'intervista durante un suo viaggio in Italia Li Ang ha provocatoriamente affermato che, in Cina, la parità tra uomo e donna si avrà solo nel momento in cui ci sarà la presenza degli uomini sul mercato della prostituzione, per una clientela femminile.
Sul mondo dell'eros e delle pratiche libertine e concubine cinesi è invece La Regina di Shanghai di Hong Ying, (Garzanti, euro 17,60). Un'altra storia vera ambientata nell'affascinante Shanghai, che tra i tanti soprannomi ha anche quello di puttana d'oriente, di inizio Novecento. Arti erotiche di una ragazza al centro di vicende oscure, in quel confine incerto tra politica, mafia e guanxii, i ganci, pietra angolare della socialità relazionale cinese, che fanno di un romanzo fintamente rosa, un'altra chiave di lettura di comprensione dei sentimenti cinesi seppure ambientata nella Cina di un secolo fa. La freddezza nei rapporti, l'utilitarismo sociale e la necessità di garantirsi ferme e durature amicizie. Stessi problemi affrontati, saltando ancora temporalmente alla Cina contemporanea, dalla protagonista di un altro romanzo scritto da una donna, L'occhio di Giada di Diane Wei Lang, insegnante di business management a Londra (Sperling & Kupfer, euro 18,50).
Si tratta del primo giallo in cui la protagonista è un'investigatrice privata a Pechino, con tanto di segretario maschio e auto, vero status symbol per ogni trentenne cinese che si rispetti (insieme all'appartamento). Un intrigo legato al ritrovamento di antichi tesori imperiali, spunto narrativo per offrire uno scampolo di descrizione dei rapporti sociali tra nuove e vecchie generazioni e ripescare il repulisti delle Guardie Rosse, in piena Rivoluzione Culturale, di antichi e preziosi reperti. Si dirà di omertà, difficoltà comunicative, omissioni: il reale effetto dei romanzi cinesi è quello di indagare mentalità, abitudini, gusti, idee che agli occhi di un occidentale focalizzano al meglio la scoperta di diversità comportamentali e sociali difficilmente intuibili.

mercoledì 24 ottobre 2007

l’Unità 24.10.07
Bertinotti pensa al governo istituzionale
Nervosismo a Palazzo Chigi: se cade Prodi si va al voto. Esecutivo stretto dai ricatti
di Marcella Ciarnelli


USA UN DETTO popolare il presidente della Camera per commentare il voto appena avvenuto a Palazzo Madama sul decreto collegato alla Finanziaria, un altro ostacolo superato d’un soffio dal governo. «Si potrebbe dire che il malato ha preso un brodo» dice
Fausto Bertinotti al Tg1. «Certo un po’malaticcio questo governo è, ma ci sono persone malate, con il volto emaciato e con un po’ di febbre, che stanno sempre un po’ male ma che durano a lungo». Il brodo però potrebbe non bastare. Bertinotti, all’evenienza, non mostra dubbi: «Se il governo dovesse cadere la parola tocca al presidente della Repubblica». Ma, pur nel rispetto delle prerogative del capo dello Stato, lui dice come la pensa. Ed allora, poichè «la legge elettorale è molto cattiva immagino che si tenterebbe l’esperienza di un governo tecnico che faccia la riforma elettorale e quel tanto di riforma costituzionale necessarie per sbloccare il sistema». Tutto questo potrebbe avvenire solo nel caso venga verificata l’esistenza di una maggioranza parlamentare. A Palazzo Chigi l’analisi non è stata gradita. È stata accolta con un silenzio pesante dal premier che poi ha ribadito ai suoi che lui «è stato legittimato dalle primarie e poi dal voto» e che, se il governo dovesse cadere, non può esserci «che il voto».
La tensione resta alta. «Mi sembra Asterix che guarda il cielo. Ora cade, ora cade... Non oggi ma domani». La versione a fumetti delle inquietudini del governo Prodi la fornisce in ascensore quel gentiluomo di Valerio Zanone che lascia il Senato dopo un altro giorno sull’orlo del baratro. È evidentemente perplesso il vecchio liberale che si è candidato a Torino con la lista per Veltroni e che, nei giorni scorsi, ha risposto seccato «non se ne parla proprio» al Cavaliere che, in piena campagna acquisti, gli aveva offerto di cambiare casacca.
Si sono appena concluse le due votazioni sulle pregiudiziali. L’aula è incandescente oltre il rosso delle tappezzerie. La maggioranza tira un sospiro di sollievo. Anche questa volta è andata. Per due voti e poi solo per uno. «Il governo regge» sottolinea Anna Finocchiaro. «Arriverà un giorno in cui i senatori a vita non saranno più sufficienti» sbotta Renato Schifani. Giulio Andreotti ha votato a favore perchè «sono contrario al bloccaggio, specie sui temi essenziali ed in scadenza».
Per questa volta i senatori “a rischio” si sono allineati. Nè si sono visti all’opera quelli che Silvio Berlusconi dice di essersi comprati. Che, se continua così, l’ex premier rischia di fare una gran figuraccia e di “bucare” la scadenza dell’escutivo che lui, con grande enfasi, ha fissato alla metà di novembre con grandi festeggiamenti in piazza organizzati per il giorno 17.
Occhi puntati sui dinaniani che peraltro con molta tranquillità vanno ripetendo che se si aumenta solo di un euro la spesa per il protocollo sul welfare o sulla Finanziaria loro non ci stanno. Willer Bordon ribadisce, anche a nome del collega Manzione, al termine delle votazioni, «la maggioranza siamo noi. Se fossero mancati i nostri due voti il governo se ne sarebbe andato a casa». E poi continua a tener ferma l’intenzione di non ritirare l’emendamento sulla riduzione del numero dei parlamentari. «Se non è ammissibile nel decreto fiscale lo presenteremo in Finanziaria. Possiamo discutere quando ma il taglio dovrà esserci in questa legislatura». L’Svp conferma di non avere intenzione di staccare la spina. Domenico Fisichella ha votato a favore. Il dissidente Fernando Rossi nega di essere il colpevole del mancato voto. «È impossibile. Ho spinto assolutamente il rosso». Si sarebbe trattato solo di un errore tecnico. Il senatore Pallaro ieri non c’era. Gli affari lo hanno trattenuto all’estero. Francesco D’Onofrio, occhio attento dell’opposizione, sintetizza: «Il governo cadrà quando uscirà allo scoperto chi ha vinto la partita del dopo».

l’Unità 24.10.07
Luciano Canfora: «La casta? Nell’antica Roma nacque con il maggioritario»
di Roberto Cotroneo


Filologo greco, normalista, autore di molti libri che hanno sempre suscitato accese discussioni. Con una passione per la politica nel senso più puro del termine, Luciano Canfora è uno di quegli uomini che ti stupiscono sempre e ti spiazzano. La sua bibliografia è sterminata, e va da saggi su Marx e Togliatti, a saggi sul fascismo, sulla democrazia, su Tucidide o Giulio Cesare. Rapsodico, meticoloso, ma soprattutto rigoroso, è un osservatore attentissimo della realtà politica italiana. Siamo andati a trovarlo per chiedergli di giudicare e commentare a modo suo quello che sta accadendo in Italia in questi mesi. Dalla politica all’antipolitica, dal partito democratico all’idea di democrazia, dal sistema elettorale a quello che lui chiama il grande imbroglio del bipolarismo.
Luciano Canfora, partiamo da quella che viene chiamata: la casta: Esiste secondo lei?
«Mi sembra un problema astratto da un lato, e dall’altro ozioso».
Perché?
«Perché intanto la casta esiste. Vede, qualche settimana fa ho tenuto una conferenza sul senato romano. Il senato romano era un ordine, quindi di per sé una casta di cooptazione la cui elezione era molto indiretta, perché si era scelti tra i migliori magistrati migliori, e i magistrati a loro volta erano eletti, ma erano eletti con leggi elettorali molto manipolatrici, come tutte quelle che sono diverse dal proporzionale».
I romani hanno inventato il maggioritario?
«Certo, sono stati bravissimi. Dunque, il senato romano era una casta. Era anche di una notevole qualità. I politici di oggi non hanno qualità particolari, ma hanno sommato una serie di privilegi, talvolta sfacciati, che ne fanno una casta a tutti gli effetti. A cominciare dal fatto che sono eterni. E quando un ceto è eterno, vuol dire che è una casta».
Lei si è occupato attivamente di politica?
«Sì, ma ho sempre fatto il portatore d’acqua, quando sono stato candidato in qualche formazione politica. Una volta era il Pdup, una volta era il Partito di Rifondazione Comunista, una volta era i Comunisti italiani. E l’ho fatto con piacere. Ma in fondo anche nelle formazioni piccole c’è un meccanismo castale».
Come mai?
«Il reclutamento del personale politico è generalmente una selezione a rovescio. Chi non sa fare un altro mestiere, si riversa toto corpore in questa funzione, che qualcuno deve pur svolgere. D’altronde nella storia d’Italia sono stati rari i momento in cui personale politico e qualità coincidevano. Solo nel dopoguerra».
E poi?
«Poi il mestiere di politico viene scartato dalle forze intellettualmente migliori. Questo è un grosso problema che riguarda tutti i sistemi rappresentativi, non solo quello italiano».
Lei si è occupato in vari saggi del concetto di democrazia. Sia da filologo che da intellettuale. C’è una crisi dell’idea di democrazia?
«Il martellamento consistente nell’identificare democrazia e parlamentarismo, che in realtà sono due cose che non si identificano, ha danneggiato la democrazia. Ma l’abrogazione del sistema elettorale proporzionale, che è l’unico che dia voce ai cittadini, e la trasformazione degli eletti in privilegiati, ha portato al discredito del sistema rappresentativo travolgendo il concetto di democrazia. Che è un’altra cosa».
Ovvero?
«Democrazia vuol dire potere popolare. I sistemi rappresentativi quando sono veramente tali sono uno strumento democratico, ma non l’unico».
Un dubbio. Dopo le piazze di Grillo si è parlato di antipolitica, dopo le primarie del Partito Democratico, di risposta all’antipolitica, e di grande prova di partecipa-
zione. Lei che ne pensa?
«Temevo questa domanda. Il pensiero del signor Grillo non mi interessa, è un signore qualunque».
E il partito democratico? Con i tre milioni e 500mila votanti?
«L’unificazione dei due pezzi della tradizione cattolica e di quella comunista può portare a un partito nato morto, questo lo penso e mi duole moltissimo. Perché è una fusione di vertici».
Non sembrerebbe visto il risultato delle primarie.
«Radunare 3 milioni e mezzo di persone con un battage mediatico e coinvolgendo anche i ragazzi di sedici anni mi sembra un risultato modesto. Se lei ad esempio lo paragona al milione di persone arrivate a Roma, a manifestare con la sinistra. Un milione di persone che sono arrivate tutte in una sola città».
Vuole dire che lei considera un maggior successo la manifestazione di sabato rispetto alla partecipazione delle primarie?
«Non voglio invertire i rapporti di forza, ma la cosiddetta "sinistra radicale" ha portato in piazza circa un terzo di quelli che sono andati a votare per le primarie. Tenendo conto che per le primarie ognuno votava a casa sua. E non doveva certo spostarsi. E pensare che dicevano che la sinistra era spacciata. Per me questo è stato un risultato straordinario».
Non ha nessuna simpatia per il Pd, mi sembra di capire.
«Un paese come il nostro, che ha avuto grandi culture politiche e grandi personalità, oltre che una tradizione di sinistra rigogliosa e originalissima, ripiega su un modello frigido, generico, che si nasconde dietro una parola logora, partito democratico. Come se dall’altra parte avessimo a che fare con un partito aristocratico».
E invece?
«Dall’altra parte vedi caso c’è un movimento che si chiama della libertà. E allora succede una cosa curiosa. Bobbio, e tanti altri prima e dopo di lui, hanno detto che libertà e democrazia pensati in modo pieno e assoluto diventato antitetiche».
Sicuro?
«Come si legge già nell’epitaffio pericleo di Tucidide, nel V avanti Cristo, l’esplicazione totale e piena della libertà individuale entra in conflitto con il principio di uguaglianza. E il principio di uguaglianza applicato in un modo esasperato, meccanico, totale, lede il principio di libertà. E dunque il grande problema è lì».
Pensa che gli intellettuali abbiano lentamente perso un ruolo, nell’essere la coscienza critica della politica?
«Gli intellettuali non so perché sono sempre gli umanisti, mai che uno pensi che un professore di economia politica sia un intellettuale. Quindi quando gli umanisti sono stanchi si dice che gli intellettuali sono stanchi».
Invece?
«Invece i leader delle grandi banche, gli economisti, gli statistici sono intellettuali quanto i professori di storia. Gente che decide sull’euro, che ha cambiato la vita della gente, in peggio, almeno quanto le ideologie».
Lei mi sembra molto sfiduciato.
«Questo non me lo posso permettere. È inutile. Dobbiamo rimboccarci le maniche facendo ciascuno il suo dovere. Tentando di dire la verità».
E quale la sua verità, Canfora?
«È fatta di due o tre pensierini totalmente impopolari».
Li dica.
«Sono convinto che nonostante tutta la retorica bolsa sul bipolarismo, il bipolarismo è una truffa colossale, oltre che uno strumento per far tacere un sacco di gente che non ha più rappresentanza. Mentre invece un proporzionale purissimo, senza soglie, o cose del genere, impone le convergenze politiche tra culture e istanze diverse. È faticoso. Bisogna trovare trovare compromessi. Il bipolarismo è come le corse dei cavalli, chi arriva prima prende tutto. Ma la politica non è una corsa sportiva».
La seconda cosa impopolare?
«La revocabilità dei mandati. Questa cosa non la vuole nessuno, mai. Perché è una specie di pistola puntata contro il politico che si vuole traformare in casta. La revocabilità ti tiene sotto il controllo dei tuoi elettori».
La prima regola porterebbe a una instabilità politica quasi irrisolvibile.
«Ma questo mi fa ridere. Il boom economico, di cui tutti siamo cantori, decollò con un proporzionale puro e con governi che non duravano più di un anno. Non vedo il problema francamente».
E la seconda obiezione è che la revocabilità del mandato esporrebbe l’eletto al più bieco populismo. Una sorta di ostaggio permanente.
«Se gli elettori sono dei degni soggetti nel momento in cui votano, mi chiedono come cessino di esserlo nel momento in cui dichiarano sfiducia alla persona che hanno eletto».
Un’ultima domanda. Tornerà a occuparsi di politica nel futuro, o continuerà a fare l’intellettuale e a scrivere i suoi libri?
«Ma io continuo a occuparmi di politica sempre. Sono togliattianamente convinto che tutto ciò che noi facciamo è politica. Se ne siamo coscienti...».
roberto@robertocotroneo.it

