lunedì 29 ottobre 2007

Repubblica 29.10.07
Finanziaria, la sinistra attacca sui precari
di Luisa Grion


Scontro nella maggioranza, diniani e Idv disertano il vertice al Senato
Il Pdci: bisogna stabilizzare tutti i contratti a tempo del pubblico impiego

ROMA - Il vertice era stato organizzato per ricompattare la maggioranza, ma una fetta della maggioranza non si è nemmeno presentata all´appuntamento. Ieri, alla riunione a Palazzo Madama dove governo e senatori del centrosinistra si dovevano incontrare per definire una linea comune su alcuni passaggi chiave della Finanziaria, si sono notate due assenze. Una per distrazione, l´altra per scelta.
La prima, quella dell´Italia dei Valori, è stata attribuita al caso: «C´è stato un disguido, nella nostra mancata partecipazione non c´è alcuna valenza politica», assicurano gli interessati. La seconda, quella dei diniani, la dice invece lunga sulle difficoltà che verranno. «Noi non andiamo a riunioni riservate, preferiamo esprimere il nostro giudizio direttamente in aula - ha detto il liberaldemocratico Natale D´Amico - già in occasione del decreto abbiamo visto che la gran parte delle proposte correttive avanzate dalla maggioranza in Parlamento tendevano ad accrescere questa o quella spesa, quando invece è necessario un maggior rigore finanziario».
I presupposti per vedere di nuovo agitarsi le acque della coalizione, dunque, ci sono tutti e le diverse facce del centrosinistra ieri hanno giocato al rimpallo. «Lavoriamo giorno e notte per trovare la quadratura, poi arriva il Di Pietro di turno e dice che la soluzione non gli piace», ha accusato Russo Spena, capogruppo del Prc al Senato. Cesare Salvi, capogruppo di sinistra democratica ha girato il coltello nella piaga: «Ogni volta che il governo è andato sotto sono mancati sempre i voti dell´Ulivo e non quelli della sinistra», ha detto.
Il quadro non si schiarisce anche perché - partita sugli incapienti a parte (i senatori Russo e Turigliatto con i voti compatti della opposizione hanno fatto passare un emendamento che raddoppia il valore del bonus da 150 a 300 euro, ma i fondi sono tutti da trovare) - ora si va aprendo un altro fronte, quello dei precari statali. Ieri, infatti, prima del vertice di maggioranza la sinistra radicale ha messo sul piatto una nuova irrinunciabile priorità: la stabilizzazione dei precari del pubblico impiego. «Bisogna risanare tutto il settore - ha detto Manuela Palermi, capogruppo del Pdci-Verdi a Palazzo Madama - i fondi ci sono, sono quelli già assegnati l´anno scorso. C´è una norma quest´anno che dice che nel pubblico impiego devono esserci solo contratti a tempo indeterminato. Quindi vanno stabilizzati i precari anche se quanti siano non lo sa neanche il governo».
Il dibattito all´interno della maggioranza, dunque, ferve più che mai: ieri la riunione di vertice doveva ufficializzare la copertura di 800 milioni per eliminare il ticket sulle diagnosi sanitarie, ma il tema non è stato nemmeno affrontato.

Corriere 29.10.07
Finanziaria, Idv e diniani disertano. L'ira di Rifondazione


ROMA — L'assenza dell'Italia dei valori dal vertice di ieri sera al Senato sulla Finanziaria «non ha significato politico». Parola di Nello Formisano. Di più: il responsabile nel gruppo misto di Palazzo Madama della piccola pattuglia targata Idv tiene a ribadire «pieno sostegno e totale adesione all'attività del governo e alla Finanziaria» del partito di Antonio Di Pietro. Che se si è presentato alla riunione è per un semplice disguido: «Sapevamo che la riunione era in commissione Bilancio, dove l'Italia dei valori non ha esponenti».
Forse tutto è davvero nato da un banale equivoco, come sembra confermare il sottosegretario Alfiero Grandi, anche se dall'Ulivo trapela che «le convocazioni erano state inviate a tutti i partiti della maggioranza ». Ma a farlo diventare un caso ci ha pensato il rappresentante di Rifondazione comunista, Giovanni Russo Spena, con una dichiarazione al vetriolo: «Noi lavoriamo ogni giorno, poi il Di Pietro di turno arriva e dice che non va bene. È un grosso problema, non vogliamo ritrovarci in una situazione come quando abbiamo votato l'emendamento sul Ponte sullo Stretto di Messina. C'è una pregiudiziale politica, perché una parte della maggioranza non partecipa ai lavori».
Così sul banco degli imputati, insieme all'Italia dei valori, finisce anche il gruppo di Lamberto Dini, che nei giorni scorsi, in piena bagarre al Senato sul decreto fiscale, aveva già minacciato: «D'ora in poi avremo le mani libere». E a poco vale il tentativo di sdrammatizzare l'assenza dei diniani, che «finora non hanno mai partecipato come gruppo a sé alle riunioni di maggioranza ». La replica dei senatori di Dini trasuda veleno. «Preferiamo dare il nostro giudizio nelle aule parlamentari e non in riunioni riservate».
Insomma, chi sperava in una prova di coesione della coalizione, dopo le sette sconfitte al Senato, nate tutte dentro la maggioranza, ha avuto una bella doccia fredda. A nulla, evidentemente, è servito il richiamo di Romano Prodi all'unità, seguito da un identico appello del segretario del partito democratico Walter Veltroni. E dopo quello del decreto fiscale, anche il cammino della Finanziaria si annuncia in salita. Nemmeno la sinistra radicale, del resto, si presenta arrendevole. Al vertice di ieri ha messo sul tavolo questa priorità: stabilizzare i precari del pubblico impiego (che non si sa nemmeno quanti siano). Una richiesta che già si può intuire quante allergie susciterà fra i cosiddetti centristi. Il capogruppo della Sinistra democratica, Cesare Salvi, ha chiesto al governo una relazione tecnica per capire l'entità delle risorse necessarie. E non ha esitato a sottolineare la compattezza del suo schieramento e le divisioni del principale gruppo dell'Unione: «Ogni volta che il governo è andato sotto, sono mancati sempre i voti dell'Ulivo e non quelli della sinistra».
Presto ci sarà l'occasione per mettere di nuovo alla prova questa tesi. Prima della nuova colluttazione, il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, parlando a Domenica in, aveva annunciato misure più facili per il riscatto previdenziale della laurea da parte dei giovani, con la possibilità che a pagare, in 120 mesi senza interessi legali e deducendo il 19% dalle imposte, siano i genitori.

l’Unità 29.10.07
Il processo al filosofo e la Chiesa in una bella lettura di Augias
Giordano Bruno brucia ancora
di Lorenzo Buccella


Brucia ancora Giordano Bruno. Nonostante i «rammarici» post-datati giunti dalle tonache ufficiali della Chiesa e le contrizioni parziali dilazionate nel tempo. Brucia ancora, visto che le parole di quell'eretico «impenitente», finite nel fuoco assieme al suo corpo in un febbraio romano del 1600, finiscono ancora oggi per far da torcia simbolica davanti a polemiche che attraversano il mondo contemporaneo. Per carità, cambiano metodi e maniere, ma non certo l'irritazione verso le scomodità di un pensiero difforme che dirotta i sensi comuni, sovvertendo le vulgate cardinali delle autorità. E a darcene traccia, ricongiungendo le pupille strabiche del tempo in un racconto che ritrasporta l'esempio estremo del passato sulle punte dell'oggi, ci può anche pensare la semplicità scabra di un leggio e di uno sgabello piantonati in mezzo al palcoscenico di un teatro. Com'è successo l'altra sera all'Herberia di Rubiera (Reggio Emilia) dove, in anteprima nazionale, l'aplomb divulgatore di un Corrado Augias ha ripercorso gli ultimi spigoli di vita di Giordano Bruno nello spettacolo Le fiamme e la ragione.
Dalla formazione religiosa del monaco-filosofo, avviata su strade irregolari rispetto ai dogmi del tempo, alla prima denuncia veneziana d'eresia, per poi scivolare nel tunnel dei 22 interrogatori in cui s'inabissano gli otto anni del processo, prima di arrivare alla condanna definitiva. Quel rogo di Campo de' Fiori con tanto di morsa alla lingua, divenuto improrogabile per l'insistenza del «no» di fronte alle richieste d'abiura. Del resto, perché mai rinunciare a sostenere che l'universo è infinito e che Copernico ci aveva imbroccato sulla non-centralità della terra, se tutte le più intime convinzioni ti portano là? Il tempo, galante ma tragicamente ritardatario, darà ragione, ma intanto l'immediato impone altre risposte: «forse con più tremore annunciate voi la sentenza rispetto a quanto ne abbia io nell'accoglierla». Fila più o meno così la frase storica di Bruno che farà da esergo a tutti i martirii per la libertà di pensiero. E che la ripresa di questo omicidio voglia uscire dal semplice pugno di un episodio shock, lo testimonia l'intero telaio didattico su cui Augias fa girare il racconto, prendendo in mano lo spago della storia. Con tanto di flashback all'indietro e salti in avanti, testimoniati fin dall'incipit riservato a Galileo Galilei, sospeso 33 anni dopo Bruno, e qui saldato idealmente sul fronte di quel pensiero moderno che la Chiesa post-tridentina, agitata da un secolo di scissioni, cercò di esorcizzare nella maniera più intransigente. Da lì, il viaggio è svelto per andare a stanare la lunga scia di eredità che mette insieme Locke, Newton e Voltaire. Tutti annodati in quella convergenza di pensiero che vede la libertà della fede inscritta soltanto nella sfera intima del singolo, mentre al quaderno dei doveri dello Stato viene asportata ogni sorta di ingerenza etica. Il solito doppio binario dialettico, da sempre a rischio di dirottamenti, tanto da indurre a un'esplicita confessione delle ragioni che hanno riportato Giordano Bruno a teatro. Augias le butta lì in coda alla lettura come una sorta di post-it morale. Qui e là, nel «lontano» delle culture del mondo dove la mancata divisione tra reato e peccato pone l'emergenza che episodi del genere si ripetano, così come nel «vicino» della nostra Chiesa dove affiora la nostalgia verso il magistero di un papa buono come Giovanni XXIII, aperto a quelle forme di dialogo che le alte sfere ecclesiali di oggi sembrano invece disdegnare nella loro chiusura a riccio contro il nuovo nemico, quel tanto «deprecato» relativismo culturale.

l’Unità 29.10.07
Le Monde: l’Unità sarà il giornale del Pd?


ROMA Il valore storico di un giornale come «l’Unità» è comprovato anche dall’interesse che suscita. Ed ecco che delle nostre vicende si è occupato l’autorevole quotidiano francese «Le Monde» ponendo, ad attacco di pezzo, il quesito dei quesiti: «L’Unità sera-t-il le journal de référence du nouveau parti démocrate?» (L’Unità sarà il giornale di riferimento del nuovo Partito democratico?). L’interrogativo, secondo il quotidiano d’Oltralpe, si è posto ai delegati del Pd riuniti a Milano per la Costituente, dopo le notizie apparse sulla stampa circa la vendita del giornale fondato da Antonio Gramsci al gruppo Tosinvest della famiglia Angelucci. Secondo «Le Monde» gli Angelucci, proprietari di un consorzio di cliniche private, nonché di Libero e del Riformista, investirebbero più di 20 milioni di euro nell’acquisto. Il quotidiano francese registra lo sconcerto dei delegati a Milano «per il cinismo di un editore di giornali su posizioni opposte» e l’amarezza di Veltroni che «non ha buoni rapporti con gli Angelucci», aggiungendo che «suoi amici industriali avevano nei mesi scorsi fatto degli approcci».

