giovedì 1 novembre 2007

I contatti erano stati 239.131 in tutto nel corso dell'intero 2006, quindi la tendenza attuale è ad un aumento di essi superiore al 100%
Nel corso del mese di Ottobre 2007 i contatti con "segnalazioni" sono stati 48.885, provenienti da questi Paesi:


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Italy
Other
France
United States
Romania
United Kingdom
Germany
Sweden
Switzerland
Belgium
Spain
Portugal
Netherlands
Brazil
Norway
Canada
Argentina
Finland
Mexico
Luxembourg
Australia
Poland
Albania
Hong Kong
Israel
Uruguay
Turkey
Morocco
Czech Republic
Colombia
Austria
Bolivia
Hungary
Greece
San Marino
Russian Federation
Japan
United Arab Emirates
Serbia Montonegro
Ireland
Latvia
Egypt
Venezuela
Lebanon
Peru
Puerto Rico
Tunisia
India
Bulgaria
Croatia
Denmark
Vatican City State
Maldives
New Zeeland
Malta
Mauritius
Malaysia
Nigeria
Korea S.
Kuwait
Jordan
Taiwan
Tanzania
Ukraine
Paraguay
Singapore
Slovenia
Dominican Republic
Algeria
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Cape Verde
Costa Rica
Cote D’Ivoire
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l’Unità 1.11.07
Claudio Fava: «Combattere la cause che obbligano i migranti a partire»
«Schengen non si tocca. Non è colpa di Bucarest»
di Eduardo Di Blasi


«Sul fatto che i Prefetti, con le dovute garanzie di legge, possano avere la possibilità di rendere meno burocratici i percorsi di espulsione mi trova d’accordo, purché non si immagini che l’espulsione rapida degli stranieri sia il toccasana della sicurezza nel nostro Paese. Purché non si arrivi all’idea che il vero problema della sicurezza sia rappresentato dall’eccessiva presenza di extracomunitari nel nostro Paese». Claudio Fava, europarlamentare del Pse, ci tiene a tener separate la misura del governo e il senso che questa potrebbe avere: «Ricordo che l’Italia ha uno dei dati di immigrazione più bassi tra i maggiori Paesi dell’Unione. E che dobbiamo fare i conti, non solo sul piano delle coscienze ma anche dal punto di vista degli interventi normativi, di quello che è oggi il Mediterraneo, il più grande cimitero a cielo aperto che esista in Europa».
La Romania è in Europa. Si è detto: controlli le sue frontiere...
«Ma con Schengen non ha il dovere di controllare. Noi abbiamo accettato che la Romania entrasse in Europa e adesso pretendiamo di far circolare liberamente le merci e non le persone? Sarebbe un’idea abbastanza surreale dell’Ue. Ma il tema ha a che fare con un’Europa ancora profondamente diseguale. Il problema non è come evitare che i rumeni vengano in Italia, ma come evitare che abbiano bisogno di venire...».
Oggi Prodi ha chiamato il premier rumeno...
«Mi sembra una telefonata inutile: è come se ci fosse una responsabilità morale o oggettiva del primo ministro rumeno. Mi sarebbe piaciuto che il primo ministro italiano di allora avesse chiamato il Presidente Usa per chiedergli conto quando Lozano ha sparato a Calipari. Lì mi sembra ci fossero responsabilità meno astratte e più politiche. La Romania sta in Europa. Oggi la sfida è fare in modo che l’Europa sia una somma di luoghi affini, non di separazioni e di lontananza».
Esiste però un sentimento di paura, anche a seguito di questi fatti...
«Ogni volta che accade un fatto efferato la prima voce che si alza dal coro indica sagome albanesi o rumene in fuga verso la linea dell’orizzonte. Poi nove volte su dieci scopriamo che sono vicini di casa con la mania della pulizia, ragazzini viziati...».

l’Unità 1.11.07
Birmania, i monaci tornano a sfidare il regime
di Gabriel Bertinetto


Centinaia di bonzi di nuovo in piazza dopo la violenta repressione di settembre
L’organizzazione umanitaria Human Rights Watch denuncia: arruolati bambini-soldato

DUECENTO TUNICHE ROSSE Sono scesi in strada, reclamando libertà per i prigionieri politici e tagli agli esorbitanti prezzi della benzina. Come a settembre, prima che le manifestazioni venissero brutalmente represse dalle truppe del generale Than Shwe. Teatro
della dimostrazione, la prima in Birmania da oltre un mese, è stata la città di Pakokku, seicento chilometri a nordovest dell’ex-capitale Rangoon. Una radio gestita dagli oppositori in esilio in Norvegia, cita il commento di uno dei religiosi partecipanti alla protesta: «Non abbiamo paura di essere arrestati o torturati». Di fare la fine cioè di migliaia di confratelli o concittadini, contro cui si sono accaniti gli sgherri del dittatore in settembre.
La manifestazione si è svolta senza incidenti lungo la via Pauk, scelta dai bonzi per evitare che il loro percorso incrociasse quello dei dimostranti pro-regime che nella stessa giornata hanno marciato a Pakokku. Qualche slogan, molte preghiere e canti buddisti. Poi i bonzi sono rientrati nei loro monasteri. A Pakokku ce ne sono ben ottocento.
Difficile dire se l’episodio sia l’inizio di una nuova stagione di proteste e di lotte per la democrazia. Tutti ricordano in Birmania che proprio da Pakokku in estate iniziò la mobilitazione dei monaci. Accadde quando i soldati spararono in aria per disperdere un gruppo di religiosi che si era radunato nel centro di quella città. I proiettili sibilarono sopra le teste di monaci. Uno di loro, sembra, restò ferito. L’intimidazione suscitò sdegno e provocò una reazione a catena in tutto il Paese. Da quel momento le sporadiche proteste popolari contro il carovita, che avevano avuto luogo in alcune località sin dalla metà di agosto, divennero quotidiana e sempre più massiccia presenza di folla nelle strade di Rangoon, Pakokku e altre città birmane. Alla testa dei cortei erano i monaci nelle loro tuniche color rosso scuro.
Dopo la violenta repressione scatenata dalla giunta, il Paese attraversa ora una fase politica delicatissima. L’inviato dell’Onu Ibrahim Gambari è atteso fra due giorni per una nuova serie di colloqui sia con le autorità militari sia con Aung San Suu Kyi, leader detenuta dell’opposizione. Gambari dovrebbe fermarsi in Birmania sino all’8 novembre e fare la spola tra la nuova capitale Naypyidaw, e Rangoon, dove Suu Kyi vive prigioniera nella sua villa in periferia, in condizioni di arresto domiciliare e senza alcun contatto con l’esterno. Forse collegato al suo prossimo arrivo, quasi un segnale di benvenuto, è il rilascio di sette avversari della dittatura, tutti appartenenti alla Lega nazionale per la democrazia (Lnd), l’organizzazione guidata da Aung San Suu Kyi. Fra i sette figurano personaggi di spicco, come il portavoce della Lnd, Myint Thein, e il dirigente storico del movimento per la libertà, Wain Naing. Vanno ad aggiungersi ad altri ottanta oppositori incarcerati per le recenti manifestazioni, e liberati la settimana scorsa. Piccoli passi, gesti che potrebbero indicare l’intenzione di cambiare strada e avviare un dialogo con l’opposizione, ma potrebbero anche essere piccole concessioni, fatte nel momento in cui l’attenzione internazionale è concentrata sulla Birmania, cui seguirebbe il ritorno alla drammatica normalità repressiva non appena il mondo avesse rivolto lo sguardo altrove.
Impressionante il documento diffuso da Human Rights Watch sul reclutamento forzato dei minori da parte della giunta militare. Nel rapporto intitolato «Venduti per essere soldati» si denuncia l’arruolamento persino di bambini di dieci anni, per fare fronte al crescente numero delle diserzioni. E in tema di diritti umani negati, l’associazione Amici della terra, attacca il ministro degli Esteri francese Kouchner che ha giustificato l’attività della Total in Birmania. Secondo Kouchner se la Total lasciasse il Paese, i primi a patirne sarebbero i cittadini locali. Ma Amici per la terra ricorda che l’azienda francese «finanzia direttamente la corruzione e gravissime violazioni dei diritti umani».

Repubblica 1.11.07
Il rapporto nel Medio Evo tra aule dei tribunali e misericordia
Se giustizia vuol dire pena di morte
di Adriano Prosperi


Per conciliare la violenza omicida della legge con la religione del perdono si distinse la sorte dell´anima da quella del corpo

Pubblichiamo parte dell´introduzione di al volume collettivo "Conversioni sotto il patibolo tra Medioevo ed età moderna" edito dalla Normale e pubblicato in questi giorni
Misericordia e giustizia si incontrano e si scontrano di continuo nella storia. Ma c´è un luogo dove l´incontro e lo scontro sono abituali e per così dire obbligati: è lo spazio dei tribunali. Qui la domanda di misericordia è il grido degli imputati e la giustizia è la risposta dei giudici. «O Dio, misericordia, misericordia»: quante volte questa invocazione si sia levata nelle stanze dei tribunali è una domanda che non può avere una risposta precisa; certo, innumerevoli volte. I verbali dei processi del passato remoto la registravano spesso. Basta sfogliare gli atti di un processo d´Inquisizione per leggere invocazioni ripetute agli operatori della giustizia che impassibili aspettavano gli effetti della tortura sulla memoria dell´imputato: il cancelliere scriveva con rapida penna le parole dell´imputato sotto tortura. Era importante registrarle con esattezza per le dichiarazioni e le rivelazioni che se ne attendevano . È qui che la nobile immagine simbolica della Giustizia e la sua realtà si incontrano.
Quei giudici e i loro sbirri ed esecutori erano l´incarnazione concreta della giustizia, il modo in cui l´idea della giustizia prendeva corpo per chi ne era l´oggetto. Ed è ancora qui che troviamo l´origine dell´uso del termine al plurale: le giustizie nel vocabolario corrente erano le esecuzioni capitali. I condannati a morte, una volta eseguita la sentenza, erano per antonomasia i giustiziati.
Queste sono alcune tracce linguistiche lasciate dalla storia di idee e di istituzioni. Le parole con la loro storia serbano qualcosa dei sentimenti e delle idee che hanno abitato il mondo dei tribunali, delle prigioni e dei patiboli. Quella storia si è incarnata nelle forme grammaticali dei termini. Basta passare dal singolare al plurale, dalla iniziale maiuscola alla minuscola e tutto cambia. L´esercizio può essere fatto con le due parole qui proposte: una cosa è la misericordia, un´altra sono le Misericordie, una cosa è la Giustizia, un´altra e diversissima cosa sono le giustizie.
La misericordia – nome comune singolare femminile – è un sentimento umano che si immagina universalmente disponibile nell´arsenale delle emozioni. Come nome proprio singolare o plurale – la Misericordia, le Misericordie – designa alcune istituzioni prevalentemente diffuse nel versante dell´Europa mediterranea e cattolica. (...) Il nesso o meglio la radice comune di sentimento e istituzione si trova in un remoto passato storico e religioso: la fonte è situata nei Vangeli canonici e nella interpretazione che ne fu data in un determinato tempo e in una specifica area dell´Europa. Il luogo è il mondo delle città dell´Europa occidentale, l´epoca è quella del tardo Medioevo. Fu allora che, seguendo la traccia dell´accesso alle beatitudini indicato nel Discorso della Montagna («Beati misericordes», Mt 5, 7) e applicando il modello dell´aiuto ai poveri, ai pellegrini, ai malati e ai carcerati come via per entrare nel regno dei cieli (Mt 25, 34-37), nacquero e si diffusero forme di associazioni volontarie sotto il segno della fraternità: le confraternite di laici. I problemi antichi e perenni della malattia e del disagio sociale, aggravati dal rapido e tumultuoso sviluppo economico e dall´urbanesimo, sembrarono trovare una soluzione semplice e immediata nell´armonioso collegamento tra l´aiuto agli altri e il perfezionamento spirituale di sé, l´assistenza a poveri e sofferenti e la garanzia della salute eterna per la propria anima.
La salvezza per l´anima fu ricercata non più nella professione monastica e nella preghiera dei chiostri ma nel vivo della società. Il povero, il pellegrino, il malato, il carcerato erano la forma visibile della presenza di Cristo tra gli uomini. Ospitare i pellegrini, dare cibo, bevanda, abiti a chi non li aveva, assistere i derelitti, avvicinava a Cristo e offriva materia di meditazione e di perfezionamento spirituale nello stesso atto con cui provvedeva a migliorare la vita terrena. (...)
Giustizia e misericordia furono allora le parole intorno alle quali si vennero elaborando le forme dell´attività dei confratelli: giustizia e misericordia di sé, in primo luogo. Coloro che si sottoponevano volontariamente al regime di severa condotta di vita regolata dallo statuto della confraternita – digiunare, lagellarsi con la "disciplina", essere e mantenersi in pace coi confratelli, dare buon esempio agli altri, pregare, confessarsi e comunicarsi con speciale frequenza – lo facevano per ottenere il perdono delle proprie colpe. Si trattava di una giustizia dell´anima, non di una giustizia sociale come equa ripartizione delle risorse materiali. Ma la volontà di modificare in meglio la vita della città col proprio esempio estendeva quell´idea di giustizia ai rapporti mondani e nello stesso tempo la privava di ogni spinta eversiva esaurendosi e soddisfacendosi nell´adempimento disciplinato degli atti codificati nella regola comune e nell´espulsione dell´ingiustizia dalle proprie vite. In una fase in cui la violenza sembrava dominare come non mai la vita associata, la giustizia come severa amministrazione delle regole vestiva i panni candidi della pace e simboleggiava l´idea stessa di buon governo nel celebre affresco di Ambrogio Lorenzetti a Siena. Il suo strumento era la forca. Nell´Europa occidentale la tradizione scritta del diritto romano e le forme consuetudinarie di amministrazione della giustizia proprie delle popolazioni germaniche concordavano nell´autorizzare a punire i delinquenti con la pena di morte.
Ma dalle fonti bibliche della religione ebraica la morale cristiana aveva assunto e fatto proprio il divieto di uccidere. Come conciliare la violenza delle punizioni coi principi della religione? La risposta venne dalla prima elaborazione che tradusse il messaggio religioso in regole di vita, da san Paolo a sant´Agostino: l´immagine delle due città dell´uomo che domina il De civitate Dei del vescovo africano si adattò perfettamente al contesto urbanizzato del Mediterraneo romano. Si poteva conciliare la violenza omicida della legge con la religione della misericordia e del perdono: bastava distinguere la sorte dell´anima da quella del corpo e consolare il condannato coi pensieri della vita eterna che lo attendeva se, pentito dei suoi peccati e distaccato dall´efimero mondo terreno, accettava di morire per mano della giustizia e si affidava alla misericordia divina.