l’Unità 24.10.07
La Cosa Rossa comincia (timidamente) dai gruppi parlamentari
A Mussi non basta la Federazione proposta da Prc, Pdci e Verdi. A dicembre Stati generali e alle prossime elezioni simbolo unitario
di Simone Collini


COME DAR VITA a “La Sinistra”. E in tempi rapidi. Perché il nuovo soggetto politico «unitario e plurale» dovrà essere presentato al prossimo appuntamento elettorale. Che se tutto va bene sarà un voto di tipo amministrativo. Anche se l’eventualità di altri scenari è comunque tenuta in considerazione.
Ne discuteranno questa mattina Franco Giordano, Oliviero Diliberto, Fabio Mussi e Alfonso Pecoraro Scanio. L’incontro doveva restare riservato, anche perché si tratta di un primo giro d’orizzonte sul processo unitario da realizzare e i problemi sul piatto sono tanti. Ma sull’onda dell’entusiasmo provocato dalla manifestazione di sabato la notizia è trapelata. I leader di Rifondazione comunista, Pdci, Sinistra democratica e Verdi si confronteranno soprattutto sulla forma organizzativa del nuovo soggetto. Perché se sulla necessità di accelerare i tempi sono tutti d’accordo, sull’approdo finale dell’operazione le differenze sono di non poco conto. E allora oggi i quattro si alzeranno dal tavolo concordando sulla necessità di rafforzare il coordinamento tra i gruppi parlamentari e rilanciando tutti insieme la proposta di tenere nel mese di dicembre gli stati generali della sinistra, aperti alle quattro forze politiche che guidano ma anche ad associazioni, movimenti e personalità interessate da dar vita a quella che viene chiamata (scontentando un po’ tutti i protagonisti dell’operazione) “Cosa rossa”. Ma sull’approdo finale le posizioni divergono.
Pdci e Verdi non vanno oltre l’ipotesi di dar vita a una federazione che può anche presentarsi con simbolo unitario alle elezioni ma nella quale continuano a vivere autonomamente le singole forze politiche. Il partito unico è «una strada vecchia superata dalla storia» per la capogruppo dei Verdi-Pdci al Senato Manuela Palermi. E anche Rifondazione comunista punta a quella che il segretario Franco Giordano definisce «una federazione forte tra partiti, singoli e associazioni», in cui può insomma partecipare anche chi non è iscritto a nessun soggetto fondatore.
Sinistra democratica non è contraria a «sperimentazioni e innovazioni», però ritiene che l’obiettivo finale dell’operazione non possa che essere il partito unico. Spiega la capogruppo di Sd alla camera Titti Di Salvo: «C’è un vuoto a sinistra del Partito democratico che va colmato. La risposta alla domanda che è venuta anche dalla manifestazione di sabato non è nei singoli pezzi di sinistra oggi presenti in Italia. Capisco che vista la confusa situazione attuale, con un clima che può essere di tipo preelettorale, chi ha un partito strutturato non voglia rinunciarvi. Ma la federazione non può che essere un passaggio intermedio, non l’approdo definitivo».
Le resistenze al momento appaiono però difficili da superare. Anche perché nel processo entra in gioco inevitabilmente la discussione sui simboli. Diliberto non intende rinunciare alla falce e martello, che garantisce a prescindere un pacchetto di voti, e anche Giordano sa che nel Prc ci sono le minoranze pronte alla scissione e a impossessarsene, nel caso in cui il partito decida di abbandonare il simbolo. La federazione consentirebbe di far mantenere a ognuno il proprio simbolo, ma al tempo stesso di presentarsi di fronte agli elettori con un simbolo unitario e nuovo.
Una soluzione che però per Sd può essere accettabile solo come tappa provvisoria, perché «non risponde all’esigenza di unità e semplificazione», dice Titti Di Salvo giudicando necessario un processo di «scomposizione e ricomposizione». E non è escluso che superato il congresso di primavera, che si preannuncia infuocato con le minoranze trotzkiste pronte a dar battaglia contro il processo unitario, il Prc possa lavorare per soluzioni più avanzate rispetto a quelle prospettate oggi.
Non si dovrebbe invece parlare all’incontro di oggi della proposta di aprire un tesseramento entro dicembre della “Sinistra”. Giordano l’aveva lanciata nei giorni scorsi, ma non è piaciuta a nessuno dei partner dell’operazione. «Ogni partito porterà i suoi tesserati», ha mandato a dire Diliberto. Così come non sembra raccogliere consensi la proposta lanciata ieri da Pietro Folena di dar vita a gruppi parlamentari unitari già entro Natale. «Sarebbe un bel segno, un gesto che farebbe capire che sull’unità a sinistra non si scherza», dice l’indipendente Prc. Ma al momento, dicono in ognuno dei quattro partiti interessati, oltre il coordinamento dei gruppi non si può andare.

l’Unità 24.10.07
Neonato «omosex» contro le discriminazioni
È la campagna di sensibilizzazione della Toscana. Destra all’assalto
di Vladimiro Frulletti


IN CANADA quel volto sfocato di neonato con al polso un braccialetto di riconoscimento in cui non c’è scritto Mario o Anna, ma «homosexual», era servito, la scorsa primavera, per la giornata mondiale contro l’omofobia. L’immagine l’aveva scelta la fondazione Emergence e aveva avuto il sostegno del governo del Quebec, della città di Montreal e dell’agenzia di salute canadese. La Regione Toscana, con l’assessore Agostino Fragai e il suo collaboratore Alessio De Giorgi (già presidente dell’Arcigay toscana, e che nel 2002 si unì in un Pacs all’ambasciata francese assieme al suo compagno italo-francese), ha deciso di utilizzarla per promuovere un convegno della Ready (la rete degli enti locali contro le discriminazioni) che si svolgerà venerdì e sabato a Firenze nell’ambito del festival della creatività e per una campagna (manifesti, opuscoli, pubblicità su giornali, radio e tv) contro ogni forma di discriminazione sessuale assieme al ministero delle pari opportunità (la ministra Barbara Pollastrini chiuderà la due giorni sabato pomeriggio). E infatti proprio a fianco del minuscolo polso del neonato c’è scritto che “ l’orientamento sessuale non è una scelta”. Troppo per il capogruppo dell’Udc alla Camera Luca Volonté che dando prova di un estremismo verbale poco centrista ha definito il manifesto «raccapricciante». Sollecitando così non solo il leghista Polledri che paragona la Toscana al regime fascista che faceva mettere il fez ai bambini, ma anche dell’immancabile forzista Isabella Bertolini che addirittura vede in Toscana la volontà di «affermare un modello alternativo di società, nel quale domina l’indeterminatezza sessuale».
«Nel nostro Statuto - ricorda Fragai - sono enunciati principi antidiscriminatori. Li stiamo mettendo in pratica, come nel caso della legge contro le discriminazioni sessuali». E sia il deputato Fausto Grillini che il presidente dell’Arcigay Aurelio Mancuso chiedono al resto d’Italia di prendere esempio dalla Toscana.

