martedì 6 novembre 2007

l’Unità 6.11.07
Bertinotti: «Il governo duri, ma la svolta non c’è»
Il presidente della Camera a “Otto e Mezzo”: «Il Pd da solo? Grave e minaccioso»
di s.c.


«PROVARE e riprovarci». Questo è il dovere della maggioranza «fino alla fine della legislatura». Ma se si guarda ai passi fatti più che a quelli ancora da fare il verdetto non è proprio positivo: «Con questo governo si doveva determinare il cambio, ma il governo della grande riforma non si è dato». Fausto Bertinotti rimane convinto che l’esecutivo abbia «un compito che può continuare a svolgere» e che «istituzionalmente sarebbe cosa buona e giusta che il governo durasse una legislatura e fosse giudicato alla fine dopo un tempo congruo per fare una politica». Però secondo il presidente della Camera la svolta sperata nella primavera dell’anno scorso non c’è stata, la «discontinuità» rispetto al governo targato Cdl non si è vista: «Cose interessanti sono state fatte, c’è stata una politica di contenimento dei guai, ma il cambio non c’è stato». E ora esecutivo e centrosinistra «devono ritrovare una ragione per proseguire il cammino a partire dal programma».
Bertinotti parla negli studi di La7, ospite della trasmissione “Otto e mezzo”. Affronta il tema della sicurezza, della legge elettorale, della sinistra italiana. Terminata la registrazione della puntata, il presidente della Camera viene informato della morte di Immacolata Orlando nella fabbrica dove lavorarva, ad Angri: «Tre figli hanno perso la madre morta sul lavoro. Non si può smettere di pensare a cosa fare perché non possa più accadere, altrimenti è la politica che muore».
Davanti alle telecamere è più che altro il tema sicurezza a tenere banco. «Non lo nego», risponde Bertinotti quando gli viene domandato se il crescente flusso di immigrati nel nostro paese sia un problema. Però, avverte, «evitiamo di trovare capri espiatori» e più che altro «vanno indagate le cause della nascita della violenza». Il presidente della Camera è infatti convinto che la questione va affrontata mettendo «accanto a ogni forma repressiva anche una forma di aggregazione e accoglienza». Soprattutto, pur non nascondendo che la sinistra deve fare «autocritica», perché ha «sottovalutato il carattere devastante della violenza e di ogni complicità con essa», perché ha pensato che esista «una violenza buona», Bertinotti dice no all’«affanno emergenzialista».
Della sinistra Bertinotti parla anche in rapporto a una modifica della legge elettorale e alla prospettiva che il Partito democratico si presenti da solo alle prossime elezioni. Con un sistema maggioritario come quello attuale o come quello che deriverebbe dal sì al referendum, dice il presidente della Camera, «l’ipotesi che il Pd vada da solo sarebbe grave e minacciosa». Diverso sarebbe se venisse approvata una riforma aderente al sistema tedesco: «Sarebbe una scelta politicamente discutibile, ma non accusabile di tradimento». Lo sguardo è rivolto al termine della legislatura, quando «nel fare un bilancio, non solo il Pd, come dice Veltroni, sarà indotto a un riposizionamento, magari correndo da solo, ma anche le forze della sinistra saranno indotte a fare una riflessione strategica».

Corriere della Sera 6.11.07
Bertinotti fa autocritica «Sottovalutazioni a sinistra La violenza buona non c'è»
di A. Gar.


ROMA — La domanda è di Ritanna Armeni: presidente, la sinistra fa autocritica sul tema sicurezza?
Bertinotti, presidente della Camera dei deputati, annuisce: «Abbiamo sottovalutato il carattere devastante della violenza e di ogni complicità con la violenza. Questa è l'autocritica possibile per la sinistra in cui ho militato». Spiega meglio: «Abbiamo pensato che ci fosse una violenza buona». Studi della tv La 7, a Roma.
A Otto e mezzo, condotto da Giuliano Ferrara, si parla, con l'ex segretario di Rifondazione comunista, della tragedia di Giovanna Reggiani, uccisa da un cittadino romeno. Bertinotti accusa certi effetti della modernizzazione, la paura perfino del vicino, il sangue in famiglia, e di qui arriva alla condanna globale della sopraffazione. E della distinzione fra violenza buona e cattiva, pensando probabilmente a certe prese di posizione anni '70. A proposito di rom e romeni, Bertinotti dice: «Evitiamo capri espiatori». E a proposito del decreto sulle espulsioni risponde che «ad ogni forma di repressione va affiancata una forma di accoglienza».
Dettando così la linea di "ammorbidimento" del decreto che il ministro Ferrero porta avanti. Ma, aldilà della questione sicurezza — domandano i conduttori — Rifondazione ha vinto la scommessa sul governo? È stato giusto prendervi parte? Ci sono cose utili realizzate, risponde Bertinotti, come il ritiro dall'Iraq o la legge sugli infortuni sul lavoro. E ci sono risultati ancora da attendere. Il governo Prodi «deve ripartire dal programma» e «sarebbe giusto che duri l'intera legislatura».
Tuttavia... «Tuttavia, quello che si chiama "il cambio" non c'è stato. È mancato quel grande spirito riformatore che ebbero il Fronte popolare in Francia, la nascita del governo Allende e anche il primo governo di centrosinistra in Italia». E alla fine di questa legislatura? «Alla fine — sostiene Bertinotti — non solo il Partito democratico sarà indotto a riposizionarsi ed eventualmente a correre da solo. Anche le forze della sinistra dovranno ricollocarsi». E se il Pd andasse da solo? «Con l'attuale sistema elettorale o con quello che dovesse risultare dal referendum l'ipotesi sarebbe grave. Invece, con un sistema elettorale "tedesco" la separazione della sinistra può essere discussa politicamente, ma non sarebbe tradimento».
Avvertimento per Veltroni, evocato più volte, mai nominato. Come quando, tornando sulla morte di Giovanna Reggiani, Bertinotti osserva: «Ogni volta che siamo approdati a legislazioni emergenzialiste dopo dieci anni ci siamo pentiti», e aggiunge: «Capisco che c'è una tensione da ruolo...», intendendo — si può pensare — «da doppio ruolo», sindaco e segretario Pd. E rincara: «Tutti noi siamo responsabili: ma a Roma le baraccopoli che ora vengono rimosse c'erano già prima, da lungo tempo.
Perché siamo stati distratti?».

Repubblica 6.11.07
"La sinistra ha sottovalutato la violenza"
Bertinotti: "Non nego il problema dei rom". Tensioni in Rifondazione sul decreto
Ferrero: "C'è un'emergenza razzismo, il decreto va modificato"
di Carmelo Lopapa


ROMA - Prende molto sul serio l´emergenza violenza e non nega il problema criminalità legato alla migrazione romena, ma dice no alla repressione contro «un capro espiatorio». Intervenire, certo, «per prevenire e reprime», ma la formula che usa è «reprimere nel giusto». Guai a precipitare in un «affanno emergenzialista». Messaggi e parole del presidente della Camera Fausto Bertinotti, indirizzati in qualche modo al governo alle prese col decreto sulle espulsioni. Il fatto è che per la prima volta il presidente della Camera si lancia anche in una considerazione che ha tutto il sapore di un mea culpa a sinistra sul tema rovente della sicurezza.
Sinistra che - ha detto l´ex leader di Rifondazione, ieri sera a "Otto e mezzo" di Giuliano Ferrara - «potrebbe avere sottovalutato il carattere devastante della violenza e di ogni complicità con essa. Deve fare autocritica per aver pensato che esista una violenza buona. Quella è una colpa». Dice proprio così, Bertinotti: autocritica. Dopo di che, la terza carica dello Stato avverte «più che il timore di un´ondata xenofoba», dopo gli eventi tragici di questi giorni.
Sulla questione sicurezza, tuttavia, di ora in ora le distanze si fanno sempre più marcate dentro la maggioranza. Dalla sinistra parte un aut-aut pressoché unanime al governo perché venga modificato il decreto. E tutto questo si trasformerà in emendamenti e pregiudiziali di costituzionalità al testo che oggi inizia il suo iter in commissione Affari costituzionali del Senato. Il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero (Prc) lo ha detto chiaro ieri al premier Prodi, lamentando piuttosto una «emergenza razzismo: il decreto va modificato, reintroducendo le norme della legge Mancino contro il razzismo e definendo quali forme di espulsioni possono essere previste». Linea rilanciata in serata dal partito al termine della riunione di gruppo a Palazzo Madama. «Il decreto è brutto, non ci piace - ha spiegato ai suoi il capogruppo Giovanni Russo Spena - Ed è nostra intenzione modificarlo». Toni molto meno diplomatici erano stati usati in giornata dal senatore Franco Turigliatto e dal deputato Salvatore Cannavò della corrente "Sinistra critica": «Il cinismo di Veltroni monta una campagna razzista». E Claudio Grassi di "Essere comunisti": «Io voto contro». Prc a parte, sulla linea del ritocco al decreto si attestano anche la Sinistra democratica di Salvi e Mussi come il Pdci: «Modificare nel profondo» dice Manuela Palermi. Solo i verdi, con Pecoraro Scanio, difendono il decreto e giudicano «irresponsabile il no della Cdl».
Ha aperto invece un aspro confronto, tutto interno a Rifondazione, l´intervista a Repubblica con cui il vicepresidente del Senato Milziade Caprili ha confessato di condividere la stretta del governo: «La gente è stanca dei rom. Chi non ha reddito deve essere rimandato in Romania». Miniprocesso o quasi nella riunione di gruppo di ieri sera. Con Fosco Giannini che cita Gramsci e contesta il collega: «Ho ricevuto moltissime telefonate indignate dai nostri militanti. Non è vero che il popolo di sinistra è insofferente. Certe forzature rischiano di solleticare il populismo anche a sinistra». E Caprili che si difende: «Ho detto quel che pensavo». Alla fine il capogruppo Russo Spena ha chiuso la faccenda così: «Dato che siamo tutti d´accordo sulla modifica del decreto, meglio evitare uscite soggettive». Tra coloro che non avevano gradito, a dir poco, la voce fuori dal coro di Caprili, il deputato no global Francesco Caruso. Suo l´emendamento provocatorio al decreto sicurezza con cui chiede l´allestimento di «campi di concentramento per cittadini romeni».

l’Unità 6.11.07
Razzismi. Ai confini dell’odio
di Ferdinando Camon


Non c’è scampo né dalla violenza altrui né dalla propria. E dunque: salviamoci, facciamo le leggi che ci servono per salvarci. Ma è sbagliato odiare. Perché gli assassini sono vittime che creano vittime...

Poi spenderò una parola di pietà, cristianamente, marxianamente, umanamente dovuta, all’assassino di Giovanna, ma prima metto un’avvertenza: condivido tutto quello che è stato detto finora, sull’atrocità e la disumanità del delitto, e sulle reazioni che ha suscitato, la convocazione dei ministri, la decisione di espellere quelli che potrebbero ripetere un atto simile. Condivido tutto questo, anzi ci aggiungo qualcosa. Pur nella sua bestialità, il delitto di Roma, che ha convocato di soprassalto i politici perché facessero qualcosa, non è il più orrendo dei delitti compiuti da stranieri in Italia nelle ultime settimane. C’è di peggio.
Lo so che paragonare male con male non ha senso, e che ogni male è il peggio. Però qui c’è un problema.
A Gorgo, nel Trevigiano, a fine agosto, sono state ammazzate non una persona ma due, non la moglie ma anche il marito, non da uno straniero ma da tre, e con una efferatezza che scavalca quella di Roma, perché quella di Roma viene raccontata, quella di Gorgo non è raccontabile. Per ore la polizia indagava, annotava sul verbale, ma ai giornalisti ripeteva: «Non possiamo dire quel che vediamo, è meglio che nessuno lo sappia». Ognuno dei due morti aveva delle coltellate, non diciamo dove. Erano stati tagliati con cacciaviti, non diciamo dove. E fermiamoci qui. La domanda è: perché per una morte orribile a Roma si scuotono i vertici dello Stato, per due morti più che orribili nel Nord non si è scosso niente? Una atrocità a Roma vale più di due super-atrocità lontano da Roma? Roma non vede fino a Palermo e a Trieste? Allora, che capitale è?
Questo però significa anche un’altra cosa: quel che fa il governo per il fattaccio di Roma si spiega per il fattaccio di Roma, ma anche per i fattacci altrettanto feroci, se non di più, accaduti in giro per la nazione. Nessuno, che legga questo articolo, può pensare che chi lo scrive non abbia presente la mostruosità di questi atti, e la necessità di una risposta, legale e repressiva.
Quando scopriamo un delitto intollerabile, guardiamo la vittima, un bambino, una donna, e pensiamo: «A chi ha fatto questo, dobbiamo fargliela pagare». Poi lo troviamo, colui che ha fatto questo. Lo abbiamo davanti. Lo teniamo in pugno. Lui in mezzo, carabinieri a destra e a sinistra, possiamo fargli quel che vogliamo, ma nel cervello sentiamo infiltrarsi una domanda: e adesso, che facciamo?
L’assassino di Giovanna ha una faccia assente, uno sguardo velato, un occhio che non vede. Cos’è, alcol, droga, fame, freddo, ignoranza, malattia? Sappiamo tutti che, quando una domanda ha sei-sette risposte, cercare una risposta sola vuol dire accontentarsi di una bugia. L’occhio del romeno assassino è velato da tutti quei veli. Se fosse un velo solo, glielo potremmo togliere. Sappiamo di immigrati che avevan fame, sappiamo di qualche prete che li sfamava, sappiamo che loro lo hanno ucciso, quel prete. Perché essere sfamati gli toglieva un problema, ma loro ne avevano altri quaranta. Si dice: se uno è regolarizzato, si sente a posto, e fa il bravo. Non è così. A Gorgo il gruppetto di assassini era composto di tre stranieri, uno aveva un lavoro, dunque era sistemato. Ma evidentemente dentro di lui le parti non-sistemate erano tante, e per sistemarle lui sentiva come uno strumento necessario la morte. Poi tutti e tre son finiti in galera. Non potevano più ammazzare. Dunque, l’avevan finita con la morte. Errore: non potendo più uccidere, uno ha tentato di uccidersi, impiccandosi.
Vengono da sub-topie dove si muore dalla nascita alla morte, vivono una vita che è peggio della morte, perché è un delirio che passa di malattia in malattia. Sartre diceva: uno non è responsabile di quel che riceve, ma è responsabile dell’uso che ne fa. Per dire: se patisce violenza, non è colpa sua, ma è colpa sua se diventa violento. Grande frase. Ma è sbagliata. C’è una violenza dalla quale ti salvi diventando violento, non hai scampo né dalla violenza altrui né dalla tua. E dunque: salviamoci, facciamo le leggi e i decreti che ci servono per salvarci, non possiamo rischiare la vita passando per le nostre città. Ma è sbagliato odiare. Spaccare le teste. Bastonare. Inseguire. Bruciare gli accampamenti. Tirare molotov. Creare vittime. Perché gli assassini sono vittime che creano vittime.

l’Unità 6.11.07
Ferrero: Intollerabile la destra che soffia sul fuoco


Il ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, propone al Premier di modificare il decreto sulla sicurezza «reintroducendo da un lato le norme della legge Mancino contro il razzismo e dall’altro definendo in modo chiaro, e in base alla nostra Costituzione, quali forme di espulsioni individuali può prevedere il decreto». Secondo Ferrero vanno respinte le posizioni intolleranti della Destra. «L’ulteriore episodio che si è verificato questa notte alla porte di Roma, con l’attentato razzista che ha colpito un esercizio commerciale gestito da cittadini romeni a Monterotondo ci dice come accanto al problema della criminalità esista una vera emergenza razzismo». Secondo il ministro della Solidarietà «in questo momento delicato si devono respingere con la massima fermezza i toni e le posizioni intolleranti assunti dagli esponenti della destra che soffiano sul fuoco del razzismo».
In questo clima particolarmente gravi, per il ministro della Solidarietà, sono le affermazioni del leader di Alleanza nazionale Gianfranco Fini, «che considera non integrabili i rom, contraddicendo per altro in questo i dati ampiamente disponibili che indicano come con adeguate politiche, anche nel nostro paese, le comunità rom si possano pienamente integrare».