Repubblica 1.11.07
Dalla parte delle bambine
Quella smania di piacere
di Concita De Gregorio


Il ritorno al passato alla cultura della differenza e della subordinazione è cominciato negli anni ´90 Lo abbiamo sottovalutato
Sogni e destini diversi. Per i maschi avventura e mostri superpotenti. Per le femmine bellezza e bambole con superlabbra
Trent´anni dopo Loredana Lipperini aggiorna lo storico best seller di Elena Gianini Belotti

Loredana Lipperini ha ragione. Si è messo in moto un meccanismo contagioso, un’epidemia che rischia di infettarci senza che ce ne accorgiamo, forse ci siamo ammalate già. Per cominciare a scrivere di lei, del suo prezioso libro, per esempio, siamo qui da ore a cancellare e riprovare, cerchiamo una seduzione iniziale che invogli a leggere le prossime righe, una sorta di giustificazione, un trucco: no, non abbiate paura, non si parla di femminismo né solo di donne, per carità, restate pure non girate pagina vedrete che vi faremo anche divertire, ci sono le Winx, c´è Maria De Filippi, Britney Spears, ci sono i segreti del sesso orale, restate.
«Parlare - ancora! - di subordinazione femminile sembra un lamento fuori del tempo, il ritorno a vecchie e non guarite ossessioni. Qualcosa di patetico, di disturbante, di pietosamente passato di moda». Ecco, sì. Bisogna scusarsene un po´, dissimulare: il "clima esterno" è questo, si sente e si sa. Quanto ce n´è bisogno, invece. Quanto è importante questo libro, per tutti: uomini e donne, certo. Con che sollievo, con che stordimento felice si emerge da questa valanga precisissima e varia di informazioni, dati, analogie, assonanze, corti circuiti fra noto e remoto, rivelazioni intuizioni e ricordi. Era tutto lì, bastava metterlo in fila: riordinarlo, rilegarlo come i compiti che le brave bambine, sì, proprio loro, sanno fare a scuola.
Ancora dalla parte delle bambine (Feltrinelli, pagg. 288, euro 16), così s´intitola proprio come fosse il seguito di quel lavoro fondamentale di Elena Gianini Belotti (sono passati trent´anni) e difatti lo è. E´ la prosecuzione ideale di un´indagine a lungo interrotta: Gianini Belotti firma qui una prefazione severa e appassionata, un vero «passaggio di testimone», come scrive. Seguono quasi trecento pagine su che cosa sia stata negli ultimi decenni l´educazione sentimentale (non solo, certo) di fanciulle e fanciulli. Come sia potuto succedere che «le ragazze che volevano diventare presidenti degli Stati Uniti abbiano partorito figlie che sognano di sculettare seminude al fianco di un rapper».
Ecco, appunto, come è successo? Possibile che si assista all´improvviso - quasi fossero fuochi che si accendono a caso, in ordine sparso e senza una miccia - alle ondate di allarme per la pedofilia e il bullismo nelle scuole, l´ossessione per l´estetica, le aspirazioni da velina da ballerina di lap dance, le gang di ragazze cattive, i maschi prima violenti poi bamboccioni, l´anoressia che uccide, la violenza sessuale sempre più precoce e videofilmata, l´impennata di omicidi, «le donne ammazzate dagli uomini sono più di cento ogni anno. Per non parlare degli stupri quotidiani - scrive Gianini Belotti - un massacro che continua nell´indifferenza generale: se accadesse il contrario, se cento uomini venissero uccisi ogni anno dalle donne ci sarebbero furibonde interrogazioni parlamentari e misure di sicurezza eccezionali compreso il coprifuoco».
Non è un caso, no. Tutto si tiene in questo racconto che comincia là dove c´erano ragazze che volevano diventare presidenti e finisce qui dove le bambine mettono a sei anni il lucidalabbra per essere «perfette per lui». E´ una storia sola, rileggerla adesso è come mettere gli occhiali e scoprire di aver vissuto semiciechi.
Il ritorno al passato è cominciato negli anni Novanta ed è accaduto poco a poco, sembrava una scemenza al principio, l´abbiamo sottovalutata. Poi abbiamo giocato a fare gli intellettuali che scherzavano col trash, infine siamo arrivati qui che è troppo tardi, adesso. Re-genderization. Ritorno ai generi. «Nella produzione e diffusione di giocattoli, di programmi televisivi, di libri film e cartoni». Un ritorno alla cultura della differenza e della subordinazione femminile che è passata omeopaticamente dai prodotti per l´infanzia, quelli a partire dai quali si forma la cultura popolare. Non è stata la tecnologia, dice Lipperini: è un´illusione pensare che la colpa sia dei mezzi, della televisione e di internet, della pubblicità.
La pubblicità, come Anna Maria Testa spiega nel libro molto bene, segue di un passo la realtà non la anticipa mai: studia i gusti e li asseconda, deve vendere e per vendere deve andare sul sicuro, non rischia. La televisione (dall´avvento della televisione commerciale, dal suo dominio incontrastato capace di rendere uguale a sé la tv pubblica) è ugualmente un mezzo che adatta il prodotto alla domande dell´utenza: cosa piace? diamo quello. Dunque non ha imposto un modello, lo ha assecondato e radicato. Sul Web si è diffuso, scomposto e ricomposto, frammentato: c´era però, c´era già prima. Dunque chi ha decretato quindici anni fa il ritorno ai generi? Chi ha deciso che i film di Walt Disney fino a quel momento solo «per bambini» diventassero per maschi o per femmine, che nascessero le riviste dedicate a Minnie, che le più grandi case editrici varassero letteratura per ragazze, poi adolescenti sempre più precoci, infine per bambine.
Dalla carta, dice Lipperini: la prima ondata è venuta dalla carta. Il viaggio a ritroso è lungo e appassionante, convincente. Si incontrano dapprincipio giovani donne (quelle che volevano fare le ricercatrici biomolecolari e le astronaute? forse, sì anche quelle) che alla prima gravidanza si imbattono nella grande madre Prenatal, un´Ikea della maternità che insegna anche a cullare il bambino con la musica giusta. Si passa per le scuole dove le madri si coalizzano contro le insegnanti che puniscono troppo severamente i loro figli. Si sfogliano giornaletti dove sono assegnate a maschi e femmine, dandole per scontate, aspettative sogni e destini diversi: per le femmine la bellezza, per i maschi l´avventura. Si arriva ai Gormiti e alle Bratz. Per i maschi mostri superpotenti, per le femmine bambole con superlabbra al silicone. I manga. I siti Ana dove le ragazze anoressiche cercano «la perfezione»: entrare nella taglia 0-6 anni. Poi l´adolescenza precoce, la biancheria intima per bambine, la linea di reggiseni che regala il libro di Martina Stella su come fare lo streap tease per lui e stirargli una camicia.
Sara Tommasi, velina laureata alla Bocconi, fa marketing col suo corpo e posa per il calendario d´obbligo. «Mia madre dice che gli sembra che mi sia solo fatta togliere le mutande da tutta Italia ma non è così». La madre, appunto. Cosa sia successo nell´arco di vent´anni, dalle madri alle figlie, questo è il racconto. Si capisce benissimo come sia accaduto. Si intuisce persino, ripensando gli anni Novanta, perché. La competizione, probabilmente. La paura del confronto e dell´incontro. Sembrava di essere così vicini al traguardo e invece ecco: dalla parte delle bambine, da capo.

Corriere della Sera 1.11.07
Il ragazzo di Lotta continua e l'assassino che non pagherà
Delitto di Alceste Campanile, reato prescritto dopo la confessione
di Aldo Cazzullo


Ucciso nel '75. La controinchiesta del padre Vittorio, poi sospetti e arresti a sinistra. Nel '99 l'autoaccusa di un estremista nero

MILANO — La primavera del 1975 fu terribile. A marzo un ragazzo di 19 anni viene ucciso a colpi di spranga e i cortei dell'estrema sinistra scandiscono: «Tutti i fascisti come Ramelli/ con una riga rossa tra i capelli». Il 16 aprile un nero uccide a colpi di pistola Claudio Varalli, 17 anni. Nel corteo del giorno dopo muore un altro giovane di sinistra, Giannino Zibecchi, travolto da una camionetta dei carabinieri. A maggio Alberto Brasili viene accoltellato a morte in piazza San Babila. Il 5 giugno si spara alla cascina Spiotta dov'è sequestrato l'industriale Gancia: muoiono l'appuntato Giovanni D'Alfonso e Mara Cagol, fondatrice delle Brigate rosse.
La sera del 12 giugno 1975, a Reggio Emilia, Alceste Campanile, 22 anni, militante di Lotta continua, esce di casa per incontrare altri ragazzi che lo attendono in macchina. Dopo pochi chilometri, sulla strada tra Montecchio e Sant'Ilario, viene fatto scendere in un viottolo che porta al fiume Enza. Un colpo alla nuca e uno al cuore. Un'esecuzione. L'inizio di un giallo politico, di un lungo tormento che per la giustizia ha avuto il suo epilogo l'altro ieri, ma nella realtà non si concluderà mai. Perché il reo confesso non sarà punito. Anzi, lo Stato lo premia per la confessione, per quanto tardiva, stabilendo di «non doversi procedere per intervenuta prescrizione». Paolo Bellini, 54 anni, estremista di destra già condannato per altri due delitti, è processato per omicidio aggravato dalla premeditazione e quindi imprescrivibile. Che però, grazie alla confessione, diventa omicidio volontario, che si prescrive in vent'anni. Quindi è cancellato da tempo. Scrivono la madre e il fratello di Campanile: «Un colpevole è stato trovato, non riusciamo a comprendere perché non possa essere condannato». In effetti comprendere non è facile. Per trent'anni, la morte di Alceste è stata un mistero. Oggi è diventata un caso di giustizia incompiuta, di incertezza della pena, di male impunito.
A Reggio arrivarono gli inviati dei giornali, per raccontare un funerale politico, pianti, grida, slogan al cimitero: «Compagno Campanile, sarai vendicato/ dalla giustizia del proletariato». Alceste era studente del Dams, suonava la chitarra, piaceva alle donne. Era stato un adolescente di destra, iscritto alla Giovane Italia. Poi il suo ribellismo aveva trovato sfogo sul fronte opposto. Da qui l'accusa: sono stati i fascisti. Qualche settimana dopo, in città arrivò anche Adriano Sofri. «Qui c'è qualcosa che non va» commentò il leader di Lotta continua, secondo la recente ricostruzione del
Giornale di Reggio. Lo pensava anche Vittorio Campanile, il padre di Alceste, funzionario statale che dedicherà il resto della vita a una controinchiesta sull'assassinio del figlio. Scrive il giornale di Lc, nel settembre del ‘75: «A noi, non meno che a chiunque altro, sta a cuore di arrivare a sapere tutta la verità. E quando la verità si rivelasse diversa da quello che noi fermamente crediamo, noi resteremo i primi a volerla conoscere e a volere giustizia». Vittorio Campanile va oltre e accusa: i fascisti non c'entrano, gli assassini sono gli amici di Alceste, sono militanti dell'estrema sinistra.
Lotta continua e il padre della vittima continuano le loro indagini parallele. Nel febbraio 1979 il giornale scrive: «Non crediamo più nella versione del delitto fascista. Nel corso del 1977, all'interno dell'area dell'Autonomia sono cominciate a filtrare voci che attribuivano a una matrice di sinistra l'assassinio di Alceste. Si aggiungeva in qualche caso una sorta di implicita rivendicazione del suo assassinio, fino al punto di minacciare qualche compagno di stare attento a non fare la fine di Alceste Campanile ». Viene minacciato anche uno dei giornalisti che conduce l'inchiesta, Giorgio Albonetti: «Ti scanneremo». Lotta continua pubblica una lettera firmata Erri: «Scanneremo gli scannatori». Parole molto dure, riconosce oggi Erri De Luca, «ma forse non inutili. Per fortuna, Albonetti è vivo». Vittorio Campanile si spinge ancora più in là. Indica gli assassini del figlio nel gruppo dell'Autonomia che ha sequestrato e fatto morire Carlo Saronio. Sostiene che Alceste ha visto le banconote del riscatto ed è stato zittito.
Nel gennaio del 1980, i primi arresti. Bruno Fantuzzi, laurea in sociologia a Trento, che nel '75 era stato espulso dal Pci come estremista. Un suo amico, Mario Nutile, fotografo. Le confessioni in cella di un pentito calabrese mandano in carcere anche Antonio Di Girolamo, accusato di aver premuto il grilletto. Si indaga pure su Toni Negri. Si evoca il triangolo della morte. Si ipotizza che il giudice Emilio Alessandrini sia stato eliminato da un commando di Prima Linea, composto da ex militanti di Lotta continua, perché aveva scoperto la «pista rossa » del caso Campanile.
Otto mesi dopo, tutti gli arrestati tornano in libertà per mancanza di indizi. La Camera concede l'autorizzazione a procedere contro Toni Negri, che è già fuggito in Francia.
Arrestano Sofri e Pietrostefani e Vittorio Campanile collega la morte di Alceste al caso Calabresi: «I leader di Lotta continua sanno chi ha ucciso mio figlio, ma tacciono». Marco Boato querela.
L'accostamento viene ripreso nell'aula del processo dall'avvocato Ligotti: «La storia di Lc è piena di strane morti...». Vittorio Campanile scrive a Curcio per chiedergli di raccontare quel che sa. Va in tv da Augias a domandare giustizia. Muore nel 1996, tre anni prima della svolta.
Il 10 giugno 1999 Paolo Bellini, estremista di destra, arrestato per due omicidi commessi nel Reggiano nei mesi precedenti, accetta di collaborare con i magistrati e confessa di aver ucciso altri due uomini, molti anni prima. Il suo socio in affari, il mobiliere fiorentino Giuseppe Fabbri. E Alceste Campanile. «Per un banale diverbio» è la prima versione. Poi si corregge: «I camerati mi ordinarono di ucciderlo perché aveva tradito». I magistrati prestano fede alle sue parole, il pm chiede 32 anni di carcere, ma l'altro ieri arriva la sentenza di prescrizione. Resta valida la lapide che Vittorio Campanile ha fatto collocare sul viottolo che scende all'Enza: «In questo posto, la notte del 12 giugno 1975, vigilia elettorale, una mano assassina ha barbaramente ucciso a tradimento con due colpi di pistola alla nuca e al cuore Alceste Campanile, studente universitario di anni 22. I genitori, il fratello, gli amici ricordano la sua giovinezza spezzata, la sua generosità tradita, la sua umanità calpestata in questo mondo dove non vi è traccia di alcuna pietà».