l’Unità 24.10.07
Ottobre, 90 anni e li dimostra tutti
di Bruno Gravagnuolo


Nostalghija Più che «canaglia», nostalgia «anticaglia», quella che Dilberto e il Pdci mostrano per l’anniversario del 7 novembre 1917, con viaggio e convivio a Mosca e Leningrado e discorso comune con Zyuganov, «accanto» e non proprio sulla Piazza rossa. Infatti non è vero come suona lo slogan Pdci che «la Rivoluzione d’Ottobre ha 90 anni e non li dimostra». Li dimostra tutti eccome! Intanto perché se quel mondo s’è sbriciolato così, qualche problemino doveva pur esserci sin dall’inizio. E poi perché sin dall’inizio quel modello militare e totalitario di Rivoluzione ha comportato costi immensi. Con la follia del comunismo di guerra e la guera civile (non solo colpa dei «bianchi»). La subordinazione integrale del movimento operaio alla Chiesa moscovita. I contraccolpi fascisti al settarismo cominternista. Il partito giacobino base del partito staliniano. La collettivizzazione e i crimini di massa. Certo l’Ottobre fu anche liberazione, spinta propulsiva anticoloniale. Peraltro reso «inevitabile» dall’impotenza e dall’insipienza borghese, menscevica e quant’altro. E anche dalla carneficina imperialista europea. E tuttavia, oggi, come si può ancora farne un pilastro ideologico, un «modello» positivo, benché poi Diliberto protesterà che lui non ha modelli di sorta? Suvvia compagni del Pdci, un po’ di revisione, farebbe bene al vostro «comunismo». Almeno un po’! Sennò finite in formalina... e senza gli onori alla mummia di Lenin.
Disinformatia Ma c’è anche un revisionismo cattivo. Fatuo e disinformato. Come quello di cui dà prova Piero Craveri sul Il Sole24Ore. Che nel recensire trionfalisticamente l’ultimo pamphlettone di Pansa si compiace di arcinote e trite banalità. Tipo, il Pci coltivava scenari di rivoluzione violenta: «c’è oggi una documentazione inconfutabile»(sic). Oppure: Secchia bloccò tutti i tentativi di bloccare gli illegalismi nel «triangolo rosso». O ancora: l’antifascismo ha ormai perso la battaglia egemonica e storiografica. Pure frottole, specie l’ultima. Non solo infatti non è passato il tentativo di spezzare il nesso antifascismo-Costituzione. Ma c’è tutta una nuova storiografia antifascista che tiene il campo a meraviglia. E finché gli assalti sono quelli di Pansa e Craveri...

l’Unità 24.10.07
Templari: la Chiesa ora dice «Il Papa non li condannò»
di Roberto Monteforte


I MONACI-GUERRIERI sono stati sterminati per ragioni politiche e non perché eretici o blasfemi. È questa la verità che affiora, dopo oltre 700 anni, dagli atti del processo e, in particolare, da un documento inedito: il «manoscritto di Chinon»

I Templari, i monaci-guerrieri, gli asceti con la spada che fondati dal nobile francese Hugues de Payns agli inizi dell’anno 1100 hanno difeso i luoghi di Terrasanta, proteggendo armi in pugno i pellegrini cristiani dai guerrieri della mezza luna, sono stati vittime di un processo farsa.
La confraternita dei «Poveri cavalieri di Cristo», votati a Dio e al martirio, nati con la prima Crociata a difesa del regno di Gerusalemme e sempre in prima linea con il loro stendardo bianconero, il mantello bianco e la croce rossa sulla spalla sinistra, che devono il loro nome per avere avuto a Gerusalemme nei pressi della spianata del Tempio di Salomone, la loro sede, sono stati sterminati per ragioni politiche. O meglio, economiche e non perché eretici o blasfemi. E soprattutto senza l’avallo del pontefice di allora, Papa Clemente V.
Il pontefice francese che viveva con la sua corte ad Avignone, non li considerò affatto eretici. Cercò sino alla fine di salvarli dalle mani dell’Inquisizione francese. Perché è stato il sovrano di Francia, Filippo IV il Bello che mirava ad impossessarsi delle loro ricchezze, a volerne lo scioglimento, la messa al bando, ad ordinarne la persecuzione senza prove. Anche contro il Papa che, se ne ordinò lo scioglimento d’autorità, lo fece per evitare che arrivasse la «condanna» ufficiale del sovrano. Così i Templari, che riconoscevano soltanto l’autorità del Papa e di nessuna altra autorità ecclesiastica, si trovaroro senza protezione. Il pontefice, però, non li assolve pubblicamente. Non può compromettere i rapporti tra la Santa Sede e la Francia. Prevale la ragion di Stato.
È questa la verità emersa dalla pubblicazione dei documenti conservati nell’Archivio segreto del Vaticano, quegli atti «Processus contra templarus», e in particolare il «manoscritto di Chinon», inedito, scoperto nel settembre 2001 dalla studiosa dell’Archivio vaticano, Barbara Frale: una pergamena che ripropone l’assoluzione concessa per autorità del Papa a Jacques de Molay, il Gran Maestro dell’Ordine e ai maggiori dignitari del Tempio fatti rinchiudere dal re di Francia nelle prigioni del castello di Chinon. In quella prigione si recarono alcuni messi di Clemente V per interrogare i Templari. Era il 20 agosto 1308. L’accusa di eresia venne derubricata a quella di apostasia. Un’assoluzione che non salvò loro la vita. Filippo il Bello dopo poco li condannerà al rogo.
Sono documenti preziosi che verrano presentati domani presso l’Aula vecchia del Sinodo dal cardinale Raffaele Farina, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, dal prefetto dell’Archivio segreto, monsignor Sergio Pagano, e dalla ricercatrice Barbara Frale, il suo collega Marco Maiorino, dal medievalista Franco Cardini, l’archeologo Valerio Massimo Manfredi e Ferdinando Santoro, presidente di Scrinium che pubblica l’opera.
Così dopo sette secoli dalla loro persecuzione vengono alla luce gli atti della causa che portò allo scioglimento dei Templari, l’ordine cavalleresco la cui regola era stata dettata da san Bernardo di Chiaravalle, fondatore dei cistercensi, dei «frati votati a uccidere», dei valorosi guerrieri di élite che obbedivano solo al Papa dopo aver fatto voto di povertà, castità e obbedienza. L’ordine che sino al 1312 è stato il più forte, temuto e ricco della cristianità per la tante donazioni, proprio per questo venne fatto oggetto di menzogne, intrighi e stragi. Subì un processo farsa. Le accuse di essere stati cultori di esoteriche pratiche iniziatiche, di «essere sedotti dall’Islam» o di subire «l’eresia catara» sarebbero stati pretesti. Non furono colpiti per questo.
Furono oggetto di invidie, appetiti e gelosie. La svalutazione pesava sul regno di Francia che era vicino alla bancarotta per le spese sostenute nella guerra con l’Inghilterra. Vi furono sommosse popolari a Parigi. Il re Filippo IV trovò rifugio presso la fortezza dell’Ordine al Marais. Ebbe così modo di vedere le loro grandi ricchezze. Partì l’offensiva verso i Templari del sovrano. Con l’obiettivo di appropriarsi di quel tesoro e al tempo stesso limitare il potere della Chiesa, degli ordini religiosi e del papato già iniziata con la sua guerra a Bonifacio VIII. Il re riuscì a far eleggere al soglio di Pietro il francese Clemente V che trasferì la sua corte ad Avignone. Il sovrano avrebbe voluto dominare il pontefice, ma sui Templari l’azione non riuscì. Benchè iniziò veemente la campagna diffamatoria contro di loro orchestrata dagli inquisori fedeli al re. Le accuse erano quella di eresia, di vergognosa condotta morale, di promiscuità, sodomia e corruzione.
Si è molto fantasticato su questo ordine. Storie di intrighi e misteri. I Templari sono stati dipinti come i detentori del «Santo Graal», come gli adoratori del Baphomet (immagine dell’androgino con testa di caprone sormontato da un pentacolo, la stella a cinque punte), come dententori di segreti esoterici, come una setta iniziatica direttamente collegata alla moderna massoneria.
Tutte leggende ottocentesche secondo autorevoli esperti come il professor Cardini. Quello che è certo è che i Templari non obbedivano a nessuna altra autorità ecclesiastica. Che i giovani aristocratici di tutta l’Europa cristiana aspiravano a farvi parte. Che furono una vera potenza. Che avevano l’ambizione di raggruppare gli altri ordini cavallereschi per organizzare una nuova Crociata.
Cinque anni dal 1308 al 1313 durò il processo che subirono sotto l’Inquisizione francese. Il Gran Maestro, Jacques de Molay che era in Palestina a organizzare la Crociata tornò in Francia per difendersi da tali accuse. Fu arrestato come altre centinaia di Templari. Tutti vennero imprigionati, interrogati e sottoposti a tortura affinchè confessassero le loro colpe. Il Papa si rifiutò di avvallare quelle confessioni estorte e di ratificare quel verdetto. Era l’anno 1313. Prima, questa la sua condizione, avrebbe dovuto lui stesso interrogare il Grande maestro. La cosa avvenne attraverso tre suoi delegati. Si arrivò al proscioglimento dei Templari.
È questa la grande novità emersa dal lavoro di ricerca della storica Barbara Frale effettuata sugli Archivi segreti custoditi in Vaticano. Sono state ritrovate le pergamene che riproducono i verbali degli interrogatori e la loro trascrizione per sommi capi che alla fine condussero al loro proscioglimento dall’accusa di eresia, ma non da quella di sconveniente condotta morale. L’accusa più grave riguardava il rito iniziatico per i giovani postulanti. Dovevano «rinnegare Cristo» e oltraggiare la Croce sputandoci sopra dietro l’altare. Ma vi sarebbe anche una spiegazione per questi rituali: il neofita veniva sottoposto alle possibili angherie che avrebbe subito se fosse finito prigioniero degli infedeli. Alla fine arrivò il perdono del Papa per le «pratiche immorali», ma non certo quello di Filippo il Bello che mirava a mantenere le loro ricchezze. Con l’inganno fece arrestare il Gran Maestro e gli altri dignitari dell’Ordine che condotti sull’isoletta della Senna furono condannati e bruciati sul rogo. Ragioni politiche, la minaccia di uno scisma della chiesa di Francia portarono Clemente V a tacere e a sciogliere l’Ordine. A negare loro protezione. Ma oggi le carte venute alla luce ridanno onore ai cavalieri del Tempio di Salomone.

