sabato 3 novembre 2007

l’Unità 3.11.07
Destra dell’odio: rumeni bastonati a Roma

l’Unità 3.11.07
Puntuale arriva il raid fascista: feriti tre rumeni
Roma, a Tor Bella Monaca l’aggressione di un gruppo di giovani incappucciati e armati di bastoni
di Ella Baffoni


ALLA FINE un gruppo di incappucciati pronto a menare le mani si è trovato. Il raid è scattato a sera, vicino al centro commerciale Lidl, tra la Casilina e via di Torraccia, zona Tor Bela Monaca. Una decina di persone con caschi e passamontagna hanno assalito armati di coltelli, bastoni e un falcetto, un gruppo di rumeni, una spedizione «punitiva»: tre i feriti, uno in modo grave. Avrebbe un trauma cranico, codice rosso. I feriti sono stati ricoverati negli ospedali di Tor Vergata e Frascati, nei Castelli Romani. I carabinieri stanno ricercando i responsabili dell’agguato, che sarebbero stati filmati dalle telecamere della Lidl. Il raid è durato pochi minuti appena, gli aggressori sono italiani, dicono i testimoni, rumeni e romani.
Nel parcheggio del supermercato Lidl, vetri rotti e bottiglie spaccate: l'area dove è avvenuta l'aggressione è stata chiusa con nastri per permettere agli investigatori di lavorare. Proprio qui sono tanti i frantumi di vetro. Vicino ad un muretto, in un lato del parcheggio, sono abbandonati in terra bottiglie di vetro, lattine e cartacce; qui s’incontrano spesso gruppi di rumeni e non.
Immediata la reazione del sindaco di Roma: «Esprimo la mia condanna più grande per quanto avvenuto a Tor Bella Monaca. In un momento come questo occorre la più grande responsabilità da parte di tutti. L'odio, le strumentalizzazioni di qualsiasi genere da qualunque parte vengano - ha aggiunto - sono estranee ai valori della nostra comunità. Mentre siamo impegnati in un'azione difficile per tutelare la sicurezza dei cittadini voglio rivolgere un appello perché i toni e i comportamenti siano ispirati ai valori della convivenza civile e non della vendetta». E il ministro della solidarietà, Paolo Ferrero condanna l’aggressione: «La responsabilità di atti del genere va imputata a chi soffia, in questo momento così delicato, sull'intolleranza e sul razzismo. In particolare la destra romana dovrebbe smetterla di speculare su tragedie come quella accaduta a Roma». Per Prc Gennaro Migliore e Giovanni Russo Spena parlano di poogrom e criticano le misure del governo: «Misure sbagliate e dannose»,
L’aggressione di via Casilina è l’epilogo, prevedibile e orrendo, di una giornata cominciata con lo striscione «Pena di morte per questo infame», appeso per pochi minuti davanti al carcere romano di Rebibbia. Sarebbe della Destra di Storace, ma il portavoce del movimento, Sabbatani Schiuma, smentisce: «la mia religiosità mi vieta di pensare alla pena capitale». Ma per tutta la giornata l’attacco al sindaco di Roma e, insieme, al leader del Pd, è stata incessante. Per il centrodestra come per i più fascisti, che non temono di soffiare sul fuoco dell’intolleranza razziale e del razzismo.
Dunque, non solo striscioni «futuristi», mentre l’Italia è impegnata nella battaglia per la moratoria mondiale della pena di morte. Forza nuova, che già ha organizzato a Roma fiaccolate - microscopiche, per la verità - contro rom e immigrati in altre zone di Roma tra cui quella dell’agguato, ne annuncia una per domani, tra Tor di Quinto e Ponte Milvio. Al grido di «Guai a chi tocca le nostre donne», il leader di Forza Nuova Roberto Fiore incita i suoi: via i Rom da Roma. «Da oggi in poi - scrive nel sito dell’organizzazione di estrema destra - i nostri militanti e tutti gli italiani sono moralmente autorizzati ad usare metodi che vadano al di là di semplici proteste per difendere i propri compatrioti». Qualcuno lo ha ascoltato.
Il leader di Forza nuova insiste: «Se gli italiani non reagiranno con estrema durezza e unità a un’offesa che colpisce i sentimenti e l’onore della Nazione... l’Italia sarà destinata a un futuro di decadenza e morte. Forza Nuova soffia sul fuoco di rabbia che sale dai quartieri romani e delle borgate stanche di vedersi umiliate da politiche suicide e antitaliane. Forza Nuova si appella alle famiglie borghesi romane che non avrebbero mai più pensato di scendere in piazza se non forse un giorno per difendere i propri figli e le proprie famiglie. È tempo di scendere in piazza: c’è un nemico spietato alle porte». Sul sito si annunciano presidi e fiaccolate anche per sabato 10 novembre.
Alla chiamata alle armi risponde subito Azione Sociale: domenica a ponte Milvio ci saranno anche loro. Una adesione particolarmente significativa anche perché Azione sociale e la sua segretaria nazionale, Alessandra Mussolini, è tra i più tenaci alleati di Berlusconi e di Forza italia. E se i forzisti e il loro leader attaccano il governo, se Fini fa conferenze stampa sul luogo del delitto - mentre Berlusconi racconta barzellette in teatro, ma è contemporaneamente molto «dispiaciuto» - Mussolini dice che «In questo momento di reale emergenza è giusto ricordare che, quando i più erano indifferenti, Alternativa Sociale denunciava in splendida solitudine in Europa e in Italia i possibili pericoli di una incontrollata invasione da parte dei rumeni e degli extracomunitari più violenti. È giusto, quindi, essere uniti in questa ulteriore battaglia anche per smascherare opportunismi e ipocrisie di chi sinora è restato in silenzio o, peggio, ha tacciato la nostra azione di razzismo».

l’Unità 3.11.07
Paura tra i rom, in fuga senza aspettare le ruspe
Sgomberati i campi sul Tevere e l’Aniene. Il poliziotto: «Dove vanno? Non c’interessa, dovevamo riprenderci il fiume»
di Mariagrazia Gerina


«VE NE DOVETE ANDARE», il messaggio sta facendo in fretta il giro della città abusiva fatta di baracche e invisibili che corre lungo gli argini del Tevere e dell’Anie-
ne. È il pressing degli avvertimenti, ufficiali e no, che si unisce a quello dei controlli e degli sgomberi. Qua e là alcuni sparuti drappelli si sono messi in movimento senza nemmeno aspettare l’arrivo delle ruspe. Lungo la via Salaria, ieri mattina: una fila di sfollati avanza trascinando carrelli della spesa e grandi buste di plastica bianca dove alla rinfusa i romeni hanno raccolto le loro cose. Le stesse buste, gli stessi carrelli sfilano davanti alla fermata della metropolitana di Ponte Mammolo, a pochi metri dalle rive dell’Aniene. Molti si spostano semplicemente in cerca di un nuovo rifugio precario. Altri ripetono più o meno convinti: «Ce ne torniamo in Romania».
«Dove vanno? Non è questo il punto, noi vogliamo che capiscano che non possono stare accampati così lungo le rive del fiume», spiega Raffaele Clemente, dirigente dell'Ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico della Questura, che ieri mattina ha fatto arrivare le ruspe fin sul Tevere, per buttar giù 25 baracche dove, non lontano dal mercato di Porta Portese, all’altezza di Ponte Sublicio, vivevano moldavi, romeni, ungheresi. Nell’accampamento è stato ritrovato materiale elettrico ancora imballato e venti persone sono state accompagnate in Questura. «Il Tevere è come una balena, lo abbiamo diviso in tanti pezzetti e ora ci stiamo riprendendo ogni singola golena», spiega Clemente indicando su una cartina gli insediamenti abusivi rimossi da quando, ad agosto, è scattata la nuova strategia: 220 manufatti abusivi abbattuti, 760 controlli, 576 stranieri identificati, 96 denunciati. «Non si tratta solo di buttare giù le baracche, ma di recuperare un territorio eliminando il disordine urbanistico e ambientale che fa brodo di coltura. Le baracche sono il sintomo, il male da curare per noi è il degrado del territorio». Un male diffuso. Se dal ponte Sublicio dove è avvenuto ieri l’ultimo sgombero si risale il fiume verso Sud si arriva fino ad un’ansa, all’altezza del viadotto della Magliana, dove gli insediamenti abusivi si concentravano a grappoli. Un caos con un suo epicentro - spiega Clemente - nella fonderia che, gestita da un italiano, sorge tutt’ora a pochi metri dal fiume. Cuore dell’economia rom, che ha richiamato braccia e baracche in quel punto del fiume: un paesaggio post-industriale attraversato da carrellini spinti a mano con dentro il ferro recuperato in ogni modo e seminato di calcinacci smaltiti abusivamente dagli smorzi. Discariche edilizie, alternate a vecchi orti di guerra. Tutta un’economia illegale, che trova nei rom la manovalanza e che perciò - spiega Clemente - viene contrastata dagli sgomberi. «Faremo la stessa cosa anche verso Nord». A Tor di Quinto dove sorgeva l’accampamento da cui è balzato fuori l’aggressore di Giovanna, oggi entreranno in azione le ruspe, che, nelle prossime settimane risaliranno il fiume, accampamento per accampamento, fino alla campagna. Il tratto che va dalla Magliana al Ponte Sublicio verso il centro di Roma - spiega il dirigente di polizia, che sta lavorando a questo progetto con la Regione e l’assessorato capitolino alla Sicurezza - diventerà un percorso a cavallo, controllato da agenti a cavallo perché non diventi pericoloso come è accaduto per le piste ciclabili. Nel tratto verso Nord il lavoro di «bonifica» è appena all’inizio. E nei prossimi giorni continuerà, accompagnato dall’allontanamento di quanti saranno considerati un pericolo per la «pubblica sicurezza».
Il decreto appena entrato in vigore parla di provvedimenti da adottare di fronte a una «comprovata urgenza». «E qui a Roma l’urgenza di dare un segnale che possa rasserenare la città è forte», spiega il prefetto Carlo Mosca, pronto a firmare i primi allontanamenti, che riguarderanno «chi ha avuto comportamenti contro la dignità della persona umana e l’incolumità pubblica». Pregiudicati che continuano a vivere di proventi illeciti, denunciati a piede libero, arrestati tornati in libertà. «Se riusciamo a tirar via i pesci infetti da questa acque poi potremo affrontare anche tutto il resto». Compresa quella domanda, che al prefetto - spiega - sta molto a cuore: «Dove mettere i romeni sgomberati».
Nella confusione, intanto, partono anche i non indesiderati: «Torniamo nel nostro paese», dice una donna con accanto suo figlio: «Non me la sento più di stare qui, resta solo mio marito per lavorare», dice mentre sale sull'autobus per Bucarest in partenza dalla stazione Tiburtina.

l’Unità 3.11.07
Sicurezza, la prima prova. Il protagonismo di Veltroni
La scelta obbligata del Pd: intervenire o soccombere
Anche Prodi sa che un partito fragile indebolirebbe il governo
di Bruno Miserendino


DOMANDE Un po’ era inevitabile. La pronta risposta del governo sul tema sicurezza e quel decreto legge sulle espulsioni approvato di corsa con un Consiglio dei ministri straordinario, su diretta pressione di Veltroni, hanno creato un precedente e tante domande. Due, per cominciare: quanto è avvenuto è il segnale che alla guida del Partito democratico e del Campidoglio c’è un premier ombra che inevitabilmente andrà a insidiare la guida di Romano Prodi? O è la dimostrazione che il Partito democratico, con una guida politicamente autorevole, è in grado di imprimere quella svolta che attendevano proprio i fautori del Pd? Tre giorni dopo i fatti lamentazioni, paure e soddisfazioni si sommano e anche questo era inevitabile. Parisi storce la bocca, la sinistra radicale teme di essere soverchiata dal Pd, palazzo Chigi vede o mostra di vedere il bicchiere mezzo pieno e nega dualismi pericolosi o destinati allo scontro frontale.
In effetti le letture possibili sono tante, ma a sentire quel che dicono nel Partito democratico e non solo dalle parti di Veltroni, quanto è avvenuto non è casuale. C’è stata una particolarità di eventi che ha portato tutti a imprimere un’accelerazione, per rassicurare la cittadinanza e reagire alla campagna della destra, ma la svolta è figlia di un protagonismo, del Pd e non solo o non tanto di Veltroni, che si vedrà ancora all’opera. Insomma è una linea. Di cui Prodi è parte, anche se lui ha un obbligo di mediazione in più in quanto premier. Del resto che le cose stiano cambiando e che Veltroni e il Pd giochino con un ritmo diverso dal passato e con un peso specifico più alto rispetto a quelli di Ds e Margherita si è visto persino nella vicenda dell’inchiesta parlamentare sul G8 di Genova affossata nonostante fosse nel programma di governo. Veltroni ha scritto subito al sindaco di quella città, ha ricucito con la sinistra radicale, in sintonia con Prodi, che ha infatti rassicurato sulla volontà di fare l’inchiesta. In questo caso difficilmente si può accusare il neosegretario del Pd di giocare in proprio mettendo in difficoltà Prodi. L’intervento sul G8 serve a aiutare il premier. Ma anche sulla sicurezza, assicurano i veltroniani, è così. Il Pd è un pilastro del governo, in quanto lo aiuta a essere più veloce. Il Pd, avvertono da tempo Veltroni e Franceschini, nasce per rispondere alle attese dei cittadini. E sulla sicurezza si gioca una partita molto pericolosa, su cui la destra è all’attacco con i metodi che si sono visti. Con Fini sul luogo del delitto a eccitare gli animi, con le ronde, con le manifestazioni che evocano i manganelli, con Forza Italia che vuole le dimissioni di Veltroni come se il delitto della donna dipendesse dalla sua nomina a segretario del Pd. Di tutto questo clima si sono già visti gli effetti ieri sera a Roma. Se l’assalto della destra ha avuto politicamente un parziale stop, dicono ora nel Pd, lo si deve al tempismo con cui Veltroni, in sintonia con Prodi e Amato, ha imposto un segnale «decisionista» che ribalta l’immagine falsa ma molto frequentata di una sinistra lassista sul tema della sicurezza.
Non è detto che in prospettiva l’interventismo veltroniano crei solo problemi a Prodi, anche se molti lo temono. Dipende da come ci si muove. Veltroni, prima di sollecitare l’accelerazione sulla sicurezza, ha sentito anche la sinistra radicale. Il Pd, ammttono tutti, è già percepito come ingombrante dagli altri partners della coalizione, ma Prodi sa che non c’era alternativa: un Pd con guida debole, non avrebbe salvato nè se stesso nè il governo. Semmai molti problemi si profilano anche per Veltroni: il suo attivismo lo mette inevitabilmente nel mirino sia dell’opposizione che della sinistra radicale. Il neosegretario vuole dialogare con tutti, ma in queste ore ha visto quanto sia difficile farlo con questa destra. Quanto alla sinistra basta apsettare.

l’Unità 3.11.07
Gennaro Migliore. Al capogruppo alla Camera del Prc non piace parte del «pacchetto Amato». Ma il suo partito non ha intenzione di uscire dal governo
«Sì alla sicurezza, no a misure per inseguire la destra»
di Vladimiro Frulletti


«Non dobbiamo uscire dal governo, ma dobbiamo anche, come ci ha detto Ingrao alla manifestazione del 20 ottobre, continuare la lotta». Il capogruppo alla camera di Rifondazione comunista Gennaro Migliore non nutre molti entusiasmi sull’esecutivo Prodi, ma non ritiene che la via d’uscita per il suo partito stia, appunto, nell’uscita dal governo come si chiede (desidera?) il suo giornale, Liberazione.
Onorevole, le giro la stessa domanda, proibita, che si è fatto il giornale del suo partito: Rifondazione deve restare al governo?
«Non è una domanda proibita. Anzi è una domanda che è all’ordine del giorno da molto tempo. È per questo motivo che abbiamo convocato la manifestazione del 20 ottobre».
Ma al di là della manifestazione, una risposta alla domanda ci vuole. A suo avviso per Rifondazione ha un senso o no rimanere in questo governo?
«Insisto sulla manifestazione perché non vorrei che venisse rimossa. Quella non era una manifestazione contro il governo e anche oggi non credo che dobbiamo uscire dal governo. Semmai continuo a ritenere che si debba ricongiungere l’attività di questo governo, che è chiaramente in difficoltà e negarlo sarebbe sciocco, con la gente che l’ha votato e che ha voluto che noi esercitassimo questo mandato».
Ma perché c’è questo malcontento a sinistra?
«Non si tratta di un punto piuttosto che un altro. Si tratta di una tensione che invece di essere chiaramente rivolta a un principio di innovazione e a riforme strutturali si barcamena fra gli interessi forti della Confindustria e di alcuni settori più chiusi al cambiamento e i continui ricatti della parte più centrista della coalizione».
A sinistra il “pacchetto sicurezza” non piace, eppure il governatore della Puglia Nichi Vendola sul Manifesto dice: “non basta, ma serve”. Rifondazione riconosce che queste misure servono?
«Servono ma non in questo modo. Il decreto sulle espulsioni per via amministrativa non è un elemento risolutivo per la sicurezza. Temo la rincorsa delle politiche della destra. Sono rimasto impressionato che non si sia alzata dal governo nessuna voce che dice “va bene, ma a questo punto faremo anche politiche più serie di integrazione”. Si mostra invece la faccia feroce come in questi giorni a Roma dove invece di dire perché c’erano tali condizioni di disagio si prendono le ruspe e si abbattono i campi».
Ma non crede che questa posizione non sia capita proprio dalle fasce popolari, da chi in periferia ci vive veramente?
«Ma alle fasce popolari non bisogna dare il “contentino”, bisogna risolvere il problema. Io lo so perché vengo da una fascia popolare, ho vissuto davvero in una periferia degradata con i camorristi a fianco casa. Contesto non l’esigenza della sicurezza, ma gli strumenti che servono più per fare un titolo di giornale. E che riguardano tra l’altro pochissime persone».
Cioè?
«Quando hanno detto che erano già pronte le espulsioni mi aspettavo che fossero centinaia, migliaia. Il prefetto Mosca ha detto che ce ne sono pronte 10».
Non ritiene che invece il vostro malessere è perché vi sentite partito di lotta ma state al governo?
«Non credo proprio».
Volevate portare i “movimenti” nella stanza dei bottoni...
«Noi abbiamo sempre contestato l’idea della stanza dei bottoni. Per me non esiste una stanza dei bottoni. Non abbiamo mai chiesto prebende e posti. Crediamo ancora che la politica possa dare un senso alla volontà di trasformare la società».
Ma lei non la sente questa contraddizione?
«Io lotto sempre e quindi la contraddizione non la sento. Sento il richiamo che ci ha fatto Pietro Ingrao alla manifestazione del 20: la lotta continua».
E la prospettiva della “Cosa rossa”, anche se il termine non vi piace...
«Non ci piace perché per par condicio bisognerebbe chiamare il Pd la cosa grigia”».
Chiamiamola federazione delle sinistre: aiuterà il governo?
«È un processo indispensabile per le donne e gli uomini di sinistra, ovviamente il governo potrebbe trarne dei vantaggi. Ma prima di tutto vogliamo rendere sempre più trasparente e conseguente la politica in modo che le cose che si pensano si dicono e si fanno».