Corriere della Sera 1.11.07
Meno Ulivo e più Cgil, Veltroni punta all'asse con Epifani
di Maria Teresa Meli


Il segretario pd non vuole le elezioni anticipate. Ma si prepara e sente anche il leader sindacale

ROMA — Le elezioni anticipate non le vuole, come ha ribadito anche l'altra sera davanti ai parlamentari dell'Ulivo, ma Walter Veltroni si comporta già come se fosse il candidato premier del centrosinistra. Del resto l'attuale quadro politico potrebbe saltare da un momento all'altro e il leader del Pd non vuole farsi trovare impreparato.
E allora, prima gli incontri riservati con il Governatore di Bankitalia Draghi, seguiti e preceduti da attestati di stima nei suoi confronti e da dichiarazioni molto simili sulla riduzione delle tasse e sul tema della precarietà. Poi lo scambio di cortesie con Montezemolo, che nei confronti di Veltroni ha avuto parole d'apprezzamento (la sua elezione è «molto importante: spero possa aprire una nuova stagione di rapporti con una classe dirigente moderna e vicina ai problemi veri del Paese»).
Ora il terzo passo, nei confronti della Cgil. Il segretario del Partito democratico dopo la sua elezione si è sentito con Guglielmo Epifani e nei prossimi giorni potrebbe anche esserci un incontro. Il leader sindacale, ieri, dalle pagine del Corriere della Sera, ha insistito su un punto che era già stato sollevato da Draghi, Veltroni e Montezemolo: riduzione del prelievo fiscale perché i salari sono troppo bassi. Riduzione sin da ora.
Lo hanno chiesto il leader del Pd, il segretario della Cgil, il Governatore di Bankitalia e il presidente di Confindustria. Ma il governo rinvia al prossimo anno ogni decisione su questo punto e il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa insiste nel dire che «bisogna dare tempo all'esecutivo». Di tempo, però, ce n'è poco. Lo sa Epifani, come lo sa Veltroni. Ed è anche per questo che il leader del Pd vuole stringere rapporti più forti con le parti sociali e con Bankitalia. Con Epifani l'operazione non dovrebbe essere difficile. I due si conoscono da tempo. Quando Veltroni divenne segretario ds pensava proprio a lui come capo dell'organizzazione. I rapporti sono quindi eccellenti.
Insomma, con Epifani, pur nella totale autonomia dei ruoli, vorrebbe aprire la «nuova stagione riformista ». Il che non significa mettere nell'angolo la sinistra, che ovviamente sul tema «meno fisco in busta paga» ci sta (ne hanno parlato anche ieri Giordano e Veltroni). Già, il leader del Pd non esclude un'alleanza con la Cosa Rossa, purché sia depurata dalla falce e martello. Il che significa che né Veltroni, ma nemmeno il leader del Prc andranno all'inseguimento di Diliberto che vuole ancora tenersi quel simbolo. Il problema, però, che Epifani e Veltroni hanno ben presente è che se questo governo non sarà in grado di dare un segnale sin da subito in questo campo, vi è la forte possibilità che lo faccia un altro esecutivo, e non è detto che sia un esecutivo di centrosinistra...

Corriere della Sera 1.11.07
Idv, Udeur e socialisti, «autori» della bocciatura: si indaghi ma si faccia a 360 gradi
Prodi: G8, sì alla Commissione Continui la ricerca dellaverità
Il capo del governo: l'inchiesta è nel programma
di Gianna Fregonara


ROMA — Non è ancora decisa la sorte della commissione di inchiesta sul G8 di Genova. Dopo la bocciatura in commissione martedì e le infuocate polemiche nella maggioranza, ieri è stato il giorno in cui il centrosinistra ha tentato di recuperare. Il provvedimento verrà ripresentato in Aula: lo ha annunciato il capogruppo dell'Ulivo Dario Franceschini. Anche se l'esito della nuova discussione è tutt'altro che scontato. I tre partiti della maggioranza che martedì hanno detto no all'istituzione di una commissione che indaghi anche sulle responsabilità istituzionali di quanto è successo a Genova il giorno e la notte del G8 del 2001 - socialisti, Italia dei valori e Udeur - chiedono ora modifiche ai compiti e ai poteri della commissione che Rifondazione non è disponibile ad accettare.
Ma di ieri sono due prese di posizione importanti: quella del presidente del consiglio Romano Prodi e quella del segretario del Pd Walter Veltroni. E' il sindaco di Roma il primo ad intervenire con una lettera alla sua collega, il sindaco di Roma Marta Vincenzi, che sul Corriere aveva parlato della bocciatura del provvedimento come di «uno schiaffo a Genova»: «La scuola Diaz, la Caserma di Bolzaneto, Piazza Alimonda e Carlo Giuliani sono ferite che non si sono ancora rimarginate - scrive Veltroni - e per le quali non c'è che una cura: l'accertamento della verità, di tutta la verità su quanto accadde in quei giorni. Non dobbiamo avere paura dei fatti, è importante per la nostra democrazia », conclude Veltroni ricordando anche i meriti delle forze dell'ordine.
Sono di chiarazioni che scatenano la polemica con il centrodestra, sia per l'idea, considerata irrituale, di portare in aula il provvedimento già bocciato dalla commissione Affari costituzionali guidata da Luciano Violante, sia per le parole di appoggio alla richiesta di Rifondazione: «Veltroni come Prodi è prono e succube della sinistra massimalista e antagonista», protesta Altero matteoli di An.
In serata anche il premier Prodi risponde al pressing della sinistra radicale che da martedì chiedeva un suo intervento per chiedere il rispetto del programma: «La commissione d'inchiesta sul G8 di Genova è un impegno preso con il programma del governo che non intendiamo disattendere. La ricerca della verità deve continuare», ha detto Prodi bacchettando i «disobbedienti» della sua maggioranza.
Dipietristi, socialisti e mastelliani spiegano le ragioni del loro no. «Non siamo contrari alla commissione anzi siamo disponibili a votare sì purché sia una commissione di inchiesta a 360 gradi», dice il capogruppo dell'Italia dei Valori Massimo Donadi. Il ministro della Giustizia Clemente Mastella smentisce lo scontro con il Prc ma sentenzia: «Il programma non è la Bibbia ». Enrico Boselli a nome dei socialisti chiede che la commissione non intervenga in campo penale. Per ora è secco il no di Rifondazione: «Proprio perché non è un'inchiesta penale - spiega Graziella Mascia - non deve accertare responsabilità individuali, ma le colpe e le mancanze delle istituzioni, che hanno calpestato in quell'occasione i diritti dei manifestanti».

il manifesto 1.11.07
Una pugnalata a Genova
di Giuliano Pisapia


Lo stesso giorno in cui un governo di centrosinistra ha di fatto deciso di ripristinare il mandato di cattura obbligatorio, retaggio di un periodo, quello fascista, che si sperava definitivamente superato (ma non dimenticato); lo stesso giorno in cui il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge che aumenta i poteri dei prefetti e che dà poteri di polizia ai sindaci, minando profondamento uno dei princìpi base di uno stato di diritto, e cioè la divisione dei poteri, quello stesso giorno, in Commissione Affari Costituzionali (sic!) della Camera, la destra e alcuni dei suoi ormai abituali alleati ha affossato (si spera non definitivamente) la Commissione d'inchiesta sulle tragiche giornate di Genova del luglio 2001. Solo 10 giorni dopo che una imponente manifestazione di popolo aveva mostrato la volontà, e la necessità, di una svolta profonda nella politica del governo e della maggioranza, una nuova «pugnalata» a tradimento ha colpito non solo la sinistra ma l'intera coscienza democratica. E, per l'ennesima volta, i responsabili sono i soliti noti; così come noti sono i correi e i conniventi. Come è possibile che si possa definire portatore di «valori», un partito, come l' I.d.V. che, per giustificare il proprio voto - applaudito dall'intero centrodestra e, in particolare, dal segretario di An, che a Genova era presente quale supervisore dell'ordine pubblico - ha accusato la proposta della Commisssione d'inchiesta «strumentale» in quanto tesa a indagare esclusivamente «sui comportamenti della polizia»? Soprattutto se si considera che era ben noto che la finalità della Commissione era quella di ricostruire la dinamica degli scontri e la gestione (soprattutto politica) dell'ordine pubblico. E' come fa il Ministro dell'Interno - soprattutto dopo che sono stati promossi (anche dall'attuale Governo) praticamente tutti coloro che hanno gestito l'ordine pubblico, e il massacro dei manifestanti, a Genova - ad affermare che la «ferità c'è perché i fatti di Genova devono essere accertati». Per proseguire che «c'è un tribunale che sta accertando la verità ed è questa la giustizia che Iddio ha inventato per accertare la verità degli uomini». Non può certo ignorare, il fine giurista e l'abile uomo politico, che un conto è l'accertamento delle responsabilità in presenza di reati (responsabilità evidentemente personali) e altro, e ben diverso, è - e deve essere - il compito di una Commissione Parlamentare, espressamente prevista dall'art. 82 della Costituzione quando si ritengono necessarie «inchieste su materie di pubblico interesse». Sarebbe stato sufficiente leggere il testo della proposta al voto della Commissione Affari Costituzionali per verificare che il compito della Commissione di inchiesta era quello «di riscostruire gli avvenimenti (non i reati) accaduti a Genova in occasione del vertice dei Paesi del G8» e, soprattutto di accertare se in quei giorni «si sia verificata la sospensione dei diritti fondamenatli garantiti a tutti i cittadini dalla Costituzione». Differenze abissali che chiunque, in buona fede, è in grado di comprendere.
Si è trattato di uno schiaffo politico, giuridico e morale che ha colpito non solo le centinaia di migliaia di pacifici manifestanti presenti a Genova, ma anche tutti coloro che ancora credono nelle regole della democrazia per cui, chi si è stato eletto sulla base di un programma, dovrebbe, nel momento in cui si allea con gli avversari per tradire quel programma - dovrebbe avere almeno il pudore, morale oltre che politico, di dimettersi. Da parte nostra, non possiamo - e spero che nessuno intenda - offrire l'altra guancia. Proprio per questo dobbiamo avere la forza, e la capacità, di rispondere con un rinnovato impegno di mobilitazione e con scelte che, seppure nella comprensibile difficoltà del momento, sappiano riconquistare la fiducia e il consenso perduto.

Aprile on line 31.10.07
Il sondaggio di Walter per ballare da solo
di Stefano Cappellini