Repubblica 24.10.07
Religione, il dogma in aula un'ora che vale un miliardo
di Curzio Maltese


L´insegnamento in classe è la seconda voce di finanziamento dello Stato
Sono infinite le diatribe legali intorno al "regalo" del posto fisso ai docenti
La Spagna studia la revisione degli accordi con la Chiesa, in Italia non se ne parla

L´ultimo dato ufficiale (2001) parla di 650 milioni di stipendi agli insegnanti ma nel frattempo sono diventati più di 25000, dei quali 14mila di ruolo

L´ultima ondata di bullismo nelle scuole ha convinto il governo a istituire dal prossimo anno due ore di educazione civica obbligatoria, chiamata Cittadinanza e Diritti Umani, in ogni ordine d´insegnamento, dalle materne ai licei. Durissima la protesta dei vescovi, che hanno parlato di «catechismo socialista» e invitato le associazioni di insegnanti e genitori cattolici a scendere in piazza e avvalersi dell´obiezione di coscienza.
Il presidente del consiglio ha risposto in televisione che, nel rispetto totale della maggioranza cattolica del paese, la laicità dello Stato resta un valore fondante della democrazia e l´educazione civica non è né può essere in competizione con l´ora facoltativa di religioni (cattolica come ebraica, islamica o luterana) già prevista nei programmi. Il premier ha aggiunto di voler confermare i tagli ai finanziamenti delle scuole private cattoliche e non, definiti «un ritorno alla legalità costituzionale» rispetto alla politica del precedente governo di destra.
A questo punto forse il lettore si sarà domandato: ma dov´ero quando è successo tutto questo? In Italia. Mentre la vicenda naturalmente si è svolta altrove, nella Spagna del governo Zapatero, otto mesi fa. Il braccio di ferro fra stato laico e vescovi è andato avanti e oggi il governo spagnolo studia addirittura una revisione del Concordato del 1979. Una realtà lontana da noi. Nelle scuole italiane, più devastate dal bullismo di quelle spagnole, l´ora di educazione civica è abolita nelle primarie e quasi inesistente nelle superiori. Lo Stato in compenso si preoccupa di tutelare il più possibile l´ora di religione, al singolare: cattolica. Quanto ai finanziamenti alle scuole private cattoliche, in teoria vietati dall´articolo 33 della Costituzione («Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»), l´attuale governo di centrosinistra, con il ministro Fioroni all´Istruzione, è impegnato al momento a battere i record di generosità stabiliti ai tempi di Berlusconi e Letizia Moratti.
L´ora facoltativa di religione costa ai contribuenti italiani circa un miliardo di euro all´anno. E´ la seconda voce di finanziamento diretto dello Stato alla confessione cattolica, di pochi milioni inferiore all´otto per mille. Ma rischia di diventare in breve la prima. L´ultimo dato ufficiale del ministero parla di 650 milioni di spesa per gli stipendi agli insegnanti di religione, ma risale al 2001 quando erano 22 mila e tutti precari. Ora sono diventati 25.679, dei quali 14.670 passati di ruolo, grazie a una rapida e un po´ farsesca serie di concorsi di massa inaugurati dal governo Berlusconi nel 2004 e proseguita dall´attuale.
Il regalo del posto fisso agli insegnanti di religione è al centro d´infinite diatribe legali. Per almeno due ordini di ragioni. La prima obiezione è di principio. L´ora di religione è un insegnamento facoltativo e come tale non dovrebbe prevedere docenti di ruolo. Per giunta, gli insegnanti di religione sono scelti dai vescovi e non dallo Stato. Ma se la diocesi ritira l´idoneità, come può accadere per mille motivi (per esempio, una separazione), lo Stato deve comunque accollarsi l´ex insegnante di religione fino alla pensione.
L´altra fonte di polemiche è la disparità di trattamento economico fra insegnanti «normali» e di religione. A parità di prestazioni, gli insegnanti di religione guadagnano infatti più dei colleghi delle materie obbligatorie. Erano già i precari della scuola più pagati d´Italia. Nel 1996 e nel 2000, con due circolari, i governi ulivisti avevano infatti deciso di applicare soltanto agli insegnanti di religione gli scatti biennali di stipendio (2,5 per cento) e di anzianità previsti per tutti i precari della scuola da due leggi, una del 1961 e l´altra del 1980. Il vantaggio è stato confermato e anzi consolidato con il passaggio di ruolo, a differenza ancora una volta di tutti gli altri colleghi. L´inspiegabile privilegio ha spinto prima decine di precari e ora centinaia di insegnanti di ruolo di altre materie a promuovere cause legali di risarcimento. Nel caso, per nulla remoto, in cui le richieste fossero accolte dai tribunali del lavoro, lo Stato dovrebbe sborsare una cifra valutabile fra i due miliardi e mezzo e i tre miliardi di euro.
A parte le questioni economiche e legali, chiunque ricordi che cos´era l´ora di religione ai suoi tempi e oggi chiunque trascorra una mattinata nella scuola dei figli non può evitare di porsi una domanda. Vale la pena di spendere un miliardo di euro all´anno, in tempi di tagli feroci all´istruzione, per mantenere questa ora di religione? Uno strano ibrido di animazione sociale e vaghi concetti etici destinati a rimanere nella testa degli studenti forse lo spazio d´un mattino. Pochi cenni sulla Bibbia, quasi mai letta, brevi e reticenti riassunti di storia della religione.
In Europa il tema dell´insegnamento religioso nelle scuole pubbliche è al centro di un vivace e colto dibattito, ben al di sopra delle vecchie risse fra clericali e anticlericali. Nello stato più laico del mondo, la Francia, il regista Regis Debray, amico del Che Guevara e consigliere di Mitterrand, a suo tempo ha rotto il monolitico fronte laicista sostenendo l´utilità d´inserire nei programmi scolastici lo studio della storia delle religioni. In Gran Bretagna la teoria del celebre biologo Roger Dawkins ( «L´illusione di Dio»), ripresa dallo scienziato Nicholas Humprey, secondo il quale «l´insegnamento scolastico di fatti non oggettivi e non provabili, come per esempio che Dio ha creato il mondo in sei giorni, rappresenta una violazione dei diritti dell´infanzia, un vero abuso», ha suscitato un ricco dibattito pedagogico. Ma è un fatto, sostiene Dawkins, che «noi non esitiamo a definire un bambino cristiano o musulmano, quando è troppo piccolo per comprendere questi argomenti, mentre non diremmo mai di un bambino che è marxista o keynesiano, Con la religione si fa un´eccezione». In Germania, Spagna, perfino nella cattolicissima Polonia di Karol Woytjla, il dibattito non si è limitato alle pagine dei giornali ma ha prodotto cambiamenti nelle leggi e nei programmi scolastici, come l´inserimento di altre religioni (Islam e ebraismo, per esempio) fra le scelte possibili o la trasformazione dell´ora di religione in storia delle religioni comparate, tendenze ormai generali nei sistemi continentali.
In Italia ogni timido tentativo di discussione è stroncato sul nascere da una ferrea censura. L´ora di religione cattolica è un dogma. La sola ipotesi di affiancare all´ora di cattolicesimo altre religioni, come avviene in tutta Europa con le sole eccezioni di Irlanda e dell´ortodossa Cipro, procura un immediata patente di estremismo, anticlericalismo viscerale, lobbismo ebraico o addirittura simpatie per Al Quaeda. Quanto ad abolirla, come in Francia, è un´ipotesi che non sfiora neppure le menti laiche. Gli unici ad avere il coraggio di proporlo sono stati, come spesso accade, alcuni intellettuali cattolici. Lo scrittore Vittorio Messori, per esempio: «Fosse per me cancellerei un vecchio relitto concordatario come l´attuale ora di religione. In una prospettiva cattolica la formazione religiosa può essere solo una catechesi e nelle scuole statali, che sono pagate da tutti, non si può e non si deve insegnare il catechismo. Lo facciano le parrocchie a spese dei fedeli… Perciò ritiriamo i professori di religione dalle scuole pubbliche e assumiamoli nelle parrocchie tassandoci noi credenti». Messori non manca di liquidare anche gli aiuti di Stato alle scuole cattoliche, negati per mezzo secolo dalla Democrazia Cristiana, inaugurati con la legge 62 del 10 marzo 2000 dal governo D´Alema con Berlinguer all´Istruzione, dilagati nel periodo Berlusconi-Moratti (con il trucco dei «bonus» agli studenti per aggirare la Costituzione) e mantenuti dall´attuale ministro Fioroni, con giuramento solenne davanti alla platea ciellina del meeting di Rimini. «Lo Stato si limiti a riconoscere che ogni scuola non statale in più consente risparmio di danaro pubblico e di conseguenza conceda sgravi fiscali. Niente di più».
Il cardinale Carlo Maria Martini, da arcivescovo di Milano, aveva dichiarato che l´ora di religione delle scuole italiane doveva ritenersi inutile o anche «offensiva», raccomandando di raddoppiarla e farne una materia seria di studio oppure lasciar perdere.
La Cei ha sempre risposto che l´ora di religione è un successo, raccoglie il 92 per cento di adesioni, a riprova delle profonde radici del cattolicesimo in Italia. Ma se la Cei ha tanta fiducia nei fedeli non si capisce perché chieda (e ottenga dallo Stato) che l´ora di religione sia sempre inserita a metà mattinata e mai all´inizio o alla fine delle lezioni, come sarebbe ovvio per un insegnamento facoltativo. Perché chieda (e sempre ottenga) il non svolgimento nei fatti dell´ora alternativa. In molte materne ed elementari romane ai genitori è stato comunicato che i bambini di 5 o 6 anni non iscritti all´ora di religione «potevano rimanere nei corridoi». Prospettiva terrorizzante per qualsiasi madre o padre. D´altra parte la sicurezza ostentata dai vescovi si scontra con l´allarme lanciato nella relazione della Cei dell´aprile scorso sul progressivo abbandono dell´ora di religione, con un tasso di rinuncia che parte dal 5,4 delle elementari e arriva al 15,4 per cento delle superiori (con punte del 50 non solo nelle regioni «rosse» come la Toscana o l´Emilia-Romagna ma anche in Lombardia e nelle grandi città), man mano che gli studenti crescono e possono decidere da soli.
Alla fine nessun argomento ufficiale cancella il dubbio. L´ora di religione, così com´è, costituisce davvero un insegnamento del catechismo («che in ogni caso ciascuno si può portare a casa con poche lire» ricordava don Milani) o non piuttosto un altro miliardo di obolo di Stato a san Pietro?
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

Repubblica 24.10.07
La bocciatura del giurista: "Il Concordato è incostituzionale"


