venerdì 26 ottobre 2007

l’Unità 26.10.07
Le inchieste del giornale fanno infuriare Bertone. Mauro: «Inaccettabile»
Tra Vaticano e «Repubblica» ora è scontro


Le “spese” dello Stato per assicurare ovunque l’ora di Religione (e l’assenza di quella di Educazione civica), l’Ici pagato dalla Chiesa di malavoglia, con molti edifici delle curie esenti (e i Comuni ci rimettono 400 milioni di eruo l’anno), i percorsi non sempre limpidi dell’8 per mille (fra opere di bene e pubblicità): le inchieste de La Repubblica mandano su tutte le furie la Chiesa. E il segretario di Stato Vaticano s’arrabbia: «Finiamola con questa storia dei finanziamenti alla Chiesa: l’apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società» è la evangelica “teoria” di Tarcisio Bertone. Cita i cartelli dei lavoratori dell’ospedale pediatrico voluto dal vaticano (e gestito insieme alla Regione Lazio) che contestano il mancato rispetto di alcuni accordi lavoro. «Problema vero, reale». Condanna il manifesto sull’omosessualità con al centro un neonato. Insomma, parla di tuto a margine della conferenza stampa per ricordare il concerto di Ennio Morricone e dell’Arma che si terrà in Vaticano. Ma i toni più aspri li lascia al giornale romano: «C’è un quotidiano che ogni settimana deve tirare fuori iniziative di questo genere».
Quel «finiamola» chiama il direttore del quotidiano Ezio Mauro ad una risposta: «Finiamola? E perché? - si domanda il direttore - Chi lo decide? In nome di quale potestà? Forse la Santa Sede ritiene di poter bloccare il libero lavoro di un giornale a suo piacimento? Pensa di poter decidere se un'inchiesta dev’essere pubblicata "ogni settimana" o con una diversa cadenza?». La Chiesa va all’attacco di chi esercita diritti costituzionalmente garantiti, come quello d’informare. «La confutazione - scrive Mauro, che ricorda come nessuna precisazione è stata mai mossa agli articoli a firma Curzio Maltese, l’ultimo del quale è uscito proprio - a quanto pare, anche se è incredibile dirlo, riguarda la legittimità stessa di affrontare questi temi. Come se esistesse, lo abbiamo già detto, un'inedita servitù giornalistica dell'Italia verso la Santa Sede».

l’Unità 26.10.07
«L’Unità non è in vendita, sì a nuovi soci»
La presidente di Nie sull’ingresso di Angelucci. Il Cdr: lunedì l’incontro con l’azienda


«L’Unità non è assolutamente in vendita. Però da parecchio tempo, non da oggi ma da anni, diciamo che saremmo felicissimi se qualcuno si aggiungesse alla cordata degli azionisti». Parola - in un’intervista ad Affaritaliani.it - di Marialina Marcucci, il presidente del consiglio di amministrazione della Nie, la società che edita il quotidiano. «Non sto parlando di un ingresso degli Angelucci, perché sinceramente non parlo degli Angelucci in particolare - precisa Marcucci, con riferimento all’ipotesi che i proprietari di Riformista e Libero acquistino anche l’Unità - . Dico che ci sono delle dimostrazioni di interesse da varie parti a entrare e ad aggiungersi alla compagine azionaria de l’Unità. Punto. E a questo noi siamo interessati da sempre». Tra gli interessati ad entrare ci sono anche gli Angelucci? «Posso dire - continua - che sono parecchie le manifestazioni di interesse, i nomi sono stati tanti. Tutti italiani, nessuno straniero». Alla domanda se la chiusura dell’operazione sia questione di giorni, risponde: «Nell’immediato non c’è assolutamente niente». Sull’incontro urgente chiesto dal Cdr de l’Unità per avere chiarimenti sulle eventuali operazioni di vendita del giornale, Marialina Marcucci afferma: «Non ho ricevuto alcuna richiesta di incontro, arriverà. Nella formula che ho spiegato, però, sarebbe un vantaggio per l’azienda e non il contrario. Sui giornalisti - aggiunge - non ho niente da dire perché, ripeto, non ho ricevuto alcuna richiesta di chiarimento».
Il Cdr, da parte sua, prende atto della risposta della presidente della Nie, e puntualizza che «urgenti chiarimenti su eventuali cambiamenti degli assetti proprietari del giornale sono stati formalmente avanzati già dal 18 ottobre scorso, e che mercoledì 24 a Marialina Marcucci è stata inoltrata una richiesta ufficiale d’incontro, che è stato fissato per lunedì 29».

l’Unità 26.10.07
Quale sarà il futuro de l’Unità?
di Pietro Folena


Caro direttore,
apprendo dal comunicato del Cdr dell’Unità che il tuo giornale starebbe per essere acquistato dal gruppo Angelucci, già editore del Riformista e di Libero.
Che un imprenditore voglia comprare un quotidiano è cosa piuttosto normale e, di per sé, persino incoraggiante. E, tuttavia, l’Unità è un giornale particolare. Un giornale che ha una storia e una collocazione politica.
Devo dire, ad onor del vero, che questa collocazione è cambiata, molto, da quando essa è rinata. Oggi l’Unita, sotto la tua direzione (legittimamente, per carità) è pienamente organo dei Ds e del Partito democratico. Quando, te ne ricorderai, la rifondammo, avevamo in mente qualcosa di un po’ diverso: un giornale collocato a sinistra ma non organico al partito dei democratici di sinistra.
Non mi sorprende più di tanto la coincidenza temporale tra la formazione del Pd e l’interessamento del gruppo Angelucci che, come sai, quando ero coordinatore del partito nella segreteria di Walter Veltroni, abbiamo voluto che non proseguisse la propria presenza nella proprietà dell’Unità, non per un’antipatia preconcetta, quanto perché il progetto editoriale era altro.
Il Corriere della Sera ricostruisce la vicenda ricordando che il gruppo Angelucci intendeva quella presenza quale viatico per le proprie attività imprenditoriali. C’è da augurarsi che adesso le cose non siano negli stessi termini.
Come dicevo, proprietà e progetto editoriale sono strettamente legati.
Non ho cambiato idea da allora. Penso che l’Unità dovrebbe appartenere in primo luogo ai lettori, attraverso una società partecipata dagli stessi. E, quindi, che il progetto editoriale dovrebbe essere conseguente a questa impostazione: un giornale non di partito, ma della sinistra.
Se fossi nel ruolo che avevo quando l’Unità rinacque, lavorerei per questo. Siccome non lo sono (senza alcun rimpianto), lascio questa idea alla valutazione di chi può, ma soprattutto dei lettori.
Spero che Angelucci non acquisti l’Unità. Ripeto: non perché abbia qualcosa contro quel gruppo, ma perché l’Unità potrebbe/dovrebbe essere altro.

Repubblica 26.10.07
Nel campo di battaglia della Cgil incrociano le armi Pd e Cosa rossa
Statali, scuola, pensionati, agroalimentare e metalmeccanici sono con Mussi
L'ortodossia diessina allinea i tessili, i trasporti, i chimici, gli edili, tlc e credito
di Alberto Statera


ARSENICO e vecchi merletti nella palazzina rosa salmone della Cgil in Corso d´Italia dove, a parte l´intonaco, la tavolozza con tutte le sfumature del rosso, dal vermiglio al rosa tenero, produce la gouache da cui dovrebbe uscire la storica ristrutturazione della sinistra italiana. Riformisti, radicali, massimalisti, socialisti, neocomunisti, veterocomunisti, liberisti di sinistra veri e immaginari - oves et boves et omnia pecora campi - è qui, nella più grande, ricca, solida e strutturata organizzazione della sinistra che, venuti meno da un pezzo il centralismo, la cinghia di trasmissione e il collateralismo, si compone e si scompone come in uno specchio il mosaico dei partiti nascenti, il Pd e la Cosa rossa.
Al centro della scena i duellanti Guglielmo Epifani, soprannominato «il giovane Werther» dall´ex sindacalista apostata Giuliano Cazzola, e Giorgio Cremaschi, il «Che» dei metalmeccanici della Fiom, che con la sua «Rete 28 aprile» si colloca molto più a sinistra di Rifondazione comunista e che con Gianni Rinaldini, dopo la sconfitta del no nel referendum sul welfare, ha compiuto lo strappo nel parlamentino confederale votando contro il documento della maggioranza e rompendo per la prima volta l´unità sancita dal congresso di Rimini del 2006. Ma sotto è tutto un ribollire, come se la cinghia di trasmissione dei tempi andati avesse cambiato senso, non più dai partiti al sindacato, ma dal sindacato ai partiti.
Naturali peristalsi, sono solo naturali peristalsi per Sergio Chiamparino, sindaco di Torino e antico segretario della Cgil piemontese, perché «il Partito democratico è destinato a riscrivere la geografia sindacale e gli altri, quelli del no-Tav e no-tutto non sono certo zuzzerelloni, loro si muovono sul sindacato per aggregare i conflitti ai fini della loro proposta politica di cose rosse».
Chissà se Chiamparino ha messo il suo zampino anche nella decisione di Sergio Marchionne, l´a.d. in maglioncino blu che frequenta qualche volta in trattoria, di anticipare 30 euro sul contratto dei lavoratori della Fiat, per «l´importante collaborazione al successo del gruppo», creando il paradosso-Torino, dove il Lingotto vota contro l´accordo sul welfare, ma il manager dei miracoli, il più osannnato dell´italico capitalismo nel quale si agitano tanti nani e ballerine superpagati, «va più a sinistra sull´idea di impresa di Giordano e anche di Cremaschi», secondo un´immagine di cui il sindaco di Torino rivendica orgogliosamente il copyright. Il contrario, naturalmente, di quel che divisa il «Che» della Fiom, che vede invece in quei trenta denari «un segnale politico, un attacco grave al sistema contrattuale. La Fiat, Montezemolo e la politica che dicono: guardate, a voi operai ci pensiamo noi capitalisti, altro che il sindacato». Una specie di provocazione politica come la marcia dei 40 mila di romitiana memoria?
Le «geografia» politica di cui parla Chiamparino, nella palazzina rosa salmone di Corso d´Italia, dove nell´ufficio d´angolo soggiornò indimenticato Luciano Lama che duettava alla pari con Gianni Agnelli, è oggi una specie di puzzle irresoluibile. Bisogna mettere insieme informatori di varie ascendenze per venirne in qualche modo a capo. Diciamo all´ingrosso: area ex-diesse 80 per cento, area Prc più Pdci 20 per cento. Ma che c´è in realtà sotto questi cappelli? Prendiamo la segreteria: Achille Passoni, Nicoletta Rocchi, Mauro Guzzonato e Marigia Maulucci, quella che denunciò accoratamente sull´»Unità» l´Opa in corso della Cosa rossa sulla Cgil, sarebbero nell´ortodossia diciamo fassiniana; Paolo Nerozzi, Carla Cantone, Fulvio Fammoni, Morena Piccinini sono invece con l´area Mussi-Salvi; Paola Agnello Modica oscilla e Epifani-Werther, col fascinoso sorriso stentato alla Harrison Ford, come fu descritto da una sua simpatica collaboratrice, cerca di mediare.
Nei dipartimenti, negli istituti e negli enti della ricca galassia prevale alla grande la Cosa rossa, peraltro in conflitto al suo interno, con sei dirigenti divisi equamente tra area Mussi e area Angius, contro i tre dell´ex area Fassino. Nelle categorie, l´ortodossia diessina e forse adesso veltroniana allinea i Tessili con Valeria Fedeli, i Trasporti con Fabrizio Solari, i Chimici con Alberto Morselli, gli Edili con Franco Martini, le Telecomunicazioni con Emilio Miceli e il Credito con Domenico Moccia.
Funzione Pubblica, Scuola, Pensionati, Agroalimentare e Metalmeccanici, quest´ultima l´ex aristocrazia operaia che terremota le alleanze, sono invece in maggioranza con l´area Mussi-Salvi-Angius, che ha anche i segretari generali di Lombardia, Lazio, Puglia, Emilia Romagna, più qualche segretario di capoluogo.
«Sembra tornato il tempo degli Unni», chiosa il vecchio saggio Giuliano Cazzola, ex compagno considerato oggi un po´ destrorso, che ricorda quando Sergio Cofferati, il Cinese, lasciava il vertice della Cgil da trionfatore: aveva sconfitto Berlusconi, aveva portato milioni di lavoratori e pensionati in piazza e, modesto, rientrava in Pirelli come un novello Cincinnato. In realtà si progettava un nuovo partito del lavoro, la Cgil col Correntone diesse, collocato alla sinistra della Quercia, con la benedizione di Nanni Moretti, di Pancho Pardi e del rutilante mondo dei girotondini. L´operazione fallì, un po´ perché Cofferati non se la sentì di portare fino in fondo lo strappo, un po´ perché Bertinotti non è che gradisse troppo il Cinese, nonostante nel 1994 ne avesse appoggiato l´ascesa in Cgil contro Alfiero Grandi, candidato di Bruno Trentin.
La storia, in qualche modo, si ripete perché la Cgil può essere oggi la massa critica di un nuovo partito della sinistra: «Se il Partito democratico vince la sua sfida - ci dice speranzoso Chiamparino - il postulato è la riapertura di un processo di unità sindacale improntato all´autonomia, dico autonomia e non indipendenza, come dice invece Cremaschi».
Balle, secondo Cazzola, che vede come naturale interlocutore del partito di Veltroni più la Cisl che la Cgil balcanizzata dagli scontri su quella tavolozza tra le varie gradazioni di rosso. Per non dire di Renata Polverini, leader dell´Ugl, il sindacato di destra che lei ha portato a contare qualcosa, la quale, a rischio di sentirsi definire una succursale della Cgil dai suoi amici di An, solidarizza con Epifani-Harrison Ford: «Lui, poveretto, si è esposto troppo quando ha detto che il programma di Prodi era il suo programma. Ma poi ha capito e ha fatto marcia indietro, pur in una condizione difficilissima, schiacciato com´è tra Cosa rossa e Partito democratico. Quanto a noi, presunta succursale della Cgil, cosa che considero tutto sommato un complimento, il fatto è che finalmente si è capito che non è solo la sinistra ad avere la privativa sulla tutela dei ceti più deboli».
Per Cremaschi la questione è un po´ diversa: «Siamo di fronte alla crisi più grave nella storia della Cgil, che, come è ormai evidente, ha una leadership non all´altezza della situazione». Non è il solo a pensarlo, tanto che già ci si chiede se il tormentato segretario generale sarà in grado di contrastare la fuga confederale dal Partito democratico alla Cosa rossa, una specie dei Psiup del nuovo millennio.
Crisi o non crisi, la galassia rossastra governata da Epifani resta il caposaldo più forte della sinistra in ristrutturazione tra Partito democratico e Cosa rossa, ambita da tutti, da Veltroni, come da Mussi, Diliberto, Giordano e soci. Quattro milioni e mezzo e più di iscritti, 14 mila mila sindacalisti, tremila sedi nel territorio, un miliardo di euro come «giro d´affari» stimato, perché dati ufficiali non ne esistono. Una forza reale così non esiste a sinistra, dopo che le cooperative si sono impaniate con i furbetti velleitari scalatori d´Italia.
Correva il 1992 quando l´allora sindacalista della Cgil Fausto Bertinotti, nemico giurato di Cofferati, descriveva con angoscia al sottoscritto, suscitando vasto scandalo a sinistra, una «dolorosa omologazione del sindacato al sistema dei partiti, una voglia nient´affatto repressa dei sindacalisti di farsi ceto politico, di farsi Stato». Oggi, con il suo collega sindacalista della Cisl Franco Marini, Bertinotti siede in persona, ai vertici dello Stato.
Il campo di battaglia a sinistra resta la palazzina rosa salmone in Corso d´Italia dove soggiornarono Di Vittorio e Lama, come in una cinghia di trasmissione che gira al contrario.

