mercoledì 31 ottobre 2007

l’Unità 31.10.07
Idv e Udeur votano con la destra, 2 della Rnp non si presentano
La sinistra radicale: fatto gravissimo, verità negata, intervenga Prodi
G8, colpo di spugna sulla commissione
di Massimo Solani


NON SONO BASTATI MESI di trattative, di discussioni e limature ai testi. Ieri la commissione Affari Costituzionali di Montecitorio con voto di parità (22 a 22) ha infatti negato al relatore Gianclaudio Bressa il mandato di riferire favorevolmente in aula sull’istituzione
della commissione d’inchiesta parlamentare sui fatti del G8 di Genova del 2001. Decisivi i voti contrari - assieme a quelli della destra, che si è presentata in massa quasi all’ultimo momento - di Italia dei Valori e Udeur, che si sono opposti al disegno di legge schierandosi con l’opposizione, e le defezioni improvvise dei deputati socialisti della Rosa nel Pugno. Criticati persino dalla componente radicale del partito che ha provato, senza riuscirci, a sostituire in extremis i “desaparecidos” Cinzia Dato e Angelo Piazza. Un esito che a questo punto potrebbe diventare la pietra tombale sul ddl, anche se l’aula potrebbe comunque approvare la legge col parere negativo della commissione. Un testo che dopo mesi di estenuanti trattative (al ribasso) era diventato via via un pallido compromesso rispetto alle proposte originarie, tanto che la previsione era quella di un organismo monocamerale per evitare i numeri risicati del Senato.
La mediazione del relatore Bressa, però, non è servita e il voto della prima commissione apre adesso una dura polemica interna alla maggioranza, con i partiti della sinistra che hanno chiesto l’intervento del premier Prodi per garantire il rispetto degli impegni del programma di governo dell’Unione. Ma da Palazzo Chigi, nonostante le indiscrezioni raccontino di un impegno dell’esecutivo per ricucire lo strappo e recuperare il ddl, il commento è laconico: «Si tratta di un voto del Parlamento» su cui il governo «si esprimerà». Poche imbarazzate parole, come quelle pronunciate dal presidente della Camera Bertinotti: «Cosa penso? Non dovete neanche far fatica ad immaginarlo...». Non nascondono invece la propria indignazione i rappresentanti dei partiti della sinistra. «È un atto gravissimo - ha tuonato il ministro della solidarietà sociale Paolo Ferrero - Si preferisce l’insabbiamento alla ricerca delle responsabilità per quanto accaduto». Critiche a cui si è associato anche il segretario del Pdci Oliviero Diliberto: «È clamoroso che non si voglia trovare la verità su un fatto che ha stroncato una vita umana, insanguinato le strade di Genova, offeso la sensibilità civile e la moralità di milioni di italiani e fatto calare pesanti sospetti anche sul comportamento di parti delle istituzioni».
Schierati col centrodestra al momento del voto in commissione, i protagonisti della “fronda” centrista non sono sembrati turbati dalle polemiche e hanno difeso la propria scelta. «L’Idv non è contro la Commissione sul G8: è contro l’uso strumentale della Commissione», precisava ieri sul suo blog il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. E a quanti facevano notare al Guardasigilli (e segretario dell’Udeur) che l’istituzione della commissione era prevista addirittura nel programma dell’Unione, Mastella ha spiazzato tutti con un laconico «Io non l’ho letta».
Più cauta la posizione del ministro dell’Interno Giuliano Amato che in una intervista al Tg1 ha spiegato che «a Genova è successo qualcosa di grave, la ferita c’è. E c’è un tribunale che sta cercando la verità». Cosa che evidentemente non basta al Movimento che ieri ha rilanciato la manifestazione del 17 novembre in solidarietà con i giovani accusati delle devastazioni nei giorni del G8.

l’Unità 31.10.07
Il Papa in farmacia
di Carlo Flamigni


Perché i farmacisti si possano dichiarare obiettori di coscienza occorre una legge apposita
E un Papa che invita a scegliere la via dell’illegalità è più di quanto osassi sperare

Secondo l’attuale Pontefice i farmacisti, importanti intermediari tra medici e pazienti, avrebbero un «diritto riconosciuto» all’obiezione di coscienza in caso sia loro richiesta la vendita di farmaci con «chiari scopi immorali, come l’aborto e l’eutanasia». Non basta: agli stessi farmacisti spetta il compito di far conoscere le implicazioni etiche di alcuni farmaci, non essendo possibile anestetizzare le coscienze circa gli effetti di molecole che hanno lo scopo di evitare l’annidamento di un embrione o di cancellare la vita di una persona. Per fortuna che il coito interrotto non si vende in farmacia, qualcosa di utile ci rimarrà pur sempre a disposizione.
Ritengo infatti improbabili, per ragioni di praticità, i controlli notturni di farmacisti cattolici muniti di apposita lanterna.
Dico questo, perché qui ci sta l’intera gamma delle metodologie anticoncezionali: la pillola classica, la pillola del giorno dopo, la minipillola, la spirale intrauterina, i vari progestinici deposito, tutto o quasi. Posso immaginare una sola conseguenza, a un disastro come questo: raddoppieranno gli aborti.
Qualcuno potrebbe pensare che ho esagerato nell’elencare i metodi che sarà per lo meno molto difficile utilizzare se verrà varata una legge che renderà attuabile l’obiezione di coscienza dei farmacisti, ma non è così: c’è un medico cattolico, del quale non voglio citare il nome (ma che qualsiasi navigatore di Internet saprà riconoscere) che asserisce che anche la pillola classica agisce, di tanto in tanto, impedendo l’impianto di un embrione, e anche se penso che la cosa accada assai raramente (avrei scritto, in una differente occasione, a ogni morte di papa) immagino che possa anche essere vero, soprattutto per chi crede nell’esistenza del diavolo. Cerco invece di spiegare, da anni, senza alcun successo, che la pillola post-coitale non ha niente a che fare con l’inibizione dell’impianto e mi permetto di affermare che chi sostiene il contrario è in perfetta malafede. Potete trovare tutta la bibliografia medica dalla quale ricavo questa certezza in uno dei miei libri più recenti, anche se ammetto che questa mia apparente sicumera si basa sull’attuale consenso scientifico, che potrebbe modificarsi in un avvenire più o meno vicino: ma questa è la scienza medica, che di verità ne conosce ben poche e che si basa sui risultati delle sperimentazioni delle ricerche. Ripropongo il concetto in questi termini: chi ritiene, allo stato attuale delle conoscenze, che la pillola del giorno dopo inibisca l’annidamento dell’embrione (notate intanto che nessuno dice più che è abortiva) o dice bugie, o ignora la verità, o è stato mal informato (magari a bella posta).
Mi rendo conto di esagerare nel pessimismo: perché i farmacisti si possano dichiarare obiettori di coscienza e rifiutarsi, ad esempio, di vendermi la liquirizia (da ragazzo mi provocava interessanti sogni umidi, molto molto immorali) ci vuole una legge apposita, per il momento conta quanto ha dichiarato Caprino, segretario nazionale di Federfarma, che cioè «i farmacisti hanno l’obbligo di legge, dietro prescrizione medica, a consegnare il farmaco o a consegnarlo, se non disponibile, nel più breve tempo possibile», per cui l’obiezione di coscienza per i farmacisti «è inattuabile in Italia come in ogni altro Paese». Resta solo da capire se la sollecitazione del Papa è rivolta ai legislatori (preparate in fretta una legge che lo consenta) o ai farmacisti (violate la legge, ne avete il diritto morale). Questa seconda possibilità mi turba e mi stimola insieme: un Papa che invita a scegliere la via dell’illegalità è più di quanto avrei mai potuto sperare, mi autorizza a pensare in grande, parla alla parte più oscura della mia coscienza, già fondamentalmente anarchica. Per chiarezza, mi limito a ricordare al Pontefice che al momento, in questo Paese, sono autorizzate solo alcune obiezioni di coscienza: per il servizio militare (obsoleta); per la sperimentazione sugli animali; per la legge 194 sull’interruzione di gravidanza; per la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita.
Debbo ammettere, a questo punto, che questo ennesimo proclama pontificio non mi pare particolarmente azzeccato, sono certo che sa fare di meglio. Mi dà però l’occasione di parlare di alcune cose e ne approfitto.
La prima cosa riguarda tutti i moralisti, inclusi quelli laureati in farmacia: capisco i grandi turbamenti che vi procura l’uso di farmaci sulle cui interferenze con la fertilità non tutto è perfettamente chiaro, e capisco l’ansia di perfezione e la ricerca di un po’ di martirio personale che vi impongono di rifiutare persino il ricorso al principio di precauzione, ma mi chiedo come mai vi accanite su una povera compressa progestinica, della cui moralità posso darvi le più ampie garanzie, mentre non vi turba minimamente il fatto che un gran numero delle nostre nuove cittadine assumono chili di prostaglandine - acquistate in farmacia, non esiste un mercato clandestino - e poi abortiscono, alla faccia della morale e della legge, finendo spesso in ospedale a causa dei terribili effetti collaterali di questo farmaco. Queste povere donne vengono in farmacia con una regolare ricetta e dichiarano di soffrire di mal di stomaco: a nessun farmacista è mai venuto un briciolo di sospetto? A nessun moralista è passato per la mente che le ulcere gastriche sono diventate stranamente endemiche tra le prostitute rumene? Le prostaglandine sono incluse nell’elenco dei farmaci ai quali il Pontefice allude?
Il secondo problema riguarda una mia personale curiosità di bioeticista. Negli ultimi tempi, discutendo con i miei colleghi cattolici sui problemi etici della procreazione assistita, mi è stato detto più volte che in realtà l’antico ostacolo della dignità della procreazione (cioè l’obbligo di non separare mai la vita sessuale da quella riproduttiva) non è poi più così fondamentale. Oggi, leggendo le ultime esternazioni del Pontefice, non trovo più alcun accenno alla condanna dei mezzi contraccettivi che si limitano a offendere questa dignità (i farmacisti ogni tanto vendono preservativi e diaframmi). È un caso? State cercando di dirmi qualcosa che io, per ottusità personale, non riesco a capire? Un po’ di luce, per favore.
Il terzo e ultimo problema riguarda - e non sarà certamente l’ultima volta che ne parliamo - questa questione dell’embrione “uno di noi”. Recentemente ho raccontato, su vari giornali, la storia del referendum che è stato tenuto in Irlanda del 2002 per cambiare, su proposta del Governo, la norma costituzionale che stabilisce che la protezione della vita nascente comincia dal primo momento del concepimento. Se il referendum avesse avuto successo - il che non è stato anche se per una manciata di voti - la nuova norma sarebbe stata molto diversa, perché avrebbe posposto l’inizio della protezione al momento dell’impianto dell’embrione nell’utero della madre. Le conseguenze di questa modifica sarebbero state straordinarie e tutte contrarie alle posizioni ribadite dal Pontefice nella sua recente dichiarazione: sarebbe stata lecita ogni forma di inibizione dell’impianto, compresa quella attribuita alla spirale e alla pillola del giorno dopo, e sarebbero state autorizzate le ricerche sull’embrione in vitro, gli studi sulle staminali embrionali e le indagini genetiche pre-impiantatorie. Questo, tra l’altro, è proprio quel personalismo che John Bryant e John Searle definiscono relazionale, che non attribuisce né alla biologia né alle prestazioni funzionali il carattere dirimente della persona. Secondo questa ipotesi, molto amata da alcuni evangelici, sono le relazioni a rappresentare un tratto riassuntivo e qualificante, perché legano tra loro biologia e biografia della persona e rappresentano il passaggio di una soglia significativa anche secondo un’ottica teologica: dal momento in cui si connette con quella della madre, l’esistenza dell’embrione si collega con la comunità degli uomini. Spero di avervi almeno incuriositi. Ebbene la ragione di questa lunga digressione è legata al fatto che tutto l’episcopato irlandese, ripeto, tutto, vescovi ausiliari inclusi, si è schierato con il massimo fervore possibile in favore della modifica e, perciò, del personalismo relazionale, della pillola del giorno dopo, della spirale, delle staminali embrionarie eccetera, eccetera, eccetera.
Ebbene, nessuno, fino a questo momento, ha commentato questi fatti. Ho però il diritto di avere qualche chiarimento. Non erano, i vescovi irlandesi, l’espressione più alta (si fa per dire) del cattolicesimo intransigente? Cosa capisce, a questo punto, un povero cristiano? Non è d’abitudine cosa migliore fare le pulizie in casa, prima di uscire a spazzare in cortile?
Se poi qualche compagno vorrà sapere quali sono le ipotesi che sono state fatte su questa scelta dell’episcopato irlandese, così peculiare e così inattesa, mi scriva, gli risponderò personalmente, voglio evitare scandali pubblici. Anche se, a dire il vero, da quando un grande filosofo cattolico mi ha spiegato che l’inferno è anticostituzionale, mi sento molto più tranquillo.

l’Unità 31.10.07
Scola: «L’Unità insieme a Libero? C’è da indignarsi»
Il regista sul passaggio del giornale agli Angelucci: assurdo, perché nessuno dice niente? Informazione in pericolo


«Mi stupisco della mancanza di sdegno che c’è in giro. Vi sono attentati all’informazione che vengono perpetrati senza che scatti l’allarme per il pericolo che si corre quando un editore ha due giornali di opposta visione politica, storia, cultura e orientamento come Libero e l’Unità». È questa la reazione del regista Ettore Scola all’annunciata vendita dell’Unità alla famiglia Angelucci già proprietari del Riformista oltre che di Libero, espressa ieri, intervenendo alla conferenza stampa indetta al Senato per presentare il film «”La Rai che non c’e”: passato, presente e futuro del servizio pubblico radiotelevisivo». Il film collettivo che sarà coprodotto dalla Associazione Articolo 21 e dalla Fondazione Libero Bizzarri. Durante la conferenza stampa si lamentavano i guasti subiti dal servizo pubblico radio televisivo. Ma non si è fatto cenno alla vendita dell’Unità alla famiglia Angelucci. «Come mai non c’è reazione?» insiste il regista che ieri, in un contesto dove forte era la denuncia per i mali dell’informazione televisiva, ha rilevato come nessuno facesse cenno alla situazione de l’Unità. «Come se fosse uno strumemnto di cui si possa fare a meno. Come se uno in edicola potesse tranquillamente dire “Mi dia Libero o l’Unità, faccia lei”».
«Dobbiamo continuare ad indignarci. Ad indignarci per quello che sta succedendo a l’Unità, un giornale che è stato acquistato da un editore che edita un giornale di segno opposto. L’Unità rappresenta una voce libera, storica dell’informazione e contro questo bisogna indignarsi» ha ribadito il regista. Una denuncia che è stata fatta propria anche dal sottosogretario Nando dalla Chiesa, da Roberto Natale della Fnsi, dall’onorevole Beppe Giulietti e da altri che hanno espresso la loro solidarietà ai giornalisti della testata fondata da Antonio Gramsci.
Così la vicenda del giornale fondato da Antonio Gramsci continua a tenere banco sui giornali. Ieri è arrivata la smentita dell’avvocato Guido Rossi presentato dal quotidiano economico il Sole24Ore come regista dell’operazione d’acquisto della testata ad opera degli Angelucci che si sarebbero mossi su indicazione del presidente di Capitalia, Cesare Geronzi e in sintonia con il vicepremier, Massimo D’Alema. L’avvocato milanese precisa che «non ha avuto e non ha alcun ruolo nelle trattative per la vendita de l’Unità al gruppo Angelucci». «A seguito del servizio sul Sole24Ore di oggi (ieri per chi legge) dove si afferma di una mia presunta regia nella vendita de l’Unità alla famiglia Angelucci preciso che la notizia è priva di fondamento - dichiara - perchè non ho avuto alcun ruolo in quella vendita e tra l’altro non conosco la famiglia Angelucci».

l’Unità 31.10.07
Grass alla ricerca del Günter perduto
di Maria Serena Palieri


L’AUTOBIOGRAFIA dello scrittore è ora nelle nostre librerie, tradotta da Einaudi. A un anno dallo scandalo seguito all’edizione tedesca, placato l’incendio per la rivelazione sull’arruolamento volontario nelle SS, ecco cosa dice alla lettura