l’Unità 3.11.07
Il sogno e la paura
di Gian Giacomo Migone


È difficile rispondere alle emozioni suscitate da un atto particolarmente efferato con gli strumenti della ragione. Può essere ingiusta, addirittura irragionevole la pretesa di sostituire le emozioni con una fredda razionalità.
Tuttavia chi governa ha il dovere di trovare un punto di equilibrio attraverso cui la giusta indignazione diventi stimolo ad un’azione fondata su una migliore comprensione dei fatti, anche quelli solo apparentemente più lontani dalla tragedia che si è appena consumata.
È un fatto che la sicurezza costituisca un bene irrinunciabile del vivere civile, privo di colore politico, che deve essere tutelato nell’immediato soprattutto nell’interesse di chi non ha i mezzi per comprarsi una sicurezza privata (esattamente come deve avvenire per altri beni sociali come la salute, il lavoro, la casa).
È anche un fatto che grandi e improvvisi flussi immigratori come quelli di oggi - ma anche quelli in atto, ad esempio, negli Stati Uniti dopo la Guerra civile, ove noi italiani eravamo i rumeni di allora, esportatori di braccia ma anche di criminalità, vera e presunta - determina un terreno di coltura particolarmente favorevole all’illegalità e alla guerra tra poveri. Anche se gioverebbe avere a disposizione delle cifre, non solo quelle ripetute in questi giorni, relative alle percentuali di reati commessi da rumeni rispetto a quelli di altri immigrati, nella provincia di Roma. Proprio per la sua efferatezza, l’assassinio di Tor di Quinto merita una casistica più specifica, relativa ad altri crimini analoghi, commessi da italiani e non, che sfuggono agli effetti di ingrandimento mediatico.
Ne risulterà l’esigenza di chi governa, ma anche di chi al governo legittimamente si oppone, di valutare altri fatti che non possono essere ignorati o violentati da chi ha il dovere, sì, di agire con prontezza ed efficacia, ma anche di saper prevedere gli effetti non immediati delle proprie azioni, nel contesto più ampio in cui si inseriscono. Ad esempio, quali? Che, in un mondo in cui soltanto il 20% della ricchezza per lo più collocata nell’emisfero nord-occidentale (anche se sono ormai decollati altri poli di sviluppo tumultuoso), sia raggiungibile da (circa) l’80% della popolazione, le grandi transmigrazioni sono destinate a durare. Si può modificare il ritmo e l’entità del fenomeno, plasmarne le modalità, prevenirne gli effetti, ma non sopprimerlo.
Un altro fatto? Che noi dell’immigrazione abbiamo bisogno, per ragioni demografiche, economiche, persino culturali. Quale popolo, quale stato, è in grado di affrontare le sfide della globalizzazione, se al suo interno non dispone dei legami, dei contatti, delle culture, insomma del pluralismo che al proprio interno recepisce, metabolizza quanto avviene nel resto del mondo? Sono realtà affascinanti, per lo più spietate, che si inseriscono nel nostro piccolo mondo antico e certamente imperfetto.
Non abbiamo sbagliato tutto. L’Unione Europea, anche da questo punto di vista, è il frutto di una previsione corretta del futuro. È l’inizio di un processo di integrazione rispettosa di diversità che in una fase storica immediatamente precedente, ma di non breve durata, si sono tradotte in guerre, persecuzioni, persino genocidi di minoranze. Né poteva arrestarsi, quel processo, sulla soglia dei paesi più ricchi, più appagati, democraticamente più consolidati. Quella parte della Germania, meno ricca e sacrificata da una dittatura spietata, è stata inglobata nella Germania europea, sotto la leadership - le leadership politiche possono contare, eccome! - di Helmut Kohl e Willy Brandt, non appena caduto il Muro di Berlino. Con tempi più lunghi, forse troppo lunghi, gli altri paesi dell’Europa ex sovietica hanno potuto esercitare il loro diritto politico e morale di essere ammessi nell’Unione. Per ultimi, non a caso, Bulgaria e Romania: i membri industrialmente e non soltanto industrialmente più deboli del Patto di Varsavia, sottoposti alle dittature più rigide (sia pure per ragioni opposte di politica estera), perciò in maggiore difficoltà nel «digerire» e «essere digeriti» dal processo di integrazione che aspettava loro. Altri paesi sono sulla lista di attesa; le irrequiete repubbliche balcaniche, forse la Turchia e l’Ucraina. Altri paesi non sono candidati a far parte dell’Unione ma nei suoi confronti esercitano quello che può risultare un vicinato più o meno buono: la sponda meridionale del Mediterraneo, il Medio Oriente, persino l’Asia Centrale da cui siamo destinati ancora a dipendere per il nostro rifornimento energetico...
Sono processi lineari, indolori, privi di tensioni di ogni tipo? Domanda retorica. Evidentemente no. Dove vi è differenza, diversità, disparità di condizioni di partenza, non può che esservi difficoltà che sconfinano nel conflitto, anche e soprattutto tra i nuovi arrivati e coloro che già si trovano in una condizione di fragilità. Di entità tale da mettere addirittura in pericolo il processo di integrazione preesistente. Non è un mistero per nessuno che la sconfitta referendaria subita dal progetto di Costituzione europea non dipendeva dalle (troppe) norme in esso contenute, quanto dall’ondata reattiva al fenomeno immigratorio che aveva investito due stati fondatori dell’Unione europea, quali la Francia e l’Olanda. Altro, maledetto fatto. Eppure questo processo europeo, oggi traballante, anche per avvenimenti specifici proprio per la loro estrema crudeltà, costituisce il contributo che è nostro a un tentativo dall’esito incerto di contenere le contraddizioni che minacciano il futuro del pianeta.
Le reazioni del primo ministro rumeno, Calin Popescu Tariccanu, dimostrano questo tipo di consapevolezza, dimostrando disponibilità a misure di sicurezza che non alimentino tensioni nazionaliste ed evitando il facile escamotage di scaricare ogni colpa sulla minoranza rom.
Per fortuna alla guida del nostro governo si trova Romano Prodi, la cui presidenza dell’Unione Europea fu profondamente segnata da esigenze di apertura e integrazione. È perciò augurabile che l’intera maggioranza sappia resistere alla tentazione di alimentare una gara al rialzo con l’opposizione con misure legislative sul delicatissimo terreno dell’ordine pubblico (ha ragione Giovanna Zincone - cfr. La Stampa di ieri - a questo proposito). All’on. Gianfranco Fini un rispettoso invito.
Quando lo assale la pur ovvia tentazione di ogni opposizione a usare stati d’animo scaturiti da un evento tragico contro il governo, si ricordi dei risultati importanti che ha conseguito il processo di revisione ideologica subito dal suo partito (un esempio per tutti: la posizione unanime dell’Italia contro la pena di morte). Ricordi i travagli della nostra emigrazione e, da buon amico degli Stati Uniti, osservi con attenzione alcuni meccanismi di autocontrollo di quel Paese rispetto al fenomeno immigratorio che, per ragioni storiche, prima di noi hanno imparato a considerare fisiologico. Compreso quello citato ieri da Gad Lerner su La Repubblica: la regola del New York Times, secondo cui la provenienza etnica dell’autore di un crimine vada citato soltanto nel caso in cui quel crimine corrisponda ad un’ispirazione o natura specificamente etnica. Ma questo non è un suggerimento rivolto soltanto a Fini, bensì a tutti noi.

l’Unità 3.11.07
Caro Bobbio, che cos’è per lei il socialismo?
di Bruno Gravagnuolo


EPISTOLARI La lunga discussione tra il filosofo e Giuseppe Tamburrano nel loro carteggio inedito tra il 1956 e il 2001. Un momento chiave per la messa a punto dell’idea di sinistra nel pensatore torinese

C’era una volta Norberto Bobbio, ricordate? Sembra un’altra era geologica. Eppure è scomparso poco più di tre anni fa. Ma è come se i temi, i problemi e il pungolo di tante questioni, che arrovellavano la sinistra, e che Bobbio ostinatamente riproponeva, siano finiti in cantina. Col ricordo dello studioso. «Libertà e socialismo», «politica e cultura», «destra e sinistra», governo degli uomini e quello della legge, pacifismo e realismo della forza...
E invece, arriva adesso un libretto bellissimo, e godibilisimo oltretutto. Che ha il pregio di riassumere e rilanciare a «blocchi» tutte quelle questioni: inevase o dimenticate. Soprattutto non riproposte affatto ai più giovani. Ed è un epistolario tra un ex giovane di belle speranze, ma oggi più appassionato e vitale che mai, e il filosofo: Norberto Bobbio e Giuseppe Tamburano, Carteggio. Su marxismo, liberalismo, socialismo (Editori Riuniti, pp.141, euro 14). Il libro, oltre che silloge di problemi vissuti, è una piccola storia di vita. Che comincia nel 1956 e si arresta nel 2001, due anni prima della morte di Bobbio. Storia fatta di un rapporto esemplare. Casuale e insperato all’inizio, ma via via intenso, tra il Tamburrano intellettuale di provincia, che scrive dalla sua Foggia al famoso studioso, e il destinatario. Che risponde al giovanotto sconosciuto e grintoso.
Il quale lo provoca su un punto chiave della polemica culturale di quegli anni: liberal-democrazia e socialismo. Dopo il XX Congresso del Pcus, che aveva svelato la natura totalitaria e dispotica di quel socialismo, e dopo i saggi bobbiani su Politica e Cultura. Nei quali l’azionista Bobbio era entrato in contrasto con Togliatti, col filosofo marxista Della Volpe, e con il «deficit» statual-democratico del marxismo, «privo di una dottrina dello stato».
Tamburrano è pugnace, e rilutta all’idea bobbiana che il metodo della libertà, ben più dei «mezzi riformisti», sia essenziale alla costruzione di un socialismo degno del nome. E perciò insiste sulla trasformazione «necessaria» che il metodo liberaldemocratico dovrebbe subire, una volta innestato sugli ordinamenti socialisti, fondati sulla liberazione del lavoro. E nondimeno poco a poco il giovane studioso, precoce ex comunista, futuro storico del socialismo e Presidente della Fondazione Nenni, perviene alla medesima conclusione di Bobbio. E cioè che l’«involucro liberale» deve resistere alla trasformazione socialista. Che gli «universali procedurali» della democrazia sono un termine di progresso a quo non reditur. Irreversibili, proprio per garantire un vero socialismo, umanista e non dittattoriale.
Anche Bobbio però prende gusto nel rispondere a quel giovane importuno. E precisa meglio il suo pensiero: «tecniche liberali e valori socialisti». Piani distinti ma connessi, ciascuno a servizio dell’altro. E chiarisce teoricamente il suo «modello». Che somiglia molto a quello che già fu di Carlo Rosselli, e del suo «socialismo liberale». Ovvero: socialismo come incessante perseguimento dell’eguaglianza nella liberta. «Giustizia e libertà» sinergiche. E il tutto impiantato su una democrazia piena, conseguente. Che salvaguarda i beni comuni, dalla scuola alle «chances di vita»( termine di Dahrendorf, che Bobbio non usava...). All’ambiente, alle relazioni umane più ampie e non strumentali («non tutto è economia e profitto»). E non senza la prefigurazione di un’economia solidale e associata (il «terzo settore»), che incorpora responsabilità etica, senza venir meno all’efficienza. Ma il fulcro di tutto questo ragionare, che per lettera il giovane e il vecchio svolgono assieme, è questo: persino l’economia racchiude un contenuto non economico, vale a dire «etico». E lo sapeva bene l’Adam Smith della Teoria dei sentimenti morali. Etica coincidente con l’etica civile della società, con la democrazia stessa insomma. La quale per tal via si approssima a un socialismo non totalitario. Che dia spazio al «mercato», senza che sia il criterio regolatore supremo, bensì una della forme - necessarie e democratizzate - della riproduzione sociale. E questo è uno dei nuclei chiave del carteggio. Un nucleo che in Tamburanno diventerà la puntualizzazione dei «fini» del socialismo: liberazione della persona e democrazia conseguente. Che non annulla la distinzione tra stato e società civile, con le «regole» annesse. Un «Fine» inespugnabile da ogni «revisionismo», altresì necessario a reintrodurre la libertà nel socialismo, e a correggere l’integralismo messianico da «Antico Testamento» di quel Marx per tanti versi ancora attuale.
E tuttavia nel carteggio vi sono tante altre cose. Ad esempio la discussione su Gramsci, che Tamburrano ristudia negli anni ‘60, ricevendone ostilità dalla vulgata gramsciana del Pci. Su Rinascita e su Paese Sera. Per Tamburrano Gramsci è pensatore dell’ «egemonia come democrazia», del dialogo, dell’antistalinismo. E soprattutto è pensatore non totalitario, che svincola la politica dal «determinismo economico», affidandola allo sforzo democratico di fare evolvere le «sovrastrutture», le forme di coscienza, entro cui i «rapporti economici» si manifestano. Su questo Bobbio in verità ha qualche dubbio. Specie sulla questione del «moderno principe», il Partito gramsciano come «imperativo categorigo» e intellettuale collettivo, per Tamburrano viceversa «concetto descrittivo» dei partiti moderni. Ma anche su Gramsci c’è un’intesa di fondo, soprattutto sul suo concetto di «società civile», che pone la politica in Occidente ben al di là della barbarie orientale, dispotica e priva di articolazioni civiche.
Altro punto decisivo dell’epistolario è poi quello della «svolta» Pci-Pds, tra il 1989 e il 1991. Connesso a quello del rapporto mancato tra Psi e Pci-Pds. E ancora una volta il giovane, ormai non più giovane, e il grande studioso, si ritrovano d’accordo sui «fondamentali». La svolta di Occhetto infatti è salutata da entrambi con favore. E nondimeno entrambi la avvertono come «amorfa», «acefala». Priva di assi forti, incapace di tematizzare «ciò che è vivo e ciò che è morto» nel socialismo. E proclive a buttare il bambino e l’acqua sporca, in assenza di un vero superamento della tradizione comunista: a «contenuto positivo. Certo, sia in Tamburrano che in Bobbio il dubbio che il socialismo sia morto affiora eccome. Ma vince la persuasione che senza contenuti identitari la sinistra si dissolve. Non per caso Bobbio rilancia la distizione destra/sinistra. E Tamburrano la necessità mondiale dei fini etici e programmatici socialisti. Quanto al Psi di Craxi, gli scriventi dicono: respinse in chiave annessionista la svolta del Pds. Che a sua volta non seppe sfidare l’ipoteca craxiana sul nome «socialista». Quel nome finì abbandonato, ma la cosa rimane. Sì, anche su questo gli autori concordavano. E hanno ancora ragione.

Repubblica 3.11.07
"Un delitto efferato, ma la polizia ha sbaraccato casette miserabili e cacciato gente innocente"
Rossanda boccia il decreto "Sciagurato, roba da fascisti"
"Mi chiedo se la responsabilità penale personale vale solo per gli italiani"
di Alessandra Longo


ROMA - «Una cosa sciagurata, una cosa da fascisti». Dalla Francia, dove ormai vive quasi stabilmente, Rossana Rossanda giura che la politica italiana non la coinvolge emozionalmente. Quando parla di quel che è accaduto in queste ore a Roma la sua voce però è indignata e i giudizi sono, di conseguenza, pesantissimi. C´è poco da aggiungere, dice, sull´efferatezza di cui è rimasta vittima Giovanna Reggiani, molto invece su «come ha reagito il governo», sull´accelerazione impressa alle risposte di polizia. Rossanda è tranchant: «Comportamento schifoso. Non ho parole. Sento che le forze dell´ordine si sono presentate in quegli accampamenti, tra quelle casette miserabili, per sbaraccare tutto e mandare via gente innocente che non aveva fatto nulla. Ecco: questi sono gesti di stampo fascista, senza alcuna giustificazione, mai vista una cosa del genere. Se fossi in Italia farei una denuncia alla Procura».
Con più forza, più nettezza, un po´ per tratti caratteriali, un po´ forse perché affrancata oggettivamente dalla fisicità del dibattito, Rossanda tuttavia non fa che confermare il disagio della sinistra cui appartiene. Disagio sintetizzato dal titolo di «Liberazione», uscito in prima pagina nell´edizione di giovedì scorso («Domanda proibita alla sinistra: perché restiamo in questo governo?»), disagio da cogliere nelle parole della senatrice Rina Gagliardi sul «Corriere» quando ammette che «avevamo promesso un´altra stagione e non ci siamo riusciti». Disagio, ancora, poco filtrato, di Fausto Bertinotti, ormai convinto che il governo è «malato» e vada avanti a «brodini». I Pacs, il welfare, la commissione del G8, bloccata da alleati di coalizione, e adesso questa faccenda della sicurezza. Anche ieri, a sinistra, segni di sbandamento. Dubbi sulla «costituzionalità» di certi provvedimenti affidati ai prefetti, accuse di «razzismo» a Veltroni, reo di aver lanciato l´allarme Romania.
Rossanda non ha bisogno, né desidera, immergersi nel teatrino desolante dei botta e risposta. Tempo fa, anzi, un suo editoriale sul "manifesto" ("Note Antipatiche") era andato decisamente controcorrente. Scriveva: «Smettiamola, noi sinistre, "manifesto" incluso, di essere sorpresi e amareggiati per le misure prese dal governo di centrosinistra. Un conto è cercare di modificare le scelte, un altro è cadere dalle nuvole». No, non si poteva «pensare che sarebbe andata molto diversamente», almeno vista dal versante della sinistra cosiddetta radicale. Dalla data di quel commento, il 12 ottobre scorso, a oggi, sono successe altre cose. Rossanda è colpita, ancora incredula, dal comportamento del governo sul delitto di Tor di Quinto: «C´è stato un omicidio, un fatto occasionale. Una donna è stata uccisa da un cittadino romeno. Mi chiedo se la responsabilità penale è personale o no. Oppure questo vale solo per gli italiani? Mi chiedo il perché di quei rastrellamenti, gli zingari come gli ebrei. Mi chiedo cosa c´entrano le donne e i bambini che vivono lì, in quelle condizioni, come bestie. Veltroni, da sindaco, trovi loro una sistemazione.». Rossanda, c´è nel Paese, a Roma, una percezione di insicurezza, un allarme sociale. «No, non condivido questa lettura. Il tema della sicurezza non è il tema principale nell´agenda italiana. Ci sono più donne ammazzate dai mariti che dagli immigrati. Un Paese non può vivere così, tra una paura e l´altra. Perché un Paese che vive così è un Paese nevrotico. E allora si deve far curare».