Repubblica 26.10.07
Domenica saranno beatificati 498 preti uccisi dai Repubblicani che combattevano Franco. E il passato torna a dividere il Paese
di Alberto Flores d’Arcais


Domenica a Roma il Papa consegnerà al culto i martiri cattolici della guerra civile. Una cerimonia che sta dividendo la Spagna, un paese che non è ancora riuscito a chiudere i conti con il passato franchista E che ora è attraversato da un lacerante conflitto tra Stato e Chiesa

JuanDuarte aveva 24 anni, era un seminarista, un diacono che aspettava con ansia i pochi mesi che lo dividevano dall´essere ordinato sacerdote. Era il novembre del 1936, da poco più di tre mesi il "golpe" di Francisco Franco aveva fatto precipitare la Spagna in quella che sarebbe stata una guerra civile terribile e sanguinosa. Juan era in vacanza a Yunquera, un piccolo villaggio vicino a Malaga che, pur trovandosi nel sudovest del paese, non era ancora caduto nelle mani dell´esercito franchista.
Il 7 novembre venne arrestato dalle milizie repubblicane, torturato orrendamente per una settimana e infine ucciso. È uno dei 498 "martiri" che verranno beatificati domenica a San Pietro. L´uomo più adatto per parlare di Juan Duarte è José Andres Torres Mora.
Ex capo di gabinetto di Zapatero, deputato socialista è il teorico della Ley de Memoria Historica, la legge che riconosce e allarga i diritti (e le misure a favore) delle vittime della guerra civile (e della dittatura franchista) che mercoledì prossimo verrà approvata dalle Cortes, il parlamento spagnolo.
Torres Mora è l´uomo giusto, perché è anche il pronipote di Juan Duarte. E domenica, insieme con i suoi familiari, sarà in Vaticano a rendere omaggio al prozio martire. «Per me è un viaggio importante, è importante sia sul piano personale che su quello politico», mi spiega parlando dall´aeroporto dove è in attesa di prendere il volo delle 19 per Roma. «È giusto che ci vada, per rendere omaggio al mio prozio, ma anche perché sono un deputato socialista che ha voluto con forza la legge sulla memoria».
«No, non credo che le due cose si contraddicano; - prosegue - io non sono credente ma in Vaticano ci voglio essere perché è giusto che ci sia. Del resto nessuno si meraviglia se un non credente si reca in chiesa per un funerale di un amico o di un parente. Mi costa molto fare una distinzione tra il mio omaggio privato e il mio essere un uomo pubblico, ma non trovo che sia una situazione paradossale. La mia non è una contraddizione. Nel primo paragrafo del primo articolo della legge sulla memoria si parla di tutte le persone assassinate, vittime della guerra civile, indipendentemente dal loro credo politico o religioso; è una legge che si riferisce anche ai martiri della chiesa cattolica».
Racconta la storia che tante volte gli hanno raccontato in famiglia, «di come mio prozio venne torturato, castrato, di come lo abbiano cosparso di benzina, di come gli abbiano dato fuoco fino a una morte terribile». Non se la sente di condannare la chiesa solo perché i martiri beatificati sono solo quelli di una parte (la franchista), anche se ci furono molti sacerdoti uccisi anche tra le file repubblicane: «Per me, che sono laico, la chiesa è un´istituzione privata, ha tutto il diritto di scegliere chi vuole beatificare; è un po´ come se il partito comunista volesse commemorare i vecchi stalinisti, hanno il diritto di farlo. Io sono entrato nel partito socialista quando avevo 17 anni, poco prima delle elezioni del 1977, perché credevo in certi ideali. I miei genitori durante il franchismo erano emigrati in Germania a cercare lavoro, tra i miei familiari ci sono altri socialisti, i miei parenti di Malaga hanno idee diverse, ma sono stati i primi a essere contenti che anche io andassi in Vaticano. Senza presunzione, diciamo che sono la prova vivente della riconciliazione nazionale».
La beatificazione dei 498 "martiri", così come la legge sulla memoria storica, più che riconciliare sta di nuovo dividendo la Spagna, evocando i fantasmi mai sopiti di una guerra civile che ha toccato praticamente tutte le famiglie del paese. Con la destra che accusa il governo di Zapatero di voler cancellare la storia del franchismo, con la Chiesa che spiega che dietro la beatificazione non si nasconde nessun progetto politico e nessun risentimento, «ma solo il sentimento della riconciliazione». Poco importa che i vescovi abbiano premuto sul papa (inizialmente contrario) perché le beatificazioni (un processo locale) venissero fatte a Roma, «sono i socialisti - dicono i documenti della Conferenza Episcopale - che vogliono riaprire le ferite della guerra civile».
José Maria Ridao è uno degli intellettuali emergenti della nuova Spagna, romanziere, storico e saggista, un elettore socialista che non fa mancare critiche all´attuale governo. Ridao ha una visione diversa, fuori dai vecchi schemi della guerra civile, di un paese spaccato in due. «Intanto dobbiamo dire che oggi la chiesa cattolica conta sul piano sociale sempre di meno. Conta politicamente e vuole contare di più, e il processo di beatificazione è insieme un problema ideologico e una risposta politica alla legge della memoria. Le dico chiaramente quello che penso: io sono d´accordo con i contenuti della ley de memoria ma sostengo che non c´era alcun bisogno di fare una legge. Gli indennizzi alle vittime si possono dare senza dover votare in parlamento; cercare e riaprire le fosse comuni per dare sepoltura a chi non l´ha ancora avuta dopo 70 anni è un dovere dello Stato; cancellare i segni del franchismo dalle strade e dai comuni è un compito dei poteri locali. La verità è che l´agenda ideologica di Zapatero è opposta a quella di Aznar ma usa gli stessi metodi. Come Aznar voleva rendere accettabile il franchismo, voleva banalizzare la dittatura, che fu una dittatura feroce e responsabile di migliaia di morti, così Zapatero lo vuole cancellare. Mi piace citare una frase di Tucidide, "la politica serve perché l´odio non sia eterno"; quello che succede in questi giorni è esattamente il contrario».
Non è d´accordo Fernando Vallespin, presidente del Cis, il "centro de investigaciones sociologicas" (tipo il nostro Censis). «Io credo che il fatto che ci sia la beatificazione domenica e si voti la legge sulla memoria tre giorni dopo sia solo una coincidenza. Perché se ne discute solo oggi, trent´anni dopo il processo di transizione alla democrazia? Allora tutti erano d´accordo che per superare le ferite della guerra civile e della dittatura fosse necessario dimenticare; un processo curioso e interessante, quello di annullare la memoria. Ha funzionato; ma oggi che la democrazia si è consolidata trovo giusto che chi per quaranta anni è stato costretto al silenzio voglia parlare, che la memoria dimenticata venga riscoperta. Non credo sia un caso che questa legge sia opera dei politici della generazione di Zapatero, quelli tra i 40 e i 50 anni che sono cresciuti nella democrazia, che erano adolescenti quando la Spagna ha ritrovato le libere elezioni».
Perfecto Andres Ibanez è un magistrato molto conosciuto, giudice del Tribunal Supremo. «I due avvenimenti, beatificazione e legge della memoria, sono forse casuali come tempistica, ma è una coincidenza un po´ sospetta. Mi spiego: la chiesa spagnola è molto belligerante, è una sorta di partito politico, o almeno parte di un partito politico. Con la beatificazione di 498 "martiri", che sono tutti dello stesso campo, il franchismo, intende rivendicare ex post il valore politico del golpe militare del 1936. La chiesa spagnola non ha mai fatto veramente autocritica per l´appoggio che diede alla dittatura; quanto alla legge sulla memoria da un punto di vista giuridico credo che non abbia lacune; non la conosco ancora a fondo, anche perché deve essere ancora approvata. Però, e guardi che io non sono tenero con il governo Zapatero, le critiche della destra mi sembrano pretestuose».
Di beatificazione, di martiri e di leggi della memoria si parla molto sui giornali, si discute in modo acceso alle Cortes, ma non sembra che il tema stia appassionando particolarmente l´opinione pubblica. Perché se è vero che quasi ogni famiglia spagnola ha una vittima da piangere (sia in campo repubblicano che tra i nazionalisti) i giovani, ad esempio, sentono la guerra civile come qualcosa di sempre più distante. Del resto sono passati quasi settanta anni, come se all´alba della Seconda Guerra mondiale si discutesse ancora delle vittime della guerra franco-prussiana. Ed è un tema che, stando a tutti gli interpellati, non sarà neanche uno di quelli principali nella prossima campagna elettorale (si vota nel marzo 2008).
Ludolfo Paramio è considerato l´ideologo del premier spagnolo. Con lui ha lavorato, e lavora ancora, a stretto contatto, e rivendica la necessità della legge sulla memoria: «Tutti i sondaggi ci dicono che la maggioranza degli spagnoli è d´accordo, il fatto che tre giorni prima del voto ci sia la beatificazione non mi preoccupa, e non credo neanche che su questi temi il paese sia veramente diviso. Era giusto farla, anche se oggi, quasi settanta anni dopo, riguarda solo una minoranza degli spagnoli».

Repubblica 26.10.07
L’Italia che non rilascia ricevute
Dai muratori agli psicologi, cresce l'esercito degli evasori
Un professionista su due evita di rilasciare l´attestazione di pagamenti
di Luisa Grion


ROMA - Pagare è dovuto, ottenere la ricevuta è un optional, una rarità, un vero miracolo. Bisogna chiederla - meglio se due volte - a chi dovrebbe volontariamente compilarla, e non è detto che la richiesta sia esaudita. L´irregolarità fiscale è una prassi: schiere di insegnanti che fanno ripetizioni private, baby sitter, artigiani, commercianti, ma anche liberi professionisti incassano il compenso del loro lavoro completamente in nero.
L´Eures, l´istituto di Ricerche economiche e sociali, elaborando un rapporto sull´evasione in Italia ha indagato su 41 categorie professionali scoprendo che - nella stragrande maggioranza dei casi - i pagamenti ottenuti non hanno alcuna documentazione fiscale. L´indagine è stata fatta chiedendo ad un campione di clienti di raccontare le esperienze in proposito, e di specificare chi lascia loro ricevuta e chi no. E nella stragrande maggioranza dei casi il cliente rimane a mani vuote. Non solo: fatta eccezione per pochi casi il fenomeno risulta in aumento rispetto agli ultimi tre anni. Se fra parrucchieri, badanti e colf (grazie anche alla regolarizzazione del lavoro degli immigrati) gli illeciti sono diminuiti, negli altri 38 casi segnano un ulteriore sviluppo.
Per chi si trova a dover mandare i figli a ripetizioni private, per esempio, la ricevuta è un documento sconosciuto. Non viene rilasciata nel 79,4 per cento dei casi: la media dell´esborso, in caso di scuole superiori, si aggira sui 30 euro all´ora che sono incassati dal professore completamente in nero. Sui servizi alla famiglia - baby sitter e badanti - l´illecito fiscale sfiora il 73 per cento, va un po´ meglio con le colf (65,4).
Poi certo c´è il capitolo artigiani: la Cgia di Mestre contesta i dati asserendo che a non rilasciare lo scontrino sono dopo lavoristi e pensionati che si spacciano per artigiani e non solo tali, ma secondo l´Eures la categoria rilascia ricevuta solo 3 volte su 10. La maglia nera va ai muratori (73,2 per cento d´evasione da mancata ricevuta), ma il lavoro nero è molto diffuso anche fra tappezzieri, falegnami, fabbri, elettricisti, idraulici, gommisti. Tutti pronti a riparare il danno purché del pagamento non resti alcuna traccia. Seguono a ruota i centri estetici (secondo gli intervistati non rilasciano ricevuta nel 37, 4 per cento dei casi), i parrucchieri (quasi il 31) e le lavanderie (21,7).
Per quanto riguarda le categorie che commercializzano prodotti, fra i più virtuosi ci sono i farmacisti (2 per cento d´irregolarità), mentre la palma dell´illecito va ai rivenditori di materiali edili e di piastrelle (37 per cento in nero).
Infine la categoria dei liberi professionisti, che in genere non ha molto da invidiare agli artigiani. Passando dagli architetti, agli psicologi, dagli avvocati o geometri la percezione non cambia: quasi uno su due non rilascia scontrino. Fra i commercialisti, medici, dentisti, veterinari e notai la percentuale però si dimezza, anche perché in questo caso sono gli stessi clienti a chiedere più spesso la fattura.

