domenica 4 novembre 2007

l’Unità 4.11.07
Fermiamo subito l’odio razzista


Dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani e i raid fascisti è allarme xenofobia
D’Alema: squadrismo indegno. Anche il governo di Bucarest protesta
Intervista a Mastella: la destra soffia sul fuoco. Folla ai funerali della donna
È allarme razzismo. Il pestaggio dei tre rumeni, come assurda «vendetta» per l’uccisione di Giovanna Reggiani, rischia di non rimanere un episodio isolato. «Faremo di tutto - annuncia il vicepremier Massimo D’Alema - per fermare la criminalità ma anche per combattere lo squadrismo razzista, una cosa indegna per il nostro Paese». Ma i gruppi fascisti non smettono di fare proclami bellicosi. Ieri il prefetto di Roma ha vietato la manifestazione organizzata per oggi da Forza Nuova. In un’intervista a l’Unità, il ministro Mastella chiede alla destra di smettere di soffiare sul fuoco e di collaborare all’approvazione del decreto sicurezza. Una grande folla ha partecipato ai funerali della donna.

l’Unità 4.11.07
Razzismo Rom Rumeni
Xenofobia. Gli italiani e le tre erre

di Rosetta Loy


Razzismo Rom Rumeni. Tre erre che sintetizzano il nero avvoltoio che agita in queste notti il sonno degli italiani. La peggiore, lo dico subito, mi sembra la prima che vede nel diverso, nello zingaro (come suona stranamente antiquata questa parola) il nemico numero uno, più pericoloso del camorrista o del mafioso che «incapretta» la sua vittima o la dissolve in una colata di cemento. E subito dopo, quasi per derivazione genetica, individua nel «rumeno» il suo equivalente. Forse in questi anni ci siamo perduti troppo appresso al nostro particolare, alle lotte intestine della politica nazionale, alle correnti, agli scandali, sempre più lontana e remota la nostra cattiva coscienza nei confronti del «diverso». Abbiamo dimenticato il nostro girare la testa dall’altra parte quando i «cittadini di razza ebraica» furono cacciati dalle scuole e dagli uffici (pubblici e non solo); e nel ’46 (o forse era il ’47, non ricordo) sotto l’etichetta di «italiani brava gente», ci siamo riabilitati tutti in blocco con una vasta amnistia.
Dimenticando non solo la generale indifferenza con cui erano state accettate le orrende leggi razziali (e i profittatori che si erano arricchiti alle spalle degli «untermenschen») ma anche dell’indiscriminato massacro della popolazione locale durante la «gloriosa» conquista dell’Etiopia dove i somali e gli eritrei venivano raffigurati con gli anelli al naso e il gonnellino di paglia.
Nessun esame di coscienza, nessuna educazione scolastica. Persino i ragazzi che oggi sono all’Università, salvo pochi, sanno quale è stato il comportamento dei loro nonni nei confronti del «diverso» (ma anche del «simile» perché gli ebrei erano italiani a tutti gli effetti, e gli ebrei del Portico d’Ottavia più italiani dei piemontesi o dei calabresi perché vivevano già a Roma al tempo di Augusto). Si è preferito «dimenticare» e «guardare al futuro», senza capire che senza una coscienza della Storia alle nostre spalle anche il futuro finisce per traballare.
La morte di Giovanna Reggiani in quella stradina oscura di una «toppa» di periferia in pieno degrado, è un dolore collettivo forte, una violenza che colpisce tutti noi, e mi è sembrata straordinaria, e vorrei qui sottolinearla, la reazione della famiglia che ha subito detto che non andavano criminalizzati i cittadini rumeni. Anche se stranamente questa reazione così profondamente civile è stata scarsamente recepita, come se dovesse venire subito travolta dall’indignazione collettiva.
Mostruoso mi è apparso al contrario il raid dell’altra sera fuori il supermercato di Tor Bella Monaca. Organizzato in gruppo con un apparato da Klu Klux Klan: dieci ragazzi muniti di passamontagna e bastoni contro quattro uomini inermi con le mani occupate dalle borse della spesa, spesa acquistata con i soldi sudati su un lavoro di sicuro sottopagato. Perché se i «rumeni» vivono in baracche di lamiera e cartone non è per amore del degrado (avete mai provato a lasciare una sedia rotta e un tavolino traballante accanto a cassonetti della nettezza urbana in periferia? E controllato in quanto breve tempo spariscono?) ma perché devono sottostare all’arbitrio di datori di lavoro di scarso scrupolo e granitica sicurezza di impunità. Io li vedo, i «rumeni» ogni mattina sotto il cavalcavia dell’Olimpica a Tor di Quinto in attesa che qualcuno li ingaggi; e delle volte sono ancora lì ad aspettare a mezzogiorno, le mani in tasca. Allora chi è più colpevole, l’italiano «brava gente» o il rumeno fatto sgomberare in quattro e quattrotto con le sue sedie e il materasso recuperato fra i rifiuti, costretto a mimetizzarsi in baracche indegne di un paese civile lungo le sponde di un fiume ingombro di immondizia?
Senza dimenticare che a chiamare aiuto perché venissero in soccorso della signora scaraventata nel breve dirupo a ridosso di quella maledetta stradina, è stata una donna rumena. E con grande coraggio ha detto nome e cognome del colpevole.

l’Unità 4.11.07
Delitto e castigo
di Furio Colombo


Appena il tempo di improvvisare discorsi irresponsabili da parte di Fini e Berlusconi, e subito le squadre di picchiatori mascherati sono entrate in azione come se fossero mosse da un’incontenibile indignazione per un evento atroce appena accaduto. Invece quel delitto è solo un pretesto. Con maschere e bastoni (per ora solo bastoni) erano già pronti. Ed erano pronti anche i discorsi irresponsabili di due che hanno già governato per cinque anni e fino a poco fa, e sono stati quasi sempre impegnati a danneggiare le istituzioni, spiare gli avversari politici, senza lasciare una traccia di civiltà umana e politica.
Le loro migliori energie sono state investite nelle Commissioni d’inchiesta Mitrokhin e Telecom Serbia, dotate di fondi copiosi, di testimoni chiave incriminati per calunnia e di clamorosi delitti internazionali (il caso Litvinenko). Ricordate una Commissione del passato governo che abbia mai lavorato su legalità e integrazione degli immigrati?
Ma rivediamo i dolorosi eventi di questi giorni e cerchiamo di capire perché non riusciremo a uscirne con dignità, civiltà e realismo.
* * *
Al centro della scena c’è un episodio spaventoso. Soltanto il massacro di Erba è così orrendo, o quello del piccolo Samuele, o la strage di Novi Ligure, o lo scempio della ragazza di Garlasco. Oppure, tornando indietro nel tempo, la mattanza a cui è scampata per caso al Circeo Donatella Colasanti, e il più recente crimine provocato dal suo mancato assassino di allora, Angelo Izzo, di nuovo assassino, di nuovo in carcere.

E la spaventosa messa a morte di Pasolini, lo scioglimento nell’acido del figlio dodicenne di un pentito di mafia. Tutto ciò scatena una impressione altrettanto grande: ferocia, follia. E provoca lo stesso strenuo desiderio di giustizia e di punizione.
Questa volta però intorno alla scena c’è un Paese spaccato. Una parte politica chiede vendetta contro l’altra. Ciò che è accaduto in una buia, maledetta stradina di Tor di Quinto a Roma, una signora italiana massacrata da un vagabondo rumeno mentre rincasa - è un delitto politico.
Infatti non è lo spaventoso abbattersi della bestialità di un essere umano che fa scempio di un altro essere umano, come accade da millenni lungo il percorso di immenso pericolo che chiamiamo vita e che è frequentato da una folla di Abele e Caino, non identificati fino al un momento in cui scatta il delitto.
No. Benché ci sia sangue vero, dolore vero, vera disperazione, tanto più grande quanto più è evidente la squallida e solitaria abiezione dell’assassino di Tor di Quinto, inerte agente di morte caduto come un masso dell’autostrada sulla povera vittima, nonostante tutto ciò, viene furiosamente invocato il teatro dei simboli. Un macabro sventolio di bandiere che non c’entrano col dolore, l’orrore, il pericolo, si mette in marcia accanto al cadavere di una signora morta ammazzata alla periferia di una grande città del mondo.
È un’armata agguerrita che parte dalla disgrazia-delitto, dalla spaventosa e generale angoscia e umiliazione e disorientamento per la bestiale natura dell’evento. Ma il corteo non si muove per recarsi sul posto e alleviare il dolore, non si muove per unirsi ad altri cortei che tentano, con sforzo, speranza, preghiera, di diminuire sia il pericolo che il senso del pericolo. Non si riunisce per pensare una strategia (umana, dunque imperfetta, dunque quasi impossibile però necessaria) per limitare un po’ il cerchio della percezione del rischio, per allargare lo spazio in cui ci si sente un po’ più sicuri. No, queste bandiere garriscono e questa folla è in marcia, senza badare alla signora assassinata, al dolore della famiglia. Sono qui riunite al solo scopo di abbattere il governo Prodi.
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È un obiettivo modestissimo, a confronto col cadavere martoriato. Non tanto perché si presta alla domanda-ritorsione: avete governato fino a un momento fa con una specifica e celebrata legge sulla immigrazione, avete governato per cinque anni, «36 riforme, 12 codici» (cito Berlusconi nel comizio di Napoli) e con una larghissima maggioranza. Dove eravate quando persone come il presunto assassino di Giovanna andava, veniva, tornava? Dove sono le vostre “misure” salvavita dei cittadini, di cui non si trova traccia?
Una simile domanda sarebbe altrettanto meschina quanto la marcia squallida e inutile delle bandiere della vendetta. (E non stiamo neppure parlando di quel nodo di odio che è la vendetta intesa come lavacro, dunque morte in cambio di morte; ma di vendetta politica: dare l’assalto a un governo perché un cadavere è una buona occasione). Una simile domanda è altrettanto meschina per due ragioni.
La prima è il rispetto che bisogna avere per le parole pronunciate accanto alla donna morente, con immensa nobiltà, dalla madre e dal marito della vittima: «Siamo gente capace di distinguere. Sappiamo bene che rumeni, rom, gli stessi italiani non sono tutti uguali. Quello che è stato fatto a Giovanna poteva essere compiuto anche da uno del nostro Paese. Siamo preoccupati che si faccia di tutta un’erba un fascio e che quanto accaduto possa essere strumentalizzato».
La seconda ragione è che l’emergenza, che è nei fatti ma soprattutto in quel fenomeno potentissimo che è la percezione dei fatti, può essere fronteggiata con efficacia e con decenza solo da un Paese unito, ovvero da tutti coloro che sono responsabili sia di guida politica che di guida d’opinione di un Paese, affinché si blocchi la tentazione non nobile di usare i cadaveri come strumento di lotta politica. Affinché ci si renda conto che il gioco delle parti (una buona, una cattiva) in casi e momenti come questo è sterile, paralizzante. Serve alle manifestazioni, serve come anticipo di una campagna elettorale. Ma non serve all’angosciosa richiesta (che coinvolge sia i cittadini sia gli immigrati) di essere - o almeno di sentirsi - un po’ meno in pericolo.
In questo momento i cittadini, con il loro disorientato stordimento, invece di diventare target di spot elettorali, dovrebbero diventare partecipi di un più vasto e civile progetto in cui non si scacciano gli immigrati come nemici, non si bastonano come prede di una caccia selvaggia, ma si affronta tutta la criminalità, italiana e importata, come un immenso problema comune. Tutto ciò richiede dimensioni che per ora non si intravvedono nella vita pubblica italiana. Tutto ciò richiede una generosa e civile capacità di dire: il dolore è più importante della bandiera. E i cittadini vengono prima dei punti da segnare per un partito.
* * *
Tutto ciò - è bene ricordarlo - avviene nel Paese disastrato Italia, sul fondale in un mondo in pericoloso sbandamento economico, mentre crepe allarmanti si intravvedono in strutture economiche internazionali che abbiamo sempre immaginato come pilastri. Le Borse del mondo continuano a cedere, il costo del petrolio continua a salire.
Tutto ciò avviene sul fondale di strani venti di guerra, raffiche di vento gelido che spazzano via attese e speranze di pace fra l’influenza americana e quella russa. Vengono pronunciate frasi come l’annuncio di impianto di “scudo spaziale” di Bush ai confini della Russia e l’affermazione di Putin che paragona questa minaccia alla crisi dei missili di Cuba. Entrambi descrivono un mondo fuori equilibrio, sbilanciato sul bordo di zone oscure, da cui possono venire soltanto rischi più grandi.
Tutto ciò avviene mentre nessuno dei focolai di guerra già accesi nel mondo si è spento (Iraq, Afghanistan), mentre il Medio Oriente resta accanto a tutti i suoi pericoli, intatti e moltiplicati. Si vede il martirio della Birmania, tormentata e depredata per decenni dai generali; riprende il terrore in Somalia, ormai terra senza governo disputata fra bande; continua il genocidio che dura da anni in Darfur, regione del Sudan, vittime, a centinaia di migliaia, donne e bambini.
Tutto ciò avviene all’interno di un’Europa senza luce e senza fiducia, con una moneta - l’euro - troppo forte e governi troppo deboli. Ha un volto pallido questa Europa, difficile da identificare, senza cause o progetti o ragioni di impegno, il volto di qualcuno desideroso di stare alla larga dai grandi problemi. Alla larga anche da un problema grande e urgente come l’immigrazione, e il modo in cui farlo fluire, sapendo che è una ricchezza, senza farsi inondare. L’Europa distribuisce ai suoi membri regole automatiche di comportamento che negano la Storia. Pensate a questa, tanto cara alla Casa delle Libertà, al solo scopo di spingere alla frantumazione fra destra e sinistra dentro la maggioranza di Prodi: «Espulsioni per chi ha commesso reati. E anche per chi non ha fonti certe di sostentamento». La seconda parte della disposizione è staccata dalla realtà per molte clamorose ragioni.
Una è che anche i giovani cittadini europei - certo i giovani italiani - trascorrono anni in cerca di “una fonte certa di sostentamento”. E, per esempio, ne risulterebbe privo il giovane immigrato individuato come “senza lavoro” mentre è impegnato, con mille sacrifici, nel tentativo di dar vita ad un’impresa. Ma come non pensare che, con una simile regola, sarebbero stati espulsi dagli Stati Uniti Garibaldi e Meucci (mentre tentavano di sopravvivere a Staten Island, periferia di New York, fabbricando candele) e le famiglie povere Cuomo e Scalia, molto prima che un Cuomo diventasse governatore di New York e uno Scalia diventasse giudice della Corte Suprema americana?
Ecco dove dovrebbe finire il gioco un po’ macabro del lucrare politicamente su un grave e impressionante delitto. Nella grande responsabilità comune. Eppure credo di poter predire ai nostri lettori che il giorno 5 novembre alle ore 17, noi, maggioranza (con l’angosciosa speranza di restare maggioranza) entreremo in aula al Senato per ascoltare, fin dal primo minuto e per ogni ora e giorno di seduta, il lungo urlo, colmo di insulti, che la Casa delle Libertà e i partiti associati chiamano opposizione. E niente altro.
Quanto alla sicurezza, avremo un diluvio di informazioni sulle colpe di Veltroni, di Amato, di Prodi. E non una parola su un realistico, civile «che fare». Il delitto è ciò che è accaduto a Tor di Quinto, un delitto tremendo. Il castigo è non avere una opposizione normale. Per questa triste ragione il delitto continua.