Repubblica 3.11.07
Un clima pericoloso
di Stefano Rodotà


L’aggressione di ieri sera contro un gruppo di romeni dimostra che è avvenuto qualcosa che i pessimisti sentivano nell´aria. Quando sono tanto forti le emozioni, e nessuno le raffredda e troppi le sfruttano, non soltanto diventa difficile trovare le risposte giuste, ma si esasperano i conflitti.
Da un caso gravissimo, l´uccisione di Giovanna Reggiani, si è passati con troppa rapidità all´indicazione di responsabilità collettive. L´assassinio è quasi finito in secondo piano, e l´attenzione è stata tutta rivolta a documentare una sorta di incompatibilità tra la nostra società e la presenza romena, insistendo sulla percentuale di reati commessi da persone provenienti da quel paese. In un clima sociale che si sta facendo sempre più violento, le premesse per l´apertura della caccia al romeno, purtroppo, ci sono tutte.
Così non basterà condannare l´accaduto. Le risposte istituzionali sono già venute, e sarebbe sbagliato chiederne ulteriori inasprimenti, che darebbero la sensazione che alla violenza si debba reagire solo con la violenza sì che, se lo Stato arriva tardi o in maniera ritenuta inadeguata, tutti sarebbero legittimati a farsi giustizia da sé. Alla politica si devono chiedere non deplorazioni, ma misura; non ricerca di consenso, ma di soluzioni ragionate.
Da anni, da troppi anni, siamo prigionieri di un uso congiunturale delle istituzioni, che porta a misure che rispondono ad emozioni o a interessi di breve periodo più che alla realtà dei problemi da affrontare. E´ un rischio che stiamo correndo anche in questi giorni, mentre avremmo bisogno di analisi non approssimative e testa fredda nell´indicare le via d´uscita. Di fronte alle tragedie nessuno dovrebbe fare calcoli meschini.
Il presidente della Repubblica ha sottolineato che le questioni dell´immigrazione esigono responsabilità comuni dell´Unione europea. Il presidente del Consiglio si è messo in contatto con il primo ministro romeno. Dalle parti più diverse si è sottolineata la necessità di un controllo del territorio e di una attenzione per le condizioni in cui vivono gli immigrati. E´ stata proprio una donna romena che ha consentito l´immediato arresto dell´assassino.
Perché allineo questi fatti? Perché, messi insieme, dimostrano la parzialità della tesi di chi pensa che sia sufficiente inasprire le pene, cancellare le garanzie, far di tutt´erbe un fascio, sparare nel mucchio. "Facimmo ‘a faccia feroce" è una vecchia tecnica di governo, ma è esattamente il contrario di quel che serve in situazioni come questa. E´ indispensabile, invece, una strategia integrata, fatta di cooperazione internazionale, di legalità a tutto campo, di efficienza degli apparati di sicurezza, di misure per l´integrazione, di politica delle città. Ed è indispensabile una politica volta a promuovere la fiducia degli immigrati: senza la collaborazione di quella donna, senza la rottura dello schema dell´omertà (purtroppo così forte anche nella nostra cultura), l´assassino non sarebbe stato individuato così rapidamente. In ogni società la fiducia è una risorsa essenziale. Da soli, i provvedimenti di ordine pubblico non ce la fanno, non ce l´hanno mai fatta.
Essere consapevoli di tutto questo non è cattiva sociologia, ma buona politica, anzi l´unica politica possibile. Proprio quanti si preoccupano dell´efficienza dovrebbero esigere che si facciano passi concreti in quelle direzioni. Proprio chi invoca la legalità deve sapere che questa non è divisibile, ed è stato giustamente notato che uno dei meriti del "pacchetto sicurezza" è nell´aver previsto anche una nuova disciplina del falso in bilancio. Proprio chi fa professione di garantismo deve mostrare coerenza, soprattutto nei momenti difficili: non si può essere garantisti a corrente alternata.
Non sto sostenendo che il problema è "ben altro". Cerco di dire che non ci si può mettere la coscienza in pace con un decreto e una raffica di espulsioni, dando così all´opinione pubblica la pericolosa illusione che il problema sia risolto. Qualche sera fa, intervenendo in una trasmissione televisiva, Pier Luigi Vigna, certo non imputabile di atteggiamenti compiacenti verso chi viola la legalità, ha riferito la risposta di un responsabile dell´ordine pubblico ad una sua domanda su dove fossero finiti i lavavetri scomparsi dalle vie di Firenze: «Stanno a rubare». E´ l´effetto ben noto a chi ha indagato sulla scomparsa o la diminuzione dei reati nelle aree videosorvegliate: semplicemente i comportamenti criminali si erano spostati nelle zone vicine. Ecco perché, se davvero si vuole uscire dalla violenza e vincere la paura, nuove norme contenute in un decreto possono essere un punto di partenza, vedremo fino a che punto accettabile.
Guardando solo agli inasprimenti della legislazione, anzi, si finisce col distogliere lo sguardo dalla realtà. Più di una inchiesta di questo giornale, ultima quella di Giuseppe D´Avanzo, ha documentato il degrado urbano, le terribili condizioni di vita degli immigrati. Si può davvero pensare che il problema si risolva con una politica delle ruspe e degli "allontanamenti"? Con una tolleranza zero che poi non riesce neppure ad essere tale se le forze di polizia non sono messe in grado di un controllo intelligente e mirato del territorio, se i nuovi poteri dei sindaci finiscono con l´indirizzare la loro attenzione verso una esasperazione del momento dell´ordine pubblico invece di mettere al centro gli interventi strutturali, complici le difficoltà economiche dei comuni? Si può certo contare sull´effetto dissuasivo di una massiccia ondata di espulsioni. Ma quanto potrà durare? E quali saranno gli effetti reali e i prezzi della nuova disciplina?
Il decreto riprende lo schema delle norme di attuazione della direttiva comunitaria del 2004 sul diritto di circolazione e di soggiorno dei cittadini comunitari (romeni compresi), in vigore dal marzo di quest´anno, con due significative integrazioni. La prima riguarda l´attribuzione del "potere di allontanamento" non più al solo ministro dell´Interno, ma pure al prefetto (una figura di cui si continua chiedere la scomparsa e che, invece, ottiene così una nuova e forte legittimazione). La seconda, ben più incisiva, consiste nell´ampliamento delle cause che permettono l´allontanamento del cittadino comunitario, riassunte nella formula dei "motivi imperativi di pubblica sicurezza" che derivano dall´aver "tenuto comportamenti che compromettono la tutela della dignità umana o dei diritti fondamentali della persona umana ovvero l´incolumità pubblica, rendendo la sua permanenza sul territorio nazionale incompatibile con l´ordinaria convivenza". Malgrado riferimenti altisonanti come dignità o diritti fondamentali, siamo di fronte ad una formula larghissima, nella quale possono rientrare le situazioni e i comportamenti più diversi. Come sarà interpretata?
Qui gioca il clima in cui il decreto è stato approvato. Non "necessario e urgente" fino alla sera prima (sono questi i requisiti di un decreto), il provvedimento lo diventa dopo il brutale assassinio di Roma. Poiché si deve supporre che il governo conoscesse già i dati riguardanti i reati commessi dai romeni, sui quali si è tanto insistito in questi giorni, la conclusione obbligata è che si è utilizzato lo strumento del decreto unicamente per rispondere all´emozione dell´opinione pubblica. E la sua applicazione rischia di essere guidata dalla stessa ispirazione, rendendo inoperanti le garanzie necessarie per evitare che venga travolta una libertà essenziale del cittadino europeo.
La pressione dell´opinione pubblica non è stata alleggerita dal decreto. Al contrario, è stata ulteriormente legittimata, sì che bisogna attendersi che continuerà nei confronti dei prefetti. Già si annunciano liste di migliaia di persone da allontanare: questo renderà difficilissimo motivare in modo adeguato ciascun singolo provvedimento. E i debolissimi giudici di pace, che dovrebbero controllare questi provvedimenti, non hanno i mezzi per farlo in modo adeguato, sì che non se la sentiranno di pronunciare un no. Per non parlare di un successivo ricorso al tribunale amministrativo contro l´allontanamento, che quasi nessuno potrà concretamente proporre. La garanzia giurisdizionale, essenziale in uno Stato di diritto, rischia così d´essere concretamente cancellata.
Alle norme del decreto bisogna guardare con distacco e preoccupazione. Con distacco, perché non verrà solo da esse la soluzione di problemi che, com´è divenuto evidentissimo proprio in questi giorni, esigono interventi di altra qualità per rispondere alle legittime richieste dei cittadini in materia di sicurezza. L´ordinaria convivenza, alla quale il decreto si riferisce, non è un qualcosa da salvaguardare, ma da ricostruire con responsabilità e azioni comuni, di cui gli italiani devono essere i primi protagonisti. Con preoccupazione, perché le norme del decreto e il clima in cui nasce ci spingono in una direzione che aumenta la distanza dall´"altro", che favorisce la creazione di "gruppi sospetti", abbandonando la logica della responsabilità individuale.
Serve, davvero con "necessità e urgenza", un´altra forma di tolleranza zero. Quella contro chi parla di "bestie", o invoca i metodi nazisti. Non è questione di norme. Bisogna chiudere "la fabbrica della paura". E´ il compito di una politica degna di questo nome, di una cultura civile di cui è sempre più arduo ritrovare le tracce. Un´agenda politica ossessivamente dominata dal tema della sicurezza porta inevitabilmente con sé pulsioni autoritarie. Ricordiamo una volta di più che la democrazia è faticosa, ma è la strada che siamo obbligati a percorrere.

Repubblica 3.11.07
La scienza. la morale e l’illusione del progresso
di Charles Larmore


La storia, secondo Schopenhauer, dà una sola lezione: eadem, sed aliter – si ripetono sempre le stesse cose, però in modo diverso. "Una volta che uno ha letto Erodoto, ha studiato già abbastanza storia, sotto l´aspetto filosofico". Se, come Schopenhauer, contempliamo le vicende umane da lontano, assumendo la posizione di uno spettatore neutrale, sospendendo tutti i nostri interessi e obblighi, saremo certo d´accordo con lui. Da tale distanza, che altro vediamo se non, come egli afferma, infinite variazioni sullo stesso antico tema: uomini e popoli che inseguono sogni che non vedranno mai realizzati, o troveranno deludenti quando lo saranno?

Prendiamo i casi principali in cui la storia sembra fare più che ripetersi, in cui sembra mostrare una direzione e un progresso. Teorie accettate dagli scienziati in un´epoca vengono confutate in quella successiva. Innovazioni tecnologiche intese a migliorare la condizione umana contribuiscono a creare nuovi bisogni e nuovi problemi. Le democrazie moderne, malgrado le loro promesse, non pongono fine al dominio dei pochi sui molti. Il progresso è destinato ad apparire un´illusione, se osserviamo la vita dal di fuori, facendo astrazione dalle nostre convinzioni sulla natura e sui beni umani. Così, infatti, non possiamo capire in che misura i nostri predecessori, nonostante le loro sconfitte, fossero comunque sulla strada giusta. Tutto quello che riusciamo a scorgere è il loro inevitabile fallimento nel realizzare i fini che si sono posti. La storia servirà solo a ricordarci che le mete dell´uomo sono sempre al di là della sua portata.
L´idea di progresso morale si presta ad una ricostruzione simile a quella di progresso scientifico, anche quando il termine "morale" viene preso in senso abbastanza ampio da comprendere tutti i differenti elementi di una vita ben vissuta e non solo i doveri che abbiamo nei confronti degli altri. In misura significativa, possiamo dire in effetti che ci sia stato qualcosa come un progresso morale. Ma, vorrei suggerire, qui dobbiamo muoverci con molta cautela e aggiungere alcune importanti specificazioni. La ragione di ciò è che dobbiamo distinguere tra il nostro pensiero morale da un lato, e la morale effettiva manifestata dalle nostre azioni e istituzioni dall´altro. Le due cose non possono essere separate del tutto, ovviamente. Se c´è stato o no un effettivo progresso morale dipende in parte dall´eventualità di un progresso nella nostra comprensione morale. Tuttavia, si può concludere facilmente (basta un rapido sguardo al XX secolo) che i progressi nella conoscenza morale non sono andati di pari passo con buona parte dei miglioramenti nel modo in cui realmente ci trattiamo reciprocamente.

Ora, qualcuno contesterà che "progresso" sia una termine applicabile correttamente anche solo al pensiero morale, preso in se stesso. Infatti il progresso morale in tal senso presuppone che possa esserci qualcosa come una conoscenza morale, ed è stato a lungo controverso se i nostri giudizi morali mirano realmente alla conoscenze, e se c´è qualcosa nel mondo su cui essi possano essere detti veri o falsi. Ho cercato di mostrare altrove perché la conoscenza morale è sia una possibilità che una realtà. Essa è, ho sostenuto, la conoscenza che possediamo di certi generi di ragioni per agire. Non riprenderò questo argomento, né giustificherò l´altra tesi che a me sembra corretta, cioè che la storia del pensiero morale è in realtà una storia del progresso nell´apprendimento della verità intorno a ciò che dobbiamo agli altri e intorno a ciò che rende possibile il pieno sviluppo della persona. Voglio invece concentrarmi sul punto in cui il parallelo tra progresso morale e progresso scientifico, nondimeno, finisce. È l´ambito della vita stessa, dove il pensiero lascia il campo all´azione. In parte, come ho indicato, questa differenza è dovuta alla nostra manifesta incapacità di vivere all´altezza degli ideali che professiamo. Ma essa riflette anche un fattore intrinseco di ciò su cui verte il nostro pensiero morale.
Da soggetti agenti, e non solo conoscenti, quali siamo, vogliamo non solo approfondire la nostra comprensione del giusto e del bene, ma anche agire meglio nei nostri rapporti con gli altri e contribuire a creare un mondo migliore. Certo, per più di una ragione la storia offre ben pochi segni di un progresso sull´ultimo punto. In realtà, le persone restano in generale deboli, irriflessive, egoiste e crudeli come sono sempre state, a dispetto di tutta la loro maggiore conoscenza su ciò che si devono reciprocamente. Ma è vero anche questo: una delle verità morali che abbiamo compreso, e che illustra il progresso da noi compiuto sul piano della riflessione morale, è che in generale nessun modo di vita può garantire qualcosa di valore se non a spese di altri modi di vita. Il bene umano non è tutto d´un pezzo. Esso abbraccia una molteplicità eterogenea di fini fondamentali che vanno in direzioni opposte e facilmente entrano in conflitto nella pratica. Il valore militare mette fuori gioco l´umiltà cristiana; la democrazia moderna può dimostrarsi incompatibile con conquiste culturali di alto valore.

La scienza non persegue una tale varietà di fini. Poiché scopi come il potere esplicativo o la precisione contano solo in quanto servono a portare la ricerca più vicina al suo obbiettivo ultimo, la conoscenza del mondo naturale, i nostri giudizi sul progresso scientifico non richiedono un bilanciamento così problematico di vantaggi e svantaggi. C´è solo bisogno di pesare l´uno contro l´altro i due scopi costitutivi nella ricerca della conoscenza, cioè acquisire la verità ed evitare gli errori. Anche il nostro pensiero morale, mirando a comprendere cos´è giusto e buono, non affronta ostacoli essenzialmente maggiori rispetto a quelli che affronta la teorizzazione scientifica. Ma la vita è diversa. Possiamo ammettere senza esitare che la democrazia moderna rappresenta un progresso rispetto ad altre forme precedenti di governo politico. Però, se guardiamo anche alle sue conseguenze culturali, alla volgarizzazione e commercializzazione che sembrano inevitabilmente accompagnarla, possiamo essere meno certi della sua superiorità come forma di vita, nel suo insieme, su altre forme di vita del passato.
Una cosa è chiara, però. Riflettendo sulla natura di scienza e morale, dobbiamo infrangere la presa che i vecchi dualismi ancora esercitano sullo spirito filosofico, persino tra quanti pretendono di combatterli. Superare i dualismi non significa, naturalmente, abolire le distinzioni. Possiamo continuare a distinguere, per esempio, tra rendere i nostri pensieri recettivi al mondo e cercare accordi ragionevoli con gli altri, tra oggettività e solidarietà. Il punto cruciale è capire che non siamo costretti a scegliere tra due concezioni della ricerca, ognuna basata su uno di questi obbiettivi ad esclusione dell´altro, poiché la distinzione coglie aspetti interdipendenti di un singolo processo.
La verità in sé è atemporale; se la meccanica newtoniana ci appare oggi errata in modo significativo, allora era sempre falsa, anche al suo apice. Il nostro pensiero, al contrario, prende forma necessariamente nel tempo, e non ha altre risorse se non quelle che il passato e la nostra immaginazione possono fornirci. Tuttavia la finitezza che segna ogni nostro passo cerca di attingere il mondo che c´è al di là. Ragionare da dove ci troviamo significa ragionare intorno alle cose così come sono. Come scriveva T. S. Eliot in Burnt Norton, "solo attraverso il tempo il tempo è conquistato" (only through time time is conquered).

Repubblica 3.11.07
Armeni. Diario di una deportazione
Anticipazioni/la testimonianza di un sopravvissuto al genocidio
"Mia madre supplicava, chiedeva che colpissero lei e non mio padre"
di Vahram Altounian


La località detta Pozanti era montagnosa e deserta. Non c´era nessuno. Da lì ci hanno deportati verso la città di Tarsus. Abbiamo pagato due lire e a condizione che mio padre, Haïg ed io andassimo a piedi, dal momento che la strada passava attraverso le montagne. Avevano proibito a tutti di salire sui carri, soltanto mamma era rimasta sopra.
In breve, abbiamo impiegato due giorni per raggiungere la stazione di Tarsus. La città era piena di soldati e non lasciavano entrare i deportati, a eccezione dei turchi.
La deportazione è ricominciata, ma in treno. Ci hanno di nuovo stipati dentro i vagoni: erano circa le nove di sera. Da Tarsus a Yenice poi Zeitunli, e in seguito Tcharkir-Pasha, Adana, Ceyhan, Toprakkale, poi Osmaniye. A una distanza di quindici minuti da Mamure il treno si è fermato. Ci è stato detto che, a partire da lì, non esisteva più ferrovia: «Scendete!». In breve, siamo scesi e lì dove siamo scesi non abbiamo trovato niente e nessuno. I deportati sono smontati tutti dai vagoni. Quella notte, intorno all´una, le due, ci siamo coricati separati, gli uni lontani dagli altri, poiché ci eravamo persi. Ci siamo ritrovati la mattina.
Tuttavia la deportazione è ripresa. In quel luogo non c´era nulla, mio padre ha capito che ci avrebbero depredati. Abbiamo venduto la macchina per cucire Singer a un gendarme per la somma di cinque lire. Fino alla località detta Islâhiye abbiamo noleggiato tre cammelli, ognuno a una lira.
Quella giornata l´abbiamo trascorsa sulle montagne dei giavours (gli "infedeli" armeni o altri cristiani, n.d.r.). Abbiamo anche dormito sulle montagne. L ´indomani abbiamo ripreso il cammino. La sera siamo arrivati a Hasanbeyli. Ma la salute di mia madre peggiorava.
Il giorno seguente siamo stati costretti a noleggiare un asino per mia madre. Noi tre, invece, eravamo a piedi. In breve, siamo giunti a Islâhiye verso le otto, ma ci hanno impedito di rimanere. Abbiamo pagato altre tre monete d´oro al proprietario dei cammelli e siamo ripartiti.

* * *

Mio padre era molto malato. E molto abbattuto. Mio fratello ed io trasportavamo legna. Cercavamo di sopravvivere. Ma presto finirono anche le cavallette, erano state mangiate tutte. E la deportazione non aveva fine. Abbiamo smontato la tenda e di nuovo: «Forza, dovete andare ».
In quel momento mia madre ha affermato: «Abbiamo un malato molto grave, partiremo la prossima volta». Abbiamo chiesto di poter rimanere. «Ma come osate parlare?», ha esclamato un gendarme colpendo mio padre alla testa. Mia madre supplicava, chiedeva che picchiassero lei e che lasciassero stare mio padre. Al che il gendarme ha colpito mia madre per poi allontanarsi verso le altre tende.
Ma a che scopo? Che cosa ne è di un uomo gravemente malato che venga percosso?
Sei giorni dopo, il giorno della morte di mio padre, hanno ripreso a deportare.
Picchiavano nostra madre. Mio fratello ed io piangevamo. Non potevamo farci nulla, erano come una muta di cani. Dicevano a mia madre: «Il tuo malato è morto». E mia madre: «Partiremo quando lo avremo sepolto». E quelli rispondevano: «No, farete come gli altri». Gli altri, infatti, abbandonavano i morti e la notte li divoravano gli sciacalli.
Ho capito che così non andava e che occorreva fare qualcosa. Ho preso un flacone da settantacinque dirhem, l´ho riempito di olio di rosa e sono andato dal gendarme che comandava la deportazione. Gli ho detto: «Lasciateci stare per oggi, partiremo con gli altri con il prossimo convoglio». Gli ho offerto il flacone, lui ha accettato. Siamo rimasti un altro giorno. Abbiamo scavato una fossa pagando cinque piastre al curato. Così abbiamo seppellito mio padre.
Quindici giorni dopo, la deportazione è ricominciata. La mattina mi sono svegliato, e che cosa ho visto? Stavano bruciando tutto. Ho smontato la tenda in tutta velocità e mi sono allontanato verso il fiume. Mi sono nascosto lì, avendo saputo che più in là uccidevano le persone. Poi sono tornato indietro. Ho montato la tenda, ci siamo coricati, avevamo tanta fame e sete. Ho capito che saremmo morti di fame. Ho riempito un flacone di olio di rosa da cento dirhem e l ´ho portato all ´impiegato del telegrafo della località in cui ci trovavamo. Mi ha detto: «Figlio mio, ma che cosa vuoi che me ne faccia?». Mi ha però proposto due lire turche, dicendomi di riferire la proposta a mia madre. Io gliel´ho riportata. Mia madre ha riflettuto, ha pensato che quei soldi ci avrebbero assicurato di che vivere per due mesi. Non avevamo scelta. Eravamo affamati.
Due mesi dopo, avevamo finito anche le due lire. Siamo stati costretti a vendere ancora un po´ d´olio. Stavolta un armeno ha venduto cento dirhem per lo stesso prezzo. Noi abbiamo fatto la stessa cosa, per non morire di fame. A quel punto, non ci rimase più olio di rosa. Che cosa avremmo fatto? Era il nostro pensiero fisso
La deportazione continuava e ad Hammam non rimaneva nessuno. Un giorno, hanno portato una carretta dicendoci: «Forza, partite anche voi, vi porteremo fino a Ziaret ».
Ci hanno fatti montare sul carro picchiandoci. Dopo otto ore di cammino, ci siamo resi conto di essere ancora molto lontani da Ziaret. Molti morivano lungo la strada. Eravamo senza soldi. Allora abbiamo diviso la tenda in due e ne abbiamo venduto una parte.
Siamo rimasti un giorno a Der-Zor. Abbiamo pensato che se ci avessero deportati anche da lì, ci avrebbero uccisi. Abbiamo pensato allora di fuggire. Ma se ci avessero visti, ci avrebbero uccisi.
Di lì a poco, abbiamo trovato dei compagni: eravamo diventati sette donne e due bambini. Siamo partiti. Il nostro piano era di camminare la notte e dormire di giorno, per raggiungere così Aleppo.
Traduzione di Alessia Piovanello

Repubblica 3.11.07
In un Cd le sinfonie composte dai prigionieri del lager
Musica e orrore a Terezìn
di Enrico Regazzoni


La capacità evocativa della musica può toccare livelli quasi insopportabili. E basta ascoltare il cd di Anne Sofie von Otter dal titolo Terezìn/Theresienstadt, che la Deutsche Grammophon ha appena pubblicato, per rendersene conto. Un disco struggente, che raccoglie le musiche composte da quegli artisti cechi che dai nazisti avevano l´ordine di mettere in scena il teatrino dell´insediamento ebreo «modello» (di Terezìn appunto, Theresienstadt per i tedeschi, 60 chilometri a nord di Praga, la città che ospitò il campo di concentramento voluto dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, ha già trattato sulle pagine di questo giornale Milan Kundera, in un articolo uscito lo scorso 23 ottobre, ndr) buono per le visite della Croce Rossa e i filmati della propaganda, ma che sapevano perfettamente che da un giorno all´altro sarebbero partiti per le camere a gas.
Ilse Weber, Karel Svenk, Adolf Strauss, Pavel Haas, Erwin Schulhoff, sono i nomi di questi compositori. E i loro registri spaziano dal cabaret al lieder, dalla ninnananna alla musica contemporanea. Anne Sofie von Otter, mezzosoprano, restituisce intatte, col suo canto, la dignità e la disperazione di melodie nate sull´orlo della fine, ma sempre ricche di quell´energia iniziale che accompagna ogni vero atto creativo. Nei canti di Theresienstadt (che la von Otter ha inciso insieme a Bengt Forsberg, Christian Gerhaher e Daniel Hope), ci sono dei momenti in cui l´immaginazione del contesto si fa così pesante da annebbiare la vista. Come durante la ninnananna Wiegala, che Ilse Weber cantò con la sua chitarra ai bambini del campo fino all´ultimo, mentre il gas cominciava già a uscire. Ma invece è proprio questa immaginazione a rilanciare l´ascolto. Indefinitamente.