Repubblica 26.10.07
L’Unità, le garanzie di Angelucci
Firmato il preliminare. Accordo per mantenere il personale
La Marcucci: "Sì a nuovi soci ma non è una vendita". Resterà nell'azionariato
di Aldo Fontanarosa e Andrea Greco


ROMA - Il preliminare di acquisto è stato firmato solo poche ore fa, mercoledì. Per opzionare il quotidiano L´Unità, Giampaolo Angelucci (romano, 35 anni, reuccio della sanità privata, 3000 posti letto tra Lazio e Puglia) è disposto a staccare un assegno da 17 milioni e a farsi carico di tutti i debiti, che sono comunque a un livello fisiologico. Da oggi Angelucci, erede del gruppo di famiglia Tosinvest, avrà il diritto di studiare i conti del quotidiano, custoditi nella "data room", la stanza dei numeri. Quando l´investigazione sui conti sarà terminata, Angelucci potrà confermare o abbassare la sua offerta economica. A meno di contrattempi, l´imprenditore - che ha già in mano il quotidiano di destra Libero e il quotidiano Il Riformista - farà sua L´Unità entro quest´anno. Sul piano formale, la Tosinvest prenderà la Ad Srl. Questa società a responsabilità limitata controlla oltre l´80 percento della casa editrice del giornale (la Nie). A cascata, Angelucci dovrà anche prelevare o affittare la testata (il marchio de L´Unità), che fa capo ad un´altra società. Cosa che può portare la spesa complessiva dell´operazione Unità parecchio più in alto.
La famiglia Angelucci era già entrata nel quotidiano fondato da Gramsci nella sua precedente vita, e con una quota importante: il 24,5 percento. Poi era arrivata la breve ma drammatica chiusura del giornale, nel luglio 2000. Adesso gli Angelucci ritornano, ma provano a farlo in punta di piedi. Tra i loro impegni, c´è il mantenimento dei posti di lavoro e ovviamente della linea politica della testata, come subito chiesto dalla redazione. D´altra parte, il nuovo editore ha interesse a dribblare l´inevitabile gioco delle interpretazioni politiche. L´arrivo degli Angelucci è più gradito a D´Alema oppure a Veltroni? E come va letto alla luce della nascita del Partito Democratico? Gli interrogativi si sprecano, in queste ore.
Figura di continuità tra l´attuale gestione e quella futura sarà Marialina Marcucci, imprenditrice lucchese e fondatrice di Videomusic che nel 2005 divenne vicepresidente della Giunta regionale toscana. Oggi è presente nella complicata compagine azionaria e resterà - sembra - anche nella prossima.
In queste ore, la Marcucci veste i panni del pompiere. «L´Unità - dice - non è assolutamente in vendita. Certo, da tempo diciamo che saremmo felici se qualcuno si aggiungesse alla cordata degli azionisti. E questo può portare anche a dei cambiamenti: qualcuno può uscire mentre qualcun altro entra. E´ fisiologico. Gli Angelucci? Non sto parlando di un loro ingresso. Dico solo che ci sono dimostrazioni di interesse per entrare nella compagine azionaria de L´Unità. Sono imprenditori italiani, nessuno di passaporto straniero. Punto. Ma nell´immediato non c´è assolutamente niente».
Assolutamente niente, giura lei. Quest´estate, la Marcucci si è affrettata a smentire anche la precedente puntata di questo caso. Ad agosto il settimanale Panorama ha scritto di una possibile vendita dell´Unità alla famiglia Moratti. La vendita, poi, non c´è stata. Ma la trattativa, ancora oggi, trova tante conferme.

Corriere della Sera 26.10.07
Il documentario. «Il pensiero non basta per capire Auschwitz»
Saverio Costanzo ci è tornato con gli studenti
di G.Ma.


ROMA — «Auschwitz 2006». S'intitola così il film-documento di Saverio Costanzo sul viaggio di 250 giovani delle scuole superiori di Roma nella località più sinistramente nota della storia del Novecento.
Un viaggio che si ripete ormai per la terza volta, ripreso in passato da altri registi di qualità come Mimmo Calopresti e Ascanio Celestini. Promossa dal sindaco Walter Veltroni e dalla Comunità ebraica della capitale, in collaborazione con l'Associazione nazionale ex deportati, l'iniziativa fa parte di quel discorso sulla memoria e l'Olocausto sempre più necessario per far conoscere alle nuove generazioni lo scenario dello sterminio più grande ed efferato. «Ad Auschwitz bisogna andarci di persona - assicura Costanzo, regista di film intensi come
Private e In memoria di me - L'immaginazione non è sufficiente, il contatto fisico con quel posto di orrore e dolore, è ciò che fa la profonda differenza».
Lui quel viaggio l'aveva già fatto. «Qualche anno fa, per conto mio. Ma l'idea di ripeterlo insieme con tanti ragazzi e soprattutto con sei testimoni di quella tragedia a farci da guida, mi ha convinto ad accettare il progetto ».
Solo due giorni di trasferta, ma a volte anche 48 bastano per aprire le teste e i cuori. «Al di là dell'inevitabile commozione, mi hanno colpito le domande degli studenti. Dirette fino quasi alla crudezza. Forse un adulto non oserebbe mai rivolgersi a dei sopravvissuti chiedendo certi dettagli, certe precisazioni. Come il discorso del perdono, del rancore, del senso di colpa per essersi salvati rispetto agli altri che non ce l'hanno fatta... E poi se avevano paura di morire, e perché dopo tutto quello che avevano passato, tornassero ancora lì».
Tra le testimonianze più intense, ricorda Saverio Costanzo, quella di Sami Modiano, anche lui ex deportato, per la prima volta impegnato nel progetto «Noi ricordiamo », che finora ha coinvolto un migliaio di studenti e che nel 2008, ventesimo anniversario della scomparsa di Primo Levi, gli renderà omaggio portando il prossimo gruppo anche a visitare la fabbrica di Buna Monowitz, dove lo scrittore lavorò.
«Un incontro civile con la storia, che ha arricchito molto anche me — conclude il regista —. Dopo un viaggio del genere torni a casa con un mistero dentro: come è stato possibile? Per quanto uno cerchi di capire, ti rendi conto che esistono delle dinamiche diaboliche a cui è impossibile dare una risposta. E' come voler arrivare alle radici del male. Che sono sempre più profonde e più tenaci di quanto chiunque possa immaginare».

il manifesto 26.10.07
Non è stata una semplice manifestazione, né una resistenza identitaria. Cerchiamo di capire cosa potrà essere
Sinistra, ricominciamo dal venti ottobre
di Marco Revelli


Il meccanismo della rappresentanza politica - spina dorsale delle moderne democrazie di partito - si è inceppato. Serve una nuova «polifonia» che non si esaurisce nelle istituzioni

Indubbiamente la scommessa era alta. Riguardava la possibilità o meno della sopravvivenza di una sinistra nel nostro paese, nel quadro di una vera e propria mutazione genetica del sistema politico. Questo era il rischio annunciato dal doppio evento della «consultazione» sindacale sul protocollo sul welfare, da una parte, e delle cosiddette «primarie» del non ancor nato Partito democratico, dall'altra, col loro comune carattere di «mobilitazione dall'alto» e l'intreccio di decisionismo burocratico e di plebiscitarismo subalterno che li ha caratterizzati entrambi. E questo era il neppur molto celato desiderio dell'establishment economico e finanziario, dalla Confindustria alla proprietà dei grandi quotidiani nazionali, tutti a tifare per la sopravvivenza della legge 30 e per la nascita del partito di «tutti gli italiani». Per la trasformazione del sindacato in apparato di organizzazione del consenso e per la costruzione di un grande centro egemonico capace di monopolizzare l'intero spazio politico non ancora occupato dai populismi di destra.
Questo, d'altra parte - la comprensione del carattere eccezionale della posta in gioco - è all'origine della straordinaria «mobilitazione dal basso» del 20 ottobre, che a quella prospettiva ha imposto una sostanziosa e massiccia ipoteca. Non si spiega altrimenti la dimensione imprevista e imprevedibile della partecipazione - quella galassia di donne e di uomini che si è condensata tra piazza della Repubblica e piazza San Giovanni intorno al corpo militante dei due partiti che ci avevano creduto, Rifondazione comunista e il Pdci, ma moltiplicandone per tre, quattro volte il numero, circondandoci e sommergendoci - se non con una lucida consapevolezza del carattere non contingente, né «tattico», del momento politico e di ciò che si stava decidendo. Solo un'incurabile ottusità politica, unita all'incultura del nostro giornalismo di regime e a una vocazione all'occultamento e alla menzogna, hanno potuto far precipitare la portata in qualche misura «epocale» dell'alternativa che si era chiamati a sciogliere nell'asfittico fondo d'imbuto della questione del governo, strutturando il grottesco gioco di specchi di una «manifestazione contro Prodi» e una «manifestazione a sostegno di Prodi». Bastava guardare le facce serie, intente, sotto il palco multiculturale e multietnico, a ascoltare le voci di tutte le età lì raccolte, interpretare gli applausi convinti e anche i silenzi non distratti, per capire che quella piazza guardava ben al di là della cronaca di breve periodo di un governo dalla morte più o meno annunciata. E più in alto.
E tuttavia la questione del governo, con la sua ossessiva centralità mediatica, può essere utile per aiutarci a meglio mettere a fuoco alcuni aspetti «di sistema» della mutazione in atto. Intanto perché quella che si era configurata dopo la risicata vittoria del 2006, e che si è lentamente logorata nel corso di quest'anno e mezzo, era l'ultima, estrema opportunità - offerta a quella parte d'Italia che non voleva arrendersi alla deriva affaristico-populistica sintetizzata nel berlusconismo - di salvare il salvabile. Di opporre una qualche diga alla degradazione dello spazio pubblico. Ne ero convinto allora, a urne appena chiuse. Ne resto convinto ora, che quell'opportunità è stata malauguratamente sprecata. E poi perché i meccanismi che stanno all'origine di quel logoramento e di questa crisi - le sue cause reali, non gli espedienti di copertura tirati fuori nel gioco del cerino in corso - la dicono lunga sulla sua natura. Li sintetizzerei in due formule: crisi di legittimazione e ristrutturazione del sistema politico. Detto in modo più volgare: abbandono del proprio elettorato e nascita del Partito democratico.
Il primo aspetto è evidente. Prodi annaspa perché il suo governo ha deluso tutti. Non solo l'elettorato di sinistra. Non solo gli «incontentabili» della «sinistra radicale» (che, poveracci, non hanno avuto proprio nulla di ciò che era stato loro promesso). O quei «piantagrane» dei loro rappresentanti (che, se vogliamo dirla tutta, si sono letteralmente svenati per sostenere un governo spesso insostenibile). Ma anche i cosiddetti «moderati». «Quelli che il liberismo non gli basta mai», e pensano che senza una sinistra troppo implicata con lavoratori dipendenti e precari e popolazioni dei territori, potrebbero portare a casa molta più deregolazione e detassazione, meno spesa e più sviluppo, più cemento, più tutto, giocando sui vincoli dell'Unione europea e sulle logiche di mercato. E non è solo perché le coalizioni larghe sono strutturalmente instabili, finiscono per allungarsi troppo e per strapparsi spesso, o per paralizzarsi nei veti incrociati. Ma soprattutto perché si è inceppato il vecchio meccanismo della rappresentanza politica, spina dorsale delle moderne democrazie di partito, il quale garantiva un sia pur debole rapporto tra insediamenti sociali e presenze istituzionali. Tra soggetti collettivi e rappresentanti politici, stretti da un sia pur debole mandato, in un quadro socio-economico in cui la negoziazione e la redistribuzione erano la regola. Oggi, i vincoli sono sempre meno «verticali» (tra rappresentanti e rappresentati) e sempre più orizzontali (tra i rappresentanti dei diversi partiti coalizzati e dei diversi stati-nazione, connessi tra loro da vincoli comuni e tutto sommato da un comune sentire di stampo oligarchico). E d'altra parte le possibilità di negoziazione e di redistribuzione si assottigliano, in contesti di ipercompetitività globale e di semi-monopolio di entità trans-nazionali, che inceppano se non addirittura mettono fuori gioco anche i residui delle tradizionali politiche keynesiane.
Il secondo aspetto - la nascita del Partito democratico - è meno evidente nella sua carica destabilizzante. Si presenta anzi come una grande operazione di normalizzazione e stabilizzazione, ma il suo potenziale distruttivo dell'attuale quadro politico e del governo è persino più dirompente della delusione dell'elettorato. Quella che si tenta, infatti, non è una semplice operazione algebrica. Né un mero cambio di «contenitore» per elementi se non omogenei, comunque compatibili. E', al contrario, il tentativo di fusione di due culture politiche e di due storie la cui polarizzazione e la cui competizione hanno costituito il tratto qualificante di quasi quarant'anni di storia repubblicana. Un'operazione altamente a rischio (fusioni di tal genere sono improbe persino in campo economico e industriale), destinata a mutare natura - a cambiare il Dna - di due partiti che, per giunta, sono i pilastri centrali che sostengono il governo in carica. E a segnare un tratto forte di discontinuità e di «rottura» nell'assetto complessivo del nostro sistema politico.
Ora, operazioni di questo tipo vengono di solito tentate in un quadro di precauzione rispetto ai possibili contraccolpi sulla sfera del governo e dello Stato: o quando si è all'opposizione. Oppure quando si gode di amplissime maggioranze. Azzardarlo nella condizione del governo attuale, con una maggioranza risicatissima, e con equilibri di per sé a rischio, significa davvero sfidare, con goliardica irresponsabilità, la sorte. Tentare un doppio salto mortale al buio. Comunque terremotare la base su cui poggia il «proprio» governo, senza sapere quale esito avrà la scossa. Né sembra bastare, a attenuarne le conseguenze, l'escamotage che è stato inventato: la neutralizzazione di storia e cultura. La rimozione di entrambe, nell'incapacità di rielaborarle, e la riconversione del vizio in virtù nella retorica della politica non «ideologica», e del rifiuto del passato in quanto luogo di divisioni e contrapposizioni «pericolose». Anzi, il rimedio sembra peggiore del male: ci consegna, tutti, a un panorama politico incerto e imprevedibile, dove l'unica cosa sicura è la discontinuità con ogni presente e ogni passato.
Per questo il lascito della piazza del 20 ottobre è così impegnativo. Essa lancia due messaggi, che sono quelli che abbiamo ascoltato dal palco, e che sembravano davvero il comun denominatore di una folla unita e plurale. Dice, da una parte che «noi ci siamo». Che nell'Italia di domani c'è una sinistra che ha corpo e volontà. Che vuole esistere e prendere la parola. Ma aggiunge, dall'altra parte, che quella sinistra o sarà diversa da tutte quelle esistite fin'ora, o non sarà. O saprà reinventarsi nel nuovo habitat, radicalmente mutato, che la frattura storica apertasi sotto i nostri piedi ha prodotto e ci impone, o quel varco tenuto aperto in extremis, con un'impennata di intelligenza e di orgoglio, si chiuderà. E reinventare una sinistra per il XXI secolo, in un contesto in sé ostile (strutturalmente incompatibile con lo stesso concetto di sinistra così come l'ha conosciuto la modernità), con uno spazio pubblico esploso, un meccanismo della rappresentanza lesionato al limite dell'inagibilità, un universo del lavoro frantumato e eroso dal cancro della precarizzazione e delle delocalizzazioni, appare impresa davvero improba. Tanto più se i vecchi miti e i valori fondanti della modernità industriale in cui ci siamo formati, si rovesciano nel proprio contrario: progresso e sviluppo trasformati da simboli dell'emancipazione in minacce mortali e potenze distruttive; i grandi organismi organizzativi, le strutture capaci di trasformare l'Io in Noi, rovesciati da strumenti di liberazione in apparati di disciplinamento; la stessa democrazia, sussunta dal sistema dei media, svuotata dei soggetti reali e piegata sempre più alla logica della rappresentazione virtuale, trasformata da forma della partecipazione in dispositivo di assoggettamento...
Non basterà, temo, srotolare le vecchie bandiere e inalberare il proprio orgoglio di comunisti. Non basterà neppure - lo dico con disperazione - ritornare con la mente alle buone, ragionevoli, politiche keynesiane, riaffermando testardamente la centralità del conflitto capitale-lavoro, in un mondo in cui il capitale entra direttamente dentro le forme della vita: trasforma noi, le nostre conoscenze, i nostri linguaggi e relazioni, in mezzi di produzione (in capitale fisso), e i nostri Tfr, il nostro salario differito, le nostre vecchiaie, in prodotti derivati (in capitale finanziario), usando nel contempo i nostri desideri e i nostri bisogni come componenti del comando. Occorrerà uno sforzo congiunto e complesso, diversificato per livelli, capaci, ognuno, di ascolto e di autonomia, che nessun contenitore unico, nessuna forma «organica» e univoca (quale era fino a ieri la forma-partito) potrà esaurire. Livelli con tempi e linguaggi diversi: impellente e istantaneo, per così dire, quello della presenza elettorale, il più facile da immaginare (un'unica lista, un unico simbolo, un'immagine credibile di un'entità non frammentata e litigiosa, capace di attrarre tutto ciò che non subisce la seduzione veltroniana), e il più difficile da realizzare in tempi utili (avrebbe dovuto compiersi sei mesi fa, non domani). Più lento, necessariamente lento, quello culturale, bisognoso di paziente riflessione, di pacata e insieme radicale analisi di un patrimonio culturale da non ripudiare ma da rivisitare criticamente. Pervasivo e polifonico, infine, quello sociale, aderente alle «coscienze di luogo», alle specificità soggettive, capaci di racconto e di ascolto. E tutti e tre, in qualche modo, in reciproco rispetto e ascolto.