l’Unità 4.11.07
Rumeni a Roma, la grande Paura
di Vincenzo Vasile


«Noi, rumeni nel mirino. Per paura ci fingiamo bosniaci»

«Qua. Sali qua, giornalista. E guarda dietro al bar della stazione. Vedi quella seduta per terra? …è madre di Romolus, quello che ammazzò donna italiana, …almeno dicono che l’ammazzò, ma non si sa se questo è vero». Perché Nicolae Romolus Mailat era «dilu» che in lingua rom significa «matto», e i matti non sanno quel che dicono e quel che fanno. E nemmeno effettivamente si sa «se questa è la vera madre. Stamattina era lei la prima della fila per l’autobus che porta in Romania».
«Diceva: paura, paura. E si lamentava di essere rimasta senza soldi, e li chiedeva a noi, che non ne abbiamo». Ore 13, Roma, stazione Tiburtina. È uno snodo locale di trenini di pendolari da e per il Lazio. Mentre il piazzale a ridosso della stazione propriamente detta è il grande capolinea di centinaia di pullman diretti in altre città d’Italia e anche all’estero. Le biglietterie per questo servizio sono dislocate nei negozi che costeggiano lo spiazzo. Vi si formano comunemente durante la giornata tante, diverse «code» che nel fine settimana di solito si diradano.
Invece, in questo week-end da qui continuano a partire alla volta della Romania e di altri paesi dell’Est molte super-corriere: automezzi che dimostrano i loro anni, e a prima vista non li diresti capaci di attraversare mezza Europa. E per capire quali siano i rumeni in fila per partire, per scappare da un paese che sentono essere divenuto improvvisamente ostile, ieri bastava cercare la fila della gente più malmessa e dolente, con lo sguardo più impaurito e inquieto. Si vedevano, trascinati sui marciapiedi, alcuni vecchi passeggini per neonati e carrelli di supermarket carichi di vestiti e di povera mobilia. «La fuga è iniziata l’altro giorno, subito dopo la notizia del massacro di Giovanna Reggiani; ora in verità la fuga s’è molto ridotta. Con quel pullman che si vede laggiù oltre il viadotto sono partiti poco più di una decina».
Ora, cioè all’indomani dell’assalto razzista nel parcheggio del supermercato della Casilina, dunque, l’osservatorio privilegiato della stazione Tiburtina indica un certo calo, anziché un’accentuazione dell’esodo di massa dei rumeni «autoespulsi» per paura. «Quelli che sono subito scappati via - spiega Nicolae, edile in "nero" da tre anni, ininterrottamente passati a Roma - erano in preda all’angoscia per paura del decreto». Perché in caso di espulsione, «al ritorno in Romania ti sequestrano il passaporto, e non puoi più ripartire», mentre ormai da tanti anni, ancor prima dell’entrata del loro paese in Europa, migliaia di famiglie rumene abitualmente e periodicamente «passano alcuni mesi» della loro vita nell’Europa di serie A. Di primo acchito si direbbe che l’aggressione squadristica non ha, dunque, provocato - come si poteva temere - un aumento febbrile di questo flusso migratorio all’incontrario: l’episodio scava semmai più nel profondo dei cuori, nei sentimenti della gente, all’apice di tanti convergenti segnali di pregiudizio, discriminazione, intolleranza e vera e propria violenza.
Nel primo pomeriggio è pieno di stranieri il supermercato dei supersconti dalle parti dell’università di Tor Vergata, periferia sud, dove è avvenuta l’aggressione razzista contro i tre rumeni: per paradosso geografico, piantiamo un’altra bandierina di pericolo all’altro capo di Roma rispetto al luogo dell’assalto a Giovanna Reggiani. Qui c’è gente di nazionalità rumena che si è integrata, che lavora. Vasi ha 40 anni, tiene per mano una bambina, la moglie è carica di sporte di plastiche della spesa. «Faccio il camionista, sto a Roma da dieci anni e qui sono nati i miei due bambini, frequentano le scuole, abbiamo buoni vicini italiani. Ho sentito amici che ora vogliono tornare, vogliono scappare in Romania. Io non intendo farlo perché ormai la mia vita è qui. Dopo i fatti dell’altra sera ho anch’io un poco di paura, ma non torno indietro». Taccuini e telecamere sono per loro, per i rumeni vittime dell’aggressione, questa mattina, e così si forma una specie di cerchio attorno a intervistati e intervistatori. Gli italiani stanno un po’ lontani, un passo indietro a guardare, non parlano. La stessa cosa a parti invertite accadeva l’altro giorno a Tor di Quinto: lì gli stranieri evitavano di fare dichiarazioni, guardavano con sospetto i giornalisti, mentre i residenti italiani invocavano aiuti contro il degrado, davano voce alle loro paure. Ci si specchia, insomma, italiani e rumeni, nella reciproca insicurezza, come davanti a un vetro deformante che rimanda la stessa ombra, la stessa immagine cupa.
In un’altro sobborgo periferico di Roma, in via Marchetti alla Magliana vicino al palazzone dell’Alitalia, la polizia ha appena fatto la «bonifica» di un «insediamento irregolare» che in zona era conosciuto come il «campo dei rumeni». Una sessantina di adulti, quaranta bambini, hanno dovuto lasciare l’accampamento: in pochi avevano i documenti a posto, nessuno ha dichiarato di essere di nazionalità rumena, che fino a ieri invece era la più ambita e sbandierata, in virtù dell’adesione all’Unione europea. «Veniamo da Bosnia», hanno detto i rom. La polizia ha sequestrato alcune roulotte, furgoni e auto, tutti rubati. Adesso - a parte le macchine parcheggiate - c’è il deserto, e attaccati alle maniglie degli autoveicoli si vedono i sigilli. L’azienda comunale della nettezza urbana sta anche sgomberando dai rifiuti la favela di Tor di Quinto accanto alla quale è avvenuta l’aggressione della signora Reggiani. Bonifica, rifiuti: pessima terminologia quando la si applichi a drammi che riguardano esseri umani, e soprattutto a questa umanità dolente e disperata.
Passando per le «zone a rischio», sovraccariche di immigrati sopraggiunti a Roma in maggioranza negli ultimi mesi - Tor Bella Monaca, Casilina, Anagnina, Torre Spaccata, Borghesiana - Geta Lutu, una giovane avvocatessa che milita nel «partito rumeno», nota un silenzio totale, innaturale. Tanti suoi connazionali, spiega, in queste ore si sono in gran parte letteralmente rinserrati dietro le porte di case e baracche. Le segnalazioni di vero e proprio terrore vengono soprattutto dalle famiglie che hanno bimbi piccoli, in età scolare, e che dunque sono costretti a uscire ogni mattina. Hanno paura soprattutto per i loro figli: che qualche matto o criminale li aggredisca per rappresaglia, prendendoli a bersaglio di una persecuzione razzista. Allora, si va via dall’Italia?, è questa per l’immediato la soluzione, poi si vedrà? Ma i raid xenofobi hanno provocato anche un clima complesso, e reazioni variegate: alcuni imprenditori rumeni che operano in Italia hanno preso contatti con la giovane legale per offrirsi come volontari e aiutare la polizia italiana a isolare i criminali, «vogliamo isolare i nostri che sbagliano, mi hanno detto: vogliamo fare la nostra parte». E ci sono pure molte famiglie italiane che non sanno che fare: come comportarsi adesso, per esempio, con la loro ospite rumena appena accolta in casa, ma non ancora messa «in regola». Quali sono - chiedono - gli adempimenti burocratici che si devono affrontare, dopo il decreto? Non dovrebbe essere cambiato nulla per chi lavora, il decreto colpisce soltanto chi reca un pericolo alla sicurezza, ma il clima è egualmente pessimo, la psicosi della «caccia al rumeno» ha tante facce, anche quelle di una spicciola, quotidiana diffidenza, un certo senso diffuso di malessere e precarietà. «E le autorità devono assolutamente fare di tutto perché non passi alcun segnale di intolleranza e di terrore».

l’Unità 4.11.07
Allarme squadristi, stop a Forza Nuova
Il questore blocca la manifestazione di Roma. Ma i neofascisti insistono: «Andremo oltre le proteste»
di Eduardo Di Blasi


È STATA VIETATA dal Questore di Roma Marcello Fulvi la manifestazione che Forza Nuova aveva indetto per oggi a Ponte Milvio. Una fiaccolata annunciata con le parole poco rassicuranti: «Da oggi in poi i nostri militanti e tutti gli italiani sono moralmente autorizzati ad usare metodi che vadano al di là di semplici proteste per difendere i propri compatrioti» e alla quale aveva dato la propria adesione anche il movimento di Alessandra Mussolini Azione Sociale. Il Questore l’ha vietata per «motivi di ordine pubblico».
Il giorno dopo l’aggressione a Tor Bella Monaca, dove con spranghe e coltelli si è voluta «fare giustizia» su alcuni malcapitati rumeni, questa frangia politica che tiene assieme gruppi estremi e non sempre in accordo tra loro (Forza Nuova, Alternativa Sociale, Fiamma Tricolore, da qualche mese La Destra di Storace) preferisce non commentare.
L’esplosione della violenza contro lo straniero viene avvertita quasi come normale, un principio di azione e reazione su cui lucrare politicamente, e dal quale ci si distanzia solo per dire: «Non siamo stati noi».
Nel blog di Francesco Storace è linkata una brutta immagine (figlia di un altro blog di area chiamato «L’Ostile»): c’è un ragazzo incappucciato, con una tuta con sopra una bandiera italiana e un bastone in mano. La scritta che dà il titolo è: «Tor Bella Monaca: aggressione contro gruppo di zingari e clandestini...». Segue il commento in un italiano sgrammaticato: «Chi fa’ da sè fa’ per tre». L’autore chiama quella di Tor Bella Monaca una «spedizione correttiva», e argomenta: «Cittadini costretti a porre rimedio alle mancanze decennali di una classe politica di inetti, fannulloni, ladri, cialtroni, impostori. Cos’è ora che vi spaventa? Il sangue? O semplicemente che qualcuno non se ne stia a casa a farsi friggere il cervello dalla televisione la sera? Qui si parla di Giustizia, non di rabbia e vendetta...».
«Allontanare le belve!», diceva la Mussolini due giorni fa mentre auspicava l’allontanamento dell’ambasciatore rumeno in Italia: «Solo così la Romania sarà costretta ad intervenire direttamente sulla propria gente». I picchiatori di Tor Bella Monaca non sono belve. Non c’è nulla su cui intervenire. Questo è solo il disagio delle periferie che di quanto in quanto viene alla luce. Come il 2 ottobre dell’anno scorso quando un raid organizzato mise a ferro e fuoco un bar del quartiere del Trullo, sempre a Roma, dove si incontravano e bevevano alcuni rumeni. O a Ponte Mammolo, il 20 settembre scorso: quaranta incappucciati tentarono l’assalto a un campo rom. Furono lanciate quattro molotov. Tutto normale? È l’esasperazione dei cittadini, continuò il medesimo mantra.
Anche «La Destra» di Storace, organizzando un presidio nei pressi del luogo dove sono stati aggrediti i rumeni, e condannando l’idea della vendetta, ci tiene a precisare: «Per quanto possa anche dispiacerci per i tanti romeni onesti, poiché sappiamo che spesso i delinquenti sono rom di origine romena, il governo di Bucarest ha preso l’Italia come una fogna ove riversare tutto il marcio». Parole in libertà. Si condanna la vendetta ma non si additano gli «squadristi». La scritta spray «Non passa lo straniero» che campeggia sul paracarro nella piazza di Tor Bella Monaca diventa parte del paesaggio. La destra estrema fa la destra estrema provando a lucrare consensi in una città in cui non riesce a sfondare (As e Fn sono fermi nella Capitale intorno allo 0,8%). Lo fa su una vicenda di cronaca nera. Chiede l’espulsione di tutti i rom, la cancellazione dei campi. Una tolleranza zero di marcato segno razzista. A Genova Fn dà 10 giorni di tempo: sgomberate i campi rom o lo facciamo noi.
Anche nel centro del centrodestra si annota qualche reazione scomposta. Come quella del vicepresidente della Regione Veneto Luca Zaia che afferma: «Dico sì alle ronde, in attesa che il centrodestra si riappropri delle redini del Paese». Come dire, la questione può sfuggire di mano.