l’Unità 6.11.07
L’Unione europea: espulsioni solo se motivate
Non basta una condanna. La limitazione della libera circolazione
è ammessa solo per motivi di ordine pubblico, sicurezza, sanità
di Sergio Sergi


CI SONO VOLUTE, dopo quasi una settimana, le parole semplici e dirette del capo dei portavoce della Commissione europea per chiarire quel che in Italia pochi (tra questi, il ministro dell’Interno, che lo ha dovuto fare per mestiere e per antica competenza), hanno avuto la voglia di andare a verificare. Sarebbe bastato leggere, e poi spiegare, la direttiva 38/2004 sul «diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri». Ha detto ieri Johannes Laitenberger: «Non c’è alcun legame tra i problemi della sicurezza che sta affrontando l’Italia e l’allargamento dell’Unione europea. Qui si sta discutendo del comportamento criminale di individui specifici, e questo non è causato dall’allargamento o dal libero movimento dei cittadini». E ancora: «L’allargamento e il libero movimento non rappresentano un ostacolo nel contrastare in maniera efficace la criminalità organizzata».
Parole sante. Anche perché il forte contrasto che si è sviluppato sull’onda dell’orrenda pagina di Tor di Quinto, l’emotività che ne è scaturita, hanno fatto strame dell’equilibrio e della compostezza necessari in momenti così drammatici. Dunque, di cosa si tratta?
Il primo chiarimento operato ieri da Bruxelles è assai utile. Fermo restando che la Commissione (cioè il commissario Franco Frattini) si riserva il diritto di esaminare il decreto «espulsioni» varato dal governo non appena le sarà notificato, da Bruxelles è partito l’invito a prestare attenzione all’applicazione della direttiva sulla libera circolazione. Altrimenti, l’Italia potrebbe rischiare l’apertura di una procedura d’infrazione per aver male applicato la direttiva e, non è escluso, anche qualche reprimenda politica se dovesse proseguire nel tempo, superando gli episodi isolati, un clima di caccia alle streghe tipico di una situazione xenofoba. Va ricordato che l’Ue ha aperto da poco l’Agenzia sulle libertà fondamentali, con sede a Vienna, che osserva da vicino nei vari Paesi i fenomeni di razzismo e discriminazione verso comunità e minoranze.
Dunque, la direttiva. Si tratta di una «legge» comunitaria molto articolata e che presenta, a dispetto di quanti invocano genericamente e confusamente l’Europa, tratti di aperto garantismo giuridico. Altro che proporre l’espulsione immediata di ventimila romeni o di altrettanti nomadi, come grida a sproposito l’ex ministro Fini.
La direttiva è molto precisa e descrive come e con quali procedure si può passare alle «limitazioni del diritto d’ingresso» e, di conseguenza, all’allontanamento. Fanno testo gli articoli 27 e 28 della direttiva che riguarda, è bene tenerlo presente, tutti i cittadini di ogni Stato dell’Unione europea. L’Ue non vara direttive specifiche, ci mancherebbe, su uno o più Stati tra i ventisette «soci».
L’articolo 27 dice che «gli Stati membri possono limitare la libera circolazione di un cittadino dell’Unione o di un suo familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica. Tali motivi non possono essere invocati per fini economici».
Inoltre i provvedimenti adottati in base a quei motivi «rispettano il principio di proporzionalità e sono adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale della persona nei riguardi della quale sono applicati. La sola esistenza di condanne penali non giustifica automaticamente l’adozione di tali provvedimenti».
Chiaro? Di più: «Il comportamento personale deve rappresentare una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società».
Poi c’è l’articolo 28 che riguarda la «protezione contro l’allontanamento». Infatti, prima di adottare un simile provvedimento, lo Stato «tiene conto di elementi quali la durata del soggiorno, l’età, lo stato di salute, la situazione familiare ed economica, l’integrazione sociale e culturale nello Stato ospitante e l’importanza dei legami con il paese di origine».
Come ha ricordato ieri la Commissione, esistono tutta una serie di paletti da osservare prima di emettere un provvedimento motivato di espulsione cui si può opporre, in sede giurisdizionale, un ricorso per chiederne l’impugnazione o la revoca.

Repubblica 6.11.07
I costituzionalisti: norme a rischio illegittimità


ROMA - C´è il rischio di imboccare «scorciatoie che imbarbariscono il nostro ordinamento» e mettere in atto «attività repressive che confliggono con la dignità umana che è un valore universale». Carlo Mezzanotte e Guido Neppi Modona - ex vicepresidenti della Consulta e relatori delle sentenze della Consulta che nel 2004 bocciarono parte della legge Bossi-Fini - mettono in guardia i legislatori dal varare norme che potrebbero confliggere con la Costituzione. Neppi Modona spiega che ogni provvedimento di espulsione deve essere convalidato ed ha perplessità a proposito del fatto che la convalida continui ad essere affidata ai giudici di pace anziché alla magistratura ordinaria. Inoltre, dice il giurista torinese, l´espulsione sulla base dell´incompatibilità "con l´ordinaria convivenza" è un´indicazione generica, non ancorata alla commissione di reati, che rischia di violare l´articolo 13 della Costituzione sulla libertà personale.
Anche Mezzanotte è perplesso: «Da parte dello Stato - dice - non ci possono essere attività repressive che violano la dignità umana, valore questo che riguarda i cittadini italiani, quelli Ue ed extracomunitari». L´ordine di espulsione deve dunque avere il vaglio dell´autorità giudiziaria che è una garanzia imprescindibile. Mezzanotte, a differenza di Neppi Modona, ritiene però che il giudice di pace sia in grado di «valutare pienamente tutti gli elementi di fatto». Ma anche lui mette in guardia dal pericolo di derive: «Quando succedono fatti gravi come quello dei giorni scorsi, si rischia un´azione repressiva che confligge con la dignità umana. Passata l´emergenza, resta una legislazione barbara».

Repubblica 6.11.07
Quando la politica si affida alla paura
di Slavoj Zizek


La modalità della politica che oggi predomina è la biopolitica postpolitica - esempio di gergo astratto che mette soggezione e che, tuttavia, può essere facilmente spiegato: la "postpolitica" è una politica che sostiene di lasciare dietro di sé le vecchie lotte ideologiche per concentrarsi invece su una gestione e su un´amministrazione competenti, mentre la «biopolitica» designa come proprio obiettivo principale la regolamentazione della sicurezza e del benessere delle vite umane. E´ chiaro in che modo queste due dimensioni si sovrappongano.

Una volta che si rinuncia alle grandi cause ideologiche, ciò che resta è solo l´amministrazione efficiente della vita... o quasi solo questo. In altre parole, quando il livello di base della politica è costituito dalle attività depoliticizzate e socialmente oggettive di un´amministrazione competente e di un coordinamento degli interessi, l´unico modo per introdurre passione in questo campo, per mobilitare attivamente la gente, è la paura, costituente fondamentale dell´odierna soggettività. Per questa ragione la biopolitica è in definitiva una politica della paura, incentrata sulla difesa contro potenziali persecuzioni o molestie.
E´ questo che distingue una politica di emancipazione radicale dal nostro status quo politico. Qui non stiamo parlando della differenza tra due visioni, o tra due insiemi di assiomi, ma tra la politica basata su una serie di assiomi universali e una politica che rinuncia alla dimensione costitutiva stessa di ciò che è politico, affidandosi alla paura come ultima risorsa di mobilitazione: paura degli immigrati, del crimine, dell´empia depravazione sessuale, di un eccesso di Stato, con il suo fardello di tasse pesanti, delle catastrofi ecologiche, paura delle molestie. Il politicamente corretto è la forma progressista esemplare della politica della paura. Una siffatta (post) politica si basa sempre sulla manipolazione di un ochlos, o moltitudine, paranoide: è la terrorizzante mobilitazione di un popolo terrorizzato.

Così il grande evento del 2006 è stata l´adozione generalizzata delle politiche contro l´immigrazione, con il taglio del cordone ombelicale che le legava ai piccoli partiti dell´estrema destra. Dalla Francia alla Germania, dall´Austria all´Olanda, nel nuovo spirito di un´orgogliosa rivendicazione di identità culturale e storica, ora i partiti più importanti trovavano accettabile sottolineare che gli immigrati sono ospiti, e come tali devono adattarsi ai valori culturali che definiscono la società che li ospita: «E´ il nostro Paese, o lo ami o te ne vai».
L´odierna tolleranza progressista verso gli altri, il rispetto della diversità e l´apertura verso di essa, è contrappuntata da una paura ossessiva di essere molestati.
In breve, l´Altro va benissimo, a patto che la sua presenza non sia invadente, a patto che questo Altro non sia veramente un altro, la tolleranza coincide con il suo opposto. Il mio dovere di essere tollerante verso l´altro significa di fatto che non dovrei avvicinarmi troppo a lui, invadere il suo spazio. In altre parole, dovrei rispettare la sua intolleranza verso un mio eccesso di prossimità. Ciò che emerge sempre più come il diritto umano fondamentale nella società tardo- capitalistica è il diritto a non essere molestato, che è il diritto a rimanere a una distanza di sicurezza dagli altri.
Nella biopolitica postpolitica ci sono due aspetti che non possono che appartenere a due aree ideologiche opposte: quella della riduzione degli essere umani a "nuda vita", a Homo sacer, il cosiddetto essere sacro, l´oggetto delle competenze specialistiche di chi se ne occupa ma è provo, come i prigionieri di Guantanamo e le vittime dell´Olocausto, di qualsiasi diritto; e quella del rispetto per l´Altro vulnerabile, un rispetto portato all´estremo attraverso un atteggiamento di soggettività narcisistica che percepisce il sé come vulnerabile, costantemente esposto a una quantità di potenziali "molestie"». Può esistere un contrasto più netto di quello tra il rispetto per la vulnerabilità dell´Altro e la riduzione dell´altro a "nuda vita" regolata da una competenza amministrativa? Ma se questi due atteggiamenti scaturissero nientemeno che da un´unica radice? Se fossero due aspetti di un unico atteggiamento di fondo? Se coincidessero con quello che si ha la tentazione di definire la versione contemporanea di quel "giudizio infinito" hegeliano che afferma l´identità degli opposti?
Ciò che accomuna questi due poli è proprio il sottostante rifiuto di una qualsiasi causa superiore, l´idea che il fine ultimo della vita sia la vita stessa. E´ per questo che non c´è contraddizione tra il rispetto per l´Altro vulnerabile e l´essere disposti a giustificare la tortura, espressione estrema del trattamento degli individui come Homines sacri.
Nella Fine della fede, Sam Harris difende il ricorso alla tortura in casi eccezionali (ma ovviamente chiunque difenda la tortura lo fa come misura estrema; nessuno sosterrebbe seriamente che si può torturare un bimbo affamato che ha rubato una barretta di cioccolata). La sua difesa si basa sulla distinzione tra l´istintiva avversione che proviamo all´idea di assistere con i nostri occhi alla tortura o alla sofferenza di un individuo e la conoscenza astratta di una sofferenza di massa; per noi è molto più difficile torturare un individuo che ordinare a distanza lo sgancio di una bomba che provocherebbe la ben più dolorosa morte di migliaia di persone.

Dunque tutti noi siamo intrappolati in una sorta di illusione etica, analoga alle illusioni sensoriali. La causa ultima di questa illusione è data dal fatto che, nonostante la nostra capacità di ragionamento astratto si sia sviluppata enormemente, le nostre reazioni etico-emotive sono ancora condizionate da antichi e istintivi moti di compassione di fronte alla sofferenza e al dolore di cui siamo testimoni diretti. E´ questa la ragione per cui molti di noi trovano più ripugnante sparare a qualcuno a bruciapelo che non provocare la morte di mille persone che non possiamo vedere premendo un bottone.
Non sorprende che Harris faccia riferimento ad Alan Dershowitz e alla sua legittimazione della tortura. Per porre fine a questa sensibilità, condizionata dall´evoluzione alla manifestazione fisica della sofferenza altrui, Harris immagina un´ideale "pillola della verità", una tortura efficace equivalente al caffè decaffeinato o alla Diet-Coke: «un farmaco in grado di fornire sia gli strumenti per torturare che quelli per nascondere perfettamente la tortura» –introducono la logica tipicamente postmoderna della cioccolata lassativa. La tortura immaginata da Harris è come il caffè decaffeinato: ci dà il risultato voluto senza doverne subire gli spiacevoli effetti collaterali. Al famigerato istituto Serbskj di Mosca, la struttura psichiatrica del Kgb, fu inventato proprio un farmaco di questo tipo per torturare i dissidenti: un´iniezione vicino al cuore che rallentava il battito e provocava un terrificante senso d´angoscia al prigioniero. A un osservatore esterno sembrava che il prigioniero sonnecchiasse, mentre in realtà stava vivendo un incubo.