Aprile on line 25.10.07
Sinistra, superiamo gli ostacoli
di Pietro Folena


L'intervento. Non è la stessa cosa fare la sinistra basandosi su accordi di vertice o farla con il protagonismo del suo popolo. Nel primo caso essa sarà sempre in balia delle convenienze momentanee di questo o quell'altro dei partecipanti. Nel secondo, invece, sarà una soggettività vera che non si scioglierà al primo stormir di fronde

Fabio Mussi ha compiuto ieri (mercoledì 24 ottobre, ndr), nell'intervista che ha rilasciato al Manifesto, un'operazione politica sincera e coraggiosa.
Mi sono trovato spesso in disaccordo, negli ultimi due anni, con i compagni dell'ex Correntone (e non solo con loro). Ad esempio sulla sottovalutazione del percorso che poi ha portato al Partito democratico. Mi pare che l'esperienza della sinistra diessina, che in un certo senso aveva il dovere di rappresentare la punta più avanzata di un possibile percorso unitario a sinistra, sia apparsa troppo timida.
Per questo l'intervista di Mussi mi ha particolarmente colpito. Perché dice delle cose giuste, che la maggioranza dei militanti della sinistra pensa da tempo e contiene anche un paio di proposte coraggiose e non scontate: i gruppi unitari in parlamento e un soggetto unitario della sinistra.

Sempre ieri però il vertice dei segretari ha partorito una proposta meno avanzata: una federazione tra i gruppi e una federazione tra i partiti. Io penso che non basti. Lo dico per l'esperienza fatta nei Ds. Allora la cosiddetta "Fed" non partorì assolutamente nulla. Non ci sono motivi per dubitare che lo stesso potrebbe facilmente accadere alla Federazione rossa.
Comunque, i risultati del vertice sono già un inizio. E' importante che finalmente si sia decisa una data per gli Stati generali e, soprattutto, che saranno aperti alle realtà associative e di movimento. Ora il compito di chi vuole l'unità è quello di spingersi oltre, di proporre e immaginare ipotesi più avanzate e portarle all'assemblea di dicembre.

Senza per questo però farsi illusioni. Del resto le resistenze al modello tedesco sono abbastanza rivelatrici. Così come la contrarietà alle primarie sulla leadership. Trovo piuttosto singolare il ragionamento che si fa su questo punto, per il quale far scegliere i dirigenti agli elettori non appartiene alla cultura della sinistra. Io penso al contrario che dare la parola al popolo (per davvero, presentando proposte diverse) sia sempre di sinistra. In ogni caso lo è di più che delegare ai dirigenti il compito di scegliersi da soli.
Questi sono solo alcuni dei nodi che oggi vengono al pettine, nodi che denunciano il ritardo politico e culturale che ostacola l'unità a sinistra. Io temo che a scioglierli non possano essere i gruppi dirigenti. Penso, al contrario, che il popolo sia già arrivato al traguardo e aspetti che ci arrivino anche i vertici. Il 20 ottobre ha prodotto qualcosa che è andato ben al di là della volontà dei partiti. Ha reso evidente che l'unità della sinistra in un solo soggetto politico (plurale, federale, quel che si vuole, ma un solo soggetto politico) è un'esigenza che va oltre l'appuntamento di una manifestazione o di una elezione.

Pur cogliendo gli aspetti positivi usciti dal vertice di ieri, bisogna sgombrare il campo dal sottofondo di non detti, dalla timidezza sul percorso unitario, dalla tentazione di "gestire" una spinta unitaria che rischia quasi di sfuggire di mano. Invece che, al contrario, cavalcarla.
E, allora, il punto è superare gli ostacoli. Come? Con il coraggio e la generosità. Il coraggio di interpellare il popolo per davvero e non per ratificare decisioni già prese. La generosità dei gruppi dirigenti non di fare un passo indietro, ma uno avanti. Il passo è fare "guidare" e "dirigere" davvero un popolo della sinistra che ha già deciso dove andare ma che non farà sconti se non sapremo dargli ascolto.
Per questo il metodo è sostanza. Non è la stessa cosa fare la sinistra basandosi su accordi di vertice o farla con il protagonismo del suo popolo. Nel primo caso essa sarà sempre in balia delle convenienze momentanee di questo o quell'altro dei partecipanti. Nel secondo, invece, sarà una soggettività vera che non si scioglierà al primo stormir di fronde.
Le primarie su tutto - programma, simbolo, nome del nuovo partito e poi dirigenti e leadership - oggi forse sono l'idea di una minoranza, giudicata con antipatica sufficienza. Ma credo che non ci siano strade migliori di questa per fare la sinistra.

il manifesto e La Rinascita della sinistra 26.10.07
«No a governi tecnici o istituzionali. Se cade si torna a votare»
Intervista di Matteo Bartocci ad Oliviero Diliberto


No ad un governo tecnico o istituzionale se l'esecutivo di Prodi dovesse cadere, questo il commento del segretario dei Comunisti italiani intervistato oggi dal Manifesto

«E' ormai evidente che Prodi si deve guardare dai centristi», ed il riferimento è anche al comportamento di Di Pietro sul ponte di Messina definito da Diliberto «uno scandalo».
Per il leader del Pdci «il gioco è ormai evidente: il versante moderato e conservatore vuole far cadere un governo che, ancorché molto moderato, è comunque sostenuto dalle sinistre».
E le pressioni non arrivano solo dal centro ma sono anche internazionali, «i venti di guerra in Iran aumentano» e Bush con la sua amministrazione sta lavorando «ad un governo senza comunisti, con un altro presidente del consiglio e un diverso ministro degli esteri».
Alla proposta del presidente della Camera di un governo istituzionale dopo Prodi Diliberto è contrario, «c'è un problema di legittimità democratica. Questo governo è stato votato e per noi se si cade si torna a votare».
Le difficoltà del governo nascono anche dalla nascita del Pd: «manca un interlocutore perché oggettivamente ce n'è anche un altro».
Il problema resta quello della legge con cui andare al voto, «per noi» afferma Diliberto «il modello regionale è perfetto, garantisce rappresentatività e bipolarismo ed evita tentazioni neodemocristiane».
E se si dovesse andare al voto con questa legge rimarrebbe in piedi la federazione della sinistra? Per il segretario del Pdci questo è certo, questo «non è un cartello elettorale ma un progetto politico».
E a testimonianza di ciò Diliberto ricorda l'assemblea della sinistra convocata per l'8 e 9 dicembre, «un fatto positivo, aperto anche a chi non fa parte dei quattro partiti della sinistra».
In merito alle polemiche sulla possibilità di un simbolo comune della confederazione, il leader dei Comunisti italiani ribadisce che se lo si farà «dovrà richiamare necessariamente il tema del lavoro», mentre «falce e martello resteranno il simbolo del Pdci».
A quasi una settimana dal 20 ottobre Diliberto definisce quel giorno «una grande manifestazione di sinistra, dove i comunisti erano la gran parte. E tuttavia in tantissimi non erano comunisti», elogiando poi pubblicamente il coraggio con cui Mussi «ha riconosciuto che è stato un grande errore non partecipare».
Il 7 novembre sarà il novantesimo anniversario della Rivoluzione d'ottobre, un grande appuntamento a cui Diliberto, unico segretario straniero, prenderà a parte direttamente a Mosca parlando dal palco con Zhuganov durante la manifestazione.
«Un segno di rispetto» per il leader dei Comunisti italiani «che abbiano chiesto a me di parlare da quel palco». Ricordando come «solo da noi è uno scandalo parlare di cose di questo genere», forse anche perché «non abbiamo mai fatto una rivoluzione».
C'è ancora qualche possibilità? Per Diliberto «essendo un comunista è chiaro che mi sento un rivoluzionario. Ma se la proponessi in Italia mi ricovererebbero al manicomio. Molto più modestamente mi accontenterei di fare qualche buona riforma».
Ma l'«album di famiglia» del manifesto lo porteresti sulla Piazza Rossa?
Per allora sono sicuro di avere tutte le figurine.