l’Unità 4.11.07
Fare i conti con la sicurezza? Quanto è difficile se il problema è sempre un altro...
Dentro Prc alle voci che aprono al decreto come quella di Vendola e Caprili si sovrappongono quelle di chi parla di voglia di opposizione o di rischio fascismo
di Vladimiro Frulletti


«INACCETTABILE Così è inaccettabile». Rifondazione, a stare alle parole del suo capogruppo in Senato Giovanni Russo Spena, non è disposta a votare il decreto sulle espulsioni (martedì a Palazzo Madama) se non sarà modificato «in punti essenziali». Per Russo Spena la casistica delle espulsioni è troppo vasta «significherebbe aprire le porte a vere e proprie deportazioni di massa» e i prefetti hanno «troppa discrezionalità». Insomma dentro il Prc arriva fino ai piani superiori, quelli istituzionali, il malcontento contro la scelta del governo sulla sicurezza. Un malessere che ha fatto lievitare il numero (e il peso) di chi la domanda di Liberazione “perché restiamo in questo governo?”, l’ha già superata. Ha tolto il punto interrogativo e pensa che sia meglio andarsene. «Ho provato il desiderio di essere all’opposizione» ha scritto la deputata del Prc Graziella Mascia nell’editoriale di prima pagina del quotidiano del suo partito. Del resto anche Rossana Rossanda su Repubblica definisce quello del governo un «comportamento schifoso». E così se «fino a ieri - spiega Mascia sul quotidiano del Prc - bastava dire che il governo non è un fine, ma un mezzo... Invece oggi essere al governo, in quel consiglio dei ministri che legittima la caccia al rumeno, rischia di toglierci la voce». Il che vale per indicare due bersagli. Il primo è il governo in qualche modo responsabile dell’aggressione squadrista contro dei cittadini rumeni a Roma dell’altra sera. Ma il secondo è il ministro di Rifondazione Paolo Ferrero. Una critica che a Ferrero era arrivata ieri anche dalle colonne dell’Unità dal capogruppo dei deputati del Prc Gennaro Migliore che non ha caso aveva sottolineato di essere rimasto «impressionato che non si sia alzata dal governo nessuna voce che dice “va bene, ma a questo punto faremo anche politiche più serie di integrazione”». E quella voce doveva essere, appunto, quella del ministro Ferrero. «Desiderio d’opposizione? No, ieri proprio non l’ho provato. In altre occasioni, come per la Finanziaria dell’anno scorso, sì, ma questa volta no. Sul decreto sono d’accordo con Ferrero e Vendola» spiega il vicepresidente del Senato Milziade Caprili che ricorda che sulla sicurezza già da tempo lui ha preso posizioni chiare. «L’ho detto anche in tempi non sospetti - racconta - attirandomi le critiche di alcuni dei miei. Ma sono convinto che il problema della sicurezza esiste e che è un problema anche legato agli immigrati e anche agli immigrati rumeni». Caprili è esplicito «la sinistra deve smetterla di dire che il problema è sempre un altro. Si deve rendere conto che una parte di rom sono ladri. E se non espelliamo i delinquenti rischiamo di alimentare la xenofobia. Rischiamo che la gente sia contro tutti gli immigrati solo perché hanno un’altra pelle, o un’altra religione o vengono da un altro paese. Bisogna regolare gli ingressi e liberarci di chi delinque». Caprili viene dalla tradizione del Pci, in Toscana da sempre forza di governo. Sarà un caso ma anche il presidente della Puglia Nichi Vendola, che si è formato nel Pci e che ora è alle prese con il governo quotidiano dei problemi di chi lo ha eletto direttamente, ritiene (nell’intervista al Manifesto di venerdì) che il pacchetto Amato «non basta, ma serve» invitando la sinistra a affrontare il problema sicurezza: «non possiamo apparire quelli che rinviano sempre a una questione più generale». Parole che ad esempio al Foglio lo fanno avvicinare alle posizioni più di Veltroni, Cofferati e Domenici e Formigoni che a quelle di Liberazione. E che oggettivamente sono lontane sia da quelle del deputato Francesco Caruso che ritiene che «il clima di odio, razzismo e di paura che si respira in queste ore in Italia ricorda gli anni bui della caccia ai comunisti, agli zingari e agli ebrei che precedettero la vittoria del partito nazista alle elezioni democratiche in Germania del 1932». Clima alimentato, dice Caruso, da «Ma anche destra e sinistra si rincorrono a chi butta più benzina sul fuoco del razzismo».
E Bertinotti? Il presidente della Camera non parla, e chi gli sta vicino non avalla letture che lo indicano come informato e attivo all’interno del suo partito per impedire barricate al decreto Amato. Il che non vuol dire che anche Bertinotti non ritenga che il tema sicurezza non sia una questione da affrontare (anche per non lasciarlo alla propaganda xenofoba della destra), ma che il problema riguarda anzitutto un modello di società in cui spesso domina la violenza.

I NUMERI
60.000 IL NUMERO di colf, badanti e assistenti domestiche rumene che lavorano nelle famiglie italiane.
26.000 IL NUMERO DI LAVORATORI rumeni impiegati nei cantieri edili come muratori, mastri o progettisti.
43.000 I NATI in Italia da genitori rumeni.
250 EURO IL VALORE medio di rimesse che ciascun rumeno in Italia invia nel proprio paese ogni mese.

l’Unità 4.11.07
Che cosa significa essere gramsciani
di Giuseppe Vacca


Dal marxismo radicale degli anni Sessanta e dalle canonizzazioni gramsciane allo studio dei «Quaderni» come officina del mondo globale

ITINERARI La prossima settimana a Torino, generazioni diverse di studiosi di Gramsci a confronto. Ecco come uno di quegli studiosi, Presidente della Fondazione Istituto Gramsci, racconta la sua personale «scoperta» del pensatore sardo

«In fondo la detenzione e la condanna le ho volute io stesso in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione»
Antonio Gramsci

Gramsci l'ho incontrato mentre preparavo la tesi di laurea. Studiavo Giurisprudenza e avevo deciso di tentare la via del «lavoro intellettuale come professione». Mi interessavano la filosofa e la politica. Presi una tesi sulla filosofia politica di Benedetto Croce. Avevo 20 anni, vivevo a Bari e il mio punto di riferimento - faticosamente raggiunto attraversando tutto l'arco delle posizioni, dalla destra alla sinistra - era la politica culturale del Pci. Per me diventare «un intellettuale» voleva dire allora, nel Mezzogiorno, innanzi tutto «fare i conti» con Benedetto Croce, percepito come principale ostacolo sulla via al marxismo. Lessi Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, ma non divenni «gramsciano». Mi acconciai a letture molto più schematiche e «liquidai» l’idealismo a botta di citazioni di Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin. Per Croce trovai calzante la formula con cui l’aveva incasellato Lukàcs ne La distruzione della ragione: una variante debole dell’«irrazionalismo» europeo del primo Novecento.
Una lettura più seria di Gramsci la iniziai dopo la laurea, quando, studiando la genealogia del marxismo italiano, approdai all’hegelismo napoletano. Ancora una volta la mia ricerca era ispirata da Togliatti e mi dedicai a Bertrando Spaventa, che studiai con passione e con grande giovamento. Mi ero iscritto al Pci e univo allo studio l’attività militante. Il magistero intellettuale di Togliatti conviveva con una grande insofferenza politica per il moderatismo del partito ed ero incuriosito dalle sperimentazioni radicali della sinistra anni ‘60: i Quaderni rossi di Panzieri, i Quaderni piacentini di Bellocchio, il messianismo di Fortini, La sinistra di Colletti.
Ma vivevo nel Mezzogiorno e l’insoddisfazione per la politica del Pci - al quale pure mi sentivo legato come da una «scelta di vita» - riguardava principalmente la sua incapacità di rielaborare il «meridionalismo», la sua irrilevanza urbana, l'essere accampato nelle campagne e assai lontano dalla capacità di condurre lotte per l'egemonia. Il mio primo scritto apparve su Cronache meridionali nel 1964. Era dedicato ai mutamenti della funzione e del ruolo degli intellettuali meridionali ed era di schietta impronta gramsciana. Avevo approfondito Alcuni temi della quistione meridionale, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura e Il Risorgimento; avevo capito che il principale meccanismo di riproduzione del dualismo italiano era nella distruzione della relativa autonomia dell'intelligenza meridionale e nella concentrazione delle risorse fondamentali del «cervello nazionale» - l’industria culturale, la ricerca scientifica e l'informazione - nelle capitali industriali del Nord. Ma fino al 1968 questi primi nuclei di «gramscismo» continuarono a convivere, contraddittoriamente, con altri «marxismi», più consoni al mio radicalismo politico che mi induceva ad apprezzare teoresi apparentemente più rigorose, prima fra tutte quella di Galvano Della Volpe. Furono Bertrando Spaventa, lo studio diretto di Marx e la fusione tentata dal Pci fra lotte di classe e lotte antiautoritarie, nonché le teorizzazioni più sofisticate del movimento studentesco - le tesi di Trento e di Palazzo Campana - a sciogliere quelle antinomie. Sullo sfondo, la guerra di liberazione vittoriosa in Vietnam, la Primavera di Praga e la repressione che ne seguì. Dopo quelle esperienze dall’Urss, dal «socialismo reale» e dalla visione dicotomica del mondo, di cui il «campo socialista» era l'alibi e il supporto, non mi aspettavo più nulla; e conseguentemente si stemperavano le incongruenze del «marxismo in combinazione» che si era annidato nella mia mente nel decennio precedente.
Com’è evidente dai ricordi che ho fin qui evocato, la mia formazione intellettuale era avvenuta in simbiosi con l'azione politica e la consideravo parte di una lotta per l'affermazione di determinati indirizzi della cultura italiana, contro altri. Così mi era stato insegnato, e questo modo di concepire l'azione politica di un intellettuale corrispondeva perfettamente alla mia morale e forse anche al mio temperamento. Condannando l’invasione sovietica della Cecoslovacchia il Pci aveva cominciato il suo lento distacco da Mosca. Personalmente lo consideravo troppo timido. Con i compagni che animavano il nuovo progetto della casa editrice De Donato pensavamo che si dovessero generalizzare i fondamenti teorici e strategici della politica del Pci che ci pareva configurassero non solo una «variante nazionale» del comunismo internazionale - un «comunismo democratico» giustificato dalle condizioni storiche e geopolitiche in cui si radicava la sua azione - ma un’esperienza storica originale, di valore generale e non solo italiano. Per contribuire alla rielaborazione della «tradizione comunista» italiana mi immersi nello studio di Gramsci e di Togliatti. Ma evidentemente era soprattutto il secondo a tenere il campo della revisione teorico-politica auspicata e del nostro aspro contendere non solo con i suoi critici e avversari di sempre, ma anche con la canonizzazione della sua «eredità» operata dal Pci berlingueriano. La posta in giuoco non era solo il rapporto fra il Pci e il comunismo internazionale, ma anche l’interpretazione del 1968 e la strategia del «compromesso storico» che ci illudevamo potesse svilupparsi come «assedio reciproco» fra Dc e Pci, e sperimentazione di una trasformazione democratica e socialista inedita, di valore europeo. Eravamo «giobertiani», come del resto lo era anche il Pci negli enunciati della sua strategia, sempre più distanti dalla politica che effettivamente praticava. Condividevamo con esso l’incomprensione del passaggio degli anni Settanta che scandivano la fine del «riformismo nazionale» in Europa e nel mondo.
In questo contesto si sviluppò e si approfondì il mio incontro con Gramsci. Fin dai primi anni Settanta Franco De Felice, principale storico e figura intellettuale di riferimento del gruppo della De Donato, aveva intrapreso lo studio diacronico dei Quaderni del carcere e con un breve ma denso saggio pubblicato sul Contemporaneo nel 1972 - Una chiave di lettura in Americanismo e fordismo - aveva posto le prime basi per ribaltare le interpretazioni canoniche di Gramsci. Il fatto che non avessi mai compiuto uno studio sistematico dei Quaderni fu per me un vantaggio. Non ero troppo condizionato dall’edizione tematica del 1948-1951 e uno studio vero e proprio di essi lo iniziai sull'edizione Gerratana del 1975. Seguirne la stesura quasi giorno per giorno originava un vero e proprio mutamento di paradigmi. Innanzi tutto risultava evidente che il pensiero di Gramsci aveva avuto una evoluzione molto significativa fra il ‘29 e il ‘35. Ne risaltavano le innovazioni rispetto al decennio 1915-1926 e l’intreccio fra le «note» dei Quaderni e gli sviluppi della politica mondiale. Altro che «ricerca disinteressata»! Si doveva ricostruire la biografia politica del prigioniero per districarsi nell'«ingens silva» dei Quaderni e delinearne la biografia intellettuale. Sorgeva la domanda: qual era stato il «programma scientifico» di Gramsci nel carcere di Turi? In che misura proseguiva quello che aveva preso forma fra le Grande Guerra e l’avvento di Stalin? In quali punti, invece, lo riformulava? Il gruppo di studiosi che lavorarono alla preparazione del convegno dell'Istituto Gramsci del 1977, intitolato non per caso Politica e storia in Gramsci, condivideva questa impostazione. Anche se nel suo esito finale il lavoro di preparazione fu sostanzialmente accantonato, Franco De Felice, Biagio de Giovanni, Marisa Mangoni, io stesso ed altri avevamo prodotto un volume preparatorio che prospettava un nuovo approccio al pensiero maturo di Gramsci. Ad esso cominciai a dedicarmi con una certa continuità e con progressivi approfondimenti dopo essere venuto a capo della crisi mondiale degli anni Settanta, essermene fatta un’idea personale e aver cominciato a capire che eravamo di fronte ad un declino forse irreversibile del sistema politico dell’Italia repubblicana. Questo slargamento di vedute e una significativa revisione dei miei strumenti di indagine mi liberarono dal «giobertismo» politico e culturale del Pci che avevo condiviso nel decennio precedente. In Gramsci scoprii gradualmente i fondamenti di un pensiero storico-politico utile ad inquadrare il Novecento come il secolo dell’interdipendenza e della globalità, della modernità compiuta e della sua crisi; ma anche i primi elementi di quel «nuovo modo di pensare» che indicava le prospettive per superarla. È il Gramsci su cui lavoro ancor oggi: sono più di vent’anni e credo di poter dire che finalmente l’ho incontrato davvero ed eletto a guida della mia ricerca politica e intellettuale.