Repubblica 6.11.07
La metà del Paese ostaggio della paura
di Ilvo Diamanti


In Italia si aggira uno spettro inquietante. È l´insicurezza. Tanto densa e tanto acuta da sfiorare la paura. Dell´altro. Una indagine condotta nei giorni scorsi da Demos per la Fondazione UniPolis delinea queste tendenze in modo inequivocabile.
Secondo l´indagine (in corso di svolgimento: verrà presentata nelle prossime settimane), cinque persone su dieci oggi ritengono che, nella zona di residenza, la criminalità sia cresciuta negli ultimi anni. Si tratta di un dato superiore di sei punti percentuali rispetto a cinque mesi fa. Ma di quasi venti rispetto a due anni addietro. Inoltre, quasi nove persone su dieci (praticamente tutti) pensano che la criminalità sia cresciuta in Italia. Cinque punti percentuali in più rispetto allo scorso giugno; otto rispetto a due anni fa. La paura, quindi, è diffusa, sul territorio. Influenzata da fattori che, in parte, trascendono l´esperienza personale, visto che la percezione dell´illegalità è maggiore quando si fa riferimento a contesti più distanti da noi. L´Italia piuttosto che il nostro quartiere. Tuttavia, l´insicurezza è cresciuta soprattutto in rapporto alla realtà locale. Insieme, è montata anche la paura dello "straniero". Ormai, il 47% degli italiani considera gli immigrati un pericolo per l´ordine pubblico e per la sicurezza personale. Si tratta del dato più elevato dal 1999 ad oggi. Nel 2003 la pensava in questo modo il 33% della popolazione, due anni fa il 41%.
Fra insicurezza e immigrazione c´è un legame stretto. Il peso di quanti ritengono cresciuta la criminalità (sia locale che nazionale), infatti, è massimo tra coloro che considerano gli immigrati un pericolo.
In parte, questi sentimenti si spiegano con l´effettivo incremento degli immigrati e dei reati commessi dagli immigrati. Però, appunto: solo in parte. Rammentiamo, per analogia, lo scenario del 1999, quando la percezione del pericolo raggiunse indici molto simili ad oggi. Influenzata, più che dalla realtà, dall´immagine. Dalla rappresentazione offerta dai media. Episodi criminali cruenti rilanciati, in modo martellante, da giornali e tivù. Insieme agli sbarchi dei disperati, che abbordavano le nostre coste. L´insicurezza salì. Anche se la criminalità, nel corso degli anni Novanta, si era notevolmente ridimensionata. Tuttavia, l´enfasi mediatica contribuì ad accentuare la sfiducia nei confronti del governo di centrosinistra. Ritenuto, allora come ora, meno adeguato ad affrontare la sfida dell´insicurezza. Così, nel 2001 la CdL vinse le elezioni. E la paura, all´improvviso, si ridimensionò. E l´Italia apparve, per qualche anno, meno insicura. Oggi, l´emergenza sembra tornata. Come e più di allora. Le "carrette del mare" hanno ripreso a sbarcare sulle nostre coste il loro carico di disperazione. Peraltro, a dispetto delle apparenze, una frazione limitata dell´immigrazione clandestina. Ma gli sbarchi sono spettacolari. Come i delitti. Soprattutto se atroci. Come quello, orribile, commesso a Tor di Quinto. Ai danni della povera Giovanna Reggiani. L´orrore, la pietà, la rabbia: sui media, fanno ascolti eccezionali. Ma l´onda dell´indignazione rischia di trasportarci lontano dalla "normalità". E dalla realtà. Domenica, Repubblica ha pubblicato una lettera di Romano Prodi, che raccontava un episodio di vita quotidiana. Qualche ora passata agli uffici comunali di Bologna, per rinnovare la sua carta di identità, scaduta. In mezzo a numerosi immigrati, di diverse nazionalità. A parlare di cose quotidiane. Un pezzo di realtà quasi irreale. Uno spaccato di vita normale che urta contro la rappresentazione iperbolica dell´immigrazione, a cui siamo avvezzi. Eppure testimonia di un´impresa quasi eccezionale, nella sua normalità. Rammenta che, in pochi anni, siamo divenuti un Paese ad alta presenza di stranieri (oltre il 6% della popolazione). Come Francia, Germania e Gran Bretagna. Dove il fenomeno ha una storia assai più lunga della nostra. Senza venirne travolti. Grazie alla capacità di integrazione della società, delle reti di solidarietà, dell´associazionismo cattolico, ma anche laico; al lavoro quotidiano degli enti locali. Anche quelli governati dalla Lega: "cattivi" a parole, ma "buoni" nei fatti. Ma il dibattito politico generale, invece di valorizzare la capacità di adattamento espressa dal nostro tessuto sociale e locale, pare ispirato da preoccupazioni elettorali. Trainato dalla narrazione truce dei media. Così, come nel 1999, è tornata la sindrome dell´assedio. Dovunque, romeni e rom, pronti ad assalire i cittadini inermi. Come ieri gli albanesi, l´altro ieri i cinesi, prima ancora i maghrebini. La Padania suggerisce, per assonanza, anche i Romani. E, già che ci siamo, anche Romano.
Nel buco nero dell´indistinto, d´altronde, ogni pregiudizio trova conferma e ogni paura risposta. Di certo, non soluzione.
Meglio, allora, provare a distinguere. Aggiungere qualche informazione. (Che attingiamo dal prezioso lavoro di documentazione condotto dal Caritas/Migrantes). Utile, comunque, a evitare le trappole del luogo comune.
1. I Rom non sono i romeni. I quali, in Italia, oggi sono circa 600mila. Il primo gruppo nazionale, per entità. Hanno un alto livello di scolarità. Sono in larga misura occupati. Perlopiù nelle costruzioni e nei servizi. In Italia operano circa 15 mila aziende romene (soprattutto edili). Quanto basta per contrastare le immagini che rappresentano i romeni come una "folla criminale".
2. Sotto il profilo delle statistiche giudiziarie, i reati commessi dai romeni rappresentano circa un sesto sul totale delle denunce ai danni di stranieri. Il che coincide con il loro peso sul totale degli immigrati. Nel Lazio pare vi siano un terzo dei romeni denunciati in Italia. Ma i dati disponibili non permettono di esprimere stime precise, al proposito. Sufficienti, però, a consigliare prudenza prima di esprimere giudizi poco fondati, oltre che indecorosi, sulla vocazione criminogena dei romeni.
3. Il flusso dei Rom è effettivamente cresciuto, negli ultimi tempi, anche in seguito alle pressioni esercitate su di loro dalla Romania. I Rom. Stanno ai margini della nostra società e delle nostre città. In Italia, come ha mostrato Renato Mannheimer sul Corriere della Sera, suscitano diffidenza in otto italiani su dieci. Ma lo stesso avviene in Europa. In Romania, peggio che altrove. I Rom, nella "normalità", sono autori di illegalità diffuse. Reati piccoli, che suscitano grande insofferenza. Ma, sicuramente, non sono attori di "grande criminalità". L´autore dell´orrendo crimine di Roma è un "deviante", marginale perfino tra i Rom. Non a caso a denunciarlo è stata una donna Rom.
4. Non è vero che i Rom rifiutino ogni tentativo di integrazione. Dove sono state effettuate politiche locali finalizzate a questo obiettivo, come a Pisa, Venezia, Napoli, i risultati si sono visti. Come ha rammentato, benissimo, ieri, Barbara Spinelli, sulla Stampa. Sceglierli come bersaglio, su cui scaricare la riprovazione e l´indignazione generale, però, è facile. Sono gli ultimi degli ultimi. Senza uno Stato o una lobby (magari criminale) a difenderli.
5. La "grande criminalità" straniera, ovviamente, esiste. E si è sviluppata profondamente, nel nostro Paese. Ma non ha radici Rom (né Sinte). È, invece, gestita da bande organizzate (in questo caso sì) "romene". Ma anche senegalesi, albanesi. Collegate ad altre bande, italiane e straniere (sudamericane). Gestiscono, soprattutto, il traffico della droga e la prostituzione. Migliaia di ragazze e di bambine, spesso romene, comprate oppure rapite a casa loro, per essere trasferite sulle nostre strade. Dove la clientela (italiana) è abbondante.
Il dibattito di questi giorni non sembra in grado, ma neppure preoccupato di spiegare, distinguere, affrontare questi fenomeni. È scosso da sussulti mediatici, avvenimenti tragici. Così, la destra indossa la maschera più dura. Per professione. La sinistra moderata risponde con lo stesso linguaggio, per paura di mostrarsi debole. E la sinistra (cosiddetta) radicale, "perplessa", grida contro il nuovo razzismo. Per riflesso condizionato. Solidarietà, rigore, legalità, tolleranza/zero. Parole brandite come armi. Da ciascuno, per difendere la sua quota di mercato elettorale. (Alla fine, come in passato, l´unico a guadagnarci sarà il centrodestra).
Ridurre una realtà così complessa al tema dell´insicurezza rischia, però, di alimentare altre preoccupazioni. Di moltiplicare i "nemici". E di imprigionare noi stessi, dentro alle nostre paure. Stranieri anche noi. Abitanti feroci di una terra feroce. Il Paese della "tolleranza zero". A parole. Nel quale, personalmente, troviamo difficile - e un po´ umiliante - vivere.

l’Unità 6.11.07
I partigiani: Fioroni intervenga sullo squadrismo nelle scuole italiane


Una lettera per chiedere al ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Fioroni, di intervenire per bloccare nelle scuole la propaganda di tipo «fascista». L’hanno inviata l’Associazione nazionale partigiani (Anpi) di Roma insieme ad associazioni studentesche, protestando allo stesso tempo contro le aggressioni e le intimidazioni da gruppi di estrema destra, denunciate da studenti di scuole romane. Gli studenti hanno anche chiesto al ministro di essere ricevuti per presentare un «un dossier sulle attività di tali gruppi». Nella lettera, illustrata a Roma alla Casa della Memoria, si chiede che «siano predisposte adeguate misure per far sì che non possano esserci, nelle scuole, propaganda e rappresentanza studentesca con idee di matrice evidentemente neofascista». «Riteniamo inaccettabile che ai diversi livelli della rappresentanza studentesca si candidino gruppi dichiaratamente fascisti che talvolta prendono persino le difese del Terzo Reich», si legge nella lettera. Un chiaro riferimento al “Blocco Studentesco” formazione che da un paio di anni fa politica attiva nelle scuole e che è stata spesso protagonista di atti di violenza e intimidazioni. Un vero e proprio appello al quale sono arrivate le adesioni della medaglia d’oro della Resistenza Rosario Bentivegna, dello storico Alessandro Portelli, del filosofo Gianni Vattimo, ma anche dal calciatore Cristiano Lucarelli (ex-Livorno), da politici di diversi partiti come Giovanni Russo Spena, Mauro Bulgarelli, Marco Rizzo del Pdci, dai Cobas scuola e dall’Arcigay Roma.

l’Unità 6.11.07
Bologna, oggi la resa dei conti
Rifondazione chiude a Cofferati


Che fosse un vertice difficile già si sapeva. Ma se almeno una delle parti in causa mirava alla ricomposizione delle divergenze, sarebbe meglio parlare di una missione impossibile. Sicuramente sarà una riunione “calda” quella che oggi vedrà intorno a un tavolo il sindaco di Bologna Sergio Cofferati e i rappresentanti di Verdi, Sinistra democratica e Rifondazione. Mentre Pd e Sd si scambiano violente accuse sul ritiro dell’emendamento che rifinanziava la progettazione del Passante autostradale a nord della città, il Prc fa sapere che sugli sgomberi - che siano di rumeni insediati nelle baracche o di occupanti di case - è impossibile qualsiasi mediazione col partito di Veltroni. Rifondazione non marcherà visita al vertice di maggioranza di questa mattina ma, già nelle scorse settimane aveva escluso fosse possibile ricucire la maggioranza “esplosa” sul tema della sicurezza. Frattura che si è ulteriormente scomposta dopo l'ondata di sgomberi - sabato è toccato ai rumeni che occupavano vecchi edifici di un’ex area militare, prima erano stati “liberati” appartamenti occupati dai giovani dei dei collettivi. «Sicuramente non ci sono margini per recuperare un rapporto con Cofferati», chiarisce il segretario provinciale del Prc Tiziano Loreti. Così, visto che gli sgomberi «hanno incancrenito il clima», suggerisce l'indipendente Valerio Monteventi, il vertice servirà soltanto a portare a casa qualche risultato concreto «per i problemi di Bologna - spiega Loreti- a partire dal nostro documento»: un dossier di 31 pagine consegnato ormai più di un mese fa al primo cittadino dai rappresentanti della sinistra in consiglio. Poi, punto e a capo. Perché «per noi la questione della maggioranza è risolta da tempo- scandisce il segretario- siamo fuori e non abbiamo nessuna intenzione di rientrarci». Insomma, «non daremo luce a un sindaco che, per quanto ci riguarda, è già spento». Parole, quelle del segretario di Rifondazione, condivise dal capogruppo del Prc in comune Roberto Sconciaforni: «Dopo tutto è il sindaco che ci ha chiesto un incontro sul nostro documento. Io andrò. Per capire se si parlerà di cose concrete o se sarà l'ennesimo escamotage per blindare la situazione. In quel caso - chiarisce il capogruppo - la discussione durerà pochissimi minuti». s.m.

l’Unità Bologna 6.11.07
Cofferati: cerco una nuova maggioranza
di Adriana Comaschi

Cofferati lo dice agli industriali mentre sul Passante autostradale è guerra tra Pd e Sd
Oggi il sindaco incontra l’Altrasinistra. Rifondazione: mai d’accordo sugli sgomberi

Il Passante Nord fa litigare Pd e Sd, proprio alla vigilia dell’incontro di oggi tra il sindaco e i consiglieri della sinistra radicale per vedere se si può ricomporre almeno in parte la maggioranza. «Cerco un’altra maggioranza - ha detto ieri Cofferati partecipando a un convegno degli industriali - ora non ce l’ho»: ma le premesse non sembrano le migliori, visto che proprio Sd veniva considerata più propensa al dialogo.
Lo scontro di ieri si gioca sulla mancata approvazione dell’emendamento sul Passante giovedì scorso al Senato. E Sergio Cofferati prende nettamente le parti del Pd. La deputata Katia Zanotti guida la «controffensiva» contro le accuse piovute su Verdi e Sd, di essersi opposti alla richiesta di 60 milioni per progettazione e avvio della nuova bretella autostradale: il senatore Ds Walter Vitali avrebbe cercato in Sd «un capro espiatorio vantaggioso anche per le dinamiche politiche locali», dopo aver gestito in modo «sciatto e superficiale» la vicenda. Ecco la sua ricostruzione: «Al momento dell’esame dell’emendamento l’opposizione non era in aula, il Pd poteva approvarlo con i suoi 9 senatori». Sd poi ha solo fatto obiezioni «tecniche e non politiche», sull’opportunità di chiedere fondi per il Passante quando ancora non è chiaro con che procedure verrà realizzato. Per Zanotti la conclusione è chiara: se il presidente Ds della commissione ha chiesto al promotore Enriques di ritirare l’emendamento è perché «non era stato istruito nei tempi e nei modi adeguati, e c’erano dubbi anche nel Pd. Se questa era una spesa dalla valenza strategica nazionale, perché portarla al voto all’una di notte?». La polemica ha un’eco anche in Comune dove Gian Guido Naldi rincara: «Come mai in tre anni il Passante non ha fatto un passo avanti? Per colpa di Sd, che è nata tre mesi fa? E perché un’opera definita di valore nazionale viene affidata agli emendamenti, in cui si mischiano cose serie e richieste clientelari?». Una linea condivisa dai forzisti: «Se il risultato non c’è stato la colpa è del Pd, i numeri li avevano». La replica di Vitali ed Enriques arriva da Roma, punto su punto. «Non potevamo affatto votarlo da soli - spiega Vitali - c’era un accordo politico per votare solo ciò che aveva il consenso di tutta la maggioranza. Se lo avessimo fatto, sarebbero saltati tutti gli emendamenti. Non è vero che il Pd vuole fare da solo:, lo dimostrano le quattro interpellanze sulle infrastrutture bolognesi presentate da tutto il centrosinistra, Sd compresa». Vitali ribatte poi che «proprio per l’incertezza delle procedure chiediamo fondi: Sd si metta d’accordo, Zanotti aveva firmato la nostra richiesta. Prendiamo atto dell’intenzione di votare il Passante alla Camera, è positivo. Ma le loro sono ricostruzioni fantasiose», chiudono i due senatori. «Non c’è nessun tentennamento nel Pd - ribadisce anche Cofferati - c’era un accordo politico per presentare solo emendamenti che avevano il consenso di tutti».

l’Unità Bologna 6.11.07
Oggi faccia a faccia Cofferati-sinistra
E ieri sera il sindaco ha fatto il punto con la giunta

I PARTITI della sinistra radicale a tu per tu con il sindaco. Alle 11 i rappresentanti della futura (ancora ipotetica) «Cosa Rossa» entreranno nell’ufficio di Cofferati per quello che appare l’estremo tentativo per ricostituire una maggioranza a Palazzo d’Accursio. Escluso che possa rinascere l’Unione, i riflettori sono accesi soprattutto su Sinistra Democratica. Gli ex Ds (due consiglieri, quanto basta per assicurare i numeri a Cofferati) sono il vero ago della bilancia. Segnali (tiepidi) di disponibilità verso Cofferati nei giorni scorsi Sd ne ha dati ma la partita incertissima. Soprattutto la vicenda del Passante Nord, con Sd che ha contribuito con i Verdi ad affossare un emendamento in Commissione al senato, ha complicato i rapporti tra Partito democratico e gli ex Ds. I quali però ieri hanno approvato una variante urbanistica in Consiglio comunale, sulla quale il resto della sinistra radicale ha votato contro.
Milena Naldi, uno dei due di Sd, dice che sfideranno il sindaco «sulle cose concrete, sulla qualità del governo della città, e non sulle teorie». Perché, aggiunge Gian Guido Naldi, coordinatore e consigliere comunale Sd, «noi terremo fede al programma di mandato: lo stiamo rileggendo e lo dovrebbe rileggere anche Cofferati».
Quanto a Rifondazione, i giochi appaiono già fatti. Il partito, soprattutto alla luce del decreto sulle espulsioni dei rumeni, con numerosi allontanamenti anche a Bologna, sostiene che «sicuramente non ci sono margini per recuperare un rapporto con Cofferati», dice il segretario Tiziano Loreti. «Per noi - prosegue Loreti - la questione della maggioranza è risolta da tempo, siamo fuori e non abbiamo nessuna intenzione di rientrarci». Rincara Valerio Monteventi, indipendente del Prc: «Qui sono in ballo due logiche di “accoglienza” diametralmente opposte: le ruspe mandate avanti dall’amministrazione, contro la solidarietà professata da Rifondazione. La situazione si è incancrenita e domani (oggi, ndr) le distanze non si accorceranno».
In questa situazione molto complicata, ieri sera Cofferati ha fatto il punto con la giunta. Una sola dichiarazione prima della riunione, quella dell’assessore Anna Patullo, del Pdci, alla quale Cofferati aveva chiesto di scegliere tra incarico amministrativo e partito: «Voglio rimanere in giunta e possibilmente come rappresentante del Pdci».

l’Unità 6.11.07
Shulamit Aloni. La fondatrice di Peace Now: il ministro della Difesa e l’ex capo di Stato maggiore dovrebbero comparire davanti al tribunale dell’Aja
«Io israeliana dico: a Gaza commessi crimini contro l’umanità»
di Umberto De Giovannangeli