«Il sindaco Veltroni si è lasciato prendere la mano dall’entusiasmo per i sondaggi quando ha parlato di un Partito democratico al 37,5 per cento». Così Paolo Bonaiuti, portavoce del leader che del sondaggio da comizio ha fatto un arte. Ma Walter Veltroni non è stato da meno di Silvio Berlusconi quando l’altra sera, all’assemblea dei parlamentari del Pd, ha prefigurato per la sua creatura una performance che surclassa tutti i risultati ottenuti fin qui dalle liste dell’Ulivo. In realtà, Veltroni ha un po’ giocato coi numeri, perché il portentoso 37 per cento da lui attribuito al Pd se si andasse oggi a elezioni è il frutto di una simulazione del tutto virtuale. Non si tratta però, come denuncia Bonaiuti, di un calcolo sull’elettorato potenziale dei Democratici, bensì di uno studio ad hoc su uno «scenario semplificato». È stata la Ipsos di Nando Pagnoncelli, infatti, a rispondere a una domanda che in molti si pongono a palazzo: quale sarebbe il responso delle urne se si votasse nello scenario che potrebbe sortire da una riforma elettorale simil-tedesca? Quali sarebbero i rapporti di forza se i cittadini fossero chiamati a scegliere tra non più di cinque partiti capaci di superare la soglia di sbarramento, per esempio Cosa rossa, Pd, un polo di centro, la Lega e un cartello Forza Italia-An, prefigurazione del Partito delle libertà? È in quest’agone futuribile - specchio fedele del terreno sul quale Veltroni vuol giocare la sua partita per la premiership - che il Pd volerebbe verso quota 40, raccogliendo circa dieci punti in più di quanto la stessa Ipsos gli attribuisce nel sondaggio sull’orientamento di voto reale (28/29 per cento). Il 37 per cento sbandierato da Veltroni è quindi da una parte una piccola astuzia, dall’altra la prova indiretta dei piani del segretario sulla riforma elettorale e dei risultati che da questa si attende: sostanziale conferma del bipolarismo, autosufficienza del Pd, drastica riduzione della frammentazione partitica.
Veltroni ha cominciato ieri il suo giro di incontri con le forze politiche per istruire la riforma, giro che potrebbe portarlo, se il governo sarà capace di sopravvivere all’approvazione della finanziaria, a tu per tu anche con i leader del centrodestra (per ora la disponibilità a fissare un incontro è arrivata solo dall’Udc e dal partitino democristiano di Gianfranco Rotondi). Il primo abboccamento c’è stato col segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano, raggiante al termine del colloquio: «Con Veltroni e Franceschini - ha detto Giordano - c’è assoluta condivisione in merito all’esigenza e all’urgenza di intervenire per modificare la legge elettorale». Cosa ha spiegato Veltroni al leader comunista per piazzare la prima tessera del puzzle? Semplice: non si è attardato a proporre i modelli che in cuor suo predilige (il doppio turno francese o il sistema per l’elezione dei sindaci), non ha perso tempo con il proporzionale spagnolo (indigesto al Prc, come del resto all’Udc) e ha confermato a Giordano che un sistema tedesco puro, come gradirebbe Rifondazione, non è all’ordine del giorno.
Però, ha concesso Veltroni, si può ragionare su un modello proporzionale corretto da un mini-premio di maggioranza alla lista che ottiene più voti (l’ipotesi su cui si ragiona è un 10 per cento di seggi). Ne risulta, di fatto, una via di mezzo tra il tedesco e la legge elettorale che scaturirebbe dalla consultazione referendaria. Questo è il compromesso che Veltroni è pronto a sottoscrivere e sostenere in Parlamento. Le altre vie, suggerite dagli ultras proporzionalisti come dai maggioritaristi ortodossi (tra cui, peraltro, molti ulivisti veltroniani), non sono ritenute praticabili dal think-tank veltroniano che è al lavoro sul dossier: ipotizzare un premio di maggioranza alla coalizione vincente rischia di perpetuare il bipolarismo coatto attuale e di non scongiurare il referendum; la dichiarazione preventiva delle alleanze, più volte evocata dallo stesso Franceschini, è considerata un regalo ai teorici del cosiddetto «doppio forno»; quanto al tedesco puro, è giudicato terreno inevitabile di uno stallo a oltranza, sbloccabile solo con una grande coalizione Pd-Forza Italia.
E invece Veltroni non vuole solo andare alle elezioni in solitudine. Vorrebbe anche governare da sé. Con il mini-premio alla lista, non è impossibile. Il 37 per cento, per dire, potrebbe bastare per dare al Pd una maggioranza in Parlamento, magari risicata, forse rinforzabile cercando un puntello a sinistra o uno al centro, comunque sufficiente a fare perno. Non fosse che - ma Veltroni non si è prodotto sull’argomento - se si votasse con questo sistema, e il responso delle urne fosse quello prefigurato dalla Ispos, il premier lo esprimerebbe il partito unico di Silvio Berlusconi. Col suo bel 42 per cento.

Rosso di Sera 31.10.07
Il dovere di lanciare il cuore oltre l’ostacolo
di Pietro Folena


L'otto e nove dicembre si terranno gli Stati Generali della Sinistra. Si tratta di una occasione da non sprecare per l'unità.
A questo appuntamento non parteciperanno solo i partiti, ma anche le associazioni ed i movimenti. “Uniti a Sinistra” proporrà, con il Forum delle Associazioni, una piattaforma aperta e partecipativa. Chiameremo, prima di quell’appuntamento, i segretari delle quattro forze a confrontarsi con il Forum, per costruire insieme le due giornate.
Chi, come noi, non è “organico” ai partiti, ha il compito di indicare strade avanzate e innovative. Per questo abbiamo parlato di primarie. Per questo abbiamo detto che la “Fed” rossa dev'essere un passo verso un soggetto unico e plurale, non un mero cartello elettorale.
Certo, siccome facciamo politica, ci rendiamo conto delle difficoltà, delle resistenze, delle “viscosità”. Ma proprio per questo ci sentiamo in dovere di lanciare il cuore oltre l'ostacolo, dove i partiti non possono o vogliono arrivare.
Per questo abbiamo salutato positivamente la “svolta” della Sinistra democratica che ha deciso di slanciarsi in avanti, di superare le timidezze se non le aperte resistenze del passato, e, con l'intervista di Mussi, si è attestata su posizioni innovative e significative.
L'otto e nove dicembre, insomma, vorremmo provare ad andare oltre le premesse poste dai quattro segretari. Vorremmo provare ad offrire, a quell'Assemblea, un percorso coraggioso (ma realistico), basato sulla partecipazione.
Per essere chiari, continuiamo a pensare che il popolo della sinistra, che il 20 ottobre è sceso in piazza, abbia bisogno di un vero “momento fondativo” del nuovo soggetto. Ad esempio, attraverso primarie sul nome, il simbolo e il programma della Sinistra. Ma primarie vere, su opzioni diverse, non una semplice ratifica di decisioni prese dall'alto.

*Portavoce di Uniti a Sinistra

Il Messaggero 1.11.07
Festival della Scienza/Il rapporto tra pensiero filosofico e quello scientifico, la discussione sul ragionamento etico,
il dibattito sul linguaggio. Su tutto, una domanda: la Filosofia è in crisi? La tesi di Hilary Putnam, che anticipiamo
di Hilary Putnam *


A chi, pur essendo religioso, non crede più nel dio ontoteologico, ens necessarium, e non riesce a credere, irrazionalmente, nella vita dopo la morte, tutta la tradizione filosofica sviluppatasi tra Platone e Hegel potrebbe apparire come un grande, enorme errore. E’ questa infatti la conclusione cui giunse Heidegger proclamando la fine dell’ “ontoteologia”, ed è questo, del resto, il pensiero spesso espresso da Wittgenstein, secondo il quale il nuovo scopo della filosofia consisteva nell’“indicare alla mosca la via d'uscita dalla trappola”.
All’ormai manifesta “crisi della filosofia” il XX secolo risponde con il positivismo logico e con il postmodernismo. Nella mia conferenza, “Scienza e Filosofia”, mi propongo di dimostrare il fallimento di entrambe. Con Rudolf Carnap il Positivismo Logico tentò di inserire la filosofia nel novero delle discipline scientifiche, disconoscendo gran parte della teoria filosofica (condannata perché “nonsense”, priva di senso) e sostituendola con ciò che venne definito la “logica della scienza”. Se un merito va riconosciuto a Carnap ed alla sua scuola, esso non è certo legato al contributo che la “logica della scienza” ha apportato al dibattito (e alla confutazione) filosofica, quanto piuttosto all’aver introdotto un nuovo punto di vista. Carnap e i suoi adepti fallirono nel loro tentativo di trasfondere la filosofia nella scienza.
Il Postmodernismo tentò di restaurare il prestigio della filosofia sostenendo che la scienza stessa, e comunque qualsiasi altra cosa assimilabile ad una descrizione dei “fatti”, rappresenti semplicemente una forma di racconto – un racconto utile, sia ben chiaro, ma comunque l’ennesima ragnatela ideologica in cui la cultura occidentale continua ad avvilupparsi. Sarebbe lecito pensare che una tesi così rivoluzionaria fosse sostenuta da solide argomentazioni, ma in realtà, anche Richard Rorty, brillante studioso di filosofia analitica e sostenitore di questo movimento, ha definito deboli le argomentazioni di Derrida! A mio parere il “rappresentazionalismo” — ovvero il modo in cui possiamo e spesso riusciamo a rappresentare parti e aspetti della realtà attraverso il linguaggio - non è altro che ciò che un tempo veniva definito “realismo”, e il realismo non appare come un terribile errore, cui guardare con disprezzo, soltanto perché un certo numero di eminenti professori lo hanno appunto ribattezzato “rappresentazionalismo” e come tale lo hanno definito.
Nel tentativo di spiegare quale sia il vero e profondo valore della filosofia, parlerò di alcuni temi di per sé affascinanti, rispetto ai quali il dibattito filosofico ha prodotto in me e nella mia vita nuove ed importanti intuizioni. Tra questi figurano temi inerenti la filosofia della scienza, la filosofia della matematica, l’etica, la filosofia del linguaggio e la filosofia del pensiero. Le riflessioni proposte da una parte da scienziati – specificatamente linguisti e cognitivisti – e dall’altra da filosofi – specificatamente filosofi del linguaggio e filosofi del pensiero – hanno prodotto interessanti interazioni in materia di filosofia del linguaggio e filosofia del pensiero. La discussione filosofica sulla natura del ragionamento etico ha consentito di confutare in via definitiva la vecchia tesi positivista secondo la quale i giudizi etici altro non sono se non la mera espressione di emozioni.
Ho già citato una certa concezione della “crisi” della filosofia, resa popolare in Europa da Heidegger in Sein und Zeit; una visione naturale per un ex-seminarista come Heidegger, che concepiva la filosofia tradizionale come “ontoteologica” (per uscire dalla crisi, secondo Heidegger, avremmo tutti dovuto diventare heideggeriani). Un’altra spiegazione della “crisi”, con la quale avrei forse potuto esordire, si trova negli scritti di Bertrand Russell e dei positivisti logici, secondo cui la filosofia tradizionale ha proposto discussioni mai concluse, discussioni che la “nuova logica” sarebbe in grado di concludere, risolvendo le questioni da sempre aperte, proprio quelle che facevano ritenere che l’intero corpo filosofico della tradizione fosse da sostituire. I temi che affronto nella mia conferenza, invece, non considerano la filosofia alla stregua di uno strumento della teologia, poiché essi dimostrano come non sia necessario pervenire ad una soluzione unica, valida comunque e per sempre; al contrario, sono convinto che questo ragionamento non sia valido e non possa essere applicato a nessuna seria speculazione, indagine o ricerca che l’uomo si sia mai proposto di svolgere. Le questioni irrisolte hanno radici profonde, radici che ci inducono a ritenere che la filosofia non sia mai stata veramente uno strumento della teologia, benché nel Medio Evo si sostenesse in contrario. In conclusione, la filosofia non è, e non è mai stata, soltanto ontoteologia, ed anche nell’epoca in cui il pensiero filosofico ruotava intorno al concetto di ontoteologia il ragionamento del filosofo era molto più ampio e sfaccettato. Proprio per questa ragione mi oppongo all’idea della “crisi” fondamentale della filosofia, e della “fine della filosofia” stessa e credo che, se anche esistono in filosofia questioni tradizionalmente “irrisolte”, che porteremo per sempre con noi e che continueranno ad alimentare il dibattito e la discussione, questo rappresenti un elemento assolutamente positivo, e non un qualcosa di cui rammaricarsi.
Harvard University

Il Messaggero 1.11.07
La certezza di Walter: più forte senza sinistra
Come Berlusconi, il leader del Pd usa i sondaggi per indicare la strada delle alleanze
di Claudio Rizza


ROMA Potrebbe sembrare una lotta a chi la spara più grossa: Veltroni che immagina il Pd al 37,5% e Bonaiuti che replica abbassando la soglia al 25%. Una febbre da sondaggite acuta, che mediaticamente serve a galvanizzare l’elettore, a deprimere gli avversari e a fare propaganda per vendere il prodotto. Eppure, l’offensiva veltroniana a colpi di percentuali sondaggifere, che tanto ricorda lo stile berlusconiano, non sarebbe solo virtuale. Raccontano che il leader del Partito democratico si sia irritato leggendo come Mannheimer ha condito sul Corrierone l’ultima fatica: «Il 40% degli italiani vuole votare», è deluso da Prodi. Ma non veniva sottolineato come, proprio nella tabella, il centrosinistra fosse in ripresa (3 punti più di un mese fa) e il centrodestra in calo (-2) e come le tante contraddizioni di quei dati inducessero a prendere con le molle giudizi schizofrenici e a non sottovalutare l’estrema mobilità dell’elettore.
Walter è stato confermato nelle sue impressioni da una serie di ricercatori che ipotizzano scenari futuri. E che hanno fissato alcuni punti fermi. Primo, il più ovvio: Prodi non si ricandiderà, e questo automaticamente renderà “antico” Berlusconi rispetto a Veltroni. Non a caso il Cavaliere e i suoi attaccano il Walter-uomo-nuovo, sostenendo sia invece un politico di lungo corso; non a caso la parola “vecchio” è quella che rende livido Silvio e lo induce a pretendere dagli alleati obbedienza perchè «c’è un capo solo». Lui. Ma in uno scontro Berlusconi-Veltroni, la percezione dell’elettore sarebbe quella di “vecchio contro nuovo”.
Il secondo punto è immaginare un Pd autonomo, coraggioso, pronto al rinnovamento; se si scioglie il legame con la sinistra radical-postcomunista i sondaggisti prevedono un recupero di voti tra gli indecisi, il ritorno dei delusi del centrosinistra e la possibilità di pescare a destra. La cifra del 37,5% discende dalla simulazione di uno scenario che vede al voto la Sinistra unita, il Pd, un Centro (formato da Udc, Udeur, dipietristi e simili), un centrodestra con An e Fi, e a parte la Lega.
Terzo punto, l’agenda delle priorità. Cioé affrontare i temi che la gente vuole sentire, come sicurezza e tasse. Con l’obiettivo di riposizionare il Pd in un’area più moderata, parlando di temi che una volta erano appannaggio solo della destra. Ma insistere su tasse e sicurezza significa anche dare risposte a domande prima eluse dal centrosinistra. Temi che pagano.
Tutto liscio? Macché. Nicola Piepoli sbotta: «Berlusconi sostiene che l’indice di fiducia in lui è al 61% e in Prodi al 19%. Si tratta di informazioni improbabili, proprio come quelle di Veltroni. L’indicatore di fiducia, che noi calcoliamo come si fa in tutta Europa, dà Berlusconi a 33 e Prodi a 30: questa è un’informazione probabile. Ma, diciamolo, qui da noi la sacralità dei sondaggi non esiste». Il sondaggio italico-ruspante resta uno strumento di comunicazione. E poco più.