Sbucciando la cipolla, l’autobiografia (parziale) di Günter Grass, arriva da noi, per Einaudi, a un anno dall’uscita in Germania, con un carico in più: quello delle polemiche che, nel corso di quest’anno, si sono accese, sono divampate come un incendio, si sono ridotte a brace, si sono non del tutto, ma quasi, spente. Riassumiamole: ad agosto 2006 Grass rilascia alla Frankfurter Allgemeine Zeitung un’intervista in cui svela che nelle sue memorie, in uscita lì in settembre per Steidl Verlag, suo abituale editore di Gottinga, racconterà d’avere prestato servizio come volontario, negli ultimi mesi di guerra, nelle Waffen Ss. Spiega anche, Grass, che fu, in certo modo, il caso a mandarcelo, perché lui quindicenne, nel ’43, aveva in realtà fatto domanda per «servire la Patria» in un corpo meno, a posteriori, indicibile, e che accendeva ben di più la fantasia d’un ragazzino consumatore di cinegiornali: i sommergibilisti. Già, ma il Nobel Grass è da quasi un cinquantennio, cioè dalla pubblicazione del Tamburo di latta, la coscienza della Germania: e quelle due parole, «Grass» e «Ss», messe una accanto all’altra per la Germania non sono sostenibili. L’accusa è soprattutto d’ipocrisia: d’aver taciuto. Gli chiedono di ridare indietro tutto, il Nobel come la cittadinanza onoraria di Danzica. Ma c’è anche chi lo difende, lì in Germania come fuori. Nadine Gordimer e Mario Vargas Llosa per esempio, che osservano che pure il ricordare, per uno scrittore, è opera narrativa, e la creazione ha scansioni sue, ha tempi artistici. Da noi, anche il caso Grass finisce nella macina del revisionismo: esemplifica, si dice, la «cattiva coscienza» della sinistra. Inizia Bernard Henry-Lévy con un articolo sul Corriere della sera, lo seguono altri sulle stesse pagine. In ottobre 2006 è un Günter Grass invecchiato quello che si affaccia a Francoforte alla Buchmesse. Nel luogo di cui per decenni è stato il princeps, dove è stato festeggiato nel ’99 a Nobel appena annunciato, a testa china, forse per una sorta di perdurante sbigottimento, ma forse, invece, per incapacità di rinunciare al ruolo di «coscienza tedesca», così esterna: «Il mio libro è una lettera aperta diretta ai tedeschi della mia generazione perché assumano consapevolezza, anche loro, del proprio passato. E lo raccontino».
Bene, ora anche noi possiamo leggere Sbucciando la cipolla. E vedere cosa ci racconta su quel pezzo buio di passato, sì, ma anche sul resto. E se è vero che il quasi ottantenne Grass, non nonostante ciò che qui narra, ma anche grazie a ciò che qui svela, mantenga intatto il ruolo di «coscienza». Insomma se Sbucciando la cipolla, con la luce che getta su quel pugno di mesi neri vissuti dal diciassettenne Günter con la svastica indosso, sia coerente con le battaglie e la scrittura d’un cinquantennio.
Sbucciando la cipolla, così come appare nella davvero notevole traduzione di Claudio Groff, è il mémoir d’un maestro. È, per più versi, appunto, magistrale. Benché asimmetrico. Lo squilibrio è in questo: dalla prima pagina a pagina 99 - dove, in una villa di Dresda requisita a fini militari, a settembre ’44 il giovane Günter vede per la prima volta su un modulo la doppia «S» che indica la sua destinazione di volontario - si ha la sensazione che il Nobel tedesco abbia composto questo testo autobiografico al solo scopo di liberarsi del suo segreto, tante sono le allusioni che, prima di svelarlo, dissemina; poi, messo sulla pagina l’indicibile - Waffen SS - è come se, nelle successive quasi trecento, facesse di tutto, prima per alleggerirne il senso, poi per dimenticarlo e farlo dimenticare a noi lettori.
Il che fa piazza pulita d’un argomento piuttosto stupidamente cinico che, a suo tempo, fu usato contro di lui: d’aver anticipato alla Faz il «segreto» contenuto nelle sue memorie allo scopo di farsi pubblicità e vendere copie. Insomma, d’avere strumentalmente fatto scandalo. No, Sbucciando la cipolla è un libro che fotografa esattamente il lacerato rapporto che Günter Grass coltiva con quel se stesso diciassettenne e il peso che esso costituisce per lui. È un libro scritto per sgravarsi pubblicamente la coscienza, anche se, appunto è questa la nostra sensazione, a sgravargliela ci riesce solo in parte. Non è un caso che il flusso di memoria si arresti alla fine degli anni Cinquanta, quando il nano Oskar Matzerath irrompe in scena col suo tamburo di latta e il suo creatore diventa un personaggio pubblico, uno scrittore-mentore. «Da allora in poi ho vissuto così, di pagina in pagina e tra libro e libro. Restando interiormente ricco di figure. Ma per raccontare di questo mancano le cipolle e la voglia» è la conclusione.
Sbucciando la cipolla, dicevamo, è un testo autobiografico magistrale. In senso stretto perché, nelle sue pagine, Grass vi elabora una propria personale, non proustiana, teoria della memoria: memoria che è, per lui, scrittore novecentesco, una sorta di palcoscenico dove affiorano e agiscono alla pari genitori, sorella, amici, commilitoni, mogli, così come i loro corrispettivi travasati nei libri, nel Tamburo di latta e in Anni di cani, nel Rombo e nella Ratta. E dove tutto è possibile sia andato in un modo oppure nell’altro: davvero il padre lo salutò col fazzoletto quando partì in treno per il fronte? davvero parlò di arte la prima volta che uscì con Anna, futura moglie? Il gioco diventa fraseggio, virtuosismo, con la figura di quel «Joseph» incontrato a fine guerra nel campo di prigionia, quel Joseph cattolico ferventissimo che «con tenera prepotenza» tenta di indottrinarlo mentre giocano a dadi, e in ballo ci sono due destini, e che destini, uno Nobel, l’altro - era davvero lui? - primo papa tedesco. Per mettere in moto la memoria Grass ricorre a due oggetti di forte sostanza metaforica: la cipolla, che si sfoglia un velo dietro l’altro (e lui sa in che modo, da bravo cuoco, come s’inorgoglisce di dimostrare in queste pagine), e un pezzo d’ambra del Baltico che, in trasparenza, mostra l’insetto fossilizzato che racchiude, di chissà quale era.
In senso più allargato, il mémoir è magistrale quanto a stile. Il Günter Grass col quale facciamo conoscenza in queste pagine è, fino quasi alla fine, tutto meno che scrittore: è il figlio «bamboccione» che, quattordicenne, ancora sale sulle ginocchia della madre, che diventa esattore dei crediti della bottega familiare, poi con quelle insegne di Ss sul colletto percorre una Germania oscura, straziata dalla guerra, e vede di tutto, cadaveri, macerie, disertori, giovanissimi come lui, impiccati agli alberi; è, ridiventato libero, minatore, poi scalpellino di lastre tombali, allievo scultore in Accademie. Ballerino, suonatore di percussioni, perfino in jam session con Louis Armostrong, esistenzialista, affamato inseguitore di gonnelle. Vita, deposta con stile splendido come una cipria iridescente sul suo «segreto»: quei mesi diventati una cosa da nascondere fino agli ottant’anni, nel momento in cui, dopo la guerra, vedrà ciò che non aveva visto prima, in foto in bianco e nero, «l’annientamento di milioni di esseri umani» effettuato da chi aveva portato le sue stesse insegne.

Repubblica 31.10.07
Pedofilo in cura, psichiatra lo denuncia
Palermo, abusava di 4 nipotine e il medico ha deciso di rompere il segreto
di Alessandra Ziniti


Il giovane, 23 anni, ha problemi psichici. Ora è ricoverato in una clinica
Il presidente della società di psichiatria: "La valutazione è del professionista"

PALERMO - Alla più piccola toglieva persino il pannolino. Le ha toccate, si è spogliato davanti a loro. Poi un giorno ha preso carta e penna e ha scritto una sorta di confessione al suo psichiatra, quasi chiedendo aiuto. Di avere usato violenza alle sue nipotine, quattro bambine dai tre agli otto anni, era perfettamente cosciente, probabilmente anche turbato; ma al medico che lo aveva in cura ha anche candidamente confessato di non riuscire proprio a dominare quegli impulsi che lo prendevano ogni volta che si trovava in casa con le piccole. E così lo psichiatra ha deciso di sacrificare il segreto professionale davanti all´incolumità delle quattro bambine ed è andato a denunciare il suo paziente. Così è scattata l´indagine che ieri ha portato agli arresti in una casa di cura un giovane pedofilo, un ragazzo di appena 23 anni con problemi psichici. La sua confessione prima e il drammatico racconto delle quattro bambine poi hanno indotto il pm Rita Fulantelli e il giudice Silvana Saguto ad adottare un provvedimento che allontanasse il giovane pedofilo dall´ambiente familiare e soprattutto che mettesse al sicuro le piccole da ulteriori violenze.
E´ un caso che sembra destinato a far discutere, per l´inedito squarcio che apre sulla deontologia professionale di un medico rispetto ad un paziente, quello sul quale ha deciso di intervenire il presidente della Società italiana di psichiatria, Carmine Munizza, per puntualizzare che ci sono casi eccezionali che possono dispensare il medico dal segreto professionale. «Quando ci si trova dinanzi ad un paziente che confessa dei reati, come la pedofilia - spiega Munizza - l´atteggiamento dello psichiatra è quello di tentare di convincere il soggetto ad ammettere il reato commesso, offrendosi magari come tramite per denunciare il reato stesso. Quando ciò non è possibile, allora la valutazione resta quella, personale, del professionista. Si tratta cioè di valutare se la confessione del paziente rappresenta o configura una situazione di pericolo immediato o molto probabile per soggetti terzi; in quest´ultimo caso, lo psichiatra può valutare e decidere di segnalare il caso, fermo restando che si assume la responsabilità del proprio atto, che andrà giustificato».
Ed è quello che è successo a Palermo, dove lo psichiatra che aveva in cura da alcuni mesi il giovane pedofilo ha temuto che potesse ripetersi, e con un certa frequenza, quanto successo il 26 dicembre dell´anno scorso quando, mentre la famiglia era riunita a tavola per le festività natalizie, il ragazzo aveva molestato la più piccola delle sue nipotine, una bimba di soli tre anni, che era corsa in lacrime a rifugiarsi dalla madre. Lui, spaventato dalla possibile reazione dei familiari, si era chiuso in bagno per tutta la giornata. Nessuno, in casa, aveva capito che il giovane molestava le nipotine, agli strani comportamenti di quel ragazzo con seri problemi psichici alle spalle erano abituati.

Corriere della sera 31.10.07
Sansonetti (Liberazione): ma il comunismo è cosa molto complessa. Rizzo (Pdci): Walter ricordi che furono i vietnamiti a battere i Khmer rossi
Pol Pot come Auschwitz? Il paragone divide gli storici
Sabbatucci: più giusto il parallelo tra Hitler e Stalin. Canfora: non c'è stato nulla come la Shoah
di Gian Guido Vecchi


MILANO — Chissà che avrebbe detto Saloth Sar, meglio conosciuto come Pol Pot — alias il «Fratello numero 1» —, lui che «dalla giungla tutto vede e giudica» si sarebbe magari fatto un lugubre sghignazzo ad essere accostato a Hitler. C'è la faccenda delicata del parallelo tra comunismo e nazismo, certo. E poi c'è un altro problema: siamo davvero sicuri che il capo dei Khmer rossi cambogiani, il dittatore che tra il '75 e il '79 sterminò un terzo del suo popolo pianificando la morte di un milione e settecentomila persone (secondo le stime più prudenti), sia l'esempio più calzante in tema di crimini rossi? Walter Veltroni, presentando il libro di Cristina Comencini L'illusione
del bene, ha invitato a fare i conti con «la storia del comunismo » citando le foto del genocidio cambogiano, «non sono diverse da quelle che fra dieci giorni vedrò ad Auschwitz».
Vero? Coraggioso? «Mah, di certo parlare di Pol Pot, un caso così estremo e periferico, è più comodo», sospira lo storico Giovanni Sabbatucci. «Se vogliamo fare un'equiparazione tra nazismo e comunismo, sarebbe più corretto parlare dei gulag sovietici, il paragone tra Hitler e Stalin ha più senso». Detto questo, Sabbatucci non teme paralleli, «io credo che le comparazioni siano sempre lecite e non vadano mai demonizzate, e qui la ritengo più che legittima: le differenze tra nazismo e comunismo poco rilevano dal punto di vista delle vittime, e comunque equiparare non significa identificare. La differenza vera non sta nelle realtà che si comparano né nei motivi: l'"illusione del bene" e la bontà delle intenzioni, posto che ci sia, è semmai un aggravante. La differenza è nella nostra cultura: il comunismo nasce più o meno legittimamente dalla Rivoluzione francese, cui tutti ci riferiamo, non ci hanno forse insegnato che l'evoluzione dell'umanità poteva anche passare attraverso massacri? L'altra, il nazismo, è qualcosa di deviante, di estraneo. Gli uni sono figli degeneri, gli altri marziani. In questo senso Pol Pot non era un marziano: ha studiato in Francia, come Mao ci appartiene ».
Del resto sulla malvagità di Pol Pot nessuno fa una piega, figurine del manifesto a parte. Marco Rizzo, dei Comunisti italiani, attacca Veltroni perché «sul comunismo o ignora la storia o è intellettualmente disonesto: quelle dittature sono state battute dagli eserciti di due Stati comunisti, l'Armata Rossa e l'esercito popolare vietnamita». E lo stesso dice il pdci Nino Frosini, «Veltroni ha ragione su Pol Pot e Auschwitz ma dimentica il colore delle bandiere dei liberatori ». Un argomento che Luciano Canfora condivide, «meno noto semmai è che i vietnamiti furono biasimati da tutto l'Occidente e fino all'ultimo gli Stati Uniti difesero all'Onu il seggio di Pol Pot, per dire la nostra cattiva coscienza». Certo, «Veltroni ha scelto il bersaglio che gli garantiva un consenso facile ». Niente paragoni, però, «ha un effetto obnubilante sull'unica peculiarità del Novecento, il massacro di razza, e cioè la Shoah ». Lo dice pure Piero Sansonetti, direttore del quotidiano del Prc Liberazione: «Non è che Pol Pot fosse meno cattivo di Hitler, ma il paragone è insensato come tutti i paragoni storici e il comunismo è una cosa complessissima, che c'entra Gramsci con Ho Chi Minh?».
C'è da dire che a sinistra il terreno è minato. Quando nel '99 Einaudi pubblicò i Racconti della Kolyma, capolavoro di Varlam Salamov sui gulag, eliminò all'ultimo momento l'intervista- prefazione nella quale lo scrittore Gustaw Herling definiva nazismo e comunismo «gemelli totalitari» (lo stesso Salamov chiama i gulag «crematori bianchi»). Ci sono casi più recenti: lo storico Gabriele Nissim, autore di Una bambina contro Stalin, ha accompagnato in giugno Fassino alle fosse comuni di Levashovo, vi sono sepolti anche comunisti italiani vittime di Stalin; l'ultimo segretario dei Ds ha parlato del «fallimento del comunismo» e delle colpe dei dirigenti del Pci; «e non c'è stata nessuna reazione, neanche una parola dal gruppo dirigente del Pd», spiega Nissim. Come mai? «Semplice: la storia di Pol Pot è condivisa, molto più difficile è parlare di Levashovo o di Kolyma, il fulcro del sistema concentrazionario sovietico, una storia che appartiene anche al Pci: lì sì che si può fare un paragone con Auschwitz ».
La questione resta comunque delicata. Primo Levi, ne I sommersi e i salvati, distingueva l'«autogenocidio cambogiano » e gli altri orrori del secolo dal sistema nazista, «un unicum
sia come mole sia come qualità». La stessa idea di Marcello Pezzetti, tra i massimi esperti al mondo di Auschwitz nonché direttore del costituendo museo della Shoah di Roma. Sarà lui ad accompagnare il sindaco di Roma a Birkenau: «Sono sei anni che lo porto ad Auschwitz con gli studenti romani e rimane là tre giorni, nessun altro politico è così preparato. Veltroni conosce perfettamente lo sterminio ebraico, le motivazioni di carattere biologico, e le sue parole non devono essere forzate: è evidente che non voleva paragonare le motivazioni, ma parlare del valore della vita umana. Una volta ho chiesto a una sopravvissuta quale sia stato il momento più brutto della sua vita dopo Auschwitz, e lei mi ha detto: quando ho saputo ciò che aveva fatto Pol Pot. Credo sia questo lo spirito con cui Veltroni ha parlato».