Repubblica 4.11.07
Delinquenti o squadristi tolleranza zero
di Eugenio Scalfari


IL FUNERALE di Giovanna Reggiani, selvaggiamente uccisa nella desolata landa di Tor di Quinto, è stato seguito da gran folla di persone dentro e fuori la chiesa di Cristo Re dove la messa celebrata con rito valdese è stata accompagnata dal cappellano militare con nobili parole di compianto e di pace. Parole che corrispondevano – così almeno è sembrato – ai sentimenti delle persone che si accalcavano nella chiesa e nell´ampio spazio adiacente di viale Mazzini. Se c´è una persona che va additata come esempio in questi drammatici frangenti che investono un´intera nazione questa è il marito della morta, un alto ufficiale della Marina militare che ha detto anche lui parole di dolore profondo, di rimpianto accorato e di pace.
Da qui bisogna (bisognerebbe) ripartire per affrontare con nuova energia e doverosa misura il tema che continuiamo a chiamare emigrazione ma che va invece definito in altro modo. Sto alle parole di Giuliano Amato; ha detto che siamo in presenza di un esodo perché riguarda non migliaia ma milioni di persone che si stanno spostando dai paesi della povertà e del degrado ai paesi del benessere suscitando, come sempre è avvenuto in casi di questo genere, paura, insicurezza, reazioni che oppongono illegalità ad illegalità, violenza a violenza. «C´è una tigre in gabbia che minaccia di uscire dalle sbarre. Bisogna a tutti i costi impedirlo» ha detto ancora il ministro dell´Interno nell´intervista di ieri al nostro giornale e preoccupazioni analoghe hanno espresso Prodi e Veltroni.
E´ esatto. Quello è il pericolo maggiore da scongiurare, specie dopo l´aggressione di un gruppo di squadristi incappucciati e armati di spranghe e coltelli contro quattro romeni a Tor Bella Monaca, la tigre in gabbia della xenofobia e della giustizia «fai da te». Allora la domanda è: da dove nasce quella xenofobia cieca? In che modo si può scongiurarla? Il decreto del governo sulle espulsioni è uno strumento adatto?
on perderemo tempo in discussioni sociologiche delle quali sono pieni i giornali di questi giorni, né in descrizioni sulla vita dei baraccati, di quei rifugi di cartone (sì, di cartone) dove neppure un animale si adatterebbe a vivere.
Le cronache hanno ampiamente riferito, raccontato, fotografato. Vogliamo oggi fare il punto sui dati di fatto e di diritto e inquadrarli nel vero e proprio sisma che l´esodo di massa sta provocando e continuerà a provocare poiché una cosa è certa: non si arresterà, né dal Sud né dall´Est.
C´è povertà estrema in Africa, c´è degrado insopportabile nell´Europa dell´Est. Il principio dei vasi comunicanti vale anche nel caso in cui invece dei liquidi che si spostano alla ricerca della stessa pressione atmosferica ci sono persone, moltitudini di persone che sfuggono da luoghi devastati e invivibili inseguendo la speranza di vite migliori.
Quest´esodo è cominciato da almeno vent´anni ma ogni giorno che passa aumenta la sua intensità e la sua dimensione.
Ormai è un fiume. Non illudetevi che si possa fermare: neppure se per arginarlo si usasse la mitraglia.
Perciò questo è il problema, che non riguarda soltanto il nostro Paese ma l´Europa intera.
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Anzitutto una prima constatazione: l´esodo dall´Africa verso le coste europee deve varcare il mare. Le barche in movimento sono avvistate per tempo e monitorate. Spesso si riesce a farle tornare indietro.
Chi arriva a destinazione viene accolto, censito e rinviato nei paesi di partenza.
Purtroppo il «lago» mediterraneo è ormai costellato nei suoi fondali da relitti e cadaveri di annegati, ma neppure questa tragica prospettiva serve a fermare l´esodo. Lo limita, lo gradualizza. Apre la possibilità di negoziare con i paesi rivieraschi dell´altra sponda provvedimenti di sostegno e investimenti per contenerlo ai nastri di partenza.
Seconda constatazione: l´esodo dall´Est avviene in condizioni completamente diverse. A muoversi non sono extra– comunitari ma cittadini europei in provenienza da paesi ormai entrati a far parte dell´Unione. In particolare provenienti da Romania e Bulgaria.
A loro basta esibire il passaporto per varcare legalmente un confine che non esiste più. La libera circolazione è stata limitata da norme transitorie durate cinque anni, ma dal primo gennaio di quest´anno ogni limitazione è caduta.
Per di più non c´è nessun mare di mezzo. Nessun rischio fisico e drammatico da affrontare. Basta montare su un treno, su un autobus, su un qualsiasi mezzo di trasporto per arrivare alla destinazione prescelta. In Italia come in Germania, in Spagna o in Austria o in Francia o in Scandinavia.
Molti preferiscono l´Italia e la ragione c´è, sono loro stessi che ce la spiegano: da noi la giustizia è lenta, le pene sono ragionevolmente miti, «l´habeas corpus» è più tutelato che altrove, i delinquenti abituali tornano liberi pochi giorni dopo l´arresto in attesa che il processo sia celebrato, l´espulsione non è (non era) prevista, il ritorno è (era) consentito.
Questo stato di cose induce la delinquenza a scegliere il nostro paese come terra di elezione. Naturalmente la delinquenza abituale è soltanto una parte del fiume di emigranti, ma è una parte cospicua. La sua presenza e le sue azioni, la sua violenza cattiva e spesso gratuita determinano insicurezza e paura, la soglia che divide questi sentimenti dall´odio, dalla vendetta, dalla xenofobia è già stata varcata da molti. Ma se si continuerà così sarà varcata in massa e la tigre uscirà dalla gabbia per sbranare il suo prossimo. Così, piaccia o non piaccia, stanno le cose.
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Il decreto emanato dal governo mira a combattere la delinquenza e affida a provvedimenti di espulsione con divieto di rientro i cittadini comunitari che violino la legalità. Si tratta di provvedimenti amministrativi autorizzati dalla magistratura e resi esecutivi dai prefetti sulla base delle motivazioni previste dalla legge.
Chi temeva espulsioni di massa è stato rassicurato, si procederà su segnalazioni delle questure e dei carabinieri effettuate in base alla pericolosità individuale. Nel frattempo a Roma, dove la presenza della delinquenza abituale si è concentrata più che altrove negli ultimi nove mesi, le forze dell´ordine hanno provveduto a distruggere gli alloggiamenti (è una parola impropria chiamarli così) abusivi su tutte le rive dell´Aniene e del Tevere.
Non è la prima volta che operazioni simili avvengono, non solo a Roma ma a Bologna, Milano, a Torino. Nella capitale in particolare, a partire dal 2001 e via via intensificandosi in proporzione alla crescente affluenza di immigrati, sono stati chiusi o sgombrati ventotto insediamenti abusivi e aperti dodici centri di accoglienza temporanea. Le persone accolte nei centri comunali attrezzati sono attualmente tredicimila. Gli sgomberi eseguiti in questi mesi hanno coinvolto poco meno di 6.000 persone, ma soltanto 800 di esse hanno accettato di essere accolte nei centri comunali, le altre hanno rifiutato e non possono esservi obbligate.
Le accuse di Berlusconi e di Fini sulle inadempienze del Comune di Roma servono solo ad alimentare una polemica più che mai dannosa; in tutta onestà il Comune ha fatto quanto poteva, ma soprattutto ha chiesto, da solo o insieme agli altri sindaci delle grandi città, che si provvedesse con urgenza a contenere il flusso e a combattere con strumenti appropriati la delinquenza abituale. Lo ha chiesto al governo in carica e cioè a quello di Prodi e al governo precedente che è stato in carica per cinque anni sostenuto da una maggioranza parlamentare a prova di bomba e all´opera dal 2001, cioè esattamente dal momento in cui l´esodo all´interno della comunità europea si è messo in movimento.
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Non entreremo nella mediocre polemica di chi doveva fare e che cosa doveva fare. Nessuno ha le carte in regola, non questo governo, non il precedente, non l´Unione europea che ha emesso nel 2004 una direttiva – applicata anche in Italia – nettamente insufficiente.
La verità l´ha detta con lodevole onestà Giuliano Amato: «Nessuno di noi poteva prevedere che la slavina diventasse valanga, che il torrentello si trasformasse in un fiume di centinaia di migliaia e poi di milioni di persone, intere popolazioni in movimento all´interno stesso dell´Europa».
Questo è accaduto. A questo il decreto dell´altro giorno vuole porre un primo riparo. Necessario ma non sufficiente. Perché bisogna modificare la lentezza della magistratura, negoziare con i governi europei dei paesi dai quali parte l´esodo, negoziare con l´Unione europea affinché si dia carico d´un problema che riguarda il continente intero. E intanto occorre che vi sia qui da noi tolleranza zero verso la delinquenza di importazione e tolleranza zero verso le ronde squadriste che aggrediscono lo straniero solo perché straniero.
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Sono stupefatto delle reazioni scomposte del direttore di «Liberazione» e di Rossana Rossanda sul «Manifesto» contro il decreto e contro il sindaco di Roma che l´ha chiesto con doverosa perentorietà. «Fa schifo, è un documento fascista» ha scritto Rossanda. E Sansonetti: «Con la destra fascista sono disposto a discutere, con Veltroni no». Queste non sono legittime e motivate manifestazioni di dissenso, ma insulti emotivi che derivano da una totale misconoscenza della situazione e dei pericoli gravi che essa comporta.
In paesi agitati da sentimenti diffusi di insicurezza e da traumi provenienti da episodi drammatici, soltanto interventi decisi e repressivi dei fenomeni delinquenziali possono trattenere entro limiti di decenza civile le paure della gente. Educazione e prevenzione restano necessarie, ma il momento repressivo non può essere e non deve essere eluso. Il decreto va in questa direzione. Non a caso provvedimenti di questo tipo erano richiesti da mesi e da anni dai sindaci delle grandi città e attuati nei limiti dei loro assai scarsi poteri, da Domenici a Firenze, da Moratti a Milano, da Cofferati a Bologna, da Chiamparino a Torino e poi a Genova a Padova a Bari a Napoli a Cagliari.
E ovviamente a Roma.
Non mi trovo, per la prima volta, d´accordo con il Rodotà dell´articolo di ieri sul nostro giornale. Ha ragione di scrivere che il decreto, da solo, è insufficiente. E indica alcuni dei provvedimenti che possono servire a completarne l´efficacia. Ma a mio avviso ha torto a considerarlo un provvedimento emotivo da emendare nel senso dei diritti negati agli espulsi.
Temo, caro Stefano, che anche a te sfugga la pericolosità della situazione e la necessità non già di esibire la «faccia feroce», ma di recuperare l´autorità delle autorità pubbliche centrali e locali, cioè delle istituzioni di fronte a fenomeni di dimensioni continentali.
Vedremo alla prova come si comporteranno le forze politiche. Quelle di sinistra estrema e quelle dell´opposizione. Hanno esordito tutte e due male.
L´opposizione ha addirittura aizzato lo squadrismo anche attraverso i titoli e i testi dei giornali berlusconiani.
Non si comportano così le persone che hanno a cuore gli interessi del paese, specie se rivestono incarichi pubblici rappresentativi. Hanno tempo e occasione per ravvedersi e ci auguriamo vivamente che lo facciano.