Liberazione 1.11.07
Gramsci, ma quale rivoluzione oggi?
di Tonino Bucci


Due giornate di dibattito sull'autore dei "Quaderni". A Bari si sono incontrati intellettuali italiani e stranieri: molto studio ma nessun dogmatismo. Relatori e relatrici hanno discusso confrontando tesi anche molto diverse

Non doveva essere una celebrazione. E neppure cedere alla tentazione opposta di leggere Gramsci come un autore "attuale" e pacificato con lo spirito dominante di oggi. E così è stato. Il convegno "Antonio Gramsci: tra passato e presente" s'è svolto secondo le intenzioni di chi l'ha organizzato, di Pasquale Voza, direttore del centro interuniversitario di ricerca per gli studi gramsciani e della Igs Italia rappresentata da Giorgio Baratta. Rigore accademico tanto, ma scolasticismo poco o zero. Dibattito ricco, grande partecipazione di studenti, un dato generazionale confortante. Nessuna concessione al conformismo del nostro tempo, è prevalso invece il gramsciano "spirito di scissione", la scelta partigiana, la comprensione critica, senza mai rinunciare al rigore e allo scrupolo filologico.
Ma perché c'è necessità di Gramsci? Perché non ha rinunciato a pensare la rivoluzione pur trovandosi nel pieno d'una sconfitta epocale. Perché con le sue categorie - quelle classiche che bene o male sono entrate nel nostro lessico, senso comune, rivoluzione passiva, egemonia - ci ha lasciato una mappa concettuale della modernità e una bussola formidabile per fare politica. Perché ha studiato l'avversario avventurandosi sul suo terreno. Perché per affrontare le questioni del nostro presente c'è bisogno di capire come lui, comunista del suo tempo, ha affrontato quelle della propria epoca. De te fabula narratur , di noi, della crisi dei partiti nella società di massa, del governo delle oligarchie e del Pd, della minorità del pensiero critico nel senso comune di questo paese, dell'egemonia del neoliberismo e della difficoltà di costruire la soggettività delle classi subalterne, del dominio su scala internazionale.
Tutti d'accordo allora? Neanche per sogno. Grosso modo ci sono stati tre filoni di discussione. Innanzitutto, il Gramsci scienziato sociale, lo studioso del senso comune e dei processi culturali, delle idee delle classi dominanti che permeano in tutti i gangli della società, dalla fabbrica allo stato, dalla scuola ai giornali, alle associazioni, alla cultura, fino alle istituzioni. E' il Gramsci che ci serve per capire come funziona l'egemonia e il consenso. Alberto Burgio dice che la nostra epoca è attraversata da processi di rivoluzione passiva, ma questo non significa che siano una semplice restaurazione. Non c'è mai un ritorno al passato sic et simpliciter . I processi storici sono sempre dialettici, contraddittori, ambivalenti. Le classi dirigenti annullano e incorporano le spinte antisistemiche dei subalterni. Fanno prevalere le politiche conservatrici o quelle riformistiche senza intaccare l'essenziale, cioè il funzionamento capitalistico. Ma sono anche salti in avanti. Per intenderci, Gramsci indicava tra le rivoluzioni passive del suo tempo il fordismo. E il fascismo, che fu un tentativo di stabilizzare il dominio borghese minacciato da una crisi organica. Ma conteneva anche aspetti "positivi", l'introduzione di forme di programmazione, di economia di piano, di welfare. Insomma «le rivoluzioni passive sono sollecitate anche dall'iniziativa delle classi subalterne» dice Burgio, e questo modo di leggere dialetticamente la realtà si adatta anche al nostro presente. Cosa altro sono stati il reaganismo-thatcherismo e, su scala italiana, il craxismo e il berlusconismo se non rivoluzioni passive? Non avremmo alcuna pietas nell'abbandonare Gramsci se non ci servisse a capire come il neoliberismo, da contrario che era al senso comune genericamente keynesiano, sia potuto diventare ideologia dominante. Ma i conflitti non sono finiti. Le egemonie culturali non sono forme soft di dominio. Fanno parte di un apparato materiale coercitivo e violento.
Così come secondari non sono per Maria Luisa Boccia i meccanismi di rappresentanza della democrazia parlamentare. «Il principio di maggioranza è una falsificazione, non abolisce la separazione tra rappresentanti e rappresentati. I risultati delle elezioni sono solo la fase terminale con cui si misura la capacità di persuasione delle opinioni dei pochi nelle masse». Le opinioni non nascono spontaneamente, hanno una storia, sono prodotte da apparati materiali. Il dominio borghese non spreca risorse nella repressione, produce invece egemonia, consenso, convince i subalterni a scegliere liberamente quelle che già sono le decisioni delle elites dirigenti. «Far diventare la necessità libertà, dice Gramsci anticipando Foucault. Capisce che il governo non è solo un problema di leggi». Ma i problemi di rappresentanza per Boccia non spariscono nella soluzione gramsciana del partito che rimane «produzione di elites» e quindi non annulla la «verticalità tra dirigenti e diretti».
Il secondo filone di relazioni riguarda il "chi" della rivoluzione, la soggettività. La novità gramsciana, sostiene Roberto Finelli, è che l'ideologia non è più la falsa coscienza e deformazione della realtà di cui parlava Marx. Sono le idee, il simbolico, le filosofie che consentono agli uomini di comprendere e giustificare i conflitti sociali. «Praxis cessa d'essere sinonimo di lavoro ed elaborazione del mondo materiale e acquista il senso antropologico-politico di elaborazione e produzione di una soggettività collettiva». L'ideologia permette ai subalterni di passare dall'assenza di un ruolo nella storia a un ruolo di direzione etico-politica nella società. Ma il punto più contestato è che Finelli considera superata l'idea della rivoluzione come trasformazione materiale del mondo, come scontro amico-nemico e classe contro classe «con la sconfitta del nemico e la presa del potere che ne derivava». La storia è successione non di modi di produzione, ma di soggettività ideologiche ed egemoniche. La rivoluzione gramsciana, dice Finelli, è un'autoriflessione del soggetto collettivo su se stesso, un'emancipazione dalle forme inadeguate di consapevolezza di sé e la conquista di una forma di coscienza adeguata al proprio ruolo nella società.
Ma che rivoluzione è, questa, condannata all'intimismo e a farsi, come suggerisce lo stesso Finelli, cura psicoanalitica del Sé? Non c'è il rischio, come polemizza Guido Liguori, di una lettura idealistica che scambia la conoscenza con la rivoluzione tout court ? E che politica è se il suo agire non ha più nulla a che fare con il lavoro? Il sapere dei subalterni parte dal cuore della fabbrica e non c'è atto lavorativo, anche il più semplice e immediato, che non contenga un'intelligenza. Da questo spirito popolare creativo che può nascondersi nell'avvitare un bullone o nel lavorare in un call center non si può prescindere. Gramsci stesso fa esperienza diretta di questo universo di intelligenze, saperi, linguaggi e codici che nascono della fabbrica, lo ricorda anche Angelo d'Orsi parlando del biennio rosso e dell'"Ordine Nuovo". «Valorizza la cultura autoctona in fabbrica, trascorre ore e ore ad ascoltare gli operai».
Che soggetto politico è quello gramsciano che non può essere dato a priori con scorciatoie idealistiche, che segue sempre una costruzione molecolare come ricorda Voza? E perché dimentichiamo che è anche un soggetto sessuato? C'è stata o no nel movimento operaio, come dice Lea Durante, una resistenza a porre il femminismo come questione autonoma e non come una variabile dipendente del lavoro salariato? Non è una contraddizione quando Gramsci non considera la formazione della personalità femminile un fatto politico-sociale, a differenza di quella umano/maschile? Eleonora Forenza chiama in causa "Americanismo e fordismo" dove se da un lato Gramsci mostra per la condizione delle donne una sensibilità inusuale al suo tempo, dall'altro relega il femminismo a questione etica e privata, gli nega lo statuto di problema politico ed esclude le donne dalla storia dei gruppi oppressi. E pensa che il corpo sia un oggetto da disciplinare in vista delle esigenze produttive. Giudizi troppo severi, come dice Paladini Musitelli? Gramsci è profetico riguardo agli effetti del libertinismo sul corpo delle donne nella società di massa. «Ne abbiamo continue conferme nella pubblicità e in tv». Nel testo gramsciano ci sono suggestioni - "letterarie", specifica Lidia Curti - che si incontrano con gli studi culturali sul colonialismo e il corpo delle subalterne da sempre escluse dalla storia scritta ufficiale.
Infine, il Gramsci meno noto, teorico ante litteram della globalizzazione, di una polis globale senza comando unificato (Isidoro Mortellaro) e, a un tempo, pensatore - lui, sardo - della regionalità, dell'arretratezza - dice Giorgio Baratta - che in certi casi può trasformarsi in anticapitalismo. Grazie davvero per questo convegno.

mercoledì 31 ottobre 2007

l’Unità 31.10.07
Idv e Udeur votano con la destra, 2 della Rnp non si presentano
La sinistra radicale: fatto gravissimo, verità negata, intervenga Prodi
G8, colpo di spugna sulla commissione
di Massimo Solani


NON SONO BASTATI MESI di trattative, di discussioni e limature ai testi. Ieri la commissione Affari Costituzionali di Montecitorio con voto di parità (22 a 22) ha infatti negato al relatore Gianclaudio Bressa il mandato di riferire favorevolmente in aula sull’istituzione
della commissione d’inchiesta parlamentare sui fatti del G8 di Genova del 2001. Decisivi i voti contrari - assieme a quelli della destra, che si è presentata in massa quasi all’ultimo momento - di Italia dei Valori e Udeur, che si sono opposti al disegno di legge schierandosi con l’opposizione, e le defezioni improvvise dei deputati socialisti della Rosa nel Pugno. Criticati persino dalla componente radicale del partito che ha provato, senza riuscirci, a sostituire in extremis i “desaparecidos” Cinzia Dato e Angelo Piazza. Un esito che a questo punto potrebbe diventare la pietra tombale sul ddl, anche se l’aula potrebbe comunque approvare la legge col parere negativo della commissione. Un testo che dopo mesi di estenuanti trattative (al ribasso) era diventato via via un pallido compromesso rispetto alle proposte originarie, tanto che la previsione era quella di un organismo monocamerale per evitare i numeri risicati del Senato.
La mediazione del relatore Bressa, però, non è servita e il voto della prima commissione apre adesso una dura polemica interna alla maggioranza, con i partiti della sinistra che hanno chiesto l’intervento del premier Prodi per garantire il rispetto degli impegni del programma di governo dell’Unione. Ma da Palazzo Chigi, nonostante le indiscrezioni raccontino di un impegno dell’esecutivo per ricucire lo strappo e recuperare il ddl, il commento è laconico: «Si tratta di un voto del Parlamento» su cui il governo «si esprimerà». Poche imbarazzate parole, come quelle pronunciate dal presidente della Camera Bertinotti: «Cosa penso? Non dovete neanche far fatica ad immaginarlo...». Non nascondono invece la propria indignazione i rappresentanti dei partiti della sinistra. «È un atto gravissimo - ha tuonato il ministro della solidarietà sociale Paolo Ferrero - Si preferisce l’insabbiamento alla ricerca delle responsabilità per quanto accaduto». Critiche a cui si è associato anche il segretario del Pdci Oliviero Diliberto: «È clamoroso che non si voglia trovare la verità su un fatto che ha stroncato una vita umana, insanguinato le strade di Genova, offeso la sensibilità civile e la moralità di milioni di italiani e fatto calare pesanti sospetti anche sul comportamento di parti delle istituzioni».
Schierati col centrodestra al momento del voto in commissione, i protagonisti della “fronda” centrista non sono sembrati turbati dalle polemiche e hanno difeso la propria scelta. «L’Idv non è contro la Commissione sul G8: è contro l’uso strumentale della Commissione», precisava ieri sul suo blog il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. E a quanti facevano notare al Guardasigilli (e segretario dell’Udeur) che l’istituzione della commissione era prevista addirittura nel programma dell’Unione, Mastella ha spiazzato tutti con un laconico «Io non l’ho letta».
Più cauta la posizione del ministro dell’Interno Giuliano Amato che in una intervista al Tg1 ha spiegato che «a Genova è successo qualcosa di grave, la ferita c’è. E c’è un tribunale che sta cercando la verità». Cosa che evidentemente non basta al Movimento che ieri ha rilanciato la manifestazione del 17 novembre in solidarietà con i giovani accusati delle devastazioni nei giorni del G8.

l’Unità 31.10.07
Il Papa in farmacia
di Carlo Flamigni


Perché i farmacisti si possano dichiarare obiettori di coscienza occorre una legge apposita
E un Papa che invita a scegliere la via dell’illegalità è più di quanto osassi sperare