«Il diritto alla difesa non può giustificare bombardamenti contro aree popolate da civili. Il diritto alla difesa non giustifica punizioni collettive quali quelle imposte alla popolazione di Gaza. Il diritto alla difesa non può assolvere coloro che si sono macchiati di crimini contro l’umanità». È un atto di accusa durissimo quello che Shulamit Aloni lancia contro il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak e l’ex capo di stato maggiore, il generale Dan Halutz; un j’accuse tanto più significativo perché a lanciarlo è una figura storica della sinistra israeliana: fondatrice di Peace Now, già parlamentare e ministra nei governi a guida Rabin e Peres, Shulamit Aloni è stata più volte minacciata di morte dai gruppi dell’estrema destra israeliani. Come sempre, le sue posizioni toccano la coscienza di Israele.
Perché è tornata a scatenare polemiche in Israele?
«Per amore della verità e perché ho troppo a cuore quei principi di democrazia che furono alla base della fondazione dello Stato d’Israele. Ed è in nome di quei valori che sostengo che Ehud Barak e Dan Halutz dovrebbero essere giudicati dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja per crimini contro l’umanità».
La sua è un’accusa pesantissima.
«Pesantissime sono le azioni di cui Barak e Halutz si sono macchiati. Da israeliana non possono essere fiera dello Stato d’Israele per i comportamenti tenuti dall’allora capo di stato maggiore e dall’attuale ministro della Difesa. Il diritto alla difesa e la lotta al terrorismo non possono mascherare né tanto meno giustificare atti che si configurano come crimini contro l’umanità».
A cosa si riferisce in particolare?
«Mi riferisco ai massicci bombardamenti aerei ordinati da Halutz contro la Striscia di Gaza. Quei bombardamenti colpivano zone densamente abitate e non potevano non colpire la popolazione civile. E non vale come giustificazione sostenere che gli attivisti di Hamas usano muoversi tra la folla. L’eliminazione di un miliziano palestinese non giustifica l’uccisione di civili, molti dei quali donne e bambini».
Sul banco degli imputati lei colloca anche l’attuale ministro della Difesa Ehud Barak. Perché?
«Perché Barak è un pericolo per Israele, a causa del suo temperamento estremista e perché è un uomo di guerra che crede così di poter battere Benjamin Netanyahu (il leader del partito di destra Likud, ndr.). Condivido la decisione dei palestinesi di aprire contro di lui un procedimento davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja per la sua decisione di togliere l’elettricità alla Striscia di Gaza. Quella assunta da Barak è una decisione illegale, inumana, che entra a pieno titolo nella categoria dei crimini di guerra. Le restrizioni imposte a Gaza costituiscono una punizione collettiva contro civili. Mi chiedo come si possa parlare di dialogo, della ricerca di un accordo di pace di fronte a questi crimini».
Eppure di pace si continua a parlare tra Ehud Olmert e Abu Mazen. Tutti guardano alla Conferenza di Annapolis in programma per fine mese. Cosa pensa di questo appuntamento?
«Penso che l’opinione pubblica del mio Paese sia più lungimirante e coraggiosa di coloro che governano. La gente sa che la pace non può essere a costo zero ed è pronta a pagarne il prezzo. La questione è se il governo israeliano sia altrettanto coraggioso. Conoscendo Olmert e, soprattutto, Barak ne dubito fortemente».
In questo frangente, quale messaggio dovrebbe a suo avviso lanciare la sinistra israeliana al Paese?
«Più che di messaggio parlerei di una grande mobilitazione popolare in grado di esercitare una forte pressione sul governo e su Olmert. Siamo al momento della verità: se falliremo, dovremo pagare un duro prezzo di sangue».
Sabato sera scorso oltre 150mila persone si sono ritrovate a Tel Aviv per ricordare Yitzhak Rabin.
«Presente e passato si sono intrecciati in quella piazza. Si è tornati a manifestare per la pace nel luogo in cui, 12 anni fa, fu assassinato l’uomo che aveva "osato" stringere la mano a Yasser Arafat e avviare una stagione di speranza. Dodici anni dopo, siamo tornati in piazza in nome di Yitzhak Rabin e di una lezione che lui ci ha lasciato e che Israele non deve dimenticare: solo il dialogo porta sicurezza».
La piazza ha protestato anche per l’assenso dato dalla Corte Suprema per la cerimonia della circoncisione del figlio di Yigal Amir, l’assassino di Rabin.
«Questa cerimonia, volutamente tenuta nel giorno dell’assassinio, 12 anni fa di Rabin, è un affronto alla memoria di Yitzhak e la riprova, inquietante, di una pericolosa rimozione di cosa abbia significato non solo per i famigliari ma per l’intera Israele quell’assassinio».
Molto si discute sull’opportunità di aprire un confronto con Hamas. Qual è in merito la sua posizione?
«Per giungere alla pace, io parlerei anche con il diavolo. Non esiste una scorciatoia militare alla soluzione della questione palestinese. La soluzione non può che essere politica. Per questo è decisivo che Annapolis non si risolva in un ennesimo fallimento. A mettere fine ai lanci di razzi da Gaza verso Israele sarà solo un accordo politico ad Annapolis e non la scellerata politica di forza condotta da Ehud Barak».

Corriere della Sera 6.11.07
Pochi giorni fa il primo ciak in Toscana. L'appello: «Tagli tre metri di pellicola»
Film sulla strage di Sant'Anna I partigiani contro Spike Lee
Il regista accusato di revisionismo: fu atto premeditato, non rappresaglia
di Marco Gasperetti


SANT'ANNA DI STAZZEMA (Lucca) — Il primo ciak è di pochi giorni fa, nelle sale cinematografiche uscirà tra un anno e la sceneggiatura, già scritta con la consulenza di storici dell'Università di Pisa, è ancora top secret, almeno nelle pagine più crude e oscure.
Eppure «Miracolo a Sant'Anna », il film di Spike Lee sulla strage consumata il 12 agosto del 1944 dalle Ss di Walter Reder (560 morti tra cui donne e un centinaio di bambini), suscita già polemiche, accuse di falsi storici e persino di revisionismo. E alla vigilia della sentenza della Cassazione (stamani a Roma) su quell'eccidio — arrivato al capolinea dopo più di mezzo secolo di colpevole dimenticanza con i fascicoli fatti marcire negli «armadi della vergogna » — si materializzano gli spettri di mai sopite polemiche sul ruolo della lotta partigiana nell'Alta Versilia.
A lanciare gli strali sul film del grande regista americano, una sezione versiliese dell'Anpi, amministratori, politici e storici locali. Arrabbiati per una presunta «licenza cinematografica » nella quale lo sceneggiatore, seguendo la trama del romanzo di James McBride (Rizzoli, 2002) al quale si ispira il film, avvalorerebbe la tesi che le Ss fossero a caccia di partigiani.
Dunque non un eccidio premeditato e pianificato, un atto di terrorismo, come lo ha definito il tribunale militare della Spezia, che due anni fa ha condannato all'ergastolo dieci esecutori materiali (ufficiali e sottufficiali oggi anziani pensionati che non faranno un giorno di carcere), ma una strage in qualche modo indotta da una rappresaglia.
«È una ricostruzione cinematografica fasulla, che non tiene conto della realtà storica — accusano Moreno Costa, Enio Mancini e Giovanni Cipollini, della sezione Anpi di Pietrasanta —. È incredibile che ancora oggi si riproponga come causa della strage di 560 civili la presenza dei partigiani a Sant'Anna».
E Marco Bonuccelli, capogruppo di Rifondazione alla Provincia di Lucca, scrive: «Pur stimando e apprezzando il cinema di Spike Lee non posso ritenere una "licenza cinematografica" la totale invenzione sulle motivazioni che portarono i nazifascisti a compiere la strage di Sant'Anna. Quindi è necessario, secondo me, stralciare una finzione di questo tipo altrimenti i danni alla memoria e verità storica saranno gravissimi».
Giorgio Giannelli, ex giornalista parlamentare e storico, fa un appello al regista e gli chiede un taglio: «Mi metto in ginocchio e chiedo a Spike di tagliare tre metri del suo film. La strage di Sant'Anna non è un romanzo, fu una tragedia che appartiene alla storia. E un episodio inventato può stravolgere la storia. Il film avrà una risonanza mondiale. Allora tremo a sapere che da Tokyo a New York, da Mosca a Nuova Delhi sia raccontata una storia falsa. La nostra ».
Eppure c'è chi parla di polemiche insulse, strumentali. Come il sindaco di Stazzema, Michele Silicani: «Polemiche che nascono da una sbagliata interpretazione di una scena del film, nella quale un nazista chiede al prete del paese, don Innocenzo Lazzeri che sarà poi trucidato, dove è un inesistente partigiano chiamato Papalla e se ce ne sono altri in montagna ». Una scena, sostiene il primo cittadino, «che non modifica la storia, il valore della Resistenza e soprattutto riafferma che l'eccidio fu premeditato e pianificato come confermato da testimoni e storici. Vorrei rassicurare l'Anpi che i valori della Resistenza non saranno stravolti e sono certo che Spike Lee farà un capolavoro ». Marco De Paolis è il pm del processo contro la strage. Non vuole parlare del film: «Non è mio compito e comunque un romanzo e un film sono anche opere di fantasia — dice —. Da magistrato che ha indagato su quell'eccidio dico solo che non fu una rappresaglia. I soldati nazisti massacrarono uomini, donne e bambini e fu un atto di terrorismo, pianificato e studiato nei minimi particolari. Deciso dai vertici del comando tedesco come politica del terrore per dissuadere i cittadini ad aiutare i partigiani».

Corriere della Sera 6.11.07
Gli ordini erano chiari: colpire e uccidere i civili
di Federico Sessi


Nell'estate del 1944 nel corso della ritirata delle truppe tedesche in direzione della linea difensiva predisposta sull'Appennino (Linea gotica), che doveva servire a protezione dell'Italia settentrionale, viene data attuazione da parte degli ufficiali della Wehrmacht degli ordini di guerra contro i civili. Questi ordini non prendono in considerazione soltanto la presenza di partigiani, ma considerano un'insidia anche le popolazioni civili contro le quali è necessario usare un pugno di ferro e, se occorre, la politica delle rappresaglie. In questa ottica il 12 agosto 1944 Sant'Anna di Stazzema, dove hanno trovato rifugio anche qualche centinaio di sfollati dall'intera Versilia, viene raggiunta da alcune colonne militari di tedeschi. Si tratta delle Waffen-SS appartenenti alla 16ª Panzergrenadier Division Reichsführer SS intitolata a Himmler. È certo che il tipo di armamento utilizzato e il comportamento adottato dai soldati tedeschi non rimandasse a una azione contro truppe partigiane, ma a un accerchiamento di case e borghi allo scopo di uccidere civili e distruggere e incendiare abitazioni e cascine. Come sappiamo infatti i tedeschi non si limitano a fare uscire dalle case la popolazione, ma forse non considerando l'atteggiamento degli abitanti sufficientemente collaborativo, danno vita a un massacro generalizzato che interessa diverse borgate. In questo senso l'azione non va considerata come una risposta ai partigiani. Il numero totale delle vittime di Sant'Anna è stato fissato, secondo la tradizione, a 560. Alcuni studi recenti stimano la cifra totale a poco meno di 400. Si tratta comunque di una delle stragi più efferate dell'Appennino toscano. A lungo è stato indicato come responsabile del massacro Walter Reder.

Corriere della Sera 6.11.07
Scoperta di un gruppo internazionale di 115 scienziati
La mamma dell'uomo? Un'alga con le antenne
È sulla Terra da oltre un miliardo di anni Condivide con noi un terzo dei 15 mila geni
di Massimo Spampani


Il rapido progresso delle ricerche genetiche riserva notizie sempre più sorprendenti: ora si è scoperto che siamo imparentati con un'alga unicellulare che è presente sulla Terra da oltre un miliardo di anni. Un piccolo essere fotosintetizzante che condivide con noi gran parte dei suoi 15 mila geni, e che è alla base dell'evoluzione delle piante e degli animali, uomo compreso. Dopo tre anni di ricerche 115 scienziati di tutto il mondo sono giunti a questa conclusione.
DIFFUSA — L'alga verde oggetto delle ricerche è la Chlamydomonas reinharti, che è una delle alghe verdi d'acqua dolce più diffuse: vive nel suolo, negli stagni, nelle pozzanghere. Ebbene, fino a qualche anno fa si conosceva meno del 2% del suo genoma, mentre ora la sequenza è nota al 95%. Così è stato possibile compararla con quella di altri esseri viventi. E cosa hanno visto gli scienziati? Sorprendentemente hanno constatato che il 35% dei suoi geni sono condivisi sia dalle piante da fiore che dall'uomo, che un ulteriore 10% è condiviso con l'uomo ma non con le piante da fiore, e che il 27% è in comune con le piante da fiore ma non con gli umani. «È una singola cellula, la sua biochimica è come quella di organismi più complessi — dice Sabeeha Merchant dell'Ucla's Molecular Biology Institute (Usa) che ha diretto la ricerca — perché deve nuotare, trovare il cibo, fare la fotosintesi e la respirazione e trovarsi un compagno ». «Sebbene Chlamydomonas
sia certamente più pianta che animale, ci sono chiare similarità tra questo organismo fotosintetizzante e gli animali » commenta Arthur Grossman del Carnegie Institution di Washington, altro partecipante alla ricerca di cui riferisce la rivista Science.
DIAMETRO — L'alga ha un diametro di circa 10 millesimi di millimetro e si muove utilizzando due flagelli, appendici lunghe e sottili che sono state perse successivamente nell'evoluzione delle piante terrestri. I flagelli sono l'equivalente delle ciglia e dei centrioli delle cellule animali. Questi ultimi sono organelli citoplasmatici coinvolti nella divisione cellulare. Lo studio ha identificato molte nuove proteine che sono associate ai flagelli, e ha distinto quelle che sono critiche per il movimento e quelle associate a funzioni sensoriali (per esempio la percezione dell'ambiente). Altre proteine rendono l'alga adatta a vivere nel suolo, comprese specifiche proteine di trasporto che intervengono negli scambi che Chlamydomonas effettua attraverso la membrana cellulare. Mentre alcune di esse hanno affinità con il trasporto nelle piante, altre sono maggiormente correlate a quello nelle cellule animali. Inoltre il genoma dell'alga codifica molte famiglie di elementi regolatori compresa una che contiene più di 50 enzimi probabilmente coinvolti in distinti processi di sviluppo incluso l'accoppiamento e i segnali sessuali.
MODELLO — La Chlamydomonas
da tempo è molto utilizzata nelle ricerche di laboratorio, visto che suoi brevi tempi riproduttivi (circa 5 ore) fanno sì che costituisca un importante modello per le ricerche biologiche. «Aver a che fare con il suo genoma — continua Grossman — è molto stimolante, perché da queste analisi stiamo imparando molto sul progenitore degli animali e delle piante, sull'evoluzione e sulla funzione dei flagelli, e su come le diverse proteine di queste strutture siano correlate a malattie umane». «Sono ricerche importanti per capire i processi biologici di base — aggiunge James Collins della National Science Foundation (Usa) — che alla fine possono essere applicati in un ampio spettro di settori delle biotecnologia».