il manifesto 31.10.07
Intervista. Ferrero: «Pacchetto indigesto ma non si può fare di più»
di Luca Fazio


Il ministro della Solidarietà sociale si è astenuto su alcuni punti di un progetto che sembra scritto dal centrodestra Ci vuole una grande mobilitazione nel paese, sul piano politico non ci sono i rapporti di forza

«La realtà è un disastro». Parte da qui, anzi termina qui, la chiacchierata con il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero che ieri, dovendolo digerire, si è astenuto sul cosiddetto «pacchetto sicurezza» del governo. Intende dire che su un tema delicato come la sicurezza bisogna necessariamente graduare il conflitto, «perché devo sapere fino a dove posso portare la mia gente». Spiccato senso della realtà, nodo impossibile da sciogliere per chi da un anno e mezzo sbatte la testa sulla stessa domanda: «E l'alternativa qual è?».
Ministro, perché si è astenuto?
Il «pacchetto» è nato male perché è il risultato di una campagna messa in piedi da alcuni partiti del centrosinistra per sdoganare la questione della sicurezza declinandola come ha sempre fatto la destra. Abbiamo litigato a lungo e abbiamo corretto alcuni errori macroscopici (e non dimentichiamo la reintroduzione del falso in bilancio), ma l'impianto è rimasto tale e quale: si continua a confondere la marginalità con l'ordine pubblico e non si distingue tra repressione e politiche di inclusione. Il punto non è aumentare le pene, lo sanno tutti che l'80% dei reati in Italia resta impunito.
Nel merito, cosa non le piace?
Le misure per la sicurezza urbana, tra cui è prevista la procedibilità di ufficio per i writers, e più in generale la costruzione di nuovi poteri per i sindaci che mescolano amministrazione locale e ordine pubblico, una strada pericolosa perché l'insicurezza verrà agitata da chi avrà il problema di farsi eleggere. Semmai c'è un problema di democratizzazione della polizia. E poi i venditori di griffe false: era previsto addirittura l'arresto immediato e siamo arrivati ad un inasprimento delle pene, è comunque una cosa che non sta né in cielo né in terra. Inoltre, sono convinto che sia un errore escludere le pene alternative per certi reati: sono i classici reati commessi dai più poveri e credo che queste persone si potrebbero più facilmente recuperare tenendole fuori dal carcere.
Mastella le ha definite «astensioni benevole», insultante se significa che non cambiano il provvedimento.
Altrimenti sarebbe stato un voto contrario, intendeva dire che sulla sicurezza abbiamo portato a casa risultati importanti ma ancora non basta. Così possiamo continuare a incidere, la discussione continuerà.
Di questo governo rimarrà nella memoria la propaganda securitaria che colpisce i marginali, e poco altro. Di fronte a questa deriva, il Prc cosa è riuscito a ottenere?
Fino ad oggi noi abbiamo prodotto la politica della riduzione del danno, e per me questa azione non è sganciata dal fatto di poter approvare in tempi brevi la nuova legge sull'immigrazione, spero entro la fine dell'anno. Non dimentichiamo il punto di partenza, la furibonda campagna sicuritaria dei sindaci del centrosinistra, e posso assicurare che il governo ha saputo mediare e di molto rispetto alle loro richieste. E non dimentichiamo che questo è il governo che con l'indulto ha svuotato le carceri. Il Partito democratico è nato sotto l'egemonia culturale di certi sindaci e a noi è toccato il compito di limitare i danni. Inoltre, tenuta del governo permettendo, sto portando avanti una guerra di trincea anche per cercare di modificare la legge sulle droghe Fini-Giovanardi, se entro marzo non ci riesco non sarò più ministro. Si tratta di due passaggi fondamentali per riuscire a gestire il disagio nelle città.
Gli elettori si aspettavano di più.
Dati i rapporti di forza, il punto è come riusciamo a portare a casa il massimo possibile. Sul tema della sicurezza, attorno cui la destra ha svolto e svolge un lavoro sulla sua massa, la sinistra non c'è mai stata: e certi errori si pagano. A volte siamo un po' troppo idealisti, pensiamo che basti avere ragione per ottenere le cose, e invece non è così.
Dato per perso il Pd, la cosiddetta «cosa rossa» sarà capace di presentarsi come alternativa sul tema della sicurezza?
Non do per perso il Pd. E noto che sul «pacchetto» sicurezza in parte si sono astenuti anche Pecoraro Scanio e Mussi, ed è la prima volta che succede. Si tratta di un fatto che fa ben sperare, anche se in termini politici sappiamo che paga poco essere alternativi a chi ha una visione prettamente sicuritaria della società.
Forse non è un caso che proprio oggi, mentre il governo approva il «pacchetto», a Bologna vengano sgomberate le case occupate.
Sono errori gravi. Affrontare i conflitti urbani generati dalla mancanza di case con una politica repressiva non fa che aumentare il livello di insicurezza, i cittadini si sentiranno sempre più insicuri e non basterà sistemare un poliziotto ogni tre portoni. Ieri a Roma, per banali questioni di traffico, un automobilista quasi è stato ammazzato a colpi di mazza, e un altro è stato accoltellato. L'aumento della paura crea solo tensioni e porta all'imbarbarimento della società.
A proposito di case, l'Unione Inquilini sostiene che il provvedimento recentemente approvato dal Cdm, trattandosi di un disegno di legge, non blocca gli sfratti esecutivi nella capitale. E' emergenza?
Ci vogliono due mesi per riconvertire un decreto legge, ma abbiamo ottenuto garanzie sul fatto che le forze dell'ordine non procederanno agli sgomberi, esattamente come è accaduto lo scorso anno. Anzi, invito le organizzazioni di categoria a segnalarci eventuali problemi.
La Commissione d'inchiesta per il G8, fortemente voluta dal Prc, è stata affossata da Di Pietro e Mastella. Un altro schiaffo. Può il Prc limitarsi a dire che così non va perché quella Commissione era prevista nel programma?
E l'alternativa qual è? Qui ci vorrebbe una riflessione più ampia. Gli altri, il centrodestra di Berlusconi, li abbiamo già visti all'opera...Noi dobbiamo affrettarci a fare una legge elettorale che ci permetta di non essere più in questa situazione...molto brutta. E' un fatto gravissimo la bocciatura della Commissione sui fatti di Genova, tanto più se pensiamo che un agente torturatore di Bolzaneto rischia 30 mesi di galera e un venditore di borsette false 24. Ci vuole una mobilitazione forte nel paese, dobbiamo riprendere il lavoro di insediamento sociale, sul piano politico non ci sono i rapporti di forza.

Aprile on line 30.10.07
Tute blu contro il "socialdem" Marchionne
di Piero Di Siena*


L'analisi Il successo di questa prima giornata di lotta per il rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici non era scontato e smentisce la politica dell'a.d. del gruppo Fiat, che ha proposto 30 euro ai lavoratori per liquidare i loro diritti e indebolire il fronte sindacale

Il successo di questa prima giornata di lotta per il rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici non era scontato. Ed erano in molti a pensare che lo "sciocco" tentativo - come l'ha definito Gianni Rinaldini, segretario generale della Fiom - di Marchione di spezzare le gambe alla vertenza in corso con la concessione unilaterale di 30 euro di aumento ai dipendenti della Fiat avrebbe prodotto i suoi risultati.

Il 70 per cento delle adesioni a Mirafiori, i 10mila in corteo a Torino, la manifestazione di Firenze e una percentuale di partecipazione molto alta sia nelle piccole aziende che nei grandi stabilimenti dimostrano che i metalmeccanici sono in campo e che lo sono - sul contratto - in modo unitario. Chi aveva temuto, anche nel sindacato, che il confronto sul protocollo del welfare, su cui la Fiom ha espresso un giudizio negativo, avrebbe potuto incidere negativamente sui rapporti unitari è stato smentito. E il confronto sul contratto dei metalmeccanici assume, a partire dal successo dello sciopero di oggi, un significato e una valenza più generale.

Intanto mette con i piedi per terra la discussione sulla questione salariale nel nostro paese. E affidando la sua risoluzione al contratto di lavoro, dichiara che essa è innanzitutto un problema di redistribuzione tra salari e profitti.
Fa specie che si sia dovuto attendere il governatore della Banca d'Italia e il presidente di Confindustria perché il problema dei bassi salari divenisse di dominio pubblico, mentre se qualcuno fino a poco tempo fa provava a dire che la politica di moderazione salariale attuata, con il patto concertativo del 1993, non aveva forse più ragion d'essere di fronte al contesto macroeconomico attuale, veniva trattato da delirante massimalista. Questa timidezza e subalternità psicologica, prima che culturale, ai poteri forti, che alligna anche a sinistra, ci costringe ora a una faticosa azione di rimonta rispetto alla campagna secondo la quale la causa dei bassi salari sta nelle tasse troppe elevate che sono per di più prelevate alla fonte.

Contrastare questa tendenza non significa disconoscere che bisognerebbe, forse, diminuire la pressione fiscale sul lavoro dipendente. Ma sarebbe necessario altresì non dimenticare che questa sarebbe una misura che potrebbe avere una sua efficacia e un impatto percepibile in modo significativo solo se accompagnasse un effettivo aumento delle retribuzioni lorde, in uno spostamento verso i salari di quote di ricchezza che sempre più sono dirottate sui profitti, che d'altronde faticano a tramutarsi in investimenti.

La giornata di oggi dimostra anche che sarà difficile per Fiat e Federmeccanica smantellare il contratto nazionale di lavoro. Lo specchietto per le allodole dei 30 euro - come si è detto - non ha funzionato. E i trucchi del "socialdemocratico" Marchionne sono stati ben presto svelati.
Come è noto questo generoso appellativo, per l'amministratore delegato della Fiat, è stato coniato da Piero Fassino. Non sappiamo -ora che è democratico- che idea Fassino abbia della socialdemocrazia. Ma mi sembra difficile che tale definizione possa adattarsi a chi alla Fiat di Melfi, il principale stabilimento dell'auto del Mezzogiorno, tollera o promuove il ritorno a un regime di fabbrica a dir poco dispotico, che provoca ben quattro licenziamenti in tronco approfittando di un'inchiesta su trame eversive che molto probabilmente si risolverà in una bolla di sapone. E che a Melfi la mano pesante comincia a produrre i suoi effetti, lo dimostra la bassa adesione allo sciopero (50% i sindacati, 16% l'azienda), segno di un malessere che dura da tempo.

*Senatore Sd, Comm. Lavoro e previdenza del Senato

Il Messaggero 31.10.07
Anche Princeton restituisce i tesori
di Fabio Isman


ANCHE un altro tra i maggiori musei del mondo viene a miti consigli, ed accetta di restituire un po’ del maltolto. E’ quello di Princeton, e manda in Italia otto pezzi, alcuni anche rilevanti, dell’“archeologia saccheggiata”; scavati clandestinamente nel nostro Paese; quanto meno incautamente acquistati attraverso il circuito dei “Predatori dell’arte perduta”: tombaroli, grandi mediatori, celebri mercanti internazionali. All’accordo con il museo dell’università americana, fondato nel 1882 e provvisto di oltre 60 mila oggetti, il vicepremier e ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli ha lavorato a lungo, e il documento è stato sottoscritto ieri dalla direttrice Susan Taylor e dal segretario generale del Ministero, l’archeologo Giuseppe Proietti. Quattro degli otto reperti arriveranno in Italia entro 60 giorni, e quindi potranno forse essere anche esposti nella mostra sull’“archeologia ritrovata” che sarà aperta nella Sala di Augusto del Quirinale da fine anno a febbraio 2008, e gli altri saranno restituiti nel 2011.
Dopo le restituzioni del Metropolitan Museum di New York, del californiano Getty, di quello of Fine Arts di Boston, e mentre sono già a buon punto le trattative con il Museo di Cleveland e con Shelby White, vedova di Leon Levy (uomo tra i più ricchi in tutti gli States) e sponsor della nuova ala greco-romana del medesimo Metropolitan, l’accordo di ieri, dice il Ministro, «è un prezioso tassello nell’azione di diplomazia culturale» dell’Italia, che così «si conferma all’avanguardia, a livello internazionale, nella lotta al traffico illecito» d’archeologia, seguendo un’«ispirazione etica che è ormai un inaggirabile punto di riferimento per le istituzioni culturali di tutto il mondo».
Buona parte delle opere che Princeton restituisce sono dei vasi: un importante loutrophos apulo con figure, attribuito al Pittore di Dario, un vaso a collo altro del 335. a.C.; una psykter attica a figure rosse, che risale a 2.500 anni or sono, dipinta dal Pittore di Kleophrades; un cratere a volute, apulo, del 370 a.C., con eleganti figure e anche rilevanti elementi architettonici. E, ancora, un fammento di altorilievo con centauromachia, la lotta dei centauri, esso pure di circa 2.500 anni fa; due oinochoe etrusche ancora più antiche, una del 675 prima di Cristo, con un serpente dipinto, e l’altra, a figure nere con atleti, di un secolo successiva, coeva di un frammento di skyphos con eleganti raffigurazioni, e di una testa di leone abbastanza monumentale ed assai ben conservata.
Di tutti questi oggetti, il nostro Paese, attraverso una speciale commissione composta da funzionari, carabinieri del Patrimonio artistico, e presieduta dall’avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli, è stata in grado, grazie alle indagini degli stessi carabinieri e del Pm Paolo Ferri, di dimostrare la provenienza dal sottosuolo italiano, fino al punto da convincerne l’autorevole museo americano, che, per questi oggetti, aveva sborsato grandi quantità di dollari. In partenza, la commissione aveva contestato a Princeton la detenzione di 15 pezzi scavati di frodo; ma qualsiasi accordo costituisce sempre un compromesso. Il museo però si è arreso davanti a sei foto dell’archivio di Giacomo Medici a Ginevra, che eternano i reperti talora ancora sporchi di terra e appena scavati; davanti all’affermazione di Robert Bob Hecht, attualmente sotto processo a Roma con Marion True, ex curator del Getty, secondo cui il Getty stesso non aveva ritenuto autentica, e quindi non l’aveva acquistata da lui, la psykter attica del Pittore di Dario; davanti a due immagini con il cratere a volute e l’oinochoe a figure nere, rinvenute a Basilea, nell’archivio di Gianfranco Becchina, un altro grande mediatore dell’“arte trafugata”. I primi acquisti di Princeton risalgono al 1989, gli ultimi al 1995. Un ventennio in cui dal nostro Paese sono usciti centinaia di migliaia di reperti scavati di frodo; molti degni dei grandi musei; alcuni anche autentici capolavori, perfino unici al mondo. Ma ormai, il vento è finalmente cambiato, e i grandi musei cominciano a restituire.

martedì 30 ottobre 2007

il Riformista 30.10.07
Cosa rossa. La road map anti-Walter
Giordano cerca sponde sul modello tedesco
D'Alema, Fassino, Rutelli gli interlocutori privilegiati. Il Prc prova ad accelerare sul soggetto unitario