Secondo l’attuale Pontefice i farmacisti, importanti intermediari tra medici e pazienti, avrebbero un «diritto riconosciuto» all’obiezione di coscienza in caso sia loro richiesta la vendita di farmaci con «chiari scopi immorali, come l’aborto e l’eutanasia». Non basta: agli stessi farmacisti spetta il compito di far conoscere le implicazioni etiche di alcuni farmaci, non essendo possibile anestetizzare le coscienze circa gli effetti di molecole che hanno lo scopo di evitare l’annidamento di un embrione o di cancellare la vita di una persona. Per fortuna che il coito interrotto non si vende in farmacia, qualcosa di utile ci rimarrà pur sempre a disposizione.
Ritengo infatti improbabili, per ragioni di praticità, i controlli notturni di farmacisti cattolici muniti di apposita lanterna.
Dico questo, perché qui ci sta l’intera gamma delle metodologie anticoncezionali: la pillola classica, la pillola del giorno dopo, la minipillola, la spirale intrauterina, i vari progestinici deposito, tutto o quasi. Posso immaginare una sola conseguenza, a un disastro come questo: raddoppieranno gli aborti.
Qualcuno potrebbe pensare che ho esagerato nell’elencare i metodi che sarà per lo meno molto difficile utilizzare se verrà varata una legge che renderà attuabile l’obiezione di coscienza dei farmacisti, ma non è così: c’è un medico cattolico, del quale non voglio citare il nome (ma che qualsiasi navigatore di Internet saprà riconoscere) che asserisce che anche la pillola classica agisce, di tanto in tanto, impedendo l’impianto di un embrione, e anche se penso che la cosa accada assai raramente (avrei scritto, in una differente occasione, a ogni morte di papa) immagino che possa anche essere vero, soprattutto per chi crede nell’esistenza del diavolo. Cerco invece di spiegare, da anni, senza alcun successo, che la pillola post-coitale non ha niente a che fare con l’inibizione dell’impianto e mi permetto di affermare che chi sostiene il contrario è in perfetta malafede. Potete trovare tutta la bibliografia medica dalla quale ricavo questa certezza in uno dei miei libri più recenti, anche se ammetto che questa mia apparente sicumera si basa sull’attuale consenso scientifico, che potrebbe modificarsi in un avvenire più o meno vicino: ma questa è la scienza medica, che di verità ne conosce ben poche e che si basa sui risultati delle sperimentazioni delle ricerche. Ripropongo il concetto in questi termini: chi ritiene, allo stato attuale delle conoscenze, che la pillola del giorno dopo inibisca l’annidamento dell’embrione (notate intanto che nessuno dice più che è abortiva) o dice bugie, o ignora la verità, o è stato mal informato (magari a bella posta).
Mi rendo conto di esagerare nel pessimismo: perché i farmacisti si possano dichiarare obiettori di coscienza e rifiutarsi, ad esempio, di vendermi la liquirizia (da ragazzo mi provocava interessanti sogni umidi, molto molto immorali) ci vuole una legge apposita, per il momento conta quanto ha dichiarato Caprino, segretario nazionale di Federfarma, che cioè «i farmacisti hanno l’obbligo di legge, dietro prescrizione medica, a consegnare il farmaco o a consegnarlo, se non disponibile, nel più breve tempo possibile», per cui l’obiezione di coscienza per i farmacisti «è inattuabile in Italia come in ogni altro Paese». Resta solo da capire se la sollecitazione del Papa è rivolta ai legislatori (preparate in fretta una legge che lo consenta) o ai farmacisti (violate la legge, ne avete il diritto morale). Questa seconda possibilità mi turba e mi stimola insieme: un Papa che invita a scegliere la via dell’illegalità è più di quanto avrei mai potuto sperare, mi autorizza a pensare in grande, parla alla parte più oscura della mia coscienza, già fondamentalmente anarchica. Per chiarezza, mi limito a ricordare al Pontefice che al momento, in questo Paese, sono autorizzate solo alcune obiezioni di coscienza: per il servizio militare (obsoleta); per la sperimentazione sugli animali; per la legge 194 sull’interruzione di gravidanza; per la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita.
Debbo ammettere, a questo punto, che questo ennesimo proclama pontificio non mi pare particolarmente azzeccato, sono certo che sa fare di meglio. Mi dà però l’occasione di parlare di alcune cose e ne approfitto.
La prima cosa riguarda tutti i moralisti, inclusi quelli laureati in farmacia: capisco i grandi turbamenti che vi procura l’uso di farmaci sulle cui interferenze con la fertilità non tutto è perfettamente chiaro, e capisco l’ansia di perfezione e la ricerca di un po’ di martirio personale che vi impongono di rifiutare persino il ricorso al principio di precauzione, ma mi chiedo come mai vi accanite su una povera compressa progestinica, della cui moralità posso darvi le più ampie garanzie, mentre non vi turba minimamente il fatto che un gran numero delle nostre nuove cittadine assumono chili di prostaglandine - acquistate in farmacia, non esiste un mercato clandestino - e poi abortiscono, alla faccia della morale e della legge, finendo spesso in ospedale a causa dei terribili effetti collaterali di questo farmaco. Queste povere donne vengono in farmacia con una regolare ricetta e dichiarano di soffrire di mal di stomaco: a nessun farmacista è mai venuto un briciolo di sospetto? A nessun moralista è passato per la mente che le ulcere gastriche sono diventate stranamente endemiche tra le prostitute rumene? Le prostaglandine sono incluse nell’elenco dei farmaci ai quali il Pontefice allude?
Il secondo problema riguarda una mia personale curiosità di bioeticista. Negli ultimi tempi, discutendo con i miei colleghi cattolici sui problemi etici della procreazione assistita, mi è stato detto più volte che in realtà l’antico ostacolo della dignità della procreazione (cioè l’obbligo di non separare mai la vita sessuale da quella riproduttiva) non è poi più così fondamentale. Oggi, leggendo le ultime esternazioni del Pontefice, non trovo più alcun accenno alla condanna dei mezzi contraccettivi che si limitano a offendere questa dignità (i farmacisti ogni tanto vendono preservativi e diaframmi). È un caso? State cercando di dirmi qualcosa che io, per ottusità personale, non riesco a capire? Un po’ di luce, per favore.
Il terzo e ultimo problema riguarda - e non sarà certamente l’ultima volta che ne parliamo - questa questione dell’embrione “uno di noi”. Recentemente ho raccontato, su vari giornali, la storia del referendum che è stato tenuto in Irlanda del 2002 per cambiare, su proposta del Governo, la norma costituzionale che stabilisce che la protezione della vita nascente comincia dal primo momento del concepimento. Se il referendum avesse avuto successo - il che non è stato anche se per una manciata di voti - la nuova norma sarebbe stata molto diversa, perché avrebbe posposto l’inizio della protezione al momento dell’impianto dell’embrione nell’utero della madre. Le conseguenze di questa modifica sarebbero state straordinarie e tutte contrarie alle posizioni ribadite dal Pontefice nella sua recente dichiarazione: sarebbe stata lecita ogni forma di inibizione dell’impianto, compresa quella attribuita alla spirale e alla pillola del giorno dopo, e sarebbero state autorizzate le ricerche sull’embrione in vitro, gli studi sulle staminali embrionali e le indagini genetiche pre-impiantatorie. Questo, tra l’altro, è proprio quel personalismo che John Bryant e John Searle definiscono relazionale, che non attribuisce né alla biologia né alle prestazioni funzionali il carattere dirimente della persona. Secondo questa ipotesi, molto amata da alcuni evangelici, sono le relazioni a rappresentare un tratto riassuntivo e qualificante, perché legano tra loro biologia e biografia della persona e rappresentano il passaggio di una soglia significativa anche secondo un’ottica teologica: dal momento in cui si connette con quella della madre, l’esistenza dell’embrione si collega con la comunità degli uomini. Spero di avervi almeno incuriositi. Ebbene la ragione di questa lunga digressione è legata al fatto che tutto l’episcopato irlandese, ripeto, tutto, vescovi ausiliari inclusi, si è schierato con il massimo fervore possibile in favore della modifica e, perciò, del personalismo relazionale, della pillola del giorno dopo, della spirale, delle staminali embrionarie eccetera, eccetera, eccetera.
Ebbene, nessuno, fino a questo momento, ha commentato questi fatti. Ho però il diritto di avere qualche chiarimento. Non erano, i vescovi irlandesi, l’espressione più alta (si fa per dire) del cattolicesimo intransigente? Cosa capisce, a questo punto, un povero cristiano? Non è d’abitudine cosa migliore fare le pulizie in casa, prima di uscire a spazzare in cortile?
Se poi qualche compagno vorrà sapere quali sono le ipotesi che sono state fatte su questa scelta dell’episcopato irlandese, così peculiare e così inattesa, mi scriva, gli risponderò personalmente, voglio evitare scandali pubblici. Anche se, a dire il vero, da quando un grande filosofo cattolico mi ha spiegato che l’inferno è anticostituzionale, mi sento molto più tranquillo.

l’Unità 31.10.07
Scola: «L’Unità insieme a Libero? C’è da indignarsi»
Il regista sul passaggio del giornale agli Angelucci: assurdo, perché nessuno dice niente? Informazione in pericolo


«Mi stupisco della mancanza di sdegno che c’è in giro. Vi sono attentati all’informazione che vengono perpetrati senza che scatti l’allarme per il pericolo che si corre quando un editore ha due giornali di opposta visione politica, storia, cultura e orientamento come Libero e l’Unità». È questa la reazione del regista Ettore Scola all’annunciata vendita dell’Unità alla famiglia Angelucci già proprietari del Riformista oltre che di Libero, espressa ieri, intervenendo alla conferenza stampa indetta al Senato per presentare il film «”La Rai che non c’e”: passato, presente e futuro del servizio pubblico radiotelevisivo». Il film collettivo che sarà coprodotto dalla Associazione Articolo 21 e dalla Fondazione Libero Bizzarri. Durante la conferenza stampa si lamentavano i guasti subiti dal servizo pubblico radio televisivo. Ma non si è fatto cenno alla vendita dell’Unità alla famiglia Angelucci. «Come mai non c’è reazione?» insiste il regista che ieri, in un contesto dove forte era la denuncia per i mali dell’informazione televisiva, ha rilevato come nessuno facesse cenno alla situazione de l’Unità. «Come se fosse uno strumemnto di cui si possa fare a meno. Come se uno in edicola potesse tranquillamente dire “Mi dia Libero o l’Unità, faccia lei”».
«Dobbiamo continuare ad indignarci. Ad indignarci per quello che sta succedendo a l’Unità, un giornale che è stato acquistato da un editore che edita un giornale di segno opposto. L’Unità rappresenta una voce libera, storica dell’informazione e contro questo bisogna indignarsi» ha ribadito il regista. Una denuncia che è stata fatta propria anche dal sottosogretario Nando dalla Chiesa, da Roberto Natale della Fnsi, dall’onorevole Beppe Giulietti e da altri che hanno espresso la loro solidarietà ai giornalisti della testata fondata da Antonio Gramsci.
Così la vicenda del giornale fondato da Antonio Gramsci continua a tenere banco sui giornali. Ieri è arrivata la smentita dell’avvocato Guido Rossi presentato dal quotidiano economico il Sole24Ore come regista dell’operazione d’acquisto della testata ad opera degli Angelucci che si sarebbero mossi su indicazione del presidente di Capitalia, Cesare Geronzi e in sintonia con il vicepremier, Massimo D’Alema. L’avvocato milanese precisa che «non ha avuto e non ha alcun ruolo nelle trattative per la vendita de l’Unità al gruppo Angelucci». «A seguito del servizio sul Sole24Ore di oggi (ieri per chi legge) dove si afferma di una mia presunta regia nella vendita de l’Unità alla famiglia Angelucci preciso che la notizia è priva di fondamento - dichiara - perchè non ho avuto alcun ruolo in quella vendita e tra l’altro non conosco la famiglia Angelucci».

l’Unità 31.10.07
Grass alla ricerca del Günter perduto
di Maria Serena Palieri


L’AUTOBIOGRAFIA dello scrittore è ora nelle nostre librerie, tradotta da Einaudi. A un anno dallo scandalo seguito all’edizione tedesca, placato l’incendio per la rivelazione sull’arruolamento volontario nelle SS, ecco cosa dice alla lettura