Aprile on line 26.10.07
Se L'Unità diventa come Libero!
di Gianni Rossi


Oggi il maggior giornale della sinistra rischia di finire nelle mani di un gruppo imprenditoriale-editoriale, che fa capo alla famiglia Angelucci, proprietaria della società Tosinvest, quotata in Borsa, che gestisce tra l'altro una fitta rete di cliniche private, oltre ad editare il quotidiano "di destra" Libero e un altro un po' più di centrosinistra, come Il Riformista

Qualcuno sta mettendo le mani sull'Unità, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci e che fu per oltre 70 anni l'organo del Partito comunista italiano, fucina di giornalismo moderno e battagliero, strumento a suo tempo di "alfabetizzazione politica" e di propaganda capillare. Oggi il maggior giornale della sinistra rischia di finire nelle mani di un gruppo imprenditoriale-editoriale, che fa capo alla famiglia Angelucci, proprietaria della società Tosinvest, quotata in Borsa, che gestisce tra l'altro una fitta rete di cliniche private, oltre ad editare il quotidiano "di destra" Libero e un altro un po' più di centrosinistra, come Il Riformista.
Nella trattativa, che al momento non è ancora chiaro a quale punto si trovi ( forse lunedì prossimo nell'incontro tra la società editoriale che gestisce il quotidiano e il CDR si dovrebbe venire a conoscere lo stato della situazione!), circolano voci di cifre piuttosto consistenti circa la valutazione del giornale: addirittura 50 milioni solo per gestirne l'affitto della testata!

L'allarme nella redazione e nei settori culturali e politici della sinistra è forte e ben motivato. Quale l'interesse editoriale e politico da parte di una società mista, impegnata nello sviluppo della sanità privata e fortunata editrice di un quotidiano davvero singolare nel panorama della stampa conservatrice, quale senso affaristico gettarsi in un'impresa così lontana dalle sensibilità politiche e culturali finora espresse?

Hanno ragione quelli del Comitato di Redazione del quotidiano che si domandano con preoccupazione: "Quale può essere il destino dell'Unità avendo come proprietario lo stesso di Libero, il giornale corsaro del centrodestra e del Riformista? Non sarebbe un paradosso che finirebbe per segnare l'identità e lo stesso destino dell'Unità? Quale può essere la logica editoriale di questa operazione siglata, non certo a caso, proprio alla vigilia della nascita del Partito democratico?". E così uno dei membri del CDR, Roberto Monteforte mette le mani avanti ed avanza delle garanzie ai probabili nuovi compratori ( che stando ad alcune indiscrezioni potrebbero essere anche altri, oltre agli Angelucci):" Senza seguire tutte le possibili dietrologie dei "per chi e dei contro chi" dell'operazione, vanno ribaditi alcuni punti fermi, validi per chiunque sia alla testa della nostra editrice, Nie.
Intanto l'autonomia dell'Unità e di chi ci lavora va tutelata come bene prezioso per la libera informazione di questo paese. E' un bene che non è in vendita.
E' importante che l'Unità viva, quindi sono necessarie strategie editoriali e risorse che ne consentano lo sviluppo, garantendo anche l'occupazione e la dignità dei suoi dipendenti.
Ne va garantita la sua collocazione storica nel panorama della stampa democratica, come pure la sua vocazione di giornale nazionale.".

Garanzie che a parole, ne siamo sicuri, ogni nuovo acquirente che si affaccerà alle porte della redazione, giurerà di osservare! Ma ben sappiamo come nella prassi, nella storia delle testate "comprate e vendute", appena i riflettori caleranno la luce sull'evento, ecco che prenderà corpo la nuova linea politica-editoriale del proprietario unico. Basti pensare, per non andare troppo lontano, al caso del Wall Streeet Journal, comprato a suon di dollari dal "pescecane" Murdoch. Dopo appena un paio di mesi, tutti gli osservatori e gli stessi giornalisti si sono accorti come la linea politica ed economica del maggiore quotidiano finanziario del mondo sia cambiata, nonostante le assicurazioni fornite dal magnate australiano.
Solo un "editore puro" o una cordata di imprenditori e banchieri di riconosciuta posizione ideale e politica vicina alle tesi del Partito Democratico potrebbe fornire garanzie di autonomia e libertà di azione all'Unità. Ma ci sono in giro, nel panorama mediatico depresso italiano, queste figure?
Se lo domandano sia Roberto Cullo, responsabile del settore media per i DS, sia Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21. Per entrambi la vendita dell'Unità alla famiglia Angelucci andrebbe ritenuta " una evidente follia editoriale, ancor prima che politica". Per Giulietti, inoltre: "L'eventuale acquisto non deriverebbe certo da una condivisione per la storia passata e presente del quotidiano e della sua redazione. Ho la sensazione che i padri fondatori del giornale si stanno rivoltando nelle loro tombe e forse anche i viventi dovrebbero far sentire la loro voce ed impegnarsi nella ricerca di nuove soluzioni, a cominciare da quegli imprenditori che si dicono assai interessati al progetto dei democratici e al pluralismo delle idee''.
Ecco, ma chi potrebbero essere questi "cavalieri bianchi" che dovrebbero venire in soccorso della "Bandiera rossa" storica del giornalismo di sinistra? Di banchieri favorevoli al progetto politico del PD veltroniano ce ne sono molti: Banca Intesa, San Paolo-IMI, Unicredit-Banca di Roma, Unipol-Monte Paschi di Siena. Alcuni di questi già detengono quote significative nei "patti di sindacato" di altre autorevoli testate nazionali, eppure nessuno si è fatto avanti, nemmeno quegli amministratori delegati o mega-direttori generali che pubblicamente si sono espressi a favore del neonato Partito Democratico, tanto di essere anche andati a votare alle Primarie.
Cosa succede allora? E' piuttosto semplice e al tempo stesso squallido: si aspetta che L'Unità entri nel vortice delle difficoltà finanziarie, dovute anche ai progetti comunque costosi per riorganizzarla e potenziarla, per poi trovare un accordo sotterraneo con i nuovi proprietari, fornendo loro la necessaria copertura finanziaria e, quindi, "da lontano" determinare la nuova linea politica-editoriale del giornale in funzione critica contro Veltroni e il suo progetto complessivo.

Se questo è lo scenario, allora tutta la sinistra, dal PD ai Comunisti italiani, passando per Sinistra Democratica, Rifondazione e Verdi, devono fare opera di pressione, affinché vengano tutelate la storia, la linea editoriale-culturale-politica e la completa autonomia ideativi del giornale, oltre a rafforzarne la diffusione editoriale e l'autonomia della redazione. Il destino dell'Unità è un bene che deve interessare tutti i democratici e coloro che credono fermamente nel pluralismo, un concetto altrettanto valido per gli altri quotidiani "liberi e senza collari", come Manifesto, Liberazione ed Europa. Mettere ora la testa sotto la sabbia o girarsi dall'altra parte, per meri interessi di "bottega", sarebbe deleterio, per quanto potrebbe accadere in futuro anche agli altri giornali del centrosinistra senza editori industriali e finanziari alle spalle.
E visto come si stanno mettendo le cose nel panorama politico della tenuta del governo Prodi, con gli squilli di trombe elettorali e di sfaldamento dell'Unione, ci sembra più che necessario fronteggiare qualsiasi ipotesi di ridimensionamento politico-ideale proprio nella libera stampa indipendente.

il Riformista 29.10.07
Berlino rossa. Non è vero che non ci fu resistenza
La classe operaia che non si arrese al Terzo Reich
di a.b.


«Berlino resterà rossa»: con questa militante affermazione, nella quale più che la retorica di partito riecheggia un disperato ottimismo, il presidente della Spd Otto Wels concluse il comizio di protesta che l'organizzazione socialdemocratica di Berlino aveva organizzato il 7 febbraio 1933 nella capitale tedesca per protestare contro Hitler e la sua "presa illegale del potere per vie legali"

«Berlino resterà rossa»: con questa militante affermazione, nella quale più che la retorica di partito riecheggia un disperato ottimismo, il presidente della Spd Otto Wels concluse il comizio di protesta che l'organizzazione socialdemocratica di Berlino aveva organizzato il 7 febbraio 1933 nella capitale tedesca per protestare contro Hitler e la sua "presa illegale del potere per vie legali". In effetti Berlino (e la Prussia dell'ultimo grande capo socialdemocratico dell'età di Weimar, Otto Braun) era da sempre stata un bastione del movimento operaio e socialdemocratico e a differenza da quanto era accaduto in altre regioni e città tedesche, aveva opposto una accanita resistenza all'avanzata del partito nazista. Ancora una settimana dopo la Machtergreifung nazista, di fatto sancita il 31 gennaio 1933 dalla nomina di Hitler a Cancelliere del Reich da parte del generalissimo von Hindenburg, la Spd si era mostrata in grado di portare in piazza oltre 200mila manifestanti: il che vuol dire un numero doppio rispetto a quello costituito dai suoi iscritti. (Invece, a differenza di quanto comunemente si ritiene, il numero degli iscritti alla Kpd, il partito comunista tedesco, restò sempre di gran lunga inferiore rispetto a quello del partito "riformista", infatti gli iscritti non superarono mai la cifra di 15mila). Di più: nelle elezioni del successivo 15 marzo 1933, nonostante la brutale repressione messa in atto dai nazisti e nonostante il clima di violenza e di terrore scatenato usando come pretesto l'incendio del Reichstag dolosamente provocato dai nazisti alla fine di febbraio di quello stesso fatale 1933, la Ndsap, il partito di Hitler, ottenne a Berlino "solo" il 34,6% dei consensi (nel centro della città il dato fu addirittura ancora peggiore, appena del 31,3%). E questo mentre nel resto del paese i voti raccolti dai nazisti furono mediamente di dieci punti percentuali superiori, del 43,9%.
Ancora un anno dopo, nel referendum che si tenne il 19 agosto del 1934, ben 570mila berlinesi, grosso modo il 20% dell'elettorato, si schierarono con il "no" mandando un clamoroso segnale in controtendenza rispetto al resto del paese dove i "sì" superarono mediamente il 90%. Certo, a poco a poco, grazie alla spietata pratica di arresti in massa, di durissime misure repressive e imponendo lo scioglimento dei partiti, dei sindacati e di tutte le organizzazioni direttamente o indirettamente legate al movimento operaio, il regime riuscì in qualche modo a "normalizzare" anche Berlino costringendo alla clandestinità quanti al rischio della galera e della vita decisero di resistere proseguendo il lavoro politico nella illegalità. Tale lavoro consistette principalmente nella diffusione di materiale propagandistico antinazista come volantini e manifesti, e nella di raccolta di denaro per aiutare le famiglie di quanti erano stati arrestati o erano stati costretti a riparare all'estero. Un'altra parte del lavoro clandestino svolto dalle organizzazioni della sinistra berlinese puntò a diffondere notizie relative alla condizione operaia in fabbrica e alle difficili situazioni economiche delle componenti più deboli del proletariato della capitale, informazioni che ovviamente la censura del regime cercava sistematicamente di bloccare anche per impedire che giungessero all'estero grazie alla collaborazione di altre organizzazioni antifasciste delle resistenza europea.
A partire dal 1943, quando dopo Stalingrado lo spettro della sconfitta militare del regime divenne tra la popolazione una concreta prospettiva, si moltiplicarono i casi di sabotaggio della produzione industriale. Sabotaggi che ovviamente non riuscirono neppure lontanamente a danneggiare o a inceppare la colossale macchina da guerra dell'economia del III Reich e che tuttavia però rappresentarono un gesto di sfida percepito dal regime come assolutamente intollerabile e che per questo venne spietatamente represso. Per chiunque fosse stato anche solo sospettato di simili azioni di "tradimento", la pena di morte era una condanna certa. Il più delle volte decretata per vie assolutamente illegali come le sentenze da processi condotti dinnanzi ai tribunali militari. Ovviamente anche nelle file dell'opposizione clandestina si registrarono clamorosi casi di tradimento favoriti dell'azione di sistematica infiltrazione di agenti provocatori messa in atto dalla Gestapo. A metà degli anni '30 furono migliaia i berlinesi che erano stati membri o simpatizzanti della Spd o della Kpd che vennero arrestati e nella maggior parte dei casi bestialmente torturati per strappar loro confessioni e nomi. Oltre duecento tra uomini e donne appartenenti alla sinistra berlinese furono condannati a morte mentre a centinaia furono quelli che vennero uccisi senza alcun processo. Un numero che si accrebbe paurosamente negli anni finali della guerra.
Una ricerca appena pubblicata (Hans-Reiner Sandvoß: Die "andere" Reichshauptstadt. Widerstand aus der Arbeiterbewegung in Berlin von 1933 bis 1945, Lukas Verlag, Berlin 2007, 668 pagine) dedicata , come suona il titolo, alla ricostruzione della vicenda per lo più sconosciuta o dimenticata della "altra Berlino", quella della resistenza al nazismo negli anni del III Reich, dal 1933 al 1945. Il merito dell'indagine consiste in una minuziosa ricostruzione delle attività sviluppate dall'opposizione clandestina e del lavoro illegale messo in atto da tutte le frazioni e correnti che formavano il movimento operaio berlinese. E questo al di là di ogni enfasi retorica nel giudizio del loro ruolo e della loro importanza. Ovviamente la parte principale dell'azione di resistenza venne sviluppata dalle organizzazioni legate alla Spd e alla Kpd, ma la vera sorpresa che si incontra leggendo la ricerca è rappresentata dall'importante, rilevante contributo dato dai gruppi e dalle formazioni di sinistra per così dire "minori" come pure dalle organizzazioni antinaziste indipendenti. Dall'indagine risulta inoltre che questi gruppi "minori" risultarono relativamente molto più resistenti e impermeabili all'azione di inquadramento ideologico sviluppato dal regime che non le grandi organizzazioni e poiché svilupparono l'azione di lavoro illegale in modo molto più circospetto e attento rispetta a quello messo in atto dai membri della Kpd risultarono molto più difficili da infiltrare da parte della Gestapo. L'esistenza di una diffusa opposizione al regime, ci dice la ricerca, solitamente trovava modo di manifestarsi approfittando dei funerali di noti dirigenti politici della sinistra o di quanti erano caduti sotto i colpi dei nazisti. Un caso in questo senso clamoroso fu quello dei funerali di Clara Bohm-Schuch, una deputata socialdemocratica molto popolare e amata dal popolo di sinistra, che si tennero il 24 marzo del 1936. Secondo la testimonianza di uno dei partecipanti riportata nella ricerca, «la sala del crematorio riuscì a stento a contenere solo una parte di quanti avevano seguito la bara. Oltre cinquemila socialdemocratici berlinesi si raccolsero in silenzio nel piazzale antistante. Tutti portavano un mazzo di colorati fiori primaverili. D'un tratto come per un segreto tam-tam passando di mano in mano sopra la testa degli astanti i fiori furono spinti verso la bara. E così un'onda colorata attraversò il piazzale e un mare di fiori ricoprì letteralmente la bara».
Anche se in una città di quasi quattro milioni di abitanti, tanti ne contava la Berlino degli anni '30, solo poche decine di migliaia furono quelli che ebbero il coraggio di opporsi a Hitler e solo qualche migliaia ebbero il coraggio di passare alla clandestinità, tuttavia questa realtà smentisce definitivamente la tesi secondo la quale nella Berlino del III Reich non sia esistita alcune resistenza operaia e socialista al nazismo e che la città (e la Prussica) si siano incondizionatamente consegnate a Hitler. Come conclusivamente osserva l'autore, la tesi di una corruzione sociale e politica da parte di Hitler e del suo regime non trova «almeno nel caso della classe operaia berlinese alcuna conferma scientificamente attendibile».