Repubblica 4.11.07
Da martedì l'esame al Senato. Rifondazione e Pdci avvertono: un rischio votare il decreto a tambur battente, prendiamo tempo
La sinistra radicale si rimangia l'ok "Sono norme suicide, vanno cambiate"
Il dissenso si estende a Sd. Salvi: Veltroni ha pronunciato parole pericolose
Pisapia: bisogna accantonare tutto e dare una corsia preferenziale a nuovi testi
di Goffredo De Marchis


ROMA - Decreto da modificare, come minimo. Nel merito, articolo per articolo. In verità, c´è qualcosa di più profondo nel disagio della sinistra per il provvedimento sulle espulsioni. Una questione culturale, uno strappo di visione tra lei e i riformisti della maggioranza. Ci sarà l´esame del decreto legge in Parlamento, a partire da martedì. Va verificata la sua legittimità costituzionale, dice Cesare Salvi. Contrasta con la Convenzione europea dei diritti dell´uomo, scrive sul manifesto l´ex leader di Magistratura democratica e oggi capo di gabinetto del ministro Ferrero, Franco Ippolito. Il merito, certo, i contenuti tecnici della norma. Da limare, da votare. Ma c´è altro. Ippolito chiede al «governo di mantenere ferma la barra nella giusta direzione e che gli atti amministrativi non si lascino condizionare da reazioni emotive». Salvi va oltre. Spiega che Veltroni, dopo il delitto di Tor di Quinto, «ha attaccato un´intera nazione», la Romania. Non esagera, senatore? «Così ha capito il primo ministro di quel paese - risponde Salvi - . E così hanno capito gli autori del raid a Tor Bella Monaca... «. Non solo Veltroni ha chiesto di affrontare l´emergenza con nettezza. Il governo ha fatto lo stesso, con l´unanimità del consiglio dei ministri. Compresi i ministri di una nascente Cosa rossa. Ma nelle parole di Salvi adesso risuona il pericolo del razzismo. «Ho visto che una ragazza è stata violentata a Cagliari, qualche giorno fa. Dobbiamo prendercela con tutti i sardi, allora, perchè sono rimasti ai tempi della pastorizia?».
Bisogna mantenere i nervi saldi, in questi momenti. Non alimentare scontri ideologici, trovare le soluzioni migliori per risolvere i problemi. Altrimenti salta tutto, avverte Giuliano Pisapia che parla nella sua doppia veste di penalista (e gli avvocati attaccano il decreto) e di ex parlamentare di Rifondazione. «La mia risposta? Accantonare i disegni di legge sulla sicurezza e il provvedimento di urgenza. E scrivere nuovi interventi legislativi dandogli una corsia preferenziale in Parlamento». Un consiglio alla maggioranza: «Il decreto varato dal governo ha degli aspetti suicidi. Lo può votare la Casa delle libertà insieme con il Partito democratico, ma non può votarlo la sinistra. E così si spacca l´Unione». Salvi è meno categorico sull´iter della norma che va al Senato la prossima settimana. «Dobbiamo leggere bene il testo. Io non accetto la logica emergenziale. Non significa che il testo verrà bocciato, ma non lo prendiamo a scatola chiusa. A me non piacciono le norme-manifesto, ma qui voglio valutarne l´efficacia (e non credo che ci sia) e i principi costituzionali. Ricordando che la Costituzione garantisce i cittadini italiani e quelli stranieri».
Rifondazione continua a dire che il testo, così com´è, non si può votare. Che è un rischio portarlo a Senato contemporaneamente alle votazioni, complicate, sulla Finanziaria. Oliviero Diliberto, da Minsk, in Bielorussia, si limita a osservare: «Ci sono 60 giorni per esaminare un decreto». E quindi per modificarlo, sembra di capire. Il via libera dell´intero governo al decreto, roba di tre giorni fa, appare oggi come un pallido ricordo di unità, di coesione, di risposta comune. La maggioranza compatta di giovedì andrà revisionata già martedì al Senato. Pisapia spera in una "rivoluzione" totale sulla sicurezza, Salvi parla di ritocchi consistenti, di verifiche di costituzionalità. Sennò non si approva niente. Né il decreto legge, né i disegni di legge. «Del resto - spiega Pisapia - sui tempi di prescrizione la maggioranza ha presentato un progetto simile a quello del pacchetto sicurezza 8 mesi fa. Lo ha depositato alla Camera e lì giace». Ma adesso l´Unione può correre il rischio di fare finta di niente?

Repubblica 4.11.07
Razzismo, allarme dell'Europa
Dall'Independent a Le Monde: ora anche l'Italia a rischio xenofobia
di Enrico Franceschini


LONDRA - L´Europa, o almeno una parte d´Europa, quella che l´America di Bush chiamava con dispregio «old Europe», la vecchia Europa, si rispecchia in quello che sta accadendo in Italia: e ciò che vede non le piace. Non piace, perlomeno, ad alcuni dei maggiori organi di stampa dell´Europa progressista, in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna, che si chiedono in tono preoccupato se la reazione italiana all´omicidio di Giovanna Reggiani segnali l´avvento di un´ondata di xenofobia etnica, in questo caso anti-rumena ma in generale contro tutti i nuovi immigrati, nell´intero continente o meglio nei suoi paesi più ricchi.
"Reietti" titola a tutta prima pagina l´Independent di Londra, sopra una foto di immigrati senzatetto lungo le rive del Tevere, «le prime vittime del brutale giro di vite italiano», costretti a lasciare le loro baracche di cartone. «E la città di Roma gode delle loro sfortune», scrive il corrispondente Peter Popham. Nel giro di poche ore dopo la tragica morte di Giovanna Reggiani, continua l´articolo del quotidiano inglese, «l´Italia stava facendo quello che milioni di persone in tutta Europa vorrebbero veder fare ai loro governi: prendere misure rapide, drammatiche e draconiane per insegnare agli immigrati una lezione che non dimenticheranno». L´Independent nota che la nuova legge sulle espulsioni di immigrati è applicabile «senza processo», citando quindi una statistica che solleva qualche dubbio su quanto pesi l´immigrazione sul crimine: a Londra, per esempio, gli immigrati sono il 27 per cento della popolazione ma sono responsabili solo del 20 per cento dei crimini. «Stiamo entrando in una nuova era di intolleranza attraverso l´Europa» si chiede il giornale, dando la parola, in un editoriale, a Simona Farcas, presidente dell´Associazione Italia-Romania, che afferma: «La giustizia deve fare il suo corso e i responsabili devono pagare. Ma penso che il problema qui non siano i rumeni in Italia, quanto l´ignoranza degli italiani».
Parole simili su Le Monde. «L´Italia vuole espellere migliaia di rumeni», titola il quotidiano francese, osservando che in virtù dei nuovi provvedimenti applicati dal governo Prodi «i prefetti potranno espellere, senza processo né possibilità di fare ricorso, dei cittadini dell´Unione Europea» che contravvengano alla dignità umana, ai diritti fondamentali della persona o alla sicurezza pubblica: una definizione abbastanza vaga, scrive il corrispondente da Roma, «per inglobare ogni piccolo delinquente, autentico o anche solo sospetto». Si avverte nel nostro paese, conclude Le Monde, «una tentazione di xenofobia» in qualche modo simile alla reazione di altri paesi europei quando si sono trovati di fronte a casi eclatanti. Titolo analogo su El Pais: la morte di Giovanna Reggiani «dà il via alla xenofobia in Italia», e un articolo osserva che a questo punto gli immigrati rumeni «hanno sostituito gli albanesi» nelle paure degli italiani.
Di cacciare gli immigrati molesti si parla molto anche nel Regno Unito, in Francia, in Spagna, in Germania, in Olanda, insomma nella nazioni europee più invase dall´ondata di immigrati dai nuovi paesi entrati nell´Unione tre anni fa. «Ma l´Italia», conclude l´Independent, «è passata dall´essere il fanalino di coda della Ue per quanto riguarda la linea dura, a essere di colpo all´avanguardia».

Corriere della Sera 4.11.07
Il caso Liberazione
E Staino sferzò Sansonetti: aiuta Berlusconi La difesa della Armeni. Ma Curzi: mi imbarazza


ROMA — Dovreste averlo presente, Piero Sansonetti. Il direttore di Liberazione visto e ascoltato in molti talk-show, quello con la barba, una barba solo apparentemente incolta, con i maglioni e le giacche di velluto, molto (classico) look di sinistra e molto bravo lui, Sansonetti, bravo e furbo (capace di intuire, provocare, azzardare) e quindi naturalmente molto, e per qualcuno troppo, politicamente spregiudicato.
Così ieri Staino, sulla prima pagina dell'Unità, in una sua vignetta, l'ha disegnato e steso su un divano, di quelli che trovi da certi psicanalisti: accanto, seduto, e nelle vesti appunto del medico, Berlusconi. Dice Sansonetti: «...E quindi mi son chiesto: perché restare in questo governo?». Il Cavaliere: «Ottimo Sansonetti, scavi scavi...». È evidente il riferimento a un concetto che Sansonetti ha espresso davvero, appena tre giorni fa, giovedì, quando ha aperto il suo giornale con un titolo che, per Rifondazione comunista, proprietaria del quotidiano — e però anche per Prodi, e per tutta l'Unione — è stato un pugno: «Domanda (proibita) alla Sinistra: perché restiamo in questo governo?».
Non s'è mai capito, fino in fondo, quanto Sansonetti ascolti l'ex líder maximo del partito, Fausto Bertinotti. Dicono poco. O qualche volta. E comunque non sempre. Tuttavia, in quest'ultima circostanza, occorre rilevare che, a poche ore dall'esplosiva titolazione, la senatrice Rina Gagliardi, da molti ritenuta assai vicina a Bertinotti, ha poi detto al Corriere: «Pieroha esplicitato una domanda molto diffusa nella sinistra italiana».
Non a tutta la sinistra, però, a quanto sembra. Il senso della vignetta di Staino, infatti, è eloquente: invocando un'esplicita uscita dal governo, Sansonetti sembra fare un implicito favore a Berlusconi. Può essere?
Ritanna Armeni, elegante e colta partner di Giuliano Ferrara a Otto e mezzo, su La 7, è una delle migliori amiche di Sansonetti. Un rapporto intensificatosi negli anni trascorsi insieme all'Unità, pure se poi i due si conoscono dal Sessantotto, quando Sansonetti — l'ha raccontato lui, a Claudio Sabelli Fioretti — si aggirava all'università in compagnia di Paolo Flores d'Arcais, Piero Bernocchi e anche Franco Piperno, Lanfranco Pace e Adriana Faranda (tra l'altro, un giorno fu lì lì per usare persino una spranga di ferro contro un picchiatore fascista, «però mi fermai in tempo, pensando: ma sono diventato matto? »).
Armeni, senta: ai tempi dell'Unità,di cui per altro il suo amico è stato condirettore, si sapeva che Sansonetti, un po' anche in virtù di una fede calcistica milanista, avesse un certo interesse per il fenomeno Berlusconi. Anzi, secondo il ricordo di alcuni, egli arrivò persino a chiedere un'intervista esclusiva all'allora emergente presidente- imprenditore. «E allora? Non capisco». Ecco, qualche perfido sostiene che Sansonetti, in fondo, subisca, magari inconsciamente, come insinua Staino, il fascino del Cavaliere: può essere? «Guardi, è escluso. Piero non subisce il fascino di nessuno». Però... «Però è un grande giornalista. Lo scriva. Un talento. Intellettualmente onesto. E con una capacità unica, mi sembra ». Quale? «Rende espliciti i tormenti della sinistra». Ne è sicura? «Ci sentiamo almeno una volta al giorno e, anche mezz'ora fa, stava lì, appassionato a spiegarmi i dati che ha scoperto... ».
È il titolo di ieri di Liberazione: «Emergenza crimini? Un imbroglio. Lo dice il Viminale». E giù un editoriale, e poi dati, statistiche, per denunciare una campagna «basata sulla menzogna e la xenofobia». Poi però c'è la voce di Sandro Curzi, consigliere d'amministrazione Rai in quota Rifondazione ed ex direttore del Tg3 ai tempi di Telekabul e di Liberazione. «Xenofobia? Sansonetti dice questo? Sono appena tornato dai funerali della signora Reggiani, aggredita e uccisa da... e io, fossi in Piero, starei attento a non cogliere le richieste di sicurezza della gente comune». Lei, Curzi è piuttosto... «In imbarazzo. Perché fui io a dire a Bertinotti che Sansonetti era la persona giusta per succedermi alla guida di Liberazione... Purtroppo, devo rilevare che, con certi atteggiamenti massimalisti, Piero fa una cortesia a Berlusconi e un torto a Veltroni».
Questo ieri lo scriveva pure Europa, il quotidiano della Margherita che fu. Rubrica firmata da Robin: «Sansonetti vuole uscire dal governo, parla con i fascisti e non con Veltroni». Anche se poi, per spiegare i rapporti con Veltroni (complessi, tra stima e rivalità) sono antichi e risalgono ai tempi dell'Unità, dove il giovane Walter sbarcò giovane e ambizioso, per nulla disposto ad avere in redazione tipi barbuti svelti di testa e di fascino (oh, quante compagne-giornaliste speravano d'incrociare quello sguardo...) Sansonetti, di quel periodo, non parla ovviamente mai molto volentieri. Casomai, se spinto sull'amarcord, preferisce i tempi del liceo Massimo («Una scuola di preti, che frequentavo con Luca di Montezemolo e Lupo Rattazzi, figlio di Suni Agnelli...»).

