mercoledì 7 novembre 2007

l’Unità 7.11.07
Forse in primavera l’ok alla Ru-486


La richiesta di autorizzazione per la pillola abortiva Ru-486 sta per arrivare all’Aifa (l’agenzia italiana del farmaco); se non ci saranno intoppi a metà febbraio si completerà la prima fase della registrazione. Dopo qualche settimana per l’inserimento del prodotto nella fascia H (cioè in ospedale) la pillola potrebbe essere disponibile anche in Italia. L’azienda francese Exelgyn ha presentato la domanda per la commercializzazione in Italia e in altri paesi europei per la pillola abortiva Ru-486 all’agenzia europea per i farmaci Emea, a Londra.

l’Unità 7.11.07
Lettere dal buio firmate Maria Zambrano
di Maria Zambrano e Reyna Rivas


IN LIBRERIA un volume di lettere che la grande pensatrice spagnola, allieva di Ortega y Gasset, scambiò con l’amica scrittrice e cantante Reyna Rivas. Siamo negli anni Sessanta, a Roma: dal 1939 la filosofa è esule dalla Spagna di Franco

In dieci volumi il «cantiere aperto» d’una grande del Novecento
Quello che pubblichiamo in questa pagina è uno scambio epistolare tra Maria Zambrano e l’amica Reyna Rivas, un capitolo della corrispondenza che tra le due intercorse tra il 1960 e il 1989 e che Moretti & Vitali manda oggi in libreria col titolo Dalla mia notte oscura. Il carteggio con Reyna Rivas costituisce il primo volume dell’opera in dieci tomi contenente l’intero carteggio che, con la cura di Annarosa Buttarelli, la casa editrice intende pubblicare come una sorta di «cantiere aperto» del pensiero della filosofa spagnola. Maria Zambrano, nata nel 1904 a Vélez-Malaga in Andalusia, morta nel 1991 e lì sepolta, allieva di Ortega y Gasset, esule dalla Spagna nel ’39 dopo aver partecipato alla guerra civile (per un buon numero di anni soggiornò anche a Roma), fu tra le prime spagnole a intraprendere la carriera universitaria in un contesto in cui «una filosofa era quasi una donna barbuta, un’eresia, una curiosità da circo». Oggi è considerata una delle più grandi pensatrici del Novecento. Reyna Rivas, poetessa e autrice di racconti per bambini, è stata anche cantante lirica. Le due si incontrarono a Roma nel 1958. Nel 2003 Reyna Rivas ha donato il suo «tesoro epistolare» alla Residencia des Estudiantes di Madrid: lì Maria Zambrano è in compagnia di Garcia Lorca, Dalì, Buñuel.

Ci devono essere ville ancora meravigliose dove stabilire una comunità
Nel mondo antico gli «spirituali» si isolavano per vivere con persone pure

Carissima María: ti ho mandato due righe quando sono arrivata a Parigi. Non so se le hai ricevute.
Abbiamo passato dei momenti orribili per la morte del maestro Sakharoff, per noi è una perdita irreparabile; mia figlia ha passato dei giorni in cui era schiacciata dal peso di una malinconia tremenda. Quella creatura deve avere una sensibilità un po’ strana, María.
Inoltre ormai saprai com’è la situazione in Venezuela in questo periodo, non c’è alcun miglioramento: nessuna tregua, né niente viene concesso. Quando mia mamma mi ha detto: «Ho, abbiamo paura», ho capito molte cose. Tu sai che lei è una roccia che ha sopportato e sopporta tempeste e uragani sempre col sorriso…
In realtà non ti voglio parlare di cose tristi, né di orizzonti che si sono oscurati. Sento nel profondo dell’anima una grande speranza perché, forse, la tolleranza e la speranza sono gli ultimi pilastri della vera fede. La nostra vita continua: Miguel è andato in Germania dove studia e lavora. Mio figlio è già un uomo e ha capito molte cose della vita, María. Ma ogni addio, tu lo sai, è come uno strappo. Ognuno dovrebbe costruirsi le sue mura, il suo edificio di esseri cari e abitarlo nel tempo e nello spazio, vicino agli affetti, alle strette di mano e in compagnia. Tornare a Parigi è sempre un’esperienza nuova, un adattamento, perché gli anni non sono sufficienti per non sentirsi stranieri in questa terra. Non c’è niente di nuovo. Abbiamo fatto imbiancare i muri di questa casa perché non ne potevo più di tutto questo fumo che con gli anni si è depositato sugli specchi, sulle vecchie cornici e sul soffitto. Così, creando un po’ di bianco e di luci, si sente il giallo dell’autunno, perché il cielo non lo dà, anche se glielo chiediamo. Che grigio eterno! E che nuvole, così basse e inclementi! Sembra che il mondo abbia deciso di girare in un altro modo, o forse la terra si è solo stancata di fare la corte al sole: le catastrofi si succedono una dopo l’altra: il ciclone «Flora» ha fatto la sua parte vicino al mare dei Caraibi e adesso l’acqua (vicino a Venezia) sta facendo stragi, cimiteri d’acqua, senza la minima difficoltà. Gli elementi sono stati scossi come se volessero provare che c’è qualcosa oltre le equazioni, le provette e i logaritmi.
Muoio dalla voglia di scrivere. Scrivo ogni giorno, anche se la mia mano non segna le lavagne o i fogli. Ma ci sono sempre nomi che cadono su di me come quelle gocce d’acqua insistenti nelle giare venezuelane. Poi cresceranno piante rinate da un fondo che ancora non conosco ma che abita dentro di me. E sa di menta, melissa e mentastro.
Dovrei scriverti più spesso, lo so. Presto ci riuscirò, sfogandomi con le parole e trovando la soluzione agli innumerevoli significati e equivalenze che adesso mi tormentano.
Un abbraccio fraterno per te e Ara,
Reyna
Parigi, 10 ottobre 1963