domenica 28 ottobre 2007

Repubblica 28.10.07
La Cosa Rossa risponde alle dichiarazioni del sindaco di Roma. Mussi: non può pensare di farcela da solo
Giordano: “Non ci spaventi, vai con Dini se vuoi”
di Carmelo Lopapa


Sul Manifesto Parlato mette in conto le elezioni: non ci fa male un po' di opposizione

Basta con le «alleanze con dentro tutto e il contrario di tutto». Presto o tardi, al voto il Pd andrà solo con chi sarà d´accordo, anche partiti dello zero virgola qualcosa, ma con chi condividerà davvero il suo programma. Altrimenti, alle urne meglio soli. Il partito «correrà qualche rischio e coltiverà la sua vocazione maggioritaria fino in fondo» ha avvertito il leader Veltroni in uno dei passaggi più applauditi e condivisi dalla base «democratica» di Milano. Un pensiero rivolto al futuro ma che ha avuto tutto il sapore del monito agli alleati più riottosi e soprattutto a quella sinistra radicale che meno ha condiviso negli ultimi mesi le politiche riformiste del governo su pensioni e precariato, ma anche sulla politica estera. Tanto è vero che proprio dai leader dell´ala sinistra della coalizione l´uscita e la «pretesa autosufficienza», come viene bollata, è stata accolta a dir poco con gelo. Non si illuda, non potrà prescindere da noi, è il senso delle prime reazioni.
Si prenda ad esempio il segretario del Prc Franco Giordano. Ha gradito assai poco «gli aut aut dal sapore propagandistico: non ci spaventano affatto. Col Pd saremo pronti a un confronto a tutto campo, con loro è sfida aperta, ma vorremmo sapere qual è il suo programma. Come avremmo voluto sapere da Veltroni cosa pensa della necessità di riequilibrare i redditi più bassi, sottolineata dal governatore di Bankitalia Draghi. Per non dire della legge elettorale per la quale fino a ieri sembrava ci fosse una prevalenza di interesse per il sistema tedesco. Detto questo - ha rincarato il segretario di Rifondazione - se Veltroni ha voluto dire che è pronto ad andare con Dini, Mastella, Di Pietro, bene. Li ritiene più affidabili? Faccia pure».
Perplesso anche il leader dei Comunisti italiani, Oliviero Diliberto. «Gli auguri più sinceri a un alleato fondamentale, che tuttavia per raggiungere la maggioranza non potrà comunque prescindere dalla forza organizzata della sinistra in Italia che è grande, come dimostrato il 20 ottobre». Stupore da parte di Fabio Mussi e dai suoi della Sinistra democratica per quella «autosufficienza programmatica ed eventualmente elettorale del nuovo soggetto: il Pd non può pensare di farcela da solo». Ben lontano dalla sinistra della coalizione, pure Antonio Di Pietro non sottoscrive alcuna promessa di alleanza per il futuro con Veltroni. «Dipenderà da ciò che il Pd vuole fare, visto che è di fronte ad un bivio e deve scegliere se stare con i moderati riformatori o con la sinistra massimalista».
Posto di fronte a quel bivio, ieri uno degli intellettuali di maggior peso della sinistra italiana, Valentino Parlato, ha suggerito nel suo editoriale sul «Manifesto» di imboccare la strada che porta a sinistra. Quand´anche portasse dritto alle elezioni e al ritorno all´opposizione. «Piuttosto che perseverare nell´agonia, bisogna mettere nel conto il rischio delle elezioni anticipate. E ove andassero male, un passaggio all´opposizione delle forze di sinistra non sarebbe una disgrazia». Ma si riparta pure dall´opposizione, lancia la sfida anche il direttore di «Liberazione», Piero Sansonetti: «Tanto ci siamo stati per una vita, ma a patto di tornare al voto solo dopo una riforma della legge elettorale che elimini questo finto e dannoso bipolarismo».

l’Unità 28.10.07
Afghanistan, storie di bambini all’inferno
di Umberto De Giovannangeli


STORIE di bambini di strada, di bambini-soldato reclutati a forza, di bambini costretti a trasformarsi in kamikaze, di bambine costrette a subire abusi ed essere poi ripudiate da mariti ottantenni. Sono le storie raccolte da «Child Alert», rapporto stilato da Martin Bell, ambasciatore Unicef per le emergenze umanitarie
Nel rapporto un quadro angosciante: i bambini sono le prime vittime degli attacchi suicidi

Il primo diritto di un bambino è il diritto alla vita, un diritto negato in Afghanistan in misura sempre maggiore. Un grido d’allarme accorato. Una ricostruzione documentata, con testimonianze angoscianti. Tutto ciò è «Child Alert», il rapporto sui bambini coinvolti nella guerra in Afghanistan redatto da Marin Bell, ex corrispondente di guerra della Bbc, ambasciatore dell’Unicef (l’agenzia per l’infanzia delle Nazioni Unite) per le emergenze umanitarie. Durante una guerra, rileva Bell, i bambini possono trovarsi sotto il fuoco incrociato più di qualsiasi altro gruppo, a eccezione degli stessi combattenti. Sono curiosi e desiderosi di conoscere. Giocano per strada e si assembrano nei luoghi affollati. Sono particolarmente vulnerabili a due tecniche usate dai ribelli in Iraq e poi in Afghanistan: gli attacchi suicidi e i congegni esplosivi improvvisati, anche noti come «roadside bombs» (bombe collocate sul ciglio della strade). Durante secoli di conflitti - nota nel rapporto l’ambasciatore dell’Unicef - gli attacchi suicidi non sono mai stati usati in Afghanistan, mentre adesso vengono impiegati regolarmente dai talebani e altri gruppi, soprattutto contro veicoli militari e convogli internazionali. Una caratteristica tipica degli attacchi ai convogli è che fanno più vittime tra i civili innocenti, soprattutto i bambini, che tra i bersagli designati. I soldati sono armati, viaggiano in veicoli corazzati e sono protetti dall’armatura. I bambini non hanno alcuna protezione. È quello che è avvenuto - ed è solo di uno dei tanti episodi di sangue citati nel rapporto - il 15 giugno 2007, a Tirin Kot, nella provincia di Urzugan: 12 bambini sono rimasti uccisi quando un kamikaze si è schiantato con la sua auto contro un convoglio militare nei pressi del cortile di una scuola. Ma si può essere vittime in diversi modi.
Un aspetto particolarmente allarmante del conflitto in Afghanistan è l’impiego dei bambini come combattenti, come bambini soldato o come kamikaze. Il rapporto ricorda la vicenda di Ahmed, un bambino di sei anni che indossò un giubbotto esplosivo convinto con l’inganno che «premendo un bottone avrebbe lanciato dei fiori». Si è salvato perché, confuso, chiese aiuto ai militari afghani. O il tragico episodio, documentato da un video, di un bambino che decapita un adulto, durante un’esecuzione compiuta dai talebani. Si stima che in Afghanistan ci siano 60mila bambini bisognosi e bambini di strada, mentre le cifre della mortalità infantile sono impressionanti: nel 2006 ogni giorno sono morti quasi 900 bambini sotto i cinque anni. I programmi per il ritorno a scuola dei bambini, che avevano accelerato il passo tra il 2002 e il 2005, si sono bloccati e, in alcune zone si è addirittura evidenziata un’inversione di tendenza. Le bambine sono particolarmente colpite a causa degli attacchi dei ribelli alle scuole femminili e alle alunne stesse. Nei primi sei mesi dell’anno ci sono stati 44 attacchi a scuole. Secondo il ministero dell’Istruzione, almeno un milione di bambine in età scolare, pari al 35% di tutte le bambine, non sono iscritte a scuola. «Nonostante i piani e le proposte, i progetti e i partenariati - è la inquietante conclusione del rapporto «Child Alert» - i milioni di dollari versati per gli aiuti allo sviluppo e il sostegno militare, e i molti Paesi che lavorano e lottano per portare la pace e il progresso in Afghanistan, i talebani si sono nuovamente rafforzati, la ribellione dilaga e l’insicurezza si diffonde in tutto il Paese. Aumentano le scuole che chiudono e i bambini che vengono uccisi. E le famiglie, soprattutto nelle province meridionali più colpite dal conflitto, non possono essere raggiunte dagli aiuti umanitari». Le ultime parole non vanno lasciate cadere nel vuoto. «È veramente il momento di agire o cedere».