Terapia del dolore. Italia in ritardo, mancano i centri
La Società Italiana di Cure Palliative (SICP), in occasione della presentazione del congresso nazionale che si terrà a Perugia dal 13 al 16 novembre, ha denunciato il fatto che per i 250.000 malati terminali italiani esistono solo 114 'hospice' che garantiscono le cure palliative a chi è colpito da malattie incurabili, a cominciare dai tumori. Mancherebbero circa 200 strutture, per la realizzazione delle quali sono già stati stanziati i fondi necessari: 206 mln di euro tra il 1999 e il 2002 e altri 100 con la Finanziaria 2006. La distribuzione dei centri già operativi non è omogenea: il Nord è in testa con l'Emilia-Romagna e il Sud in coda con la Sicilia. Secondo Franco Zucco, Presidente della SICP, 'manca un modello nazionale per lo sviluppo della rete che integri gli hospice con le cure domiciliari'. Da qui l'intenzione del Ministro della Salute Turco di presentare un Piano nazionale per le cure palliative. (Corriere della Sera: pag. 19, Il Sole 24 Ore: pag. 32, Libero: pag 33 - 24 ottobre 2007- segnalazione di Francesco Troccoli)

Liberazione 26.10.07
Inizia con un paradosso la segreteria Veltroni
E l'Unità finì nelle mani del padrone di Libero
di Antonella Marrone



L'Unità sta per avere un nuovo editore. E' di ieri la notizia che sarà di fatto concluso, entro breve, un accordo con la famiglia Angelucci. Una salvezza per il giornale. Ma un'ombra inquietante sul suo destino quantomeno politico. Angelucci: un nome, un programma, per l'Unità. Come dimenticare che questa esuberante famiglia di imprenditori e possessori di cliniche ed ospedali, non è la prima volta che si trova fra gli azionisti del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Gli Angelucci erano quelli che stavano nella Uem - la società che crocifisse l'Unità nel 2000 - con un decoroso 20% e che poi, in zona Cesarini, si sfilarono all'inglese prima della debacle totale e senza aver ottenuto quello che, all'epoca, si diceva fosse il vero interesse della loro società, la Tosinvest: un accordo con la Regione Lazio per l'Ospedale San Raffaele. L'accordo venne concluso in seguito, quando alla Regione c'era Storace, e gli Angelucci si erano da poco comprati Libero . Già, proprio il quotidiano diretto da Vittorio Feltri. Il che ci porta a fare subito una prima amara considerazione. In questo paese, la cui vera anima è manifestamente cerchiobbottista, è possibile essere proprietari di due quotidiani con linee editoriali opposte (gli Angelucci hanno anche il Riformista , ma lì siamo almeno ad un quarto grado di parentela con l'Unità !) e vivere sereni, senza che nessuno ne rimanga stupito. Eppure tutti sanno che entrare nel mondo della carta stampata e fare un quotidiano non è il massimo del business. Devi metterci dentro un bel po' di chincaglieria per poter fatturare qualcosa di decente in edicola. Quindi il fine non è trarre profitto dalla carta stampata ma da altro. L'Unità non naviga nella pubblicità. Resta la politica. Veltroni non ha mai avuto un buon feeling con questa intraprendente società di "ospedalieri". Non sappiamo se lo abbia avuto, questo feeling, con l'Unità dopo averne lasciato la direzione. Certo è che da un po' di tempo, sull'onda di un perdita rilevante di vendite, considerando la difficoltà degli azionisti a reperire nuove somme, ma, molto più prosaicamente, avendo Veltroni totale ed incontrastato appoggio da uno dei maggiori organi di informazione, La Repubblica , i beni informati raccontano che il nuovo segretario del Pd non sapesse che cosa farne del quotidiano ex Ds. Comunque dopo la notizia dell'acquisto da parte degli Angelucci, qualche molla è scattata nel riflessivo Walter che deve aver colto il paradosso in cui rischia di cadere se il giornale di Gramsci condivide l'editore con il giornale di Feltri. .E pare che si sia prodigato nel rassicurare gli amici del giornale che è tutto sotto controllo. Quindi tornano gli Angelucci. Prendendosi questa volta una bella fetta (si dice l'84%) della società AD, azionista di maggioranza della Nie, società editrice del quotidiano. Per farne che? La versione più accreditata è che dietro a questa operazione ci sia Ugo Sposetti, inflessibile tesoriere degli ex Ds e che vicino a lui ci sia l'attuale Ministro degli Esteri. 
Ora, parliamoci chiaro. D'Alema spunta fuori ogni volta che si parla di trabochetti o trappoloni a Veltroni. In questo caso, si tratterebbe di sottrargli l'Unità, togliere di mezzo alcune firme poco simpatizzanti (evidentemente Colombo, Travaglio e Padellaro) e rompere un po' le scatole al suo miglior nemico. Ma la ricostruzione potrebbe rilvelarsi fantasiosa, meno, in ogni caso, di quella che vuole gli Angelucci come "messi" di Veltroni. Resta il fatto che questa vicenda, poco trasparente, si insinua come un fantasma tra i pensieri che il segretario del Pd sta riordinando per sabato prossimo a Rho, si presenta come una notevole ed imprevista seccatura. Come uscirne? Mah, in fondo che male c'è ad essere editori di "Libero", ma anche de "L'Unità".

giovedì 25 ottobre 2007

Apcom 25.10.07
GOVERNO/ 'SVOLTA' DI BERTINOTTI SPARIGLIA LE CARTE A SINISTRA
Su simboli e legge elettorale ancora divisi Prc-Pdci-Verdi e Sd
qui

Corriere della Sera 25.10.07
Governo, è scontro tra Prodi e Bertinotti
Palazzo Chigi e l'affondo del presidente della Camera: un equivoco. La replica: no, ribadisco tutto
di Francesco Alberti


ROMA — Il chiarimento non c'è stato. Anzi, il contrasto rischia di assumere spessore istituzionale con inevitabili ricadute sulla tenuta del governo. Romano Prodi e Fausto Bertinotti, sul cui asse poggiano le fondamenta dell'Unione, si trovano all'improvviso distanti sulle prospettive della legislatura in caso di caduta dell'attuale esecutivo. Il presidente della Camera è fermamente convinto che un eventuale dopo-Prodi debba sfociare in un governo istituzionale per le riforme (elettorale e costituzionale). Il premier, invece, oltre a ritenere che scenari di questo genere altro non portino se non a un ulteriore indebolimento del governo, è dell'idea che l'unico sbocco della legislatura, in caso di crisi, siano le urne.
Doveva essere, tra i due, la giornata del chiarimento. Prodi e Bertinotti si sono telefonati martedì sera. Un colloquio vivace, ma comunque un contatto. Il presidente della Camera ha poi sentito anche il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, pure lui preoccupato per la piega che stava prendendo la vicenda. Passaggi delicati, ma alla fine pareva che le premesse per un rasserenamento fossero state gettate. E invece, ieri sera, si è capito che il solco resta profondo. È successo quando fonti di Palazzo Chigi hanno fatto sapere di «aver positivamente valutato » il fatto che Bertinotti avesse puntualizzato il suo pensiero, chiarendo di confidare sulla durata del governo «per l'intera legislatura».
«Equivoco chiarito» è stato subito il commento dell'entourage prodiano. Sbagliato. Dalla Camera, fonti vicine a Bertinotti hanno immediatamente replicato con toni seccati: «Nessun equivoco perché non ha equivocato nessuno: il presidente non ha fatto che ribadire quanto detto in precedenza». E, cioè, che le riforme vanno fatte, con o senza governo Prodi. Una spaccatura pericolosa, che getta interrogativi su Rifondazione. Il Professore per ora glissa: «Tengo tutto nel mio cuore... ».
Il contrasto con Bertinotti ha dominato una giornata nella quale Prodi non ha lesinato frecciate a Berlusconi. Il no del Cavaliere all'appello lanciato da Napolitano sulle riforme è stato immediatamente sottolineato da Palazzo Chigi: «Ci dispiace che le parole del Colle non siano state condivise da tutti».
Decisamente più duro il giudizio sul modo in cui il leader di Forza Italia ha ricevuto l'altro ieri gli ispettori del Bie, che dovranno dire l'ultima parola sulla candidatura di Milano all'Expo 2015: la decisione di Berlusconi di mostrare agli ispettori sondaggi che lo danno in netto vantaggio su Prodi è stato stigmatizzato dagli uomini del Professore: «Berlusconi ha sbagliato: è un errore mostrare un'immagine disunita del Paese. E poi quei sondaggi hanno scarsa credibilità...».

Corriere della Sera 25.10.07
Il retroscena
Spunta l'asse tra Fausto e Walter Ora si tratta sul sistema tedesco
di Francesco Verderami


ROMA — Fino a tre giorni fa Rifondazione era attestata sulla linea delle elezioni anticipate: nessuna alternativa a Prodi, solo le urne. La svolta di Bertinotti ha spiazzato persino i vertici del suo partito, disvelando così l'asse con Veltroni. Il presidente della Camera e il leader del Pd hanno superato d'un tratto il gelo misto a diffidenza che li teneva distanti. In nome della realpolitik sono stati costretti al passo, a fronte delle disastrose condizioni in cui versa il governo: la rete di protezione che hanno iniziato a costruire, manco a dirlo, ruota attorno alla possibilità di chiudere il cerchio sulla legge elettorale.
Raccontano che Veltroni abbia promesso un'apertura sul sistema simil-tedesco nel discorso di insediamento che terrà davanti alla Costituente democratica. I dettagli tecnici scolorano nel profilo ancora indistinto del disegno, «d'altronde — come spiegava ieri un autorevolissimo esponente del Pd vicino al segretario — sul modello tedesco Walter non chiude. Eppoi in politica esistono obiettivi prioritari e obiettivi secondari». La priorità è dettata dall'emergenza. E se dopo Bertinotti anche Veltroni farà la sua mossa, tutto sarà chiaro: forti dell'appoggio dei maggiorenti del Pd, e facendosi scudo delle esternazioni di Napolitano, chiederanno a Prodi di adeguarsi. Toccherà al premier scegliere se portare avanti l'operazione, altrimenti...
Altrimenti si profilerebbe «l'opzione B», quella che il presidente della Camera ha adombrato nell'intervista al Tg1, quel governo «per le riforme» che dovrebbe spostare al 2009 l'orizzonte delle urne, e che ha mandato fuori dai gangheri Prodi. Il premier si sente assediato. Sarà infatti solo una coincidenza, ma anche Nerozzi, membro della segreteria della Cgil ed esponente della Sinistra democratica, nell'ultimo direttivo sindacale ha accennato all'ipotesi di un «governo tecnico». Marini sarebbe il più accreditato a guidare un gabinetto «istituzionale», però — a seconda della formula che verrebbe scelta — in pista ci sarebbero anche Amato, D'Alema e Fassino. Tutti sono consapevoli che «l'opzione B» è ad alto rischio, e non è detto che riesca: sono troppe le variabili, poche le certezze, certa l'ostilità di Berlusconi. Su questo fa affidamento Prodi. Lo scontro con Bertinotti è proseguito ieri a colpi di comunicati tra palazzo Chigi e Montecitorio, e fa intendere quale sia la linea del premier: «Resistere, resistere, resistere ».
«Invece di fare il risentito, Romano dovrebbe capire che gli ho offerto un assist», commentava ieri il presidente della Camera: «Si muova, reagisca, insomma faccia qualcosa. Perché è impensabile che sulla legge elettorale nessuno sappia qual è la sua idea. Almeno Walter qualcosa l'ha detta». Eccome se l'ha detta, al telefono con Bertinotti. La preoccupazione comune è dettata «dalla situazione allo sbando», dal fatto che il centrosinistra «sta subendo l'accerchiamento di Berlusconi, che più passa il tempo più prende spazio». Basterebbe dare un'occhiata agli ultimi sondaggi riservati: le primarie del Pd non hanno sortito grande effetto, se è vero che la forbice tra il Polo (al 55,1%) e l'Unione (42,9) si è ristretta solo di mezzo punto. Peccato che per il governo si stiano restringendo anche i margini al Senato: Turigliatto, di Sinistra critica, si appresta oggi ad annunciare che non voterà la Finanziaria. Ieri la maggioranza a palazzo Madama sul decreto fiscale era di un solo voto. Si respira aria di smobilitazione nel governo. Raccontano che, chiuso nella sua stanza al ministero, Rutelli abbia sospirato: «Peccato, avremmo potuto fare grandi cose per la cultura...».
Il tempo stringe, nel Pd sono in pochi a volersi immolare per Prodi e pensano a evitare la disfatta. Dice De Mita: «Ho letto che se cade, Romano minaccia di ricandidarsi. E con chi?». Ma «l'opzione B» è impresa ardua: potrebbe essere costruita solo se l'Unione si compattasse sulla legge elettorale. Bertinotti auspica il sistema tedesco, «perché non voglio né un partito condannato al governo né all'opposizione ». Veltroni comprende, ma sa anche quanto sia difficile agganciare un pezzo di opposizione nel disegno. Il meccanismo sarebbe quello già sperimentato nella commissione Affari costituzionali di Montecitorio, dove nelle scorse settimane Udc e Lega si erano astenuti sulle riforme. Peccato che in Aula la musica sia cambiata. «Dovevamo spaccare il Polo e invece li abbiamo ricompattati con l'ostruzionismo», commentava ieri il democratico Giachetti, prendendosela con Violante: «Così dopo il Senato si è bloccata anche la Camera. Siamo nel pantano».
Servirebbe un aiuto dall'opposizione, ma per quanto le sirene del modello tedesco tocchino le corde di Casini, Berlusconi dice di avere in mano l'arma di fine legislatura. Qualcuno nel Polo pensa oggi di sfidarlo?

Corriere della Sera 25.10.07
L'Unità ad Angelucci Bufera nella Quercia
Arriva l'editore di «Libero», irritazione di Veltroni
di Paolo Foschi


ROMA — L'Unità cambia di nuovo padrone. Il «quotidiano fondato da Gramsci» (come recita orgogliosamente la testata) sta per passare nelle mani della famiglia Angelucci, editori di Libero e del Riformista, titolari di un piccolo impero nella sanità privata. Il contratto preliminare - secondo informazioni non ancora ufficiali sarebbe già stato firmato. L'atto di vendita sarà invece siglato fra 45 giorni, quando scadrà il diritto di prelazione dei Ds, ormai confluiti nel Partito democratico. Non ci sono dettagli economici, ma si parla di un investimento da almeno 20 milioni di euro.
L'operazione rischia però di creare una spaccatura nell'anima diessina del Pd. In molti intravedono dietro l'ingresso degli Angelucci la mano di Ugo Sposetti, tesoriere della Quercia che controlla le casse del vecchio partito. «Io non c'entro nulla - taglia corto Sposetti - . Se gli Angelucci vogliono prendere l'Unità, sono affari loro. Di sicuro il partito non ha soldi per esercitare la prelazione». Walter Veltroni però sarebbe infuriato: secondo i suoi le risorse ci sarebbero, ma sono utilizzate per foraggiare le fondazioni che Ugo Sposetti sta creando utilizzando i beni dei Ds, destinati a non finire nelle casse del nuovo Partito democratico. Inoltre, con la vendita del giornale che Veltroni stesso ha diretto negli anni Novanta, i contributi pubblici finirebbero a imprenditori che flirtano con la destra. I suoi rapporti personali con gli Angelucci, del resto, sono tutt'altro che buoni, inutili sarebbero stati tutti i tentativi per organizzare un incontro che Giampaolo Angelucci avrebbe voluto avere con il leader del Pd. «Speriamo che Veltroni blocchi la vendita», è l'appello della redazione del quotidiano storico del Pci.
Maria Lina Marcucci, presidente del cda dell'Unità alla guida di una cordata raccolta in una complessa catena societaria, non smentisce la manovra: «Ci sono contatti». Per gli Angelucci si tratta comunque di un ritorno. La Tosinvest, a cui fanno capo le cliniche della famiglia, già nel 1998 aveva acquistato oltre il 20% del giornale. E non erano mancate le polemiche, con voci di tentativi di utilizzare l'Unità per fare pressioni sulla Regione Lazio, retta dal centrosinistra, per sbloccare alcune convenzioni con le Asl. Allora il «pacchetto» fu venduto.