Il governo socialista di Josè Luis Zapatero, dopo aver eliminato molti privilegi fiscali alla Chiesa e i finanziamenti alle scuole cattoliche, studia una revisione del concordato del 1979, nell´ipotesi che si tratti di un accordo incostituzionale. E in Italia? «Sarebbe l´ora di discutere anche da noi l´incostituzionalità del concordato». E´ l´opinione di uno dei massimi esperti di diritto ecclesiastico, il professor Sergio Lariccia.
La costituzione italiana, a differenza della francese, non cita espressamente la laicità come valore supremo.
«E´ vero. Ciò non toglie che la laicità dello Stato sia un requisito fondamentale della democrazia, come ha stabilito una sentenza della Consulta nel 1989. Un ordinamento o è laico o non è democratico. Io non penso sia attuabile in Italia un regime separatista come in Francia, ma pretendo che si rispetti la libertà religiosa, pilastro della democrazia».
In Italia non c´è libertà religiosa?
«No. Non è garantito il principio di laicità delle istituzioni. Non è garantita l´eguale libertà delle confessioni davanti alla legge perché la cattolica è più eguale delle altre. Uno stato di privilegio che viola non soltanto la nostra Costituzione ma perfino il Concilio Vaticano II e la costituzione conciliare Gaudium et Spes. Con la revisione dell´84 che ha accolto in gran parte il Concordato fascista del ‘29 non sono garantite le libertà di religione e verso la religione di moltissimi italiani, credenti e non…».
Tutto deriva dal Concordato?
«Noi continuamo a parlare di rapporto fra stato e chiesa e non "chiese", ora di religione e non "di religioni". Siamo l´ultimo stato confessionale fra le democrazie».
(c.m.)


il manifesto 24.10.07
Mussi: «Sul 20 ottobre ho sbagliato»
Fabio Mussi: dalla manifestazione una richiesta di unità che mette in mora noi dirigenti. Iniziamo subito con gruppi parlamentari unici, poi modello social forum. La leadership verrà dopo
intervista di Matteo Bartocci e Gabriele Polo


«Può succedere di tutto. Chi riesce a far cadere ora il governo farebbe strike». Fabio Mussi, coordinatore di Sinistra democratica, è appena tornato da Bolzano e quando lo incontriamo lo attende un difficilissimo consiglio dei ministri. E' ben concreta la possibilità che lo scontro tra Mastella e Di Pietro sul «caso De Magistris» porti alla crisi. «Stiamo come d'autunno sugli alberi le foglie», cita Ungaretti.
Chi può avere interesse a far cadere ora il governo?
Le ragioni possono essere le più diverse. Nel merito, c'è la finanziaria e il protocollo sul welfare. C'è un quadro internazionale dove si sta riacutizzando la crisi in Iran e Medio Oriente e dove l'Italia è in prima linea. E infine c'è un centrosinistra in cui non sono riusciti a consolidarsi né il Pd né la sinistra.
Per fortuna, forse, c'è stata la manifestazione di sabato.
Devo essere onesto. Alla vigilia ho espresso timori che poi la manifestazione ha del tutto fugato. Temevo che il corteo potesse «sfuggire di mano», con un'aggressività verso il governo e verso la Cgil che poteva mettere in difficoltà la sinistra invece di aiutarla. Non ho mai dubitato delle intenzioni dei promotori, del resto tra noi c'è stato un vero dialogo, ma i miei timori si sono rivelati infondati. La manifestazione è stata bella, ampia e soprattutto politicamente forte. Mi hanno impressionato soprattutto le parole prese al volo tra i manifestanti. C'era davvero un'intelligenza politica di massa, senza nessuna dichiarazione stonata. Di fatto quel corteo ha detto tre cose: che la precarietà è la questione delle questioni, che il governo - ammesso che duri - deve ripartire dal suo programma, che c'è una forte domanda politica di unità a sinistra. Su questo, soprattutto, c'è stato «un di più», un'eccedenza, sia rispetto ai partiti che ai promotori.
Non è proprio su questo «di più» che siamo tutti inadeguati?
Assolutamente sì. Bisogna tornare alla realtà. Si dice riformismo ma poi si fa il contrario. Si rappresenta la flessibilità come una grande opportunità sapendo che significa esattamente il contrario. Nel linguaggio e nelle ideologie che corrono c'è il marchio di un'egemonia che subiamo.
Si ma come traduci questo discorso politicamente? Tu stesso hai votato, con riserva, il protocollo sul welfare.
Ho dato un giudizio articolato. Sulla parte previdenziale era un buon compromesso. Mentre è del tutto insoddisfacente, al di là di qualche miglioramento, la parte sul lavoro. E' evidente che la distanza siderale tra la dimensione drammatica della precarietà e le soluzioni proposte ha allargato il fiume della delusione.
Tu stesso hai definito quella di sabato una bella manifestazione. Nella Cgil si è aperta una riflessione su chi, della Fiom, ha partecipato. Che ne pensi?
Rispetto la dialettica interna al sindacato. Una sinistra che nasce non può prescindere dal rapporto con il sindacato. Io stesso vengo da una famiglia operaia. A casa mia erano tutti della Fiom. Mi auguro che questa discussione anche aspra non porti a una rottura. Spero che si trovi la strada per difendere l'assetto confederale del sindacato. La confederalità è il contrario del comando, ma guarda all'unità ed è un valore, non è che ognuno fa quello che vuole.
Pensi che il protocollo possa essere migliorato?
Faremo il possibile per migliorarlo, certo. Il sindacato è fondamentale per la democrazia. Ma discutere di politica economica e del lavoro non si esaurisce in una vertenza contrattuale. Si parla di un'idea di società, in cui la politica non può essere considerata un'indebita ingerenza. In questo caso la rappresentanza del lavoro non si esaurisce nel sindacato, ha bisogno di politica. Per la Costituzione il parlamento è sovrano. Tutto quello che si può fare a favore dei lavoratori deve essere guardato con simpatia e rispetto. Il sistema delle autonomie tra politica e sindacato, insomma, deve funzionare nei due versi.
E se ci fosse la fiducia?
Comunque vadano le cose il governo non deve cadere da sinistra. Va evitato come la peste.
Ma questa sinistra come può essere più credibile?
Il corteo ha detto ai quattro partiti della sinistra: fateci partecipare e datevi una mossa. Di unire le forze il Pd parla da 12 anni. Noi per farlo abbiamo non dico 12 mesi ma molto molto meno. Perciò dobbiamo essere coraggiosi e innovativi. Capisco che un passaggio «federale» possa essere considerato insufficiente ma naturalmente dobbiamo fare ciò che è possibile. Penso però che un gruppo parlamentare unico alla camera e al senato sarebbe un segnale positivo, molto visibile e molto incisivo. Del resto, sulla finanziaria abbiamo fatto un lavoro comune eccellente, abbiamo fatto sfigurare il Pd, che ha presentato il triplo di emendamenti.
Ma vanno sciolti i partiti che ci sono oppure no?
Noi non abbiamo voluto fare un nuovo partito. Alla sola idea di passare la vita a contendere a Pdci, Prc e Verdi lo 0,2% mi butto dalla finestra. La nostra funzione è dare una mano: solve et coagula, diceva Alex Langer nel suo ultimo libro. Sciogliere e riaggregare. Però sono un gradualista, faremo quello che è possibile fare sapendo che tutto dipende da noi. La manifestazione del 20 è stata chiarissima, ci ha aiutato. Ho visto che perfino il Pd ha timore di essere un «partito liquido» e senza iscritti. La nuova sinistra, se vuole avere una prospettiva di governo, deve essere qualcosa di solido, di radicato nella società, di pesante.
Qual è la prima mossa?
Domani (oggi per chi legge, ndr) ci vediamo con Giordano, Diliberto e Pecoraro. L'idea è convocare a metà dicembre gli stati generali della sinistra. Qualcosa di simile a un «social forum», dove si incontrino non solo le quattro forze politiche ma un campo di forze vastissimo, che va al di là della forza pur non irrilevante, intorno al 12-13%, dei pariti che ci sono. Una sinistra divisa non rappresenta più la società. Unificarla corrisponde alla vocazione di centinaia di migliaia di persone, che ritengono inimmaginabile che la sinistra scompaia dal lessico politico italiano. Serve però una sinistra più avanzata, che risponda ai problemi del XXI secolo. Ricombinare gli schemi del passato non funziona. La memoria è nostra ma i problemi sono nuovi.
Questa sinistra non ha anche un problema di leadership?
Non mettiamo il carro davanti ai buoi. C'è bisogno di un processo molto partecipato la cui chiave siano i programmi e le idee. Concordo con Giordano, se ci buttiamo alla contesa sulla leadership come il Pd siamo perduti. Nessuno di noi cerca primati personali, di personalizzazione della politica ce n'è fin troppa.
Prima del 20 ottobre si è vociferato di tue possibili dimissioni da coordinatore di Sd. Resti alla guida del movimento?
E' vero. Abbiamo avuto una discussione molto animata sul protocollo, sulla condotta da tenere in consiglio dei ministri e sulla manifestazione. E' una discussione che prosegue. Sì, sono ancora il coordinatore.