Corriere della Sera 28.10.07
Il mercato uccide le democrazie
di Eric Hobsbawm


ANTICIPAZIONE L'allarme dello storico inglese: le privatizzazioni indeboliscono le istituzioni e la politica
Decadono gli Stati nazionali. E così l'unità di Italia, Spagna e Gran Bretagna è a rischio

Oggi «il popolo» è il fondamento e il punto di riferimento comune di tutte le forme di governo statali eccetto quella teocratica.
E ciò non è soltanto qualcosa di inevitabile, ma è qualcosa di giusto, perché per avere un qualunque scopo il governo deve parlare in nome e nell'interesse di tutti i cittadini.
Nell'epoca dell'uomo comune, ogni governo è un governo del popolo e per il popolo, anche se chiaramente non può essere, in nessun senso funzionale, un governo esercitato direttamente dal popolo. Tale principio non si basa solo sull'egualitarismo dei popoli, che non sono più disposti ad accettare una posizione di inferiorità in una società gerarchica governata da uomini superiori «per diritto naturale», ma anche sul fatto che finora i sistemi sociali, le economie e gli Stati nazionali moderni non hanno potuto funzionare senza l'appoggio passivo, ma anche la partecipazione attiva e la mobilitazione, di moltissimi dei loro cittadini.
Questo principio rappresenta l'eredità del XX secolo. Ma sarà ancora la base dei governi popolari, incluso quello liberaldemocratico, nel XXI? La mia tesi è che la fase attuale dello sviluppo capitalistico globalizzato lo sta minando alle radici, e che ciò avrà — anzi, sta già avendo — serie implicazioni per quanto riguarda la democrazia liberale come viene intesa oggi. L'odierna politica democratica, infatti, si fonda su due assunzioni, una morale — o, se preferite, teorica — e l'altra pratica. Moralmente parlando, essa richiede il supporto esplicito del regime da parte della maggioranza dei cittadini, che si presume costituiscano il grosso degli abitanti dello Stato. Ma per quanto fossero democratici gli ordinamenti in vigore per la popolazione bianca nel Sudafrica dell'apartheid,un regime che privava permanentemente del diritto di voto la maggior parte della sua popolazione non può essere considerato come democratico. Gli atti con cui si esprime il proprio assenso alla legittimità di un sistema politico, come votare periodicamente alle elezioni, possono essere poco più che simbolici. Di fatto, è da molto tempo un luogo comune tra i politologi dire che solo una modesta minoranza di cittadini partecipa costantemente e attivamente alla vita del proprio Stato o di un'organizzazione di massa. Ciò torna a vantaggio di coloro che comandano; e, in effetti, è da tempo che i pensatori e i politici moderati si augurano la diffusione di un certo grado di apatia politica. Ma questi atti sono importanti.
Oggi ci troviamo di fronte a un'evidentissima secessione dei cittadini dalla sfera della politica. La partecipazione alle elezioni appare in caduta libera nella maggior parte dei Paesi liberaldemocratici. Se le elezioni popolari sono il primo criterio di rappresentatività democratica, in che misura è possibile parlare di legittimità democratica per un'autorità eletta da un terzo dell'elettorato potenziale (la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti) o, come è avvenuto di recente per le amministrazioni locali britanniche e il Parlamento europeo, da qualcosa come il 10 o il 20 per cento dell'elettorato? O per un presidente americano eletto da poco più di metà del 50 per cento degli americani che hanno diritto di voto?
Sul lato pratico, i governi dei moderni Stati nazionali o territoriali — qualunque governo — si basano su tre presupposti: primo, che abbiano più potere di altre unità operanti sul loro territorio; secondo, che gli abitanti dei loro territori accettino, più o meno volentieri, la loro autorità; e terzo, che tali governi siano in grado di fornire ai cittadini quei servizi ai quali non sarebbe altrimenti possibile provvedere, perlomeno non con la stessa efficacia (come «legge e ordine», per riprendere un'espressione proverbiale).
Negli ultimi trenta o qua-rant'anni, questi presupposti hanno progressivamente perso la loro validità. In primo luogo, pur essendo ancora di gran lunga più potenti di qualunque rivale interno, anche gli Stati più forti, più stabili e più efficienti hanno perso il monopolio assoluto della forza coercitiva, non ultimo grazie alla marea di nuovi strumenti di distruzione portatili, oggi facilmente accessibili ai piccoli gruppi dissidenti, e all'estrema vulnerabilità della vita moderna di fronte agli sconvolgimenti improvvisi, per quanto leggeri possano essere. In secondo luogo, hanno iniziato a vacillare anche i due pilastri più solidi di un governo stabile, ossia (nei Paesi che godono di una legittimità popolare) la lealtà dei cittadini e la loro disponibilità a servire gli Stati, e (nei Paesi dove questa legittimità popolare manca) la pronta obbedienza a un potere statale schiacciante e indiscusso. Senza il primo pilastro, le guerre totali basate sulla coscrizione obbligatoria e sulla mobilitazione nazionale sarebbero state impossibili, così come sarebbe stata impossibile la crescita degli introiti erariali degli Stati fino all'odierna percentuale dei Pil (introiti che possono oggi superare il 40 per cento del Pil in alcuni Paesi e il 20 per cento anche negli Stati Uniti e in Svizzera). Senza il secondo pilastro, come ci mostra la storia dell'Africa e di ampie regioni dell'Asia, piccoli gruppi di europei non avrebbero potuto mantenere per generazioni il controllo sulle colonie a un costo relativamente modesto.
Il terzo presupposto è stato minato non solo dall'indebolimento del potere statale ma anche, a partire dagli anni Settanta, da un ritorno, tra i politici e gli ideologi, a una critica dello Stato basata su un laissez-faire
ultraradicale, secondo la quale il ruolo dello Stato stesso dev'essere ridimensionato a tutti i costi. Questa critica afferma, più per una sorta di fede teologica che non sulla base di evidenze storiche, che ogni servizio che le autorità pubbliche possono fornire o è qualcosa di indesiderabile, oppure potrebbe essere fornito in modo migliore, più efficiente e più economico dal «mercato». A partire da quel periodo, la sostituzione dei servizi pubblici con servizi privati o privatizzati è stata massiccia. Attività caratteristiche di un governo nazionale o locale come gli uffici postali, le prigioni, le scuole, l'approvvigionamento idrico e anche i servizi assistenziali e previdenziali sono stati ceduti a (o trasformati in) imprese commerciali; i dipendenti pubblici sono stati trasferiti ad agenzie indipendenti o rimpiazzati con subappaltatori privati. Anche alcune parti dell'apparato bellico sono state subappaltate. E, naturalmente, il modus operandi delle aziende private — che mirano alla massimizzazione dei profitti — è diventato il modello al quale ogni governo aspira a uniformarsi. E nella misura in cui ciò avviene, lo Stato tende a fare affidamento su meccanismi economici privati per sostituire la mobilitazione attiva e passiva dei propri cittadini. Allo stesso tempo, è impossibile negare che nei Paesi ricchi del mondo gli straordinari trionfi dell'economia mettono a disposizione della maggior parte dei consumatori più di quanto i governi o l'azione collettiva abbiano mai promesso o fornito in tempi più poveri.
Ma il problema sta proprio qui. L'ideale della sovranità del mercato non è un complemento, bensì un'alternativa alla democrazia liberale. Di fatto, esso è un'alternativa a ogni sorta di politica, poiché nega la necessità di decisioni politiche, che sono esattamente le decisioni sugli interessi comuni o di gruppo in quanto distinti dalla somma di scelte, razionali o meno che siano, dei singoli individui che perseguono i propri interessi personali. Si aggiunga che il continuo processo di discernimento per scoprire che cosa vuole la gente, processo messo in atto dal mercato (e dalle ricerche di mercato), deve per forza essere più efficiente dell'occasionale ricorso alla grezza conta elettorale. La partecipazione al mercato viene a sostituire la partecipazione alla politica; il consumatore prende il posto del cittadino. Francis Fukuyama ha di fatto sostenuto che la scelta di non votare, così come la scelta di fare la spesa in un supermercato anziché in un piccolo negozio locale, «riflette una scelta democratica fatta dalle popolazioni. Esse vogliono la sovranità del consumatore». Senza dubbio la vogliono, ma questa scelta è compatibile con ciò che abbiamo imparato a considerare come un sistema politico liberaldemocratico?
Così, lo Stato territoriale sovrano (o la federazione statale), che forma la cornice essenziale della politica democratica e di ogni altra politica, è oggi più debole di ieri. La portata e l'efficacia delle sue attività sono ridotte rispetto al passato. Il suo comando sull'obbedienza passiva o il servizio attivo dei suoi sudditi o cittadini è in declino. Due secoli e mezzo di crescita ininterrotta del potere, del raggio d'azione, delle ambizioni e della capacità di mobilitare gli abitanti degli Stati territoriali moderni, quali che fossero la natura o l'ideologia dei loro regimi, sembrano essere giunti al termine. L'integrità territoriale degli Stati moderni — ciò che i francesi chiamano «la Repubblica una e indivisibile» — non è più data per scontata. Fra trent'anni ci sarà ancora una singola Spagna — o un'Italia, o una Gran Bretagna — come centro primario della lealtà dei suoi cittadini? Per la prima volta in un secolo e mezzo possiamo porci realisticamente questa domanda. E tutto ciò non può non influire sulle prospettive della democrazia.

L'autore e le opere
Timori e interrogativi oltre il «Secolo brev
Il testo pubblicato in questa pagina è un estratto dal nuovo libro di Eric Hobsbawm «La fine dello Stato» (traduzione di Daniele Didero, pagine 123, e 9) in uscita il 7 novembre per Rizzoli.
Il volume raccoglie e rielabora alcuni testi in cui lo storico britannico discute problemi cruciali del nostro tempo, dal destino delle nazioni al futuro della democrazia, fino alle nuove forme assunte dalla violenza politica
Eric Hobsbawm, nato ad Alessandria d'Egitto da genitori ebrei austriaci, ha compiuto novant'anni lo scorso 9 giugno. Vive dal 1933 in Gran Bretagna, dove presiede il Birkbeck College dell'Università di Londra
Storico di formazione marxista, ha acquisito una grande notorietà internazionale con i suoi studi sull'età contemporanea: «Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848» (Laterza), «Il trionfo della borghesia. 1848-1875» (Laterza), «L'età degli imperi. 1875-1914» (Mondadori), «Il secolo breve. 1914-1991» (Rizzoli). La sua opera più recente tradotta in Italia è «Imperialismi» (Rizzoli)
Francis Fukuyama, Norbert Elias e Moisés Naím sono alcuni degli autori di cui Hobsbawm discute le tesi nei saggi contenuti all'interno del volume «La fine dello Stato».
Il brano pubblicato qui accanto è tratto da una conferenza tenuta dallo storico britannico al club Athenaeum di Londra

Corriere della Sera 28.10.07
Bernstein, no alla religione «male dell'umanità»
Un esordio a 96 anni. Contro l'intolleranza che alza i muri
di Alessandra Farkas