Cara Reyna,
grazie per le tue lettere. Io non sono riuscita a scriverti per diversi motivi. Preoccupazioni di cui preferisco non parlarti, poiché il lavoro degli articoli è enorme, e inoltre, fino adesso non ho ricevuto nemmeno un benedetto centesimo. Questo mese devo scrivere otto articoli e un saggio; ne ho già scritti sei e mi manca ancora il resto e più avanti, senza un attimo di respiro, entrerò nel prossimo mese e così via. Spero che presto mi mandino qualcosa, dato che ho iniziato a lavorare ad agosto. Ma la burocrazia è lenta e complicata dappertutto, così sembra.
Dobbiamo assolutamente cambiare casa e stiamo cercando. Guarda che situazione. Perché continuare?
Sì, quando ho saputo della morte di Sakharoff mi è dispiaciuto molto per voi, per María Eugenia e anche per Clotilde che penso sia rimasta senza voglia di vivere. Immagino che duro colpo sarà per tua figlia, dal momento che non riesco nemmeno a immaginare come starei io se vessi perso un maestro di quel calibro. Quando è morto Ortega erano vent’anni che non lo vedevo, e ormai ero una persona matura e il mio pensiero aveva già una sua autonomia… beh, in realtà l’ha sempre avuta, ma nonostante tutto ho sentito un vuoto. Quando una persona incarna valori trascendenti e oltretutto ce ne ha trasmessi alcuni, quando, attraverso di lei, abbiamo bevuto direttamente dalla fonte, allora quando se ne va per sempre succede qualcosa di molto serio nell’anima e nel cuore. Per fortuna al mondo ci sono ancora creature come tua figlia, capaci di sentire queste cose e di amare le persone dalle quali hanno ricevuto questo genere di doni. Certamente senza amore non si riceverebbero, e nemmeno esisterebbero. Quindi è un buon segno il suo dolore.
Sì, ho saputo della situazione in Venezuela e sono molto preoccupata. Tutta l’America Latina è più o meno in rivolta, e avrete visto quello che è successo a Santo Domingo. Il Presidente Juan Boch è un caro amico, una persona politicamente molto moderata, onestissimo, disinteressato fino al punto da non aver accettato alcuna retribuzione per il suo incarico. Mi aveva scritto una lettera con amicizia fraterna e io sentivo in lui un appoggio che ancora non si era concretizzato in nulla, ma che avrebbe potuto concretizzarsi. Questa è stata dunque una sfortuna anche per noi.
Non mi dici niente di Fina. Suppongo che sarà a Parigi. Vorrei scriverle, immagino che riceverebbe la mia lettera a Gstaad. Non l’ho ancora fatto perché sono angosciata per moltissimi motivi. Dai Lobo abbiamo ricevuto delle cartoline dalla Spagna molto affettuose. Da Bergamín ho ricevuto una lettera dove mi diceva che non mi venga in mente di andare in Spagna, che la persecuzione lì è peggio che mai. Lui ha fatto sentire di nuovo la sua voce coraggiosamente e con nobiltà d’animo. Credo sia disposto a tutto.
Capisco quello che ti succede con lo scrivere. Lo stai facendo proprio così come dici tu e un giorno si depositerà in un istante sulla carta. Dimmi di Armando. Dimmi cosa fa, se e che cosa dipinge e che cosa ne pensa di tutto questo.
Dovremmo, ora più che mai, stare vicini agli amici dividendo lo stesso tetto o almeno avere la possibilità di parlare tra di noi. Vedere case molto belle che potrebbero dividersi in due, al centro o ai lati: ci devono essere casali, ville ancora meravigliose dove poter stabilire una piccola comunità. Ma con chi? Con chi dividere la vita? Nella crisi del mondo antico gli «spirituali», coloro che pensavano e seguivano fedelmente il trascendente, si ritiravano dal mondo per vivere in un luogo isolato della natura in compagnia delle cose e delle persone pure, e così non solo sono andati oltre se stessi, ma hanno anche dato seguito al filo d’oro di quella tradizione che hanno creato e che non si deve rompere. Oggi le persone sono come imprigionate da non si sa quali impedimenti in un mondo che cede e sprofonda popolato da ombre e fantasmi. Le energie ci vengono meno ogni giorno attraversando una strada, comprando una lampadina o un po’ di carta, mangiando qualcosa (poco e cattivo), e guadagnando disperatamente alcune centinaia di lire che spariscono inghiottite da un buco nero, come le nostre energie, come la nostra capacità di amare, di amicizia e di tenerezza, tutto ci viene sottratto da un inganno.
Scusami Reyna per tutta questa cantilena, ma non è forse così? Non bisognerebbe rinunciare a tutto per riuscire a essere e forse anche per riuscire ad avere tutto? Io me ne starei in silenzio, senza pubblicare niente per anni e anni, come se mi importasse solo di scrivere quello che devo scrivere. E persino, lasciarlo lì, nelle mani di qualcuno che lo faccia uscire quando io non ci sarò più.
Così ha fatto Kafka, Simone Weil e altri e come vedi non solo hanno scritto, ma le loro opere sono lette avidamente da molta gente.
Mi piacerebbe moltissimo che il mio nome non apparisse da nessuna parte; di scrivere, quello sì, e di esistere solo per i miei amici e per coloro che si presentano con il cuore aperto. E sono sicura, sicura cara amica Reyna, che sarebbe l’unica cosa davvero feconda. Siamo in autunno ed è un segno: cadono le foglie di un’epoca, cadono e i semi della nuova epoca, del nuovo mondo che non sarà né nuovo né mondo se non raccoglie quel filo d’oro della tradizione: quei semi, Reyna, devono rimanere nascosti, germogliando affinché un giorno si manifestino con tutta la loro forza, lucenti, senza timore. È il momento della germinazione e anche di fare il pane, affinché si cuocia lentamente. Non è il momento di offrirlo perché oggi la gente non mangia, non vuole né può mangiare quel pane.
Per lo meno per quattro anni (forse non vivrò molto di più) vorrei stare in silenzio e fare il mio pane, il nostro pane con l’aiuto del cielo. Ma vedo che non è possibile.
Un abbraccio da parte di Ara.
Un abbraccio dalla vostra María.
Ho scritto anche ai Lobito. Digli che le loro cartoline ci hanno commosso molto.
Di’ a Fina che le scriverò subito una lunga lettera e dalle un abbraccio da parte mia.
Roma, 16 ottobre 1963

Repubblica 7.11.07
Sicurezza, Amato apre al Prc "Nessuna espulsione di massa"
Il ministro dell'Interno: niente manifestazioni antiromene
di Liana Milella