il manifesto 24.10.07
Quando la sicurezza è da paura
di Giuliano Pisapia


Spero che, almeno questa volta, abbia prevalso la saggezza e non motivi che nulla hanno a che vedere con la giustizia! Il pacchetto sicurezza non è stato (ancora) approvato e, forse, vi è la possibilità di un ripensamento e di una maggiore ragionevolezza. Può essere utile, allora - per memoria di chi l'ha persa - ricordare alcuni passi del programma, approvato all'unanimità da tutti i partiti dell'Unione: «la giustiza penale ha urgente bisogno di riforme che riafferimino il princìpi costituzionali di eguaglianza, della funzione rieducativa della pena e del giusto processo; bisogna garantire una giustizia celere, assicurare a tutti (parti offese e imputati) il diritto di difesa, prevedere pene diverse da quelle carcerarie, finalizzate anche al risarcimento dei danni o ad elidere le conseguenze dannose del reato; priorità assoluta deve essere il contrasto alla criminalità organizzata, che mina le basi della nostra Repubblica e ostacola lo sviluppo di large porzioni del territorio». Ognuno di questi obiettivi era accompagnato da precise, e concrete, proposte che, se approvate, avrebbero dato una svolta alla giustizia penale (e civile) del nostro paese e una risposta anche alla compresibili, e condivisibile, richiesta di sicurezza dei cittadini.
Ebbene, nulla (o, meglio, ben poco) di ciò che è stato discusso ieri dal Consiglio dei Ministri ha avuto come punto di riferimento il programma votato dagli elettori. Non si contesta, sia chiaro, la necessità della doverosa lotta al crimine e alla criminalità. Si contesta il fatto che, invece di abolire la Bossi-Fini o la legge contro i tossicodipendenti; invece di difendere con tutte le forze una legge, come la Gozzini, che ha permesso il reinserimento di oltre 700 mila persone (che, altrimenti, avrebbero contiuato a delinquere), si pensa (forse neppure credendoci) di risolvere problemi reali con misure che non potranno che aggravarli. Porre ulteriori paletti alla Simeoni-Saraceni significa mandare in carcere migliaia di persone - oggi libere in quanto giudicate non pericolose - prima che il Tribunale di Sorveglianza decida se siano meritevoli, o meno, di misure alternative alla detenzione (che è cosa ben diversa dalla impunità). Negare, come pure prevede il pacchetto sicurezza, il patrocinio ai non abbienti imputati di determinati reati, significa a negare il diritto di difesa ai più poveri e, e soprattutto, aumentare il già vergognoso numero di errori giudiziari. Rendere di fatto obbligatoria la custodia cautelare per alcuni specifici reati sarebbe un inaccettabile ritorno a un passato (fascista) e porterebbe all'incarcerazione di migliaia di innocenti. E che dire del potere di espulsione dei prefetti per motivi di «pubblica sicurezza»?. Non più l'esilio o la deportazione, ma una discrezionale, e arbitraria, espulsione, senza alcuna garanzia giurisdizionale, anche per chi partecipa a una pacifica manifestazione. E come non ricordare la dura lotta dell'intero centrosinistra contro i nuovi poteri di polizia dei sindaci arrogantemente voluta, nella scorsa legislatura, dal centrodestra? Se, infine, si aumentassero le pene per chi vende merce contraffatta o occupa il suolo pubblico (zingari, lavavetri, non certo esercenti di discariche abusive) l'involuzione democratica finirebbe col risschiare di essere irreversibile. Certo, non possiamo e non vogliamo negarlo. Vi sono state proposte condivisibili: tra queste, le nuove attribuzioni al procuratore azionale antimafia; gli interventi proposti per gli omicidi colposi causati da guidatori ubriachi; i processi immediati, senza limitare le garanzie, per chi si trova in stato di arresto (un vantaggio per gli innocenti e per le parti offese). Bisogna però essere consapevoli che anche norme giuste finiscono per essere neutralizzate da leggi demagogiche, schizofreniche, inefficaci e controproducenti. Ben venga, quindi, il rinvio, purché la riflessione porti ragionevolezza e non solo polemiche strumentali, che nulla hanno a che vedere con la giustizia.

il manifesto 24.10.07
Israele. La comunità immaginata del popolo senza stato
di Enzo Traverso


Un saggio ammirevole per l'onestà intellettuale con cui affronta un tema tanto delicato e controverso «Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia» di Idith Zertal per Einaudi

Esiste una vasta letteratura sull'uso politico che Israele ha fatto, nel corso degli anni, della memoria della Shoah. La storica israeliana Idith Zertal vi dedica ora un importante saggio, ammirevole per la chiarezza, la lucidità e l'onestà intellettuale con cui affronta un tema tanto delicato e controverso (Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, pp. 253, euro 22). In fondo, sostiene Zertal, Israele e la Shoah sono indissociabili. Non soltanto perché lo Stato ebraico è nato, nel 1948, in virtù di un accordo fra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale teso a «risarcire» gli ebrei per lo sterminio subito ad opera del nazismo. Non soltanto, quindi, perché la Shoah costituisce la premessa e il retroterra storico di Israele, ma anche e soprattutto perché ne ha accompagnato la vicenda, durante sessant'anni, come sottofondo costante, più o meno esplicitamente riconosciuto, di tutte le scelte dei suoi dirigenti. Israele, spiega Zertal, è l'erede della Shoah, non foss'altro per il fatto di aver offerto un rifugio ad alcune centinaia di migliaia di superstiti del genocidio nazista.
Nel corso degli anni, tuttavia, esso ha ridefinito la sua identità facendosi di volta in volta rappresentante, difensore e, in ultima istanza, redentore delle vittime dell'Olocausto. L'evento tragico che ne ha permesso la nascita è diventato la sua principale giustificazione storica e, una volta inscritto nel disegno provvidenziale del suo messianismo, il pretesto inattaccabile costantemente invocato per legittimarne gli atti sia politici che militari. L'Olocausto, in altre parole, è stato oggetto di una costruzione della memoria che ne ha fatto la matrice di una religione politica: il nazionalismo israeliano.
Il cemento della nazione
La memoria della Shoah è il cemento di una nazione ebraica in costruzione permanente, formata da gruppi diversi, provenienti sia dall'Europa che dall'Africa del Nord e dal Medio Oriente, e circondata da un mondo arabo ostile. Non la memoria incarnata dai superstiti dei campi della morte, fatta di ricordi individuali e singolari, ma una narrativa nazionale, elaborata dai vari governi che si sono succeduti alle redini dello Stato nel corso degli anni, sia quelli laburisti che quelli diretti dal Likud: questa memoria, sostiene Zertal evocando Benedict Anderson, è stata e continua ad essere il fulcro di una «comunità immaginata» la quale riesce in tal modo a trascendere la brevità della propria esistenza e l'eterogeneità della propria composizione.
L'incorporazione di questo passato in seno alla memoria israeliana non è stata, a dire il vero, immediata. Durante gli anni Cinquanta, quando il trauma del genocidio era ancora recente e i sopravvissuti costituivano una parte cospicua della società israeliana, la Shoah era assente dal discorso ufficiale. Un'elaborazione del lutto silenziosa coesisteva con la rimozione pubblica. Riaffermando uno stereotipo dell'ideologia sionista, Ben-Gurion dichiarava allora che la storia ebraica si era interrotta nel 135 d.C., quando i romani avevano sedato la rivolta di Bar Kochba, ed era ripresa soltanto con la fondazione di Israele. Popolo senza Stato, gli ebrei diventavano così, hegelianamente, «popolo senza storia». La palingenesi sionista restituiva agli ebrei la loro dignità nazionale perduta nei secoli. Israele sorgeva in rottura radicale con la diaspora, luogo di umiliazione, persecuzione e svilimento dei caratteri nazionali ebraici; si presentava come alternativa necessaria all'«esilio», il Galut, vera e propria malattia ebraica. L'israeliano, l'«ebreo nuovo», era un colono, un agricoltore e un combattente, non più un perseguitato. Il nuovo Stato non voleva apparire come rappresentante di un popolo di vittime e non si riconosceva nelle figure scheletriche dei sopravvissuti. In sintonia con gli stereotipi nazionalisti del tempo, i suoi figli dovevano essere fieri, sportivi, muscolosi. Occorreva quindi «inventare» una tradizione che, salvando alcuni momenti salienti della storia ebraica, potesse espungerli dalla diaspora per annetterli al panteon di un'epopea nazionale incarnata dal sionismo. Così i profughi dell'Exodus, la nave carica di superstiti dei campi nazisti, sballottata per mesi tra mare e terra prima di raggiungere la Palestina, dopo aver vinto l'opposizione britannica allo sbarco, furono trasformati in combattenti ed eroi che, a prezzo d'innumerevoli sacrifici, avevano mostrato la via di una rinascita nazionale. Così la rivolta del ghetto di Varsavia, nella primavera del 1943, fu rivisitata come eroico atto patriottico e «gesto sionista». Per questo il resoconto dell'insurrezione scritto da Marek Edelman, uno dei suoi dirigenti - allora rappresentante del Bund, un partito socialista ebraico antisionista - che decise dopo la guerra di rimanere in Polonia, fu tradotto in ebraico tardivamente, da un piccolo editore. «Nell'ambito della fiorente industria della commemorazione sviluppatasi in Israele intorno alla rivolta e ai suoi eroi - scrive Zertal -, non c'era posto per Edelman e la sua storia».
La svolta al processo Eichmann
La svolta decisiva, il momento a partire dal quale Israele cessò di considerare la Shoah come espressione di un vergognoso passato diasporico e iniziò a rivendicarne esplicitamente la memoria come fonte legittimante della propria politica, fu il processo Eichmann, che si svolse a Gerusalemme nel 1961. Ben-Gurion voleva farne «un'esperienza sacra», un monito al mondo e un atto pedagogico nei confronti della nazione. Ai suoi occhi, questo processo trascendeva ampiamente le responsabilità individuali di uno degli architetti della Soluzione finale. Ben-Gurion lo definiva allora «il processo del popolo ebraico all'eterno antisemitismo presente in tutte le nazioni e attraverso tutte le generazioni». Una volta comprovata la sua capacità di fare giustizia in nome del popolo ebraico, Israele non aveva più bisogno di nascondere la Shoah. Poteva anzi mobilitarne il ricordo per trasformare la sua politica in atto riparatore. Diventerà così una consuetudine, per ministri e ufficiali israeliani, assimilare il rifiuto arabo alla storia secolare dell'antisemitismo europeo e designare i dirigenti arabi, da Nasser ad Arafat, come reincarnazioni di Hitler.
Molti intellettuali si presteranno a questa campagna di «nazificazione» del nemico. Lo scrittore Eli Wiesel, percepito nel mondo occidentale come una sorta di figura cristica dell'Olocausto, celebrava nel 1967 la vittoria israeliana durante la Guerra dei sei giorni con un pathos nazionalista degno del primo Ernst Jünger. Zertal cita qualche passo eloquente di un suo testo dell'epoca: «Duemila anni di sofferenze, attese e speranze si mobilitarono per la battaglia, al pari di milioni di vittime della Shoah. Come nubi di fuoco giunsero a proteggere i loro eredi. E nessun nemico potrà mai sconfiggerli». La vittoria fu così sacralizzata e l'occupazione dei territori palestinesi ratificata come protezione necessaria contro la minaccia rappresentata dall'insormontabile ostilità del mondo dei gentili. L'occupazione diventò e rimane ancora oggi legittima difesa. Le vittime della Shoah saranno evocate come testimoni silenziosi dell'innocenza israeliana.
Questa politica della memoria tesa ad alimentare il nazionalismo più ottuso e intransigente, sembra concludere Zertal, ha contribuito ad armare l'assassino di Yitzhak Rabin, vittima, come Jean Jaurès e Walther Rathenau prima di lui, in altra epoca e altri contesti, di una campagna di odio nazionalista.
Un capitolo di questo libro è dedicato al carteggio tra Hannah Arendt e Gershom Scholem, poche ma profondissime lettere scambiate in occasione del processo Eichmann e delle feroci polemiche suscitate dal saggio dell'esule ebrea sulla «banalità del male». Dopo averne riassunto i termini generali, Zertal si schiera chiaramente dalla parte della Arendt, facendo proprio il postulato dell'autonomia di pensiero, il Selbstdenken di matrice illuminista ch'essa rivendicava, contro le ortodossie, i vincoli intellettuali e spesso i pregiudizi in cui rimpane inevitabilmente invischiato chi vuole anteporre un'appartenenza nazionale alla libertà della critica. Zertal ha probabilmente ragione di spiegare il tono ben poco conciliante delle risposte arendtiane con il suo rifiuto del sottile paternalismo di Scholem. E anche di sottolineare la discrepanza di fondo che separa la Arendt, cosciente di appartenere alla tradizione dell'ebraismo paria, dal sionismo di Scholem, finalmente ricaduto, forse in virtù di un'identificazione mimetica con l'oggetto delle sue ricerche, in una visione della storia ebraica come una sorta di «entità mistica» i cui tratti «trascendono la nostra comprensione».
Zertal si limita tuttavia a un'attenta lettura di questo appassionante carteggio. Una più approfondita contestualizzazione le avrebbe probabilmente permesso di spiegare i toni accesi della polemica alla luce di un'altra netta divaricazione: il Selbstdenken della Arendt entrava in collisione, in quel preciso momento storico, con la percezione ebraica della Shoah, di cui Scholem si faceva allora portavoce. Arendt aveva preso la misura dell'evento - aveva avuto la sensazione che il pavimento le stesse crollando sotto i piedi, dirà in una famosa intervista - fin dagli anni della guerra. Il mondo prendeva invece coscienza di cosa fu il genocidio degli ebrei soltanto dopo il processo Eichmann. Fu durante quel processo che, per la prima volta, i superstiti dei campi nazisti poterono esprimersi di fronte al mondo intero avendo la sensazione di essere ascoltati. Il saggio arendtiano approfondiva una riflessione iniziata almeno vent'anni prima, ma non aveva riguardi per un'opinione pubblica internazionale che iniziava appena a rendersi conto di cosa fosse stato l'Olocausto, per una diaspora ebraica che l'aveva largamente rimosso e per uno Stato israeliano che si trovava ora messo di fronte al trauma da cui era nato. I tempi dell'elaborazione di un pensiero critico e i tempi della costruzione di una memoria collettiva in seno allo spazio pubblico non sempre coincidono. Non stupisce quindi che Scholem le rimproverasse la sua mancanza di «sensibilità del cuore» (Herzenstakt).
La profezia di Hannah Arendt
Collaboratrice della casa editrice Shocken, creata negli anni Trenta da ebrei tedeschi esuli a New York, Arendt aveva contribuito alla pubblicazione in America dell'opera di Scholem. Fino al 1946, entrambi avevano condiviso la prospettiva di una Palestina binazionale, nella quale ebrei ed arabi avrebbero potuto convivere entro frontiere comuni. Ma Scholem aveva accettato la fondazione di uno Stato ebraico e adattato il suo sionismo culturale ai vincoli fatali del sionismo politico. Arendt non lo seguì su questa strada. La loro rottura risale al 1947.
In quegli anni, l'esule ebrea pubblicava un testo che, come sottolinea Zertal, appare oggi straordinariamente premonitore. Anche in caso di una vittoria militare, scriveva Arendt, gli ebrei «vivrebbero circondati da una popolazione araba interamente ostile, segregati entro confini perennemente minacciati, a tal punto occupati a difendersi fisicamente da trascurare ogni altro interesse e ogni altra attività. Il pensiero politico sarebbe focalizzato sulla strategia militare; lo sviluppo economico sarebbe determinato esclusivamente dalle necessità della guerra. E questa sarebbe la sorte di una nazione che, indipendentemente dal numero di immigrati che potrebbe ancora assorbire e dall'estensione del suo territorio continuerebbe ad essere un piccolo popolo soverchiato dalla prevalenza numerica e dall'ostilità dei suoi vicini».
Idith Zertal fa proprio questo ammonimento. Il suo libro non è soltanto un brillante saggio storico. È un invito pressante a cambiare rotta.