Corriere della Sera 6.11.07
La Cina è arrivata intorno alla Luna
Chang'e-1 in orbita Balzo tecnologico verso lo sbarco
di Giovanni Caprara


La Cina è arrivata intorno alla Luna con la sonda Chang'e-1. Fino a ieri l'oggetto più lontano lo aveva spedito a 80 mila chilometri dalla Terra, ora è giunta a 400 mila chilometri. Ma la distanza conta poco; ciò che importa è che Pechino sia riuscito a conquistare il primo obiettivo della sua marcia verso il nostro satellite naturale diventato la meta più propagandata dal celeste impero. Subito dopo il lancio il 24 ottobre scorso il presidente Hu Jintao per primo si congratulava con i protagonisti dell'impresa attraverso l'agenzia ufficiale di stampa Xinhua, la quale aggiungeva che «volare sulla Luna è il sogno più a lungo nutrito dalla nazione». Sul Quotidiano del popolo, organo del Partito comunista, Ouyang Ziyang, responsabile scientifico della missione, aggiungeva: «L'esplorazione lunare è simbolo di forza della nostra nazione, aumenta il prestigio internazionale e consolida l'unità del Paese».
China Daily, il quotidiano inglese per gli stranieri, sottolineava per chi non lo sapesse che «l'ambiziosa spedizione è il risultato di una tecnologia tutta cinese e dimostra l'avanzamento del Paese nella scienza e nella tecnologia». Ma il portavoce della Commissione per la scienza, la tecnologia e l'industria per la difesa nazionale (Costind) a capo del programma, preoccupata forse dall'allarme generato in gennaio dal test di distruzione di un satellite in orbita in grado di certificare il possesso da parte cinese di un'arma antisatellite, in una nota precisava: «Chang'e-1 effettua solo ricerche scientifiche, senza alcuno scopo difensivo e a bordo non trasporta equipaggiamenti militari». Per la prima volta, al fine di garantire il necessario clamore all'evento, erano invitati al lancio giornalisti cinesi.
La partenza del primo taikonauta Yang Liwei nel 2003 aveva fatto emergere con prepotenza le capacità del grande Paese diventato il terzo, dopo Usa e Russia, in grado di portare un uomo in orbita. Ma era solo la prima parte del sogno della nuova super potenza. La seconda riguardava appunto la Luna, coltivata dal 1991, e diventata un piano in tre tappe la prima delle quali era approvata nel 2004 dal Consiglio di Stato. Il piano veniva riassunto dal suo responsabile, Luan Enjie, in tre parole, «Orbiting, Landing e Returnig », che indicavano altrettante missioni: la prima di una sonda in orbita, la seconda di una rover che atterra e si muove in superficie e la terza per raccogliere dei campioni e portarli sulla Terra. Se la prima si è materializzata ieri, le altre sono previste nel 2012 e nel 2017; insieme apriranno la strada al futuro sbarco dei primi taikonauti «dopo il 2020». A chi ricordava che i cinesi mandavano in orbita il primo satellite nel 1970, l'anno dopo lo sbarco degli americani sulla Luna, Luan Engjie rispondeva che «la Cina inizia dove gli altri sono arrivati cercando cooperazione e non competizione».
La sonda Chang'e-1 ha a bordo otto strumenti con i quali effettuerà nell'arco di un anno la ricognizione tridimensionale della superficie, valutando la distribuzione dei minerali e cercando di stimare la quantità di elio-3 utilizzabile nei futuri reattori a fusione in corso di studio sulla Terra per produrre energia. L'inserimento in orbita lunare ha richiesto l'accensione dei propulsori a razzo per frenare la corsa della sonda consentendo la sua cattura da parte della gravità selenica. Una delicatissima manovra compiuta per la prima volta dai cinesi dimostrando di padroneggiare la tecnica. Alla verifica della traiettoria ha collaborato, comunque, l'Esa europea.
In parallelo, Pechino lavora alla preparazione di una sonda marziana (con i russi), di una stazione spaziale e di un razzo più potente che consentirà di realizzare i progetti più ambiziosi, compresa la conquista della Luna in competizione con giapponesi, indiani e americani. È la nuova corsa allo spazio, con un tono, però, diverso: Chang'e-1 volando sui grigi panorami diffonde canzoni popolari. La musica è cambiata: il primo satellite trasmetteva infatti solo le note «politiche» de «L'Oriente è rosso».

Corriere della Sera 6.11.07
È il rilancio di un sogno
di Sergio Romano

La Cina alla conquista della Luna non è soltanto un'ambiziosa operazione politica e scientifica. È anche una rivoluzione culturale, più importante per i destini del mondo di quella che agitò il Paese negli anni 60. Per molti secoli la Cina si è comportata nelle relazioni internazionali come un impero compiaciuto della propria grandezza, sicuro della propria superiorità, indifferente agli affari del Paesi lontani e alle lusinghe della diplomazia. Più tardi, dopo il suo lungo declino, ha preferito presentare se stessa, con una sorta di elegante umiltà, come un Paese in via di sviluppo, consapevole dei propri limiti e delle proprie carenze. Ma più recentemente ha cominciato a fare di sé un altro autoritratto, alquanto diverso dai precedenti Ce ne siamo accorti qualche anno fa, quando le poste cinesi emisero un francobollo in onore dell'ammiraglio Zhen He, protagonista della grande spedizione marittima che un ufficiale della marina britannica, Gavin Menzies, ha descritto in un libro intitolato «1421, l'anno in cui la Cina scoprì il mondo». Secondo Menzies, una flotta agli ordini di Zhen He salpò verso occidente dai porti dell'Impero celeste 69 anni prima di Colombo, per un lungo viaggio che avrebbe toccato le Americhe, l'Australia, le coste gelate dell'Antartico. Di ogni singola impresa sarebbero rimaste tracce — fra cui alcune carte geografiche — che Menzies sostiene di avere diligentemente recuperato e verificato. La grande impresa venne dimenticata quando i mandarini della Città proibita, dopo il ritorno di Zhen, approfittarono di una crisi depressiva dell'imperatore per interrompere una iniziativa che avrebbe dissanguato le casse dello Stato. La tesi non è piaciuta ai sinologi occidentali che hanno cercato di fare a pezzi la teoria di Menzies. Ma è piaciuta ai mandarini dei partito comunista, decisi a realizzare nello spazio la conquista che il povero Zhen avrebbe voluto compiere sulla terra.

l’Unità 6.11.07
Turbocapitalismo alla cinese
di Alfredo Recanatesi


C’è un che di inquietante in quanto è avvenuto ieri alla borsa di Shanghai. I titoli della compagnia petrolifera cinese, la PetroChina, collocati con una pubblica sottoscrizione sul mercato interno cinese, hanno registrato una prima quotazione con un rialzo di ben il 160% rispetto al prezzo di collocamento. Casi di impennata per titoli quotati ufficialmente per la prima volta già ce ne sono stati nella storia delle borse, ma mai di queste dimensioni e mai, soprattutto, per titoli già quotati in altre borse e, quindi, con un prezzo già espresso dal mercato finanziario.
PetroChina, infatti, è da tempo quotata a New York ed a Hong-Kong dove ha già vissuto il robusto rialzo conseguito da tutte le azioni cinesi. Il fatto nuovo è che i titoli ora sono alla portata del risparmio interno cinese che per la prima volta ha avuto l’opportunità di accaparrarsi una partecipazione alla compagnia petrolifera dello Stato. E lo ha fatto, com’è evidente, senza badare al prezzo, con una profusione di mezzi finanziari che era difficile immaginare anche considerando la crescita di una consistente classe di ricchi nella Repubblica Popolare.
Sotto il profilo finanziario la caccia a questi titoli è del tutto irrazionale. Non può quotare 55 volte gli utili una società che possiede, certo, il 70% delle riserve petrolifere di quello sconfinato Paese, ma le cui strategie e performances economiche sono stabilite dal regime non solo perché tutti i suoi maggiori responsabili sono nominati dal Partito, ma anche perché sono fissati amministrativamente i prezzi di vendita. E se le ragioni finanziarie non possono spiegare queste quotazioni, altre evidentemente hanno confluito nel determinare questo fantasmagorico exploit.
Intanto la ricchezza privata che si è accumulata in Cina. Il processo di relativa liberalizzazione dell’attività economica ha preteso di instaurare una forma di capitalismo controllato dallo Stato che, però, allo Stato sta sfuggendo di mano. L’exploit della PetroChina nella borsa cinese dice che la ricchezza finanziaria sta diventando in Cina una pentola il cui coperchio potrebbe saltare da un momento all’altro mettendo a rischio la stabilità economica, e quindi anche politica, di questo Paese che è diventato uno dei principali attori sulla scena economica mondiale. Una crisi cinese, infatti, non sarebbe solo cinese perché la Cina è diventata non solo la guardiana dell’inflazione mondiale con le sue esportazioni a basso costo, ma anche una potenza finanziaria in grado di mobilitare masse di capitali che neppure ci sogniamo e, comunque, in grado di destabilizzare l’intero ordine (si fa per dire) finanziario mondiale. Che questo «potere» sia stato acquisito in un Paese ancora fortemente dirigista e che, nel congresso del partito di poche settimane fa, ha pienamente confermato questo indirizzo, è e non può non essere motivo di profonda inquietudine.
Probabilmente questa classe di ricchi cinesi fa calcoli diversi, il che spiegherebbe l’irrazionalità finanziaria del caso delle azioni PetroChina e, più in generale, della portentosa ascesa delle azioni delle principali aziende cinesi. Probabilmente sconta una transizione non molto dissimile a quella della Russia, con la dissoluzione della proprietà pubblica dei mezzi di produzione e la sostituzione delle nomenclature espresse dal partito con una classe di nuovi magnati pur sempre collusi con il potere politico, ma liberi di crearsi immensi patrimoni mettendo insieme acquisizioni a condizioni stracciate, manodopera a bassissimo costo, metodi spicci nella conquista del mercato interno e protezione politica negli affari internazionali. PetroChina, insomma, potrebbe essere la Gazprom di una Cina il cui assetto attuale è quanto mai precario ed il cui futuro è aperto ad ogni possibilità. Quando la ricchezza accumulata è già cospicua, acquistare una partecipazione in una compagnia che possiede il 70% delle riserve petrolifere cinesi e che ha comunque il monopolio del più popoloso Paese della terra non è tanto un investimento finanziario, quanto una prenotazione al tavolo della gente che conterà in un futuro che potrebbe non essere molto lontano.
Caso PetroChina a parte, da questo futuro dipenderà anche la capacità del sistema produttivo di giustificare la crescita di quantità e di utili che le quotazioni azionarie stanno scontando; insomma, da questo futuro dipenderà se queste quotazioni costituiscono una bolla destinata a scoppiare, oppure sono sostenute da prospettive destinate a realizzarsi. Se la bolla dovesse scoppiare, il trauma non sarebbe soltanto cinese, dato che ormai sia le esportazioni che le importazioni costituiscono una quota pesante dell’intero commercio internazionale e, quindi, dell’intero mercato globale. Non è detto che scoppi, ma non si può far finta di ignorare che si stanno caricando tre possibili inneschi: l’inflazione, che le autorità sembrano controllare con crescente fatica, le tensioni sociali alimentate dalle sperequazioni che si vanno ampliando nella distribuzione dei redditi, e la sostenibilità fisica (dalla disponibilità di materie prime ai costi ambientali) di una crescita che continua sfrenata riluttante ad ogni intervento moderatore finora tentato. È interesse del mondo intero che non facciano la fine di apprendisti stregoni quanti, da Deng Xiaoping in poi, ritennero possibile introdurre geni del capitalismo nel corpo di un comunismo per molti aspetti ancora segnato dalla traumatica esperienza della rivoluzione di Mao.

Liberazione 6.11.07
Il presidente della Camera parla del governo, si augura che duri, ma dice che non è stato il governo di cambiamento che aspettavamo
E la sinistra? Dovrà ripensare il suo ruolo, rifiutare la condanna a stare per forza al governo o all'opposizione su decisione di altri
Bertinotti: no a politiche d'emergenza
Fassino apre a Fini sul decreto anti-Rom
di Angela Mauro


Pur auspicando che Prodi duri tutta la legislatura, di certo non si può dire che questo governo si sia anche solamente avvicinato alle aspettative della sinistra e del suo popolo. Se c'è un dato innegabile è questo, anche nel ragionamento di Fausto Bertinotti. Ospite di Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni a "Otto e mezzo" su La7, il presidente della Camera distingue il piano «istituzionale» della sua argomentazione da quello di carattere «personale». E così il primo livello, da presidente dell'assemblea di Montecitorio, indica che «sarebbe cosa buona e giusta che questo governo durasse tutta la legislatura», che abbia dunque a disposizione un «tempo congruo» per lavorare e che solo alla fine di quel tempo «sia valutato dagli elettori» con elezioni a scadenza naturale. Ma, se lo scenario intorno a Palazzo Chigi è quanto di più fosco si sia potuto osservare nell'ultimo anno e mezzo, se la direzione intrapresa dal governo scorre lungo una via emergenzialista anche e soprattutto sui temi della sicurezza, se i venti di crisi spirano così prepotentemente sul palazzo (tra i propositi di spallata di Berlusconi e le minacce di Dini e dei "suoi" senatori), diventa impossibile fermarsi ad una valutazione freddamente istituzionale. Ed ecco che «personalmente», dice Bertinotti, «io penso che il governo e la sua maggioranza debbano ritrovare le ragioni per proseguire il cammino partendo dal programma dell'Unione», il testo di 280 pagine caduto nell'oblio, come dimostra il recente stop alla commissione d'inchiesta sul G8, prevista dal programma, affossata da Idv e Udeur senza imabarazzi, salvo postumi pentimenti. «Anche nella quotidianità e persino in una politica di riduzione del danno - continua il presidente della Camera - questo governo ha un compito da svolgere». Il punto - ed è il cuore del ragionamento - è che guardando ai movimenti sociali che hanno avversato «le politiche liberiste e di guerra del governo Berlusconi» e che si aspettavano una «discontinuità» dal governo Prodi, peraltro «invocata anche nel programma dell'Unione», guardando a tutto questo il bilancio è deludente. Perchè il governo nato nel 2006 non ha operato quella «contaminazione» con le istanze sociali, di movimento, che ci si aspettava, non ha operato quello che Bertinotti definisce «il cambio».
«Il governo della grande riforma non si è dato», spiega ancora Bertinotti. Questa esperienza legislativa ha fatto «alcune cose utili», tipo «il ritiro delle truppe dall'Iraq o la legge sugli infortuni sul lavoro», ha attuato insomma «politiche di contenimento dei guai...». «Ma la scommessa è persa?», interviene Armeni. Bertinotti non salta alle conclusioni, se la cava con un «Finchè c'è vita, c'è speranza», poi elabora: «Ci sono cose da fare, alla portata di questo governo, ma temo che la grande speranza di una riforma dall'alto non si sia determinata». Detto questo, avanti tutta per cercare di arrivare alla fine della legislatura, quando «non solo il Pd sarà indotto a riposizionarsi, magari correndo da solo alle elezioni, ma anche la sinistra si porrà la stessa domanda». Tradotto: per Bertinotti, non si può dire sin da ora se la sinistra starà al governo o all'opposizione in una prossima legislatura. Si dovrà valutare a seconda del quadro, della legge elettorale e non solo a seconda dei voleri del Pd di Veltroni, che professa intenzioni di autosufficienza del nuovo soggetto Ds-Dl, magari con l'intento recondito di diminuire il potere contrattuale della sinistra. Se si andrà al voto con il «sistema attuale o con quello maggioritario consacrato dal referendum - ragiona Bertinotti - sarebbe grave e minaccioso per la sinistra e per il popolo che il Pd corra da solo». Ma con il sistema tedesco la scelta «potrebbe essere discutibile politicamente, ma senza possibilità di essere accusata di tradimento».
La domanda «proibita» alla sinistra («Perchè restiamo in questo governo?»), posta "irriverentemente" da Liberazione qualche giorno fa, non viene esplicitamente girata al presidente della Camera a "Otto e mezzo". Ma, nella risposta, è chiaro il messaggio che il modo in cui sta operando questo governo rivela una malattia troppo grave per trovare guarigione nei "brodini" serviti al Senato ogni volta che la maggioranza riesce a sfangarla. «Il brodino il governo l'ha bevuto, ma...», dice Bertinotti rievocando la battuta con cui commentò l'approvazione sul fil di lana del decreto fiscale a Palazzo Madama. Il «ma» è d'obbligo, se poi seguono provvedimenti come il dl sulle espulsioni varato in tutta fretta da un consiglio dei ministri straordinario convocato dopo l'aggressione a Tor di Quinto mercoledì scorso. Bertinotti parla di «politica asserragliata», che «fatica a dare risposte alle domande sociali». L'omicidio di Giovanna Reggiani, per il quale è accusato il romeno Nicolae Romulus Mailat, «ci interroga tutti: perchè siamo stati distratti di fronte alle baraccopoli? Solo l'uccisione muove le reazioni? Abbiamo avuto troppo poca attenzione al disagio e alla povertà, lasciamo che se ne occupi il prete della parrocchia e non la politica». E ora la politica si fa prendere «dall'affanno emergenzialista» e cerca il «capro espiatorio». Non è così che si risolvono i problemi di una società toccata dal «disfacimento di tutti i suoi elementi costitutivi consolidati, a partire dalla famiglia», nucleo nel quale avvengono più omicidi che in passato (da 106 a 192 dal '93 al 2006, a fronte di un calo degli omicidi in generale, da 1065 a 621). Già 20 anni fa, ricorda il presidente della Camera, Olof Palme avvertiva che senza una politica contro la povertà del sud del mondo «l'occidente sarebbe stato travolto da ondate di immigrazione». Certo, Palme sembra un «poeta» di fronte alla situazione attuale, ma «riconosciamo almeno che non aver attuato quelle politiche ci ha tolto autorevolezza». E allora: «capisco la tensione da ruolo», stigmatizza Bertinotti, «ma, nel diritto, ogni volta che siamo approdati a politiche emergenzialiste, dopo dieci anni ce ne siamo pentiti». La politica deve «intervenire per prevenire la violenza: capire dove nasce e alberga» e deve interrogarsi sulle «questioni di fondo» come «fa anche il Papa», ammette il «non credente» Bertinotti. Perchè è possibile «reprimere nel giusto: è questa la forza dello stato di diritto, non è l'essere più buono, ma l'essere più intelligente», attuare anche «integrazione e accoglienza», affrontare davvero anche altri drammi, come le morti sul lavoro. Solo ieri, altre 4: «La politica muore se non dà risposte», commenta il presidente della Camera. Quanto alla sinistra, faccia autocritica, non sul fatto che la sicurezza sia roba sua o della destra, bensì «sull'aver sottovalutato il carattere devastante della violenza e di ogni complicità con la violenza. Pensare che esista una violenza buona: questa è la colpa di chi viene dalla mia storia».