Corriere della Sera 25.10.07
Colombo: addolorato Mi pare una scelta folle
di Pa.Fo.


«Mi hanno riferito le ultime novità. E non mi piacciono per niente.
Non ho notizie ufficiali, ma so quello che mi hanno raccontato dalla redazione, i colleghi sono molto preoccupati. E hanno ragione. Trovo folle questa situazione»: Furio Colombo ( foto),
ex direttore e oggi collaboratore del quotidiano storico del Pci, rispondendo al telefono in serata si dice «amareggiato, sorpreso, addolorato» per la vendita del giornale alla famiglia Angelucci.
«Non conosco i dettagli dell'operazione, del resto non ho più un ruolo interno all'azienda.
Ma le informazioni che mi sono arrivate mi hanno turbato. Spero che cambi qualcosa nelle prossime ore— aggiunge —. Non riesco proprio a capire perché l'Unità debba finire sullo stesso scaffale di Libero. Per carità, ho il massimo rispetto per Libero e per chi ci lavora. Il direttore Vittorio Feltri e i suoi collaboratori fanno un ottimo giornale, ma è un giornale di destra. Perché adesso il loro editore deve prendere un quotidiano con un passato come quello dell'Unità? Non è una cosa normale. Qualcosa non torna. Mi domando perché un editore deve avere un giornale che sostiene una posizione ed un altro giornale che appoggia la posizione esattamente contraria? C'è poco da stare tranquilli». Secondo Colombo, «uno stesso editore che pubblica due giornali così diversi non c'è in alcun posto al mondo».

Corriere della Sera 25.10.07
Wang Gang esce in Italia: una storia di persecuzioni contro un insegnante «sovversivo»
Mao e le Guardie Rosse, la memoria proibita
Un romanzo rompe il tabù sul passato. E sulle atrocità di allora
di Fabio Cavalera


PECHINO — La Cina non è capace di regolare i conti col passato. È una nazione che guarda al futuro, rapita dal miraggio del benessere, ma che si fa assalire dalla paura di rileggere la pagine più problematiche della sua storia recente.
Un atteggiamento mentale diffuso: non confinato nella autoritaria élite politica che la governa, piuttosto un sentimento condiviso nella società, parte caratterizzante dell'essere cinese oggi, del cittadino cinese che si apre al mondo ma non si apre a se stesso perché preferisce curare in silenzio le ferite, tenere il dolore nascosto e spenta la memoria del secolo. Non è la rassegnazione che ha placato le emozioni e nemmeno l'accettazione degli eventi che ha domato la ragione. È che l'uomo non si ferma a riflettere, semmai cammina lungo il sentiero di una trasformazione lenta. Allora: perché pensare a ciò che è avvenuto ieri se io vivo per il domani e già nel domani? È l'etica di un popolo che — per usare le parole del sinologo francese François Jullien — potremmo definire «un altrove del pensiero». Quando la Cina volge lo sguardo agli anni della guerra civile e della ascesa al potere di Mao, al lungo dominio esercitato dall'Imperatore rosso e ai capitoli fondamentali che hanno segnato la sua dinastia — sia che ciò avvenga con i toni propagandistici di un'ideologia che ha perso la forza della sorpresa e della innovazione e che si è rivelata giustificazione dell'opprimere, sia che ciò avvenga con fredda e veloce rivisitazione alla quale i circoli accademici sono talvolta costretti — si coglie il fastidio di un esercizio che non è considerato espressione di cultura ma rottura del regolare corso della natura: è la stabilità che viene violentata, è la continuità di una grande civiltà messa in discussione, è l'armonia suprema del cielo spezzata. Del tragico Balzo in Avanti, la conversione dall'agricoltura alla industrializzazione pesante che fra la fine degli anni '50 e l'inizio dei '60 portò alla carestia e costò milioni di morti per fame, della sanguinosa rivoluzione culturale scatenata da Mao per sbarazzarsi di chi, fra i suoi compagni di lotta, aveva compreso quale piega stavano assumendo le visioni del Presidente, ne parliamo o discutiamo più noi in Occidente, che in cinesi in patria. I quali, specie i giovani, sanno poco o nulla della storia, vittime della rimozione, testimoni del presente e protagonisti del futuro mai, però, eredi del passato.
Che è un'ombra lontana.
La rivoluzione culturale è stata un insieme tumultuoso di drammi, che ha coinvolto milioni di persone: dove sono finite queste persone?
Hanno pagato, giustamente, i quattro fanatici della Banda di Shanghai con la collerica Jiang Qing a capeggiarla, ma le guardie rosse che avevano terrorizzato la Cina, che l'avevano spogliata delle sue residue forze e risorse, che avevano distrutto il patrimonio rimasto della sua arte e della sua cultura, sono sparite, inghiottite nel nulla, riassorbite dal sistema. Tutti hanno voluto dimenticare. La Rivoluzione Culturale resta sullo sfondo, qualcosa da non evocare. Perché se lo si facesse occorrerebbe ripensare la figura di Mao, trattarlo per ciò che è stato, un despota, dopo che aveva saputo mobilitare l'orgoglio di una nazione ritrovata.
Si capisce lo scandalo che crea un intellettuale quando si appropria delle sue libertà per affrontare un capitolo così delicato quale è la revisione del maoismo. Wang Gang è uno scrittore che in Cina, con il libro dal titolo «English» (ora in distribuzione in Italia per Neri Pozza, lo sarà anche per Penguin in Inghilterra, poi in Francia e Germania), storia del rapporto fra un adolescente e un professore d'inglese che avvicina gli scolari alla cultura "nemica" dell'Occidente e del capitalismo, ha sollevato un bel caso. L'ambiente è la provincia dell'Ovest, lo Xinjiang, e il tempo della trama è proprio quello della rivoluzione culturale quando insegnare la lingua straniera era un attività sovversiva. Un romanzo molto bello che raccoglie il peso di un'epoca e delle follie che l'hanno sconvolta.
Wang Gang era un ragazzino e la sua colpa, pagata con l'ostracismo oggi della Associazione Nazionale degli Scrittori, è di avere raccontato, con linguaggio forte e con ironia, ciò che i suoi occhi riuscirono a fotografare: andava a scuola e in classe i ragazzi con il libretto rosso in mano si accanivano sugli insegnanti, intellettuali borghesi e di destra, lui stesso una volta ne fu partecipe con il fratello. «La maggioranza dei miei colleghi — dice Wang Gang che abita a Pechino — per compiacere il regime parla della rivoluzione culturale addirittura con nostalgia o con distacco. Io no, mi rifiuto. Occorre che le nuove generazioni dei cinesi sappiano bene che cosa è capitato in questo Paese e chi ne è stato il responsabile ». Il libro è uscito due anni fa, ha veduto 150 mila copie, ha preso un premio a Taiwan e solo allora la censura si è accorta della pubblicazione: «Quelli non leggono i romanzi, si preoccupano di Internet, dei giornali, della televisione, del cinema. Ma dei libri poco, salvo poi correre ai ripari».
Wang Gang è rimasto in silenzio otto anni, soffocando l'idea di narrare una pagina della Cina moderna. Ha ritenuto alla fine che il dovere universale di un intellettuale non è fuggire o compiacere o nascondersi ma raccontare ciò che al potere non piace: in Cina è quel periodo nel quale «noi eravamo tutti magri stecchiti, l'uomo del ritratto era invece bello grasso, essendo il presidente Mao». Ecco lo scandalo: in Cina il passato fa paura, meglio lanciarsi nel futuro e nel miracolo dei numeri dell'economia. Altrimenti va in frantumi il Mito. E il tempo non è ancora quello giusto.
Guardie Rosse in marcia verso la città di Canton sventolano il «Libretto Rosso» con i pensieri di Mao (Archivio Corsera)

l'Unità 25.10.07
La Cosa rossa teme la crisi e accelera: l’8 dicembre assemblea nazionale
Migliore ribadisce: «Prodi non cadrà da sinistra». Ma Prc guarda a una nuova legge elettorale
Consultazioni di massa e gruppi parlamentari federati: più veloce il processo che riguarda Rifondazione Sd, Pdci e Verdi
di Simone Collini


Imperativo: accelerare. La sinistra radicale brucia le tappe del processo unitario: federazione dei gruppi parlamentari di Prc, Pdci, Verdi e Sinistra democratica, costituzione di un coordinamento nazionale che gestisca l’operazione, assemblea generale l’8 e 9 dicembre a Roma di tutti i soggetti interessati a dar vita alla “Cosa rossa”. Ufficialmente, non c’è una connessione tra quelle che Franco Giordano definisce le «evidenti difficoltà del governo» e le decisioni assunte ieri dal segretario di Rifondazione comunista insieme a Oliviero Diliberto, Fabio Mussi e Alfonso Pecoraro Scanio. Ma non è un caso che l’accelerazione si concretizzi nel momento in cui nell’ala sinistra dell’Unione finisce di essere un tabù il tema del dopo-Prodi.
Il giorno dopo l’uscita di Fausto Bertinotti sulla necessità di approvare in ogni caso, che questo governo arrivi o meno a fine legislatura, una nuova legge elettorale prima di andare al voto, Rifondazione comunista non nega di star ragionando su una serie di «simulazioni», per dirla con Giordano. Premesso che «il governo non cadrà da sinistra», il capogruppo del Prc alla Camera Gennaro Migliore sottolinea che il superamento del “porcellum” e l’approvazione di una nuova legge elettorale che garantisca rappresentatività e maggiore stabilità è «una promessa fatta agli elettori». Che va mantenuta, prima di tornare alle urne. E se malauguratamente si dovesse andare al voto anzitempo? «Intanto cerchiamo di non far cadere il governo Prodi, noi ne siamo accaniti difensori», dice il capogruppo del Prc al Senato Giovanni Russo Spena. Che però aggiunge: «Se il governo dovesse cadere, indubbiamente esisterebbe il problema di andare a riforme istituzionali e costituzionali. E quello potrebbe farlo, appunto, un governo di larghe intese». Ma nel Prc si sa anche che se la «simulazione» della crisi dovesse avverarsi - e Giordano sottolinea che «le difficoltà del governo non sono un’invenzione di Bertinotti» - il rischio di rimaner tagliati fuori dalle larghe intese potrebbe esserci. Diverso sarebbe il caso in cui un eventuale taglio delle ali comportasse un dover rinunciare a un centinaio di deputati e una cinquantina di senatori (tanti sono i parlamentari della futura “Cosa rossa”). Per quanto riguarda Pdci e Verdi poi, che non vogliono neanche sentir parlare di sistema elettorale tedesco, sanno che all’esame c’è un testo che dalla Germania prende lo sbarramento al 5%.
In questo scenario Giordano, Diliberto, Pecoraro Scanio e Mussi hanno accelerano concordando la road map per presentarsi con simbolo unitario alle prossime elezioni. I gruppi parlamentari verranno federati, individuando anche un portavoce unico per la Camera e per il Senato. A dicembre ci sarà una due giorni «della sinistra e degli ecologisti» aperta ad associazioni e movimenti che dovrà varare un manifesto che sarà poi sottoposto a un’ampia consultazione popolare: le cosiddette «primarie sulle idee e i contenuti». Rimane da sciogliere il nodo della forma organizzativa, visto che Diliberto e Pecoraro Scanio oltre la confederazione non vanno mentre Mussi e Giordano ritengono che si possano fare ulteriori passi verso l’unità.

il Giornale 25.10.07
Il fantasista di Montecitorio
di Massimo Teodori
qui

il Riformista 25.10.07
Sinistra. Cosa si agita dietro la svolta di Bertinotti
Fausto ha fretta di archiviare Rifondazione
di Stefano Cappellini