Sbucciando la cipolla, l’autobiografia (parziale) di Günter Grass, arriva da noi, per Einaudi, a un anno dall’uscita in Germania, con un carico in più: quello delle polemiche che, nel corso di quest’anno, si sono accese, sono divampate come un incendio, si sono ridotte a brace, si sono non del tutto, ma quasi, spente. Riassumiamole: ad agosto 2006 Grass rilascia alla Frankfurter Allgemeine Zeitung un’intervista in cui svela che nelle sue memorie, in uscita lì in settembre per Steidl Verlag, suo abituale editore di Gottinga, racconterà d’avere prestato servizio come volontario, negli ultimi mesi di guerra, nelle Waffen Ss. Spiega anche, Grass, che fu, in certo modo, il caso a mandarcelo, perché lui quindicenne, nel ’43, aveva in realtà fatto domanda per «servire la Patria» in un corpo meno, a posteriori, indicibile, e che accendeva ben di più la fantasia d’un ragazzino consumatore di cinegiornali: i sommergibilisti. Già, ma il Nobel Grass è da quasi un cinquantennio, cioè dalla pubblicazione del Tamburo di latta, la coscienza della Germania: e quelle due parole, «Grass» e «Ss», messe una accanto all’altra per la Germania non sono sostenibili. L’accusa è soprattutto d’ipocrisia: d’aver taciuto. Gli chiedono di ridare indietro tutto, il Nobel come la cittadinanza onoraria di Danzica. Ma c’è anche chi lo difende, lì in Germania come fuori. Nadine Gordimer e Mario Vargas Llosa per esempio, che osservano che pure il ricordare, per uno scrittore, è opera narrativa, e la creazione ha scansioni sue, ha tempi artistici. Da noi, anche il caso Grass finisce nella macina del revisionismo: esemplifica, si dice, la «cattiva coscienza» della sinistra. Inizia Bernard Henry-Lévy con un articolo sul Corriere della sera, lo seguono altri sulle stesse pagine. In ottobre 2006 è un Günter Grass invecchiato quello che si affaccia a Francoforte alla Buchmesse. Nel luogo di cui per decenni è stato il princeps, dove è stato festeggiato nel ’99 a Nobel appena annunciato, a testa china, forse per una sorta di perdurante sbigottimento, ma forse, invece, per incapacità di rinunciare al ruolo di «coscienza tedesca», così esterna: «Il mio libro è una lettera aperta diretta ai tedeschi della mia generazione perché assumano consapevolezza, anche loro, del proprio passato. E lo raccontino».
Bene, ora anche noi possiamo leggere Sbucciando la cipolla. E vedere cosa ci racconta su quel pezzo buio di passato, sì, ma anche sul resto. E se è vero che il quasi ottantenne Grass, non nonostante ciò che qui narra, ma anche grazie a ciò che qui svela, mantenga intatto il ruolo di «coscienza». Insomma se Sbucciando la cipolla, con la luce che getta su quel pugno di mesi neri vissuti dal diciassettenne Günter con la svastica indosso, sia coerente con le battaglie e la scrittura d’un cinquantennio.
Sbucciando la cipolla, così come appare nella davvero notevole traduzione di Claudio Groff, è il mémoir d’un maestro. È, per più versi, appunto, magistrale. Benché asimmetrico. Lo squilibrio è in questo: dalla prima pagina a pagina 99 - dove, in una villa di Dresda requisita a fini militari, a settembre ’44 il giovane Günter vede per la prima volta su un modulo la doppia «S» che indica la sua destinazione di volontario - si ha la sensazione che il Nobel tedesco abbia composto questo testo autobiografico al solo scopo di liberarsi del suo segreto, tante sono le allusioni che, prima di svelarlo, dissemina; poi, messo sulla pagina l’indicibile - Waffen SS - è come se, nelle successive quasi trecento, facesse di tutto, prima per alleggerirne il senso, poi per dimenticarlo e farlo dimenticare a noi lettori.
Il che fa piazza pulita d’un argomento piuttosto stupidamente cinico che, a suo tempo, fu usato contro di lui: d’aver anticipato alla Faz il «segreto» contenuto nelle sue memorie allo scopo di farsi pubblicità e vendere copie. Insomma, d’avere strumentalmente fatto scandalo. No, Sbucciando la cipolla è un libro che fotografa esattamente il lacerato rapporto che Günter Grass coltiva con quel se stesso diciassettenne e il peso che esso costituisce per lui. È un libro scritto per sgravarsi pubblicamente la coscienza, anche se, appunto è questa la nostra sensazione, a sgravargliela ci riesce solo in parte. Non è un caso che il flusso di memoria si arresti alla fine degli anni Cinquanta, quando il nano Oskar Matzerath irrompe in scena col suo tamburo di latta e il suo creatore diventa un personaggio pubblico, uno scrittore-mentore. «Da allora in poi ho vissuto così, di pagina in pagina e tra libro e libro. Restando interiormente ricco di figure. Ma per raccontare di questo mancano le cipolle e la voglia» è la conclusione.
Sbucciando la cipolla, dicevamo, è un testo autobiografico magistrale. In senso stretto perché, nelle sue pagine, Grass vi elabora una propria personale, non proustiana, teoria della memoria: memoria che è, per lui, scrittore novecentesco, una sorta di palcoscenico dove affiorano e agiscono alla pari genitori, sorella, amici, commilitoni, mogli, così come i loro corrispettivi travasati nei libri, nel Tamburo di latta e in Anni di cani, nel Rombo e nella Ratta. E dove tutto è possibile sia andato in un modo oppure nell’altro: davvero il padre lo salutò col fazzoletto quando partì in treno per il fronte? davvero parlò di arte la prima volta che uscì con Anna, futura moglie? Il gioco diventa fraseggio, virtuosismo, con la figura di quel «Joseph» incontrato a fine guerra nel campo di prigionia, quel Joseph cattolico ferventissimo che «con tenera prepotenza» tenta di indottrinarlo mentre giocano a dadi, e in ballo ci sono due destini, e che destini, uno Nobel, l’altro - era davvero lui? - primo papa tedesco. Per mettere in moto la memoria Grass ricorre a due oggetti di forte sostanza metaforica: la cipolla, che si sfoglia un velo dietro l’altro (e lui sa in che modo, da bravo cuoco, come s’inorgoglisce di dimostrare in queste pagine), e un pezzo d’ambra del Baltico che, in trasparenza, mostra l’insetto fossilizzato che racchiude, di chissà quale era.
In senso più allargato, il mémoir è magistrale quanto a stile. Il Günter Grass col quale facciamo conoscenza in queste pagine è, fino quasi alla fine, tutto meno che scrittore: è il figlio «bamboccione» che, quattordicenne, ancora sale sulle ginocchia della madre, che diventa esattore dei crediti della bottega familiare, poi con quelle insegne di Ss sul colletto percorre una Germania oscura, straziata dalla guerra, e vede di tutto, cadaveri, macerie, disertori, giovanissimi come lui, impiccati agli alberi; è, ridiventato libero, minatore, poi scalpellino di lastre tombali, allievo scultore in Accademie. Ballerino, suonatore di percussioni, perfino in jam session con Louis Armostrong, esistenzialista, affamato inseguitore di gonnelle. Vita, deposta con stile splendido come una cipria iridescente sul suo «segreto»: quei mesi diventati una cosa da nascondere fino agli ottant’anni, nel momento in cui, dopo la guerra, vedrà ciò che non aveva visto prima, in foto in bianco e nero, «l’annientamento di milioni di esseri umani» effettuato da chi aveva portato le sue stesse insegne.

Repubblica 31.10.07
Pedofilo in cura, psichiatra lo denuncia
Palermo, abusava di 4 nipotine e il medico ha deciso di rompere il segreto
di Alessandra Ziniti


Il giovane, 23 anni, ha problemi psichici. Ora è ricoverato in una clinica
Il presidente della società di psichiatria: "La valutazione è del professionista"

PALERMO - Alla più piccola toglieva persino il pannolino. Le ha toccate, si è spogliato davanti a loro. Poi un giorno ha preso carta e penna e ha scritto una sorta di confessione al suo psichiatra, quasi chiedendo aiuto. Di avere usato violenza alle sue nipotine, quattro bambine dai tre agli otto anni, era perfettamente cosciente, probabilmente anche turbato; ma al medico che lo aveva in cura ha anche candidamente confessato di non riuscire proprio a dominare quegli impulsi che lo prendevano ogni volta che si trovava in casa con le piccole. E così lo psichiatra ha deciso di sacrificare il segreto professionale davanti all´incolumità delle quattro bambine ed è andato a denunciare il suo paziente. Così è scattata l´indagine che ieri ha portato agli arresti in una casa di cura un giovane pedofilo, un ragazzo di appena 23 anni con problemi psichici. La sua confessione prima e il drammatico racconto delle quattro bambine poi hanno indotto il pm Rita Fulantelli e il giudice Silvana Saguto ad adottare un provvedimento che allontanasse il giovane pedofilo dall´ambiente familiare e soprattutto che mettesse al sicuro le piccole da ulteriori violenze.
E´ un caso che sembra destinato a far discutere, per l´inedito squarcio che apre sulla deontologia professionale di un medico rispetto ad un paziente, quello sul quale ha deciso di intervenire il presidente della Società italiana di psichiatria, Carmine Munizza, per puntualizzare che ci sono casi eccezionali che possono dispensare il medico dal segreto professionale. «Quando ci si trova dinanzi ad un paziente che confessa dei reati, come la pedofilia - spiega Munizza - l´atteggiamento dello psichiatra è quello di tentare di convincere il soggetto ad ammettere il reato commesso, offrendosi magari come tramite per denunciare il reato stesso. Quando ciò non è possibile, allora la valutazione resta quella, personale, del professionista. Si tratta cioè di valutare se la confessione del paziente rappresenta o configura una situazione di pericolo immediato o molto probabile per soggetti terzi; in quest´ultimo caso, lo psichiatra può valutare e decidere di segnalare il caso, fermo restando che si assume la responsabilità del proprio atto, che andrà giustificato».
Ed è quello che è successo a Palermo, dove lo psichiatra che aveva in cura da alcuni mesi il giovane pedofilo ha temuto che potesse ripetersi, e con un certa frequenza, quanto successo il 26 dicembre dell´anno scorso quando, mentre la famiglia era riunita a tavola per le festività natalizie, il ragazzo aveva molestato la più piccola delle sue nipotine, una bimba di soli tre anni, che era corsa in lacrime a rifugiarsi dalla madre. Lui, spaventato dalla possibile reazione dei familiari, si era chiuso in bagno per tutta la giornata. Nessuno, in casa, aveva capito che il giovane molestava le nipotine, agli strani comportamenti di quel ragazzo con seri problemi psichici alle spalle erano abituati.

Corriere della sera 31.10.07
Sansonetti (Liberazione): ma il comunismo è cosa molto complessa. Rizzo (Pdci): Walter ricordi che furono i vietnamiti a battere i Khmer rossi
Pol Pot come Auschwitz? Il paragone divide gli storici
Sabbatucci: più giusto il parallelo tra Hitler e Stalin. Canfora: non c'è stato nulla come la Shoah
di Gian Guido Vecchi


MILANO — Chissà che avrebbe detto Saloth Sar, meglio conosciuto come Pol Pot — alias il «Fratello numero 1» —, lui che «dalla giungla tutto vede e giudica» si sarebbe magari fatto un lugubre sghignazzo ad essere accostato a Hitler. C'è la faccenda delicata del parallelo tra comunismo e nazismo, certo. E poi c'è un altro problema: siamo davvero sicuri che il capo dei Khmer rossi cambogiani, il dittatore che tra il '75 e il '79 sterminò un terzo del suo popolo pianificando la morte di un milione e settecentomila persone (secondo le stime più prudenti), sia l'esempio più calzante in tema di crimini rossi? Walter Veltroni, presentando il libro di Cristina Comencini L'illusione
del bene, ha invitato a fare i conti con «la storia del comunismo » citando le foto del genocidio cambogiano, «non sono diverse da quelle che fra dieci giorni vedrò ad Auschwitz».
Vero? Coraggioso? «Mah, di certo parlare di Pol Pot, un caso così estremo e periferico, è più comodo», sospira lo storico Giovanni Sabbatucci. «Se vogliamo fare un'equiparazione tra nazismo e comunismo, sarebbe più corretto parlare dei gulag sovietici, il paragone tra Hitler e Stalin ha più senso». Detto questo, Sabbatucci non teme paralleli, «io credo che le comparazioni siano sempre lecite e non vadano mai demonizzate, e qui la ritengo più che legittima: le differenze tra nazismo e comunismo poco rilevano dal punto di vista delle vittime, e comunque equiparare non significa identificare. La differenza vera non sta nelle realtà che si comparano né nei motivi: l'"illusione del bene" e la bontà delle intenzioni, posto che ci sia, è semmai un aggravante. La differenza è nella nostra cultura: il comunismo nasce più o meno legittimamente dalla Rivoluzione francese, cui tutti ci riferiamo, non ci hanno forse insegnato che l'evoluzione dell'umanità poteva anche passare attraverso massacri? L'altra, il nazismo, è qualcosa di deviante, di estraneo. Gli uni sono figli degeneri, gli altri marziani. In questo senso Pol Pot non era un marziano: ha studiato in Francia, come Mao ci appartiene ».
Del resto sulla malvagità di Pol Pot nessuno fa una piega, figurine del manifesto a parte. Marco Rizzo, dei Comunisti italiani, attacca Veltroni perché «sul comunismo o ignora la storia o è intellettualmente disonesto: quelle dittature sono state battute dagli eserciti di due Stati comunisti, l'Armata Rossa e l'esercito popolare vietnamita». E lo stesso dice il pdci Nino Frosini, «Veltroni ha ragione su Pol Pot e Auschwitz ma dimentica il colore delle bandiere dei liberatori ». Un argomento che Luciano Canfora condivide, «meno noto semmai è che i vietnamiti furono biasimati da tutto l'Occidente e fino all'ultimo gli Stati Uniti difesero all'Onu il seggio di Pol Pot, per dire la nostra cattiva coscienza». Certo, «Veltroni ha scelto il bersaglio che gli garantiva un consenso facile ». Niente paragoni, però, «ha un effetto obnubilante sull'unica peculiarità del Novecento, il massacro di razza, e cioè la Shoah ». Lo dice pure Piero Sansonetti, direttore del quotidiano del Prc Liberazione: «Non è che Pol Pot fosse meno cattivo di Hitler, ma il paragone è insensato come tutti i paragoni storici e il comunismo è una cosa complessissima, che c'entra Gramsci con Ho Chi Minh?».
C'è da dire che a sinistra il terreno è minato. Quando nel '99 Einaudi pubblicò i Racconti della Kolyma, capolavoro di Varlam Salamov sui gulag, eliminò all'ultimo momento l'intervista- prefazione nella quale lo scrittore Gustaw Herling definiva nazismo e comunismo «gemelli totalitari» (lo stesso Salamov chiama i gulag «crematori bianchi»). Ci sono casi più recenti: lo storico Gabriele Nissim, autore di Una bambina contro Stalin, ha accompagnato in giugno Fassino alle fosse comuni di Levashovo, vi sono sepolti anche comunisti italiani vittime di Stalin; l'ultimo segretario dei Ds ha parlato del «fallimento del comunismo» e delle colpe dei dirigenti del Pci; «e non c'è stata nessuna reazione, neanche una parola dal gruppo dirigente del Pd», spiega Nissim. Come mai? «Semplice: la storia di Pol Pot è condivisa, molto più difficile è parlare di Levashovo o di Kolyma, il fulcro del sistema concentrazionario sovietico, una storia che appartiene anche al Pci: lì sì che si può fare un paragone con Auschwitz ».
La questione resta comunque delicata. Primo Levi, ne I sommersi e i salvati, distingueva l'«autogenocidio cambogiano » e gli altri orrori del secolo dal sistema nazista, «un unicum
sia come mole sia come qualità». La stessa idea di Marcello Pezzetti, tra i massimi esperti al mondo di Auschwitz nonché direttore del costituendo museo della Shoah di Roma. Sarà lui ad accompagnare il sindaco di Roma a Birkenau: «Sono sei anni che lo porto ad Auschwitz con gli studenti romani e rimane là tre giorni, nessun altro politico è così preparato. Veltroni conosce perfettamente lo sterminio ebraico, le motivazioni di carattere biologico, e le sue parole non devono essere forzate: è evidente che non voleva paragonare le motivazioni, ma parlare del valore della vita umana. Una volta ho chiesto a una sopravvissuta quale sia stato il momento più brutto della sua vita dopo Auschwitz, e lei mi ha detto: quando ho saputo ciò che aveva fatto Pol Pot. Credo sia questo lo spirito con cui Veltroni ha parlato».

il manifesto 31.10.07
Intervista. Ferrero: «Pacchetto indigesto ma non si può fare di più»
di Luca Fazio


Il ministro della Solidarietà sociale si è astenuto su alcuni punti di un progetto che sembra scritto dal centrodestra Ci vuole una grande mobilitazione nel paese, sul piano politico non ci sono i rapporti di forza