I ricordi dal ghetto di un bimbo

NEW YORK — Harry Bernstein era felicemente sposato da ben 68 anni quando nel 2002 sua moglie Ruby morì. «Senza di lei ero talmente perso che contemplai il suicidio — racconta Bernstein —. Esplorai vari modi per farla finita ». Invece, si ritrovò a scrivere: «Come forma di terapia. Perché quando sei vecchio e ti sembra di non avere né presente né futuro, puoi sempre rifugiarti nel passato».
Il risultato è Il muro invisibile, lo straordinario esordio di uno scrittore classe 1910 che a 96 anni ha visto il suo primo libro tradotto in ben sette lingue e in testa alle classifiche inglesi, americane e ora anche italiane. Il memoir (edito in Italia da Piemme) racconta la storia di Harry, bambino di quattro anni, figlio di immigrati ebrei fuggiti ai pogrom dell'Europa orientale, che cresce in una strada di una cittadina industriale inglese, Stockport, divisa in due da un muro invisibile: da una parte, gli ebrei; dall'altra, i cristiani.
I critici l'hanno definito un «natural born writer», paragonando il suo Muro a Le ceneri di Angela, il bestseller di Frank McCourt sulla sua infanzia nei bassifondi di Limerick, in Irlanda. «È un confronto che non regge — ribatte l'autore —. Nel primo capitolo Frank parla del rapporto sessuale tra sua madre e suo padre quando lui non era ancora nato. La sua è una autobiografia ricca di licenze poetiche».
Per Bernstein, al contrario, i ricordi sono tutti vissuti. «La nostra parte del muro era un ghetto in miniatura — racconta —. Se entravamo nei negozi cristiani, i bottegai sussurravano "piccoli ebrei maledetti". Quando iniziammo ad andare a scuola, le bande di ragazzi anglosassoni più grandi ci mettevano in un angolo urlando: "Chi ha ucciso Gesù?"».
L'era del «politically correct» era lontana. Uno dei fratelli di Harry che sogna di diventare giornalista viene ricevuto a Manchester dal direttore di un giornale che lo esorta a non fargli perdere altro tempo: «Nessun giornale inglese assumerà mai un ebreo — lo redarguisce —. Limitati ai mestieri che vi appartengono: sartorie, mercati e banchi di pegno».
Ma l'ostilità e l'intolleranza erano reciproche. «A casa ci avevano insegnato che, nel passare davanti ad una chiesa, dovevamo sputare. Eravamo convinti che i cristiani fossero inferiori.
" Loro" erano operai nelle fabbriche e indossavano zoccoli ferrati, "noi" eravamo sarti e avevamo, o aspiravamo ad avere, scarpe di vera pelle».
Il piccolo Harry vorrebbe abbattere quei tabù e così si offre di portare messaggi d'amore proibito tra una giovane Giulietta ebrea e il suo Romeo cristiano, dall'altra parte del muro. «Quando li scoprirono, lei fu picchiata a sangue dal padre e spedita in Australia ». Più tardi, quando anche la sorella maggiore di Harry, Lily, si innamora di un ragazzo cristiano, Arthur, sua madre osserva il rituale periodo di lutto di sette giorni, detto Shiva. «Mamma lasciava entrare soltanto uno "shabbos goy" dentro casa per accendere il fuoco il venerdì sera — spiega lo scrittore —. Sposare un cristiano per lei equivaleva ad esser morti». Dietro tanta bigotteria si celava una tragica ironia: «Cristiani ed ebrei erano accomunati da una povertà estrema ed insieme irriducibile che mi costringeva a dormire in un letto insieme ai miei due fratelli maschi, schivando i loro calci per tutta la notte».
Mamma Ada, analfabeta, è costretta a fare l'elemosina per mandare avanti la casa praticamente da sola, visto che il marito è alcolizzato, violento e latitante. Intanto detta lettere da spedire ai suoi parenti in America, implorandoli di mandarle i soldi per permettere alla famiglia di espatriare negli Stati Uniti e a lei di fuggire dal terribile consorte.
Quando Harry compie 12 anni i Bernstein riescono finalmente ad emigrare a Chicago, nello stesso povero quartiere ebraico dove vive il grande Saul Bellow. Nel secondo volume della sua autobiografia, non ancora completato ed intitolato The Dream, Bernstein esplorerà proprio questi «anni americani». «È un titolo ironico — racconta —. Dall'Inghilterra la povertà ci seguì nel nuovo mondo. Mamma morì nel 1940 in un monolocale senza riscaldamento del Bronx. Aveva 65 anni e il motivo del decesso, sul certificato di morte, era malnutrizione ». Una tragica fine che Bernstein imputa soprattutto al padre. «Mamma lo sposò per pietà perché sapeva della sua drammatica infanzia — spiega —. Aveva cominciato a lavorare a cinque anni in Polonia e a sei era stato abbandonato dai suoi genitori. A 12 era alcolizzato. Lei cercò più volte di lasciarlo ma alla fine lui ritornava con la coda tra le gambe e lei lo perdonava sempre».
La lezione più importante del libro, secondo l'autore, è «il danno commesso in nome della religione». La prima cosa che fece arrivando in America è stata rifiutarsi di fare il bar mitzvah. «Ho capito che la religione è il peggior male inflitto alla razza umana. Finché avrà presa nella mente delle persone, non vi sarà pace sulla terra. E infatti i muri invisibili, oggi, non si contano».
«Penso a quello tra israeliani e palestinesi, tra neri e bianchi e tra americani e messicani» afferma Bernstein. Che rivela di voler completare la sua trilogia con Eulogy for Ruby: un libro dedicato alla moglie — conosciuta ad un rally del partito comunista — e alla sua decennale attività di correttore di bozze per Hollywood. «Avrò 98 anni o forse 100. Terminerò il libro e poi lascerò che la natura faccia il proprio corso. Questo è l'unico frammento di vita che non posso presagire: la mia morte».

Corriere della Sera 28.10.07
Dal Marocco allo Yemen, le voci represse dell'altra metà del cielo
Un verso vi seppellirà, e addio ai veli neri
Le poetesse arabe sfidano la censura in nome della libertà e di eros
di Dario Fertilio


Confessano d'aver peccato, le poetesse di lingua e cultura araba tradotte e raccolte in antologia da Valentina Colombo. Loro colpa è essersi ribellate all'ortodossia coranica, alla dittatura maschilista, all'ideologia della sottomissione e del silenzio, alle millenarie regole sacrali del fare versi, alla repressione degli istinti sessuali e degli slanci del cuore.
Sono testimonianze estreme, dunque, le loro, che esprimono sentimenti ugualmente radicali ed escludono richieste di perdono. Strofa dopo strofa, le protagoniste di «Non ho peccato abbastanza » (Oscar Mondadori, pagine 286, e 9) scagliano parole come pietre, sotto forma di versi lirici, appassionati e spesso sensuali, qualche volta disperati, ma anche duri, non di rado irridenti nei confronti dell'universo maschile; e per farlo si espongono ogni giorno a tutte le possibili conseguenze, incluse la censura, le perdite del posto, le persecuzioni, persino le minacce di morte. Scrivono, insomma, in uno slancio estremamente femminile di dedizione totale, con una specie di sereno coraggio che non conosce mezze misure. Così alzano la voce, le poetesse del mondo arabo (islamiche, cristiane, agnostiche, inclassificabili), soprattutto per scuotere i loro compagni, fratelli, padri, figli e amanti, per risvegliare chi si è smarrito nel sonno dogmatico delle abitudini coraniche e dell'ortodossia, chi nega per pigrizia o conformismo l'autonomia e la personalità giuridica delle donne, chi accetta di seppellire la splendida, divina differenza di genere sotto una coltre— purtroppo non solo simbolica — di veli neri. E dunque «Non ho peccato abbastanza» si collega idealmente a un'altra antologia, «Basta! », dedicata dalla stessa curatrice pochi mesi fa alle testimonianze dei musulmani liberali.
Le personalità delle poetesse chiamate da Valentina Colombo a comporre questa antologia sono — e probabilmente rimarranno a lungo — sconosciute ed esotiche agli occhi degli occidentali. Così della irachena Nazik al Malaika o della emiratina Zhabiya Khamis, della bahrenita Hamda Khamis o della libanese Joumana Haddad, giungono fino a noi, evocate dai loro versi, soltanto immagini sfocate, imprecise, tanto da impedirci spesso di decifrarne i nomi, individuarne le origini, ritrovare sulla carta geografica i luoghi dove vivono e soffrono. Eppure, nel momento stesso in cui ci si abbandona al ritmo dei loro versi, si viene colti dalla sensazione di conoscerle molto bene, da sempre, queste donne. Provano rabbia, disperazione, lutto ma soprattutto amore, spesso esagerato ed eccessivo rispetto al suo oggetto, però caparbiamente deciso a non lasciarsi intimidire e ad esprimersi sino in fondo, contravvenendo a tutte le regole correnti dell'Islam. Perché, come ricorda la curatrice dell'antologia, le ventinove poetesse che rappresentano un'area geografica e culturale vastissima, dal Marocco all'Iraq, dalla Siria allo Yemen, commettono già scrivendo un triplice sacrilegio. In quanto donne, di per sé tenute al silenzio; perché seguaci aperte del dio eros, in tutti i luoghi e in tutti i tempi refrattario alle imposizioni delle dottrine; e infine come dissacratrici della rigida tradizione metrica araba, condizionata dall'idea della lingua coranica.
Impariamo anche, immergendoci in questa antologia, che le ispiratrici di un simile universo poetico portano i nomi di Endhuanna e Lilith. La prima, sacerdotessa sumera del terzo millennio prima di Cristo, seppe infrangere tutti i cliché letterari dell'epoca con le sue composizioni nell'alfabeto cuneiforme; la seconda, nota come demone notturno in una tradizione mesopotamica giunta fino a noi, è l'archetipo della donna che non accetta di sottomettersi all'uomo. Ma al di là di forme e simboli, è proprio la loro ricerca incessante dell'altro da sé, cioè dell'uomo libero, il principio maschile in grado di renderle complete, che le poetesse arabe arrivano a concepire, quindi affermare e infine difendere la loro idea di libertà.

Aprile on line 27.10.07
Le beatificazioni oggi in Spagna
Il revisionismo della Chiesa
di Marco Mazzi


Domenica il pontificato di Benedetto XVI compirà un atto che, nel suo simbolismo, conferma la visione integralista della Chiesa romana in questo momento.
La beatificazione di 500 religiosi e religiose morti durante la Guerra Civile in Spagna (in particolar modo nei primi mesi successivi al pronunciamento dei militari), svolta nel silenzio sulle connivenze del clero spagnolo con i militari insorti, svolta nel momento in cui il Partito Popolare ed il clero spagnolo insorgono contro la Legge sulla memoria - voluta da Zapatero per riportare al loro posto nella memoria degli spagnoli quelli che caddero e soffrirono in difesa del legittimo governo repubblicano - assume il carattere di una sfida che richiede una pacata risposta.
Indubbiamente gli eventi successivi al 18 luglio del 1936 provocarono sofferenze e videro compiere atti inumani da entrambe le parti.
(...)
Ma chi vuol ricordare quei caduti non può esimersi di raccontare qual'era il comportamento della stragrande maggioranza del clero spagnolo; spesso nelle cittadine (soprattutto rurali) "liberate" dai Tercios o dai sanfedisti carlisti era il parroco che indicava ai fascisti chi doveva essere arrestato e
fucilato. Spesso e volentieri si trattava dei sindaci socialisti o repubblicani, dei dirigenti dell'UGT o della CNT che si erano opposti al linciaggio della furia popolare. Era lui che accompagnava i carabineros a togliere alle "sgualdrine" repubblicane - ritenute incapaci di educare i figli - i bambini per chiuderli negli istituti. Erano loro i quadri dirigenti di quella "Quinta Colonna" che il generale Mola - non l' NKVD - dichiaravano essere l'alleato principale degli insorti che premevano su Madrid.
Questa era la maggiorana della Chiesa spagnola, principale proprietaria terriera di un Paese dove lo slogan "Tierra y libertad" fu la domanda su cui si mobilitarono i cafoni per contrastare gli eserciti fascisti.
Certo, quei cinquecento religiosi non dovevano essere uccisi per il semplice fatto di essere religiosi. Ma ricordarli vuol dire non tacere sui cinquecentomila spagnoli morti dal 1936 al 1945 (duecentomila i fucilati, i caduti sul fronte della guerra, i morti per stenti e malattie nelle prigioni
e nei campi di lavoro e rieducazione) , negli anni più duri del franchismo, solo perchè leali nei confronti del legittimo governo repubblicano.
Il passare del tempo non può determinare una notte in cui tutte le vacche sono bigie.
Ricordare è un dovere.
(...)

sabato 27 ottobre 2007

l’Unità 27.10.07
Legge elettorale
D’Alema: «Scegliere il modello tedesco
accompagnato da riforme costituzionali»