C'è stato un tempo, non lontano, in cui parlare di «governo tecnico» in casa di Rifondazione comunista era come agitare la corda in casa dell'impiccato. Finché è toccato a Fausto Bertinotti, nell'intervista al Tg1 di due sere fa, sdoganare quello che dentro Rifondazione comunista è stato sempre considerato lo strumento dei «poteri forti» contro la presenza della sinistra al governo. L'esternazione del presidente della Camera, sebbene parzialmente rettificata, è un segnale forte per Prodi: ora il premier sa che il suo credito col Prc è esaurito. Ma dietro l'uscita di Bertinotti c'è molto altro e sbaglia chi pensa che la sua volesse essere una spallata al Prof. Piuttosto, è un avviso ai naviganti. Ora è ufficiale che Rifondazione ha cambiato linea: niente più elezioni in caso di crisi, magari per cavalcare elettoralmente la caduta da destra dell'esecutivo. Al contrario, i voti comunisti sono pronti a sommarsi a quelli di altri volenterosi per le riforme. Solo così sarà possibile varare quella legge elettorale di tipo tedesco indispensabile al grande progetto bertinottiano: ripartire dal «popolo del 20 ottobre», supposta reincarnazione del disperso «popolo di Seattle», per colmare quello che la terza carica dello Stato definisce nei suoi conciliaboli «il ritardo strategico accumulato nei confronti del Pd». L'obiettivo è chiaro: rompere gli indugi sulla nascita del Partito della Sinistra e prepararsi ad affrontare il dopo-Prodi. Previsto,non certo auspicato. Perché se il governo cade sulla finanziaria, il subcomandante Fausto sa bene che non v'è alcuna certezza che prevalga la sua linea e non invece quella di Berlusconi per andare subito al voto, cui la sinistra radicale arriverebbe impreparata e ancora divisa. Gli Stati generali della Cosa rossa - fissati ieri per dicembre dalla riunione dei segretari di Prc, Pdci, Verdi e Sd - sono per Bertinotti una risposta insufficiente alle sfide cui è attesa la sinistra nell'era del veltronismo democrat. Una semplice confederazione che lasci in vita simboli e organigrammi dei partiti membri sarebbe ai suoi occhi un altro brodino, per dirla con l'espressione che ha fatto infuriare Prodi. Questo - pensa Bertinotti - deve essere il momento dell'avanti tutta.
L'asse con Fabio Mussi, che ieri sul Manifesto ha fatto autocritica sulla mancata partecipazione di Sinistra democratica al corteo di sabato scorso, è solido, nonostante le divisioni su pensioni e welfare. Il metodo per arrivare a dar vita il prima possibile al Partito della sinistra lo suggerisce io storico Paul Ginsborg su Liberazione: primarie di programma, che mescolino strumenti tradizionali e telematici, per coinvolgere il «popolo del 20 ottobre» su profilo, simbolo e nome del nuovo partito. Il leader in pectore c'è già, Nichi Vendola, anche se la svolta bertinottiana non arriva, per ora, al punto di immaginare un voto diretto sulla leadership. Quanto alla parola "comunista" e alla falce e martello, è ormai chiaro che sono destinati a essere dismessi.
Ce n'è abbastanza per creare un trambusto almeno pari a quello che ha agitato i Ds davanti alla prospettiva del Pd. li gruppo dirigente del Prc, che oggi si regge sull'asse tra il segretario Franco Giordano e il ministro Paolo Ferrero, è rimasto spiazzato. Nel caso di Giordano, anche letteralmente: non avvertito dell'intervista al Tg1, si è trovato ospite a Porta a porta in balia di interlocutori che gli chiedevano conto di una svolta di cui non aveva sentore. È soprattutto la narrativa degli ultimi giorni a essere stata riscritta. Quel «forza Prodi» con cui Giordano (e il quotidiano Liberazione) ha accompagnato il 20 ottobre è stato cancellato in pochi minuti dalle metafore senili con cui Bertinotti ha apostrofato il Prof. Non solo: a questo punto, davanti alla volontà del presidente della Camera di archiviare Rifondazione, il congresso del partito fissato in primavera rischia di essere superato dai fatti, reso quasi una inutile necessità burocratica tra il fastidio e lo sconcerto di molti. Inutile dire che per Giordano, ricandidato alla segreteria, questa accelerazione svuota di significato le assise e la sua stessa rielezione, oscurata dalla scesa in campo di Vendola. Il capogruppo al Senato Giovanni Russo Spena non vuoi credere a colpi di mano: «Non penso che Fausto abbia voglia di scimmiottare i metodi del Pd, anche perché sa bene che nel partito non c'è la maggioranza per procedere su quella strada. Del resto, lui stesso ha smentito le indiscrezioni su Vendola».
Ma il sottosegretario allo Sviluppo Alfonso Gianni, sostenitore del balzo in avanti prima ancora, se possibile, di Bertinotti, non ci gira intorno: «La politica non può aspettare i tempi dei congressi. Bisogna arrivare quanto prima alla nascita di un partito vero che, al di là delle formule organizzative, sia percepito in quanto tale da chi era in piazza il 20 ottobre». La risposta al Pd è l'obiettivo numero del presidente della Camera e ormai viene prima del destino del governo: «Prodi - spiega Gianni - ha dato segno di non raccogliere alcuno dei segnali provenienti dalla piazza. E noi non possiamo più far finta di niente». Aggiunge Milziade Caprili, vicepresidente del Senato: «Bertinotti forse è stato duro, ma ha solo fotografato uno stato di cose disastroso. Qui piove sul bagnato».
La tensione nel partito è alta. Mette in gioco strategie di anni. Mina antichi rapporti. Alla manifestazione di sabato scorso Giordano ha piazzato una stoccata verso un amico con cui ha diviso tutto, compreso un appartamento alla periferia di Roma, fin dagli anni avventurosi anni dell'ultima Fgci: «Vendola? Un buon presidente della regione Puglia», ha tagliato corto coi cronisti. Lo stesso Vendola non è stato tenero coi compagni: «I ministri di questo governo sono opachi. Tutti», ha dichiarato all’Espresso. E Ferrero, ministro comunista da sempre fautore di un modello confederale di unità a sinistra, non nasconde la sua irritazione: «Sono pronto a tornare a fare l'operaio», ha spiegato agli amici per sottolineare il suo disagio davanti a uno scenario in cui il Prc non ci fosse più. Nel partito i fronti si stanno rimescolando. Come giura il senatore Claudio Grassi: «Non mi piace la foga con cui si vuole liquidare Rifondazione e i suoi simboli, a partire dalla falce e martello. Non si può tirare sulla nostra storia una riga arcobaleno, dando vita a un partito genericamente di sinistra solo perché Mussi ha deciso di non entrare nel Pd. E comunque, chi pensa di riuscirci si ritroverà minoranza». Bertinotti avrà di che lavorare.

Repubblica 25.10.07
Il segretario di Stato vaticano attacca gli articoli di "Repubblica"
"L'apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società"
Bertone contro le inchieste sulla Chiesa
"Finiamola con questa storia dei costi"


CITTA DEL VATICANO - "Finiamola con questa storia dei finanziamenti alla Chiesa: l'apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società". Il segretario di Stato Tarcisio Bertone, replica con durezza all'inchiesta sui costi dell'ora di religione. "C'è un quotidiano - lamenta - che ogni settimana deve tirare fuori iniziative di questo genere.
"L'ora di religione è sacrosanta". La conversazione del segretario di Stato con i giornalisti tocca poi la "deriva anticlericale" in Spagna. E su questo Bertone si mostra più prudente: ci sono i vescovi spagnoli che prendono posizione in merito, io non so se sia davvero una proposta di Zapatero o solo una delle righe di un programma elettorale...". Esterna a tutto campo il cardinale, dopo la conferenza stampa sul Concerto di Ennio Morricone e dell'Arma dei Carbinieri che si terrà in Vaticano il prossimo 20 novembre. "Le difficoltà delle famiglie di arrivare alla fine del mese - risponde a un gionalista - sono reali. Mi auguro che le promesse del Governo vengano matenute. Il problema è quello delle risorse limitate, noi chiediamo che siano impiegate a favore della famiglia, dei figli, della solidarietà". Cita i cartelli di protesta che lo hanno accolto all'ospedale pediatrico promosso dal Vaticano (e gestito in convenzione con il Ssn e la Regione Lazio). I dipendenti lamentano il mancato rispetto del contratto di lavoro che prevedeva uno scatto che non è stato ancora erogato: "è un problema reale, in questo momento siamo in problemi difficili sia dal punto di vista regionale che nazionale. Mancano le risorse: non parliamo degli stipendi vaticani. Potessi avere la bacchetta magica farei subito dei miracoli". Gli domandano allora: "secondo lei la crisi politica sfiorata ieri è superata?". Serafico replica: "vediamo se è superata".
Tutto questo non basta ai giornalisti che lo hanno seguito al "Bambino Gesù" e così il cardinale è "costretto" a parlare anche dei limiti etici della pubblicità. Non gli è piaciuto lo spot del "neonato gay". In proposito Bertone dice: "è una cosa strana, mi sembra che non sia il caso di arrivare a uno spot di quel genere".

Repubblica 25.10.07
COMMENTO
Democrazia e religione
di EZIO MAURO


"Finiamola". Con questo invito che ricorda un ordine il Cardinal Segretario di Stato della Santa Sede, Tarcisio Bertone ha preso ieri pubblicamente posizione contro l'inchiesta di Repubblica sul costo della Chiesa per i contribuenti italiani, firmata da Curzio Maltese. "Finiamola con questa storia dei finanziamenti alla Chiesa - ha detto testualmente il cardinal Bertone - : l'apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società". Per poi aggiungere: "C'è un quotidiano che ogni settimana deve tirare fuori iniziative di questo genere. L'ora di religione è sacrosanta".
Non ci intendiamo di santità, dunque non rispondiamo su questo punto. Ma non possiamo non notare come il tono usato da Sua Eminenza sia perentorio e inusuale in qualsiasi democrazia: più adatto a un Sillabo.
L'attacco vaticano riguarda un'inchiesta giornalistica che analizza i costi a carico dei cittadini italiani per la Chiesa cattolica, dalle esenzioni fiscali all'otto per mille, al finanziamento alle scuole private, all'ora di religione: altre puntate seguiranno, finché il piano di lavoro non sia compiuto.
Finiamola? E perché? Chi lo decide? In nome di quale potestà? Forse la Santa Sede ritiene di poter bloccare il libero lavoro di un giornale a suo piacimento? Pensa di poter decidere se un'inchiesta dev'essere pubblicata "ogni settimana" o con una diversa cadenza? E' convinta che basti chiedere la chiusura anticipata di un'indagine giornalistica per evitare che si discuta di "questa storia"? Infine, e soprattutto: non esiste più l'imprimatur, dunque persino in Italia, se un giornale crede di "tirar fuori iniziative di questo genere" può farlo. Salvo incorrere in errori che saremo ben lieti di correggere, se riceveremo richieste di rettifiche che non sono arrivate, perché nessun punto sostanziale del lavoro d'inchiesta è stato confutato.
La confutazione, a quanto pare, anche se è incredibile dirlo, riguarda la legittimità stessa di affrontare questi temi. Come se esistesse, lo abbiamo già detto, un'inedita servitù giornalistica dell'Italia verso la Santa Sede, non prevista per le altre istituzioni italiane e straniere, ma tipica soltanto di Paesi non democratici. In più, Sua Eminenza è il Capo del governo di uno Stato straniero che chiede di "finirla" con il libero lavoro d'indagine (naturalmente opinabile, ma libero) di un giornale italiano. Dovrebbe sapere che in Occidente non usa. Mai.
Stupisce questa reazione quando si parla non dei fondamenti della fede, ma di soldi. E tuttavia se la Chiesa - com'è giusto - vuole far parte a pieno titolo del discorso pubblico in una società democratica e trasparente, non può poi sottrarsi in nome di qualche sacra riserva agli obblighi che quel discorso pubblico comporta: per tutti i soggetti, anche quelli votati al bene comune. Anche questo è un aspetto della sfida perenne, e contemporanea, tra democrazia e religione.

Liberazione 25.10.07
Stavolta Prc, Sd, Pdci e Verdi fanno un netto passo avanti
Qualcosa a sinistra si muove
I partiti verso l'unità
di Angela Mauro


La federazione della sinistra comincerà a prendere forma nel giorno dell'Immacolata Concezione. E magari la coincidenza sulla data porterà bene. Chissà. Quello che è certo al momento è che l'8 e il 9 dicembre prossimi si riunirà l'assemblea nazionale della sinistra e degli ecologisti, ovvero l'appuntamento unitario lanciato tempo fa con il nome approssimativo di "stati generali della sinistra". Le modalità di partecipazione sono ancora da definire nel dettaglio, ma l'obiettivo è già chiaro: in quella sede dirigenti, militanti e iscritti del Prc, Sd, Pdci e Verdi si incontreranno con le associazioni, i movimenti, le reti della sinistra sociale per dare un segno tangibile di accelerazione nel percorso unitario intrapreso dalla primavera scorsa.
La convocazione dell'assemblea salta fuori da un vertice di oltre due ore tra Franco Giordano, Fabio Mussi, Oliviero Diliberto, Alfonso Pecoraro Scanio. Il primo incontro dei quattro dopo il successo della manifestazione del 20 ottobre, evento lanciato da Liberazione , il manifesto e Carta , che ha creato non pochi problemi nei rapporti tra i partiti della sinistra dell'Unione. E se i problemi sul corteo in sè si sono dissolti davanti allo spettacolo di un milione di persone in piazza, tanto che persino Mussi ha fatto autocritica rispetto alla scelta di non aderire («Sul 20 ottobre ho sbagliato», dice il leader di Sd in un'intervista ieri al manifesto ), resta sul percorso unitario tutta un'altra serie di ostacoli, che per certi versi si sono addirittura accentuati dopo l'evento di sabato scorso.
E così il vertice dei quattro cristallizza un indiscutibile asse Giordano-Mussi, decisi sulla via dell'unità (senza sciogliere le formazioni esistenti). Meno "disinibiti" (per così dire) appaiono invece Pecoraro e Diliberto che, per motivi diversi, preferiscono puntare sulla carta dell'identità di partito, pur non rinunciando all'interlocuzione e anche a iniziative comuni con gli altri partners a sinistra. Insomma, sembrerebbe che mentre per Prc e Sinistra Democratica i giochi sono fatti (pur restando più che aperta la partita con le resistenze interne, in entrambi i casi), Verdi e Pdci non chiudono (magari con l'intento, nel caso dei Comunisti Italiani, di "annettersi" i rifondaroli più scontenti del percorso unitario).
Oltre alla convocazione dell'assemblea nazionale di dicembre, il vertice partorisce l'intenzione di riempirla di contenuti, con una consultazione popolare («primarie, ma non sul leader», le chiama Diliberto) su «idee, proposte, programmi» della sinistra che verrà (probabilmente già a gennaio). Si costituirà inoltre un coordinamento nazionale, composto dai quattro leader e quattro rappresentanti per ogni partito, con l'incarico di gestire il percorso unitario. In vista dell'appuntamento di dicembre, un primo evento unitario si svolgerà il 10 novembre in piazza Farnese, proposta dei Verdi (accolta da tutti) per celebrare il ventennale del referendum che ha bandito il nucleare in Italia. Decisioni positive e importanti, concordano tutti i protagonisti. Difficile ottenere di più, visto che resta aperto il capitolo dei capitoli: la riforma della legge elettorale.