il manifesto 24.10.07
La volontà di vedere, secondo Foucault
di Andrea Cavalletti


Un libro di saggi a cura di Michele Cometa e Salvo Vaccaro per Meltemi ripercorre il rapporto conflittuale istituito dal filosofo francese tra visibile e enunciabile. Dalle metamorfosi dello sguardo alla genealogia dei poteri alla storia degli spazi, passando per il problema dell'approdo alla verità

Concludendo il suo ritratto dell'amico come nouvel archiviste, Gilles Deleuze aveva adattato a Foucault e al suo stile una frase di Boulez sull'universo rarefatto di Webern: «Egli ha creato una nuova dimensione, che potremmo chiamare diagonale, una sorta di ripartizione dei punti, dei blocchi e delle figure non più nel piano, ma nello spazio». La partitura weberiana e l'archeologia foucaultiana degli enunciati rivelano, dunque, un valore decisamente visivo, quasi di costruzione pittorica. Tanto che la frase di Boulez potrebbe ricordare certe notazioni di Longhi (ad esempio sullo stile di Mattia Preti) sulla costruzione, lungo la trasversale della tela, di uno spazio di «forme-luce» e «volumi che s'assettano di spigolo».
Lo stesso Foucault concludeva, d'altra parte, la sua celebre conferenza tunisina su Manet affermando che sebbene non spetti a lui l'invenzione della pittura non rappresentativa, tuttavia gli dobbiamo il «quadro-oggetto»; perché in pittura potesse un giorno liberarsi, al di là di ogni rappresentazione, «lo spazio con le sue proprietà pure e semplici, le sue stesse proprietà materiali».
Si è scritto molto, dopo Deleuze, sul problema della visibilità in Foucault, e proprio Deleuze ha illustrato meglio di chiunque altro quel non-rapporto che vige in Foucault tra visibile ed enunciabile, spiegando come permanga tra questi una differenza di natura, benché abitualmente si compenetrino e si inseriscano l'uno nell'altro. Proprio l'affermazione della loro conflittualità irriducibile è forse ciò che ha permesso, sin da Le parole e le cose, di abbandonare la vecchia rappresentazione verticale dei saperi, affrancandoli dal loro piano organizzato per disporli diagonalmente, così da farli apparire nell'atmosfera più o meno rarefatta dei poteri.
Intorno a questo nucleo problematico e fecondo si muove Lo sguardo di Foucault, a cura di Michele Cometa e Salvo Vaccaro (Meltemi, pp.162, euro 16,00), il cui titolo ricorda molto Michel Foucault, un regard, la silloge di saggi che accompagna l'edizione francese della Peinture de Manet (Seuil, 2004). I testi di Daniel Defert, Martin Jay, Stefano Catucci, Thomas Lenke e Stuart Elden ne fanno uno dei più interessanti contributi alla comprensione del pensiero di Foucault apparsi da noi negli ultimi tempi, insieme all'ottimo Governare la vita, curato da Sandro Chignola (edizioni ombre corte).
Dalla lettura di Las Meniñas in Le parole e le cose, a quella di Un bar aux Folies-Bergère - il quadro che, ha ricordato una volta Defert, rappresentava per Foucault l'esatto opposto del capolavoro di Vélasquez - dalle pagine sul Panopticon fino a quelle del 1982 sulle fotografie di Duane Michals, il tema dello sguardo attraversa in effetti tutta l'opera del filosofo francese. Che si dispiega in una specialissima tecnica di descrizione, una ekphrasis che qui Michele Cometa, sulla scia del suo Parole che dipingono (Meltemi, 2004), ricostruisce attentamente, mostrandone la variabile specifica e paradossale, fondata proprio sulla chiara coscienza dell'«abisso che separa l'immagine dal testo». Attraverso una serrata polemica con il filosofo Gary Shapiro, lo storico Martin Jay offre invece una definizione teorica del ruolo della visione in Foucault, ruolo che egli non arriva a denigrare e tuttavia limita in senso fortemente negativo.
Alla «distruzione delle visualità egemoniche» compiuta da Manet come poi da Magritte mancherebbe infatti la tonalità critica positiva che Foucault aveva invece scoperto nella parresia antica. Se visibile ed enunciabile non possono coincidere, è anche perché, afferma Jay, quel rapporto con la verità «che Foucault ammirava tanto nei greci e che cercò di emulare attraverso la sua stessa attività di intellettuale pubblico» è un rapporto mediato dalla franchezza, cioè esclusivamente verbale: non c'è veridicità dell'occhio, né «percezione intuitiva del mondo attraverso l'immediatezza dei sensi», tanto che la «verità in pittura» proclamata da Cézanne equivale a una promessa inesaudibile. Ma se Foucault separa il visibile dall'enunciabile non è forse per trasformarli entrambi e unire in «legami contingenti e instabili» i diversi sensi del sapere? La verità può essere implicata in giochi non egemonici - suggerisce Salvo Vaccaro - solo da parte di uno «sguardo prensivo», che sia capace di toccare, così come la parola è capace di vedere.
In poche, splendide pagine, Daniel Defert mostra come Foucault abbia opposto alla tradizione aristotelica della conoscenza quale percezione visiva quella nietschiana, che privilegia la materialità polemica del discorso: e lo fa da un lato riandando alla scoperta da parte del filosofo francese del poema La veduta di Raymond Roussel, e dall'altro ricorrendo al corso inedito del 1971, intitolato - come il libro più tardo e famoso - La volontà di sapere.
Contro ogni fenomenologia della percezione Foucault ha rivendicato un «dire la verità» che è storia, semiologica e politica delle condizioni del visibile, della «struttura di ciò che va visto». Le metamorfosi dello sguardo restituiscono quindi la genealogia dei poteri. Ma la storia dei poteri è per Foucault «una storia degli spazi». Pensare «con lui» - scrive nel suo intervento Stefano Catucci - significa allora (rileggendo Le Corbusier ma anche l'unità abitativa di Fiorentino al Corviale) svelare nel progetto della città moderna e contemporanea il sinistro intreccio delle tendenze biopolitiche e delle pratiche di sorveglianza più strettamente disciplinari. Che non vengono semplicemente superate, ma come le forze vinte di Nietzsche si trasformano e si dislocano su piani diversi: la scala urbanistica (della sicurezza, del potere che cura e detiene la vita) è così inseparabile dalla soluzione architettonica della vecchia disciplina dei corpi, dallo sguardo che sorveglia. La genealogia dell'urbanismo incrocia qui, per Catucci, l'«ontologia del presente». «Dire la verità» sulle nostre «città sicure» sembra più urgente che mai.

Rosso di Sera 23.10.07
I giornali della Sinistra? Sarebbe il caso di unire anche loro
di Ettore Colombo


Sulla proposta di Pietro Ingrao, la provocazione di un giornalista “di sinistra”.