«La realtà è un disastro». Parte da qui, anzi termina qui, la chiacchierata con il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero che ieri, dovendolo digerire, si è astenuto sul cosiddetto «pacchetto sicurezza» del governo. Intende dire che su un tema delicato come la sicurezza bisogna necessariamente graduare il conflitto, «perché devo sapere fino a dove posso portare la mia gente». Spiccato senso della realtà, nodo impossibile da sciogliere per chi da un anno e mezzo sbatte la testa sulla stessa domanda: «E l'alternativa qual è?».
Ministro, perché si è astenuto?
Il «pacchetto» è nato male perché è il risultato di una campagna messa in piedi da alcuni partiti del centrosinistra per sdoganare la questione della sicurezza declinandola come ha sempre fatto la destra. Abbiamo litigato a lungo e abbiamo corretto alcuni errori macroscopici (e non dimentichiamo la reintroduzione del falso in bilancio), ma l'impianto è rimasto tale e quale: si continua a confondere la marginalità con l'ordine pubblico e non si distingue tra repressione e politiche di inclusione. Il punto non è aumentare le pene, lo sanno tutti che l'80% dei reati in Italia resta impunito.
Nel merito, cosa non le piace?
Le misure per la sicurezza urbana, tra cui è prevista la procedibilità di ufficio per i writers, e più in generale la costruzione di nuovi poteri per i sindaci che mescolano amministrazione locale e ordine pubblico, una strada pericolosa perché l'insicurezza verrà agitata da chi avrà il problema di farsi eleggere. Semmai c'è un problema di democratizzazione della polizia. E poi i venditori di griffe false: era previsto addirittura l'arresto immediato e siamo arrivati ad un inasprimento delle pene, è comunque una cosa che non sta né in cielo né in terra. Inoltre, sono convinto che sia un errore escludere le pene alternative per certi reati: sono i classici reati commessi dai più poveri e credo che queste persone si potrebbero più facilmente recuperare tenendole fuori dal carcere.
Mastella le ha definite «astensioni benevole», insultante se significa che non cambiano il provvedimento.
Altrimenti sarebbe stato un voto contrario, intendeva dire che sulla sicurezza abbiamo portato a casa risultati importanti ma ancora non basta. Così possiamo continuare a incidere, la discussione continuerà.
Di questo governo rimarrà nella memoria la propaganda securitaria che colpisce i marginali, e poco altro. Di fronte a questa deriva, il Prc cosa è riuscito a ottenere?
Fino ad oggi noi abbiamo prodotto la politica della riduzione del danno, e per me questa azione non è sganciata dal fatto di poter approvare in tempi brevi la nuova legge sull'immigrazione, spero entro la fine dell'anno. Non dimentichiamo il punto di partenza, la furibonda campagna sicuritaria dei sindaci del centrosinistra, e posso assicurare che il governo ha saputo mediare e di molto rispetto alle loro richieste. E non dimentichiamo che questo è il governo che con l'indulto ha svuotato le carceri. Il Partito democratico è nato sotto l'egemonia culturale di certi sindaci e a noi è toccato il compito di limitare i danni. Inoltre, tenuta del governo permettendo, sto portando avanti una guerra di trincea anche per cercare di modificare la legge sulle droghe Fini-Giovanardi, se entro marzo non ci riesco non sarò più ministro. Si tratta di due passaggi fondamentali per riuscire a gestire il disagio nelle città.
Gli elettori si aspettavano di più.
Dati i rapporti di forza, il punto è come riusciamo a portare a casa il massimo possibile. Sul tema della sicurezza, attorno cui la destra ha svolto e svolge un lavoro sulla sua massa, la sinistra non c'è mai stata: e certi errori si pagano. A volte siamo un po' troppo idealisti, pensiamo che basti avere ragione per ottenere le cose, e invece non è così.
Dato per perso il Pd, la cosiddetta «cosa rossa» sarà capace di presentarsi come alternativa sul tema della sicurezza?
Non do per perso il Pd. E noto che sul «pacchetto» sicurezza in parte si sono astenuti anche Pecoraro Scanio e Mussi, ed è la prima volta che succede. Si tratta di un fatto che fa ben sperare, anche se in termini politici sappiamo che paga poco essere alternativi a chi ha una visione prettamente sicuritaria della società.
Forse non è un caso che proprio oggi, mentre il governo approva il «pacchetto», a Bologna vengano sgomberate le case occupate.
Sono errori gravi. Affrontare i conflitti urbani generati dalla mancanza di case con una politica repressiva non fa che aumentare il livello di insicurezza, i cittadini si sentiranno sempre più insicuri e non basterà sistemare un poliziotto ogni tre portoni. Ieri a Roma, per banali questioni di traffico, un automobilista quasi è stato ammazzato a colpi di mazza, e un altro è stato accoltellato. L'aumento della paura crea solo tensioni e porta all'imbarbarimento della società.
A proposito di case, l'Unione Inquilini sostiene che il provvedimento recentemente approvato dal Cdm, trattandosi di un disegno di legge, non blocca gli sfratti esecutivi nella capitale. E' emergenza?
Ci vogliono due mesi per riconvertire un decreto legge, ma abbiamo ottenuto garanzie sul fatto che le forze dell'ordine non procederanno agli sgomberi, esattamente come è accaduto lo scorso anno. Anzi, invito le organizzazioni di categoria a segnalarci eventuali problemi.
La Commissione d'inchiesta per il G8, fortemente voluta dal Prc, è stata affossata da Di Pietro e Mastella. Un altro schiaffo. Può il Prc limitarsi a dire che così non va perché quella Commissione era prevista nel programma?
E l'alternativa qual è? Qui ci vorrebbe una riflessione più ampia. Gli altri, il centrodestra di Berlusconi, li abbiamo già visti all'opera...Noi dobbiamo affrettarci a fare una legge elettorale che ci permetta di non essere più in questa situazione...molto brutta. E' un fatto gravissimo la bocciatura della Commissione sui fatti di Genova, tanto più se pensiamo che un agente torturatore di Bolzaneto rischia 30 mesi di galera e un venditore di borsette false 24. Ci vuole una mobilitazione forte nel paese, dobbiamo riprendere il lavoro di insediamento sociale, sul piano politico non ci sono i rapporti di forza.

Aprile on line 30.10.07
Tute blu contro il "socialdem" Marchionne
di Piero Di Siena*


L'analisi Il successo di questa prima giornata di lotta per il rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici non era scontato e smentisce la politica dell'a.d. del gruppo Fiat, che ha proposto 30 euro ai lavoratori per liquidare i loro diritti e indebolire il fronte sindacale

Il successo di questa prima giornata di lotta per il rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici non era scontato. Ed erano in molti a pensare che lo "sciocco" tentativo - come l'ha definito Gianni Rinaldini, segretario generale della Fiom - di Marchione di spezzare le gambe alla vertenza in corso con la concessione unilaterale di 30 euro di aumento ai dipendenti della Fiat avrebbe prodotto i suoi risultati.

Il 70 per cento delle adesioni a Mirafiori, i 10mila in corteo a Torino, la manifestazione di Firenze e una percentuale di partecipazione molto alta sia nelle piccole aziende che nei grandi stabilimenti dimostrano che i metalmeccanici sono in campo e che lo sono - sul contratto - in modo unitario. Chi aveva temuto, anche nel sindacato, che il confronto sul protocollo del welfare, su cui la Fiom ha espresso un giudizio negativo, avrebbe potuto incidere negativamente sui rapporti unitari è stato smentito. E il confronto sul contratto dei metalmeccanici assume, a partire dal successo dello sciopero di oggi, un significato e una valenza più generale.

Intanto mette con i piedi per terra la discussione sulla questione salariale nel nostro paese. E affidando la sua risoluzione al contratto di lavoro, dichiara che essa è innanzitutto un problema di redistribuzione tra salari e profitti.
Fa specie che si sia dovuto attendere il governatore della Banca d'Italia e il presidente di Confindustria perché il problema dei bassi salari divenisse di dominio pubblico, mentre se qualcuno fino a poco tempo fa provava a dire che la politica di moderazione salariale attuata, con il patto concertativo del 1993, non aveva forse più ragion d'essere di fronte al contesto macroeconomico attuale, veniva trattato da delirante massimalista. Questa timidezza e subalternità psicologica, prima che culturale, ai poteri forti, che alligna anche a sinistra, ci costringe ora a una faticosa azione di rimonta rispetto alla campagna secondo la quale la causa dei bassi salari sta nelle tasse troppe elevate che sono per di più prelevate alla fonte.

Contrastare questa tendenza non significa disconoscere che bisognerebbe, forse, diminuire la pressione fiscale sul lavoro dipendente. Ma sarebbe necessario altresì non dimenticare che questa sarebbe una misura che potrebbe avere una sua efficacia e un impatto percepibile in modo significativo solo se accompagnasse un effettivo aumento delle retribuzioni lorde, in uno spostamento verso i salari di quote di ricchezza che sempre più sono dirottate sui profitti, che d'altronde faticano a tramutarsi in investimenti.

La giornata di oggi dimostra anche che sarà difficile per Fiat e Federmeccanica smantellare il contratto nazionale di lavoro. Lo specchietto per le allodole dei 30 euro - come si è detto - non ha funzionato. E i trucchi del "socialdemocratico" Marchionne sono stati ben presto svelati.
Come è noto questo generoso appellativo, per l'amministratore delegato della Fiat, è stato coniato da Piero Fassino. Non sappiamo -ora che è democratico- che idea Fassino abbia della socialdemocrazia. Ma mi sembra difficile che tale definizione possa adattarsi a chi alla Fiat di Melfi, il principale stabilimento dell'auto del Mezzogiorno, tollera o promuove il ritorno a un regime di fabbrica a dir poco dispotico, che provoca ben quattro licenziamenti in tronco approfittando di un'inchiesta su trame eversive che molto probabilmente si risolverà in una bolla di sapone. E che a Melfi la mano pesante comincia a produrre i suoi effetti, lo dimostra la bassa adesione allo sciopero (50% i sindacati, 16% l'azienda), segno di un malessere che dura da tempo.

*Senatore Sd, Comm. Lavoro e previdenza del Senato

Il Messaggero 31.10.07
Anche Princeton restituisce i tesori
di Fabio Isman


ANCHE un altro tra i maggiori musei del mondo viene a miti consigli, ed accetta di restituire un po’ del maltolto. E’ quello di Princeton, e manda in Italia otto pezzi, alcuni anche rilevanti, dell’“archeologia saccheggiata”; scavati clandestinamente nel nostro Paese; quanto meno incautamente acquistati attraverso il circuito dei “Predatori dell’arte perduta”: tombaroli, grandi mediatori, celebri mercanti internazionali. All’accordo con il museo dell’università americana, fondato nel 1882 e provvisto di oltre 60 mila oggetti, il vicepremier e ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli ha lavorato a lungo, e il documento è stato sottoscritto ieri dalla direttrice Susan Taylor e dal segretario generale del Ministero, l’archeologo Giuseppe Proietti. Quattro degli otto reperti arriveranno in Italia entro 60 giorni, e quindi potranno forse essere anche esposti nella mostra sull’“archeologia ritrovata” che sarà aperta nella Sala di Augusto del Quirinale da fine anno a febbraio 2008, e gli altri saranno restituiti nel 2011.
Dopo le restituzioni del Metropolitan Museum di New York, del californiano Getty, di quello of Fine Arts di Boston, e mentre sono già a buon punto le trattative con il Museo di Cleveland e con Shelby White, vedova di Leon Levy (uomo tra i più ricchi in tutti gli States) e sponsor della nuova ala greco-romana del medesimo Metropolitan, l’accordo di ieri, dice il Ministro, «è un prezioso tassello nell’azione di diplomazia culturale» dell’Italia, che così «si conferma all’avanguardia, a livello internazionale, nella lotta al traffico illecito» d’archeologia, seguendo un’«ispirazione etica che è ormai un inaggirabile punto di riferimento per le istituzioni culturali di tutto il mondo».
Buona parte delle opere che Princeton restituisce sono dei vasi: un importante loutrophos apulo con figure, attribuito al Pittore di Dario, un vaso a collo altro del 335. a.C.; una psykter attica a figure rosse, che risale a 2.500 anni or sono, dipinta dal Pittore di Kleophrades; un cratere a volute, apulo, del 370 a.C., con eleganti figure e anche rilevanti elementi architettonici. E, ancora, un fammento di altorilievo con centauromachia, la lotta dei centauri, esso pure di circa 2.500 anni fa; due oinochoe etrusche ancora più antiche, una del 675 prima di Cristo, con un serpente dipinto, e l’altra, a figure nere con atleti, di un secolo successiva, coeva di un frammento di skyphos con eleganti raffigurazioni, e di una testa di leone abbastanza monumentale ed assai ben conservata.
Di tutti questi oggetti, il nostro Paese, attraverso una speciale commissione composta da funzionari, carabinieri del Patrimonio artistico, e presieduta dall’avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli, è stata in grado, grazie alle indagini degli stessi carabinieri e del Pm Paolo Ferri, di dimostrare la provenienza dal sottosuolo italiano, fino al punto da convincerne l’autorevole museo americano, che, per questi oggetti, aveva sborsato grandi quantità di dollari. In partenza, la commissione aveva contestato a Princeton la detenzione di 15 pezzi scavati di frodo; ma qualsiasi accordo costituisce sempre un compromesso. Il museo però si è arreso davanti a sei foto dell’archivio di Giacomo Medici a Ginevra, che eternano i reperti talora ancora sporchi di terra e appena scavati; davanti all’affermazione di Robert Bob Hecht, attualmente sotto processo a Roma con Marion True, ex curator del Getty, secondo cui il Getty stesso non aveva ritenuto autentica, e quindi non l’aveva acquistata da lui, la psykter attica del Pittore di Dario; davanti a due immagini con il cratere a volute e l’oinochoe a figure nere, rinvenute a Basilea, nell’archivio di Gianfranco Becchina, un altro grande mediatore dell’“arte trafugata”. I primi acquisti di Princeton risalgono al 1989, gli ultimi al 1995. Un ventennio in cui dal nostro Paese sono usciti centinaia di migliaia di reperti scavati di frodo; molti degni dei grandi musei; alcuni anche autentici capolavori, perfino unici al mondo. Ma ormai, il vento è finalmente cambiato, e i grandi musei cominciano a restituire.