ROMA - Doveva essere, ed è stato per venti minuti, un vertice - con Prodi, Amato, D´Alema, Ferrero, Letta, Micheli, i big della diplomazia della Farnesina - per preparare l´incontro di oggi tra Prodi e il premier romeno Tariceanu. Summit importante, per smussare definitivamente i contrasti sulle espulsioni. Ma è stato soprattutto, negli ultimi dieci minuti, un faccia a faccia tra il ministro dell´Interno Amato e quello della Solidarietà sociale Ferrero sul decreto duramente contestato, ancora ieri alla direzione di Rifondazione, dalla sinistra radicale. Basti pensare che, da Mosca, il segretario dei Comunisti italiani Diliberto ne parlava così: «È un provvedimento molto restrittivo delle libertà personali». E invece Giuliano Amato, con due aperture significative, ha sciolto l´opposizione di Paolo Ferrero e ha aperto la strada a un iter parlamentare che, a questo punto, può numericamente prescindere da un accordo con il centrodestra. Potrà essere il giudice monocratico, e non il solo giudice di pace, a dire l´ultima parola sulle richieste dei prefetti. E le motivazioni per rimandare nel suo paese un cittadino comunitario dovranno essere indicate più nel dettaglio rispetto a quanto non avvenga oggi. An reagisce subito negativamente e dal Senato il capogruppo Matteoli fa sapere che ciò «allontana la possibilità di un accordo». Ma il leader centrista Casini smussa l´ostilità della destra: «Il decreto è senz´altro un passo avanti. Unirsi? Sì, se serve». E ancora: «Il senso di responsabilità non ci è mai mancato. Ho sostenuto i soldati che abbiamo mandato in Afghanistan, mentre Forza Italia, An e Lega no». Un atteggiamento che potrebbe annunciare una spaccatura nell´opposizione.
Ferrero è soddisfatto («C´è una positiva volontà di discussione»), Amato anche. E quando il ministro scende nella sala stampa di palazzo Chigi tono e parole confermano che i timori per la tenuta della maggioranza sul decreto sono sfumati. Certo, la prospettiva di un voto bipartisan c´è sempre, visto che si discute della sicurezza del paese, ma Amato rinvia a quando la Cdl metterà le sue proposte «nero su bianco». Quanto all´ostinazione nel contrapporsi alle nuove norme il ministro cita la metafora della differenza tra gli esseri umani e le palle da biliardo: «I primi quando s´incontrano s´influenzano, le altre invece no. In questo caso abbiamo delle palle da biliardo travestite da esseri umani». Ma per adesso, sul tavolo, c´è la querelle con la Romania e con chi, nella coalizione, storce la bocca sul decreto. Il titolare del Viminale sistema l´una e l´altra cosa. Bacchetta duramente la Lega che, per oggi, si prepara a contestare i rumeni sotto palazzo Chigi all´insegna dello slogan «Padania libera dai rom, dagli zingari, dai romeni che delinquono». Dice: «Trovo inopportune manifestazioni o picchetti di protesta di partiti che oggi si riscoprono contro la Romania, ma che votarono a favore del suo ingresso nella Ue». Poi chiarisce che, a Bruxelles, si lavorerà per affrontare comunitariamente la questione dei rom e si darà il via a un monitoraggio degli spostamenti anomali da un paese all´altro.
Ma è sul decreto che Amato fa chiarezza davanti a Ferrero, con cui aveva già avuto più di un colloquio. Innanzitutto è falsa la notizia, pur data da molti giornali europei, che l´Italia voglia procedere a centinaia di espulsioni. Il ministro, rapporti alla mano, elenca quelle già avvenute, piccoli numeri, tre a Roma, quattro a Milano, due a Torino, e così via. Aggiunge: «Sono interventi mirati, che colpiscono persone della cui specifica pericolosità i prefetti hanno notizia». Ferrero pone le sue condizioni: convalida del magistrato, indicazioni puntuali dei casi in cui sia consentita l´espulsione immediata. Amato è disponibile: «È una proposta che non ho alcuna difficoltà ad accettare. Il decreto non prevede espulsioni per cause non gravi, ma non ho difficoltà a specificare ulteriormente». E ancora: «Si può prevedere l´intervento del giudice monocratico». È proprio quello che avevano chiesto anche gli ex diessini Brutti e Casson. Infine la copertura finanziaria contestata da Mantovano («Non ci sono i soldi per le espulsioni»). Amato taglia corto: «I romeni e i bulgari venivano già espulsi quando erano extracomunitari. I fondi sono gli stessi».

Repubblica 7.11.07
Ma Giordano avverte Veltroni "Niente inciuci a destra"
Ferrero: "Sindaco spregiudicato per coprire le sue responsabilità nelle periferie"
di Umberto Rosso


ROMA - Stop al decreto, per dire stop a Walter. Rifondazione mette Veltroni nel mirino, accusato di giocare di sponda sul decreto con il centrodestra, ma incassate in serata le aperture di Amato sulle modifiche richieste ora viaggia verso il sì al pacchetto sicurezza. Si comincia di buon mattino quando Franco Giordano, lontano da Roma nei giorni di fuoco di Tor di Quinto, convoca Russo Spena, Migliore e gli altri colonnelli, e dà la linea. Prima in segreteria, poi in direzione. «Non deve più accadere che ad imporre le scelte al governo sia il Pd». Il testo sulle espulsioni, annuncia perciò il segretario del Prc, va cambiato in quattro punti oppure non lo votiamo, e soprattutto niente inciuci con il centrodestra. Su Veltroni, una pioggia di accuse. «Ha giocato un ruolo spregiudicato - punta l´indice il ministro Ferrero - riuscendo a coprire le sue responsabilità rispetto alla tenuta delle periferie romane». Racconta come si è arrivati al varo del decreto, che pure ha avuto anche il suo sì. «Prima una pesante offensiva sulla sicurezza del sindaci ds. Poi il terribile omicidio della Reggiani. In Consiglio dei ministri avevo presentato emendamenti, ma mi hanno fatto capire che non era proprio aria... «. Dissociarsi e votare contro, a quel punto? «Avrebbe significato - spiega Ferrero - spalancare le porte al sostegno della destra». Ma, secondo i boatos che girano all´interno di Rifondazione, ancora un´altra arma sarebbe stata usata per piegare le resistenze del ministro: il rischio di una crisi di governo, in caso di no al decreto, che Prodi avrebbe fatto intendere allo stesso Bertinotti. Il tutto, sempre secondo queste ricostruzioni, sotto la spinta decisionista del segretario del Pd. Di certo, in ogni caso, dentro il partito è montata un´ondata di risentimento nei confronti del sindaco di Roma. «L´azione proditoria di Veltroni - accusa il capo dei deputati, Gennaro Migliore, fra i più duri - ha determinato un condizionamento esorbitante rispetto all´interesse generale dell´Unione. Dobbiamo sottrarre il governo da questo appalto del Pd». In questo clima duro e puro finisce sotto accusa anche chi, come il vicepresidente del Senato Milziade Caprili, aveva sollevato dubbi e giudicato giusto e necessario il decreto. La scomunica arriva da Giordano («sbaglia completamente») e dallo stato maggiore del partito, anche se c´è chi - come il presidente dell´Antimafia Francesco Forgione - dice che «il problema sicurezza esiste, non nascondiamoci». Ma è l´offensiva anti-Veltroni che tiene banco.
Spara a zero anche Alfonso Gianni, sottosegretario: «Il problema è questo Pd che nasce con una carica di xenofobia insospettabile rispetto alle più pessimistiche previsioni». Indicando una sorta di dead-line per il governo, «conviene starci fino a quando non si fa una legge elettorale diversa, perchè altrimenti è a rischio la sopravvivenza». Dietro l´attacco frontale al decreto, il filo di una trattativa per le modifiche. Condotta dal governo attraverso il sottosegretario agli Interni Marcella Lucidi che, alla fine di alcuni di incontri con gli sherpa del Prc, riferisce a Palazzo Chigi dei progressi fatti e della possibilità di una mediazione. Così in serata, Giuliano Amato apre ufficialmente alle richieste di Rifondazione. Sì al giudice ordinario (e non di pace) e niente espulsioni di massa e di "nullatenenti". Resta il nodo della "precisazioni" dei reati per le espulsioni ma la strada per l´intesa pare spianata. Ci sarà ancora da trattare ma, a fine giornata, il partito di Bertinotti assapora quel che sembra loro il primo frutto politico dell´offensiva anti-Walter: il governo frena sulla ricetta che il segretario del Pd aveva confezionato.