Liberazione 6.11.07
Vertice del centrodetra: presenteremo 5-6 emendamenti. Applausi per il ritorno di Casini a casa di Berlusconi
Decreto sicurezza, Fini bussa Fassino apre
di Frida Nacinovich


Assemblea annuale della Cisl, al palacongressi dell'Eur. Interviene il segretario Raffaele Bonanni, ad ascoltarlo nell'affollata platea ci sono anche Berlusconi, Fini, Casini e Maroni. L'allegra famiglia delle libertà berlusconiane se ne va non appena ha finito di parlare Bonanni. Non aspetta l'intervento seguente, che sarebbe quello del presidente del Consiglio Romano Prodi. Questione di stile (mancato). E talvolta dietro la forma c'è anche la sostanza. Passa meno di un'ora, l'azione si sposta in via del Plebiscito, a casa Berlusconi. Pranzo di lavoro, con calorosi applausi per salutare il ritorno del figliol prodigo: dopo un anno e mezzo Casini prende parte a un vertice del centrodestra. Non è una parabola, è la linea della Casa delle libertà sulla sicurezza. Libertà? Manco a parlarne. Berlusconi, Fini, Maroni e Casini - Forza Italia, An, Lega e Udc - si trovano d'accordo su tutta la linea, vogliono pugno di ferro in guanto di acciaio, chiedono al governo misure ancora più dure del decreto legge approvato in fretta e furia la settimana scorsa. «Al momento non ci sono le condizioni per esprimere un voto favorevole», fa sapere il presidentissimo di Alleanza nazionale. E tale è la gioia dell'allegra famiglia delle libertà berlusconiane, che il pentito, contrito e redento leader dell'Udc alza la voce contro il «buonismo della chiesa». Da non credere.
Non è ancora finita. L'ultima scena della giornata si svolge nel salotto televisivo di Bruno Vespa. A "Porta a Porta" ci sono ospiti Gianfranco Fini e Piero Fassino. L'ex segretario Ds finisce come sempre fra l'uscio (Vespa) e il muro (Fini), non trova di meglio che dire: «Siamo pronti a discutere in Parlamento come rendere più chiare e inequivoche le norme che garantiscono la sicurezza dei cittadini». Per la cronaca, Gianfranco Fini ha appena finito di illustrare le tre richieste non trattabili dell'opposizione: più risorse, espulsioni effettive mediante l'accompagnamento coatto alla frontiera, provvedimenti allargati ai nullatenenti. «Credo si possa trovare un accordo in Parlamento», insiste Fassino. Sulle risorse: «In Finanziaria ci sono 200 milioni di euro in più per mezzi e tecnologie alle forze dell'ordine - ricorda l'ex leader Ds - Vogliamo incrementare? Il centrosinistra è d'accordo». Sulle espulsioni: «L'accompagnamento alla frontiera? Nulla impedisce di farlo. Tuttavia siamo disposti a scriverlo esplicitamente». Fassino è possibilista anche sull'allargamento delle espulsioni a chi non ha un lavoro, «che è diverso da chi non ha sostentamento». Tant'è.
Nel frattempo il presidente del Consiglio rispedisce al mittente le avances securitarie del centrodestra: «Sono problemi loro». «Il nostro decreto legge - spiega Prodi - è chiarissimo. Proprio adesso ne parlavo con il presidente della Repubblica rumena, al quale ho fatto capire le posizioni italiane, le motivazioni del decreto. E io - aggiunge il Professore - credo che su questo l'opposizione non possa fare obiezioni sostanziali, altrimenti contraddice la propria posizione». Essere o non essere, questo è il problema. Mercoledì, vertice Italia-Romania. Il primo ministro rumeno Calin Popescu Tariceanu ha ufficialmente fissato l'incontro con Prodi per il prossimo 7 novembre. Prodi e Tariceanu discuteranno delle strategie comuni da mettere in campo per affrontare i problemi dell'immigrazione e della sicurezza. Che la Romania non abbia gradito il decreto legge è risaputo. Ma anche l'Unione europea sente puzzo di bruciato.
Ora i particolari. All'uscita dalla coalizione di lavoro dell'allegra famiglia delle libertà berlusconiane, il segretario del Pri Francesco Nucara racconta la parabola di Casini. Applausi, applausi e ancora applausi per il leader Udc. «Non so se erano per il ritorno o per il matrimonio», scherza. L'esponente repubblicano parla di «un grossissimo passo avanti per il ricompattamento della Casa delle libertà». All'incontro sono intervenuti i rappresentanti di Forza Italia, An, Lega, Udc, Pri, Dc per le Autonomie e, collegato telefonicamente, Stefano Caldoro del Nuovo Psi. L'offensiva d'autunno. «La sicurezza dei cittadini merita che l'opposizione sia unita», riassume il figliol prodigo Casini. L'opposizione «si impegna a presentare pochi e qualificati emendamenti al decreto sicurezza del governo», ribadisce la nota conclusiva che chiude alle speranze di dialogo o, forse, segna una nuova tappa nella guerra - politica - di posizioni che scandirà l'iter parlamentare del decreto sicurezza. «Faremo un'azione in due fasi», anticipa il leghista Roberto Maroni: «Emendare questo decreto che si limita solo ai cittadini comunitari, perché il problema è ben più ampio, e poi si procederà a definire una proposta condivisa da tutta la Cdl sulla sicurezza, sui cittadini extracomunitari e sui clandestini, che verrà studiata nei prossimi giorni». L'ultima battaglia del generalissimo Berlusconi è cominciata. E la Casa delle libertà è compatta dietro il suo Cavaliere. A tal punto che lo stesso Casini è costretto a precisare: «Ho parlato di opposizione unita, non di Casa delle libertà». Sipario.

lunedì 5 novembre 2007

l’Unità 5.11.07
Quel razzismo strisciante
di Alfonso Celotto


«Quelli sono slavi, so’ barbari, che caspita c’entrano con noi che semo romani, der mondo de la cultura, de l’antichità...».
Mi sorprende sentire queste parole in un mercato rionale, accanto alla stazione Termini, il giorno dopo il raid della Casilina, il giorno dei funerali di Giovanna Reggiani. Quattro ragazzotti romani davanti a un banco della frutta, quattro giovani di quelli che in genere parlano soltanto di calcio, della Roma, della Lazio. Quei quattro oggi parlano animatamente di immigrati.
Il più bulletto che cerca di dare una spiegazione “alta”, abbozzando una giustificazione storica delle differenze fra romeni e romani, per ribadire una (presunta) nostra superiorità razziale («....tanto ormai anche Chivu il romeno gioca nell’Inter...») .
Lampi di razzismo.
Mi torna alla mente l’art. 3 della Costituzione: la proclamazione del principio fondamentale dell’eguaglianza, fra tutti, rafforzato dai divieti di discriminazione. Vi si specifica che tutti sono eguali «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione...».
Una norma figlia del tempo. Perché i Costituenti vollero fermamemente ribadire che la discriminazione degli ebrei nel ventennio era stato un errore, un enorme errore storico. L’Italia non è un paese razzista. Non lo è mai stato.
Così per anni sui manuali di diritto costituzionale abbiamo letto che la proclamazione costituzionale della non discriminazione rispetto alla razza era una norma anacronistica. Scritta soltanto come forma di rifiuto di un odioso passato. I costituenti non potevano certo pensare ai problemi dell’immigrazione, all’integrazione razziale, a un crearsi di un melting pot anche in Italia. I Costituenti scrissero negli anni in cui erano gli italiani ad emigrare.
Oggi oltre il 5% della nostra popolazione è ormai fatta di immigrati. E spesso di immigrati che sopravvivono ai margini della società, come magistralmente ci mostra Ken Loach nel suo «In questo mondo libero».
Ormai l’immigrazione è un problema anche per l’Italia.
E lo Stato risponde. Ubi societas ibi ius. La risposta legale è il “pacchetto sicurezza”, approvato prima come disegno di legge, poi trasformato in decreto-legge per dare il senso dell’immediatezza della risposta. Più controlli, più severità, più espulsioni. Ma c’è anche una risposta sociale, che preoccupa. La societas risponde con i linciaggi, risponde con un razzismo latente, che trasuda nelle chiacchiere da bar, che si insinua nei pensieri di chi fa la spesa al mercato, anche i più giovani, cioè coloro che domani dovranno vivere in un’Italia inevitabilmente multirazziale.
L’Italia si riscopre un paese razzista e la Costituzione fa tornare attuale il suo ammonimento, in una esemplare eterogenesi dei fini: il divieto di ogni discriminazione in base alla razza è principio fondamentale della nostra Repubblica.

l’Unità 5.11.07
«Se il governo tratta con Fini è al capolinea»
Polemico Russo Spena, che dice: «Molti chiedono modifiche al decreto, ma in altro senso»
di Eduardo Di Blasi


RIFONDAZIONE Comunista sta lavorando agli emendamenti da apportare al decreto sicurezza «assieme a un pool di giuristi». Il presidente del gruppo a Palazzo Madama Giovanni Russo Spena per adesso ne parla a titolo personale, perché la direzione del partito e la riunione del gruppo è fissata per la giornata di domani, ma ritiene che almeno due punti del testo approvato in Consiglio dei ministri siano«incostituzionali e ingiusti» e vadano cambiati.
Certo guarda con sospetto all’apertura che il ministro dell’Interno Giuliano Amato ha fatto alle proposte del presidente di An Gianfranco Fini: «Molti nell’Unione chiedono che il decreto sia migliorato, e non certo nella direzione chiesta da Fini», spiega, mentre avverte il governo: «Se dovessero invece passare le richieste di Fini di e di Casini saremmo davvero al capolinea». E lancia una battuta contro l’opposizione: «Sottolineo inoltre l’elemento di involontaria ironia nelle parole del leader di An quando dice che nessuna integrazione è possibile con chi ruba: forse dovrebbe rivedere le sue alleanze politiche».
Ma sulla materia del contendere Russo Spena ci tiene a calcare su tre dei punti sui quali si darà battaglia: «Il rafforzamento della legge Mancino contro il razzismo e la xenofobia, il controllo sulle azioni delle Prefetture che non può essere affidato ai giudici di pace, e la definizione dell’ambito di applicazione del provvedimento. Che per adesso ha una definizione vaga e amplissima». Detto questo ritiene «che non è un problema di caduta di governo, ma di trovare un giusto mezzo, anche perché ogni provvedimento dovrà essere costituzionalmente ineccepibile».
Anche il vicepresidente della Camera Carlo Leoni, esponente della Sinistra Democratica, ritiene che siano da chiarire meglio«le figure oggetto di allontanamento», ma ricorda come in Consiglio dei ministri si sia votato tutti allo stesso modo, e che quindi il principio che sta alla base del decreto dovrebbe essere comunque, con i dovuti contrappesi, condiviso.
È la stessa linea che tiene il Partito dei Comunisti Italiani che con Pino Sgobio, capogruppo alla Camera, avvertono: «Il provvedimento va reso più attinente alla cultura giuridica, civile e sociale del nostro Paese. In questo senso, la maggioranza lo migliori, affrontando la questione con un approccio più legato al sociale e più di prospettiva». Sgobio accusa l’opposizione «di alimentare strumentalmente le paure degli italiani. I rischi di razzismo e xenofobia, nemici acerrimi della democrazia e della convivenza civile, vanno contrastati soprattutto sul piano culturale». Anche il capogruppo dei Verdi alla Camera Angelo Bonelli mette nel mirino il centrodestra: «Hanno governato per 5 anni questo Paese ed i provvedimenti che hanno preso sono la causa di tanti problemi che ora l’Italia stanno esplodendo violentemente, sicurezza inclusa». E chiarisce: «Sulla sicurezza bisogna andare avanti con rigore e serietà nei confronti dei criminali, ma anche avviare una politica dell’accoglienza giusta e solidale nei confronti delle persone oneste».
L’iter del decreto prevede per domani pomeriggio l’approdo in Commissione Affari Costituzionali del Senato (relatore Giannicola Sinisi), dove saranno valutati eventuali emendamenti di maggioranza e opposizione. Nell’aula di Palazzo Madama potrebbe andare dopo il passaggio della Finanziaria.



l’Unità 5.11.07
Il richiamo della Ue
«Ma in Italia contro il razzismo sanzioni colabrodo»


Anche l’Italia nel mirino dell’Europa per xenofobia e razzismo. L’Agenzia per i diritti fondamentali in Europa - nel suo rapporto presentato a Bruxelles a fine agosto - denunciava come ancora molti paesi «puntano i piedi nell’applicazione della direttiva sull’uguaglianza razziale» e questo significa che non hanno organismi specializzati per assistere le vittime o che non hanno applicato sanzioni efficaci come deterrente contro la discriminazione razziale. Il problema del razzismo viene ancora definito in termini molto allarmistici: «È una grave piaga sociale» si legge nel rapporto. E in particolare l’Unar segnala come in Italia le sanzioni contro comportamenti xenofobi siano praticamente inesistenti: nel 2005 sono state 865 le denunce di discriminazione a sfondo razziale o etnico presentate all’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar). Di queste 282 sono state verificate dall’ufficio che «non ha sostenuto una sola azione giudiziaria in tribunale». Situazione completamente opposta quella della Gran Bretagna, però: dove un caso di discriminazione per motivi razziali ha portato a un risarcimento di un milione e 462 mila euro.
Ma è stata anche la stessa Commissione Ue a muoversi. Lo scorso 27 giugno infatti ha inviato un parere motivato all’Italia e ad altri 13 Paesi per non aver adeguatamente recepito la normativa comunitaria contro la discriminazione razziale o etnica. La direttiva che bandisce la discriminazione razziale è stata varata all’unanimità nel 2000, ma manca ancora un’applicazione completa da parte di tutti gli stati membri. La direttiva che bandisce la discriminazione razziale è stata varata all’unanimità nel 2000, ma manca ancora un’applicazione completa da parte di tutti gli stati membri. I paesi coinvolti, oltre all’Italia, sono Spagna, Svezia, Repubblica Ceca, Estonia, Francia, Irlanda, Regno Unito, Grecia, Lettonia, Polonia, Portogallo, Slovenia e Repubblica slovacca.