Le riforme, istituzionali e della legge elettorale, sono «necessarie», Silvio Berlusconi «non vuole» perché «vede il miraggio delle elezioni», ma questo danneggia il paese. Lo dice il vice-premier Massimo D’Alema, in una intervista al Tg1.
«Le riforme sono necessarie, questa legislatura ha come missione le riforme, chi si oppone produce un danno al paese». Bisogna «correggere una legge elettorale sbagliata e fare anche alcune riforme della Costituzione». «Berlusconi non vuole, - aggiunge - vede il miraggio delle elezioni, è alla ricerca di una rivincita personale. Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con gli interessi del Paese».
Per D’Alema una riforma istituzionale che «accompagni» quella elettorale, dovrebbe contemplare, tra l’altro il primo ministro eletto dal Parlamento, la sfiducia costruttiva, una sola Camera legislativa e una che rappresenti le regioni.
«Credo che il massimo consenso vada al modello tedesco che ha il vantaggio di ridurre la frammentazione. Credo che possa essere accompagnato anche da riforme costituzionali» aggiunge il vicepresidente del Consiglio.
Tra le riforme, D’Alema indica la possibilità di avere una Camera con funzione legislativa e una che rappresenti le Regioni e la sfiducia costruttiva. Insomma quella che disegna D’Alema è una riforma complessa non solo elettorale ma anche costituzionale che quindi richiede la ricerca di un’ampia maggioranza ma anche tempi abbastanza lunghi.
Da D’Alema anche una battuta sulla immediata attualità politica in questi giorni in cui il dibattito politico è tutto orientato sulla tenuta del governo: «Un chiarimento politico è necessario: il presidente del Consiglio lo ha chiesto e ritengo abbia ottenuto un primo risultato».

l’Unità 27.10.07
L’appello. Lettera aperta ai costituenti del Pd sul futuro de «l’Unità»
L’assemblea dei redattori


Caro Prodi, caro Veltroni,
cari Costituenti,
oggi è un giorno speciale per voi, per il centrosinistra italiano, ma sono giorni complicati per l’Unità, che è una delle voci più autorevoli e articolate di questo stesso centrosinistra. Oggi il futuro del giornale pare molto incerto, con prospettive per alcuni aspetti inquietanti. Molti giornali e molti osservatori parlano di noi e si pongono, come noi, delle domande: davvero arrivano gli Angelucci, proprietari di Libero? E qual è il loro progetto? Quali garanzie ci danno gli eventuali nuovi editori in termini di autonomia del giornale e per ciò che concerne la sua collocazione storica?
Sono, noi crediamo, domande legittime. Che ora rivolgiamo anche a voi: non credete che la costruzione del Partito democratico abbia ancora bisogno - nella sua pluralità - di una voce come quella de l’Unità, che abbia ancora bisogno di muoversi all’interno di un panorama dell’informazione in cui non vengano meno pezzi importanti, proprio in un momento di costruzione e di crescita come questo? Non credete che ci sia bisogno di voci forti, che rispondano a progetti editoriali chiari, e che pure i lettori abbiano diritto di sapere con limpidezza che lingua parla il loro giornale?
Per quanto ci riguarda, in questo quadro ribadiamo alcuni punti fermi, validi per chiunque si ponga alla testa della società editrice del giornale. Intanto l’autonomia dell’Unità e di chi ci lavora, che va tutelata come bene prezioso per la libera informazione di questo paese. È un bene che non è in vendita. Sono necessarie strategie e risorse che consentano lo sviluppo del giornale, garantendo anche l’occupazione e la dignità dei suoi dipendenti. Ne va garantita la collocazione storica nel panorama della stampa democratica, come pure la sua vocazione di giornale nazionale.
La presidente della Nie, Marialina Marcucci, in un’intervista fa intendere che i giochi sono ancora aperti. Vi sarebbero più soggetti interessati ad entrare nel capitale azionario del giornale. Eppure, dettagliate ricostruzioni giornalistiche ci dicono altro. Ci dicono che l’accordo preliminare con gli Angelucci è già stato firmato, e che sono in corso tutte le verifiche tecniche del caso.
Il quadro è confuso. Lunedì il Cdr avrà un chiarimento diretto con la presidente del Cda, si spera esauriente. Quello che però appare chiaro è che l’azienda ha bisogno di capitali freschi, e altrettanto evidente è come negli ultimi mesi il giornale abbia continuato a «galleggiare» senza opportuni investimenti, senza il rilancio promesso, senza cogliere appieno tutte le opportunità che una fase storica come quella della nascita del Partito democratico poteva offrire.
Ci si augura che presto emergano novità. Che altri si facciano sentire, che si mettano in atto tutte le iniziative volte a favorire ulteriori investimenti nell’Unità, sapendo che il mercato ha già dato segno di valutare positivamente le potenzialità d’espansione del giornale.
Il fatto è, cari costituenti, che l’Unità è un giornale vivo. È, e vuole continuare ad essere, anche il vostro giornale. È dentro il dibattito politico. Continua a rappresentare una ricchezza per il pluralismo dell’informazione, una voce libera tanto più necessaria oggi, con un quadro politico così in fibrillazione. Quale può essere il destino dell’Unità, se il suo editore è lo stesso di Libero? Quale può essere la logica editoriale di questa operazione siglata, non certo a caso, proprio alla vigilia della nascita del Partito democratico? Quali garanzie vengono date ai redattori de l’Unità, ai suoi lettori e al centrosinistra nel suo complesso? È in gioco la vita stessa de l’Unità. La difenderemo con determinazione. Questa non è solo la nostra battaglia, è la battaglia di tutti.

Repubblica 27.10.07
Destra & sinistra
Che cosa vuol dire aver perso l’identità
di Massimo L. Salvadori


Tramontano le vecchie distinzioni. Ma crescono le sfide. Un saggio di Marco Revelli
Oggi nel mondo dominano nuove oligarchie onnipotenti
La politica, dice l´autore, ha perso il suo supporto materiale
I due termini sono ben presenti nel linguaggio pubblico

Marco Revelli è uno studioso che nel suo impegno intellettuale mette passione. Lo si vede anche nel suo ultimo libro, Sinistra Destra. L´identità smarrita (Laterza, pagg. 272, euro 15), che potrebbe altresì intitolarsi, mi pare, «Avventure e disavventure della Sinistra e della Destra verso l´ignoto». Un saggio vivo e interessante.
Il compito ch´egli si è posto è triplice: identificare Sinistra e Destra nei loro valori fondanti e contenuti concettuali; seguire tappe significative della loro evoluzione; ragionare su che cosa ne resta in un mondo come l´attuale il quale presenta tratti del tutto inediti rispetto al passato. L´interrogativo che alla fine incombe è il seguente: una volta smarrite le rispettive identità, cosa rimane, quale il disordine, e quali i compiti possibili di una Sinistra che molti suppongono stia conoscendo la scomposizione finale dei tratti che la storia le aveva in passato conferito?
L´intrigo, insomma, con cui Revelli si misura è che da un lato i termini di destra e sinistra restano ben presenti nel linguaggio pubblico, ma dall´altro la loro identità è, appunto, «smarrita», mentre cresce, magmatico, il centro. Di fronte alla possibilità di una ricostruzione delle identità, Revelli, per prudenza, preferisce tacere, poiché vede l´ostacolo: l´enorme difficoltà dei soggetti, a partire da quello amato, la Sinistra, di ridarsi forma e riprendere sostanza nel mondo globalizzato.
La Destra e la Sinistra hanno costituito le loro tavole contrapposte - ricostruisce l´autore - secondo questi essenziali tratti identificativi. Da una parte la bandiera del progresso, il significato positivo conferito al divenire, il valore dell´eguaglianza, dell´autodirezione, della democrazia, l´approccio razionalistico e progettuale nella lotta per cambiare le cose, l´amore per il logos; dall´altra la bandiera della conservazione, l´appello ai beni della tradizione, il valore delle diseguaglianze, dell´eterodirezione, degli ordinamenti gerarchici, l´ostilità al razionalismo accusato di antistoricità, l´amore per il mythos. Questi i modelli staticamente tratteggiati; modelli che poi nel farsi concreto della storia hanno subito contaminazioni e incroci.
Per addentrarsi nelle vicende di siffatti modelli e relative contaminazioni, Revelli si appoggia per la destra alle classificazioni di René Rémond, per la sinistra di Georges Lefranc. E ne ricava l´individuazione di tre destre e tre sinistre. Le destre sono quella tradizionalista, che si caratterizza nel senso di un intransigente inegualitarismo e assolutismo; l´orleanista, che recupera il senso della storia ma ambisce a gestire il movimento senza sostanziali mutamenti nel segno della continuità, piega liberalismo e elementi di democrazia al primato delle buone élites; la bonapartista, la destra anomala che usa la rivoluzione e il suffragio universale contro le istituzioni parlamentari, vuole le masse nazionalizzate nello Stato autoritario, distrugge sia le sinistre sia le altre destre.
Ed ecco le sinistre: la liberale e parlamentare, che intende l´eguaglianza in maniera «relativamente ristretta», è nemica dei privilegi artificiali, si estende dalla borghesia agli strati inferiori, è individualista, affida la sua rappresentanza alle minoranze acculturate e professionalizzate; la sinistra democratica, rispecchiata dapprima nella costituzione giacobina del 1793, la quale patrocina in via di principio l´accesso di tutti alla partecipazione politica, tende ad assumere un tratto iperpolitico per il ruolo che affida al governo dei virtuosi contro i suoi nemici; la sinistra egualitaria, sociale, che, partendo da Jacques Roux, da Babeuf e Maréchal e arrivando a Marx e Lenin, oppone i ricchi ai poveri, i borghesi ai lavoratori, persegue il grande salto dall´eguaglianza formale alla sostanziale, la mobilitazione delle masse contro gli sfruttatori, la proprietà comune, l´autodeterminazione del popolo e in attesa che questa sia matura ne affida la causa alla dittatura dei pochi.
Fissate le categorie, indicati i grandi tipi della sinistra, Revelli - che, e non capisco perché, sorvola sulle sinistre che hanno scritto la storia della seconda metà dell´Ottocento e del Novecento, vale a dire il socialismo rivoluzionario e riformista, la socialdemocrazia e il comunismo al potere, il socialismo liberale (che hanno, tra l´altro, offerto esempi di tante «contaminazioni») - corre al mondo d´oggi, all´ultimo Novecento «quando - scrive - il dibattito su destra e sinistra subisce una brusca modificazione», in cui la vecchia grammatica non appare più in grado di servire alla coniugazione del discorso politico e sociale e la distinzione tra destra e sinistra viene vieppiù giudicata obsoleta.
Sia che un Alex Langer esca a dire che il movimento ecologista non può essere né di destra né di sinistra, un Chistopher Lasch che le distinzioni tra destra e sinistra si sono ridotte a dissensi tattici, o un Anthony Giddens che troppe cruciali questioni nel mondo non portano segni leggibili con le vecchie categorie e che, defunto il socialismo come «teoria di gestione dell´economia, una delle principali linee divisorie tra destra e sinistra è scomparsa», ebbene la questione dell´identità smarrita, naturalmente anche della destra ma soprattutto della sinistra, giganteggia perché il panorama storico e sociale è qualitativamente mutato.
E che sia così mutato Revelli, a mio avviso giustamente, concorda, e spiega a sua volta perché. Con l´avvento della fase postindustriale che in misura crescente riduce il peso della classe operaia e del lavoro dipendente nelle forme tradizionali, si è spezzato il tradizionale cordone ombelicale tra il soggetto economico-sociale e la sinistra politica organizzata tesa a dirigerlo e a costruire un nuovo ordine. Con la crisi dello Stato nazionale in quanto spazio politico definito della dialettica conflittuale destra-sinistra, ha preso il sopravvento la dimensione dello spazio globalizzato indefinito, in cui grandeggiano «le nuove oligarchie onnipotenti» che dominano finanza, industria, allocazione delle risorse, mezzi di comunicazione. In conseguenza, «è davvero la politica ad aver perduto il proprio supporto materiale». Svuotati la sovranità dello Stato, l´autonomia della politica dalle sfere della moralità e dell´economia, i diritti universali, democrazia e legittimità quali fondamenti del potere. In luogo dello spazio solido degli Stati determinati è andato costituendosi un immenso universale spazio liquido, nel quale «la dinamica egualitaria», anima costitutiva e trainante della sinistra conosce un processo di sospensione e persino di rovesciamento.
Il quadro delineato da Revelli nel descrivere il mondo globalizzato, con molti riferimenti a Ulrich Beck e Zygmunt Bauman, credo colga bene le tendenze di fondo, ma credo anche che egli, nel farlo, prema troppo l´acceleratore nel ritenere dissolta la sovranità degli Stati non soltanto piccoli e medi ma anche grandi e nel vedere il potere delle oligarchie dominanti collocarsi, per effetto della «rivoluzione spaziale», al di sopra del globo in posizione di piena autonoma dalla politica. A mio giudizio, le cose stanno in parte sostanziale altrimenti. Né gli Stati Uniti, né la Russia, la Cina, l´India, l´Unione Europea si configurano come realtà statali in cui il potere politico abbia cessato di detenere un sostanzioso potere. Quanto alle grandi oligarchie economiche, esse sì agiscono al di là di ogni confine, ma hanno baricentri che si innervano nei grandi Stati, con le quali mantengono rapporti organici. Mirano in molti casi, e con successo, a vanificare l´autonomia della politica, ma non sempre riescono a farla da padroni). Occorre tener conto delle tendenze, ma anche dei loro limiti (e su questo tema stimolanti riflessioni ha svolto recentemente Sabino Cassese).
Revelli vede imporsi nuove gerarchie di «signori» e «servi della gleba», la democrazia conoscere una deriva accentuatamente oligarchica, nel quadro di un´inedita «rifeudalizzazione» che fa emergere tutta la profondità del «vulnus inferto al principio di eguaglianza dalla mutazione socio-spaziale in corso». E la sinistra, che fa e che può fare? Convengo con lui pienamente che la sinistra in quanto soggetto all´altezza di inediti compiti in vero boccheggi, e appaia smarrita culturalmente e inefficace praticamente. Ma, se il quadro delle diseguaglianze sociali e politiche è quello che delinea Revelli, bisogna davvero escludere che il morto batta infine un colpo? Se non sarà in grado di farlo, se alle sfide non seguiranno le risposte, allora bisognerà concludere che l´identità della sinistra è non solo smarrita, ma perduta. Di fronte alla possibilità che gli «accenni di alternativa» alla crisi in atto non prendano corpo, l´autore così tira le somme: in tal caso «il mondo che abbiamo di fronte sarà assai peggiore di quello (non certo dolce) che abbiamo alle spalle».