Repubblica 7.11.07
Ici-Chiesa, Ue insoddisfatta "Il governo chiarisca ancora"
di Roberto Petrini


ROMA - «Non abbiamo moltiplicato i pani e pesci». Tommaso Padoa-Schioppa ieri in Senato ha difeso ancora una volta la sua Finanziaria dagli attacchi dell´opposizione che denuncia la mancata copertura dell´abolizione dei ticket sulla diagnostica facendo leva sulla mancata «bollinatura» della Ragioneria generale dello Stato. Ha definito «favole strumentali» le voci di mancanza di copertura, ha definito il rapporto con il Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio, di «proficua e intensa interlocuzione», ha garantito il raggiungimento dell´obiettivo del 2,2 per cento del rapporto deficit-Pil nel prossimo anno e ha detto di contare sulla chiusura della procedura di deficit eccessivo cui Bruxelles ci ha sottoposto. Posta a registro la difesa è passato al contrattacco, tra le proteste dell´opposizione: «Abbiamo trovato un dissesto nei conti pubblici e stiamo faticosamente operando per correggerlo».
L´opposizione per il momento è sembrata incassare il colpo: Fini e Bonaiuti hanno polemizzato con il ministro, Tremonti ha catturato l´attenzione con la sua tesi in base alla quale l´esercizio provvisorio farebbe meglio ai conti pubblici dell´approvazione della Finanziaria. Tuttavia le prime votazioni, preliminari, sulla legge di bilancio (23 articoli) hanno dato ragione all´Unione che le ha superate senza problemi. In serata la Cdl ha annunciato che dimezzerà, portandoli a 300, gli emendamenti: oggi si entrerà nel vivo delle votazioni a partire dall´articolo 1.
E´ tuttavia all´interno della maggioranza che si rivolgono gli osservatori per scrutare umori e possibili bucce di banana. Aperte le questioni sollevate dai diniani (la stabilizzazione dei precari dello Stato) mentre si fa sentire il partito dei manager pubblici che farebbe pressioni per eliminare la norma Villone che pone il tetto dei 274 mila euro agli stipendi. Per trovare la «quadra» oggi è prevista una nuova riunione di maggioranza: Padoa-Schioppa, che ha apprezzato il testo uscito dalla Commissione, ha detto tuttavia di contare su un «iter ordinato» per approvare la Finanziaria «senza ricorrere al voto di fiducia».
Il quadro è infatti in movimento. Guarda alla sinistra radicale l´ordine del giorno approvato ieri dalla Commissione Bilancio del Senato che impegna il governo a reintrodurre nella delega all´esame della Camera l´aumento delle tasse sulle rendite finanziarie al 20 per cento. Segnali di fumo anche sui precari: la proposta del governo prevederebbe l´assunzione solo se i precari hanno superato una procedura concorsuale o una selezione. Una formula che ricalcherebbe l´emendamento del diniano Natale D´Amico e che potrebbe essere una base di accordo. «Non si possono assumere i collaboratori dei ministri entrati per chiamata diretta su basi politiche», ha osservato ieri D´Amico. «Nessun giudizio prima della proposta della maggioranza», ha tuttavia avvertito Lamberto Dini
Allarme anche sulla questione dei manager di Stato. Villone (Sd) promotore dell´emendamento che impone un tetto di stipendio agli alti ranghi dello Stato ieri ha minacciato di non votare la Finanziaria se la sua norma dovesse essere annacquata. «Eccezioni si possono fare per le ballerine, ma non per i manager», ha spiegato ieri Villone.
Torna ad aleggiare anche la questione delle esenzioni Ici alle strutture annesse ai luoghi di culto. Ieri Bruxelles ha inviato a Roma una richiesta di chiarimenti da espletare in un mese e la questione è oggetto di un emendamento della Costituente socialista insieme alla revisione dell´8 per mille.