l’Unità 5.11.07
Cronaca di un Ottobre rosso
di Adriano Guerra


Se nell’ottobre del 1917 si fosse semplicemente conclusa in Russia con l’avvio dell’Assemblea Costituente la rivoluzione di febbraio con la nascita di una repubblica democratica, socialista e parlamentare. Se, se, se. Se i menscevichi e i socialisti rivoluzionari (Sr) non avessero abbandonato il 2° congresso dei Soviet lasciando con i bolscevichi soltanto un pugno di Sr «di sinistra»... Se i bolscevichi avessero accettato il risultato delle elezioni per la Costituente che assegnava la maggioranza dei seggi agli Sr (40%) ma assicurava col 24% dei bolscevichi e il 4% dei menscevichi la vittoria a una sinistra pluripartitica
Non ci sarebbe stato Stalin, lo stalinismo, il gulag.… Se, se, se.
Di nuovo, come era già avvenuto negli anni 70 del secolo scorso dopo che il Pci aveva proclamato con Berlinguer che la democrazia doveva essere considerata un «valore universale», si ricostruisce quel che è avvenuto nella Russia fra il febbraio e l’ottobre del 1917 alla ricerca dell’anello perduto. E di quel che è accaduto - fra spinte liberatorie e paurose involuzioni - in seguito a quella perdita. Si cercano risposte nuove (si vedano i libri di Marcello Flores (La rivoluzione, Einaudi, Torino, 2007, pp. 132) recensito su queste pagine da Bruno Gravagnuolo, e di Vittorio Strada, (La rivoluzione svelata, Liberal , Roma 2007, pp. 155), il convegno che si aprirà tra un paio di giorni alla Fondazione Basso a Roma con una relazione di Maria Ferretti, le pagine dedicate di continuo dai giornali a quei lontani eventi).
Viene da chiedersi, a dispetto di quanti ci invitano a fare un croce sul passato, se il modo più sicuro di preparare il futuro non sia quello di dare risposte ai vecchi interrogativi. Ricorrendo anche, quand’è il caso, a risposte dimenticate. Ritornando per esempio a un libro come questo di John Reed che l’Unità propone ai suoi lettori mercoledì 7 Novembre, Il classico I dieci giorni che sconvolsero il mondo e che ci dice come e perché nella Russia del 1917 la grande partita apertasi a febbraio si sia poi decisa, di fatto, già nei primi giorni di Ottobre. All’interno tuttavia di un quadro - dalla guerra mondiale del 1914 alla fine della guerra civile in Russia - caratterizzato da innumerevoli momenti diversi attraverso i quali le varie «alternative storiche» in scena hanno preso forma, si sono intrecciate e divise per poi scomparire, lasciando spazio ad una sola di esse, quella rappresentata da Lenin.
La questione della rottura fra rivoluzione democratica e rivoluzione sociale non era infatti inevitabile e del resto non si chiuse nel 1917 (e anche per questo Stalin non è stato semplicemente il continuatore di Lenin): è certo però che nei giorni raccontati da Reed qualcosa di definitivo è accaduto. Ma chi erano i protagonisti della vicenda? Soltanto il governo provvisorio di Kerenskij, i menscevichi, i socialisti rivoluzionari, i cadetti, i liberaldemocratici, e i bolscevichi? Spesso si dimentica l’ampiezza delle forze che hanno partecipato al processo rivoluzionario russo dandogli un carattere straordinario e unico. Si pensi al confluire impetuoso di movimenti spontanei: le masse contadine che chiedevano la terra, le popolazioni - dalla Polonia alla Finlandia, alle aree del Caucaso e dell’Asia centrale - che chiedevano indipendenza, le spinte progressiste, giacobine, femministe, libertarie (si pensi a Bloch e a Majakovskij a Pietroburgo, a Chagall a Vitebsk) che si intrecciavano nelle città.
Già nelle prime pagine John Reed documenta come e perché la fragilità delle strutture della democrazia appena nata, le scelte dei partiti, ma soprattutto il continuo crescere del malcontento popolare - mentre in ogni angolo del paese masse crescenti facevano proprie parole d’ordine sempre più radicali, «La terra ai contadini», «Le fabbriche agli operai», e al fronte l’esercito «parlava solo di pace» - abbiano portato all’uscita di scena della prospettiva che avrebbe dovuto aprirsi con l’Assemblea Costituente. Lenin - si dice - ha letto meglio degli altri quel che si nascondeva dietro al caos e per questo ha vinto. Ma a sconfiggere Kerenskij prima ancora di Lenin è stato il suo rifiuto di far proprio il «no» alla guerra che arrivava dal fronte e la richiesta della terra che veniva dai contadini.
Tutto questo ha raccontato John Reed con la penna del giornalista e dello scrittore. Di uno scrittore - va aggiunto - «impegnato» che però non ha tenuto nascosta la tessera di partito né l’ha usata per nascondere qualcosa al lettore (i censori verranno dopo, perché nel libro non si rendeva omaggio all’uomo, Stalin, che, seppure durante quei «dieci giorni» si trovasse lontano da Pietroburgo, avrebbe poi impresso il suo segno all’Ottobre).
«Quando la causa sposata si identifica con la vita - ha scritto nei giorni scorsi sul Corriere della sera Claudio Magris - allora pure l’impegno può diventare poesia». E per Reed «la poesia non significava solo scrivere parole ma vivere la vita», si legge nel saggio di Max Eastman - amico fraterno e compagno di ideali di Reed divenuto poi un anticomunista dichiarato, anzi un «cacciatore di streghe» - nel saggio che un po’ inopinatamente troviamo ora a mo’ di introduzione nella edizione del libro curata dagli Editori Riuniti per l’Unità .
Non certo a caso Elio Vittorini («la cultura come vita») ha scelto nel 1946 I dieci giorni per aprire presso Einaudi la Biblioteca del mitico Politecnico. Ma proprio perché pagina di letteratura e di storia, il libro di Reed è stato pubblicato in tutto il mondo dagli editori più diversi: in Italia, oltreché da Einaudi e dagli Editori Riuniti, da Longanesi, tradotto da Orsola Nemi, e da Rizzoli (anche nella Bur con una introduzione di Rossana Rossanda).
Questo negli anni 40, 50 e 60 del secolo scorso. Ma a che cosa possono servire oggi le pagine di questo intellettuale americano morto di tifo a Mosca a 33 anni e sepolto - unico straniero - nelle mura del Cremlino?
Per cercare una risposta può essere utile chiederci anzitutto cosa può aver spinto Reed a raggiungere Pietroburgo. Occorre per questo ricordare tante pagine dimenticate. Che nel 1905 era stata fondata a Chicago l’Industrial Workers of the World, al quale John Reed si avvicinò da ragazzo. Che a Paterson, nel New Jersey, era scoppiato nel 1913 uno sciopero nei setifici durante il quale Reed fu arrestato insieme a 2.300 operai. Che l’anno successivo i democratici americani guardarono con speranza alla rivoluzione di Pancho Villa nel Messico (raccontata da John Reed in un libro famoso, Messico insorto). Che lo stesso anno nel Colorado uno sciopero di minatori che aveva assunto aspetti di rivolta venne concluso tragicamente il 20 aprile col «massacro di Ludlow»: e a far fuoco con le mitragliatrici contro i lavoratori e i loro famigliari fu la polizia privata dei padroni delle miniere, riuniti nella Rokefeller’s Colorado Fuel and Iron Company (John Reed scrisse un reportage, «La guerra del Colorado», che rimane una delle poche testimonianze su quelle tragiche giornate).
Duemilatrecento arrestati a Paterson, decine di vittime a Ludlow. Moti insurrezionali negli Stati uniti. E in Europa la rivolta dei marinai di Wilhemshafen, i moti di Torino, gli scioperi del gennaio 1918 in Austria, la rivoluzione spartachista, la salita al potere di Bela Kun in Ungheria. E poi, a guerra conclusa, la paura. Lloyd George che parlando a Parigi nel gennaio 1919 del sostegno militare che le forze di molti paesi stavano dando all’armata bianca di KolCak, diceva costernato che non era possibile pensare di fermare la rivoluzione russa con le armi: «Se ci proponessimo di mandare altri soldati britannici in Russia i reparti si ammutinerebbero e questo vale anche per le truppe americane e canadesi …».
Ecco dunque che cosa è stato l’Ottobre in Russia, ma non solo in Russia. Le speranze, e le paure, con le quali è stato accolto.
Ci si può chiedere se John Reed può aver in qualche modo intuito da qualche segno che la via imboccata con quei «dieci giorni» avrebbe portato alle tragedie degli anni 30. Quel che si sa - le testimonianza della moglie di Reed, Louise Bryant, e di Angelica Balabanova sono state raccolte e forse «gonfiate» da Eastman, non però costruite sul nulla - è che nell’estate del 1920 Reed si era dimesso dall’incarico che ricopriva presso l’esecutivo del Comintern perché «amareggiato e deluso». Successivamente a Baku, ove era andato per assistere ai lavori della conferenza indetta per aprire le porte della rivoluzione comunista alle masse musulmane, ebbe uno scontro durissimo con Zinoviev e con Radek. Reed tornò a Mosca «eccitato, arrabbiato e tragicamente scoraggiato… Girò la faccia contro il muro e non parlò quasi più». Lenin, al quale la moglie si rivolse, ordinò che gli venissero assicurati i migliori medici e le migliori cure disponibili, ma fu tutto inutile. Forse è possibile dire che nel corso della sua brevissima esistenza John Reed ha vissuto per intero il grande e tragico dramma che ha coinvolto nel secolo scorso il nostro mondo.

l’Unità 5.11.07
Quei «dieci giorni» visti oggi alla Fondazione Basso


Ancora un libro delle «Chiavi del Tempo», la collana diretta da Bruno Gravagnuolo, con l’Unità. Per un anniversario fondamentale, il 7 Novembre 1917: presa di potere bolscevica (nel calendario di allora in Russia era il 25 ottobre). Stavolta si tratta di un classico «stagionato», che non ha perso nulla del suo fascino, con prefazione critica di Max Eastaman: I Dieci giorni che sconvolsero il mondo, di John Reed. In edicola mercoledì, a 7,90 Euro, oltre il prezzo del quotidiano. Una fonte ancora degna di figurare accanto agli altri libri di questo Novantesimo, di cui ci parla Adriano Guerra. E accanto alle tante iniziative storiografiche di questi giorni. Tra le quali segnaliamo il Convegno della Fondazione Basso a Roma il 9 Novembre, nella Sala dei Dioscuri in Via Piacenza 1: «Dal Febbraio all’Ottobre; la rivoluzione russa del 1917 e la crisi della modernità europea». Un’intera giornata con Maria Ferretti, Theodor Shanin, Boris Kolonickij, Albert Nenarokov, William Rosenberg. E italiani come Luciano Cafagna, Andrea Graziosi, Marcello Flores, Silvio Lanaro, Mariuccia Salvati e altri ancora.

Repubblica 5.11.07
Duro intervento del presidente Basescu. Fini: via 200mila stranieri. Il Papa: dare accoglienza e sicurezza agli immigrati
La Romania boccia le espulsioni
"Così si risveglia l'odio". La sinistra: sul decreto no al voto con la Cdl
La Romania accusa l'Italia "Le espulsioni generano odio"
Fini: via 200.000. Ferrero: non votiamo col centrodestra


Repubblica 5.11.07
Dura nota del presidente. Il premier di Bucarest verrà presto a Roma
di Luana Milella


ROMA - Per la seconda volta in due giorni il premier romeno Tariceanu protesta contro le espulsioni dei suoi concittadini dal nostro Paese, vuole conoscere «i criteri», definisce «xenofoba» la reazione contro il suo popolo. Il presidente Basescu aggiunge che i romeni «si sentono minacciati» e invita il ministro degli Esteri Cioroianu a verificare a Bruxelles se il decreto sia in linea con le direttive europee «perché molte persone sono state rimpatriate senza sapere se la misura era giusta o sbagliata». Solo una lunga telefonata tra Tariceanu e Prodi evita il pericolo di una grave crisi diplomatica. Fonti di Palazzo Chigi fanno sapere che il premier romeno verrà a Roma, forse in settimana, per evitare che «i rapporti tra i due paesi degenerino». Dopo il colloquio Tariceanu dichiara che la Romania «non vuole perdere un alleato importante come l´Italia» e incrementerà l´invio di poliziotti romeni per collaborare agli accertamenti sugli "indesiderabili".
Ma la partita del decreto espulsioni si preannuncia dura per Prodi e la maggioranza anche sul fronte interno. Il dl parte domani al Senato (in commissione Affari costituzionali) e il centrodestra, con Fini, Casini, Berlusconi, la Lega, pone condizioni draconiane per votarlo, al punto che Rifondazione, con Ferrero, dopo aver detto sì a denti stretti in consiglio dei ministri, considera «inquietante» l´ipotesi di un voto bipartisan e annuncia di essere disponibile a ulteriori inasprimenti. A porre specifici paletti sono sia Fini che Casini. Il leader di An cavalca la battaglia contro i romeni. Sostiene che, nella sola Roma, sarebbero necessarie 20mila espulsioni, e tra le 200 e le 250mila in Italia. Pretende misure «vere» perché «l´intimazione ad andarsene non serve a niente, lo straniero senza lavoro e casa va rispedito subito a casa». Ormai Fini non parla più di romeni o di rom, ma di tutti gli stranieri. Polemico con il capo del Pd Veltroni («Il sindaco di Roma non può fare Alice nel paese delle meraviglie, Roma non è Disneyland», «Il governo ha fatto il decreto perché senno gli rovinava il presepe»), Fini chiede che «i campi rom vengano demoliti e non solo visitati». Veltroni replica secco: «Fini non è un uomo di Stato e la destra vive uno dei momenti più bassi della sua storia». A dettare le modifiche al dl è Alemanno: espulsioni obbligatorie, misure per chi è senza casa e lavoro, più soldi per la polizia. Sono le richieste di Casini che visita un campo rom a Roma e si stupisce: «È incredibile che queste scene si vedano a poche centinaia di metri da un quartiere residenziale». Estremista la Lega con Calderoli che considera le ronde, a cui parteciperà, «l´unica forma di legittima autodifesa» e vuole «chiudere le frontiere e fare pulizia con la Bossi-Fini anche per i cittadini comunitari».
Mentre la Romania protesta e la destra preme, il ministro dell´Interno Amato invia ai prefetti una circolare esplicativa del decreto che è, in sé, una risposta agli uni e agli altri. Il presupposto, su cui Amato è molto fermo, è che le espulsioni (come chiede An) non possono essere «obbligatorie». Esse sono immediate, e il decreto lo prevede, solo se ne ricorrono i presupposti di effettiva e motivata urgenza, ma negli altri casi il prefetto, con motivazioni puntuali e stringenti, si affida alla procedura ordinaria che da 30 giorni di tempo.