venerdì 2 novembre 2007

l’Unità 2.11.07
Livia Turco: «Destra o sinistra? Sulla sicurezza basta col relativismo legale»
di Natalia Lombardo


Parla la ministra: «Il decreto è solo un anticipo del pacchetto complessivo per la sicurezza: da destra solo propaganda indegna a noi serve una svolta culturale»

«La sicurezza è un valore universale, quotidiano, che va garantito in silenzio agendo giorno per giorno», e senza steccati ideologici, secondo Livia Turco, ministra della Sanità che firmò la legge sull’immigrazione con l’attuale Capo dello Stato.
Il governo ha varato il decreto sull’onda dell’emergenza. Come coniugare le misure per garantire sicurezza ai cittadini e l’integrazione in una società multietnica?
«Siamo di fronte a un fatto molto duro, che colpisce e al quale va risposto con strumenti adeguati. Ma il decreto che dà ai prefetti il potere di espulsione non è una novità, semplicemente anticipa il pacchetto sicurezza, ne fa parte. E contiene la risposta giusta, perché l’ottica dell’emergenza fa solo danni e non risolve».
Cosa risolve, invece?
«Un menu di interventi: la rapidità dei processi, la certezza della pena. Il pacchetto sicurezza inasprisce le pene per chi abusa di minori di 14 anni, rafforza le condanne per gli abusi sessuali e le violenza sulle donne».
E il decreto che poteri dà?
«Il prefetto può espellere il cittadino comunitario quando delinque».
Secondo Fini, che ha cavalcato la tragedia attaccando Veltroni, Rutelli e Amato, i cittadini comunitari devono essere espulsi se non hanno un reddito certo.
«Fini strumentalizza un fatto così drammatico con una polemica indecorosa e nociva. E ricordo che la legge sull’immigrazione in vigore è ancora la Bossi-Fini, altrettanto dannosa. Non si tratta di cedere alla paura, facciamo un salto di qualità: finché si resta allo scontro ideologico o sull’emergenza non ne usciamo, ognuno faccia il suo. Sulla sicurezza sì che faccio l’“appello dei volenterosi” per una svolta culturale.
Come si arriva a questa «svolta»?
«Con tre punti fermi. Primo: la sicurezza è un valore universale e riguarda anche la dignità e l’integrità della persona. Basta con l’essere di sinistra, di destra o di centro, basta con il relativismo legale».
Che vuol dire?
«Quando si dice che una persona più debole non va perseguita proprio perché è debole; su questo sbaglia la sinistra. Secondo: la sicurezza è un valore quotidiano, bisogna lavorare in silenzio giorno per giorno, senza tanti annunci. Terzo: un menu ricco di interventi, come gli accordi bilaterali e il coinvolgimento delle comunità straniere. Perché un delitto simile condanna tutti i cittadini rumeni a sentirsi mortificati per il proprio nome».
Esiste una «ricetta» per garantire la sicurezza?
«No, serve solo più impegno per garantire la casa, il lavoro, la fine della precarietà. Periferie, immigrazione, anche il Pd si deve chiedere cosa fare nel territorio. E serve una svolta culturale nel centrosinistra: non possiamo contrapporci fra chi ritiene un valore la sicurezza, per altri l’integrazione. Le due cose vanno realizzate insieme, la sicurezza non è negoziabile e la convivenza si costruisce»
Il sindaco Veltroni è sotto attacco dalla destra.
«Walter Veltroni è uno straordinario sindaco, l’esperienza di Roma è importante, nella ricerca faticosa del negoziato e del coinvolgimento della persona. La lotta al degrado e il rispetto della legge riguarda tutta la comunità. Nelle città siamo di fronte a processi duri: ho visto a Pietralata (quartiere della prima periferia romana) e l’insofferenza di tanti vecchi «comunisti» verso le baracche dei rumeni.
Facciamo meno teatrino, meno politichetta e meno ideologie».
Il governo ha approvato il decreto all’unanimità. Un buon auspicio anche per la Finanziaria?
«L’unanimità era ovvia, il decreto era un anticipo del pacchetto sicurezza. Questo era partito male, con la campagna sui lavavetri portata come una bandiera, ma nel Cdm le convergenze sono state molte più di quelle che sono state rappresentate, Spero che sia un esempio per il centrosinistra»
Da ministra della Sanità, come affronta casi come la morte del dodicenne in Calabria per ritardi nell’intervento?
«Ho fatto aprire un’indagine che sta accertando i fatti. Le cose non sono andate come è stato scritto, in Calabria c’è una sola sala di neurochirurgia che opera un paziente alla volta. Per questo chiediamo alla Regione Calabria di accelerare le azioni riformatrici nella Sanità, già avviate. Le risorse ci sono, il governo ha approvato il piano per gli ospedali. Insomma, adesso si muovano loro».
Il governo regge, secondo lei?
«Se uno guarda ai fatti, il governo sta operando bene: la Finanziaria coniuga sviluppo ed equità, è in arrivo l’aumento per le pensioni più basse, le riforme nella sanità, la legge sull’autosufficienza, il pacchetto sicurezza, sono solo gli ultimi provvedimenti.
Credo sia giunta l’ora della verità: se si ha interesse a che il governo operi bene, allora si faccia squadra; ma se si vogliono cambiare gli scenari, ci si assuma la responsabilità senza nascondersi dietro gli impiegati precari o nel dire che non si è fatto nulla».

l’Unità 2.11.07
Umberto Galimberti. Il filosofo e psicanalista: il delitto di Roma, gli immigrati, gli sbarchi e la sensazione di «invasione»
«Non sappiamo più vivere il dolore. Per questo abbiamo paura»
di Roberto Cotroneo


Dolore, morte, paura, insicurezza. Quattro giorni fa a Roccella Jonica una barca di clandestini si è spezzata, e sono morte almeno sei persone. Nello stesso momento a Siracusa ci sono stati altri morti, immigrati, tra i quali un ragazzino. Eppure ormai sembriamo abituati a una contabilità della morte a una presa di coscienza della violenza che sembra ineluttabile. Dall’altro lato però proprio l’altro ieri, la donna di Roma, rapita e violentata mentre tornava a casa e morta dopo un giorno d’agonia, ha scosso l’intero paese. Anche in questo caso c’è un aspetto che ha a che fare con immigrazione e diversità. Visto che l’uomo arrestato per questo episodio, era un rumeno che abitava in una baracca sul Tevere. Che conseguenze possono avere episodi come questi nel nostro modo di guardare il mondo, e quanto incidono sulle nostre paure, e sulle inquietudini di tutti i giorni? Abbiamo cercato di andare più a fondo all’argomento, parlandone con Umberto Galimberti: psicoanalista, filosofo e saggista.
Due tragedie diverse. Qualche giorno fa i morti in mare dei clandestini che cercavano di arrivare in Italia. L’altro ieri un episodio terribile a Roma...
«Partiamo dal primo episodio. Nessuno di noi vuole toccare con mano la propria impotenza. E quando ciascun individuo ha la sensazione che qualunque posizione assuma non è incidente rispetto al fenomeno, allora scatta un processo di rimozione».
Facciamo un esempio.
«Se muore mio fratello piango. Se muore il mio vicino di casa faccio le condoglianze. Se mi dicono che muoiono otto bambini al secondo al mondo, a questo punto io non provo più niente: è solo una statistica. Il troppo grande ci lascia indifferenti. E questo è un primo dato di natura psicologica. Nel senso che la nostra psiche è in grado di reagire solo al nostro ambiente, e al mondo circostante. Ma non è in grado di interiorizzare fenomeni mondiali».
Non abbiamo una psiche all’altezza degli eventi del mondo?
«Già. E siccome i mezzi di comunicazione ci portano in casa i drammi di tutto il mondo la nostra psiche non reagisce più. Questo fatto è quasi meccanicistico. Se un’inondazione uccide duemila persone non diventa un titolo in prima pagina come invece lo diventa la notizia della donna che hanno violentato e ucciso a Roma. La nostra psiche percepisce il vicino ma non il lontano».
E l’episodo di Roma è molto vicino a tutti noi.
«Qui si tratta di capire se la tragedia di questa donna ha scosso tutti quanti perché è la moglie di un ammiraglio. Purtroppo episodi di questo genere accadono in Italia tutti i santi giorni. Qualche tempo fa nel bresciano sono state ammazzate due prostitute più o meno nella stessa maniera, ma siccome erano prostitute, erano straniere, e avevano vent’anni. Alla periferia di Milano, città dove abitano sono storie quasi quotidiane... ».
Ma in qualche modo troppo lontane da noi.
«È anche la posizione sociale che determina l’evento. Non è la pietas. Questi fenomeni succedono tutti i giorni, oggi è in prima pagina perché nessuno si sente più difeso. Che la prostituta venga ammazzata, beh è colpa sua perché faceva la prostituta».
C’è un fenomeno di identificazione.
«Certo. Ciascuno di noi nel leggere le disgrazie fa un esame delle proprie condotte. E se la nostra condotta è più prudente, allora la colpa è dell’altro. E ci si sente tranquilli. Se invece poteva capitare anche a chi ha una condotta normale, allora le cose cambiano. Passano da lontane a vicine. Entrano nel nostro mondo e li sentiamo profondamente nostri».
Galimberti, vuole dire che le cose lontane non sono pericolose per quanto orribili e drammatiche, ed è questa la cosa che conta?
«I tedeschi hanno due espressioni quando parlano del mondo. Welt, che vuol dire mondo. E UnWelt che vuol dire mondo circostante. Il lontano è immenso. Quando le tragedie sono troppo grandi noi abbiamo una sostanziale indifferenza».
Ma allora Hiroschima?
«Hiroschima è diventato un fenomeno culturale. Ma non credo che abbia commosso individualmente qualcuno. Quando parlo dell’indifferenza psichica sto parlando dell’indifferenza di ogni singolo individuo di fronte a fenomeni che sono al di là della sua portata di intervento».
Però i mezzi di comunicazione, oggi, sono in grado di informarci in tempo reale su tutto. Si dice che il mondo è diventato molto piccolo.
«Non è così. L’immigrazione ci mette di fronte a una contraddizione radicale. Costituita dal fatto che il fenomeno è irreversibile; non possiamo pensare che per mantenere il nostro benessere, quello di 800 milioni di occidentali, quattro quinti dell’umanità debbano morire di fame e di sete. E quindi questi quattro quinti verranno inevitabilmente qui».
Con quali conseguenze?
«Che ci troviamo di fronte a un processo che confligge con la necessità di rivedere le nostre abitudini localistiche, di rivedere il nostro rapporto fiduciario con i vicini: il paese, il quartiere... Ora questo rapporto fiduciario viene incrinato da persone che sono tutt’altro rispetto a noi. E scattano dei processi difensivi».
Ma come sarà inevitabile dover accettare le migrazioni - perché sono un fenomeno epocale - non sarà inevitabile trovare una sorta di nuova empatia con il diverso?
«I processi psichici sono lentissimi. Noi abbiamo avuto la mondializzazione nell’arco di trent’anni, ma la nostra psiche non è all’altezza del fenomeno di mondializzazione. I processi emotivi, i processi di interiorizzazione degli eventi, è lentissimo. Anche la rivoluzione francese ha predicato la fraternità, ma non è che nell’Ottocento siamo diventati più buoni».
E dunque?
«La mondializzazione richiede alla nostra psiche un salto di qualità, che ha a che fare con il sentimento. E il sentimento non si può comandare. Noi siamo deficitari di sentimento nell’epoca della mondializzazione».
E la pietà, la compassione?
«Si fa presto a dirlo. Ma noi dobbiamo fare i conti con la nostra psiche limitata».
Non è plausibile che il mondo lontano da noi, in perenne guerra, dove la morte non ha quasi valore, ci ha dato un’assuefazione alla tragedia?
«Certo, ma il problema più importante è un altro».
Quale?
«Bisogna cominciare a dire una cosa. A partire dalle scuole elementari è necessario portare i bambini a una educazione emotiva. Cioè dobbiamo allargare le nostre basi sentimentali».
Ma l’abbiamo persa nel tempo questa educazione emotiva o invece è sempre mancata?
«Oggi c’è un analfabetismo emotivo totale. Ma un tempo esisteva. I nostri nonni avevano a che fare molto più di noi con il dolore. La malattia veniva gestita in casa, i figli vedevano morire i padri, talvolta i padri vedevano morire i figli, c’erano le guerre, c’erano le pestilenze. Quindi c’era una capacità psichica dovuta al fatto che si aveva un contatto continuo con il dolore, assai più ampio del nostro di oggi».
E senza una educazione emotiva?
«Un disastro. Vede, lentamente la scuola, specie negli ultimi anni, ha privilegiato la parte scientifica e tecnologica. Si sente continuamente dire che si debbono portare i computer nella scuola, che bisogna far entrare i ragazzi nel mondo del lavoro. Che bisogna insegnarli internet, e tutte queste belle cose».
Negroponte vuole far produrre un computer da 200 dollari per i bambini africani.
«Appunto. Ma tutto questa ansia tecnologica è cresciuta a discapito della cultura umanistica. E a cosa serve la cultura umanistica? Serve a all’educazione emotiva. Perché i romanzi, la filosofia, la poesia aiuta a riconoscere e a capire i sentimenti. Se io rendo marginale la cultura umanistica non capisco più cos’è il dolore, non domino le paura, non capisco neppure cosa significhi l’amore. E allora quando manca una competenza emotiva, nel collasso della parola si passa direttamente al gesto. E il dolore dell’altro non lo capisco».
E tutto finisce in un misto ambivalente di indifferenza e intolleranza.
«Appunto. Ed è questo che dobbiamo a tutti i costi evitare».

l’Unità 2.11.07
Prc: il partito al governo, il giornale all’opposizione
Duro l’affondo di Liberazione: perché restare con Prodi?
Bertinotti: ipocrita negare che il governo sia malato
di Federica Fantozzi


MEGLIO FUORI? È la domanda «proibita» che il quotidiano rifondarolo “Liberazione” rivolge a tutta la sinistra: «Vale la pena restare in questo governo?». Motivi: il programma non rispettato, l’alleanza disattesa. Detonatore: l’amaro addio alla commissione sul G8.
Nel suo editoriale di giovedì il direttore Piero Sansonetti dà conto dei «forti dubbi» emersi durante un’«accesa» riunione di redazione. Nel mirino c’è il no di Dini ad alcuni articoli della Finanziaria, le «misure repressive» decise dal consiglio dei ministri, il precariato dilagante, il perdurare della legge Fini-Giovanardi sulle droghe leggere. Più in generale «il momento storico in cui classi dirigenti e gran parte dell’opinione pubblica si sono spostati su posizioni molto conservatrici anzi reazionarie». Viste le tensioni tra forze centriste, riformisti e sinistra radicale, il punto interrogativo fa l’effetto di un sasso nello stagno. Onde concentriche si propagano, irradiando dubbi e sospetti.
Il giorno dopo aver incitato il proprio partito di riferimento (e non solo) a meditare sull’abbandono del governo (per Rc un doppio tabù visto il precedente del ‘98) Sansonetti non è pentito né turbato. «Sono ancora al mio posto. Ma è un giorno di vacanza, nessuno legge i giornali...». Né Bertinotti né il segretario Franco Giordano, giura, si sono fatti vivi. Il presidente della Camera, in un’intervista a Panorama, non ha lesinato critiche all’esecutivo: «Negare che sia malato sarebbe ipocrita. Il brodino fa sempre bene, Prodi quest’anno ne ha presi tanti e in qualche modo si è rialzato». Da Viale del Policlinico però fanno sapere che la permanenza di Rc al governo non è in discussione.
«Siamo il partito più democratico del mondo - ride il deputato Alfonso Gianni - Abbiamo i gruppi parlamentari al governo e il giornale all’opposizione». Dall’entourage del presidente della Camera nessun commento all’articolo, ma un più generale attestato di stima per l’autonomia del giornale e per il «coraggio» del direttore, in più occasioni apprezzato da Bertinotti. «Liberazione è una voce che guarda avanti - è il ragionamento - e coglie gli umori. Il governo ha disatteso le aspettative. Il voto sul G8 è la goccia. Rifondazione ci sta in condizione di sofferenza». Con lo sguardo volto al dopo: «Quando finirà la legislatura, bisognerà riflettere sul senso di un’alleanza che va da Bertinotti a Mastella».
Conciliante anche Gennaro Migliore, capogruppo alla Camera, spesso indicato come futuro leader: «Intanto la domanda non è proibita e me la pongo anch’io tutti i giorni. La mia risposta è retrodatata al 20 ottobre, data di una grande partecipazione popolare non contro il governo». Migliore garantisce che Rc farà valere le proprie osservazioni sul pacchetto sicurezza e porterà avanti in aula la battaglia per fare chiarezza sui fatti di Genova.
Il capogruppo al Senato, Giovanni Russo Spena, interviene oggi con un commento su Liberazione: «È una domanda non solo lecita ma giusta che interpreta i dubbi di una parte consistente della sinistra. Ma c’è il problema del ritorno al potere della destra, e non si può nengare che sia uno dei motivi he ci tiene insieme». Russo Spena mette anche un paletto preciso: «Un’altra domanda è se la nostra presenza al governo avvantaggi i ceti più deboli. Ritengo che questa Finanziaria lo faccia. Questo governo non deve cadere prima di gennaio perché sarebbe un regalo troppo grande alla destra».
Sansonetti si sente appoggiato dal partito? «Non ci sono state reazioni dure. Non mi sento sotto assedio». Spiega che in redazione le riunioni sono sempre vivaci e c’è una linea «molto unita» sulla politica, non ci sono le correnti come dentro Rc.
L’editoriale è frutto di una «posizione unitaria». Tra chi vorrebbe vedere il partito fuori «perché basta prendere calci in faccia» e chi ha trovato il voto su Genova «un detonatore». Il direttore torna a chiedere: «Il governo fa politica di destra, alla sinistra chiede solo sangue. Per tenere fuori Berlusconi: è un motivo sufficiente?»

l’Unità 2.11.07
Pomodoro, l’arte che governa il disordine
di Furio Colombo


LA FONDAZIONE che porta il nome di Arnaldo Pomodoro è
uno spazio sorprendente e mutevole in cui le grandi creature dello scultore annunciano al visitatore un mondo di alta civiltà condivisa