Primo: tenere in piedi Prodi il più possibile. Secondo: accelerare finché si può sul soggetto unitario senza perdere pezzi. Terzo: trattare, trattare e poi ancora trattare sulla legge elettorale per evitare il referendum e per provare a incassare il sistema tedesco. È questa la road map della Cosa rossa dopo il discorso veltroniano di sabato che ha suscitato, dalle parti della sinistra-sinistra, qualcosa di più di una semplice preoccupazione.
Innanzi tutto c'è il governo, che, ad oggi, viene giudicato il minore dei mali e, nonostante tutto, l'equilibrio più avanzato possibile. Il che la dice lunga sulle preoccupazioni dovute al ciclone democrat . Non è un caso che Liberazione , da un po' di giorni, abbia come bersagli Veltroni (con più cautela) e Montezemolo (ad alzo zero), che vengono considerati i due veri artefici di un assetto diverso dall'attuale. Quindi l'obiettivo è blindare Prodi, finché dura: un segnale chiaro in tal senso è che, dopo la piazza del 20 ottobre, la partita degli emendamenti sul welfare viene gestita quasi "sottovoce", senza ripetere la frase che solo qualche giorno fa aveva il sapore di un ultimatum: «Se il Protocollo non cambia noi non lo votiamo». Ieri inoltre - a testimoniare la delicatezza del momento - Giordano ha pure evitato di usare la parola «verifica» (invocata, assieme a un rimpasto, da Mastella) e persino la parola «chiarimento» e ha affermato, mostrandosi disponibile a una riduzione dei ministri: «È utile fare un confronto e Prodi deve essere il garante di questo confronto». Se invece le situazione dovesse precipitare, l'ipotesi più accreditata resta quella di un governo istituzionale: la parola «governo tecnico» è bandita. Tradotto: meglio Marini che Dini o chi per lui. Ma bandito è anche il voto con questa legge.
La reazione di Rifondazione all'offensiva veltroniana, dunque, si concentra soprattutto sulla legge elettorale e sui tempi della Cosa rossa anche perché, ragionano al quartier generale di via del Policlinico, le due cose sono indissolubilmente legate. In che senso? Con questa legge il processo unitario è destinato ad andare inevitabilmente a rilento, visto che agevola la posizione attendista di chi (Pdci e verdi) ha intenzione di procedere sì, ma non vuole aderire a un soggetto dove si smarriscano le singole identità. E sul sistema tedesco la sponda ricercata dal Prc (anche Mussi è d'accordo) sono soprattutto D'Alema, Fassino e Rutelli. Con loro l'intesa sembra solida mentre Veltroni, a giudizio di Rifondazione, tergiversa sulle alleanze perché non sa quale sistema elettorale vuole. Russo Spena dice: «Si deve proseguire il confronto sul disegno di legge Bianco presentato in prima commissione. Quella è la sede principale per discutere. È ad esempio lì che si è visto come il tedesco corretto con premio di maggioranza non si possa fare. Noi continuiamo a muoverci sulla base di quello che hanno detto D'Alema, Fassino, Rutelli». Al fondo del ragionamento c'è l'idea che l'alleanza di centrosinistra debba continuare a essere la prospettiva strategica, anche per il futuro. Prosegue Russo Spena: «Non c'è altro schema di governabilità per il paese che l'alleanza col Pd». Certo nel discorso di Veltroni la sinistra-sinistra vede un salto politico non di poco conto: il passaggio dalla democrazia organizzata a quella plebiscitaria. Ed è per questo che spera che il tempo ammorbidisca il decisionismo veltroniano. Tradotto: nei prossimi mesi l'uomo solo al comando potrebbe essere costretto a mediare con i partitisti del Pd e allora le condizioni di dialogo potrebbero essere diverse. Ma uno schema diverso dall'asse Pd-Cosa rossa sarebbe un incubo per il Prc. E Giordano ieri ha continuato a lanciare segnali di dialogo alla troika tedesca formata da D'Alema, Fassino e Rutelli, considerata, ai suoi occhi, più affidabile di Veltroni.
Ma sulla legge elettorale non tutti, nella Cosa rossa, giocano la stessa partita: Sd e Prc vogliono il tedesco, il Pcdi e i verdi no, perché si vedrebbero costretti ad una alleanza all'interno della quale invece mirano a mantenere una qualche autonomia. Così Diliberto va a Mosca, i verdi rilanciano sulla Cosa arcobaleno, e la Cosa rossa per dar loro un segnale promuove una manifestazione in piazza Farnese il 10 novembre nell'anniversario del referendum sul nucleare. Il 7 novembre, invece, comitato politico di Rifondazione per tenere insieme il tutto con la proposta di una federazione senza sciogliere nessun partito.
L'elemento più critico di tutto il processo si chiama sindacato. Se infatti la manifestazione del 20 ottobre sul fronte del governo non ha lasciato grossi segni, non si può dire lo stesso dalle parti della Cgil. E l'autocritica di Mussi ha accentuato un solco con i sindacalisti vicini a Sd. Il segretario confederale della Cgil Paolo Nerozzi ieri dall'Unità ha mandato un messaggio chiaro: «Al Pd dico: non siamo un pezzo del Novecento. Agli altri raccomando: un partito di sinistra deve rappresentare l'insieme del mondo del lavoro e non una sua parte».

l’Unità 30.10.07
Sicurezza, arriva il pugno duro sulle violenze in famiglia
Giro di vite sui maltrattamenti, permesso di soggiorno alle immigrate che denunciano. Furti, in carcere solo con l’aggravante
di Anna Tarquini


SANZIONI più severe per la violenza sessuale in famiglia, anche se questa arriva dal semplice convivente: i maltrattamenti contro i familiari saranno aggravante. E le extracomunitarie che denunceranno mariti o parenti violenti avranno diritto al permesso di soggiorno. A Palazzo Chigi sono certi che stamane sul pacchetto sicurezza ci sarà massimo consenso. E così dovrebbe essere grazie al ritorno del reato di falso in bilancio e delle nuove norme sui maltrattamenti in famiglia oltre all’estensione dell'articolo 18 - cioè alla possibilità per le extracomunitarie di richiedere il permesso di soggiorno in caso di violenza - anche per le clandestine che denunciano mariti o parenti violenti. Questo dovrebbe tacitare anche il ministro Pollastrini che però ieri, fino all’ultimo, ha dato per non scontato il suo voto: «Il mio consenso sarà condizionato al nesso pacchetto-diritti, processo, tratta e minori. Vigilerò in maniera particolare su alcune richieste avanzate nell'ultimo Consiglio dei Ministri, il cui esito determinerà il livello del mio consenso. Ma ho motivi per ben sperare». C’è però il nodo Rifondazione. «Non vogliamo sindaci-sceriffi - ha ribadito Silvio Crapolicchio - , non vogliamo che le città diventino città di polizia, crediamo si debba lavorare sull'integrazione sociale». E per Rifondazione e Ferrero nel pacchetto sono stati introdotti due emendamenti contro caporalato e contraffazione. Le misure anti-contraffazione vengono così scorporate dal ddl sulla certezza della pena e ci sarà anche una riduzione della pena prevista per i venditori in strada.
Non più quattro ma cinque ddl: il testo riscritto e limato, dovrebbe avere via libera. Cosa cambia. Cambia innanzi tutto il «falso in bilancio» che torna ad essere reato. Voluto da Antonio Di Pietro e da Ferrero la misura innalza le pene che nella scorsa legislatura erano state alleggerite. In particolare, la pena per chi falsifica i bilanci sale fino a quattro anni (prima erano due) e vengono cancellati i commi che escludono la punibilità se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile il quadro societario. In caso di società quotate in Borsa, la reclusione passa da un massimo di tre a sei anni. Aumentano anche i tempi di prescrizione mentre i poteri di espulsione dei prefetti si fermeranno di fronte ai minorenni e a chi sta in Italia da più di dieci anni. Limitata anche la parte che riguarda la «certezza della pena». Ridotti i reati per cui è previsto l’obbligo di custodia cautelare: valido in caso di rapina e incendio boschivo, mentre per il furto in appartamento e lo scippo è applicato solo se ci sono aggravanti. Infine - e anche questa richiesta accontenta i ministri della cosiddetta sinistra radicale - è stata prevista la distruzione d'ufficio dei campioni di Dna raccolti in caso di assoluzione del soggetto.

l’Unità 30.10.07
Contratto, oggi i metalmeccanici in piazza
Cortei in tutta Italia. Altre otto ore di sciopero il 16 novembre. Epifani: no ad acconti
di Marco Tedeschi


PROTESTA Ieri lo sciopero dei lavoratori di Università e Ricerca, che ha chiuso la tre giorni di agitazioni che ha interessato tutto il comparto del pubblico impiego. Oggi lo sciopero dei metalmeccanici. Obiettivi comuni, il rinnovo dei contratti di lavoro - che nel primo caso necessitano di un congruo stanziamento di risorese in finanziariae nel secondo l’abbandono delle chiusure da parte imprenditoriale - e la lotta alla precarietà.
Così, se ieri l’adesione alla protesta è stata, secondo i sindacati, «massiccia» e alcune centinaia di persone hanno partecipato a Roma ai presidi davanti al dipartimento della Funzione Pubblica e in piazza Montecitorio, oggi saranno decine di migliaia le tute blu che parteciperanno, in tutta Italia, alle manifestazioni per il rinnovo del contratto indette da Fiom, Fim e Uilm.
I metalmeccanici incroceranno le braccia per 8 ore. Una prima tranche di agitazioni che sarà replicata il 16 novembre, nuova data indicata proprio ieri dalle segreterie nazionali di Fiom, Fim, e Uilm per un secondo sciopero di 8 ore (su un totale di 12 da effettuare entro il mese).
Novità, comunque, ce ne sono. Dopo un periodo di stallo, sulla trattativa con Federmeccanica è piombata la scorsa settimana la decisione di Fiat, seguita anche da altri gruppi, di anticipare in busta paga 30 euro dei 117 richiesti. Una scelta interpretata dai sindacati - ancora ieri il leader della Cgil Epifani ha ribadito il suo «no» agli acconti - come un tentativo di «mettere in discussione la vertenza contrattuale nazionale». Fiom, Fim e Uilm temono infatti che quel gesto, più che accelerare il negoziato, punti a minarlo, scardinando la formula del contratto nazionale. Le tre organizzazioni restano quindi ferme sulla loro linea, sia per quanto riguarda il rinnovo della parte economica del contratto, con un aumento «assolutamente ragionevole» di 117 euro più 30 per chi non fa contrattazione aziendale, sia per le modifiche della parte normativa. E si dichiarano «indisponibili a trovare soluzioni in sede aziendale a quello che è il diritto dei metalmeccanici di vedere rinnovato positivamente il loro contratto». Finora davanti a questa richiesta Federmeccanica ha risposto con un’offerta di 60 euro da corrispondersi in due anni.
«Abbiamo deciso di incalzare Federmeccanica sia con un ritmo serrato di trattative sia con iniziative di lotta per arrivare rapidamente alla chiusura positiva del negoziato», spiega Giorgio Caprioli, segretario generale della Fim. «Lo sciopero di domani - gli fa eco il segretario generale della Uil, Antonino Regazzi - deve servire a far cambiare atteggiamento a Federmeccanica, mentre quello del 16 speriamo serva a preparare la fase conclusiva». Il calendario è infatti fitto di incontri: in ristretta il 9 novembre, il 12, il 14 e il 15, poi in plenaria il 21, dopo il secondo stop.
Al sindacato replica Federmeccanica che ribadisce, con il direttore generale, Roberto Santarelli, che «non è con lo sciopero che si conseguono gli accordi». Gli industriali, tuttavia, si dicono «disposti ad andare incontro alle richieste economiche dei sindacati», anche se le denunce sui bassi salari italiani sono «meno vere nel settore metalmeccanico».
Oggi si terranno manifestazioni e presidi in tutte le città d’Italia. A cominciare da Torino, dove l’astensione dal lavoro durerà otto ore, ed un corteo si dirigerà verso la sede dell’Associazione Industriale.

l’Unità 30.10.07
Di Vittorio, la lezione di un uomo dell’800
di Adriano Guerra


A CINQUANT’ANNI dalla morte la statura politica e culturale del sindacalista rimane valida e attuale più che mai, anche in tempi di «precariato». Indipendente dal partito, si schierò a fianco degli operai ungheresi nel ’56

Di Vittorio - ha scritto Luciano Lama - «è stato in Francia, in Spagna, ha avuto un’esperienza vasta: però la sua vera esperienza sindacale è stata quella dei braccianti pugliesi. Il sindacato l’ha conosciuto vivendo la vita dei braccianti degli anni Dieci». È dunque possibile guardare a Di Vittorio - se si pensa all’arretratezza sociale e culturale del Mezzogiorno d’Italia dei primi del secolo scorso - come ad un uomo dell’800. Glielo hanno detto in molti anche, in qualche caso per rimproverargli atteggiamenti ritenuti «troppo all’antica», non consoni ai «tempi moderni». È accaduto ad esempio dopo la sconfitta alla Fiat della Fiom, scesa alle elezioni del 29 marzo 1955 dal 70,4% dell’anno precedente al 39%. Che legame poteva esserci - ci si chiedeva allora - fra i braccianti dei primi anni del ’900 - che qualche film in bianco e nero ci mostrava e ci mostra curvi a spostar terra o anche, talvolta, con l’abito nero della festa, a chiacchierare sul sagrato di una chiesa - e il «moderno operaio di fabbrica» della metà degli anni ’50?
Tutto - si proclamava - era cambiato. La Cisl e la Uil avevano firmato con la Confindustria l’accordo sul conglobamento, e ne erano seguiti in decine e poi centinaia di fabbriche accordi separati che avevano messo ai margini la Cgil. Alla Fiat c’era il sindacato di Valletta e altri «sindacati aziendali» stavano sorgendo un poco ovunque. Ma i mutamenti più profondi riguardavano l’organizzazione della produzione nella fabbrica ove erano arrivate le tecnologie della nuova «rivoluzione industriale». E poi c’erano le «relazioni umane», le case per gli operai con la piscina e gli asili nido che il conte Marzotto aveva fatto costruire e che, come ci ha raccontato la moglie Anita, tanto impressionarono Di Vittorio. E ancora c’erano le «paghe di classe», i premi di produzione, i nuovi sistemi di cottimo. Che cosa erano diventati insomma i braccianti del Sud ora che avevano raggiunto l’«America» di Torino, Milano, Brescia, Porto Marghera?
Rispondere alla domanda non era facile, né per il sindacato, né per il Pci che a Torino e a Roma parlavano soltanto di «elezioni non libere» perché svoltesi sotto il segno di quell’«infame ricatto dei licenziamenti e della fame» che «per quaranta giorni il padrone aveva fatto incessantemente pesare su ognuno degli operai e degli impiegati». Non era facile neppure per Di Vittorio, e proprio perché il mondo dal quale veniva era quello ricordato da Lama. Ma l’ex bracciante di Cerignola ha saputo trovare la strada e le parole giuste. Alla riunione del Comitato direttivo della Cgil del 26 aprile 1955 ha incominciato mettendo al centro le sue responsabilità di massimo dirigente del sindacato. Non si è però fermato all’autocritica. Il suo è diventato subito (Michele Pistillo nella sua biografia ha ricostruito quel momento di svolta) un discorso «moderno», che ha sorpreso un po’ tutti perché, rovesciando di 360 gradi l’impianto politico-culturale precedente - ostile in partenza a tutto ciò che si temeva potesse portare al «sindacato di fabbrica», e per questa via al «corporativismo» delle categorie - ha posto a tutta la Cgil il problema di abbandonare gli «schemi generali» entro i quali si era pensato, sino a quel momento, di affrontare le questioni particolari.
Ora che i «tempi di carestia», per dirla con Vittorio Foa, erano finiti occorreva - proseguì Di Vittorio - affrontare a livello aziendale tutto quello che di nuovo era sorto nella struttura delle retribuzioni, nell’organizzazione e nei metodi di lavoro, e anche nel modo di vivere e di pensare dei lavoratori.
Di quei lontani tempi di Puglia e di quelli, anch’essi di carestia, dei primi anni del secondo dopoguerra, occorreva però, per Di Vittorio, non abbandonare alcuni dati di fondo: quelli che riguardavano il valore della solidarietà, il ruolo nazionale - di costruttore e difensore dell’unità nazionale - del sindacato, il valore da assegnare all’unità dei lavoratori e del movimento sindacale, il principio dell’autonomia e dell’indipendenza del sindacato nei confronti «dei padroni, dei governi e dei partiti».
Era stato sulla base di questi princìpi che dal Patto di Roma al lancio del Piano del Lavoro (per cui gli operai del Nord avevano accettato consapevolmente di accollarsi sacrifici materiali per permettere un aumento dell’occupazione nel Mezzogiorno), all’atteggiamento di apertura nei confronti di iniziative dei governi centristi ritenute valide anche se combattute dall’opposizione di sinistra (quali ad esempio il Piano Vanoni, la Cassa del Mezzogiorno, e in precedenza la stessa adesione italiana al Piano Marshall), che la Cgil aveva con Di Vittorio impostato la sua presenza in Italia. Senza mai accettare come definitiva la rottura del 1948 con la Cisl e la Uil. Senza mai rinunciare a battersi contro coloro che guardavano al sindacato, in nome del «primato della politica», come ad uno strumento, una cinghia di trasmissione - come recitava la formula - del partito.
Quante battaglie perse su quest’ultimo tema... Quante volte Di Vittorio ha dovuto accettare che decisioni importanti per quel che riguardava ad esempio l’inquadramento sindacale venissero prese dalle e nelle segreterie dei Pci e del Psi. Ma anche con quale paziente coerenza egli ha continuato a lavorare perché il principio per cui il sindacato dovesse essere altra cosa che una mano del partito venisse accolto - come avvenne poi all’VIII congresso del 1956 - dal Pci.
Né la sua battaglia ha riguardato soltanto il nostro paese. Presidente della Federazione sindacale mondiale, e cioè dell’organizzazione messa in piedi dai sovietici per imporre ovunque un’idea del sindacato come forza subalterna al partito, egli, anche in quella sede, ha rivendicato per i sindacati il diritto all’indipendenza. Il loro posto - non si stancò di ripetere - non poteva che essere sempre dalla parte dei lavoratori, anche quando si trattava di prendere posizione contro un partito e un regime che sostenevano di essere, per definizione, organi della classe operaia. E che non si sia trattato per lui di parole di circostanza è testimoniato dalla sua immediata scelta di campo - in aperta contrapposizione non solo alle burocrazie del «socialismo reale» ma anche a Togliatti - a fianco dei lavoratori scesi in lotta a Poznan in Polonia nel giugno 1956 e pochi mesi dopo in Ungheria nei giorni drammatici della rivolta democratica.
Non è davvero facile, insomma, definire Di Vittorio, comunista e uomo di partito, che ha pagato il suo tributo a Stalin e allo stalinismo, ma che nel 1938, esule in Francia, ha detto «no» al patto Molotov-Ribbentrop, pagando, per questo, lunghi anni di isolamento. Non è facile liberare la sua figura - come si legge nell’ultimo scritto di Bruno Trentin - dalle vulgate «che lo relegano nella cerchia dei capipopolo e dei tribuni dall’oratoria trascinante, o che vedono in lui soltanto il grande bracciante autodidatta, ignorando la sua statura - politica e culturale - di grande riformatore affermatasi quando il Pci era ancora assai lontano dal percepire l’esperienza catastrofica del “socialismo reale”».
Non è facile anche perché siamo entrati in un secolo nuovo. (Anche se la Fiat - sempre la Fiat… - dopo aver dato all’operaio-produttore il salario più basso d’Europa, oggi ci riprova, puntando sull’operaio-consumatore, con questi 30 euro infilati - a buon rendere? - nelle buste paga).
Un secolo, il nostro, nel quale - si dice ancora - il lavoratore «a tempo pieno» sarebbe destinato a scomparire, come sono scomparse le mondine, e in ogni caso, quando scende in lotta per difendere i propri interessi non difenderebbe più, ma anzi colpirebbe, gli «interessi generali» e quelli dei giovani in attesa di lavoro o alle prese con lavori saltuari e precari. Perché quest’operaio a tempo pieno non sarebbe altro, oggi, in quanto «lavoratore garantito», che un roditore delle pensioni altrui.
Ma davvero il mondo si è rovesciato, ciò che era controriforma è diventato riforma, e costruire il futuro significa fare tagli netti con tutto il passato? Torniamo alle scelte Di Vittorio, insieme di rottura e di continuità, e chiediamoci se esse non possano essere di aiuto anche oggi. Anche per guardare all’interno delle fabbriche. Per chiederci ad esempio se non sia inadeguata la scelta compiuta dai lavoratori della Mirafiori che hanno «sparato nel mucchio» nel momento in cui il sindacato era chiamato ad una scelta politica. E se, per contro, i lavoratori del Nord che hanno votato «sì» ad un documento fatto proprio dal governo, dai sindacati e dalla Confindustria e che aveva al centro non già la difesa dei loro interessi immediati ma quelli generali del paese, non abbiano seguito l’esempio dei loro padri e dei loro nonni degli anni ’50. Non abbiano dato cioè una mano ai giovani disoccupati o senza lavoro fisso.
Nel secolo scorso c’erano insomma cose - com’è naturale - sia del secolo precedente che di quello successivo, il nostro. Per cui può succedere che Di Vittorio, (classe 1892) che ha scoperto il sindacato guardando ai braccianti pugliesi dei primi anni del ’900, abbia qualcosa da dire anche ai produttori-consumatori di oggi.