Repubblica 7.11.07
"Lenin in Italia", è polemica su Diliberto
Boutade del leader del Pdci sulla salma. Giordano: ma così allearsi diventa difficile
di Leonardo Coen


Visita a Mosca per il novantesimo anniversario della rivoluzione
Reazioni del centrodestra, scambio di battute con il leghista Calderoli

MOSCA - Piazza Rossa, mausoleo di Lenin. Sessanta delegazioni dei partiti comunisti e progressisti del mondo fanno la fila per onorare il padre della Rivoluzione d´Ottobre. C´è anche quella del Partito dei Comunisti italiani, guidati dal segretario Oliviero Diliberto. È la vigilia del novantesimo anniversario, snobbato dalle autorità e dai moscoviti ma non da Ghennadi Zjuganov, irriducibile capo del Partito Comunista russo, che ha organizzato le celebrazioni come una volta, quando c´era l´Urss e il 7 novembre era la più importante e popolare delle feste nazionali. La visita al sarcofago di cristallo in cui si conserva la salma di Lenin era uno dei riti più sovietici: contemplava l´omaggio al grande morto ma anche al grandissimo vivo, il leader dell´Unione Sovietica.
La visita si è appena conclusa, Diliberto ha avuto il privilegio di posare un mazzo di garofani rossi davanti alla bara di Lenin. Qualcuno gli chiede: lo sa che Putin non vuole più la mummia di Lenin sotto il Cremlino? «Se i russi non la vogliono più, potremmo portarla a Roma», ribatte prontissimo Diliberto. È solo una battuta. Si trasforma in un caso politico. Una spirale infinita e quasi grottesca di reazioni a catena. Tra Roma e Mosca, è uno scambio incessante di interventi, più da cabaret che da Palazzo: «D´accordo, possiamo accettare la proposta di Diliberto», replica per esempio Maurizio Gasparri, «a patto che i russi si prendano in cambio Diliberto». O Luca Volonté, capogruppo di Udc alla Camera: «Se Diliberto vuole portare a casa sua o nella sede del suo partito la mummia di Lenin, faccia pure. L´Italia non può certo permettersi di diventare un ricettacolo di emuli dei genocidi comunisti d´Europa. Forse quella di Diliberto è stata solo una battuta, magari dovuta al freddo polare e corroborata con qualche bicchierino di vodka locale...».
La dichiarazione di Volonté plana - via Internet - sul Vaio del portavoce di Diliberto. Complice Internet, il segretario del Pdci ribatte: «Quanto ai vizi, i bicchieri di vodka sono assai più innocenti di quelli che si consumano all´hotel Flora pagando donne e droga». Plateale riferimento allo scandalo di Cosimo Mele, il deputato Udc che aveva ingaggiato due prostitute per un droga party. D´altra parte, la destra non va tanto per il sottile: «Aldilà delle battute», aveva infatti detto Maurizio Gasparri, «è davvero triste avere personaggi così squalificanti per il nostro Paese che girano per il mondo. Forse Diliberto farebbe bene a trasferirsi in Cina o in Birmania o in altri posti dove il comunismo e le dittature dettano legge». Il bello è che intanto - in Italia - c´era chi discuteva su dove piazzare l´eventuale mummia. In Senato? Alla sede del Pdci? L´immancabile Roberto Calderoli, vicepresidente leghista al Senato, non poteva assistere e tacere: «Visto lo sfratto coatto della mummia di Lenin e le preoccupazioni dei comunisti nostrani, che hanno problemi su dove collocarla, mi offro volontario: sono pronto a metterla a casa mia, dove sarà sotto stretta sorveglianza dei lupi, e dove, forse, sarà utile per i bisogni dei cani...». Calderoli si beccava l´arguta risposta di Severino Galante: «Tra lupi e cani Calderoli sta ovviamente bene e fa la sua figura: come sempre, da bestia».
Stufo, forse, di questo assurdo teatrino, Diliberto chiosava in fin di serata: «E´ come il fantasma che si aggira per l´Europa: la salma di Lenin fa ancora paura». Sarà un caso, ma alla cerimonia di chiusura di "Solidnet", il lungo meeting tra Minsk e Mosca per le celebrazioni del Novantesimo, sul palcoscenico della Sala delle Colonne, mitico luogo dei forum sovietici, dopo inni struggenti, canzoni partigiane, tonanti cori soviet, melassa cinese e Guantanamero cubane, irrompeva proprio Lenin. In persona. O meglio, interpretato da un attore-sosia che recitava una scena di "Kremljovskije Kurantj": «La mummia si è materializzata», gli è scappato di bocca a Diliberto.

Repubblica 7.11.07
Goethe
La bella Angelica amore segreto del grande poeta
di Paola Sorge


L´intesa tra i due era perfetta: lei lavorava e lui le leggeva brani delle sue opere
Tra i due c´era amicizia, ma quasi certamente c´era stato molto di più come prova uno studio di Ursula Naumann uscito ora in Germania
La Kauffmann, osannata pittrice tedesca, eternò Wolfgang durante il suo soggiorno romano in un ritratto che non gli piacque molto