Corriere della Sera 27.10.07
Giordano: «Bravo il governatore, sugli stipendi sono con lui»
di Maria Teresa Meli


«Sono in totale sintonia con il governatore di Bankitalia E questo non mi crea nessun turbamento»

ROMA — «Ancora una volta mi capita di essere in totale sintonia con il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi »: a parlare così è il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano.
Ma non provoca qualche imbarazzo al leader del Prc questa presa di posizione a favore del numero uno di Bankitalia? «Sinceramente — è la risposta immediata di Giordano — ciò non mi provoca nessun turbamento, né alcuna crisi di identità. Anzi». Allora è vero che Rifondazione comunista, come registra un tam tam degli ultimi giorni, potrebbe appoggiare un governo guidato da Draghi, benché Fausto Bertinotti abbia detto e ridetto che di esecutivi tecnici non vuol sentir parlare? «Non è di questo che stiamo discutendo, non mi faccia dire cose che non ho detto», replica il segretario di Rifondazione comunista, il quale, però, non sembra voler eludere l'argomento «governatore Bankitalia» perché subito dopo aggiunge con un sospiro: «Certo è meglio Draghi di Padoa-Schioppa».
Sembrerebbe un scenario inedito quello che vede il Prc marciare all'unisono con il governatore della Banca d'Italia, ma Giordano assicura che così non è: «Quel che ha detto Draghi evidenzia che nel nostro Paese esiste una gigantesca questione retributiva e salariale». E ancora, nuovamente in sintonia con Draghi: «Il governatore di Bankitalia è assolutamente nel giusto quando sottolinea che bisogna far tornare a crescere in modo stabile le retribuzioni, che in Italia sono assestate ai livelli più bassi rispetto al resto d'Europa ». E al leader di Rifondazione comunista è assai piaciuto un altro passaggio dell'intervento di Mario Draghi: «Il governatore ha anche sottolineato il tasso di precarizzazione dovuto alla cosiddetta flessibilità e come questo colpisce le fasce giovanili e mi pare che abbia anche criticato i processi di accumulazione e la rendita perché vanno a discapito degli investimenti ».
Insomma un Giordano in sorprendente sintonia con il governatore di Bankitalia: «Non c'è proprio niente di sorprendente — obietta lui —, io sono molto soddisfatto delle dichiarazioni di Draghi, che parte da una cultura economica diversa dalla nostra ma che è infinitamente meglio di tanti esponenti del Partito democratico. Perciò lo voglio ripetere con forza: non provo proprio nessun imbarazzo a dare ragione al governatore di Bankitalia. E a questo proposito vorrei ricordare che proprio lo stesso Draghi recentemente ha più volte autorevolmente posto la questione dell'armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie ». Per farla breve, Giordano vuole dire: «Non siamo noi comunisti a fare questa proposta come pretendono di far credere i centristi della coalizione. Recentemente tutta la sinistra ha fatto una proposta unitaria per trovare le risorse per sostenere l'incremento dei livelli retributivi. E queste risorse possono essere proprio ricavate dall'armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie, come accade in tutto il resto d'Europa».
E Giordano prosegue il suo ragionamento ad alta voce con una punta di veleno: «Anche i sindacati hanno dato ragione a Draghi. Che cosa dice in proposito Veltroni? Aspettiamo di saperlo, perché non si capisce mai cosa voglia veramente il Partito democratico». E se volesse la stessa cosa di Rifondazione, un governo guidato da un personaggio di peso, un personaggio il cui identikit potrebbe corrispondere a un uomo come Draghi? «Di questo non parlo, l'ho già detto. Ripeto: meglio Draghi di Padoa- Schioppa ma altro non voglio aggiungere », taglia corto Giordano chiudendo la conversazione.

Corriere della Sera 27.10.07
La piazza, il Parlamento e il movimentismo della senilità comunista
di Piero Ostellino


Sinistra radicale al governo e in piazza. Per dimenticare i fallimenti del marxismo

Una volta, se un partito al governo non ne condivideva più le politiche, usciva dalla maggioranza e il governo cadeva. Oggi, un partito al governo che non ne condivida le politiche organizza una manifestazione di piazza (dice) «per stimolare il governo». E' una versione aggiornata del Pci berlingueriano, «partito di lotta e di governo», che, a sua volta, era la prosecuzione della «doppiezza» del Pci togliattiano che predicava la rivoluzione in piazza e praticava il consociativismo con la Democrazia cristiana in Parlamento. Il rivoluzionarismo di piazza e il consociativismo parlamentare hanno bloccato la modernizzazione del Paese, ma hanno anche garantito una certa stabilità sociale. I governi della Prima repubblica non duravano mediamente più di un anno e cadevano quando in Parlamento la lotta — che a Montecitorio era chiamata pudicamente «questione sociale » — prevaleva sulla governabilità, complici anche le molte anime della Dc.
Oggi, i governi, all'interno dei quali c'è chi lotta e governa, sono più stabili, ma non governano per la semplice ragione che i due termini non sono compatibili in una democrazia liberale e in un sistema economico capitalistico e di mercato. Così, la scelta di manifestare in piazza e di restare contemporaneamente al governo è per i partiti della sinistra comunista anche una soluzione consolatoria per le rinunce in sede di governo ai propri principi e alle proprie politiche. Si sputano in piazza i rospi che si sono ingoiati in Consiglio dei ministri, sperando che la piazza non veda che sono rospi, ma li interpreti come «lotta».
Farei, però, torto alla sinistra comunista se dicessi che la sua è una furbata per continuare a viaggiare in auto blu e conservare la propria base elettorale.
Oltre tutto, sarebbe una furbata destinata a durare poco: prima o poi la base si accorgerebbe che sono rospi e la abbandonerebbe per fondare una forza più autenticamente di opposizione. E' piuttosto una dichiarazione di fallimento da parte di chi ha rinunciato alla rivoluzione proletaria ma, al contempo, non ha ancora capito che il comunismo non lo si instaura democraticamente e in un Paese industrialmente avanzato. E' lo stesso errore di previsione — al quale avrebbe riparato il genio di Lenin e di Mao — nel quale erano incorsi i marxisti puri, fedeli interpreti di Marx, i quali si aspettavano che il capitalismo crollasse sotto il peso delle proprie contraddizioni in Germania, il Paese industrialmente più avanzato d'Europa. Lenin avrebbe fornito all'impotente determinismo marxiano — privo altresì di una dottrina dello Stato di transizione al comunismo dopo la rivoluzione vittoriosa — non solo gli strumenti per fare la rivoluzione dove non sarebbe mai scoppiata spontaneamente, ma anche e soprattutto per governare il dopo: un partito di rivoluzionari di professione e il centralismo democratico. Mao avrebbe innestato sulla rivolta nazionalista e anti-coloniale cinese la rivoluzione contadina in luogo di quella del proletariato.
Le circostanze storiche, la struttura sociale ed economica, la sovrastruttura culturale dell'Italia d'oggi non sono paragonabili a quelle della Russia dei primi anni e della Cina di tutta la prima la metà del Novecento. Né Bertinotti né Diliberto hanno le risorse intellettuali e quelle politiche per offrire al loro tardo-marxismo gli strumenti per sperare di instaurare nell'Italia democratica ed economicamente avanzata un regime che assomigli alla loro utopia comunista. Così, quello stare al governo e in piazza è solo una forma di estraniamento e di disadattamento psicologico — non dubito affatto della loro vocazione democratica —di fronte alla vittoria della democrazia liberale e del capitalismo. Parafrasando Lenin, il movimentismo come malattia senile del comunismo.
postellino@corriere.it

Corriere della Sera 27.10.07
Parigi. L'epoca cubista
Picasso mi baciò: profumava di mele
di Evgenij Evtushenko