Repubblica 30.10.07
"Basta invasioni di campo nessuna medicina è immorale"
La Turco: sulle regole solo il Parlamento è sovrano
di Mario Reggio


La parola del pontefice è autorevole nella sua dimensione pastorale Ma non è possibile che tutte le volte che si esprime su un tema succeda il terremoto

ROMA - «C´è una cosa che questo Paese dovrebbe imparare. Non è possibile che ogni volta che il Papa parla succeda un terremoto. Quando il capo della Chiesa chiama in causa le leggi, il mio dovere di ministro oltreché il mio sentimento di cittadina della Repubblica Italiana è quello di ricordare che l´indiscutibile sovranità appartiene al Parlamento. E per un ministro è l´unica sovranità che conti».
Livia Turco, ministro della Salute: ritiene che quella di Ratzinger sia un´invasione di campo?
«La parola del Papa è autorevole, da ascoltare nella sua dimensione pastorale e profetica. In questo caso Ratzinger pone il problema dell´educazione alla sessualità che sia anche un´educazione alla vita, alla responsabilità e alla relazione umana tra i sessi. Un messaggio che condivido, ma da qui all´obiezione di coscienza dei farmacisti ce ne corre».
Quindi?
«La legge non prevede l´obiezione di coscienza dei farmacisti e credo che le norme siano sagge. Come si può stabilire rispetto a quali farmaci si possa applicare l´obiezione di coscienza? Se dovesse passare questo principio si scatenerebbe, da parte delle persone, una caccia selvaggia alle farmacie dove non lavorano farmacisti obiettori. Tra l´altro non esistono farmaci che incentivano l´aborto e l´eutanasia nella farmacopea ufficiale. Un pensiero diverso significa nutrire una grande sfiducia nei confronti dell´autorità europea che registra i farmaci consentiti dal prontuario farmaceutico. L´Agenzia europea del farmaco, assieme alle strutture pubbliche degli Stati membri della Ue, autorizzano la prescrizione ed il consumo di prodotti sottoposti a rigorose validazioni scientifiche e cliniche. Non mi risulta che l´Agenzia europea (Emea) abbia mai autorizzato farmaci che abbiano scopi immorali».
Il Papa non fa distinzione tra pillola del giorno dopo e la Ru 486.
«Voglio fare chiarezza su una confusione imperante e dannosa. Il contenuto della pillola del giorno dopo è un estrogeno ad alte dosi, lo stesso principio contenuto in quella anticoncezionale. Il suo scopo è quello di prevenire una maternità non desiderata e quindi l´aborto. Deve essere somministrata entro le 72 ore successive al rapporto sessuale non protetto, quindi a rischio. È registrata nella nostra farmacopea da cinque anni sulla base del principio del mutuo riconoscimento comunitario ed è presente in tutti i Paesi europei. Credo che bisogna fare tutti gli sforzi possibili per evitare la pillola del giorno dopo, quindi mi sento fortemente impegnata a promuovere la contraccezione, l´educazione sessuale ed il potenziamento dei consultori. Sono convinta che i nostri giovani abbiano bisogno di una profonda educazione sentimentale».
E la Ru486?
«È tutta un´altra storia. Si tratta di una metodica abortiva ampiamente sperimentata di cui si conoscono gli effetti collaterali. Sono state già fissate le modalità attraverso le quali va prescritta e somministrata. È un´alternativa all´intervento abortivo chirurgico ed in quanto tale non ha bisogno di ulteriori sperimentazioni. È prevista dalla farmacopea e dall´Emea. Fino ad ora non è commercializzata in Italia perché l´azienda che la produce non ne ha fatto richiesta. Il suo utilizzo non chiama in causa nessuna legge. Ha ragione l´assessore regionale alla sanità dell´Emilia Romagna, Giovanni Bissoni, quando dice che si è attenuto alle regole vigenti. Gli ospedali che hanno richiesto questa metodica abortiva hanno importato il farmaco dai Paesi europei dove è commercializzata».
E da noi?
«Ho appreso dall´Aifa che ai primi di novembre l´azienda produttrice trasmetterà la richiesta all´Emea, per attivare la pratica del mutuo riconoscimento. Dopo 90 giorni la pratica si conclude automaticamente. Quando questo avverrà spero che l´arrivo della Ru 486 in Italia venga accolto con un dibattito sereno e pacato perché non si tratta di un incentivo all´aborto. Sarà mia cura comunque chiedere al Consiglio superiore di sanità un atto di indirizzo perché la metodica sia inserita scrupolosamente nell´ambito della legge 194, quindi somministrata solo ed esclusivamente nelle strutture pubbliche».

Repubblica 30.10.07
Una macabra celebrazione
Quel mondo pagano finito nel cristianesimo
di Umberto Galimberti


Già nell'antichissimo rito delle popolazioni del Nord Europa troviamo la festa notturna dei morti che ritornano per spaventare i vivi
Il confronto fra la tradizione e la modernità, quando sono in gioco vita e morte

Morti viventi che si aggirano per le contrade e vivi impauriti che si coprono il volto con maschere terrorizzanti per spaventare i morti e tenerli lontani. Questa è Halloween, una festa pagana diffusa tra le popolazioni del Nord Europa a partire dal 4.000 a. C., riconvertita dal cristianesimo nel 600 d. C. nella festa dei Santi, con particolare riferimento ai cristiani uccisi in nome della fede, seguita dalla festa in onore dei morti. Due culture che si scontrano e si sovrappongono. Due temporalità che si contaminano e, nella contaminazione, confliggono. Halloween non è il carnevale, festa della sovrabbondanza prima della penuria quaresimale, Halloween mette in scena il gioco della vita e della morte in un tripudio beffardo e grottesco, perché se la vita è uno stupido scherzo, possiamo berci sopra oltre ogni misura. Per questo la modernità, che ancora abita la cultura cristiana, senza però più credere alla propria salvezza, mette in scena lo spettacolo della morte deridendola con ogni sorta di scherno. Nulla della tragedia greca che si consegna al destino, per crudele che sia. Nulla della pietas romana che onora il defunto e lo propizia. Halloween guarda lo spegnersi autunnale della natura come metafora della condizione umana, e reagisce a questa tristezza mettendo in scena una gioia macabra.
Il cristianesimo, con la sua fede nella sopravvivenza, depotenzia la morte a semplice transito: da questo cielo e da questa terra colmi di dolore a "nuovi cieli e nuove terre" (Isaia). E così l´uomo non ha la stessa sorte di tutti i viventi nati dalla terra e dalla terra riassorbiti. Il suo tempo non è quello "ciclico" della natura che, per perpetuare la sua vita, esige la morte di tutti i viventi che ha generato, secondo l´ordine del tempo. La promessa della salvezza conferisce alla vita umana un "senso" che non ha la cadenza del ciclo della natura, per cui la morte perde il suo tratto beffardo e tragico. Un´altra vita si annuncia dopo quella che appare una fine.
Non così per il mondo pagano che, non avendo speranze ultraterrene, sa di non poter evitare la propria sorte mortale, di fronte alla quale, come dice Sartre: «È la stessa cosa aver guidato popoli o essersi ubriacati in solitudine». Dal nulla venuto e al nulla destinato, il pagano, a differenza del cristiano, non chiede il senso della propria esistenza. Sapendosi evento della natura che, nella sua crudeltà innocente, conduce alla morte tutti coloro che ha generato, il pagano si affida a quella temporalità ciclica, propria della natura, che governa il nascere e il dissolversi di tutte le vite, secondo necessità. Una natura a un tempo generativa e distruttiva, copiosa di vita e di morte.
Qui il paganesimo greco coglie l´essenza del tragico, dove l´innocenza della natura nel suo eccesso di vita e nella sua crudeltà confligge con la vita del singolo individuo che vuol durare. Dalla dimensione tragica il paganesimo greco fuoriesce non ipotizzando, come il cristiano, un mondo ultraterreno, ma percorrendo pazientemente le vie del sapere che consentono, come dice Ippocrate, di procrastinare la vita evitando almeno la morte evitabile. Non illudersi, quindi, affidandosi a cieche speranze, non rassegnarsi nella più tetra delle malinconie, ma conoscere per conservare la vita, onde evitare la morte che dovesse sopraggiungere per casualità o ignoranza.
Non così il paganesimo nord-europeo che alla conoscenza ha preferito la rassegnazione, e ha reagito alla malinconia che l´accompagna col tripudio della festa notturna dei morti che ritornano per spaventare i vivi, e con i vivi che indossano teschi e cospargono il corpo di rigagnoli di sangue per esorcizzare nella finzione lo spettro della morte. In questa macabra festa, dove si sfida la morte col riso sarcastico di chi non può sfuggire a una sorte ineluttabile, si sospendono tutte le regole adottate per una buona conduzione della vita, si infrangono tutti i tabù, ci si concede a tutti gli eccessi, in quell´atmosfera pallida che il chiarore della luna concede, quasi a simulare il pallore della morte. Perché se il sole è vita, nella notte di Halloween, ciò che si celebra è il sole spento, quella luce nera e così poco rassicurante che presagisce il buio dell´oltretomba. I bambini, che ancora non percepiscono la propria morte, in quella notte, travestiti da streghe, zombie, fantasmi e vampiri, bussano a 13 porte gridando con tono minaccioso "Dolcetto o scherzetto" (Trick or treat, nella versione inglese), richiamo alla tradizione celtica che voleva si lasciassero dei dolci sulla tavola in segno di accoglienza per i defunti che in quella notte avessero fatto visita ai vivi. Ma perché bussare 13 porte se le case del cielo che presiedono il ritmo della natura sono 12 come i mesi dell´anno? Perché la tredicesima porta, come ci ricorda Jean Bodin nel suo trattato sulla Demonomania del 1580, è quella che annuncia: «Il crollo imminente dell´ordine, con mutamenti del ciclo delle stagioni, morie di bestiame, carestie imminenti, piogge di sangue e di pietre».
Del resto, se io devo morire, perché non anche il mondo? Tutto è vano, tutto fu. E di fronte all´indifferenza della natura e all´insignificanza della vita umana, si faccia festa. Non la festa dionisiaca della cultura greca che è deflagrazione di un ordine in vista di un ordine nuovo (Dioniso e Apollo), ma beffardo esorcismo di una cupa rassegnazione, e quindi urlo che spezza ogni presunta armonia, o, come si legge nelle Bucoliche di Virgilio, «canto sfrenato che può tirar giù dal cielo anche la luna». Questo è Halloween. Il canto della disperazione.
Perché la modernità recupera questo antico rito? Perché della cultura greca il nostro tempo ha perso la "giusta misura", e del cristianesimo la speranza di salvezza. Ciò che è rimasto è il motivo cristiano della denigrazione del mondo (Qui amat mundum non cognoscit Deum, diceva Sant´Agostino). Una denigrazione che si accompagna al piacere morboso e perverso della propria dissoluzione. E tutti sappiamo che nel cupio dissolvi c´è anche del gusto, l´unico forse che davvero assapora la tarda modernità. Halloween è solo una festa, che però richiama il sentimento del nostro tempo che fatica sempre più a dar senso alla vita e alla morte, e perciò celebra l´apoteosi del nulla.