Il ritratto che gli fece la Kauffmann nel 1787, durante il suo soggiorno romano, non gli piacque granché: il dipinto a olio eseguito con amore, addirittura con devozione, dalla bella e osannata pittrice tedesca rimanda infatti l´immagine di un giovane timido, dolce, dall´aria in verità alquanto mesta, insomma un giovane Werther. Un ritratto troppo semplice, troppo «privato» per il sommo poeta che preferiva di gran lunga il Goethe nella campagna romana di Tischbein in cui egli come un semidio domina il paesaggio avvolto in un bianco mantello, il capo coperto da uno strepitoso cappello a larghe tese. O come nel busto marmoreo di Alexander Trippel che lo raffigura come un novello Apollo. Ma questa è forse l´unica ombra nel rapporto idilliaco fatto di indubitabili affinità elettive che legò la pittrice e il poeta.
Anche Herder, che si recò a Roma poco dopo il ritorno di Goethe a Weimar, frequentò assai assiduamente l´atelier della pittrice, anche lui ne fu totalmente conquistato arrivando a darle un bacio in fronte. Ma lei, come l´Arianna raffigurata in un suo suggestivo dipinto, non pensava che al suo eroe che l´aveva abbandonata per sempre.
Fu vero amore? Sino ad ora biografi e studiosi di Goethe hanno dato responso negativo, fedeli alla versione ufficiale fornita dal poeta secondo cui Angelica era l´unica vera donna rispettabile, la donna angelo; vera amica dunque, non amante. Ma forse era per lui qualcosa di più, lascia intendere chiaramente l´autrice del libro uscito di recente in Germania (Ursula Naumann Felicità sognata - Angelica Kauffmann e Goethe, Insel, pagg. 320) in occasione delle celebrazioni per i 200 anni dalla morte della pittrice (a Roma la Kauffmann è stata ricordata nei giorni scorsi al Forum Austriaco di Cultura in una performance multimediale di Daniele Valmaggi).
Il Viaggio in Italia non è poi tanto affidabile per quel che riguarda la vita privata di Goethe avendo il suo autore molto depurato e taciuto, osserva l´autrice del volume che fa una cronaca minuziosa delle giornate trascorse insieme dai due artisti e pubblica le 12 lettere inviate da «Miss Angel» al poeta dopo la sua partenza da Roma. In realtà sono soprattutto queste lettere a instillare nel lettore un ragionevole dubbio. Perché escludere l´esistenza di una segreta liaison dangereuse (segreta perchè lei era sposata) tra due spiriti affini? In fondo era naturale per una donna così sfortunata in amore - suo marito, Antonio Zucchi, era un artista mediocre molto più vecchio di lei e da giovane era stata raggirata da un finto conte - cercare conforto nelle braccia del grande poeta. Goethe dal canto suo non aveva scrupoli di sorta, approdato a Roma con il nome di Philipp Moeller pittore, aveva dato libero sfogo alla sua natura a dir poco esplosiva, si mescolava alla gente comune, partecipava alle feste popolari, frequentava le osterie, andava a donne. Il semidio tedesco adorava Priapo, cominciò a collezionare oggetti d´arte con raffigurazioni oscene e ad accogliere nel suo vocabolario parolacce nostrane come quella che indica il membro maschile; in un appunto egli inneggia allegramente al dio Amore che «fa volare i c. (in italiano nel testo) incontro alla fanciulla che passeggia».
Sin dal primo incontro, avvenuto in un piovoso pomeriggio di novembre del 1786 nell´atelier della Kauffmann in via Sistina (che allora si chiamava Strada Felice), Goethe rimase incantato dalla avvenente artista tedesca. Angelica considerò la sua visita un dono del cielo. Tutto fa pensare che se ne innamorò perdutamente. L´intesa tra i due era perfetta: mentre lei lavorava lui ammirava la sua tecnica, le confidava le sue impressioni, le leggeva brani delle sue opere tra cui l´Ifigenia che poi la pittrice arricchì di illustrazioni. Per i critici lei faceva poesia con il pennello, permeata com´era di letteratura e di miti classici. A 45 anni era ancora una bellezza.
Straordinariamente dotata e straordinariamente modesta, buona e amabile oltre ogni dire, Angelica faceva il ritratto a re e principi d´Europa, era di moda, faceva moda; le ragazze si pettinavano come lei, alla maniera delle donne dell´antica Grecia. Una visita a casa della Kauffmann era inclusa nel programma dei tedeschi «bene» che venivano a Roma a vedere il Papa. Goethe, già universalmente celebre per il suo Werther, rifuggiva gli impegni mondani e i circoli tedeschi a Roma, unica eccezione era lei, la bella artista che lo invitava ogni domenica a pranzo a casa sua, che lo accompagnava a visitare le gallerie d´arte, che gli apriva il suo cuore. Se Goethe s´invaghiva di qualche bella fanciulla, ad esempio della giovane milanese Maddalena Riggi, Angelica, che aveva otto anni più di lui, si mostrava più che comprensiva; del resto non aveva alternative.
Di certo c´è il dolore che entrambi provarono al momento del distacco, entrambi sapevano che non si sarebbero mai più rivisti. Quanto pesasse a Goethe la lontananza da Angelica lo testimonia Schiller che conobbe il poeta a Weimar nel settembre del 1788 e riferì della malinconia unita a nostalgia provata dal poeta nel parlare della pittrice. I due artisti rimasero in contatto epistolare fino alla fine del 1789, poi lei distrusse le lettere del suo eroe.

La lettera inedita
Io l'adoro, non mi dimentichi

Roma, il 5 agosto 1788, martedì
Lei dirà: ancora una volta dei sogni, ma io so che Lei mi perdonerà. La notte scorsa mi sono sognata che Lei era tornato, La vedevo arrivare da lontano e Le sono corsa incontro sino alla porta di casa, ho afferrato entrambe le sue mani e le ho premute sul mio cuore così forte che mi sono svegliata; me la son presa con me stessa per aver sentito la mia felicità sognata con troppa violenza, tanto da abbreviarmi così il piacere. Ma sono contenta di questa giornata perché oggi ho ricevuto la Sua cara lettera del 19 luglio. Il fatto che Lei nonostante le tante distrazioni, gli affari e gli amici, ritorni in spirito a Roma, non mi meraviglia; che Lei si ricordi di me è un segno della Sua bontà per la quale Le sono infinitamente grata. Mi rallegra il fatto che Lei stia bene e Le auguro una ininterrotta serie di giorni piacevoli, Io vivo la vita con la speranza di una migliore. Caro amico, quando ci vedremo di nuovo? Vivo sempre tra timore e speranza e purtroppo è più timore che speranza, ma debbo tacere, a che serve lamentarmi... Lei vuol sapere a cosa sto lavorando. Ho finito le seguenti opere: il ritratto di Lady Harvey, il ritratto del cardinale Rezzonico per il senatore e oggi ho terminato il Virgilio. Sono molto contenta della preparazione in chiaroscuro, il pezzo ha molta forza e i colori mi son riusciti molto diafani...Ho lavorato abbastanza e cerco di fare del mio meglio - per far questo mi devo immaginare che è domenica e che Lei viene nel mio studio - ah, i bei tempi!...
La lettera del suo giovane amico mi ha molto rallegrato, mi fa piacere anche sapere che il signor Keiser tornerà e che conoscerò il signor Herder. Ma Lei non verrà, questo è il mio eterno dolore e la mia angoscia. Stia bene e non si dimentichi di me.
La onoro e La adoro con tutto il cuore
Angelica

Repubblica 7.11.07
L’anima e la Bibbia
Il viaggio della conoscenza
di Pietro Citati


Un volume della Fondazione Valla raccoglie i testi che indagano sui tanti modi per leggere e intendere Vecchio e Nuovo Testamento Immaginati come un lungo percorso verso la verità
Vedere Dio significa non saziarsi mai di desiderare di vedere ancora
Franz Kafka immaginava la strada per conoscere l´Essere come un labirinto