Corriere della Sera 4.11.07
L'ex presidente della Cei: non si può guidare un Paese guardando solo all'immediato, è indispensabile affrontare i temi epocali
Ruini: attaccano la Chiesa perché adesso sta vincendo
«C'è stato un momento in cui sembrava in ritirata, ora non è così»
intervista di Aldo Cazzullo


ROMA — Vicario di due Papi, dal '91 al marzo scorso capo dei vescovi italiani, il cardinale Camillo Ruini ha sul tavolo i due libri appena usciti da Piemme che riassumono la sua vicenda: Chiesa contestata e Chiesa del nostro tempo (domani la presentazione a Milano alla Cattolica, con Giuliano Ferrara, Ernesto Galli della Loggia e il cardinale Angelo Scola). È la prima intervista da quando ha lasciato la presidenza della Cei. Sono giorni di riflessioni e di bilanci, che il cardinale prepara tra le carte del suo studio, dove neppure la bomba del '93 è riuscita a seminare il disordine. «Esplose proprio qui sotto. Io ero in Francia, rientrai subito, arrivai in Laterano mentre ne usciva il Papa. I danni erano seri, ma nello studio tutto era rimasto intatto».
I suoi primi anni alla guida della Conferenza episcopale videro il crollo della Dc. Come li ricorda?
«Tutto accadde in fretta. Nei cinque anni passati alla Cei come segretario, tra l'86 e il gennaio del '91, non intravidi gli sviluppi successivi. Ma già a settembre era cominciato il travaglio, accelerato dalle elezioni del '92, che in breve avrebbe portato alla fine dell'unità politica dei cattolici. Ma anche la nostra risposta fu abbastanza rapida. Nel novembre del '95, al convegno ecclesiastico di Palermo, Giovanni Paolo II approvò la nuova impostazione, il diverso rapporto tra Chiesa e mondo politico: anziché ricercare l'unità perduta, privilegiare i contenuti essenziali, la questione antropolica, sociale, morale».
Quello che appariva un problema si rivelò un'opportunità. Alla Chiesa di Ruini si attribuisce la riconquista quasi gramsciana dell'egemonia cattolica sulla società. E anche, talora, un'ingerenza eccessiva.
«Non abbiamo mai puntato a un'egemonia. Sarebbe stata un'ingenuità. Nel discorso pubblico condotto dai mezzi di comunicazione, in Italia o in qualsiasi altro Paese, la Chiesa non potrebbe trovarsi in posizione egemonica. La Chiesa è una voce in un contesto pluralistico; per quanto cerchi di essere una voce non meno decisa, non meno forte di altre».
Da qui forse l'accusa di ingerenza, di interventismo.
«L'accusa di interventismo è legata all'idea di un confronto tra potere civile e potere ecclesiastico, ognuno con una sua legittimità. Ma viviamo oggi qualcosa di nuovo, che non si può rinchiudere nella dialettica tra Stato e Chiesa. Lo sviluppo scientifico e biotecnologico da una parte, e l'evoluzione del costume dall'altra fanno sì che le questioni etiche, che il pensiero liberale e altre moderne correnti di pensiero riconducevano alla sfera del privato, diventino questioni pubbliche. Ciò ha richiesto alla Chiesa di dare maggior rilievo pubblico alla missione che le è propria, occuparsi dell'ethos; che è inscindibile dalla fede. Non ne rappresenta il centro, il centro della fede è il rapporto con Dio e Gesù; ma il cristianesimo ha a che fare con la vita ».
Il momento più teso è stato il referendum sulla procreazione assistita. Vi è stato rimproverato un atteggiamento politicista: non solo la Chiesa si schierava, ma sceglieva lo strumento dell'astensione.
«Non eravamo di fronte a una questione astratta ma concreta, che riguardava la vita, e richiedeva un intervento efficace. Si trattava di un referendum non proposto e non voluto da noi, per cancellare una legge non certo "cattolica" ma che conteneva aspetti positivi. In passato, nel '74 e nell'81, erano stati proposti referendum da parte dei cattolici, sia pure non da soli. Stavolta il nostro impegno è stato coronato dal successo, per giunta più largo del previsto.
Penso, forse in modo un poco malizioso, che quel che più ha disturbato sia stato proprio questo».
Intende dire che la Chiesa piace ai laici quando perde, come su divorzio e aborto, e disturba quando vince?
«Constato che quando l'impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa "perde" come dice lei, tutto fila liscio. Nel caso contrario, la reazione è molto diversa, e riprendono vigore le croniche accuse di interventismo. Ciò che ha specificamente colpito e disturbato è che le nostre proposte abbiano avuto un notevole consenso nell'opinione pubblica».
Esiste in Italia un sentimento anticattolico, una sensibilità ipercritica verso la Chiesa?
«Purtroppo sì. Esiste. È legittimo, perché siamo un Paese libero. Non bisogna maggiorarne l'efficacia; ma non si può negarne l'esistenza. C'è una pubblicistica specifica, non inedita ma sempre più intensa, che si concentra in particolare sul vissuto della Chiesa».
È proprio la coerenza della Chiesa con i suoi insegnamenti a essere in questione. Le si rimprovera di essere tutt'altro che povera.
«Non credo affatto che la Chiesa sia ricca. Potrà esserlo il singolo ecclesiastico, ma non lo è certo la Chiesa come istituzione. Contrariamente a quel che viene proposto, il rapporto tra i mezzi di cui la Chiesa dispone e le opere che riesce a compiere è incredibilmente favorevole. E questo lo si deve al volontariato. La gran parte delle risorse della Chiesa non vengono dallo Stato ma dai fedeli, sia in forma di offerte sia in forma di militanza. Questo la gente lo percepisce; e vedere una campagna in senso contrario, che proietta un'immagine rovesciata e presenta la Chiesa come un'istituzione che prende anziché dare, suscita interrogativi, diffidenze, timori».
Vi si accusa anche di nascondere le violazioni della morale sessuale, in particolare la pedofilia.
«La fragilità umana esiste nella Chiesa come nel mondo intero. Neppure la Chiesa è fuori da un contesto socioculturale in cui la sessualità è concepita ed esaltata come fine a se stessa. Il contraccolpo è inevitabile, pure tra i credenti. Ci sono state, e temo continuino a esserci, realtà molto dolorose, che colpiscono profondamente quanti amano la Chiesa e in particolare coloro che hanno la responsabilità di governarla. Va anche detto che si può e si deve, sempre rispettando la dignità delle persone, essere attenti e vigili. Non è vero che queste realtà vengano coperte. Sia nella mia esperienza diretta, sia nell'esperienza di tanti altri, la vigilanza c'è sempre stata; anche se è difficile, poiché chi si rende responsabile di tali comportamenti tende a nasconderli. Ma la contestazione verso la Chiesa non si muove solo sul versante del vissuto».
A cosa si riferisce?
«La contestazione attacca il centro della fede, il suo cuore. La persona di Gesù Cristo, la sua credibilità storica, il farsi carne del Verbo di Dio. Del resto, una cultura in cui il dolore non ha senso, la sofferenza viene negata, la morte emarginata, non può comprendere il cristianesimo. Che resta pur sempre la religione della croce».
Questa contestazione c'è sempre stata, non crede?
«Certo. Ma oggi la sua violenza polemica è in crescita. E penso sia collegata all'impressione, fondata o infondata che sia, di una maggiore vitalità del cristianesimo».
Fondata, o infondata?
«Quest'estate ho letto un libro di fine anni ‘60, che raccoglie una serie di conferenze radiofoniche nella Germania dell'epoca, con l'intervento di vari credenti — teologi, filosofi, psicologi — e di un intellettuale ateo. Che diceva più o meno questo: "Mi trovo in difficoltà, perché sono abituato a discutere con credenti ben decisi ad affermare che Dio esiste; ma qui mi pare che Dio sparisca dall'orizzonte, che il cristianesimo sia solo un modo di intendere la vita; a queste condizioni, non ho più nulla da obiettare". Parole dal tono involontariamente canzonatorio. Ma anch'io, leggendo quel libro, ho pensato che allora ci fosse la paura di mettere la fede cristiana al centro, con un atteggiamento tanto guardingo da configurare una specie di ritirata. Oggi non è più così. E questo dà nuovo vigore a certe polemiche classiche, che si riaccendono ora che Benedetto XVI sostiene la plausibilità razionale della fede, e dopo che Giovanni Paolo II ha impresso la grande svolta con il suo grido: "Non abbiate paura". Non era uno slogan, ma l'indirizzo di un pontificato. Ricordo che fu accolto con perplessità anche dentro la Chiesa: pareva un motto velleitario. Invece una partita che pareva conclusa, con esito a noi sfavorevole, ora è riaperta. Non tutto il clero l'ha colto; il popolo, forse di più. Mi è capitato di ritrovare un gruppo di miei coetanei, non tutti cattolici praticanti, e di essere da loro non soltanto incoraggiato ma spronato. Quando un'identità forte viene colpita allo scopo di distruggerla, essa reagisce, eccome ».
Alcuni intellettuali, che uno di loro ha definito autoironicamente «atei devoti», guardano alla Chiesa come al caposaldo dei valori che definiscono l'identità occidentale. Come valuta questo fenomeno?
«Nella Chiesa si è discusso molto sui non credenti, o non pienamente credenti, che vedono con favore la sua presenza in campo culturale e civile. Dalla Chiesa sono venute risposte varie. Io credo che a Verona Benedetto XVI abbia dato un'indicazione precisa, in termini quanto mai positivi, favorevoli, disponibili. Certo, è impossibile ridurre il cristianesimo a un'eredità culturale; ma è vero che il cristianesimo ha sempre avuto la propensione a farsi generatore di cultura. In una situazione come quella di oggi, in cui vengono messi in discussione i fondamentali antropologici, è più che mai importante la convergenza tra tutti coloro che i fondamentali difendono e valorizzano».
Questo fa sì che la Chiesa sia vista come forza dichiaratamente conservatrice. Al punto da chiedersi se un cattolico possa ancora votare a sinistra.
«Ma queste preoccupazioni per i fondamentali non sono limitate ad alcuni settori dell'arco culturale e politico. Sono condivise da molte parti. Non credo all'equazione tra difesa dei valori e conservatorismo, almeno non nell'accezione negativa del termine, come freno allo sviluppo; perché esiste anche un'accezione positiva. È cosa buona conservare i fondamentali, appunto».
Qual è l'attitudine verso l'Italia dei due Papi di cui lei è stato vicario?
«C'è una differenza, non solo di stile: Benedetto XVI viveva già in Italia da oltre vent'anni; Giovanni Paolo II era sconosciuto a molti, me compreso. Ma c'è una grande somiglianza: entrambi partecipano della profonda convinzione che l'Italia e la Chiesa italiana abbiano un ruolo centrale nel contesto europeo e mondiale. Io stesso, nei due decenni trascorsi nel Consiglio delle Conferenze episcopali d'Europa, ho notato che dall'estero si guarda all'Italia come a un'esperienza che ha qualcosa da dire anche a loro».
La Chiesa italiana è un modello per gli altri episcopati?
«La situazione reale è rovesciata rispetto a quella talora raffigurata in Italia: non c'è qui da noi una Chiesa di retroguardia rispetto ad altri Paesi più illuminati, più aperti al futuro; è vero semmai il contrario, sono gli altri a rivolgersi a noi con grande interesse».
Qual è la sua opinione su Padre Pio?
«Posso raccontarle qualcosa di personale. Mi sono imbattuto in lui in modo involontario, ma ripetuto. Mio padre era un medico ospedaliero, che fondamentalmente credeva, ma escludeva i miracoli. Una notte di oltre cinquant'anni fa — io ero già seminarista a Roma —, assistette alla guarigione subitanea di un ammalato che giudicava terminale, cui era apparso in sogno il frate. Mio padre fu molto traumatizzato da quell'esperienza. E conosco due suore che ebbero da lui un segno tangibile, una fotografia, che le lasciò attonite. Né mio padre né le suore ne hanno mai parlato, questi due fatti sono rimasti sconosciuti fino a oggi, e chissà quanti altri testimoniano la dimensione umanamente inspiegabile di Padre Pio, che buona parte della cultura contemporanea vorrebbe censurare come magica e non autentica».
Posso farle una domanda sulla sua successione?
«Quella lasciamola al Santo Padre...».
...Intendevo la successione alla guida della Cei. Il cardinal Bagnasco ha ricevuto minacce.
«Il mio successore sta facendo un ottimo lavoro. Ci sono stati segnali preoccupanti, che però non vanno sopravvalutati. In un clima polemico, uno sprovveduto può essere tentato da un gesto scorretto. Ma la possibilità è la stessa di finire travolti da un'auto per strada... ».
Lei è stato il primo presidente della Cei a diventare una figura mediatica, oggetto di entusiasmi e invettive. Questo l'ha infastidita?
«No. Non mi ha galvanizzato, non mi ha depresso; non gli ho mai dato molta importanza. È stato un processo graduale, iniziato tardi: sono arrivato a Roma a 55 anni... Per natura tendo a relativizzare. Del resto, la decisione implica l'accettazione del rischio. Anche se non ho purtroppo la meravigliosa capacità, che ho visto in Giovanni Paolo II, di affidarsi totalmente al Signore».
Quale le sembra la temperatura morale dell'Italia? Si è approdati all'alternanza politica, ma la sfiducia è tale che ogni volta il governo viene congedato...
«È difficile trovare una sintesi della temperatura morale di un Paese. Ci sono segni positivi e altri negativi. Non nego che la situazione sia difficile, e che la temperatura possa apparire troppo fredda, segno di scarso entusiasmo, o troppo calda, segno di una malattia. L'Italia ha grandi potenzialità e una sostanziale robustezza; ma varie questioni non trovano uno sbocco convincente e duraturo nel tempo. È necessario che la dirigenza politica, come quella economica, sindacale, giornalistica, ecclesiale, guardino di più al medio e al lungo periodo, e non solo all'immediato. È indispensabile affrontare i temi epocali, dalla questione demografica indicata nel 2004 anche da Ciampi all'emergenza educativa di cui parla Benedetto XVI. Non si può guidare un aese guardando solo all'immediato. Chi metterà questi grandi problemi al centro dell'agenda politica, farà il bene dell'Italia, e sarà capito dalla gente».