Repubblica 30.10.07
Unione Sovietica. L'onda lunga del terrore
di Simonetta Fiori


Dagli anni Venti al 1953 furono eliminati oltre dodici milioni di persone con picchi di settecentomila fucilati nel ‘37
Intervista/ Andrea Graziosi ha ricostruito la storia dell´Urss dal 1914 al 1945 sulla base di nuovi documenti accessibili dal ‘91
Dal gennaio al giugno del 1933 i morti nelle campagne furono circa cinque milioni. Intanto nelle città fu reintrodotto il passaporto interno con discriminazioni infinite
Spesso il filtro ideologico ha appannato l´occhio dello storico: per anni vi è stato chi ha negato la realtà del lavoro forzato o delle carestie e l´entità delle vittime

Storia imprevedibile, tragica e a tratti grottesca quella dell´Unione Sovietica, dove ci si può imbattere nelle più luttuose epopee finora rimaste in penombra - oltre al già conosciuto Grande Terrore del ‘37-´38 - o in personaggi gogoliani come quel funzionario bolscevico che negli anni Venti voleva vendere un Rembrandt in cambio d´un trattore. Nel novantesimo anniversario dell´Ottobre rosso, esce dal Mulino il primo volume della Storia dell´Unione Sovietica di Andrea Graziosi, L´Urss di Lenin e Stalin (1914-1945), la prima scritta sui nuovi documenti scoperti dopo il 1991 negli archivi di Mosca (pagg. 630, euro 30). Una novità rilevante sul piano delle fonti, che consentono di analizzare dall´interno il formarsi dell´accidentato paesaggio storico, non di limitarsi - nel migliore dei casi - a una descrizione da lontano dei suoi contorni. Ma anche un importante contributo dal punto di vista interpretativo, che capovolge il tradizionale rapporto tra impero zarista e Unione Sovietica, quest´ultima raffigurata come sospinta dall´onda lunga della vitalità intellettuale e demografica del primo, destinata a consumarsi fino al 1939 tra guerre civili, repressioni e carestie.
Nel lungo dopoguerra la storia sovietica ha alimentato passioni e lacerato coscienze, producendo anche in Italia lavori partigiani a sinistra come a destra. «Spesso», dice Graziosi, «il filtro ideologico ha finito per appannare l´occhio dello storico: nell´encomio e nella demonizzazione. Per anni vi è stato chi ha negato la realtà del lavoro forzato e della carestia e quando ciò non è stato più possibile ha ingaggiato battaglie sul numero dei morti». Oggi è possibile accostarsi a quella storia con uno sguardo più libero e attrezzato. E può indurre a riflessione la circostanza che ad affrontare l´impervio cammino sia uno studioso non di area postcomunista, segno d´una difficoltà a sinistra nel fare i conti con una storia così ingombrante. «Sì, credo che una rimozione da speranza delusa vi sia stata», dice Graziosi, 53 anni, professore di Storia contemporanea all´Università di Napoli, diversi incarichi tra le università di Yale, Harvard e l´Ecole des Hautes Etudes, una nutrita bibliografia anche in Russia e in edizioni anglosassoni, recente la nomina alla presidenza della Sissco, la Società di studi di storia contemporanea.
Fin troppo a lungo, nell´immaginario della sinistra italiana ha resistito l´immagine d´un Lenin "rivoluzionario equanime" a confronto d´uno Stalin assetato di sangue. La sua storia sovietica ristabilisce le proporzioni.
«Sì, Lenin è uno strano impasto di intelligenza e fanatismo, mescolati da uno straordinario furore rivoluzionario. Anche in questo Stalin fu suo allievo, destinato a superare il maestro. Fin dal 1906 Lenin era stato persuaso che per fare la rivoluzione occorre "una guerra di sterminio, disperata e sanguinosa". E così fece, per imporre una società ideale ancorata all´ideologia. Da questo punto di vista sia il Lenin del "comunismo di guerra" sia lo Stalin del balzo in avanti del 1929 sono due grandi e feroci utopisti che cercano di imporre la loro idea di società a una comunità recalcitrante e per questo hanno bisogno di un´enorme dose di violenza. Si sentono entrambi autorizzati a impiegarla».
Lei mette in luce la straordinaria durezza fin dal 1918 dello scontro tra il nuovo Stato uscito dalla rivoluzione e la massa dei contadini.
«Mentre Sverdlov ordinava per telegrafo nell´estate 1918 l´esecuzione dello zar e della sua famiglia, Lenin invitava i bolscevichi a usare nelle campagne metodi barbari. Nei telegrammi spediti ai suoi armati - polizia politica, pezzi dell´Armata Rossa e poi reparti speciali di sterminio - egli ingiungeva di reprimere "senza pietà", impiccando in modo visibile i kulaki. La violenza fu devastante: ostaggi anche tra donne e bambini; deportazione di interi villaggi; torture di massa; fucilazioni e bombardamenti aerei. Alla fine del 1918 la prima grande battaglia tra Stato e contadini era già vinta».
Anche tra il 1920 e il 1921 Lenin curò personalmente i dettagli delle operazioni repressive, insistendo per le azioni più dure.
«Sì, furono messe a punto tecniche cui attingerà Stalin nel decennio successivo. Si cominciò a usare la fame per reprimere la ribellione, sospendendo la consegna dei viveri ai villaggi insorti. Tutti espedienti che anticipano le terribili carestie dei primi anni Trenta».
A proposito delle carestie sterminatrici, lei sostiene che le proporzioni della catastrofe tra il 1931 e il 1933 sono state finora sottovalutate.
«Dal gennaio al giugno del 1933 i morti nelle campagne furono circa cinque milioni. La decisione di usare la carestia - per risolvere la crisi in cui il regime era caduto per colpa delle politiche staliniane - era stata presa a Mosca l´anno prima: il principio era quello di punire i contadini che rifiutavano la nuova servitù. Contrariamente al 1931 e ai primi mesi del ‘32, i villaggi affamati non ricevettero alcun sostegno. Al contrario: mentre il commissario agli Esteri Litvinov negava l´esistenza della carestia con i diplomatici e i rappresentanti della stampa estera, lo Stato "lottava con ferocia" - sono parole di Kaganovic, il "commissario di ferro" di Stalin - per portare a termine i piani di ammasso».
Per lo più si trattò di carestie artificiali.
«Sì, almeno a partire dalla fine del 1932 quando Stalin, per far fronte alla crisi, decise di usare la repressione su due linee principali: punire le regioni cerealicole che non consegnavano il grano e schiacciare le aree che tradizionalmente erano state roccaforti dell´opposizione. Dove le linee si intersecavano - come in Ucraina o nel Kuban - la carestia raggiunse i livelli massimi».
Questo accadeva nelle campagne. In città fu messa in atto la "passaportizzazione", un´operazione repressiva di cui finora s´è saputo poco.
«Sì, non è mai venuta fuori: eppure siamo al vero incunabolo del "terrore", intendendo per "terrore" l´operazione di chirurgia sociale su larga scala praticata tra il 1937 e il 1938 con settecentomila fucilazioni. Le categorie colpite furono quasi le stesse. Nel novembre del 1932 si decide di reintrodurre in sistema dei passaporti interni la cui abolizione era stata una conquista della rivoluzione. La concessione del documento diventò così un privilegio. Nella parte segreta del decreto sono indicate le categorie escluse dal passaporto (necessario per risiedere nelle città) e dunque esposte alla deportazione: i kulak e i dekulakizzati fuggiti dagli insediamenti, anche se impiegati nelle fabbriche; i profughi provenienti dall´estero; i contadini arrivati dopo il gennaio 1931; le persone private dei diritti politici e civili; gli ex condannati per crimini anche leggeri e i loro famigliari. Lo scopo principale era ripulire la popolazione urbana».
Cosa accadde agli esclusi?
«Coloro ai quali il documento fu negato vennero deportati e spesso abbandonati in mezzo al nulla. In alcuni casi, come in quello dei 6.000 "marginali" di Leningrado abbandonati nel 1933 sull´isola di Nazino - cui Werth ha dedicato di recente il suo L´isola dei cannibali - questi poveretti andarono incontro a un destino terribile, lasciati morire di freddo e di fame. Non una strage mirata, ma il prodotto del più totale disinteresse per la sorte degli esseri umani».
Il 1932 fu un anno chiave del "terrore". Sempre in quel periodo fu portata avanti la "denomadizzazione", con esiti devastanti.
«All´inizio del 1931 Mosca si lanciò all´attacco dei pastori nomadi e seminomadi, che a quel tempo costituivano la stragrande maggioranza della popolazione ed erano stati fino ad allora risparmiati dalla collettivizzazione. Non si trattò anche in questo caso d´un progetto volontariamente finalizzato all´eliminazione fisica, ma i diversi provvedimenti finirono per affamare i nomadi fino alla tragica cifra del milione e mezzo di morti. La regione dove la mortalità raggiunse il suo picco è il Kazakstan, che perse quasi il 38 per cento della popolazione indigena».
Stalin ne era consapevole?
«Il dittatore certo non ignorava i termini della tragedia. Nella primavera del 1933 gli arrivò una documentata lettera di Ryskulov, un dirigente comunista di origine kazaca, in cui si parlava addirittura di antropofagia e di schiere di bambini abbandonati. Tra i testimoni della catastrofe vi fu anche Dubcek, il futuro leader della primavera di Praga, che arrivò in quella regione ancora piccolo, accompagnando il padre che doveva costruire in Urss il socialismo. Fu colpito dall´aspetto dei suoi coetanei "cadaveri ambulanti"».
Lo Stalin che affiora dalle sue pagine è una sorta di genio del male. Lei lamenta una sua sottovalutazione prima del 1924.
«Era un uomo spietato, ma anche di forza, intelligenza e volontà straordinarie. È difficile capire perché molti storici abbiano potuto sottovalutare il suo status prima della morte di Lenin. Fin dal 1919 Stalin dispose di un variegato ed esteso seguito personale, con la possibilità di dirigere le regioni e le repubbliche non russe. Grazie al ruolo di luogotenente di Lenin, egli divenne anche il leader del nucleo militarizzato del partito. Nel 1922 per i vertici era già il "grande Stalin", l´uomo forte da cui si andava per discutere dei propri problemi politici e personali».
Uno Stalin che da "amico amato" si trasforma pian piano in "padre terribile". L´opposizione al tiranno fu piuttosto estesa e resistette fino alla metà degli anni Trenta. Tanto che lei ha qualche perplessità ad usare la categoria di "totalitarismo".
«Sì, ne ho discusso anche con Emilio Gentile, studioso dei fenomeni totalitari. Mettiamola così: del termine totalitarismo non ci disferemo mai perché risponde alla necessità di dare un nome ai nuovi regimi sorti dopo la Grande Guerra. Però nel caso dell´Unione Sovietica bisogna rinunciare alla sua carica interpretativa così come la intese per esempio Hannah Arendt. Fino al 1939 il "terrore" fu rivolto contro la popolazione del paese, largamente ostile al regime (e fino al 1933 capace di un´opposizione massiccia) e da un punto di vista concettuale non si trattò nemmeno di terrore, cieco e teso ad atomizzare la popolazione, ma piuttosto di grandi operazione di chirurgia sociale volte ad eliminare pezzi predeterminati della società. Quello sovietico degli anni Trenta fu insomma un regime molto diverso dal totalitarismo di Hitler, forte d´un consenso quasi religioso. La guerra poi cambiò tutto, legittimando in parte il regime agli occhi della popolazione».
Le nuove carte, trovate dopo la fine dell´Urss, cambiano di molto la lettura degli eventi?
«Ti consentono di cogliere certi passaggi "dall´interno", non più a distanza. Rimane però il problema di fondo e cioè che la stragrande maggioranza dei documenti - per quanto straordinari, come straordinario è il fatto che conservassero le prove di quel che facevano - sono di provenienza ufficiale, dunque asettici, segno del grandioso sforzo di costruire burocraticamente un mondo impossibile. Raramente vi puoi affiancare fonti diverse, come diari, memorie, corrispondenze. Faccio un esempio: se la storia dell´immigrazione a New York può essere fatta anche con le lettere, i giornali, le carte di società e sindacati creati dagli stessi immigrati, quella dell´immigrazione contadina a Mosca si può fare basandosi su carte di polizia, fonti giudiziarie o inchieste di partito. I limiti sono evidenti».
Lei insiste sull´importanza delle questioni nazionali.
«Sì, le carte sottolineano la rilevanza di alcune questioni come quella ucraina, ma anche quella russa - la Russia fu a suo modo sacrificata all´Urss - , quella cecena etc. Solo tenendo conto per esempio della grande rivolta nazionale e sociale delle campagne ucraine nel 1919 o dell´opposizione georgiana si può capire perché Lenin decida nel 1922 di creare un nuovo Stato senza il termine "russo". I conflitti degli anni Venti sui confini tra le repubbliche anticipano quelli successivi al 1991, e la tragica carestia del 1933 non può essere compresa senza tener conto dell´elemento nazionale».
Tragica e imprevedibile, la storia sovietica conosce anche momenti grotteschi. A un certo punto per far fronte alla crisi economica, alla fine degli anni Venti, Pjatakov spinge per vendere all´estero opere di Rembrandt e Raffaello.
«Sì, già nel 1919 qualche dirigente aveva proposto di scambiare Rembrandt con dei trattori. Quando poi nel 1928 si formò la commissione per la cessione dei beni artistici, il suo presidente, abituato a trattare materie prime, non trattenne il suo stupore: "Possibile che si trovino cretini tali da pagare per certe cose?". Negli archivi ho trovato anche una lettera di Pjatakov, assai indicativa. "Sono per la barbarie!", replicò polemicamente a chi l´accusava di vandalismo. Pur di salvare la banca di stato e la valuta convertibile, era pronto a vendere sottocosto i quadri dello "schifoso Botticelli". Sì, dice proprio così, parsivyj Botticelli».

Repubblica 30.10.07
Unione Sovietica. I numeri e la memoria
di Arsenij Roginskij


La tortura era legittima e diffusa, tutti potevano improvvisamente essere sottoposti a trattamenti crudeli: parlare di queste cose è stato difficile e ancora oggi lo è
La campagna di Stalin contro i pastori nomadi condannò a morte un milione e mezzo di persone Nella ferocia il dittatore georgiano metteva a frutto la lezione di Lenin

Pubblichiamo parte dell´intervento di sulla "Memoria del terrore nella Russia di Oggi" pronunciato al convegno internazionale della Fondazione "Russia Cristiana". L´autore è uno storico russo di 61 anni, condannato nel 1981 a quattro anni di lager, oggi direttore di "Memorial", l´associazione per le vittime delle repressioni politiche, di cui è anche uno dei fondatori.
orrei citare alcune cifre. Se consideriamo il terrorismo in senso abbastanza stretto, dal 1921 al 1953 le vittime dirette del terrore sono state dodici milioni e mezzo. È una cifra enorme. Ci sfugge invece il numero delle vittime dal 1917 al 1921: non abbiamo statistiche né alcun tipo di registri. Questi dodici milioni e mezzo di uomini si dividono circa in due gruppi: cinque milioni e mezzo sono persone arrestate ufficialmente, con un proprio fascicolo personale, nei confronti delle quali è stata poi emessa una sentenza; gli altri sette milioni sono stati repressi senza alcun processo: hanno subìto il sequestro della casa e poi la deportazione.
Questa è stata la sorte dei contadini durante la collettivizzazione, o di intere popolazioni. Pensate che, in una sola notte, un intero popolo dal Caucaso è stato letteralmente caricato su treni e deportato in Kazakistan, Siberia ecc...
Il 1937-1938 è stato l´apogeo del grande terrore. Di un milione e settecentomila persone arrestate, settecentomila sono state fucilate; un milione e mezzo sono i condannati; duecentomila non sono stati condannati perché Stalin ha messo fine a questo terrore. Un milione e trecentocinquantamila sono invece i condannati per procura: senza processo, procuratori né avvocati. Non sono mai stati portati in tribunale: sono semplicemente stati fatti degli elenchi, che le cosiddette trojke (tre funzionari altolocati nel partito) firmavano; in seguito, le vittime indicate venivano condannate e poi fucilate.
Quelli che hanno avuto un fascicolo personale sono stati veramente pochi. È chiaro che il terrore, ha toccato tutto il paese; non parlo solo del 1937, perché il terrore nell´epoca della collettivizzazione ha avuto proporzioni enormi: anzi, è ancora più grande degli eccidi successivi. Il terrore del ‘37 ha tre elementi fondamentali: l´intensità di questa operazione (moltissime vittime in tempi molto brevi), la crudeltà e la ferocia (basti vedere il numero delle fucilazioni); infine, terzo elemento, l´uso di massa delle torture, sanzionate dall´alto (per la prima volta, erano ufficialmente consentite dallo Stato, per cui tutti potevano essere messi sotto tortura). Si potrebbe parlare a lungo delle motivazioni del terrore; è una questione interessante, ma forse un po´ accademica. Molto più interessante è vedere cosa è seguito al terrore: ha degli echi nel mondo di oggi. A me interessa la reale memoria che esiste oggi del terrore.
Cos´è questa memoria? Ha avuto tre fasi fondamentali: la memoria nell´epoca sovietica, che la vietava (la memoria proibita). Io ho insegnato nel ‘62 in una scuola estone: avevo lezioni teoriche e di pratica. Per esempio, sapevo che tutti i ragazzini della mia classe erano nati in Siberia (i loro genitori erano stati deportati lì); anche se io e loro sapevamo la verità, questo era un tema assolutamente tabù. Lo capivamo benissimo tutti: si poteva parlare di Puskin, ma non potevamo mai parlare della nostra memoria. Bisogna anche dire che, generalmente, i nostri genitori ci hanno raccontato poco: erano preoccupati per noi, volevano preservarci; questo non perché, poi, ci fosse più facile vivere nella pratica.
Nel ‘37 c´era la tortura, e questa non è una cosa che si racconta. Le torture subite non vengono raccontate neanche alla propria moglie; mio padre è stato arrestato nel ‘37 e, una seconda volta, nel ‘51 (ed è morto); nel frattempo è stato qualche anno in famiglia, e io sono nato in quel periodo. Ho sempre chiesto a mia madre, e lei solo una volta mi ha detto ciò che mio papà le aveva confessato: «Io ho firmato perché ti avevo sentito gridare dalla stanza vicina». Quasi tutti firmavano, o venivano create delle accuse false contro amici e familiari, era una cosa terribile.
Nel 1991, dirigevo una Commissione di lavoro al Parlamento per la ricerca negli archivi del KGB. C´erano dei documenti speciali, per esempio, in cui il ministro salito al potere dopo il ‘37 aveva raccolto notizie su crimini e misfatti avvenuti prima di lui (naturalmente, anche lui veniva dalla stessa scuola, non era diverso). Ci sono centinaia di documenti in cui si elencano i vari tipi di torture: una cosa orrenda. Certamente, tutto questo è rimasto nella memoria nazionale; oggi cosa facciamo per custodire questa memoria segreta? La prima fase è stata molto importante, e la memoria si è conservata come una specie di alternativa alla memoria autorizzata dallo Stato (lo Stato presentava una propria versione dei fatti, erano due memorie in lotta tra loro). Poi c´è stata una seconda fase, nella perestrojka: la memoria ha potuto affiorare all´esterno, tutti ne parlavano. Poi, gradualmente a partire dal 1992-1993, la memoria ha cominciato a svanire e a passare sempre più in secondo piano.
Ci sono state diverse cause, la principale però è questa: la gente si è sentita ricompensata, finalmente era stata fatta verità e i tuoi parenti repressi sono stati finalmente riconosciuti innocenti. Di mezzo, inoltre, c´erano i grossi problemi economici degli anni Ottanta: il mondo era diviso in ricchi e poveri, la gente perdeva il posto di lavoro e il rispetto di sé. In questo periodo difficile, la memoria si è persa sempre più, fino a oggi: ora la storia si è trasformata in politica; lo Stato ha cominciato a costruire un modello di passato eroico: «Oggi viviamo in un paese meraviglioso che si chiama Russia, con un grandioso passato. Nel nostro passato ci sono state tutte le vittorie fino alla Rivoluzione, e dopo questa è venuto il meglio».