Liberazione 25.10.07
La sinistra si dà una data:
Assemblea l'8-9 dicembre Vertice dei leader dopo la piazza del 20 ottobre: a gennaio primarie sul programma
L'intenzione comune è di correre alle prossime elezioni con un unico simbolo della sinistra (un apposito gruppo di lavoro si occuperà di definirlo)
di Angela Mauro


L'intenzione comune è di correre alle prossime elezioni con un unico simbolo della sinistra (un apposito gruppo di lavoro si occuperà di definirlo). Ma non sfugge la sterzata partitista di Diliberto, lancia in resta, all'indomani del 20 ottobre, nella difesa di "Falce e martello", che, secondo il leader del Pdci, dovrebbe comparire anche nel contrassegno unitario della sinistra, dove potrebbe essere al massimo tramutata in un'altra icona che però rappresenti il mondo del lavoro. E' il massimo che il segretario dei Comunisti Italiani è disposto a concedere e non basta a fugare i dubbi che alla fine decida di presentare il Pdci con la propria Falce e martello alle elezioni, puntando sul fatto che potrebbe essere l'unica sulla scheda elettorale, se Rifondazione dovesse convergere sul simbolo unitario. Appunto: dipende dal sistema elettorale che regolerà le prossime elezioni e siccome, mentre il governo langue, la trattativa tra i poli è in stallo (con deboli segnali di accordo ieri sera), l'ultima parola non si può dire. Il permanere in vita del "Calderolum" potrebbe incentivare i Comunisti Italiani a correre da soli, l'entrata in vigore di un sistema alla tedesca con sbarramento potrebbe incoraggiarli alla corsa unitaria. Stesso ragionamento per i Verdi, restii ad abbandonare il Sole che ride per paura che possa essere arraffato dai Verdi di destra (ce ne sono, guardando al panorama europeo). E poi c'è il fattore Pd-Veltroni, da non sottovalutare come tentazione aggregativa tra i Verdi.
Saranno state anche queste resistenze a portare al risultato di "federare" e non "unire" i gruppi parlamentari dei quattro partiti, che ormai da tempo portano avanti battaglie emendative unitarie, l'ultima, soltanto agli inizi, sulla Finanziaria 2008. La federazione dei gruppi è un'altra delle decisioni prese nel vertice di ieri: per ogni materia rilevante all'esame dell'Aula verrà scelto un portavoce, a turno per ogni partito. L'unità dei gruppi avrebbe invece presupposto l'individuazione di un capogruppo in pianta stabile: si comprende che nelle condizioni date l'obiettivo non è parso a portata di mano.
Non dispera Fabio Mussi: «L'Ulivo ci ha messo 12 anni prima di arrivare a gruppi unici...». Per la sinistra il processo è solo iniziato, anche se in una fase che evidentemente non ammette ritardi. E' soddisfatto il segretario del Prc Giordano, conscio che l'unità è «un work in progress», che la macchina ormai è in moto e che di certo la grande manifestazione del 20 ottobre è stata chiave decisiva del processo.
Perchè, a sentire i Verdi, non era proprio scontato, prima di sabato scorso, che la sinistra unita avrebbe dato vita all'assemblea nazionale di dicembre. Niente affatto. Ma la piazza ha vinto le resistenze, almeno sull'appuntamento pre-natalizio. E al termine del vertice Pecoraro dichiara: «Siamo tutti convinti che una federazione, aperta anche a forze esterne ai partiti sia oggi un obiettivo comune». «L'esito del vertice va letto in chiave positiva», è certo anche Paolo Cento.
Resta da sciogliere il nodo sulle modalità di svolgimento dell'assemblea nazionale. I leader di Rifondazione e Sinistra Democratica non hanno dubbi sul modello social forum, per permettere una partecipazione di massa e paritaria tra rappresentanti di partito e dei movimenti. Ma al vertice di ieri Diliberto avrebbe espresso riserve anche su questo punto: troppo movimentista per la sua assoluta devozione alla forma partito, nutrita in questi giorni da revanscismi in chiave Urss (vista tutta la pubblicità sul suo prossimo viaggio a Mosca con comizio vicino alla Piazza Rossa nell'anniversario della rivoluzione d'ottobre). Mussi non si impicca alla discussione che «pure c'è - ammette - sulle modalità, ma sono bazzecole: alla fine sarà social forum con un primo giorno - ipotizza - di workshop e il secondo di plenaria». Entusiasta anche Carlo Leoni, deputato di Sd che vede nell'esito della riunione di ieri «l'avvio di un processo irreversibile che deve portare presto a un nuovo soggetto unitario della sinistra». Nel Prc Pietro Folena si complimenta con Mussi per l'autocritica sul 20 ottobre («Un'operazione politica sincera») e lancia l'idea di affiancare alle primarie sul programma anche quelle «sul simbolo e sul nome della Cosa rossa o rosso-verde».
Il treno per definire quella che un po' tutti chiamano già "La sinistra" è partito. Resta da vedere quanti non vorranno salirci: in Sd sono note le resistenze dei più vicini alla Cgil (criticata a sinistra per gli accordi sul welfare), nel Prc la Sinistra Critica di Cannavò lancia un proprio appuntamento con la «sinistra anticapitalista» proprio per l'8 e il 9 dicembre prossimo (e poi ci sono le resistenze dell'Ernesto). Ma sono quelli che in piazza il 20 ottobre non c'erano.

il manifesto 25.10.07
Genetica
L'incubo razzista di Silver e Watson
Non una «gaffe», ma un'ideologia praticata anche nella ricerca. Il progetto di «umanità gen rich», cui affidare definitivamente tutti i poteri
di Francesco Piccioni


Quel vecchio razzista di James Watson (il genetista) ne ha fatta un'altra delle sue, ricorrendo a vecchi e antiscientifici topoi per insinuare ancora una volta che i «neri» siano «meno intelligenti dei bianchi». Scandalo scontato, ma la memoria corta dei media non è riuscita a risalire a quando lo stesso Watson se ne uscì con l'idea che la genetica potesse aiutare a «fare più belle le donne». Come se l'aver meritato un Nobel costituisse anche una garanzia di superiore gusto estetico valido erga omnes.
Men che meno qualcuno si è messo a rimestare sui programmi di ricerca sponsorizzati dal vecchio wasp, tutti caratterizzati dall'idea di «poter far meglio della selezione naturale». Né sulla sua tendenza a convocare meeting semiclandestini con altri genetisti genial-pazzoidi, come quello di Long Island, marzo 2000, sulla «ripro-genetica»; ovvero la clonazione umana.
Su questa strada si è già camminato molto nella pratica scientifica, scatenando integralismi religiosi e timori incapaci di distinguere tra ricerca utile e sogno paranoide. Ma un dato è innegabile: la manipolazione genetica non richiede gli investimenti giganteschi della fisica nucleare (acceleratori di particelle lunghi decine di chilometri, ecc), si può fare quasi «nei sottoscala». Questo implica una caduta di controllo sociale, perché nella big science intervengono necessariamente gli Stati (mediatori istituzionali, anche se certo non immunizzati dalle follie), mentre nel secondo caso le imprese possono pasticciare a piacere, utilizzando ricercatori ambiziosi e molto a corto di scrupoli. Il problema è che la manipolazione genetica è estremamente vicina alla nostra vita, altamente insidiosa proprio nell'ideologia fascinosa costruita a suo supporto: «possiamo migliorare ritoccando qua e là il patrimonio di geni che trasmettiamo ai nostri figli». Nessuno sa dire quali controindicazioni implichi una qualsiasi manipolazione, ma la pura possibilità di un «miglioramento senza fatica della nostra discendenza» (fare figli più belli, atletici, ipervedenti, più svegli) è sufficiente a rendere il più intelligente degli uomini un beota da rinchiudere (per la salute di figli e nipoti).
Insieme a Lee Silver (Princeton) e Gregory Stock (Ucla), James Watson è uno dei profeti del «rifacciamo l'umanità», sciorinando un'ideologia che mescola disinvoltamente liberismo economico, darwinismo sociale, autonomia della scienza e delle tecnologie rispetto alle finalità (e al controllo) sociali. Insomma: quello che si può tecnicamente fare può esser fatto e commercializzato. Il problema è che questi dr. Stranamore sanno anche come farlo, hanno i rapporti con le aziende e quindi quel tanto di finanziamenti che serve.
Ma cosa vogliono fare? Il più esplicito e radicale degli allievi di Watson è Lee Silver, il quale ha pubblicato un libro-programma dal titolo inequivocabile, Remaking Eden, in cui la tecno-eugenetica esce fuori dall'angolo di infamia in cui era stata opportunamente rinchiusa dopo gli esperimenti di Mengele nei lager. Un vero inno al mito della «razza superiore» apparentemente velleitario dopo la sua confutazione scientifica. Ma proprio qui interviene la competenza «tecnica» dei Silver e dei Watson. Siccome non c'è, creiamola! In Remaking Eden si spiega come il dominio del mercato globale imponga una stratificazione sociale così complessa da poter essere governata soltanto da un'umanità che non esiste ancora: quella gen rich, geneticamente «arricchita». A questa andrebbero affidate le leve del potere in tutti i settori, mentre gli altri - i «normal» (e pare di avvertire in sottofondo il «sub-normal» di Frankenstein junior) - sono destinati a sgobbare e basta, senza troppe pretese.
Direte: beh, nell'umanità è sempre andata così. Vero. Ma attraverso un processo di selezione altamente conflittuale, con una mobilità . In questi tecno-eugenetici, invece, troviamo l'eternizzazione della separazione in due «razze umane» diverse, al limite impossibilitate ad incrociarsi per via sessuale (peggio di cavalli e asini, insomma). E' probabile che questo incubo sia irrealizzabile (la struttura del Dna non sembra modificabile sostituire un mattone qua e là,come nel meccano). Ma è certo che questi scienziati pazzi sono all'avanguardia nel loro campo. E che, quindi, possono provare a fare quello che hanno in testa. Giocando anche sul fatto che la manipolazione genetica è una possibilità scientifica totalmente nuova per l'umanità; e che le domande che la circondano sono spesso troppo mal formulate per poter sollecitare risposte adeguate. Ma il tempo stringe.

il manifesto 25.10.07
Dai villaggi a Shanghai, parole partigiane per nominare il mondo
Donne cinesi tra passato e presente. Tre romanzi per parlare, senza vittimismo, di una realtà spesso ignota
di Giulio Abbadie


La narravita contemporanea cinese scritta da donne viene fatta rientrare nella corrente letteraria definita «nuovo romanzo realista» (xin xieshi xiaoshuo): cinica ironia, crudezza dei fatti e narrativa minimalista, erotismo e intrighi. Li Ang, taiwanese classe 1952, considerata una esponente di spicco del movimento femminista cinese, nel suo La moglie del macellaio (Editrice Pisani, euro 14), mette a nudo la crudeltà dei rapporti uomo donna specie nei piccoli villaggi, in nome di un binomio, violenza e sesso, che rende il libro duro, crudo, quasi fastidioso nel suo procedere tra un'angheria e l'altra. Un macellaio abusa della moglie. La protagonista accetta lo scambio spietato: botte e abusi in cambio di cibo e un tetto. Fino alla soluzione devastante di commettere un omicidio liberatorio, perfino per il lettore. Da uno spunto di cronaca nera reale, La moglie del macellaio descrive molte verità della Cina rurale, ben lontana dai ritmi occidentali delle moderne metropoli.
In un'intervista durante un suo viaggio in Italia Li Ang ha provocatoriamente affermato che, in Cina, la parità tra uomo e donna si avrà solo nel momento in cui ci sarà la presenza degli uomini sul mercato della prostituzione, per una clientela femminile.
Sul mondo dell'eros e delle pratiche libertine e concubine cinesi è invece La Regina di Shanghai di Hong Ying, (Garzanti, euro 17,60). Un'altra storia vera ambientata nell'affascinante Shanghai, che tra i tanti soprannomi ha anche quello di puttana d'oriente, di inizio Novecento. Arti erotiche di una ragazza al centro di vicende oscure, in quel confine incerto tra politica, mafia e guanxii, i ganci, pietra angolare della socialità relazionale cinese, che fanno di un romanzo fintamente rosa, un'altra chiave di lettura di comprensione dei sentimenti cinesi seppure ambientata nella Cina di un secolo fa. La freddezza nei rapporti, l'utilitarismo sociale e la necessità di garantirsi ferme e durature amicizie. Stessi problemi affrontati, saltando ancora temporalmente alla Cina contemporanea, dalla protagonista di un altro romanzo scritto da una donna, L'occhio di Giada di Diane Wei Lang, insegnante di business management a Londra (Sperling & Kupfer, euro 18,50).
Si tratta del primo giallo in cui la protagonista è un'investigatrice privata a Pechino, con tanto di segretario maschio e auto, vero status symbol per ogni trentenne cinese che si rispetti (insieme all'appartamento). Un intrigo legato al ritrovamento di antichi tesori imperiali, spunto narrativo per offrire uno scampolo di descrizione dei rapporti sociali tra nuove e vecchie generazioni e ripescare il repulisti delle Guardie Rosse, in piena Rivoluzione Culturale, di antichi e preziosi reperti. Si dirà di omertà, difficoltà comunicative, omissioni: il reale effetto dei romanzi cinesi è quello di indagare mentalità, abitudini, gusti, idee che agli occhi di un occidentale focalizzano al meglio la scoperta di diversità comportamentali e sociali difficilmente intuibili.