Da che cosa dipende l’autorevolezza di un artista che entra in scena, domina la scena, stabilisce subito il suo dominio sul territorio di ciò che è radicalmente nuovo?
Il primo gesto è lo spostamento di campo: niente di ciò che c’era prima, né per negare né per estendere. Il secondo è la responsabilità di fare da esploratore e da guida lungo un percorso nuovo. Il terzo è il prendersi il rischio di un viaggio senza ritorno, senza uscite di sicurezza, senza piazzole di sosta. Tutto ciò, quando avviene, avviene con naturalezza e candore ma non con umiltà.
L’artista di cui stiamo parlando vede la grandiosità di ciò che ha fatto, conosce l’immensa novità del suo lavoro in corso. Ma questo va votato: non lo fa dal punto di vista privilegiato e misterioso dell’artista creatore. Lo fa insieme a tutti, utente come gli altri, disperso nel pubblico stupito e ammirato, con lo stesso sguardo di sorpresa e scoperta. Tutto ciò non ha niente a che fare con il compiacimento. Infatti l’entusiasmo che pervade la scena di quel lavoro d’artista e che trattiene l’attenzione di tanta gente è lo stesso entusiasmo dell’artista creatore, che si ferma meravigliato in mezzo al pubblico, altrettanto sorpreso e altrettanto meravigliato di ciò che è avvenuto.
Stiamo parlando di Arnaldo Pomodoro e del suo nuovo mondo, che si espande da decenni una vita sempre al presente (è sempre giorno, è sempre oggi, fin dall’inizio nel mondo di Pomodoro) e che adesso abita negli spazi della Fondazione che porta il nome dell’artista uno degli spazi museali più belli e più sorprendenti d’Europa.
Cominciamo dal luogo, che è esso stesso generato dalla prodigiosa forza dell’artista, una sorta di proiezione fisica dello spazio così come è concepito da lui. In ogni edificio la vastità ha un limite. Ma non qui, non nella strana e bella astronave di via Solari a Milano, che naviga in un suo spazio che non è definito da limite.
Conta la scelta del contenitore immenso di una ex fabbrica svuotata, contra il restauro raffinato e intelligente di Pier Luigi Cerri. Ma proprio qui, nel merito e nella bravura di Cerri si scopre un passaggio dal limite al non limite. L’architetto ha capito e assecondato non tanto il carattere dell’artista come temperamento quanto il naturale respiro del suo lavoro, che non è compatibile con barriere fisiche e con punti fissi di osservazione. Ciò che il visitatore incontra con sorpresa una volta entrato nello spazio della Fondazione Pomodoro è una capacità di muovere, cambiare, alterare, scoprire e riscoprire sia la dislocazione fisica sia il punto di vista, non solo psicologico ma anche materiale.
Una volta dentro, infatti, scoprite di abitare il solo spazio museale nel quale potete trovarvi - e vedere e confrontare da vicino e da lontano, da sopra e dall’alto (e, in molti casi il contrario) in modo che la percezione del reperto artistico sia praticamente senza confini. Qui infatti lo spazio si riproduce continuamente a ogni spostamento di punto d’osservazione, creando un senso di dilatazione fisica dell’ambiente ma anche un impressione di libertà e di avventura. Passaggi sospesi ad altezze diverse sono come percorsi di viaggio che partono e arrivano in luoghi nuovi. Ti volti e il paesaggio è cambiato.
Un paesaggio così sorprendentemente mutevole è popolato da una popolazione splendida e misteriosa, fortissima e gentile, con una strana natura fisica: creature possenti non costituiscono ingombro. Piuttosto ti introducono ad altro spazio, che è quello che ti rivelano e nel quale ti invitano le parti vive, aperte e frementi della scultura di Pomodoro.
Strano che le combinazioni su scala molto grande di metallo e di materiali ruvidi si combinano con estrema bellezza e delicatezza e vi si pongono accanto con un senso di benevola forza, una forza raffinata e gentile che testimonia di una civiltà sconosciuta. È la civiltà di un artista che si assume la responsabilità di dare un volto, riconoscibile e civile a una lunga epoca piena di nodi, di rovesci, di contraddizioni.
La scultura di Arnaldo Pomodoro è infatti protagonista della storia italiana attraverso alcuni decenni. È, nel suo poderoso insieme e in ogni raffinato dettaglio, una utopia molto alta però realistica. Il mondo fatto di grazia e di forza, di vulnerabile e di resistenza infinita. È un esito della storia italiana. È un esito allo stesso tempo negato e possibile, realistico e mai raggiunto, inevitabile e negato.
Quello che ti meraviglia, quando guardi come una operazione a cuore aperto, come l’apparato di una macchina misteriosa, come una strana fonte di energia, le sculture di Pomodoro, anno dopo anno, decennio dopo decennio, piazza del mondo dopo piazza del mondo (quasi tutto il lavoro di Pomodoro abita luoghi diversi del mondo) e lo fai dall’alto e dal basso, a ridosso o decine di metri lontano, come solo nello spazio dilatabile della Fondazione Pomodoro è possibile, è che l’arte, in questo Paese, è più grande e più forte e più autorevole della realtà e molto più salda di quel volto della realtà che è la politica.
Ecco una parola che non è tipica della critica d’arte: autorevolezza. Ecco un tratto immediatamente riconoscibile dei reperti d’arte della civiltà Pomodoro: ogni pezzo rappresenta una formidabile alternativa allo stato delle cose e non solo allo stato dell’arte. Quando hai di fronte queste sculture, ti accorgi che esse tengono testa al disordine desolato, alla caduta massi che è la vista in questo Paese e in gran parte del mondo, allo squallore vuoto della vita come rapina.
Guardi l’artista mentre si aggira nello spazio della sua Fondazione e nelle strade e piazze definite dalle sue opere, e ti rendi conto che questo artista è un uomo di governo. È il governo splendido e inesistente di un altro mondo. È la testimonianza, anzi la verifica, di un punto alto di civiltà condivisa che per ora è presidiato soltanto dalle sue sculture. Dominano questo spazio, e quello dei luoghi del mondo in cui queste opere sono insediate, come un misterioso annuncio.

l’Unità 2.11.07
L’ultimo Baudrillard: «Il mondo è sparito da sempre»
di Jean Baudrillard, Marco Dolcetta


Fra le carte che gli amici hanno rinvenuto sulla scrivania di Jean Baudrillard dopo la sua morte, è stato trovato un testo datato 20 gennaio 2007, dal titolo Perché tutto non è già sparito. Sono una trentina di fogli di cui pubblichiamo un estratto e che può essere considerato il testamento filosofico di Jean Baudrillard. Il testo integrale verrà presto pubblicato dalle edizioni L'Herne.

Quando parlo del tempo, significa che non è ancora arrivato.
Quando parlo di un posto significa che è scomparso.
Quando parlo di un uomo vuol dire che è già morto.
Quando parlo del tempo vuol dire che non c’è più.
Parliamo dunque del mondo in cui l’uomo è scomparso.
Si tratta di scomparsa, non di sfinimento, di estinzione o di sterminazione. La fine delle risorse, l’estinzione delle specie questi sono processi fisici o fenomeni naturali. È lì tutta la differenza, solo la specie umana è senza dubbio la sola ad avere inventato il modo specifico di sparizione, che non ha nulla a che vedere con la legge della natura. Può essere addirittura considerato un’arte della scomparsa.
Cominciamo con la scomparsa del reale. Abbiamo parlato a lungo dell’assassinio della realtà nell’era dei media, del virtuale e delle reti, senza neanche troppo domandare quando il reale abbia cominciato ad esistere. Ora se guardiamo da più vicino si vede che il mondo reale comincia nell’epoca moderna, con la decisione di trasformarlo, e questo attraverso la scienza, la conoscenza analitica del mondo e la messa in opera della tecnologia, con l’invenzione di un punto di Archimede fuori del mondo, storicamente a partire con l’invenzione del telescopio da parte di Galilei e la scoperta del calcolo matematico, attraverso il quale, il mondo naturale è tenuto definitivamente a distanza. È il momento in cui l’uomo, mentre cerca di analizzare e trasformare prende in effetti il congedo dal mondo dando a questo mondo la forza della realtà. Si può dire dunque, paradossalmente, che il mondo reale comincia a sparire nel tempo stesso in cui comincia ad esistere. Per una sua facoltà eccezionale di conoscenza, l’uomo, nello stesso momento in cui dà senso, valore e realtà al mondo, inizia parallelamente un processo di dissoluzione. Analizzare significa letteralmente dissolvere. Ma bisogna risalire senza dubbio più lontano ancora: fino al concetto e al linguaggio. Rappresentando le cose, nominandole e concettualizzandole, l’uomo le fa esistere e al tempo stesso le precipita verso la loro sparizione, sottilmente le distacca dalla loro realtà primitiva. Il momento in cui una cosa è nominata, dove la rappresentazione e il concetto se ne impossessano, è il momento in cui inizia a perdere la sua energia, tende a diventare una verità o a imporsi come una ideologia. Si può dire altrettanto dell’inconscio e della sua scoperta da parte di Freud. E quando una cosa incomincia a sparire, lì il concetto appare (...)
Noi siamo semplificati dalla manipolazione tecnica. Questa semplificazione segue un corso delirante quando si arriva alla manipolazione numerica. Come si manifesta allora la ventriloquacità del Male? Stessa cosa per la radicalità di un tempo: quando questa lascia l’individuo, riconciliato con lui stesso ed omogeneizzato dalla grazia del numerico, quando ogni pensiero critico è sparito, allora la radicalità passa nelle cose; così la ventriloquacità del male passa nella tecnica stessa. La dualità è la regola d’oro inviolabile del giuoco, la regola di una sorta di patto inviolabile quella che sigla la reversibilità delle cose. Quindi se la propria duplicità lascia l’uomo, allora i ruoli si invertono: è la macchina che deraglia che impazzisce e diventa perversa, diabolica e ventriloqua. La duplicità passa allegramente dall’altra parte. Se l’ironia soggettiva scompare, e sparisce nel gioco numerico, allora l’ironia si fa oggettiva. Oppure si fa silenzio. All’inizio c'era il Verbo. Solo dopo è arrivato il Silenzio. La fine anche lei è scomparsa.

l’Unità 2.11.07
Il bebé gay: qual è il desiderio di un gene
di Vittorio Lingiardi


La campagna della Regione Toscana ha sollevato un dibattito complicato, ma affascinante. È bello che ogni tanto succeda. La prima complicazione sta nell’aver messo la frase giusta «l’orientamento sessuale non è una scelta», vicino alla fotografia sbagliata, perché parlare di orientamento sessuale di un neonato è quantomeno prematuro.
L’ipotesi di un orientamento sessuale determinato costituzionalmente, tornata in auge negli anni 1990 per le ricerche di LeVay (volume dell’ipotalamo), di Hamer e Hu (regione Xq28 del cromosoma X) e di Bailey et al. (ricorrenza nei gemelli) è antica quanto il mondo e da sempre appassiona i fautori del dibattito «natura versus cultura», o «nature versus nurture» come dicono gli inglesi. Dibattito, però, che sta perdendo consistenza, perchè, grazie a importanti ricerche empiriche e concettuali nel campo dello sviluppo della personalità, la scienza oggi propende per un’influenza reciproca e continua tra espressività genetica e contesto ambientale. In qualsiasi manifestazione umana l’implicazione bio-psico-sociale è ovvia, e il dialogo in corso tra neuroscienze e psicoanalisi è più di una feconda promessa.
Non sappiamo come le forze biologiche, le identificazioni, i fattori cognitivi, l’uso che il bambino fa della sessualità per risolvere i conflitti dello sviluppo, le pressioni culturali alla conformità e il bisogno di adattamento contribuiscano alla formazione del soggetto e alla costruzione della sua sessualità. Né sappiamo se sarà mai possibile rispondere a queste domande. Nell’attesa è bene parlare, almeno per espressioni complesse come la sessualità, di mediazione, più che di trasmissione, genetica. L’orientamento sessuale non è esattamente il colore dei capelli...
Detto questo, confermo che l’orientamento sessuale non può essere considerato una «scelta». Semmai qualcosa che «capita» nel proprio Sé somatopsichico (laddove davvero è difficile, e inutile, distribuire le quote) e che va poi a costituire quel senso nucleare dell’identità che accompagna la nostra storia. Questo naturalmente non impedisce che i modi (e i tempi!) e i livelli di consapevolezza con cui esprimiamo i nostri attaccamenti e desideri, siano condizionati dalle aspettative dei genitori, dall’ambiente, dalla cultura sociale, e probabilmente anche da qualche imprevedibile incontro. Per Richard Isay (Essere omosessuali, Cortina Editore), psicoanalista ma convinto assertore di una dimensione nucleare dell’orientamento, definisce l’«essere omosessuale» un fatto «naturale, inevitabile e involontario». Come dice il poeta Allen Ginsberg: «scrivo poesia perché i miei geni e cromosomi si innamorano di ragazzi e non di ragazze».
Il concetto di «scelta» probabilmente compare quando la percezione di sé viene integrata culturalmente e condivisa socialmente, facendo sì che una persona da «omosessuale» diventi «gay» o «lesbica». Queste sono infatti identità storicamente determinate, tanto che, come ben sanno gli antropologi, le persone gay e lesbiche rappresentano soggetti inediti nella storia dell’umanità, che esprimono una combinazione unica tra orientamento sessuale e identità sociale. Ed è da questa combinazione che deriva la rivendicazione di piena cittadinanza e di pari opportunità.
Il modello costituzionale è stato sempre invocato per dimostrare l’intrinseca «anomalia» (la malattia) dell’omosessualità, mentre gli scienziati del «gene gay» ribaltano il teorema e indicano la loro «scoperta» come prova della naturalità omosessuale. Lo stesso modello esplicativo può dunque favorire la liberazione delle persone omosessuali dal pregiudizio sociale (come nelle intenzioni della Regione Toscana); ma anche riproporre il discorso medico della patologia e della curabilità. Modelli scientifici opposti possono assumere la stessa valenza emotiva e sociale. Un fatto interessante, che forse ci dice più dell’efficacia della discriminazione nei confronti delle persone omosessuali che delle «cause» reali dell’omosessualità. In fondo, chi discrimina gli omosessuali può mettere ogni modello esplicativo al servizio della sua discriminazione.
E se fosse proprio nel tentativo di «trovare una causa», cioè di «spiegare» perché uno sia omosessuale, che si annida un germe di intolleranza? In tema di sessualità, ogni teoria esplicativa a senso unico è fuoriviante e pericolosa: molte teorie psicologiche sull’omosessualità (immaturità, regressione, narcisismo, edipo irrisolto, tanto per fare un piccolo elenco), si sono col tempo rivelate costruzioni meramente patologizzanti, indimostrabili sul piano empirico, infiltrate di pregiudizi eteronormativi. E dal momento che «spiegare le cause dell’omosessualità» il più delle volte significa «cercare cosa è andato storto», si capisce il potere liberatorio, per la persona gay o lesbica «non addetta ai lavori», di una teoria naturalista e involontaria. Ricordo che all’indomani della pubblicazione su Science dell’articolo di Hamer, un ragazzo gay, intervistato alla televisione, si dichiarò felice di sentire che la sua omosessualità non dipendesse da qualche «errore» dei suoi genitori.
Le forme dell’omosessualità sono così tante che il tentativo di elaborare una teoria comprensiva è realizzabile solo al prezzo di una grave distorsione delle soggettività implicate. Anche perché, come scrisse André Gide, anticipando di una ventina d’anni le conclusioni del Rapporto Kinsey, «tra l’esclusiva omosessualità e l’eterosessualità esclusiva esistono tutti gli stadi intermedi». E così abbiamo infinite varianti identitarie e sessuali, alcune forse più robuste sul piano biologico, altre più narrabili su quello psicologico. Comunque tante, e così personali, e imprevedibili, da rendere comunque riduttivo il tentativo di rinchiudere in un pezzetto di Dna il percorso di un desiderio.
*Docente di Psicopatologia, Università di Roma «La Sapienza»

l’Unità 2.11.07
Il Papa, i farmacisti e la libertà dell’individuo
di Fulvio Tessitore


È possibile, è lecito, dal punto di vista etico e religioso, infrangere la libertà individuale di comportamento, ossia una libera scelta di vita?
Chi sa qualcosa dell’elaborazione dottrinale delle religioni in età moderna non ha dubbi nel rispondere no...

Credo sia difficile sottovalutare l’ultima esternazione di Benedetto XVI ricevendo un gruppo di farmacisti in congresso. Trascurando le leggi dello Stato, il Papa ha chiesto di non rispettare la norma che concerne la somministrazione di farmaci che possano riguardare materie eticamente sensibili nella prospettiva cattolica.
Non mi sembra interessante discutere qui della dimensione politica, normativa e costituzionale dell’«invito» pontificio. Non è interessante, tanto evidente è la violazione delle suddette dimensioni del discorso. È sufficiente ricordare l’art. 7 della Costituzione lì dove definisce la Chiesa e lo Stato «indipendenti e sovrani» ciascuno del proprio ordine. Se il Papa ignora una legge dello Stato, ed anzi invita a non tenerne conto, non c’è commento. Si tratta di un atteggiamento contrario alla Costituzione, da configurare come violazione o denuncia dei Patti Lateranensi, regolati dal suddetto articolo. Da tempo vado sostenendo l’opportunità per la Chiesa (non sembri paradossale l’affermazione) di denunciare i Patti lateranensi, in tal modo acquistando la piena libertà di dire ciò che la gerarchia ritiene, naturalmente rinunciando ai privilegi accordati in conseguenza del rispetto dei patti. Non è forse questo un atto di lealtà e non una pratica ipocrita, che è il contrario dell’etica, che è il contrario dell’etica, anche di quella religiosa? Non vale discutere neppure di laicità e antilaicità, perché non si può chiedere al Papa di essere laico. Gli si potrebbe chiedere di essere rispettoso dei laici. Ma questo è affar suo. Mi verrebbe fatto di dire manzonianamente (sia pur con qualche riconosciuta irriverenza) che il senso del rispetto chi non lo ha non se lo può dare. Questo Papa è un convinto esaltatore del dogmatismo cattolico e il dogmatico è, per definizione, contrario al rispetto, perché è incrollabilmente convinto dell’«assolutezza» del cristianesimo e l’assoluto è incompatibile col rispetto, che significa riconoscimento e relazione con l’altro e degli altri, che rappresentano diversi princìpi e possono pensarla diversamente, perché non credono in nessun assoluto, animati e sorretti dalla forza del dubbio.
Ciò che mi pare più interessante è riguardare i profili religiosi, di fede, etici dell’invito papale, che, per i credenti, è poco meno di un richiamo ad una precisa «condotta di vita». È possibile, è lecito, dal punto di vista etico e religioso, infrangere la libertà individuale di comportamento, ossia una libera scelta di vita? Chi sa qualcosa dell’etica moderna, dell’elaborazione dottrinale delle religioni in età moderna non ha dubbi nel rispondere no. E rispondere no, non già per rifiuto dell’etica, della fede, della religione, ma perché etica, fede, religione, nel mondo moderno, non si reggono senza l’individuo che le configura e le attua nell’effettività della propria vita. L’«invito» di Benedetto XVI è grave, è pericoloso, è tragicamente anacronistico perché fonda su un «individuo senza individualità», qual è, quale sarebbe un soggetto che agisse in base a un ordine altrui. Ma davvero Benedetto XVI pensa che oggi la religione, la fede, l’etica si possono imporre a suon di comandi camuffati, di inviti surrettizi? Ma davvero Benedetto XVI non capisce quale errore (e quale grave scelta etica e di fede) è insinuare incertezze e dubbi nei comportamenti degli individui già dilacerati da grandi problemi di fede? Un credente, in base al proprio convincimento, dovrebbe impedire autoritariamente ad un suo simile di pensarla diversamente, negandogli la somministrazione di farmaci che assicurano l’effettività della scelta compiuta? Il magistero della Chiesa, oggi, come aveva capito Giovanni XXIII, si realizza e si rafforza, si fa rispettare se si esplica con il ragionamento, con il confronto, libero e spassionato, con le convinzioni, con i bisogni, con le esigenze dell’individuo contemporaneo. Giovanni XXIII era davvero un uomo di fede incrollabile, perché riteneva che la religione cattolica fosse ancora capace di convincere gli uomini della validità dei propri princìpi. Accettava la sfida della modernità, sicuro di poter convincere in quanto disponibile a essere convinto. Giovanni XXIII era sicuro della forza della fede e della Chiesa e perciò lanciò la navicella di Pietro tra i flussi tumultuosi e minacciosi della contemporaneità. Forse la Chiesa avrebbe dovuto rinunciare a qualche privilegio, per farsi serva della fede e non dominante: un grande coraggio! Benedetto XVI è dominato dalla paura e si chiude in difesa, con un ingenuo alternarsi di prescrizioni dogmatiche e di sollecitazioni sociali, che, assai spesso, cadono nell’ovvio. Certo è importante sentire a Napoli che solo la scuola e il lavoro possono sconfiggere la criminalità e la camorra. Ma questa appare a qualcuno una scoperta degna del magistero papale? Certo è importante sentire il Papa condannare una flessibilità che sia precarietà, ossia il contrario del sistema della vita, della vita come sistema. Ma forse ciò appare a qualcuno una scoperta degna del magistero papale?
Insomma, questo Pontefice non solo sta ottusamente riaprendo una «questione religiosa» nella già dilacerata Italia di oggi; egli sta ricollocando la Chiesa di Roma sul terreno del dogmatismo più rigoroso e astratto. Sono scelte difficili, sono scelte pericolose per l’Italia e per la Chiesa. Che Dio lo assista!