Repubblica 5.11.07
"Milioni di armi e controlli non severi"
Poliziotti e psichiatri: superficiali le verifiche su chi ha il permesso
All'inizio della trafila tanti documenti ma nei rinnovi scarsa attenzione
di Oriana Liso


MILANO - In teoria, sono quasi tutti d´accordo, ottenere legalmente una pistola in Italia proprio facile non è. Il problema è la mancanza di rigidità nell´applicare procedure e regole che potrebbero impedire le stragi della follia. Come quella di Angelo Spagnoli a Guidonia, o come quella di Andrea Calderini, il giovane che a Milano, quattro anni fa, uccise sua moglie e una vicina, ferì tre passanti e si suicidò, sparando dal balcone di casa come Spagnoli. In entrambi i casi sotto accusa finisce un sistema di controlli che dovrebbero evitare la concessione, ma ancor più il rinnovo del porto d´armi a chi non è più affidabile sotto il profilo medico e psicologico. Perché all´inizio della trafila invece, quando un cittadino italiano chiede il rilascio del porto d´armi - per difesa personale, per uso sportivo o per la caccia (in Italia ci sono oltre 800mila cacciatori) - le certificazioni da presentare sono molte, tanto che - dicono i poco aggiornati dati del ministero dell´Interno - le autorizzazioni sono scese in un anno da circa 45mila a quasi 36mila, tra il 2004 e il 2005. E a Roma, nel 2005, sono state 350 su 450 le domande respinte per il porto e la detenzione di pistole per difesa personale, soprattutto per la mancanza delle condizioni di idoneità psicofisica.
Una polemica, quella sul porto d´armi, rinfocolata quasi due anni fa, era il gennaio del 2006, quando il Parlamento ha approvato la legge sulla legittima difesa, che stabilisce il diritto a sparare agli intrusi in casa o nel proprio negozio per difendere persone e beni, in presenza di un pericolo vicino. Una legge fortemente voluta dal centrodestra, che si temeva avrebbe portato a un aumento delle richieste di poter detenere una pistola in casa. Ma in quell´occasione il Viminale aveva assicurato che sarebbero aumentati i controlli per evitare la giustizia fai da te, soprattutto da parte di chi non rispondeva ai necessari requisiti per potersi armare. Promesse che oggi, dopo la vicenda di Guidonia, vengono duramente contestate. «Nella nostra pratica - spiega Miano Bassi, presidente della società italiana di psichiatria - ci rendiamo conto che non vengono valutate periodicamente e attentamente le persone che chiedono di avere un´arma: le condizioni fisiche e soprattutto psichiche possono variare molto».
È più pesante il giudizio di Vincenzo Del Vicario, segretario del sindacato autonomo di vigilanza privata Savip: «Le verifiche hanno una procedura scandalosa», mentre Enzo Marco Letizia, segretario nazionale dell´Anfs - l´associazione nazionale dei funzionari di polizia - chiede «al ministro dell´Interno e al capo della Polizia di dare una svolta concreta alla politica delle armi, rivedendo normative e circolari lassiste che hanno consentito il proliferare degli armati sul territorio nazionale». Armati che, dicono sempre i dati, arrivano a quattro milioni, quante sono le persone con il permesso di detenere un´arma in casa. «Un vero e proprio esercito parallelo», come lo aveva definito il non ancora ministro Giuseppe Fioroni qualche anno fa.
Tra gli armati, come si ricordava, c´era Andrea Calderini che - dopo la strage di via Giulio Carcano - si scoprì affetto da gravi disturbi psichici, tanto da essere curato con psicofarmaci, e che aveva già una condanna per furto. Nel luglio scorso sono state confermate in appello le condanne ai due medici che avevano rilasciato a Calderini i certificati di idoneità per il porto d´armi.

Corriere della Sera 5.11.07
La «guerra di movimento» di Veltroni e Fini
I destini comuni di due leader
di Angelo Panebianco


Le due novità della politica italiana sono l'affermazione di Walter Veltroni come capo della sinistra e la sfida lanciata da Gianfranco Fini per la conquista della leadership del centrodestra. Certo, le due situazioni non sono simmetriche. Veltroni ha già lo scettro in mano e deve consolidare il trono. Fini è impegnato in una lotta incerta, e di lunga durata, per conquistarlo.
Ciò detto, le somiglianze sono tante. Sia Fini che Veltroni sono figli delle ideologie totalitarie del XX secolo. Entrambi hanno fatto un lungo e accidentato percorso di revisione e maturazione. Sono ormai due leader post-ideologici. Accusare oggi l'uno di «fascismo» sarebbe altrettanto ridicolo che accusare l'altro di «comunismo» (anche se fra i seguaci di entrambi resiste ancora qualche nostalgico delle vecchie ideologie).
Sono destinati a scontrarsi ma anche, forse, a convergere occasionalmente su alcune grandi questioni. Hanno entrambi ostacoli da superare. Veltroni deve decidere come e quando spazzare via l'impopolare governo Prodi. Fini, per parte sua, deve riuscire presto ad accreditarsi come il naturale successore di Silvio Berlusconi. C'è una differenza, naturalmente. Il governo Prodi è ormai da tempo agonizzante (una condizione che potrebbe durare ancora pochi giorni oppure diversi mesi). Tra non tanto, comunque, non sarà più un ostacolo per Veltroni, anche se questi dovrà fare i conti con l'eredità negativa di quel governo. Nell'altro campo, invece, Berlusconi è ancora popolarissimo e saldo al comando. Fini deve tenerne conto.
Ciò che rende simili le loro situazioni è che sia Veltroni che Fini sono tenuti a fare «guerra di movimento ». Non possono giocare in difesa. Lo si è visto nella questione della sicurezza. Veltroni ha «ordinato » a un governo fino a quel momento riluttante di varare il decreto legge sulla sicurezza. Fini, a sua volta, non potendo permettere a Veltroni di appropriarsi del tema della sicurezza in competizione con il centrodestra, ha contrattaccato dettando di fatto la linea dello schieramento di cui fa parte: recandosi sul luogo dell'assassinio di Giovanna Reggiani, lanciando dure accuse di inadeguatezza al governo e allo stesso Veltroni, dettando le condizioni (nell'intervista al Corriere di ieri) per un eventuale voto favorevole dell'opposizione al pacchetto- sicurezza.
Ci sono altre somiglianze. Veltroni sembra deciso a svecchiare l'ammuffita cultura politica del centrosinistra e il suo progetto modernizzatore, se non resterà sulla carta, lo destina a uno scontro feroce con i conservatori di sinistra (non solo con la sinistra massimalista). A sua volta, Fini (insieme a Casini, che però ha scelto un diverso percorso) appare, a destra, come il leader più consapevole sia dei limiti della precedente esperienza di governo della destra sia della necessità di approntare nuove idee e proposte per fronteggiare la concorrenza di Veltroni.
Due settimane fa (Corriere, 22 ottobre) ho scritto che Veltroni e Fini sono gli unici capi-partito con un genuino interesse per una legge elettorale che favorisca le aggregazioni politiche: Veltroni, per consolidare il Partito democratico e Fini, per dare vita alla fusione fra An e Forza Italia. Confermo il giudizio e penso che quando si deciderà sulla riforma elettorale questa (temporanea) convergenza di interessi diventerà visibile.
È un caso, ma anche un simbolo che testimonia di destini paralleli e intrecciati, il fatto che Fini pensi di sostituire Veltroni là dove quest'ultimo ha iniziato la marcia per conquistare la sinistra italiana: il Comune di Roma.

Corriere della Sera 5.11.07
Salvi: il testo va cambiato ma deciderà il nostro Parlamento
di Dino Martirano


ROMA — «Certo, se si risparmiasse sui festival cinematografici e si investisse davvero sulla lotta al degrado urbano, i nostri sindaci farebbero qualcosa di positivo: alcuni lo fanno, altri danno l'allarme per sfuggire a queste responsabilità che qui a Roma abbiamo visto nella baraccopoli di Tor di Quinto». Cesare Salvi, leader della Sinistra democratica, non è tenero con il governo che accogliendo la richiesta del sindaco Walter Veltroni ha varato il decreto legge sulle espulsioni. Il presidente della commissione Giustizia del Senato non condivide alcuni punti del testo e quindi avverte: «Al Senato, non solo la sinistra ma, spero, anche radicali, socialisti e quel settore del Pd che fa riferimento ad Arturo Parisi tenteranno di modificare il decreto. Spetterà al Pd fare la scelta: se segue certe pulsioni, Veltroni si farà superare dalla destra che su propaganda e populismo vince e chiede sempre di più».
Secondo lei, dunque, ora bisogna esaminare le misure con maggior freddezza.
«Chiedo anche di verificare il rischio razzismo. Non ho apprezzato l'uscita di Veltroni che ha puntato il dito contro una nazione intera. E, in genere, non condivido queste statistiche che indicano i più pericolosi nei cittadini romeni. Le statistiche sono l'anticamera del razzismo: l'antisemitismo perbenista degli inizi del Novecento si basava sulle statistiche secondo le quali c'erano troppi ebrei a svolgere determinate attività e, poi, gli ebrei furono accomunati agli zingari nella categoria dei sottouomini. Anche ora la statistica, ammesso che sia fondata, aprirebbe la strada al pregiudizio ».
Ma lei è disposto a ragionare sulle 3 condizioni poste da Gianfranco Fini?
«A parte la questione di aumentare i fondi per le forze di polizia, che è giusta, sulle altre non c'è margine di interlocuzione: non ci può essere per l'accompagnamento coatto alla frontiera di chi si ritiene non abbia i mezzi di sostentamento per vivere in Italia. Così verrebbero aggravati i profili di un decreto che invece vanno esaminati con attenzione perché riguardano un quesito costituzionale rilevante: il Parlamento deve verificare se vengono rispettati i diritti che la Costituzione riconosce ai cittadini italiani e a quelli di altre nazionalità».
Lei davvero ritiene che il giro di vite nasconda profili di incostituzionalità?
«Fortunatamente i costituenti, venendo dall'esperienza tragica del nazifascismo, furono molto attenti: per questo è pericoloso il sentiero che porterebbe all'espulsione dal Paese solo perché non si hanno adeguati mezzi di sostentamento. E lo stesso ministro dell'Interno ha evidenziando i limiti di efficacia del meccanismo anche se poi vedo che Amato fa aperture alla destra».
Qual è l'anello debole del decreto?
«Esiste una sentenza della Consulta che ha dichiarato l'illegittimità della norma della Bossi-Fini che prevedeva l'espulsione degli extracomunitari senza adeguate garanzie giurisdizionali».
Il presidente della Romania ha bocciato con parole durissime il decreto.
«La conversione del decreto è una prerogativa del Parlamento italiano. E', invece, una prerogativa del presidente rumeno protestare se i suoi concittadini vengono etichettati tutti come delinquenti».
Non avete il timore di rimanere isolati nel fortino della sinistra buonista?
«Ho apprezzato molto l'editoriale di Sergio Romano e le cose che hanno scritto e detto Barbara Spinelli, Michele Ainis, Stefano Rodotà, Arturo Parisi e molti altri. Questo dei diritti non è un tema della sinistra buonista. Fortunatamente suscita reazioni positive anche in altri settori».

Corriere della Sera 5.11.07
Un saggio di Paul Veyne sull'influenza fra i due mondi. Il ruolo dei filosofi e quello dei politici
L'Impero bilingue
Così Roma ereditò la cultura politica della Grecia e diede vita all'originale «assolutismo repubblicano»
di Luciano Canfora


Uno straordinario frammento di papiro trovato oltre dieci anni fa a Tebtunis da uno studioso della Statale di Milano, Aristide Malnati, ma incredibilmente tuttora inedito, contiene un brano trattatistico di filosofia stoica corredato di note a margine. È con molta probabilità un esercizio scolastico, o comunque un testo destinato alla scuola. Non a caso fu trovato nell'area dell'antico ginnasio. Il testo principale parla degli elementi indifferenti (termine tipico del lessico stoico) che non hanno rilievo morale ma rilevanza pratica (ad esempio la ricchezza). Una nota marginale porta l'esempio di Socrate, il quale non avrebbe patito neanche della estrema povertà appunto perché insensibile all'alterno andamento degli «indifferenti».
Documenti del genere testimoniano in modo diretto la realtà cui appartennero. In particolare questo spezzone di papiro, per quel che dice e per il luogo dove fu rinvenuto, testimonia un fatto notevole: la penetrazione addirittura nella realtà e quotidianità scolastica, dell'insegnamento degli stoici e dei loro «paradossi». Ma era così paradossale il loro pensiero? Paul Veyne, in un libro importante, diffuso in Francia (editore Seuil) al principio dell'anno passato e ora tradotto per Rizzoli (L'impero greco-romano) non solo mette al centro della forma mentis dei ceti colti del mondo greco- romano, tra Augusto e Marco Aurelio, l'insegnamento stoico, ma soprattutto restituisce allo stoicismo la sua grande forza di attrazione: in quanto pensiero rivolto anch'esso (lo si dimentica spesso) alla ricerca della «felicità». La «grande promessa» della dottrina stoica, infatti, è che l'uomo sottraendosi al predominio dei fattori «indifferenti » raggiungerà la felicità e sarà ormai inattingibile dai dolori, e dunque sarà «un dio mortale». Non sfuggirà quanto, con buona pace di Plutarco e di altri polemisti, questa impostazione sia vicina a quella epicurea, che ugualmente spingendo a non desiderare il superfluo e vagheggiando una forma di «piacere» che in realtà è «assenza di dolore» ugualmente approda a una felicità fondata sulla rinuncia al superfluo nonché alla promessa: «sarai simile a un dio».
Veyne osserva — e questo potrebbe essere quasi un bilancio del suo grande affresco — che solo con la scoperta agostiniana della «volontà » in parte almeno impotente e della interiorità lacerata che è in ciascun soggetto, cominciò a declinare l'intellettualismo etico. Esso era stato caratteristico di tutte le scuole di pensiero postaristoteliche, così diffuse nel ceto dirigente dell'«impero bilingue», ma era già del socratismo che in effetti fu la remota matrice di quelle scuole.
«Impero bilingue» è definizione appropriata di quella straordinaria fusione tra culture che è stato il segno dominante dell'impero romano. Un unico strato dirigente capace di padroneggiare perfettamente le due culture: «da Augusto in poi — scrisse efficacemente Wilamowitz (1921) — la letteratura mondiale è bilingue». Si esprime cioè indifferentemente nelle due lingue divenute dominanti, il greco e il latino. Ma, nel quadro di tale «condominio» la posizione dei Greci, i quali con Alessandro avevano imposto il greco in un'area vastissima, era ormai, al tempo stesso, politicamente subalterna e culturalmente egemone.
I Greci — scrisse Simone Weil quando era molto giovane (1940) — erano «costretti, nella sventura, ad adulare i padroni». E Plutarco prudenzialmente suggeriva ai Greci di non dimenticare mai «gli stivali dei Romani» incombenti sulle loro spalle.
Ai Romani, i Greci fornivano anche i modelli politico-costituzionali e la relativa riflessione teorica. Era un terreno ricco di contraddizioni, se solo si pensa alla compresenza — nella realtà del mondo greco ed ellenistico — del modello «repubblicano » della polis, retta da organismi di carattere collettivo anche se non necessariamente democratici, e del modello monarchico diffuso dalla Macedonia nel vasto mondo grecizzato da Alessandro. I teorici si incaricavano di distinguere tra monarca e tiranno, mentre per definire il potere di Pericle un grande storico ateniese aveva coniato la nozione di «princeps».
Anche negli esordi di Roma, regnum era diventato, e tale restò stabilmente, un disvalore, anzi il disvalore assoluto. Per questo è grossolano errore, ma pervicace, considerare «monarchico» il tipo di potere che si affermò al vertice dell'impero a partire da Augusto. Da questo punto di vista, che è decisivo per capire la storia romana, il libro di Paul Veyne ha un effetto riparatore di tanti fraintendimenti storiografici a base emotiva. Il fulcro è nel capitolo iniziale «Che cos'era un imperatore romano?».
«L'imperatore romano — scrive Veyne giusto in apertura — esercitava una professione ad alto rischio: il trono non gli apparteneva di diritto, ma ne era mandatario per conto della collettività, che lo aveva incaricato di guidare la repubblica (…). Tale delega da parte della comunità non era che una fictio, una ideologia, ma proprio l'esistenza di tale fictio era sufficiente ad impedire al mandatario di avere la legittimità di un re». E cita il gran libro di Béranger sull'«aspetto ideologico del principato » (1953), secondo cui l'impero si autorappresentava come «una successione di grandi patrioti che si fanno carico degli affari pubblici», personalità che hanno ereditato o anche conquistato a viva forza «il diritto di proteggere i loro concittadini e l'impero». Perciò — osserva Veyne — «durante l'impero non si smetterà mai di pronunciare la parola repubblica e non in nome di una finzione ipocrita (…). Il regime imperiale manteneva la sua facciata repubblicana in nome di un compromesso ». Un compromesso che ha in Augusto il suo geniale creatore. Certo, commenta Veyne, «un compromesso zoppo, che sarebbe stato motivo di conflitto perpetuo, perché era una contraddizione che il principe fosse, al tempo stesso, onnipotente e investito da altri del proprio potere ».
Simbolo di questa straordinaria capacità romana di intrecciare sistemi e modelli ereditati dalla cultura politica greca, sono per l'appunto le Res Gestae di Augusto, il più celebre testo greco- latino (bilingue!) di tutta l'antichità, di cui John Scheid ha appena pubblicato nella Collection Budé una splendida edizione commentata. Un testo che Augusto fa leggere, post mortem, davanti al Senato, dal suo figlio adottivo ed erede designato, nel quale — al tempo stesso — minacciosamente rivendica la propria carriera eversiva e tuttavia orgogliosamente si ascrive il merito, riconosciutogli anche dagli avversari, di avere «restaurato la repubblica».
Paul Veyne, filologo e storico francese «L'impero grecoromano », Rizzoli, pp.780, euro 28