I lettori moderni sono abituati a leggere moltissimi libri: forse troppi. Ogni lettura è un´esperienza diversa: disegna una strada che non ha a che fare con le altre strade; e noi le percorriamo tutte, sino in fondo, imbevendoci di ogni colore, ombra e sfumatura. Molto di rado, queste letture entrano in rapporto tra loro, formando un vasto tappeto, che forma la nostra mente.
Oggi abbiamo quasi dimenticato cosa significasse leggere un solo Libro, come i Padri della Chiesa, nei primi secoli del Cristianesimo. Certo, Clemente di Alessandria o Origene o Gregorio di Nissa o Agostino avevano una buona cultura classica: conoscevano Platone o Plotino; ma queste letture erano soprattutto strumenti per comprendere meglio il Libro dei Libri, l´Antico e il Nuovo Testamento. Vivevano in questo libro: immersi, intrisi, posseduti dall´inesauribile testo. Vi trovavano tutto: il passato, il presente, il futuro: l´universo, la propria esistenza e la propria morte, il peccato, la grazia, gli angeli, il mondo celeste; e dovunque, nascosti in ogni versetto, Dio e specialmente il Cristo, che aveva trasformato la loro vita.
Conoscevano la Bibbia a memoria: una memoria di cui abbiamo dimenticato l´intensità e l´estensione. Non ricordavano passi separati: commentavano la Genesi con un luogo dell´Apocalisse, l´Esodo col Cantico dei Cantici, i Salmi con le lettere di san Paolo, e solo così pensavano di giungere alla vera comprensione del testo. Tutti i passi della Bibbia risuonavano ed echeggiavano nella loro mente, sino a produrre l´effetto di una immensa sinfonia e permettendo loro di abitare il mondo senza pericolo.
Sebbene Origene credesse nella verità storica dell´Antico e del Nuovo testamento, pensava che la parola consegnata da Dio fosse difficile e inesauribile: molto più oscura dei semplici libri umani. Non bastava conoscere la storia del viaggio degli Ebrei fino alla Terra Promessa. Dio era un autore velato: ogni evento, ogni nome geografico, ogni nome di persona celava un mistero.
Allora era necessario un interprete spirituale (o simbolico), che portasse alla luce tutti gli enigmi nascosti nel testo. Era un´impresa tremenda. Ci voleva memoria, intelligenza, sottigliezza: a volte, bisognava seguire una doppia o molteplice interpretazione. Sopratutto era necessaria l´ispirazione continua di Dio, senza la quale non si poteva comprendere la Bibbia. Ogni errore era un rischio, che poteva compromettere la fede.
L´interprete sapeva che alcuni misteri divini restavano celati non solo agli uomini, ma anche agli angeli e a tutte le nature create. Così l´interpretazione era votata ad un grandioso fallimento: portava i cristiani verso la luce di dio, ma non ne rivelava gli abissi e i riflessi.
* * *
Un volume appena pubblicato dalla Fondazione Valle rivela in modo eccellente quest´arte di leggere la Bibbia. Il titolo è Il viaggio dell´anima (Mondadori, pagg. LIV-560, euro 27): il libro contiene due Omelie sui Numeri di Origene, il maggiore teologo ed esegeta alessandrino, vissuto tra il secondo e il terzo secolo: la Lettera 78 di Girolamo: una parte della Vita di Mosé di Gregorio di Nissa: Le quarantadue tappe dei figli di Israele dello Pseudo-Ambrogio: Interpretazione del Salmo 41 di Agostino: Spiegazione dei Numeri 33 di Bruno d´Asti; due Omelie di Bernardo di Clairvaux e Sul libro dei Numeri 19 di Pier Damiani. Manlio Simonetti ha curato il testo, le traduzioni, le introduzioni parziali, il commento: Piero Boitani ha scritto l´introduzione generale; e Giuseppe Bonfrate un saggio dedicato a Origene: viaggio di parole. Origene conosceva certamente il più famoso viaggio dell´anima: quello immaginato da Platone nel Fedro. Mi permetto di ricordarlo. Il corteo delle anime non ancora incarnate muove verso la Pianura della Verità, che si estende al di fuori del nostro mondo, sopra la volta del cielo. Lassù stanno le Idee, immobili sopra il loro piedestallo sacro: semplici, pure, sempre uguali a sé stesse. Mentre le anime girano in cerchio, sottoposte alla legge del movimento, "si sporgono" all´infuori della volta del cielo. Durante un impercettibile istante, escono dallo spazio e dal tempo, e vengono irradiate da una luce pura e splendida. Un lampo luminosissimo e velocissimo accende le anime: esso non si ripeterà mai; ma in quel lampo atemporale di beatitudine le anime contemplano, toccano con gli sguardi il divino. Questa è la differenza con i testi di Origene: nel viaggio che conduce alla Terra Promessa, le anime cristiane non avranno la sublime visione atemporale. La conosceranno solo lasciando questo mondo e vedendo Dio, dice san Paolo, non confusamente e in uno specchio, ma faccia a faccia, come Egli è.
L´esperienza di Origene, e di quasi tutta la tradizione cristiana, pone il viaggio dell´anima sotto il segno di una infinita mobilità. Durante il viaggio, i cristiani non abitano in case: la casa è costruita, conclusa, definita, statica. Abitano in tende: la tenda - questo luogo provvisorio, che oggi si monta domani si smonta - è il simbolo della contemplazione, e di quell´inesauribile, ansioso vagabondaggio, che ci consente la conoscenza religiosa. La religione è una serie successiva di tende: ogni acquisto di conoscenza diventa l´avvio per la conoscenza di qualcosa che sta più avanti, e così via, senza fine. Il viaggio non ha conclusione. «Coloro che si dedicano alla sapienza e alla conoscenza - dice Origene - non arrivano mai alla fine - quale infatti è il termine della sapienza di Dio? - , e quanto più uno ci si sarà dedicato, tante più profonde verità troverà; e quanto più uno avrà indagato, tanto più ineffabili e incomprensibili comprenderà che sono quelle verità». Con la sua mente lucida e sobria, Origene non si illude e non ci illude: il viaggio è lunghissimo, lentissimo e doloroso; comprende amarezze, tentazioni, angosce, tribolazioni, lacrime di dolore e di gioia.
Ma di una cosa Origene è certo: se le tappe sono dolorose, Cristo è la porta di ognuna di queste tappe. Egli aveva detto: «Io sono la porta: nessuno viene al Padre se non attraverso me».
Malgrado le differenze nei particolari, Origene disegna il viaggio dell´anima come sarà più tardi disegnato dagli altri Padri. Vorrei ricordare soprattutto i testi bellissimi di Gregorio di Nissa e di Agostino. Nella Vita di Mosé, Gregorio di Nissa subisce l´influenza di Plotino, il quale aveva sostenuto che Dio è infinito; e quella di Platone, che nel Fedro aveva rappresentato il viaggio come un volo. Così il percorso diventa ancor più inesauribile. «L´anima che si scioglie nelle affezioni terrene diventa leggera e veloce per le spinte verso l´alto e si invola. Vedere Dio significa non saziarsi mai di desiderare ed è inevitabile che chi vede, per il fatto stesso di poter vedere, sia sempre arso dal desiderio di vedere di più». Come in Origene, il volo non ha conclusione: l´anima non vedrà mai Dio «faccia a faccia»; ma è lieta perché il volo è gioia.
Agostino commenta il Salmo 41: «Come la cerva anela alla fonte dell´acqua, così l´anima mia desidera te, o Dio. L´anima mia ha avuto sete del Dio vivente; quando verrò e comparirò davanti al volto di Dio?». Anche qui ci sono delle tappe. Dapprima l´anima contempla l´universo creato: ma la sua sete non si sazia. La creazione non basta al suo desiderio. Nella seconda tappa, l´anima vede sé stessa per mezzo si sé stessa, scendendo nelle proprie profondità: eppure nemmeno qui trova Dio, perché l´anima progredisce e viene meno, sa e non sa, ricorda e dimentica, ora vuole una cosa ora un´altra, mentre Dio è una verità immutabile, una sostanza alla quale nulla fa difetto. Nella terza ed ultima tappa, l´anima cerca Dio nella tenda - la chiesa - , dove si raccolgono i fedeli di Cristo. Sente qualcosa di dolce, «non so quale diletto interno e nascosto», come se risuonasse dolcemente uno strumento musicale. Questo suono ricorda la vera casa di Dio, dove il coro degli angeli è festa eterna, il volto di Dio è gioia senza difetto, e non esiste inizio né fine. Quando le anime entrano nella chiesa terrena, dalla eterna festa celeste «risuona un non so che di armonioso e dolce alle orecchie del cuore». E´ un´eco, perché sulla terra non possiamo conoscere altro: ma questa eco soavissima riempie il cuore di felicità.
* * *
Dopo quello di Bernardo di Clairvaux vennero compiuti innumerevoli viaggi dell´anima: quasi tutta la letteratura occidentale è un cosciente viaggio dell´anima, fino a Proust e Musil. Piero Boitani ne ricorda due moderni: quello di Thomas Mann in Giuseppe e i suoi fratelli e quello di Eliot nei Quartetti. Vorrei ricordarne un altro: il più disperato e felice, che Kafka compose nel 1918 a Zürau, rifugiato nella casa della sorella, dopo aver avuto il primo sbocco di sangue, che gli annunciava la morte.
Come raggiungere Dio, o l´Uno, o l´Essere o, come Kafka diceva, l´Indistruttibile? Quale è la strada che vi conduce? In apparenza, sembra che non vi sia nessuna strada. Poi sappiamo che la vera via passa per una corda, tesa a livello del suolo, «che sembra fatta più per inciampare che per essere percorsa». O apprendiamo che la strada è un labirinto attraverso il deserto, oppure un ripidissimo pendio scosceso. Inutile rivolgere domande a qualcuno: perché la risposta, anche se la ricevessimo, sarebbe inesorabilmente disperata. Malgrado questi inciampi, labirinti ed arresti, la vera via esiste, perfetta ed intangibile, e non possiamo «sottrarvi né aggiungervi nulla». È lassù, e ci attende, e noi possiamo percorrerla; o piuttosto esservi portati in volo, come diceva Gregorio di Nissa. La vera via è la porta dell´Eden, che esiste ancora oggi, ed è fatto per noi. Esso ci aspetta: è aperto: nessuna fiammeggiante spada angelica lo difende; anzi - notizia inesplicabile - noi vi abitiamo adesso, in questo preciso momento, sebbene in apparenza abitiamo la terra. Lassù cresce l´albero della vita, che ci rivela un bene che sta prima della distinzione tra bene e male: unità armoniosa tra gli opposti, abolizione dei contrari, luce senza macchia d´ombra.
Dopo il 1918, Kafka non raccontò più questo mito: non poteva riscriverlo, perché era troppo lontano dalla nostra e dalla sua vita. Eppure non lo dimenticò mai. Vi pensò a Berlino, nell´autunno 1923, tra il profumo degli antichi giardini lussureggianti: o immaginando una letteratura completamente nuova, di cui non scrisse (probabilmente) nemmeno una sillaba; e forse persino negli ultimi giorni di vita, in sanatorio, quando non riusciva più né a bere né a mangiare né a parlare, ma scriveva al padre, ricordandogli la birra che avevano bevuto insieme, a Praga, quando lui era ancora un bambino innocente, che gli spettri non avevano avvolto nella loro ombra.