Repubblica 2.11.07
Si può rimettere in discussione il Concordato?
di Corrado Augias


Caro Augias, sono un docente della Sapienza costretto a fare lezione in un'aula dove molti ragazzi, privi di sedia, siedono a terra per due ore. E' una condizione generale che riguarda tanti altri colleghi. Mancano aule, spazi dove i ragazzi possano incontrarsi, personale, strumenti. Tutta l'università italiana dove, nonostante la riforma, si impartisce ancora un insegnamento di altissima qualità soffre da anni per una drammatica carenza di fondi. Mi chiedo e lo chiedo ai rettori, ai presidi di facoltà e delle stesse scuole secondarie: come si può assistere in silenzio di fronte alle continue notizie di soldi elargiti alla scuola cattolica o agli insegnanti di religione? Possiamo tacere di fronte a questa continua violazione della Costituzione solo per tutelare gli interessi elettorali di qualche ministro o di alcuni settori del ceto politico? Possiamo restare indifferenti al fatto che cospicue risorse vengano sottratte al sistema formativo pubblico, che è libero, pluralista, aperto a tutti, per accedere al quale le famiglie pagano tasse crescenti? Rammento che Enrico Berlinguer era restìo a impegnarsi per il referendum sul divorzio, temendo una divisione religiosa del Paese. Si sbagliava, gli italiani erano più maturi di quanto si pensasse. Siamo proprio sicuri che non sia giunto il tempo per un referendum abrogativo del Concordato?
Piero Bevilacqua pierobevilacqua@yahoo.it


Per rispondere subito alla domanda posta dal professor Bevilacqua: no, quel tempo non è giunto. E non lo è proprio per le ragioni alle quali lo stesso prof accenna: gli interessi elettorali di qualche ministro e di alcuni settori del ceto politico. Abbiamo ancora fresca memoria della potenza propagandistica messa in campo dalla chiesa cattolica per il referendum sulla procreazione assistita. Si può immaginare che cosa accadrebbe di fronte a un altro referendum che ne toccasse gli interessi materiali, mettendo cioè a repentaglio i milioni di euro che ogni anno fluiscono dalle casse dello Stato a quelle del Vaticano. Si può immaginare altrettanto bene quali timidità, quali distinguo segnerebbero l'atteggiamento della maggior parte dei politici di fronte a questa offensiva. Quel referendum costerebbe soldi e fatica per niente. Durante i lavori della Costituente, quando si trattò di votare l'articolo 7 della nuova carta che regolava i rapporti tra Stato e Chiesa, l'allora potente partito Comunista guidato da Palmiro Togliatti accettò che vi venissero recepiti i patti onerosi firmati nel 1929 da Benito Mussolini («Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi»). Ci fu battaglia anche allora, e infinite polemiche anche dopo il 1948, ma non ci fu niente da fare. Le mosse politiche vanno fatte calcolando le forze, e le debolezze, in campo. In questo caso il calcolo è semplice e al momento non c'è rimedio alla vergogna dei soldi sottratti all'insegnamento pubblico per finanziare quello privato e confessionale.

Repubblica 2.11.07
Dalla scimmia all'uomo. Ecco la lingua dei segni
di Alberto Oliverio


L'aspetto più importante degli studi sul linguaggio gestuale riguarda la possibilità che esso abbia dato vita a quello parlato

Esattamente quarant´anni fa, nel 1967, gli psicologi Allen e Beatrix Gardner misero a punto un progetto per insegnare a uno scimpanzé il linguaggio dei segni. Washoe è stata così la prima scimmia antropomorfa al centro di uno studio volto ad appurare se il linguaggio fosse una capacità tipicamente umana o se fosse anche presente, pur se in forma essenziale, in altri esseri viventi.
Poiché le stesse regole del linguaggio parlato sono alla base del linguaggio dei segni, gestito dalle stesse strutture nervose che ci consentono di produrre suoni significativi (le parole) e di comprenderne il significato, Washoe è stato addestrato col linguaggio dei segni dei sordomuti americani, l´Asl (American Sign Language). Per esprimere un concetto, ad esempio "di più", Washoe utilizzava un segno particolare, nel caso specifico congiungendo le mani a coppa: era però anche in grado di combinare qualche segno in modo innovativo. Dopo cinque anni di addestramento è stata in grado di produrre circa 130 segni, un risultato certamente scarso se lo si confronta con quello di un bambino che a 2 anni ha un vocabolario di circa 2000 parole.
Ma la polemica con i sostenitori delle teorie di Noam Chomsky, secondo cui il linguaggio è una capacità essenzialmente umana, non riguarda tanto la quantità ma la qualità, vale a dire quelle capacità sintattiche che per i linguisti rappresentano l´aspetto centrale del linguaggio. Alcuni studi hanno indicato che gli scimpanzé sono in grado di manifestare delle capacità sintattiche molto essenziali se si utilizzano brevi frasi che manchino di clausole incorporate: ma siamo molto lontani dalla complessità della sintassi umana.
L´aspetto più importante degli studi sul linguaggio gestuale degli scimpanzé riguarda però l´origine gestuale del linguaggio umano, cioè la possibilità che dal linguaggio dei gesti sia scaturito quello parlato. In uno studio effettuato in natura su un bonobo (scimpanzé pimeo) e su uno scimpanzé da Amy Pollick e Frans De Waal sono stati identificati ben 31 gesti prodotti da movimenti dell´avambraccio, della mano, del polso o delle dita, utilizzati esclusivamente al fine di comunicare e 18 segnali facciali e vocalizzazioni. I due ricercatori hanno notato che i segnali facciali e le vocalizzazioni avevano lo stesso significato nelle due specie mentre lo stesso tipo di gesto veniva utilizzato in differenti contesti da parte del bonobo e dello scimpanzé e anche nell´ambito della stessa specie. Ad esempio, il gesto di tendere il braccio in avanti con il palmo aperto verso l´altro (come quando un mendicante chiede la carità) viene utilizzato dagli scimpanzé a seconda della situazione per chiedere cibo o per rappacificarsi con l´avversario dopo un bisticcio o una lotta.
In sostanza, il gesto è versatile e il suo significato dipende dal contesto. Dal punto di vista evolutivo, il linguaggio stesso può essere considerato come un sistema gestuale, solo che i "gesti" sono legati a movimenti della lingua, delle labbra e della laringe che nel corso dell´evoluzione avrebbero potuto sostituirsi ai gesti delle mani, in tal modo libere di svolgere altre attività come sostenere un peso o produrre uno strumento.

Corriere della Sera 2.11.07
Gagliardi: restare nell'esecutivo? Decideremo dopo la manovra
intervista di Fabrizio Roncone


ROMA — Senatrice Rina Gagliardi, è ormai piuttosto diffusa la sensazione che, per voi di Rifondazione, qualche mese fa, fosse un po' più agevole essere «di lotta e di governo». Lei non trova?
«Le dirò: è sempre stato complicato essere, come dice lei, e ironizzano in molti, di "lotta e di governo". Ma posso assicurarle che, pure adesso, nonostante questo governo così...».
Così come?
«Così eterogeneo, beh... le difficoltà restano comunque quelle di sempre».
Nelle ultime settimane, in verità, paiono aumentate.
«Lei pensa?».
No, lo pensa Piero Sansonetti, che scrive un lungo editoriale sulla prima pagina di Liberazione, il vostro quotidiano, da lui diretto. Il titolo dell'editoriale, ammetterà, è eloquente: «Domanda (proibita) alla Sinistra: perché restiamo in questo governo? ».
«Io credo che Sansonetti abbia reso esplicita una domanda che circola in tutta la sinistra italiana. Vale a dire la voglia di tirar giù un bilancio della nostra presenza in questo governo...».
Appunto, che bilancio è?
«Guardi, non credo sia possibile una risposta secca».
Ci provi, senatrice.
«Diciamo... diciamo che la nostra azione di governo ha avuto una sua efficacia e quindi, per il momento...».
Per il momento?
«Esatto, scriva bene: per il momento... io credo che il sostegno di Rifondazione al governo vada mantenuto, nella piena consapevolezza, però, che proprio quanto questo governo ha sinora prodotto, dal nostro punto di vista è assai, ripeto assai deludente».
Bertinotti, in un'intervista rilasciata a «Panorama», sostiene che un brodino a questo governo faccia bene e anche se Prodi si dispiace, la verità è che il brodino si dà agli ammalati. E questo governo, appunto, è malato.
«Perché, mi scusi, non è vero? Al Senato, siamo appesi al voto dei senatori a vita... Poi c'è un'evidente difficoltà di consensi...».
Brutta malattia.
«Dopo cinque tragici anni di berlusconismo, avevamo promesso l'apertura d'una nuova stagione. Il punto politico è che non ci siamo riusciti».
Il vostro disagio appare profondo. Nel voler restare fedeli a Prodi prevale più un senso di paura, o di rimorso, per ciò che provocaste nel 1998?
«Non si possono fare paragoni. All'epoca, c'era solo un patto di desistenza. Stavolta siamo dentro un'alleanza politica e di programma».
Insomma, Rifondazione naviga a vista. Pronta a uscire dal governo dopo la prima tempesta?
«Noi non navighiamo a vista. C'è il programma dell'Unione da realizzare. Purtroppo...».
I suoi discorsi, senatrice, sono pieni di rammarico. Purtroppo?
«Purtroppo il programma, con un certo, spiacevole metodo, viene stravolto dalle note forze centriste».
Rifondazione ha un problema con parte della coalizione. Lo ammetta.
«Non uno, a voler essere precisi. Per dire: lunedì comincia la discussione sulla legge Finanziaria, che a noi, così com'è stata pensata, piace abbastanza. Ma siamo sicuri che nella sua impostazione arriverà integra sino alla fine dell'iter parlamentare?».
No. Tutt'altro. Nessuno può esserne sicuro. E nel caso ci fossero modifiche per voi inaccettabili? Ecco, in questo caso: lascereste Palazzo Chigi?
«Senta, come dovrebbe ormai essere chiaro a tutti, noi di Rifondazione, a differenza di Lamberto Dini, non facciamo ricatti né dettiamo ultimatum....».
Però?
«La Finanziaria sarà certamente un banco di prova importante per tracciare un bilancio della nostra attività di governo, come sollecita Sansonetti».

il manifesto 2.11.07
Via dal governo? Per Rifondazione si vedrà a gennaio
di Matteo Bartocci


Giovanni Russo Spena: «Provocano la sinistra perché vogliono far cadere Prodi». Nel mirino non solo Di Pietro, Dini e Mastella ma anche un «rimpasto» che potrebbe sancire un programma «ancora più moderato». Prova del nove la finanziaria, dove non si esclude la fiducia

Roma «Dopo la finanziaria faremo un bilancio sulla nostra presenza al governo ma si può iniziare a discuterne già negli stati generali di dicembre, la sinistra per noi non è di governo, sta al governo se è utile per la società che rappresenta». Giovanni Russo Spena, capogruppo Prc sulla linea di faglia del senato, non è ottimista sulla tenuta della maggioranza. Ma anche se Prodi ce la facesse a superare la finanziaria, Rifondazione teme manovre di più ampio respiro.
Non bastano i famigerati «poteri forti», i centristi e un Lamberto Dini sempre più ago della bilancia tra le due coalizioni a preoccupare la sinistra. «Certo, se Dini ha già l'accordo con Berlusconi - dice Russo Spena - c'è poco da fare, bisogna vedere se il governo cadrà il 15 novembre sulla finanziaria o il 15 dicembre sul welfare». C'è però una lettura più maliziosa che si fa strada nei corridoi di palazzo Madama. E' che si comincia a guardare con crescente preoccupazione anche più in alto, al cuore del partito democratico. «Non è che se Mussi, Pecoraro e Ferrero se ne vanno la situazione migliora. Certo è che se Prodi ce la facesse e a gennaio, come tutto lascia pensare, varerà un governo nuovo, è possibile che ci sia anche un programma nuovo, spostato al centro e ancora più moderato». Anche in questo caso, Unione addio, addio 281 pagine del libro sacro, sinistra silenziata, tutti gli equilibri saltati.
A giudicare dai soliti tam tam perfino il totoministri è già partito: Mastella e Dini lotterebbero per il dicastero della Difesa. Enrico Boselli ha già avvisato che la «costituente socialista» vuole essere della partita (non a caso, Gavino Angius non ha ritirato i suoi emendamenti alla finanziaria). Rifondazione potrebbe approdare all'ambiente e Pecoraro Scanio tornare all'Agricoltura. Il clima di sospetti dentro e ai confini dell'Unione è già durissimo.
Lo provano, soprattutto, l'improvvisa offensiva di Idv e Udeur contro la commissione sul G8 e il no di Dini a 30 milioni di euro per assumere qualche precario ultradecennale nella pubblica amministrazione. Tutti segnali che a sinistra vengono letti come «pura provocazione»: «Del merito e del programma elettorale non gliene frega niente, vogliono solo che il governo lo facciamo cadere noi», commenta un autorevole dirigente rifondarolo. Fino a dicembre però, nonostante la delusione sia comprensibile e ormai esploda anche sulle pagine di Liberazione, la sinistra non muoverà una foglia.
Anche Haidi Giuliani, pur sofferente, proverà fino all'ultimo a resistere agli assalti berlusconiani. E a parte il no di Franco Turigliatto, espulso dal Prc, in pochi se la sentono di affossare il governo e aprire al diluvio.
Non tanto per spirito di sacrificio ma perché se la «spallata» di Berlusconi andrà in porto un ritorno anticipato alle urne diventa se non probabile almeno possibile. A finanziaria approvata, invece, un voto esiziale sarebbe quasi scongiurato grazie al «dialogo» sulle riforme e, soprattutto, sulla nuova legge elettorale.
Non è detto che il gioco allo sfascio riesca. «Gli anticorpi sociali ci sono. Il 20 ottobre lo ha dimostrato», dice Russo Spena. E dello stesso avviso è anche Raffaele Tecce, senatore Prc in prima linea in commissione bilancio. «Per la prima volta tutta la sinistra in parlamento ha presentato e votato solo emendamenti unitari, non sempre ce l'abbiamo fatta, ma certo dopo il 20 ottobre il clima è cambiato. Siamo rimasti compatti e la lotta alla precarietà ha riconquistato la sua legittimità politica».
Sulla finanziaria 2008 i lavori in commissione dovrebbero concludersi in nottata, troppo tardi per scriverne. Senatori stremati, ostruzionismo leghista a intermittenza, voglia matta di tornare a casa almeno per il fine settimana. Da lunedì governo e maggioranza si giocano il tutto per tutto. La fiducia? «E chi non l'ha messa negli ultimi dieci anni?», si chiede retoricamente la capogruppo del Pd Anna Finocchiaro. «Decideremo in aula», ammette il sottosegretario all'Economia Giampaolo D'Andrea.
Con ogni probabilità sia Dini che il centrodestra ripresenteranno in aula gli emendamenti bocciati in commissione. E se dovessero stravolgere il testo, il governo proverà a giocarsi la fiducia stanando i «dissidenti». Se passasse, l'Unione avrebbe vinto, approvando una manovra ampiamente discussa in commissione e concordata tra le forze di maggioranza. Difficile che il Quirinale se ne rammarichi oltre misura.

il manifesto 2.11.07
Andirivieni di Hilary Putnam
di Francesco Ferretti


I contributi del grande epistemologo americano alle concezioni della mente, in due prossimi incontri: sabato 3 novembre al Festival della scienza di Genova e martedì 6 all'Università Roma Tre, dove si svolgerà un convegno titolato «Il futuro della filosofia»

Ecco un problema semplice, almeno in apparenza. Prendete una tavola con due fori, uno quadrato col lato di due centimetri, e uno circolare col diametro di due centimetri. Ora prendete un piolo a base quadrata col lato di poco inferiore a due centimetri e provate a inserirlo nei fori. Entrerà in quello quadrato, ma non nel foro circolare. Perché? A sollevare il quesito è Hilary Putnam, filosofo di Harvard, senza dubbio il più grande epistemologo vivente, nei prossimi giorni in Italia per partecipare a due incontri: il Festival della scienza di Genova in cui terrà una lectio magistralis sabato 3 novembre (ore 18.00, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio) e il convegno internazionale organizzato il 6 novembre dall'Università Roma Tre con il titolo «Il futuro della filosofia» (ore 9.30, Rettorato dell'Università Roma Tre, Via Ostiense 159).
Il quesito posto da Putnam apre una questione decisiva rispetto al tema dei rapporti tra filosofia e scienza: la questione del riduzionismo - l'idea secondo cui le leggi delle scienze di «livello superiore» devono essere ridotte alle leggi delle scienze di «livello inferiore». Per un riduzionista i fatti sociali, ad esempio, devono essere analizzati in riferimento alla psicologia degli individui, quelli psichici in riferimento alla neuroscienza o alla biologia. La tesi di Putnam è che il riduzionismo non è adeguato sul piano esplicativo: per dar conto del perché il piolo entri soltanto nel foro quadrato, non è alla struttura atomica dei due oggetti che dobbiamo riferirci. Che il piolo e la tavola consistano di atomi organizzati in un certo modo fornisce senz'altro delle spiegazioni di alcuni fenomeni, ma non dà le informazioni richieste per rispondere alla domanda. Per risolvere il quesito, in effetti, l'informazione pertinente è quella che fa riferimento a proprietà (di macrolivello) quali la rigidità degli oggetti o la loro configurazione geometrica.
Passando a casi più concreti, l'idea di Putnam è che quando si affrontano questioni del tipo «le leggi della società capitalistica» o il concetto di «persona» l'analisi riduzionista conduce a esiti del tutto insoddisfacenti. Non è possibile descrivere le leggi del capitalismo deducendole dalle leggi della fisica o dallo studio del funzionamento del cervello umano. Ovviamente, gli esseri umani sono sistemi fisici: come tali, alcuni fenomeni che li riguardano possono essere descritti utilizzando le leggi della fisica. Da ciò, tuttavia, non deriva che tutti i fenomeni che li riguardano possano essere descritti in questo modo: le leggi del capitalismo si situano a un livello di descrizione che è autonomo da quello fornito dalla fisica, dalle neuroscienze o dalla biologia. Quando si trascura la possibilità di incontrare descrizioni della realtà che coinvolgono diversi livelli di analisi si incorre in quello che può essere considerato l'errore comune a tutte le forme di riduzionismo: trascurare i livelli alti di spiegazione, comportandosi di fatto come se questi non esistessero.
Ora, poiché lo stesso Putnam è stato in passato un fervente riduzionista, è ovvio che questa revisione di prospettiva (una delle tante che caratterizzano il suo percorso di ricerca) ha implicazioni anche in altri aspetti del suo sistema teorico: quella principale riguarda il ripudio del funzionalismo nella filosofia della mente.
Il funzionalismo - di cui Putnam è stato tra i padri fondatori - è l'idea secondo cui gli stati mentali si caratterizzano per il loro ruolo funzionale: ovvero, per il tipo di relazioni che intrattengono con gli input ambientali, gli output comportamentali e i legami causali che connettono gli stati mentali tra loro. Dal fatto che gli stati mentali siano concepiti in questo modo dipende un'altra importante caratteristica del funzionalismo: l'idea secondo cui la mente è in larga parte indipendente dal sostrato fisico che la realizza.
La possibilità di ipotizzare menti artificiali si regge, ovviamente, su questa importante caratteristica del funzionalismo: se la mente dipendesse in modo esclusivo dalla «materia cerebrale», infatti, verrebbe meno ogni pretesa di costruire sistemi artificiali pensanti.
Per quanto, negli anni '60 del '900, Putnam sia diventato famoso sostenendo che la macchina di Turing era un buon modello per spiegare ciò che avviene nella mente, oggi egli considera questa ipotesi viziata da un forte riduzionismo. Dal suo punto di vista attuale, infatti, deve essere totalmente rivista la convinzione per cui ciò che di più rilevante riguarda la mente avviene all'interno della testa degli individui. La critica a questa concezione «internista» è stata sferrata da Putnam tramite il cosidetto esperimento mentale «della Terra Gemella»: oltre alla Terra in cui viviamo, esisterebbe nell'universo una Terra Gemella. Le due terre - sostiene l'esperimento - sono identiche sino alla struttura atomica degli individui e degli oggetti che la popolano; allo stesso modo sono identici anche gli eventi che vi accadono: in questo momento, ad esempio, mentre voi state leggendo questo articolo, anche il vostro gemello su Terra Gemella, sta leggendo lo stesso articolo, il che implica stati mentali e cerebrali identici ai vostri. Solo una proprietà rende diverse la Terra e la Terra Gemella: la struttura chimica dell'acqua. Pur avendo la stessa apparenza, lo stesso sapore e la stessa funzione del liquido con cui noi tutti ci dissetiamo, la struttura chimica dell'acqua gemella è XYZ, non H2O.
Questa piccola diversità ha una portata decisiva nello studio della natura del contenuto mentale e del significato. Quando i due gemelli proferiscono un enunciato del tipo: «c'è dell'acqua nel bicchiere di fronte a me» quello che accade è che pur trovandosi (per definizione) nello stesso stato cerebrale e nello stesso stato mentale, si riferiscono a due entità diverse: ciò che avviene all'interno della scatola cranica non è dunque sufficiente a determinare il riferimento delle espressioni linguistiche - il significato, in altri termini, non sta nella testa dei parlanti. È una critica che ha avuto profonde ripercussioni nella filosofia della mente più vicina alla scienza cognitiva. Jerry Fodor, ad esempio, ha cercato di far fronte alle critiche di Putnam distinguendo il contenuto nella testa degli individui (narrow content) da quello che tiene conto delle relazioni causali col mondo esterno (broad content). Andy Clark, per citare solo un altro caso, ha sostenuto che la mente si deve intendere come estesa fuori della scatola cranica a inglobare l'ambiente esterno, considerato come una «impalcatura» su cui il cervello fa leva per rendere più efficaci i suoi processi di elaborazione.
Entrambe le argomentazioni, insieme a altre analoghe, invitano dunque a considerare il ruolo del mondo esterno - quello sociale e quello fisico - nella vita mentale degli individui, e la scienza cognitiva deve tenerne conto se vuole definire correttamente alcuni degli assunti centrali che la caratterizzano, con il risultato di approdare a un nuovo proficuo ripensamento dei rapporti tra filosofia e scienza.