Corriere della Sera 4.11.07
Le ultime scoperte «smontano» la teoria dell'evoluzione
Darwin. I seguaci più ortodossi smentiti dalla natura
di Massimo Piattelli Palmarini


Meravigliose istituzioni, le grandi università americane. Ciascuna ha la sua stazione radio di musica classica, come quelle che conosco, di Harvard e dell'Arizona: amano trasmettere brani di compositori i cui nomi ignoro assolutamente, benché per tutta la vita io abbia ascoltato musica classica. Per esempio, oggi, nel giorno in cui scrivo, la seconda ha trasmesso musiche di Charles Tournemire, Johann Heinicken, Miguel Bernal e Arnold Bax. Bruttine, ammettiamolo pure. Spesso cambio sintonizzazione, ma mi sono anche sforzato di ascoltare questi minori. Non si sa mai, potrei fare qualche scoperta folgorante. Il punto è che ciò non è mai, per ora almeno, avvenuto. I compositori minori e sconosciuti lo sono, direi, per buoni motivi.
Lungo secoli e decenni il gusto musicale internazionale ha selezionato opere di Beethoven, Bach, Brahms, Wagner e altri giganti, ma non quelle di Tournemire o Bax. Le ore di ascolto sono quello che sono, non tante. Le risorse materiali delle case discografiche e delle sale da concerto sono limitate, quindi esiste una lotta per la sopravvivenza anche in questo campo piuttosto etereo. Ed è inevitabile che vincano i migliori. Una selezione di tipo darwiniano o qualcosa del genere. È una banalità dirlo, perché vale un principio generalissimo, quasi una verità di pura ragione, secondo il quale, in popolazioni di entità che si auto-riproducono nel tempo (come i batteri, le api e i ratti) o vengono riprodotte da qualcosa o qualcuno (come le sinfonie, le automobili, i jeans e la pizza), alla lunga, i portatori di caratteri che accelerano, per un motivo qualunque, il loro proprio tasso di riproduzione, si diffonderanno, a scapito di coloro che non li portano.
Potranno addirittura, in certe condizioni, diventare gli unici che si riproducono. Questo principio è talmente universale e irrefutabile che i neo-darwiniani sfoderano, per così dire, il revolver non appena qualcuno si permette di criticarlo. O meglio, non di criticare questo principio in quanto tale, il che sarebbe insensato, ma la tesi neo-darwiniana che questo principio basti da solo (ripetiamolo pure, da solo) a spiegare tutte le forme viventi e le loro intricate relazioni. Si sentono, allora, investiti da un ruolo assoluto: quello di proteggere la razionalità scientifica.
Questo è successo puntualmente anche la scorsa settimana al filosofo cognitivo americano Jerry Fodor, integralmente ateo e integralmente razionalista, che ha osato pubblicare nella «London Review of Books» un articol o giudiziosamente anti-darwiniano, intitolato «Perché i porci non hanno le ali». Centinaia di lettere di insulti e tre dettagliate critiche accademiche si sono accumulate nel suo computer. Di sfuggita, Fodor annuncia un libro che lui ed io insieme stiamo progettando: ho ricevuto, di rimbalzo, già due inviti a convegni, due offerte di pubblicazione da parte di editori americani e una dozzina di lettere perplesse da parte di colleghi. Eppure, la parte che mi riprometto di svolgere in una sezione di quel libro consiste semplicemente nell'allineare e organizzare dati e considerazioni sviluppate dai più qualificati biologi e genetisti negli ultimi anni. Fodor, da filosofo dell a mente, mostra che il neo-darwinismo ortodosso è minato dall'interno, da nozioni che, per funzionare come si vorrebbe, presuppongono ciò che pretendono di spiegare. Per esempio, la nozione «selezionato per» («il cuore è stato selezionato per pompare il sangue») importata dall'ingegneria, dal progettare umano, quella corrispondenza tra organi e funzioni che la cieca opera evoluzionistica non può da sola fornire. Il principio darwiniano, generalissimo, non si lascia, infatti, calare nei dettagli: perché un dato organo o tratto (per esempio la monogamia in alcune specie, la poligamia in altre) sarebbero stati selezionati. La forcella indesiderabile di opzioni alla quale Fodor vede costretti i neo-darwiniani è quella di scegliere tra l'attribuzione di un qualche micro- progetto, una micro-intenzione, alla natura, oppure tirare a indovinare, a lume di naso, i risultati della selezione naturale. La biologia contemporanea ha offerto una panoplia di processi evolutivi che si sommano alla classica selezione del più adatto. Quest'ultima esiste, ma è una fonte marginale delle architetture biologiche.
Esistono «geni maestri», fondamentalmente gli stessi dal moscerino all'uomo, organizzati in complesse reti, che hanno sotto controllo lo sviluppo e il funzionamento di organi svariatissimi nello stesso individuo (per esempio, nei mammiferi, corteccia cerebrale, fegato, gonadi e reni, oppure cresta neurale, fegato, orecchi, occhi e colonna vertebrale). Una qualsiasi selezione per una qualsiasi di queste funzioni si trascina dietro ineluttabilmente cambiamenti in tutte le altre. Come il genetista Edoardo Boncinelli ha sottolineato, è facile credere di spiegare selettivamente un certo cambiamento nel cervello umano, quando ciò che è stato selezionato è magari il funzionamento dei reni imposto dalla stazione bipede. E una corteccia più sviluppata è venuta in sovrappiù. Un'altra scoperta importante è stata quella del trascinamento di organi e connessioni, indotto da una mutazione che colpisce un diverso organo. Nel fringuello, per esempio (uccello tanto caro a Darwin) una mutazione che altera la forma della metà superiore del becco si trascina dietro cambiamenti congrui nelle ossa del cranio, la parte inferiore del becco, i muscoli del collo e i nervi. Un caso tra tanti, che ribadisce la coordinazione tra le diverse parti di un organismo vivente, il «dialogo tra i tessuti viventi», secondo l'espressione felice di Marc Kirschner, capo del dipartimento di biologia dei sistemi a Harvard. Tutto questo e tanto altro cospira contro la possibilità, per il gioco cieco della natura, di selezionare e affinare separatamente ogni organo, tratto, meccanismo, e per noi di spiegare la loro forma e funzione uno ad uno, attraverso trasparenti storielle di adattamento progressivo. Infine, non va trascurato il ritorno massiccio delle leggi della forma, cioè di fattori di ottimizzazione globale, comuni a specie diversissime e dovuti alla fisica più che alla biologia. Ne bastino due. La densità di connessioni nervose e la distribuzione dei gangli nervosi, dall'umilissimo verme di terra (il nematode) al macaco (e a noi) è ottimale, tra decine di milioni di possibili varianti esaminate pazientemente al computer da Christopher Cherniak all'Università del Maryland. Migliore anche della connettività pazientemente ingegnerizzata nelle migliori microchip oggi ottenibili industrialmente. Cherniak sottolinea che si tratta di processi innati di ottimizzazione, ma non specificati, in quanto tali, dai geni. La seconda straordinaria ottimizzazione naturale è quella dei circa centomila chilometri di vene, arterie e capillari che ciascuno dei nostri corpi contiene. West, Brown ed Enquist (al Santa Fe Institute) hanno dimostrato matematicamente che l'organizzazione di tutti questi vasi di trasporto, nel più piccolo mammifero come nella balena, segue la legge particolare dei cosiddetti frattali perfetti. In parole semplici la rete minimizza i costi di trasporto e ottimizza gli scambi. Queste soluzioni ottimali del mondo biologico non sono certo state selezionate darwinianamente a partire da tentativi a casaccio. Non ci sono state decine di milioni di generazioni di macachi il cui cervello ha tentato a casaccio tutte le soluzioni possibili.
La selezione ha dovuto essa stessa seguire dei binari stretti, imposti dalla fisica e da principi generali di ottimizzazione. Come ama dire Antonio Coutinho, immunologo dell'Institut Pasteur, i sassi cadono in terra per la forza di gravità, non perché la selezione naturale ha eliminato tutti quelli che tendevano ad ascendere in alto. Il titolo del libro di Fodor e mio, per ora provvisorio, potrebbe, quindi, ben essere «evoluzione senza adattamento».

Corriere della Sera 4.11.07
Religione. Il pamphlet del filosofo Bernard Sichère rivaluta Jacques Lacan
Riscoprire la fede con l'aiuto della psicoanalisi
di Lucetta Scaraffia


I o sono cattolico e «non credo affatto di essere una bestia rara », scrive il filosofo francese Bernard Sichère in un libro agile e chiaro che si contrappone ai numerosi pamphlet anticattolici, se non addirittura anticristiani, usciti negli ultimi mesi. Sichère non è un conservatore reazionario — ha anche qualche riserva sulle posizioni della Chiesa a proposito di questioni importanti come il rapporto con le altre religioni e la sessualità — e spiega la sua scelta religiosa con argomenti nuovi e interessanti. Per lui, la principale attrattiva del cristianesimo è una concezione del tempo — «essere cristiani significa avere una certa esperienza del tempo» — che dà al presente una profondità e un senso. Al contrario della cultura secolarizzata, che ci fa vivere «in un presente fisso su di sé» per creare un mondo nuovo, nell'ignoranza assoluta di quanto lo ha preceduto. Come dimostra il rifiuto assurdo — stigmatizza il filosofo francese — di menzionare le radici cristiane nel preambolo della costituzione europea, negando una evidenza che segna il paesaggio del vecchio continente.
Per Sichère il passato è la storia sacra, quella storia che è anche sempre attuale nella rilettura della Bibbia, permettendoci di comprendere i nostri legami con il mondo e di capire che di questo mondo non siamo gli unici padroni. Una storia che è «l'immensità dello spazio e del tempo a partire dalla quale ogni uomo è chiamato a trovare se stesso». Essere cristiano significa ritenere che «accanto al tempo orizzontale che passa e che fugge, esiste un tempo che non passa, un tempo che resta». Insomma, vuol dire «avere fede», esperienza che si vive in primo luogo partecipando alla messa, momento di incontro fra la scansione quotidiana e l'eternità. Proprio questo fluttuare tra identità e cambiamento — scrive Sichère — è «il respiro del tempo cristiano», quello della promessa che ogni cristiano vive nel momento del raccoglimento interiore e della preghiera, grazie a «parole antiche e commoventi che hanno attraversato i secoli per affiorare sulle nostre labbra».
Centrale per una riflessione sul cristianesimo è l'enigma del Padre e della paternità, sul quale — secondo il filosofo — hanno fornito importanti intuizioni teologiche psicanalisti come Freud e Lacan. Di quest'ultimo Sichère condivide l'affermazione che la religione cristiana si regge profondamente sul rapporto con il Padre, e anzi Lacan è da lui considerato un «sottile teologo del XX secolo, in qualche modo sprecato fra le file degli psicanalisti». E, nel porsi le domande fondamentali sull'esistenza del male e sulla vita dopo la morte, Sichère continua a fondere nel suo originale ragionamento la propria fede con le letture letterarie o filosofiche che hanno fatto parte della sua formazione. Si capisce in questo modo come un intellettuale possa collocare la fede al centro del suo pensiero: senza rinchiuderla in uno scomparto «privato» della sua mente e senza rinunciare a far parte integralmente della cultura del suo tempo.