Repubblica 30.10.07
Shock in Borsa, Cina batte Usa
Cinque società della Repubblica popolare nella top ten mondiale
La compagnia assicurativa China Life pesa più di At&t nella capitalizzazione
di Federico Rampini


PECHINO - Nella classifica delle top ten del capitalismo mondiale, le aziende dal più alto valore di Borsa, da ieri ci sono più società cinesi che americane. E´ un sorpasso clamoroso, impensabile fino a pochi anni fa. La Repubblica popolare dove sventola la bandiera rossa della rivoluzione e che ha appena celebrato il 17esimo congresso del partito comunista, iniziò a convertirsi all´economia di mercato meno di trent´anni fa. Ancora all´inizio di questo decennio nessuna azienda cinese poteva aspirare ad avvicinare la capitalizzazione di Borsa di giganti americani come la General Electric e la Microsoft. Ora la compagnia petrolifera PetroChina vale più di General Electric ed è lanciata all´inseguimento della Exxon (525 miliardi di dollari). Sia il gruppo telefonico China Mobile che l´istituto di credito Industrial & Commercial Bank of China (Icbc) superano il valore azionario di Microsoft, di Citigroup e della Bank of America. La compagnia assicurativa China Life (260 miliardi di dollari) pesa più della AT&T, di Procter & Gamble e di Electricité de France.
Con un indice azionario di Shanghai che è quasi triplicato dall´inizio di quest´anno, la Borsa della Repubblica popolare attrae una quota crescente dei risparmi privati, dall´immenso giacimento di ricchezza accumulato nelle famiglie cinesi: oltre 2.300 miliardi di dollari. Stufi dei magri rendimenti offerti dai libretti di risparmio, ben 50 milioni di risparmiatori hanno aperto dei conti-titoli per operare in Borsa. Sono loro il vero motore del boom delle quotazioni. In massima parte il denaro che affluisce sulle aziende quotate a Shanghai viene dal "parco buoi" degli investitori individuali, mentre per gli operatori stranieri resta molto più semplice acquistare azioni quotate a Hong Kong. Il mercato finanziario cinese non è totalmente liberalizzato, la moneta nazionale (renminbi o yuan) non gode della piena convertibilità. Questo rende ancora marginale il ruolo dei capitali stranieri. Ma la ricchezza delle famiglie è bastata a sospingere il capitalismo cinese verso il primato assoluto delle Borse. Nella top ten si sono piazzati cinque gruppi cinesi e solo tre americani. Se si allarga lo sguardo alle venti società con la massima capitalizzazione, vince sempre la Cina (otto aziende) seguita da Stati Uniti (sette), Unione europea (quattro) e Russia (una).
Le multinazionali cinesi pesano per il 41% del valore delle Top 20, le americane il 38%, tutto il resto del mondo deve accontentarsi del 21%. Vecchie potenze del capitalismo occidentale come Gran Bretagna e Francia fanno fatica a piazzare una o due società nel vertice dominato dagli asiatici. E la tendenza sembra destinata ad accentuarsi vista l´alluvione di nuovi collocamenti in Borsa che avvengono a Shanghai. Le azioni di PetroChina hanno moltiplicato il loro valore per 16 da quando furono quotate per la prima volta (a Hong Kong nel 2000) e il 5 novembre per la prima volta saranno offerte a Shanghai dove milioni di risparmiatori cinesi attendono con trepidazione il collocamento e si sono già "prenotati" per 330 miliardi di dollari. Un´analoga febbre delle sottoscrizioni si è verificata per il collocamento in Borsa di Alibaba. com, popolare sito per il commercio online fondato dall´imprenditore di Hangzhou Jack Ma.
La travolgente avanzata del capitalismo cinese trasforma i rapporti di forze sia all´intero che all´esterno del paese. A Pechino l´ultimo congresso del partito comunista ha visto l´aumento degli imprenditori miliardari eletti nel comitato centrale: sono ormai venti. Nel mondo un ennesimo segnale dei tempi che cambiano si è avuto con la storica decisione di Bear Stearns di aprire il proprio capitale alla banca cinese Citic: «l´equilibrio del potere si sposta» ha commentato il New York Times, di fronte al matrimonio cinese celebrato da una delle più antiche istituzioni dell´establishment finanziario di Wall Street. Per la Citic l´investimento è quasi modesto - un miliardo di dollari - in confronto al colpo messo a segno dalla sua concorrente Icbc che ha appena comprato il 20% della Standard Bank of South Africa per 5,6 miliardi di dollari in cash.
L´ascesa della potenza finanziaria cinese non è priva di rischi. Nel 1989 il Giappone si era conquistato una supremazia perfino più schiacciante - le sue società rappresentavano il 73% della capitalizzazione di tutte le Borse mondiali - poi la "bolla speculativa" di Tokyo si sgonfiò ed ebbe inizio una lunga depressione. Sulle prospettive della piazza di Shanghai gli operatori stranieri sono divisi. Jim Rogers, presidente della società d´investimenti Beeland Interests ed ex partner di George Soros, ha deciso di disinvestire dal dollaro per comprare yuan in vista di una rivalutazione - inevitabile secondo lui - della moneta cinese. Invece l´investitore Warren Buffett - che contende a Bill Gates la palma dell´uomo più ricco del mondo - ha appena venduto la sua quota di PetroChina e ha deciso di stare alla larga dal mercato asiatico: «Non compro quando vedo questo tipo di impennate dei prezzi».

Repubblica Firenze 30.10.07
Un grande convegno, una pièce. E un ciclo di conferenze che si apre domani al Vieusseux
Parliamo tanto di Gramsci
Le iniziative dell'Istituto nei settant'anni dalla morte
di Beatrice Manetti


Parlano tanto di lui. Negli Stati Uniti, in America Latina, ora persino in India. In Italia un po´ meno. Il settantesimo anniversario della morte è quindi una buona occasione per richiamare l´attenzione su Antonio Gramsci e sulla feconda vastità di prospettive del suo pensiero. «Che ci riguarda e ci coinvolge oggi più che mai» - dice il presidente dell´Istituto Gramsci Toscano Mario Caciagli presentando le manifestazioni celebrative in programma da domani al 13 dicembre - «a cominciare dal problema dell´identità nazionale, che abbiamo scelto come filo rosso delle nostre iniziative e che affronteremo a partire dal suo punto nevralgico, cioè il nesso tra lingua, cultura e politica. Quello di Gramsci è stato l´ultimo grande tentativo novecentesco di pensare in maniera organica l´identità dell´Italia come nazione». È questo infatti il tema del convegno che dal 15 al 17 novembre riunisce nel Salone dei Dugento di Palazzo Vecchio e all´Istituto di Studi sul Rinascimento a Palazzo Strozzi linguisti, letterati, storici e filosofi, tra cui Giulio Ferroni, Edoardo Sanguineti, Tullio De Mauro, Umberto Carpi, Gaspare Polizzi, Silvio Lanaro, chiamati a confrontarsi sugli aspetti principali del pensiero gramsciano, dal problema del moderno «Principe» alla lettura del Risorgimento e della questione meridionale, dal rapporto fra letteratura e vita nazionale al confronto con Croce.
Nei giorni del convegno andrà in scena al Teatro L´Affratellamento di via Giampaolo Orsini 73 una pièce teatrale scritta per l´occasione da Andrea Mancini e interpretata da Antonio Tosto e Alberto Galligani, Quando Rodari incontrò Antonio Gramsci (15 novembre alle 21), il dialogo immaginario, ambientato a Roma nel 1937, tra l´intellettuale sardo, che di lì a poco morirà, e un giovane di belle speranze che qualche anno più tardi avrebbe scritto la Grammatica della fantasia. I due discutono di proletariato e bambini, di nuovo teatro di massa e di rivoluzione, di educazione e accrescimento culturale, fino a scoprirsi ciascuno riflesso nello specchio dell´altro: un Rodari gramsciano e un Gramsci rodariano.
Altri aspetti del pensiero gramsciano vengono affrontati in un ciclo di conferenze in programma nella Sala Ferri del Gabinetto Vieusseux e che s´inaugura domani (16.30) con l´intervento di Antonino Infranca sulla ricezione e la diffusione delle opere di Gramsci in America Latina. Gli appuntamenti successivi esplorano anche ambiti e zone di interesse meno note, come il Gramsci traduttore dei Grimm e appassionato cultore di fiabe analizzato da Lucia Borghese (6 novembre) o il lettore di Goethe di cui parlerà la germanista Maria Fancelli (6 dicembre). E ancora, a testimonianza di una riflessione tentacolare e aperta a stimoli molteplici, gli interventi di Gian Luca Fiocco su «Gramsci, le teorie delle relazioni internazionali e il soft power» (22 novembre), di Pietro Clemente su «Gramsci fra cultural studies e culture popolari italiane» (28 novembre) e di Raffaele Marchetti su «Le teorie della globalizzazione: un debito con Gramsci?». Info 055/6580636, programma completo www. gramscitoscano. org.

Corriere della Sera 30.10.07
E Veronesi: allora vendiamo più anticoncezionali


FIRENZE — «I farmacisti dovranno tenere conto della loro coscienza e, secondo scienza e coscienza, decidere liberamente. Sapendo però che vendere anticoncezionali vuol dire diminuire il numero di aborti».
Umberto Veronesi replica all'invito che Papa Ratzinger ha rivolto ai farmacisti perché esercitino l'obiezione di coscienza nel vendere farmaci «immorali», favorenti l'interruzione di gravidanza o l'eutanasia, ma anche il concepimento. Un distinguo va subito fatto: medicinali come la Ru 486, la cosiddetta pillola abortiva, sono per legge di esclusivo uso ospedaliero. Così come è difficile immaginare un'eutanasia fai da te. Quindi, l'appello del Papa sarebbe rivolto alla cosiddetta pillola del giorno dopo e probabilmente a tutti gli anticoncezionali, pillola tradizionale compresa... «Anche la pillola del giorno dopo — commenta Veronesi — è un anticoncezionale, così come lo è la spirale. Ma mentre la pillola del giorno dopo è stata sempre "bollata" come abortiva, la spirale no. Mi chiedo perché. Quindi si parla di anticoncezionali tout court. E non vorrei che veramente il Papa si riferisse anche ai preservativi. Non venderli, gli anticoncezionali, vuol dire favorire gli aborti, visto che le campagne a favore della totale castità non mi risulta abbiano questo grande successo. E a me personalmente costringere le donne ad abortire non piace proprio».
Quanto all'appello di Benedetto XVI, per l'oncologo «il Papa ha il diritto di fare tutti gli appelli che ritiene giusti, così come gli scienziati hanno il diritto di fare ricerca e di sperimentare ciò che viene ritenuto importante per una vita senza malattie o con malattie dalle conseguenze ridotte al minimo. Medici e farmacisti cattolici valutino secondo coscienza questi appelli, ma non dimentichino comunque di essere al servizio del benessere psicofisico di tutti i cittadini, a qualunque religione appartengano, compresi gli atei. Non bisogna limitarsi a vietare tutto, qualunque sia la conseguenza». E Veronesi non si tira indietro neppure di fronte all'idea di un contro-appello ai farmacisti. Che esprime senza mezzi termini. «Ripeto: intensificare l'uso degli anticoncezionali affinché diminuiscano gli aborti. Questo è saggio e proponibile».