Sono 350 le opere di Pablo Picasso, esposte in questi giorni al Museo parigino a lui dedicato, al numero cinque di rue de Thorigny (catalogo Flammarion). Il gran ciclo del cubismo picassiano, cézaniano, analitico, ermetico, sintetico, rococò, decorativo... Dal 1912 al 1920. L'occasione? I cento anni delle Demoiselles d'Avignon (1907). «Siamo i primitivi di una nuova civiltà» diceva, in proposito, Guillaume Apollinaire.
Che straordinario uomo e pittore, Picasso. Ne ho un ricordo limpido. Nella primavera del 1963 sono stato suo ospite nella casa- studio al Sud della Francia.
Un ometto basso con il viso rugoso da vecchia saggia lucertola, la quale chissà quante volte aveva lasciato la propria coda nelle mani di coloro che la volevano afferrare e addomesticare, mi mostrava le sue opere. Lui stesso però non le guardava, guardava me.
Sembrava che gli occhi giocosi, scintillanti dalla curiosità, mi scomponessero in vari elementi e poi mi ricomponessero di nuovo in altre combinazioni che solo l'immaginazione di quest'uomo poteva dominare.
La cornice del quadro Il ratto delle Sabine, dipinto nelle tonalità rosa sporco, dondolava, poggiata sulla sua pianella eschimese in pelle di foca con la punta in su messa a piede nudo.
Le braccia coperte da peli bianchi un po' buffi, con la fulmineità di un mago, mi mostravano ora le composizioni mitologiche a olio, ora i disegni a inchiostro alle opere di Dostoevskij, ora gli schizzi simbolici a matita.
Le interrelazioni sicure e noncuranti delle mani di Picasso con le sue opere assomigliavano a quelle delle mani di un puparo con i suoi protagonisti, condotti alla grande sfilata con l'aiuto dei fili appena visibili. I lavori danzavano nelle mani, s'inchinavano, sparivano...
«E allora? Ti è piaciuto qualcosa? Onestamente, però... Quello che ti è piaciuto, te lo regalo...».
Picasso cercava proprio di penetrarmi con lo sguardo. Borbottai che onestamente preferivo «il periodo blu» e non questi ultimi lavori.
Due uomini con facce olivastre tese da membri di un'organizzazione clandestina, che non mi erano stati presentati per nome, evidentemente per motivi di segretezza (Picasso aveva chiesto al fotoreporter dell'Humanité di non fotografarli), si guardarono negli occhi con ancora più tensione.
Inaspettatamente per tutti Picasso scoppiò a ridere entusiasta, chiese dello champagne che apparve immediatamente sul vassoio nelle mani della padrona di casa, come se fosse stato creato dal nulla davanti a noi dall'immaginazione del genio.
«È ancora viva la madre Russia! È viva! — gridava Picasso, agitando il bicchiere —. È vivo lo spirito di Nastasja Filippovna di Dostoevskij che getta il denaro nel fuoco. Perché ogni mia firma, anche sotto un disegno mediocre, vale non meno di una decina di migliaia di dollari!».
Picasso mi abbracciò e mi diede un bacio. Profumava di mele fresche e di colore fresco.
I due giovanotti con le facce olivastre tese nel frattempo avevano arrotolato tre tele, indicate con un gesto da padrone e, senza salutare, si erano dissolti in un mondo immenso, pieno di prigioni e complotti.
(Traduzione di Ljudmilla Psenitsnaja)
Nell'immagine Pablo Picasso: «Natura morta» (1912)


PICASSO CUBISTA, Parigi, Musée Picasso, sino al 7/1. Tel. +331/42712521


il manifesto 27.10.07
Allarme «Unità», da Gramsci a Feltri
di Roberta Carlini


Non è ancora ufficiale, ma sembra fatta: il giornale che fu organo del Pci sta per essere comperato dalla famiglia Angelucci, proprietaria di «Libero». Allarme in redazione. Ma anche nel Pd, furioso Veltroni. Dietro la vendita una manovra per sottrarre il giornale all'influenza del suo ex direttore, che avrebbe voluto altri acquirenti

La grana dell'Unità scoppia sotto il trono sul quale sarà oggi incoronato Walter Veltroni. Ai 2.800 costituenti che oggi si riuniranno alla Fiera di Rho-Pero arriva il grido di dolore dell'assemblea dei redattori del quotidiano, sotto la forma di una lettera aperta, nella quale si chiede ai costituenti del Pd di non lasciare andare al macero il quotidiano fondato a Antonio Gramsci. «Avete bisogno di una voce come quella dell'Unità». Che sta per finire dritta dritta nel patrimonio della famiglia Angelucci, ras delle cliniche private (3.000 posti letto tra Lazio e Puglia) nonché editore del quotidiano di destra Libero. Famiglia che con un bel pacco di soldi e una trattativa lampo ha soffiato l'Unità ad altri pretendenti, troppo tentennanti benché benedetti dall'ex-direttore dell'Unità Veltroni. Una storiaccia, che spacca il Pd - anzi, gli ex-ds dentro il Pd -, fa infuriare la redazione, sconcerta i lettori e lascia a secco i veltroniani. Sui quali si appuntano le residue speranze di chi non riesce a digerire l'ultimo passaggio della storia dell'Unità, da Antonio Gramsci a Vittorio Feltri.
L'operazione, anticipata nei giorni scorsi da alcuni quotidiani, pare ormai già fatta. Sul piatto gli Angelucci hanno già messo 17 milioni. A vendere non è il partito - che non è più proprietario del giornale - ma gli azionisti dell'Ad. Ossia quei soci privati che, dopo la chiusura dell'Unità, si misero in cordata per riaprire il quotidiano, il quale però, in virtù dell'impegno preso dai gruppi parlamentari, restava e resta destinatario dei fondi pubblici come giornale del partito. L'Ad controlla l'82% della Nieche, insieme a un'altra società messa su dall'Unipol e altre cooperative controlla poi la Nse, proprietaria della testata. Dunque comprando Ad gli Angelucci assumerebbero il controllo della testata, che potrebbero poi rendere totalitario se rilevassero anche le quote delle coop. Per questo i 17 milioni di cui si parla potrebbero salire almeno a 25.
Anche se la presidente del cda Marialina Marcucci smentisce che il giornale sia in vendita, l'operazione pare pronta sin nei dettagli. Sulla cessione delle quote ci sarebbe già un preliminare scritto, mentre gli uomini degli Angelucci stanno già scartabellando i conti del giornale per la due diligence. Pare anche che sia scritto nero su bianco il rispetto del piano industriale appena varato: la qual cosa viene apprezzata dall'amministratore delegato dell'Unità, Giorgio Poidomani; il quale però, senza entrare in valutazioni sulla portata politica dell'operazione, e ammettendo che c'è un problema, nel fatto che lo stesso editore avrà «due giornali con una netta contrapposizione di linea, come Libero e l'Unità», sottolinea una cruda realtà: «La crisi dell'editoria c'è, da tre anni perdiamo copie e denaro e riusciamo a limitare i danni solo in virtù di una gestione attentissima e sacrifici: serve una spinta di entusiasmo, investimenti, rilancio». Soldi. Ma gli Angelucci sono stati i soli, a mettere soldi sul piatto de l'Unità? E che fine hanno fatto le altre cordate di petrolieri e costruttori, forieri di altrettanti conflitti di interesse ma con pedigree più democratico?
Sono le stesse domande che pone il sindacato interno del quotidiano. Finora nulla di ufficiale è stato comunicato ai dipendenti. Solo lunedì il Comitato di redazione incontrà Marcucci, per poi riferire a un'assemblea generale che si preannuncia infuocata. «Non abbiamo idea di quale sia il progetto editoriale», dice Roberto Brunelli del Cdr, il cui comunicato diffuso ieri mette esplicitamente in relazione le manovre sull'Unità con le vicende del partito democratico. «C'è un nuovo partito, c'è il centrosinistra in mutamento. Chi compra e chi non compra lo fa in questo quadro, rispetto al quale la collocazione dell'Unità non è certo indifferente», dice Brunelli. Dove il «chi compra» ha i piedi in molte staffe: da imprenditore, dipende dal potere politico circa le decisioni di politica sanitaria; da editore, vuole stare a destra e a manca. «Ha ragione Furio Colombo, quando nota che in nessun posto al mondo un solo editore controlla giornali di destra e di sinistra», dice Enrico Fierro, inviato dell'Unità, che attribuisce «un ruolo nefasto a Marcucci e all'attuale proprietà», che avrebbero allontanato altri candidati. Il riferimento è alle voci di una trattativa con Moratti, condotta attraverso l'editore Dalai. Ma c'è anche chi parla di un'altra possibile cordata, fatta da editori locali. L'una e l'altra avrebbero avuto caratteri più accettabili, e soprattutto la benedizione attiva di Walter Veltroni.
L'offerta Angelucci affonda queste manovre. Al punto da far ipotizzare a qualcuno che sia questo il vero obiettivo: soffiare il giornale all'area di influenza veltroniana, anche a caro prezzo - e secondo rumors della redazione il prezzo sarebbe salato, sui 50 milioni in totale (ma questa cifra viene giudicata invece poco attendibile dall'amministrazione dell'Unità). Fatto sta che l'interesse degli Angelucci pare confortato da una parte degli ex ds, e soprattutto dal tesoriere Sposetti: tra le voci che ieri si sono levate a commentare con preoccupazione le vicende dell'Unità, non si sono sentiti i dalemiani. Mentre Piero Fassino si sarebbe fatto vivo con una telefonata al direttore Padellaro, dicendosi poco informato su tutta la vicenda ma rassicurandolo sulla tenuta della direzione. Lo stesso direttore, rispondendo a una lettera di Pietro Folena, ha scritto ieri: «Le proprietà possono cambiare, che cambino le nostre teste è più difficile».

il Riformista 27.10.07
Gay. Polemiche sulla pubblicità contro la discriminazione sessuale
Suggerisce l’idea che l’omosessualità sia inevitabile
Campagna Homosexuel, più che uno shock una sciocchezza
di Francesco Longo


Franco Grillini è molto contento per la campagna contro le discriminazioni - lanciata dalla Regione Toscana - il cui concetto è così riassumibile: "omosessuali si nasce". Ma se omofobi non si nasce, c'è il rischio che, dopo una campagna così, forse ci si muoia.
Lo slogan del manifesto annuncia: «l'orientamento sessuale non è una scelta», ed è accompagnato dall'immagine di un neonato che porta al polso un braccialetto con su scritto “homosexuel”. L'intenzione del messaggio è piuttosto evidente: si tratta di una campagna contro le discriminazioni sessuali, e le associazioni dei gay infatti applaudono soddisfatte.
I detrattori parlano invece di campagna shock, mentre forse si dovrebbe parlare di una campagna sciocca, capace di tradire il proprio intento nel momento stesso in cui tenta di enunciarlo.
Ciò che la campagna si incarica di diffondere è infatti l'idea che gli omosessuali non devono essere trattati in modo diverso, ghettizzati, ridicolizzati, etc. Benissimo.
C'è però un tale divario tra quello che il manifesto cerca di dire e il modo con cui lo enuncia, che le premesse teoriche paiono annientarsi mentre vengono espresse. L'immagine racconta la storia di una separazione, di una differenza irriducibile tra gli esseri umani, quelli che nascono eterosessuali e quelli che nascono omosessuali.
Per come è stata costruita questa campagna, l'idea di uguaglianza svanisce. Mentre il manifesto lavora per affermare che non bisogna nutrire diffidenza o distacco (che cioè niente ci deve tenere lontani da un omosessuale) è all'opera qualcosa che perverte e dissolve il messaggio stesso. Questa campagna infatti marca definitivamente la differenza: sottolinea che quella differenza sessuale è proprio il discrimine, il nucleo fondamentale, primario, con cui si possono raggruppare, e distinguere gli uomini e le donne. Invece di dire “noi e loro” siamo fatti tutti della stessa pasta e poi, che qualcuno sia eterosessuale e altri no, non importa, resta che siamo tutti esseri umani; questo manifesto annuncia che in realtà le cose non stanno affatto così. Nasciamo separati. Siamo stirpi diverse. La vita di un omosessuale e quella di un eterosessuale sono distinte fin dall'origine, e seppure in qualche punto le vite potranno incontrarsi, questo non dovrà ingannarci, la verità è che si viaggia, già dalla notte dei tempi, su binari paralleli. Invece di farci capire che siamo uguali, insinua il sospetto che non lo siamo.
Ciò che la campagna vorrebbe sostenere, che l'orientamento sessuale non deve creare circospezione o attriti, viene ritrattato implicitamente da ciò che viene rappresentato. Lì sul polso dove di solito i bambini portano scritto il loro nome, il nome è sparito, perché l'identità coincide e si esaurisce nella propria spinta sessuale.
Ma in questo messaggio fuori controllo si può notare anche un altro curioso elemento.
Un frequente bersaglio delle comunità gay è il concetto di Natura. Questo concetto viene demolito perché è capace di alimentare frasi che definiscono gli atteggiamenti omosessuali come "contro-Natura". Solo disfacendosi del concetto di Natura si può evitare che qualcuno possa essere tacciato di trasgredirne, col comportamento, le regole. A vedere bene questa immagine, però, qualcosa suona ulteriormente stonato. Nel neonato omosessuale, nell'idea stessa che l'omosessualità non sia qualcosa che si sviluppa col tempo, ma che è qualcosa di inevitabile, innata, spontanea, un dato di fatto inalterabile, si vede rispuntare con una forza inaudita un'antica idea, proprio quella della Natura e delle sue imperscrutabili leggi. Omosessuali forse ci si nascerà, imprudenti chissà.