Panorama n.45 (nelle edicole)
Il governo è malato e anche la sinistra non sta tanto bene
intervista con Fausto Bertinotti
di Maurizio Belpietro


L’esecutivo? Debole, ma si rialza sempre. La politica italiana? Un sistema imballato. Il bicameralismo? Da eliminare. Il presidente della Camera parla a tutto campo.

Secondo voi, si può chiedere al presidente della Camera quando cadrà il governo? No. E allora per evitarmi le complicazioni intellettuali, e il lessico immaginifico di cui Fausto Bertinotti è maestro, ho preferito puntare sul brodino, bevanda calda che secondo l’ex segretario di Rifondazione comunista l’esecutivo ha preso nei giorni scorsi, quando per sette volte è caduto nell’aula del Senato.
Presidente Bertinotti, è bastato a rianimare il governo?
Romano Prodi se l’è presa, ma il brodino fa sempre bene. Lo si dà agli ammalati per tenerli su. E negare che il governo sia malato sarebbe ipocrita. Del resto, l’esecutivo di brodini quest’anno ne ha presi tanti e in qualche modo si è rialzato.
Ma sopravviverà?
Ci sono malati che durano a lungo. Penso che anche questo abbia possibilità di resistere.
Cosa glielo fa credere?
La mancanza di un’alternativa. Di sicuro non c’è nulla, la certezza è nell’incertezza. Se lei chiedesse un parere pro veritate a qualsiasi politico su quel che accadrà tra tre mesi, nessuno sarebbe in grado di darle una risposta.
Traduco il Bertinotti-pensiero per le masse: vuol dire che ci si tiene Prodi perché non si sa cosa fare se lui cade?
Diciamo che prevale il realismo. Le questioni che il Paese ha di fronte sono impegnative: la coesione sociale, il bilancio dello Stato. Per questo credo che il governo possa continuare.
Non scorgo grande entusiasmo.
Vede: o c’è un’ipotesi forte di riforma, come per esempio in Francia, dove (senza dare alcun giudizio di merito) Sarkozy ha lanciato un’idea nuova del paese, tanto che si parla di «rupture», rottura, oppure questa idea forte non c’è e allora bisogna limitare il danno. Nel primo caso si ha un governo forte, nel secondo un governo debole che fa conto sullo sviluppo della società.
Il governo Prodi è debole?
Dopo un anno e mezzo credo di poter fare un’analisi. Pur sapendo che in Italia era impossibile un’operazione giacobina, credevo che attraverso un programma ampio si potesse innescare un rapporto virtuoso tra governo, maggioranza e movimenti. Oggi devo riconoscere che è un’ipotesi di partenza che non ha retto.
Perché?
Perché la crisi della politica è maggiore rispetto a quella che avevamo percepito in campagna elettorale. Credo ci abbia fatto velo l’avversione al governo Berlusconi.
Sta rivalutando l’operato del Cavaliere?
No, non ci penso proprio. Le sue politiche sono sciagurate, ma devo riconoscere che Berlusconi è un leader politico di peso, non è affatto un dilettante come fa credere. Senza di lui in Italia la destra non vince.
Allora hanno ragione quelli che dicono che tra lei e il Cav c’è simpatia…
A parte che io ho sempre distinto l’errore dall’errante, la critica alla politica da quella alla persona e non ho mai avuto l’ossessione di Berlusconi, voglio semplicemente dire che senza di lui le politiche liberiste in Italia esisterebbero solo nella testa di qualche bocconiano. Il capo di Forza Italia, mischiando liberismo e populismo, ha invece dato vita a uno straordinario disegno politico che ci ha sconfitti due volte.
Ma che c’entra il Cavaliere con le difficoltà del governo Prodi?
Pensavamo che tutti quelli che erano contro Berlusconi fossero con noi. E invece no: c’è un pezzo della società che è sempre contro le élite. Dunque anche contro un governo di sinistra.
Lei alcuni oppositori del sistema li ha portati in Parlamento, ora fa autocritica?
Era una scommessa che puntava ad allargare la democrazia rappresentativa e da questo punto di vista Rifondazione ha un merito straordinario.
Si è pentito di aver messo in lista Francesco Caruso, il deputato no global che ha accusato un martire del terrorismo come Marco Biagi?
Con lui ho avuto anche momenti aspri, ma non si può pensare che Caruso abbia danneggiato la democrazia. Ma allo stesso tempo credo che la buona politica e certi gesti «dannunziani» siano incompatibili.
Lei fa l’epitaffio del progetto che fu alla base dell’alleanza di centrosinistra nel 2006.
No, la parte più ambiziosa resta, ma ora bisogna puntare alla riduzione del danno, a una politica di accompagnamento.
Traduco ancora: Prodi bisogna tenerselo perché altrimenti è peggio?
Lei sa che in quanto presidente della Camera mi è impedito intervenire direttamente su questioni politiche. Ma mettiamola così: sono a favore della continuità. L’instabilità di governo aggraverebbe la crisi della politica.
Mi pare una foglia di fico che ha solo come obiettivo di evitare le elezioni.
No. Pur facendo politica da tanti anni non me ne ero mai reso conto, ma qui il sistema è imballato, non funziona ed enfatizza tutte le patologie di cui è affetta la politica.
Che vuol dire?
Che questo è un sistema impedente. Le faccio un esempio: a luglio si approva il Documento di programmazione economico finanziaria. A settembre comincia il percorso per approvare il bilancio dello Stato. Tra Finanziaria e collegati si va avanti fino a Natale. Non c’è lo spazio per fare altro. E pensi che tutte le discussioni, gli emendamenti, nelle ultime quattro legislature non sono serviti a nulla, perché alla fine il governo ha posto la fiducia. Non si può perdere metà anno a fare la finanziaria.
Che l’efficienza non sia di casa né a Montecitorio né a Palazzo Madama non mi pare una novità.
Sì, ma ora è evidente che il bicameralismo perfetto non ha più ragione di esistere. Ho grande rispetto per i padri costituenti: vollero garantire tutti perché non sapevano chi avrebbe vinto le elezioni, ma questo sistema ora non funziona più. Noi dobbiamo decidere oggi per domani, non per il prossimo anno. Invece si presentano leggi e nessuno sa se vedranno mai la luce.
Già che ci siamo: i disegni di legge sulla sicurezza quando saranno approvati?
Nessuno lo sa e, mi creda, neppure i decreti godono di una scorciatoia. Per restituire efficacia alle istituzioni bisogna abbattere il bicameralismo e procedere a una riduzione drastica dei parlamentari. È indispensabile una riforma costituzionale.
Ci hanno provato in tanti, per ultimo il centrodestra.
Fino alla fine degli anni Settanta la Costituzione era considerata intangibile. Poi con Bettino Craxi nacque l’idea di una grande riforma: una stagione che si è chiusa con il referendum dello scorso anno. Io parto da lì: non tocchiamo la prima parte, interveniamo solo sull’efficienza.
Perché a un Parlamento con una maggioranza debole dovrebbe riuscire ciò che non è riuscito a parlamenti più forti?
Per necessità. Se non si fa la riforma ci infiliamo direttamente nella Quarta repubblica ma senza De Gaulle, si consuma la politica e si lavora per il re di Prussia.
E chi sarebbe?
Se la politica si consuma, lascia posto solo a un ruolo tecnocratico. In Italia c’è chi pensa che la politica sia superflua o addirittura dannosa e che il governo dovrebbe essere guidato da chi sa. Che sia il mio amico Mario Monti o qualcun altro, poco importa. La politica sta rischiando il default e questo dovrebbe indurre a qualche realismo.
Che fa? Sogna il grande inciucio?
È improprio parlare di inciucio, ma anche di alleanze. Credo serva il concerto di tutte le forze che stanno in Parlamento. Uno degli errori, anche della sinistra, è stato quello di fare le riforme con spirito di parte.
Le grandi riforme in questo paese non sono mai nate.
E allora facciamo una piccola riforma. Che serva a liberarci e non a costringerci ad allearci.
Ce l’ha con la legge elettorale?
È uno dei problemi. Io ho grande simpatia per i piccoli partiti, soprattutto per quelli che esercitano un ruolo di testimonianza, come erano i radicali o i repubblicani o il Partito d’azione. Ma quando questa condizione si trasforma in una rendita marginale… non ci siamo. Il tanto più sei piccolo, tanto più sei essenziale non va bene.
Lei è un proporzionalista convinto, di che si lamenta?
Io sono per il proporzionale stile tedesco, con maggioranze scelte e non subite.
Reclama mani libere per Rifondazione comunista?
Dico che se domani il Pd va da solo, io lo contesterò politicamente ma la scelta la ritengo legittima. Peraltro, con la soglia al 5 per cento se Rifondazione non fa un processo di unificazione rischia di sparire.
Il Partito democratico è di sinistra?
Ognuno si dà il nome che vuole. Il Pd si definisce di centro-sinistra. Per quel che mi riguarda leverei il trattino, ma non c’è dubbio che è una grande formazione di centrosinistra, la cui incidenza sulla società italiana sarà importante. A me non piace, ma non nascondo che è un punto di novità.
Quale?
Be’, il Pd è un partito che si può votare anche se non si è d’accordo. Veltroni è efficace perché allude e il suo Pd ha proprio un carattere indefinito che ne costituisce la natura intima: non è accidentale, ma la sostanza. Per questo forze radicali della società, come i no Tav o i comitati contro la base Usa di Vicenza, potrebbero essere attratti dal Pd.
Ma quello non è il bacino elettorale di Rifondazione?
Ma anche una parte del Prc e del Pdci potrebbe essere attratta da Veltroni. È l’idea di una politica mobile, non fedele, che ha una collocazione per funzioni. Il Pd scompagina vecchi schemi. Si può essere di sinistra, contrari all’accordo governo-sindacati sul welfare, stare nei Cobas e votare Pd. Si va verso il voto utile.
Sta liquidando Rifondazione?
I partiti finalistici sono a una sfida mortale. La sinistra europea, che ha ereditato la storia e con essa i problemi irrisolti del Novecento, è a un bivio tra la vita e la morte. Non è più detto che vi sia posto nelle istituzioni per questa sinistra.
Non credo che ai suoi compagni piaccia questo de profundis.
La sinistra è indispensabile, ma è a rischio. Quello più grave è la frantumazione. La via è quella di una sola sinistra, di un soggetto unitario e plurale. Non si tratta di rifare il partito comunista, ma di aprire a socialisti, pacifisti, ecologisti.
Con o senza falce e martello?
I simboli andrebbero custoditi. Io non distruggerei niente, terrei tutto. Ma sono troppo coinvolto: ancora mi emoziono quando vedo le bandiere rosse e la falce e martello.
Prodi definì Rifondazione un partito folcloristico.
In politica non è obbligatorio dimenticare, ma è obbligatorio omettere. In ogni caso credo che il presidente del Consiglio abbia imparato che non è così. I fatti educano.
Lei si candida a guidare il nuovo partito della sinistra?
Non ci sono uomini per tutte le stagioni. Un’impresa nuova ha bisogno di generazioni nuove. E poi dirigere richiede una forza fisica che alla mia età non penso più di avere. Meglio le pratiche di un ufficio studi.
Largo ai giovani: ma nelle istituzioni non mi pare sia una regola aurea. Il Quirinale, i due rami del Parlamento e Palazzo Chigi sono occupati da persone anziane.
Sono contro le banalità generazionali, ma la vigoria fisica a una certà età non la si ha più. Detto questo, penso che serva anche la saggezza e da questo punto di vista ho molto rispetto per Giorgio Napolitano. Ma se la stessa persona dovesse guidare Palazzo Chigi, allora direi di no.
Gli operai la commuovono ancora, come disse nel 1994?
Sì. Anzi, le dirò che mi piacerebbe essere ricordato come accadde a Fernando Santi, il segretario generale aggiunto Cgil degli anni Sessanta, del quale braccianti e operai dicevano: era uno dei nostri.
Vuole sempre l’alleanza con i buoni borghesi?
Sì, con quella borghesia produttiva capace di innovarsi. Purtroppo, da noi storicamente la borghesia è finita per essere o di stato o aiutata dallo Stato. Ma la buona borghesia dev’essere un interlocutore.
Nomi? Marchionne? Draghi?
Sergio Marchionne è certamente un interlocutore e anche Mario Draghi. La mia idea è lontanissima da quella del governatore della Banca d’Italia, ma lo rispetto. Fra l’altro, Draghi parlando dei bassi salari ha individuato uno dei banchi di prova del futuro. Nei prossimi decenni vogliamo che gli italiani continuino a lavorare nelle fabbriche o vogliamo che i lavori manuali siano affidati solo agli immigrati, ridotti magari in condizioni di schiavitù?
Rispunta l’anima del sindacalista...
Nel 1975 gli operai italiani erano i meglio retribuiti d’Europa. Oggi sono tra gli ultimi. Che vogliamo fare? Marchionne non può presentare un bilancio fortunato senza riconoscere che quel risultato è frutto in parte della forte produttività.
Secondo lei Marchionne è un imprenditore illuminato ma non nel portafoglio?
Io penso che per aumentare i salari e ridurre le tasse bisogna operare su due direttrici: prelevare dalle rendite e trasferire un po’ del profitto aziendale sugli stipendi.
Lei all’idea della patrimoniale non rinuncia?
Non entro nel merito, ma non si possono tassare le rendite meno di uno stipendio.
Le banche in Italia hanno troppo potere?
Certo. Fanno parte dei poteri forti e a volte condizionano molto la politica.
Passera, Profumo, Modiano, Salza, Bazoli mi pare abbiano tutti a cuore il centrosinistra.
Non vorrei che la sinistra facesse l’errore di confondere le banche con l’appartenenza dei suoi dirigenti. Non ha importanza il profilo politico-culturale dell’amministratore delegato, ma come la banca opera.
Non le piace la finanza rossa?
Credo semplicemente che non si possa pensare di colorare la finanza. La sinistra non deve immischiarsi in operazioni finanziarie. Può informarsi, ma non partecipare.
A proposito di finanzieri: lei frequenta l’ex banchiere d’affari Mario D’Urso, ma anche attrici come Valeria Marini. Qualcuno non approva queste sue amicizie.
D’Urso è un amico e Valeria è una donna molto intelligente. Io ho un’idea libertaria del mondo e delle persone.
La sua visione libertaria la spinge a frequentare anche i cardinali?
Qualcuno, ma incontro più parroci che porporati. Al parroco di Tor Tre Teste (un quartiere popolare di Roma, ndr) ho appena donato 50 mila euro. Don Gianfranco aveva bisogno di fondi per la costruzione di un campo di calcio e io avevo appena ottenuto un risarcimento dalla 7…
Ma come c’è finito lei a Tor Tre Teste?
Volevo vedere la chiesa. È nuova, bellissima, con delle vele di cemento bianche. Amo queste opere.
È il nuovo Bertinotti. Il presidente di lotta e di istituzioni, un po’ mistico e un po’ artistico. (maurizio.belpietro@mondadori.it)

Il Mattino 2.11.07
«Marilyn» di Schneider
Lo psicanalista che non salvò la diva infelice
di Felice Piemontese


Sono pochi i grandi misteri del Novecento che abbiano suscitato tanto interesse come la morte tragica di Marilyn Monroe. Suicidio? Omicidio commissionato dalla mafia? Delitto «di stato»? Casualità legata all’abuso di droghe e medicinali? Sull’argomento sono stati pubblicati decine di libri, nessuno dei quali, ovviamente, risolutivo. E, a quarantacinque anni dall’evento, si può ormai presumere che il mistero resterà tale per sempre. Lo scrittore francese Michel Schneider, noto finora soprattutto come psicoanalista, ha fatto dell’ultimo periodo di vita di Marilyn - e della sua morte - un romanzo che, pubblicato l’anno scorso in Francia con grande successo (circa centomila copie) esce anche in Italia: Marilyn, ultimi giorni, ultima notte (Bompiani, pagg. 446, euro 18,50, traduzione di Fabrizio Ascari). I protagonisti sono due - con una folla di comprimari eccellenti che si chiamano John e Robert Kennedy, Frank Sinatra, Billy Wilder, George Cukor, Arthur Miller, Joe Di Maggio e infiniti altri -: lei, Marilyn, un mito sessuale per milioni di persone in tutto il mondo, e nello stesso tempo una donna fragilissima e malata, totalmente infelice e sempre in bilico tra comportamenti adeguati al suo ruolo di star e cadute definitive nell’abisso della follia, così com’era capitato alla madre trent’anni prima; lui, Ralph Greenson, allievo di Freud in Europa, psicoanalista insigne (il suo Tecnica e pratica psicoanalitica, pubblicato anche in Italia, si studia ancora nelle scuole di specializzazione), marito e padre premuroso, con un carnet di pazienti (e un conto in banca) invidiabile. Un incontro, quello tra la diva infelice e lo stimato intellettuale di sinistra, decisivo e devastante per entrambi. Lei era già stata in cura, con scarsi risultati, da tre psicoanalisti (tra cui Anna Freud, la figlia del Fondatore). Nasce così un rapporto sempre più intenso, che a poco a poco si trasforma in una sorta di follia amorosa (senza sesso) che indurrà Greenson a comportamenti assai poco ortodossi se non a pratiche lesive dell’etica professionale. L’inevitabile conseguenza è una sorta di dipendenza reciproca, che si manifesta in forme sempre più inquietanti, fino al momento in cui Greenson è quasi costretto dalla moglie a un viaggio in Europa che avrà un ruolo determinante nel precipitare della crisi in cui perennemente viveva la star. Dunque, non sapremo mai - certo non dal libro di Schneider - se Marilyn è stata uccisa da una combinazione letale di Nembutal e di idrato di coralio o da «una miscela fatale di cura psicoanalitica e di follia amorosa». Del resto lo scrittore francese non esita a dichiarare: «Vorrei che alla fine del mio libro i lettori dicessero: ”Ne so meno di prima”». E del resto ricordiamoci che siamo di fronte a un romanzo, anche se i personaggi che vi si muovono sono reali e la narrazione è in gran parte basata sui fatti e su una gran mole di documenti. La cosiddetta docu-fiction dà, con le pagine di Schneider, una bella dimostrazione di efficacia. Nonostante la mole cospicua del libro, si andrebbe spediti verso la fine, se il racconto non fosse appesantito da qualche digressione tecnicistica e dai continui salti temporali che spezzano il ritmo (ma sono funzionali al tipo di operazione letteraria condotta da Schneider).

Liberazione 12.11.07
All'armi siam razzisti. Caccia ai romeni ruspe nei campi e prime esplusioni


Ieri sera è morta Giovanna Reggiani, la signora aggredita tre giorni fa a Tor di Quinto a Roma. E' stata per due giorni in coma irreversibile. Parecchie ore prima della sua morte era già scattata la reazione dello Stato, durissima e molto altisonante. Tutto funziona come negli schemi più classici della persecuzione razziale. Verrebbe quasi da usare la parola pogrom. Per fortuna qui in Italia si resta alla deportazione, i porgrom invece erano bagni di sangue. Qual è lo schema classico della persecuzione razziale? Si prende lo spunto da un delitto per il quale è sospettata una persona che appartiene ad una certa nazionalità, o a un gruppo etnico. Si monta una campagna contro il delitto e si delinea un automatismo tra delitto e nazionalità. Sulla base del pregiudizio razziale, che è durissimo a morire. Subito dopo, spinti dall'ira popolare, si procede a leggi speciali, persecutorie, che sospendono il normale corso della legalità e della costituzionalità e anche i diritti fondamentali dell'uomo. In Italia già successe così i con le leggi speciali del 1938, varate per colpire gli ebrei.
Mercoledì sera il governo Prodi ha varato le leggi speciali che autorizzano la persecuzione dei romeni al di fuori delle vie ordinarie del diritto. Non solo dei romeni sospettati di qualche reato, ma anche dei loro familiari. Esistono, come vedete, tutte le caratteristiche della deportazione. Che viene decisa dal prefetto, cioè da un funzionario del governo, sulla base della sua discrezionalità. La magistratura è esclusa, cioè lo Stato di diritto subisce una sospensione, dovuta all'emergenza - questa è la motivazione ufficiale - e che riguarda solo alcune categorie di persone (cioè alcune nazionalità).
Ieri si giunti anche al secondo atto della persecuzione. Orrendo, odioso. Le autorità hanno deciso che la risposta giusta al delitto è passare con le ruspe e abbattere i villaggi dei rom che si trovano a Tor di Quinto sulle rive del Tevere. Era da molti decenni che in Europa e nell'occidente non si assisteva a qualcosa del genere: villagi spianati per vendetta, dallo Stato, come risposta a un reato. Scene di guerra, oppure di Far West. Ad aggravere la situazione, che è molto preoccupante - si delinea un clima barbarico - sono venute le ronde organizzate dai gruppi di destra.