Il libro di Bernard Sichère, «Cattolico - Perché non dobbiamo rassegnarci a un mondo senza Dio» è edito da Lindau, pagine 136, e 14

Corriere della Sera 4.11.07
Seduzione. Singolare esperimento di ricercatori inglesi
Perché le donne amano i mascalzoni
Merito dell'irresistibile mimica facciale
di Roberta Salvadori


Perché mai tante donne si innamorano di uomini che si comportano da mascalzoni? Secondo uno studio britannico è colpa della mimica facciale. Un sorriso, un'alzata del mento, un movimento di ciglia possono avere una tale carica di seduttività per l'interlocutrice, che il contenuto dei discorsi di lui può finire col passare inosservato, anche se questi esprime concetti negativi e di forte carica antisociale, che dovrebbero metterla in guardia.
Per giungere a queste conclusioni, psicologi dell'Università di Bristol, in Gran Bretagna, hanno messo a punto un curioso esperimento, volto a verificare l'importanza dell'espressività facciale durante il corteggiamento, come fonte di informazione fra possibili partner. Gli studiosi hanno selezionato 28 bei ragazzi e li hanno filmati, eliminando la colonna sonora, mentre parlavano di vari argomenti in modo che potessero esprimersi sia con espressioni dolci, controllate, rassicuranti, sia con atteggiamenti disinvolti, disinibiti, seduttivi. Per rendere più sinteticamente decodificabile le espressioni del volto hanno creato un disegno animato ottenuto con un semplice tratto lineare dei visi e ne hanno standardizzato le forme incrociando le fattezze dei vari soggetti. Alle animazioni sono state poi accoppiate scritte di dichiarazioni socialmente corrette e decisamente antisociali. Per esempio, accanto ai filmati di volti dolci, gli esperti hanno scritto frasi virgolettate gentili, come "cerco di aiutare chi ha meno di me", o "rispetto chi è diverso". Al contrario, sotto le immagini più fascinose, comparivano frasi di forte carica antisociale, come "gli anziani sono un peso per la società", "odio gli immigrati" e così via.
Filmati e animazioni sono stati poi presentati a molte donne che hanno selezionato i visi che trovavano più attraenti nell'eventualità di scegliere l'uomo adatto per una relazione a breve o a lungo termine. Risultato: in genere le donne interessate a un rapporto di lunga durata hanno dichiarato di preferire gli uomini che facevano dichiarazioni socialmente corrette. Mentre quelle disponibili a un rapporto a breve hanno preferito gli uomini più seduttivi, indipendentemente dalle dichiarazioni loro attribuite, dimostrando così di essere disposte a innamorarsi di una "canaglia", anche a rischio di doversene poi pentire amaramente.
«La classica canaglia, non importa se simpatica o no, affascina molte donne per la sua trasgressività, per il suo atteggiamento di sfida. In fondo, poi, lei non crede che lui sia così cattivo come sembra, e pensa: "io ti salverò"», commenta la psicoterapeuta della coppia Gianna Schelotto.
Andrew Clark, portavoce del gruppo di ricerca, spezza però una "lancia biologica" a favore delle donne pronte a lasciarsi affascinare: «Un uomo più seduttivo e evidentemente interessato al sesso, anche se poco serio, mostra più vigore e disinvoltura sociale, ambedue atteggiamenti rilevatori di "buoni geni", utili per la procreazione, anche in rapporti brevi» dichiara. Questo tipo di interpretazione che punta sull'inconsapevole tendenza biologica dell'individuo a scegliere i partner più adatti alla procreazione è alla base di molte ricerche. Studi dell'Università della California di Los Angeles hanno dimostrato che in genere la donna, quando è vicina ai giorni del ciclo in cui è fertile, preferisce l'uomo con espressione del volto lineamenti e odore più maschi.
Secondo un'interpretazione «biologica» dello studio, un uomo più seduttivo e evidentemente interessato al sesso, anche se poco serio, farebbe intendere di avere «buoni geni», utili per la procreazione
Chiara Simonelli, psicosessuologa dell'Università La Sapienza di Roma — le interpretazioni genetiche sono spesso esasperate, mentre si trascura l'importanza dell'esperienza accumulata da ciascuno fin dalla nascita».
E a proposito degli studi, prevalentemente americani, su mimica e sessualità, Alberto Oliverio, psicobiologo della stessa Università, sottolinea: «Più che per la biologia evoluzionista queste ricerche possono essere utili per il business. Le conclusioni scientifiche possono servire ai creatori di immagine per rendere più attraente anche dal punto di vista sessuale l'espressione dei modelli che pubblicizzano questo o quel prodotto: una carta vincente per indurre il consumatore all'acquisto».

il manifesto 4.11.07
Giocare col fuoco
di Marco Revelli


Quanto avvenuto in Italia in questa maledetta settimana di Ognissanti non ha paragone con nessun altro paese civile. Che un crimine, per orrendo che sia - e l'assassinio di Giovanna Reggiani lo è -, produca come reazione la ritorsione collettiva, in alto e in basso, nelle istituzioni e nella società, contro un intero gruppo etnico e un'intera popolazione, è fuori da ogni criterio di civiltà, giuridica e umana. Che la colpa «personale» dell'autore del crimine venga fatta pagare sulla pelle di migliaia di donne, uomini, bambini, già costretti a vivere in condizioni di indigenza estrema, è cosa che non può non sollevare un senso di desolazione e disgusto.
Le immagini delle ruspe immediatamente entrate in azione per spianare gli «insediamenti abusivi» e ostentate in tutti i telegiornali, le irruzioni un po' in tutta Italia nei «campi nomadi», le identificazioni di massa e le prime espulsioni annunziate trionfalmente da prefetti e giornali, come se tra quel crimine e quelle persone scacciate senza tanti complimenti esistesse un nesso diretto, fino all'aggressione di Tor Bella Monaca, evocano scenari inquietanti, d'altri luoghi e di altri tempi. Alludono a una bolla di odio, di ostilità, di paura aggressiva gonfiatasi sotto la superficie patinata della nostra quotidianità, che personalmente mi terrorizza.
Sgonfiare quella «bolla calda» di rancore ed emotività, neutralizzarne i veleni, dovrebbe essere il compito di tutti noi. Di chiunque lavori davvero a una condizione di «sicurezza collettiva». Soprattutto della politica, nel suo senso più nobile, come organizzazione della coabitazione pacifica nella città (della «bella politica», come ama chiamarla Veltroni). E invece la politica, da cura del male si trasforma oggi in fattore di contagio.
Anziché neutralizzarlo, finisce per reclutare l'odio. Per quotarlo alla propria borsa, come risorsa capace di assicurare il consenso prodotto dalla paura. Nel caso specifico ha incominciato Gianfranco Fini, perfettamente coerente in questo con il suo passato fascista, occupando il terreno del crimine. Dichiarandone con la sua sola presenza il carattere «politico». Facendone oggetto di contesa politica. Ma gli altri, purtroppo, non si sono tirati indietro. L'hanno seguito a testa bassa, in rapida successione, governo e sindaco di Roma, forse pensando così di contendergli lo spazio. Di parare il colpo, in una rincorsa sciagurata. Di fatto contribuendo ad alimentare quella bolla, a legittimarne implicitamente gli umori lividi. A sdoganare l'ostilità preconcetta. Né ci si può stupire se, dietro le ruspe del comune, qualcuno penserà di fare da sé, di «dare una mano», sgomberando a colpi di spranga qualche baracca. O bruciandone qualcuna. O eliminando, a coltellate, qualche «abusivo» dell'umanità.
Stiamo veramente giocando col fuoco. La possibilità di evocare mostri che poi non si sapranno controllare è spaventosamente reale. Io ho paura. Non lo nego. Vorrei che chi ha oggi il potere della parola e dell'amministrazione, ci riflettesse. Seriamente. Fuori dalla nevrosi mediatica e dall'urgenza di piacere. Pensando, per una volta, a un futuro che vada oltre il prossimo sondaggio.zano questo o quel prodotto: una carta vincente per indurre il consumatore all'acquisto».

il manifesto 4.11.07
Il mercato dei capri espiatori
di Alessandro Robecchi


I recenti avvenimenti nazionali hanno portato una ventata di euforia sul mercato delle materie prime, specie nel comparto «capri espiatori», un po' depresso dopo la bolla speculativa dei lavavetri. I romeni, più o meno rom, hanno registrato un impressionante balzo in avanti nelle quotazioni, sono molto ricercati e i prefetti più lungimiranti hanno fatto buone scorte. Il titolo «immigrati romeni» ha fatto un balzo anche per il battage della stampa e qualche dichiarazione politica, al punto che si è adombrato il rischio di insider trading e c'è il sospetto che qualcuno voglia acquisire una posizione dominante grazie alla speculazione sui romeni. In rialzo anche il comparto degli avvoltoi. Naturalmente gli speculatori più attenti sanno che non durerà a lungo, quindi si sta sviluppando il mercato dei futures dei capri espiatori. Questi raffinati strumenti finanziari consentono di investire su minoranze a cui romperemo i coglioni in futuro. Se il comparto «capri espiatori» tira, va detto, è anche perché è cambiata la figura dello speculatore medio, oggi più propenso che in passato ai rastrellamenti e alle deportazioni. Ciò dipende dall'insicurezza e dalla volatilità del mercato: un'esistenza precaria, un mutuo variabile, un rischio costante di impoverimento, possono spingere verso una profittevole rabbia che, incanalata, porta alle stelle le quotazioni dei capri espiatori. Ecco un esempio di come una diffusa paura sociale può essere utile nell'attuale situazione. Se sei incazzato per il mutuo, per il basso reddito, per l'affitto, per l'incertezza del futuro, per la vita dei tuoi figli e per un milione di altre cose, prendere a botte uno zingaro è un rimedio fortemente ricostituente. Il mercato si impenna, sono tutti contenti. Ma attenzione a investirci troppo, si tratta comunque di una speculazione. Una volta scoppiata anche la bolla romena, uno si troverà incazzato come prima e alla ricerca di nuovi bersagli. Per questo il mercato dei capri espiatori deve essere reattivo e veloce: chi sarà il prossimo?

il manifesto 4.11.07
Il nuovo squadrismo ai tempi dell'Unione
Razzismi Mentre la caccia allo straniero sta diventando lo sport nazionale, il governo si adegua con un decreto legge razziale. La sintonia con il paese reale adesso è perfetta
di Luca Fazio


Il sindaco di Roma adesso ci viene a dire che la vendetta è estranea ai suoi valori. E il ministro dell'Interno ci racconta che non bisogna cavalcare la tigre razzista. Complimenti. Disgusta la pacatezza dei toni con cui i mandanti immorali del raid di Tor Bella Monaca contro i rumeni prendono le distanze dall'accaduto, come se quell'aggressione non fosse perfettamente in linea con il «giro di vite» di stampo fascista imposto da questo disastroso governo; anche Stefano Rodotà, non un massimalista della chissà quale sinistra radicale, ha detto che ormai non basta condannare l'accaduto.
Forse non basta perché le prefetture di tutta Italia stanno ordinando rastrellamenti indiscriminati contro rom e rumeni che non hanno fatto nulla, proprio in ottemperanza al decreto legge razziale approvato dopo l'assassinio di Giovanna Reggiani. E chi si prende la responsabilità, o si vergogna, di questo obbrobrio? Solo il Prc, un pochino, e lo fa sulle pagine del suo giornale ponendosi domande scomode; non è da poco quella formulata dalla deputata Mascia: lei vorrebbe gridare che il Prc non c'entra perché non si può essere «complici di una persecuzione razziale». E invece? Invece eravamo rimasti al ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, che prima si astiene su un disegno di legge razzista (per poterlo migliorare) e poi lo vota come decreto legge, dando il via ai rastrellamenti su base etnica. Di benino in peggio, davvero un buon viatico per procedere spediti al «superamento» della Bossi-Fini: staremo a vedere. Il ministro Amato, invece, si indigna perché il centrodestra solleva «la bufera sulla sicurezza», fatto increscioso perché «dobbiamo impedire che la bestia razzista esca dalla gabbia».
Ma in che paese vivono questi ministri? Ma davvero non si sono ancora resi conto che la bestia è già uscita da un pezzo, e che è stata aizzata anche dalle loro campagne sicuritarie da principianti studiate per rubare la scena al centrodestra? - e dire che basta Fini che passeggia a Tor di Quinto per far impallidire tutto il Pd. Sono le cronache ai tempi dell'Unione a dire del preoccupante ritorno dello squadrismo in Italia, termine improprio perché rimanda all'idea di attacco fascista, mentre l'accanimento contro stranieri e poveracci oggi trova volontari a destra come a sinistra. Ricordate? I ragazzi italiani del Trullo di Roma, armati di spranghe (a proposito di emergenza criminalità) un anno fa assaltarono e incendiarono il «bar dei rumeni». Due mesi dopo, a Opera, Milano, le istituzioni tutte - ministro dell'Interno compreso - si sono arrese davanti a un centinaio di razzisti che hanno appicato il fuoco alle tende di pochi zingari regolari, minacciando per un mese donne e bambini. Stessa sorte, ancora fiamme, in aprile è toccata ai nomadi che vivevano ad Appignano (Ascoli), colpevoli di vivere nello stesso campo di un rom che ha ucciso con il furgone quattro ragazzi del paese. In agosto sono bruciati vivi quattro bambini rom a Livorno in circostanze non chiarite, e in prigione sono finiti i genitori per abbandono di minori. A settembre, su istigazione del sindaco di Pavia (Ds) per giorni un gruppo di rom è stato deportato sotto scorta perché a rischio linciaggio, mentre nella mischia si distinguevano fascisti, leghisti e diessini. «Camere a gas», gridavano. Anche in questo caso il governo ha taciuto.
E se adesso ci vengono a raccontare che è per evitare certe derive che si procede alla deportazione dei rumeni, allora sono incapaci e fuori tempo massimo. Vista la gravità della situazione, è inutile dibattere se abbia senso o meno tenere in vita questo governo. Del resto, qualcuno disposto a dargli una mano lo troverà di sicuro. O in parlamento, o in mezza alla strada.