Non è stata (solo) una bella, grande e partecipata manifestazione, quella del 20 ottobre. E’ stata anche una manifestazione molto (e ben) raccontata, dai, volendo includere, con questa accezione, molto più dei tre (Liberazione, manifesto, Carta) “coraggiosi” che ne sono stati gli sponsor. Faceva davvero bene al cuore, per dire, vedere l’amministratore delegato (storico, peraltro) di Liberazione, Mauro Belisario, fare "diffusione militante" dell’edizione straordinaria di Liberazione. O assistere alla ressa di ragazzi e ragazze attorno allo stand del manifesto, collocato proprio ai lati di piazza San Giovanni, dove le figurine del (mitico) Album del manifesto andavano letteralmente a ruba. Oppure riconoscere e abbracciare con commozione i compagni e le compagne della redazione de La Rinascita della sinistra, che reggevano tanto di striscione, nel corteo, oltre che fare diffusione militante. Oppure, infine, scoprire quanto è curioso, ricolmo di spunti (e inkazzato, come sempre) non solo Carta formato settimanale (anch’esso diffuso lungo il percorso) ma anche “il figlio” sito Internet quotidiano. Infine – e nonostante le molto poco piacevoli traversie editoriali che lo hanno recentemente scosso – faceva piacere pure scoprire di nuovo combattivo e aggressivo, oltre che di sinistra, il settimanale Left. Tutto bene, dunque? Possiamo gonfiare il petto e cantarcela e suonarcela anche dal punto di vista delle performances informative e della capacità di “bucare” agenzie, giornali e, naturalmente, tv, visto che anche la copertura mediatica dell’evento è stata più che degna (semi-diretta su Rai 3, diretta su Sky, diretta su Radio Popolare, network di nascita “milanese” ma che ormai è ben radicato anche a Roma)? Direi proprio di no. Il (nostro) “grande vecchio” Pietro Ingrao, sommerso lungo tutto il corteo dal calore della gente, oltre che dall’assedio dei media alla ricerca spasmodica di volti “glamour” (sic), lo ha detto chiaramente a Rina Gagliardi, che ne ha seguito il tragitto e raccolto i pensieri, alla fine: Siamo –nel nostro piccolo - totalmente d’accordo. Forse perché ricordiamo troppo bene come nacque Liberazione (quotidiano), quanti danni causò a un già agonizzante (in termini di idee e uomini, più che di copie, almeno allora) manifesto e quanti piccoli e grandi “dispetti”i giornali “comunisti” si sono fatti. Né capiamo a cosa serva disperdere forze ed energie intellettuali (con relativa “gara” a chi s’accaparra prima l’editorialista di turno, peraltro quasi sempre gli stessi) tra loro, Rinascita, Left (ex Avvenimenti). Solo di Carta riconosciamo un suo specifico politico-editoriale, a metà tra i movimenti no global che fu, i “cantieri sociali” che sono (?) e un’area movimentista, ecopacifista (e antipartitica) di ultrasinistra. Insomma, ha senso che Liberazione continui a rappresentare – con sempre maggiore fatica, peraltro, visto che si sono decuplicate – le “cento anime” di Rifondazione e dintorni, il manifesto un po’ quelle alla sua sinistra (i giovani) e un po’ quelle alla sua destra (i “senatori”), Rinascita elevi inni a Diliberto, Left o parli d’altro o si faccia interprete del Bertinotti-pensiero (se non di quello di Massimo Fagioli)? Se ci aggiungiamo Internet, dove campeggiano solo due siti informativi vivaci e degni di questo nome, Rosso di sera (non certo perché ci ospita…) e Aprileonline, organo della Sinistra democratica di Mussi (del mensile Aprile abbiamo, francamente, perso le tracce…) la dispersione (informativa) è massima. Nel frattempo, però, accade che il settimanale Diario, fondato e diretto da Enrico Deaglio ha chiuso, l’Unità sarà costretta – più prima che poi – a una decisa strambata “a destra”, causa la nascita del Pd, e il Riformista è sempre più orientato verso la Cosa socialista, oltre che boccheggiare in fatto di copie. Non che, da questo punto di vista, manifesto e Liberazione stiano messi molto meglio, anche se a via Tomacelli la situazione è, oserei dire endemicamente, peggiore e più opaca che a via del Policlinico. Morale, sarebbe ora di dare ascolto all’appello di Ingrao. Polo e Sansonetti, perché non ci pensate su?

Rosso di Sera 23.10.07
Repubblica dà i numeri


Erano un milione sabato scorso i manifestanti contro il precariato? Ma no, erano 150 mila. Lo dice Repubblica. La quale è molto restrittiva quando si tratta di contare la sinistra, mentre invece largheggia nel caso del Pd. Sempre lo stesso giornale, stavolta nella sua versione on-line, sostiene che il Partito democratico è al 29%. Poi, a leggere bene, si scopre che di elettori sicuri ne ha molti di meno. Lo zoccolo duro, quelli che comunque vada, lo voterebbero, sono solo il 18%. Poi c'è un'area quasi sicura, e si arriva al 23%. Infine, solo potenzialmente, potrebbe raggiungere il 29%.
Insomma, è il limite massimo, e quindi il risultato è prevedibilmente inferiore. In ogni caso, si tratta di una percentuale piuttosto bassa se si pensa al 34% delle elezioni politiche.
Repubblica, si sa, è il giornale del Partito democratico. Ma un minimo di decenza, un minimo di senso della misura, è richiesto anche a loro.
A fare la Pravda ulivista si rischia di fare brutta figura.
Se fossimo noi dirigenti del Pd, ci guarderemmo dal cantare vittoria. Intanto perché il governo e la maggioranza sono tutt'altro che stabili. in secondo luogo perché ci vuole poco a dilapidare il (peraltro magro) patrimonio sinora conquistato.
Così, riguardo i numeri, anche altri dovrebbero usarli con maggiore parsimonia e riflettendo meglio. Ad esempio la Cgil, che con i 5 milioni di partecipanti al referendum, in questo momento pare essere diventato un partito, con tanto di "linea" e sanzioni disciplinari, roba che speravamo consegnata agli archivi della storia.
I dirigenti del maggiore sindacato, piuttosto, guardino con maggiore attenzione al numero di precari che non ha votato e al fatto che la Nidil è ancora lì, ferma, con le adesioni che languono.

Liberazione 24.10.07
Lunedì pomeriggio, a Roma, un'assemblea aperta
Il 20 ottobre non è finito. E ora propone...
di Piero Sansonetti


Ma non eravamo noi del "20 ottobre" quelli che dovevano fare cadere il governo? Furio Colombo, su l'Unità, ha scritto un articolo nel quale, addirittura, accusava Giorgio Cremaschi e me di essere diventati marionette al comando di Berlusconi. "Passati al nemico", come dicevano una volta gli occhiuti tribunali del popolo. Scriveva che abbiamo fatto tutte le mosse giuste per far cadere Prodi e ridare il potere a Berlusconi. Vedi che fessi (o peggio...). E invece ieri abbiamo passato il pomeriggio per capire se il governo lo avrebbe fatto cadere il centrista Dini, coi suoi tre seguaci, oppure se sarebbe saltato per la rissa tra il centrista Mastella e il centrista Di Pietro, che hanno posizioni politiche molto simili - e lontanissime da quelle che abbiamo espresso nella manifestazione del 20 ottobre - ma ritengono uno che l'altro sia un delinquente e l'altro che l'uno sia un analfabeta. Da ieri non si parlano più. Al consiglio dei ministri il povero Enrico Letta deve fare la spola e l'interprete.
C'è poco da scherzare. La distanza tra la politica del Palazzo (i ragionamenti di Colombo, Mastella, Di Pietro, Dini e altri) e la forza di quella manifestazione - scusate se lo facciamo notare - davvero è abissale. Su un lato della scena c'è il punto più alto della politica di massa, costruito sulla partecipazione, sull'impegno, sulla passione politica di centinaia di migliaia di cittadini, e su una piattaforma che mette sotto accusa il precariato - il precariato economico, sociale, umano, personale - scelto dalle classi dirigenti come modello per la società dei prossimi anni; e sull'altro lato della scena c'è questo spettacolo che esalta la politichetta, i personalismi, il "poterismo" senza contenuti. Cosa vuol dire "poterismo"? E' quella idea, diffusissima, secondo la quale la politica è un affare per gruppi dirigenti che - seguendo certe regole, o infrangendole - si dividono tra loro i posti di potere e le burocrazie. Il centrosinistra, negli ultimi tempi, è stato invaso dal poterismo, ne è condizionato e conquistato. E rischia anche di venirne travolto. Per questo molti leader del centrosinistra - non tutti per la verità - non sono riusciti, fino all'ultimo minuto, a capire cosa fosse il 20 ottobre. Continuavano a chiederci: ma questo corteo dà forza a Giordano o a Diliberto? E' voluto da Bertinotti o da Vendola? E' temuto da Mussi o da Pecoraro? Non c'era modo di spiegargli che la politica talvolta è un po' più complicata.
E infatti il 20 ottobre è stata una gigantesca operazione di politica - di politica grande - perché ha ridato anima e riconoscibilità al popolo della sinistra e ha proposto una idea forte di unificazione tra le sue anime, tra la sua gente e i suoi punti vista. O forse non esattamente di unificazione, ma di alleanza. E state attenti, le sue anime non sono i suoi partiti o i suoi gruppi, ma sono il movimento operaio, il femminismo, l'ambientalismo, il movimento dei gay, il pacifismo, le comunità resistenti. Cioè correnti ideali e politiche che rappresentano principi e interessi e contraddizioni assai diversi tra loro, e spesso confliggenti tra loro, ma che hanno trovato una ipotesi di unità nella comune battaglia contro il potere, e contro le gerarchie, e contro le tante e spietate forme di moderno dominio.
Ieri, un gruppo di noi promotori del 20 ottobre, si è incontrato per vedere come dare un seguito a quella manifestazione e all'opera unitaria che ha messo in moto. Abbiamo deciso di convocare una assemblea che si terrà lunedì prossimo alle 17,30 nella sede di "Carta", a Roma, alla quale invitiamo le varie realtà che hanno partecipato, o che hanno apprezzato la manifestazione, o che comunque vogliono discutere e "fare" insieme a noi. Ci siamo detti che l'obiettivo che ci poniamo è quello di rimettere in movimento meccanismi di democrazia dal basso - cioè di democrazia - che vadano oltre i confini della sinistra, con la convinzione che il problema è quello di restituire a tanta gente lo spazio e il diritto di fare politica.
Noi siamo sicuri che questo nostro lavoro e questa nostra discussione possono affiancare l'impegno dei partiti e delle associazioni che stanno lavorando per gli stati generali della sinistra unita (proprio oggi è previsto un incontro dei segretari dei quattro partiti della sinistra). Senza sovrapposizioni, né tantomeno contrapposizioni. E crediamo che non ci sarà più una sinistra né una società dove le persone e i loro diritti, individuali e collettivi, vengono prima delle merci e delle oligarchie, se ciascuno non farà adesso la sua parte.