Liberazione 12.11.07
Gli editoriali accorati per un paese che ha smarrito il senso delle cose
di Antonella Marrone


Le "sagge" parole di scrittori ed intellettuali portano a ragionare su quanto i romeni siano cattivi, ai primi posti nella graduatoria della delinquenza italiana
Editorialisti, e il senso delle cose?

Alle 22.44 di martedì sera le agenzie battono la notizia di una giovane picchiata e gettata in un fosso in via della Stazione di Tor di Quinto a Roma. «La vittima potrebbe essere una nomade», è scritto. La vittima era Giovanna Reggiani, invece. E quella notizia era già sui giornali, nelle pagine di cronaca (sul Corriere della sera come su Repubblica e sul Giornale ) l'altro ieri, con le venti righe di rito per una "nera" come tante. Come tante notizie e come tante donne che vengono picchiate e violentate per strada. Più spesso a casa. Ma questo lo sapete, ormai. Noi invece ci chiediamo: se quella donna trovata nel fosso, seviziata, derubata, infine morta, fosse "rimasta" la nomade delle venti righe in cronaca? Avremmo avuto gli accorati editoriali di ieri? Le sagge parole di scrittori ed intellettuali che portano a ragionare su quanto i romeni siano cattivi, ai primi posti nella graduatoria della delinquenza italiana? Forse sarebbe rimasto un banale episodio tra "nomadi". Povera ragazza romena che viene qui e poi la mettono a battere e tutti i bravi italiani che hanno una paura fottuta dei romeni, ci vanno a letto, se la spassano e se ne fregano che magari non è neanche maggiorenne. Che si scannino tra di loro. Noi qui abbiamo bisogno di serenità, sicurezza. Anzi, usiamo le parole che ha usato Vincenzo Cerami, scrittore, sceneggiatore, autore di quel «borghese piccolo piccolo» che all'epoca (1976) aveva una certa idiosincrasia per la legge ed era invece incline alla giustizia fai da te. Scrive Cerami nell'editoriale del Messaggero - dal titolo ormai compulsivo nell'area centrista-sinistra di questo paese, "Fine della tolleranza" - : «La verità è che bisogna cambiare davvero registro. Occorrono messaggi chiari.... e l'applicazione certa della pena per chi tocca il nervo scoperto del vero allarme sociale italiano. Quello che investe il diritto alla sicurezza, alla serenità e dunque alla vita». Alla vita, già. Basta guardare dove e come "vive" la maggioranza delle comunità romene nel nostro paese, che cosa sono le baraccopoli e si capisce che anche "vita" è un concetto relativo. La sicurezza e la vita sono solo per noi. Gli altri che si scannino tra loro. Le foto delle baracche a Tor di Quinto, quella in particolare dove viveva l'uomo aggressore, dicono questo. Ora, in 48 ore devono andarsene da lì. Verranno spazzati via e dovranno ricostruire le loro baracche di cartone da un'altra parte. Poi saranno cacciati anche da quell'altra parte e così via. Fino a quando non sarà finita la grande caccia. Che prevede espulsioni e chirurgici pacchetti sicurezza. E' morta una donna, è morta per violenza. Nessuna "deportazione"di genti e di popoli potrà restituirla alla famiglia. «Non c'è più tempo», tuona l'Unità e affida all'impressionistica prosa di Vincenzo Vasile l'editoriale che ci regala una delle immagini più pulp della rassegna stampa di ieri: «Come succede sempre più spesso non solo a Tor di Quinto, non solo a Roma ma soprattutto nelle grandi città italiane che funzionano come il miele per le mosche di uno sciame incontrollato che viene dall'Est di Europa. E in specie dalla Romania».
Leggendo gli editoriali e commenti di ieri, abbiamo appreso dalla equilibrata penna di Miriam Mafai, su La Repubblica , che: «I più recenti drammatici fatti di cronaca fino alla terribile violenza di cui è stata vittima una donna sequestrata e torturata alle otto di sera in una stazione romana, sono dunque riconducibili a questa nuova, feroce criminalità giunta nell'ultimo anno dalla Romania nel nostro paese». Eppure provate a chiedere a qualcuno, anche a un lettore quotidianamente bombardato dall'emergenza sicurezza, di ricordare un efferato caso di cronaca recente. Chi non risponderebbe Erba o Garlasco? O lo zio stupratore nel napoletano? O il delitto maniacale di Sanremo? O il piccolo Tommy? Non si tratta di cadere in quello che Mafai chiama un antico tabù della sinistra, ovvero essere «più attenti alle ragioni, alle miserie e alle difficoltà di chi delinque che alle ragioni e ai diritti delle vittime». Questo "tabù" è in realtà una garanzia di vita per chi non è "vincente", è "temperanza" verso quella pericolosa azione "autoritaria" che spinge il forte, il garantito, a regolare la convivenza secondo i propri istinti. Quel tabù è sinonimo di tanti valori che oggi nessuno "predica" più. Perché, semplicemente, molto semplicemente, di fronte ai commenti e agli editoriali di ieri, ci sembra che nessuno sia più «attento » a quelle ragioni e che tutti si affratellino in un unico pensiero dominante. Editoriali accorati per un paese che ha smarrito il senso delle cose. Nessuno si pone un dubbio. Nessuno pone la questione che, forse, un Consiglio dei ministri straordinario si convoca per un attacco aereo e non per un fatto di ordinaria cronaca, per quanto efferato. Titoli, occhielli e sommari non si sottraggono alla parola romeno - che invece negano al morto sul lavoro - come se un maschio che sevizia una donna ha connotati diversi a seconda del paese d'origine, come se quella orrida stazioncina di Tor di Quinto non fosse tentatrice, riparatrice, anche per aggressori italiani. E se fosse stato così? Ha fatto bene il Secolo d'Italia che ha titolato, magistralmente: «Orrore sotto casa» e il fatto che il maschio aggressore sia straniero, romeno, si scopre leggendo il pezzo, alla riga 12. Ma, come dice l'Unità, in effetti non c'è più tempo. Non c'è più tempo per nascondersi dietro le emergenze, non c'è più tempo per crogiolarsi nelle nostre aree protette. Diceva ieri Nichi Vendola che nelle periferie metropolitane, per aumentare la sicurezza, ci sarebbe bisogno sì di un esercito, ma di lampioni e di asili nido. E' tempo di mettere su questo esercito e non altri.

Liberazione 12.11.07
«Sporca domanda, ma andava fatta»
I promotori del 20 ottobre alle prese col quesito posto da Liberazione alla sinistra: perché stare ancora nel governo?
di Checchino Antonini


E 'una "sporca" domanda. Ma qualcuno doveva pur farla. Perché restiamo in questo governo? Scomoda, cattiva, difficile ma per nulla inopportuna, secondo i promotori del corteo del 20 ottobre, dodici giorni fa ma bastanti per una nuova serie di delusioni e strappi dalla parte moderata dell'Unione alla sua sinistra. Alla faccia del milione di persone che ha attraversato Roma quel sabato.
Risposte telegrafiche, in alcuni casi, o più articolate in altri, quelle incassate da Liberazione nella rapida consultazione telefonica, in rigoroso ordine alfabetico, ma quasi mai choccate dalla franchezza del quesito a sei colonne sul giornale di ieri. «Limitiamo i danni e prepariamo tempi migliori - risponde Gianfranco Bettin , consigliere regionale dei Verdi in Veneto - ma questa è solo l'opinione dell'ottimismo della volontà... Poi c'è il pessimismo della ragione». E i tempi migliori sono affidati al cantiere comune della sinistra.
«Perché restiamo?», Lisa Clark , pacifista fiorentina, non ha dubbi: «Perché c'è ancora, nonostante tutto, lo spazio per fare le cose: con Sbilanciamoci, la campagna di centinaia di associazioni e ong, abbiamo spulciato la Finanziaria e qualcosa s'è ottenuto. Certo, sono più le critiche delle note positive». Sulla stessa linea Tonio Dall'Olio , di Libera. «Gli spazi non sono molti, mi rendo conto, i fatti sembrano dar ragione ai pessimisti. Ma, dall'osservatorio di Libera, mi rendo conto che c'è un'interlocuzione che altrimenti sarebbe impossibile». E fa due esempi («su cui attendiamo delle risposte, noi siamo mendicanti di dialogo»). «Il 2 ottobre, incontrando Prodi, il direttivo della Tavola della Pace ha proposto un tavolo permanente sulle politiche internazionali e Luigi Ciotti a Cagliari e di fronte a due ministri (Ferrero e Turco), ha chiesto ufficialmente di includere il mondo del volontariato nei tavoli di concertazione. Non ci sono risultati, è vero, ma oggi mi serve creare i presupposti per i risultati».
L'impasse della commissione sul G8 del 2001, a detta di molti interlocutori, ha fatto crollare «la fiducia già tenue», come dice Antonio Ferrentino , sindaco No Tav di Susa, che tuttavia esorta a far passare la Finanziaria «importante» e a costruire la Sinistra «prima, eventualmente, di mandarlo a casa, perché oggi, un governo tecnico o di larga intesa, è quello che si profilerebbe, non sarebbe né utile, né opportuno. Provare ancora a capire se si possono attuare pezzi di progranmma - avverte - e utilizzare questo tempo per capire come sarebbe grave presentarsi divisi alle prossime elezioni».
«Domanda cattivissima ma che io mi faccio sempre», esordisce Aurelio Mancuso , presidente nazionale di Arcigay: «Per quanto mi riguarda la sinistra politica non è ancora riuscita a porre la questione dei diritti civili. Forse perché non la ritiene una questione fondamentale. Noi, la sinistra sociale, la marcia del 20, abbiamo posto questioni di sofferenza ma è evidente che non stanno nell'agenda politica. Ed è questo il grave». Anche Lea Melandri , docente e femminista milanese, si iscrive al partito dei più drastici cogliendo l'elemento di novità rappresentato dalle dichiarazioni di Veltroni e dall'azione del governo, alla notizia della donna seviziata a Roma. «Dopo aver sentito Prodi, Veltroni, Napolitano, ho pensato: questi non li voterò mai più. Ieri sera hanno passato la misura, ho pensato che è iniziata l'era veltroniana, è un segnale del futuro, ho pensato che con questa coalizione è difficilissimo andare avanti, penso davvero che l'era veltroniana ha ben poco da dirci con tutto quel populismo, con il suo autoritarismo, è una cosa molto violenta, intollerante, dove non c'è partecipazione non si possono tenere aperti conflitti». «E' vero, Veltroni non farà sconti - le ribatte Bianca Pomeranzi , della Casa internazionale delle donne di Roma - e trovo giusta la vostra riflessione. Ma uno strappo così forte...». Così rigira la domanda: «Lo dobbiamo far cadere noi? Pensiamoci. Io ci penso. Certo, la forza del 20 ottobre non va dispersa, allora che entri in dialogo con le forze della sinistra alternativa perché una decisione di questo tipo ritiene di essere compresa e condivisa a tutti i livelli». «E' una domanda naturale, cui si può rispondere in tanti modi per ragioni tattiche, ma che sorga almeno l'interrogativo», incalza Marco Revelli , sociologo torinese, scosso «soprattutto dopo la questione del G8: non se è maggiore la depressione o la rabbia, in quell'occasione è stata praticata la tortura e non si riesce a varare una cosa che doveva essere varata il primo giorno! Si può anche rispoondere che non ci sono alternative. Non è la mia risposta, ma la domanda andava posta».
Anche Carta, nella versione on line, aveva sollevato il problema sulla scia della bocciatura della commissione del G8, «prima ancora dell'orrenda sceneggiata propagandistica e razzista sulla pelle della donna aggredita - ricorda il suo direttore, Pierluigi Sullo - lo dice anche il Corsera che si tratta di prove di leadership. Mi domando allora perché i ministri della sinistra radicale hanno votato il dl. Capisco il ragionamento politico per cui bisogna che il governo lo facciano cadere gli "altri". Ma ci sono temi su cui si rischia di tradire sé stessi. Questo vale per Genova e anche per quel decreto. Adesso siamo arrivati a un dunque».
E' proprio la risposta di Aldo Tortorella quella esclusa da Revelli. Tortorella, figura storica del Pci, poi all'Ars, associazione per il rinnovamento della sinistra, sarà il più lapidario: «Perché sennò ne viene uno peggio. Punto. La lotta politica è fatta di colpi che si danno e che si prendono». Per esempio? «Per esempio l'affermazione della necessità di affrontare il problema del precariato che oggi nessuno mette più in discussione». Storico e parlamentare del Pdci, Nicola Tranfaglia , lo segue sulla medesima lunghezza d'onda: «Siamo convinti che qualsiasi governo espresso dal centro sinistra sarebbe peggio di quello attuale. Noi che ci prepariamo alla confederazione siamo essenziali al centrosinistra e cercheremo di cambiare il protocollo del 23 luglio in una battaglia parlamentare. Il sostegno critico continua». Fino a quando?

Liberazione 12.11.07
La Sinistra si deve mettere in grado presto, da subito, di attivare organismi di base unitari
capaci di forte iniziativa politica nei territori per arginare lo spostamento a destra dell'asse politico
Il governo? Sarebbe un errore lasciare il campo
di Salvatore Bonadonna*


Non ci sono domande proibite; se ci fossero, farei fatica a definirmi di sinistra. Quella che Piero Sansonetti pone a seguito di constatazioni e contestazioni inoppugnabili, è tutt'altro che proibita; se non altro perché se la pongono/ce la poniamo in tanti. Le risposte, la metodologia per una risposta all'altezza della domanda, sembra suggerirla Piero stesso con la scelta, di raffinata intelligenza, di affiancare alla sua nota la splendida poesia di Montale.
Non ho "la formula che mondi possa aprirti", ma proverò con "qualche storta sillaba e secca come un ramo" a ragionare sul perché, secondo me, è necessario e vale la pena restare ancora nel Governo. In questo governo e in questa maggioranza, che Sansonetti descrive con vivo realismo, la Sinistra rappresenta la contraddizione. E' legittimo domandarci se questa risposta è vera e, se dovessimo concludere che non lo è dovremmo trarne le coerenti conseguenze politiche. Siamo dentro una spirale che si avvita dietro proposte reazionarie che si inseguono e rimbalzano da Sindaci a Ministri, da rappresentanti del centrodestra e del centrosinistra. Le forze cosiddette moderate fanno a gara a proporsi come strumento delle politiche delle imprese e del mercato. Può apparire paradossale, ma la preoccupazione di tutte queste forze è quella di fermare, impedire, rallentare, vanificare, le ipotesi, le proposte, le linee di azione sulle quali la sinistra ha costruito la propria partecipazione all'Unione. Dini minaccia di non votare la finanziaria perché si avvia un processo di stabilizzazione di precari. A leggere il Sole 24ore, sembra che la sinistra stia imponendo la rivoluzione sociale perché non vuole i tiket e sostiene le imprese che investono nel Sud o perché chiede che gli artigiani che formano apprendisti non siano trattati come gli altri imprenditori che usano lavoro precario e a termine. Però, anche leggendo i giornali in qualche pausa dei lavori terribili sulla finanziaria, non si sfugge alla sensazione che queste forze politiche moderate si muovano senza un vero progetto; si incontrano e si scontrano sul filo dell'acquisizione del potere; si frammentano al loro interno; si inviluppano in ipotesi sempre più autoritarie. Non sanno dirigere e vogliono comandare!
In questo quadro, questa sinistra, per quanto incerta e ancora frammentata, costituisce un soggetto ingombrante che non a caso intendono rimuovere e possibilmente cancellare dalla scena politica. La manifestazione del 20 Ottobre non ne ha soltanto certificato la esistenza in vita ma ha fatto registrare, anche ai più riottosi, che è capace di proteste e di proposte che vanno oltre la dimensione economico corporativa dei Protocolli sindacali e pongono una ineludibile domanda di riforma della politica e della società.
Peraltro, i poteri forti, quelli veri, in nome dei quali le forze impegnate nell'avventura del Partito Democratico hanno condotto e conducono la offensiva contro questa sinistra accusata di conservatorismo, di insensibilità alle ragioni del risanamento finanziario, di attentare con le rivendicazioni sindacali alla vita delle imprese, compiono uno scarto tattico che produce un effetto di spiazzamento da non sottovalutare per gli effetti immediati e gli sviluppi che può produrre. Il Governatore della Banca d'Italia dice che sarebbe meglio eliminare il fiscal-drag piuttosto che ridurre l'ICI; dice che i salari sono bassi e il mercato interno langue; che i mutui bancari e il credito al consumo stanno strozzando le famiglie. Gli industriali, magari con l'obiettivo di squassare il sistema contrattuale, elargiscono piccoli aumenti salariali e Montezemolo, che sulla competitività sul costo del lavoro ha impostato la sua direzione confindustriale, è costretto a dar fuori di matto con l'antipolitica per coprire il vuoto di strategia di politica industriale sua e della sua organizzazione. Il segretario della CGIL, passata l'euforia del referendum, si rende conto che i buchi del protocollo sul Welfare sono tanti e non basta un tentativo di stretta contro il dissenso e la Fiom per occultarli. Anche Epifani deve riconoscere che è aperta una grande questione sociale fatta di bassi salari e di diritti al lavoro e nel lavoro che si indeboliscono. Certo Banca d'Italia e Confindustria, anche con il cambio di tattica, si muovono su una direttrice alternativa a quella che la sinistra propone; ma, nella sostanza, sono costrette ad ammettere che non era infondata la denuncia della sinistra e la critica alla politica deflattiva. Per percorsi contorti, anche ascoltati economisti editorialisti del Corriere approdano a valutazioni analoghe anche se poi perseguono il disegno del Governo dei tecnocrati. Il sindacato, a partire dalla CGIL, non può pensare di risolvere il problema del suo ruolo e della sua autonomia aprendo uno scontro con la sinistra politica finendo subalterno alla logica tendenzialmente totalizzante del nuovo partito "a vocazione maggioritaria". La sorte del Governo Prodi, non a caso, è sottoposta ai ricatti e alle intimidazioni dei centristi con l'obiettivo di mettere la sinistra non solo fuori dal Governo ma fuori dalla politica.
Lo stare nel governo, in queste condizioni, può rappresentare una condizione in più rispetto alle altre che ci sono o che bisogna determinare, al più presto, con la costituzione del soggetto unitario e plurale della sinistra. Una condizione in più se non si considera il governo un fine ma un mezzo. Se lo starci serve a costituire il cuneo che impedisca al pensiero unico che domina la scena economica e culturale di chiudere la porta e mettere fuori dal campo della battaglia sociale e delle idee, le forze portatrici di un progetto di alternativa di società. Non c'è dubbio che è aperta nel campo moderato una lotta di linea e di potere; dentro la Casa delle Libertà e dentro l'area che comprende i centristi e il Partito Democratico; e dentro lo stesso PD malgrado il piglio Veltroniano. Fare i conti con la sinistra d'alternativa costituisce un nodo ineludibile, una contraddizione da risolvere per chi ambisce a costruire un modello di società a dimensione interclassista dove il lavoro sia merce e solo merce senza la pretesa di esprimere una soggettività politica autonoma. Perché mai la Sinistra dovrebbe facilitare il compito ritraendosi sdegnata ed indignata, come avrebbe motivo di fare, e non invece continuare ad alimentare e far crescere ed agire il suo essere contraddizione?
Mi pare legittimo chiedersi se ce la farà; ma sarebbe un errore lasciare il campo. La manifestazione del 20 Ottobre ha dimostrato che la presenza della Sinistra nel Governo non è motivo di attenuazione della combattività. La Sinistra si deve mettere in grado presto, da subito, di attivare organismi di base unitari capaci di forte iniziativa politica nei territori per contrastare lo spostamento a destra dell'asse politico. In questo senso non esaurire nella sfera istituzionale e governativa il proprio ruolo e la propria iniziativa. Gli Stati Generali della Sinistra, o comunque si chiamerà la prossima riunione di tutte le forze, debbono andare oltre il "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo" per far si che la domanda di Sansonetti resti (proibita).
* Senatore Prc-Se