Corriere della Sera 30.10.07
Mangiavamo cozze e amavamo il bello
In Sudafrica 164 mila anni fa l'Homo sapiens scoprì la dieta di pesce e sviluppò il senso estetico
di Viviano Domenici


Le cozze ci hanno salvato dalla fame quando eravamo da poco diventati Homo sapiens, 164 mila anni fa. I resti di quei pasti a base di molluschi e crostacei, sono stati ritrovati inglobati negli strati sigillati da un sedimento stalattitico all'interno di una grotta che si apre sulla scogliera di Pinnacle Point, a est di Città del Capo, in Sudafrica. I materiali rinvenuti sono formati da resti di una quindicina di specie di invertebrati marini, in particolare cozze, e ossa di altri animali tra cui resti di balena.
La scoperta, annunciata dalle pagine di Nature, è stata effettuata da un'equipe internazionale di paleontologi, di cui fa parte Curtis Marean, dell'Institute of Human Origins dell'Arizona State University. Le datazioni sono state ottenute misurando la quantità di radiazioni solari rimaste intrappolate all'interno di granuli di sabbia frammisti al cibo, prima che finissero sotto altri sedimenti; misurando le radiazioni residue è infatti possibile stabilire quanto tempo è trascorso dall'ultima esposizione alla luce.
TESTIMONIANZA — Il prezioso cumulo di rifiuti di cucina rappresenta la più antica testimonianza di sfruttamento delle risorse marine da parte dei nostri antenati Sapiens che, evolutisi in Africa circa 200 mila anni fa, dovettero subito affrontare le conseguenze di una profonda trasformazione ambientale innescata da una glaciazione durata 70 mila anni (da 195 mila a 125 mila anni fa) che trasformò il continente in un deserto quasi totale. In quell'ambiente inaridito la vita di gruppi di cacciatori-raccoglitori divenne sempre più difficile e i Sapiens si rifugiarono in una delle cinque o sei aree del continente dove era ancora possibile vivere sfruttando nuove risorse alimentari: una di queste fu proprio la costa attorno a Città del Capo, caratterizzata da grotte prospicienti l'oceano ricco di crostacei, molluschi e altre possibili fonti alimentari. Finora si riteneva che le coste marine fossero di scarso interesse per popolazioni dedite esclusivamente alla caccia e alla raccolta di tuberi, come credevamo fossero i primi Sapiens; evidentemente la realtà era diversa e quando si presentò la necessità, i nostri antenati non esitarono a cambiare dieta e stile di vita. La scoperta di Pinnacle Point fa ora considerare con maggiore attenzione la possibilità che la nostra specie sia migrata dall'Africa verso l'Asia e l'Europa proprio seguendo le linee di costa; il recente ritrovamento in Etiopia di un insediamento di "pescatori" risalente a 125 mila anni fa, sembra confermare l'ipotesi che i primi Sapiens ad entrare in Eurasia siano stati gruppi umani stanziati sulle rive africane del Mar Rosso.
La grotta sudafricana ha fornito altre due importanti testimonianze riguardanti l'evoluzione cognitiva della nostra specie. Nello strato di sedimenti, spesso circa un metro e contenente i rifiuti abbandonati in diverse decine di migliaia di anni, i paleontologi hanno infatti rinvenuto anche alcuni frammenti di ocra rossa con chiari segni d'uso, cioè striature dovute a sfregamento intenzionale che suggeriscono pitture corporali e un impiego simbolico del colore. Tale utilizzo, hanno fatto notare i ricercatori, è associabile a cerimonie e rituali che presuppongono capacità linguistiche piuttosto sviluppate.
SIMBOLI — La presenza delle ocre testimonia quindi che già 164 mila anni fa i nostri antenati avevano sviluppato il pensiero simbolico, utilizzavano un linguaggio articolato e possedevano il senso estetico. Tutte caratteristiche tipiche della moderna umanità che evidentemente apparvero fin dall'inizio della nostra storia di Sapiens. Fino a pochi anni addietro, questo Rubicone culturale veniva collocato ad appena 40 mila anni fa; nel 2001, la data fu spostata a 77 mila anni fa grazie al ritrovamento, a Blombos Cave, non molto distante da Pinnacle Point, di un blocchetto di ocra decorato con un'incisione geometrica e diverse conchiglie forate per formare una collana.
A completare la scoperta di Pinnacle Point c'è il ritrovamento, tra i resti dei molluschi, di numerosi utensili di pietra scheggiata di piccole dimensioni (lamelle, punte, ecc.) che dovettero essere impiegati per realizzare utensili compositi, come arpioni di legno armati con "barbe" di pietra, punte di freccia e altri strumenti complessi che credevamo fossero comparsi con la prima agricoltura, una decina di millenni fa.
Rimane ora da capire se questa precoce evoluzione culturale sia stata influenzata dall'adozione di una dieta a base di pesce, vongole e cozze.

l’Unità 30.10.07
Il Comitato di redazione:
Comunicato sindacale sulla situazione de «l’Unità»
L'assemblea


Il Cdr de l'Unità ha ieri incontrato la presidente del CdA della Nie, Marialina Marcucci, dalla quale ha ricevuto solo generiche informazioni sull'ingresso di nuovi soci alla testa della società editrice de l'Unità. Le preoccupazioni della redazione de l'Unità sono intatte, di fronte alla prospettiva - non confermata, ma nemmeno smentita dalla Marcucci - che il proprietario di Libero diventi l'editore de l'Unità, e dell'impatto che una situazione del genere finirebbe per avere sui lettori, sulla storia e sulla vita del giornale, anche per via delle mancate garanzie fornite sull'autonomia e sulla collocazione del quotidiano. Se Sensi, proprietario della Roma, acquistasse la Lazio, i giornali sarebbero pieni di paginate di dibattiti sui valori, sull'identità e sulla storia delle due squadre e l'opinione pubblica in subbuglio: forse, a maggior ragione, anche la "questione Unità" dovrebbe essere al centro del dibattito politico, culturale e sociale del Paese. La salvaguardia di un giornale che è parte integrante del dibattito politico, del confronto culturale e di idee, va sottolineato, non può essere intesa come in contrasto con la "discontinuità" dalla "vecchia politica" che dovrà segnare la nascita del Partito democratico.
Dal confronto tra la presidente ed il Cdr l'assemblea dei redattori ha ricavato la certezza che sia in corso una trattativa a livello avanzato con un eventuale socio, destinato ad essere "a vocazione maggioritaria" all'interno della Nie. Un imprenditore privato interessato all'azienda nel suo complesso, nonché - così ci è stato spiegato - allo sviluppo della testata che, peraltro, potrebbe essere acquisita insieme alla società editrice. Secondo Marcucci, nuovi ingressi nel capitale azionario rientrano in una normale dinamica di mercato, mentre non vi sarebbero, allo stato, altri soggetti interessati ad entrare nella compagine azionaria del giornale.
Ma una realtà complessa e sensibile come un quotidiano, e a maggior ragione come l'Unità, così strettamente legata all'identità della propria storia, dei suoi lettori e dei suoi lavoratori, non può essere messa in vendita come un prodotto qualsiasi. "Non si può giustificare un'operazione così con il motto 'è il mercato, bellezza'”, ha sottolineato Roberto Natale, della giunta nazionale della Fnsi, che confermando - anche a nome dell'Associazione Stampa Romana - il pieno appoggio del sindacato dei giornalisti alla redazione, ha inteso sottolineare come quella de l'Unità sia "una questione editoriale e politica nazionale".
L'assemblea dei redattori de l'Unità ritiene estremamente preoccupante l'ipotesi che una testata assolutamente peculiare come quella de l'Unità sia nelle esclusive mani di un imprenditore - chiunque esso sia. E questo senza che vi siano - né sono emersi nell'incontro avuto con Marialina Marcucci - sufficienti garanzie riguardo all'autonomia, la collocazione, l'identità e lo sviluppo del giornale. Principi che debbono essere rispettati, indipendentemente da quali siano i soggetti economici interessati ad acquisirlo. L'Unità ha bisogno di capitali freschi e di investimenti, e ben vengano imprenditori che ne assicurino un rilancio coerente con la sua identità. Nessuno demonizza il mercato, ma i redattori si chiedono come sia possibile che non siano ancora stati messi in atto tutti gli strumenti necessari per mantenere il radicamento della testata - cioè del suo storico nome - nella vita democratica del Paese, mentre rilevano che l'interessamento di imprenditori privati alla sua proprietà conferma il prestigio e la vitalità che anche la redazione ha garantito in questi anni.
Per tutti questi motivi, l'assemblea indica - chiunque si metta alla testa della Nie - nella formazione di un comitato di garanti e nell'adozione di un decalogo di valori uno strumento essenziale per la salvaguardia dell'autonomia della redazione: garanti scelti tra personalità di altissimo profilo del mondo della politica, della cultura e della società democratica del Paese. Per la definizione del Comitato dei garanti il Cdr chiederà un confronto con tutte le diverse culture politiche che hanno dato vita al Pd e, più in generale, di tutto il centrosinistra, confronto che coinvolgerà anche gli ex direttori de l'Unità.
A proposito delle sorti del marchio storico l'Unità e delle prospettive del giornale, l'Assemblea dei redattori ha invitato il Cdr a richiedere un incontro urgente con il segretario nazionale del Pd, Walter Veltroni, con l'onorevole Piero Fassino e con il senatore Ugo Sposetti, rispettivamente segretario e tesoriere dei Ds, nonché con i vertici della Fondazione che dovrà gestire il patrimonio dei Democratici di sinistra.
Su proposta del Cdr l'assemblea dei redattori ha indetto immediatamente lo stato d'agitazione e valuterà la possibilità di richiedere il congelamento degli accordi sottoscritti lo scorso luglio in sede aziendale. Al Cdr è stato affidato un pacchetto di sette giorni di scioperi che verrà calendarizzato se non vi saranno risposte adeguate circa il rispetto di principi a garanzia dell'autonomia della redazione e della collocazione del giornale, nonché sui destini della testata.
dei redattori de «l'Unità»

Corriere della Sera 30.10.07
l’Unità. Giornalisti in assemblea
Angelucci, Unità in rivolta «Walter e Piero ci aiutino» Il Cdr: siamo stati scaricati
di Monica Guerzoni


ROMA — «Per la Mercedes di Padre Pio/1 milione di euro./Per una ciocca di capelli/di Che Guevara 50 mila./Per il giornale fondato/da Gramsci... Libero?». La poesiola satirica è spuntata a pagina 10 di «M» ,il periodico di «filosofia da ridere e politica da piangere» progettato da Sergio Staino per l'Unità. E se la gloriosa testata che ha accompagnato la storia del Pci-Pds-Ds dovesse morire per dar vita a l'Iberò, quotidiano fondato da Antonio Feltri? I lettori affezionati, che da settimane inviano mail e fax colmi d'angoscia, sanno che il destino del «loro» giornale è diventato un caso politico. Ai non adepti invece bisogna dire che la testata sta per essere acquistata dagli Angelucci, i re delle cliniche che editano il quotidiano di destra Libero diretto da Vittorio Feltri. La trattativa potrebbe concludersi entro Natale con un assegno di 25 milioni e gli ottanta redattori dell'Unità sono determinati a impedirlo. «La testata non è in vendita».
E dunque, colpo di scena, i giornalisti ( nella foto,
l'assemblea di ieri) invitano ufficialmente a un confronto il leader del Pd, Veltroni e il tesoriere dei Ds, Sposetti. E poiché i rapporti tra i due non sono amorevoli, convocano anche Fassino. E se i colloqui non ci saranno o non daranno «risposte soddisfacenti»? Pronti sette giorni di sciopero. Altri tempi e altri toni rispetto alle drammatiche assemblee del 2000, quando l'ex organo del Pci fu messo in liquidazione. Ma anche quella di ieri è stata una riunione da consegnare agli archivi. «Possibile che si faccia una fondazione per salvare quadri e portacenere delle sezioni e nessuno si ponga il problema di mettere al sicuro la nostra autonomia?» apre il caporedattore Nuccio Ciconte. E Umberto De Giovannangeli, dieci anni nel sindacato: «Voglio sapere se è vero che i Ds non intendono esercitare il diritto di prelazione». Ninni Andriolo, firma politica nel comitato di redazione, si appella a veltroniani, prodiani, popolari: « L'Unità agli Angelucci è indigeribile, cosa fanno i nostri interlocutori politici? O arrivano altri acquirenti o si muore». Che «trauma», che «terremoto» per i lettori se il quotidiano di Gramsci diventa il quotidiano di Feltri...
Mica si può dire «è il mercato, bellezza!», sintetizza Maria Zegarelli. E Fabio Luppino, capo del politico autore di titoli molto critici sull'assemblea di Milano: «Veltroni ha annunciato atti di discontinuità con la vecchia politica, giusto? La fine che sta facendo l'Unità è il primo di quegli atti». Il tema di un conflitto tra Ds e Pd, tra dalemiani e veltroniani, resta sullo sfondo. E Sposetti è il principale sospettato. « A lui sta bene così», sintetizza una cronista.
E un caposervizio: «Per essere malizioso un interesse il tesoriere Ds ce l'ha, ed è la capitalizzazione della testata». Nell'incertezza, ognuno ha la sua verità. Quella del corrispondente da Bruxelles, Sergio Sergi, è che Veltroni «non ha bisogno di un giornale». E Roberto Brunelli del cdr conclude con un sospiro amaro: «Ci hanno scaricato, ci troveremo da soli con gli Angelucci...».

il Riformista 30.10.07
Campagne. Una risposta a Longo sui manifesti della Regione Toscana
Il diritto alla diversità nell'uguaglianza
La differenza fisica maschio-femmina non conta, perché nella prima fase della vita la sessualità è indifferenziata. È pericolosa l'idea che «omosessuali si nasce»
Crea un vulnus identitario per chi vuole portare a maturità democratica la parità
di Livia Profeti


Nel suo intervento su il Riformista di sabato scorso, Francesco Longo ha criticato le modalità della campagna lanciata dalla Regione Toscana contro la discriminazione dell'omosessualità. Secondo Longo l'immagine utilizzata, quella di un neonato che porta al polso un braccialetto con la scritta «homosexuel», «racconta la storia di una separazione, di una differenza irriducibile tra gli esseri umani, quelli che nascono eterosessuali e quelli che nascono omosessuali (…) Mentre il manifesto lavora per affermare che non bisogna nutrire diffidenza o distacco (…) è all'opera qualcosa che perverte e dissolve il messaggio stesso (…) Nasciamo separati. Siamo stirpi diverse».
Proprio a sostengo degli obiettivi della campagna quindi, la sua critica è indirizzata a mostrare il possibile vulnus all'idea di uguaglianza tra esseri umani dell'argomento «omosessuali si nasce».
Concordo pienamente con Longo, e ritengo che il suo intervento sia rilevante e opportuno - a prescindere da qualsiasi opinione sull'origine dell'omosessualità - anche per le riflessioni che fa sorgere circa la difficoltà del pensiero democratico del III millennio ad affrontare la sfida di far coesistere uguaglianza e diversità. L'era della globalizzazione mostra che un argomento centrale di ricerca per la democrazia post-moderna sia il dato di fatto che l'uguaglianza tra esseri umani è altrettanto incontestabile quanto la loro diversità, che in più assume oggi forme prima impensabili. Anche se volessimo limitarci al solo pluralismo delle identità di appartenenza, la diversità si mostra sempre più come una sorta di legge nascosta dei rapporti interumani, la più difficile ma anche la più feconda, come la storia dell'umanità insegna.
Ma essa non è stata ancora pensata a fondo dal pensiero democratico ispirato nella modernità all'umanesimo illuminista, che come è stato più volte notato era volto a costruire una società di uguali tesa ad annullare le differenze tra le varie razze o culture, con l'intenzione sottesa di costruire un mondo «sicuro», razionalmente prevedibile. Una tendenza che si è rafforzata con la concezione marxista di animal laborans, che identificando il lavoro con la vita biologica stessa ha proposto l'immagine di uomini identici tra loro (Simona Forti, Il doppio volto di Marx ).
Queste concezioni, per quanto necessarie e fondamentali nelle loro epoche, si mostrano attualmente insufficienti a fondare inequivocabilmente l'uguaglianza tra esseri umani. Per rimanere alle loro carenze più evidenti basti citare che da entrambe sono infatti esclusi i bambini che non hanno ancora raggiunto razionalità, linguaggio e potenza muscolare, mentre in base alla sola biologia il genere umano risulta diviso perlomeno in due: maschi e femmine, originariamente fisicamente diversi. L'incertezza aperta dagli scenari attuali rende quindi necessario estendere la ricerca dell'uguaglianza su un terreno più ampio, che giustifichi le diversità senza negare razionalità, linguaggio verbale e biologia specifica, essendo queste, indubitabilmente, caratteristiche umane.
Questo ambito è proprio quello richiamato dall'immagine della campagna della Regione Toscana: quel primo momento dell'esistenza umana escluso dalle due grandi concezioni citate, limitate ai soli aspetti di coscienza e comportamento. Si tratta di una strada che diviene percorribile prendendo in considerazione che sia il pensiero, e non la ragione, ciò che è realmente comune a tutti gli esseri umani sin dall'inizio della loro vita. Pensiero umano che nelle sue manifestazioni non verbali procede per creazione di immagini, che insorge alla nascita per virtù della nostra biologia e che solo molti mesi dopo si trasformerà in coscienza e linguaggio.
Ai fini di questa «capacità di immaginare» non cosciente la differenza fisica maschio-femmina non conta, perché se contasse l'uguaglianza rimarrebbe una chimera per sempre, come giustamente Longo ha sottolineato. E non perché la sessualità non sia importante nello sviluppo dell'identità umana, ma perché nella prima fase della nostra vita è indifferenziata, nel senso che non ha nulla a che vedere con i genitali ma piuttosto con una sensibilità diffusa e comune che risponde ad un'esigenza psichica fondamentale. Solo successivamente la differenza maschio-femmina svolgerà il suo ruolo proficuo, in particolare alla pubertà, quando l'insorgenza del desiderio pienamente sessuale sarà la chiave di volta per sostenere una contraddizione per certi versi irrisolvibile: quella del rapporto con un essere umano uguale a me ma anche diverso da me.
Contraddizione che ad altri livelli si ritrova in tutti i tipi di diversità umana, verso la quale curiosità ed esigenza di conoscenza, analogamente, possono consentire il rapporto evitando la violenza; quella violenza che al contrario insorge se tale diversità è percepita come una minaccia invece di essere vista per quello che è: l'opportunità di un fecondo rapporto tra diversi che sono anche, e insopprimibilmente, esseri umani uguali.