Corriere della Sera 7.11.07
Parlato: noi autolesionisti, meglio che torni Silvio
«La paura del voto è cattiva consigliera, la sinistra è più a suo agio all'opposizione»
di Andrea Garibaldi


ROMA — Valentino Parlato, fondatore e firma prestigiosa del manifesto, ieriha scritto sul giornale un articolo di fondo intitolato «Il decreto ammazza poveri». Finiva così: «È preferibile un ritorno di Berlusconi a una berlusconizzazione di noi stessi ».
Parlato, davvero per lei è meglio che torni Berlusconi?
«Ma sì! Se per resistere a Berlusconi dobbiamo fare tutto ciò che farebbero lui e Fini, meglio che riprenda il governo. Meglio restare diversi».
Lei scrive che il «decreto antiromeni» è «fascismo di sostanza».
«Mica i tedeschi hanno fatto un decreto anti-italiani dopo la strage mafiosa di Duisburg, la scorsa estate. Né gli americani cacciavano siciliani e italiani indiscriminatamente. Semplicemente, arrestavano chi commetteva reati, come Al Capone. E poi, tutto questo potere ai prefetti! Quando io ero giovane, lo slogan — dei comunisti, ma pure dei liberali — era "abolire i prefetti"!».
Veltroni si è battuto per il decreto.
«Veltroni si è mosso per un eccesso difensivo, per la paura che la destra gli saltasse addosso. Ma il risultato è un'operazione autolesionista, ha fatto la parte della destra. I giornali, non a caso, scrivono che Fini e Veltroni sono i "politici nuovi"».
Insomma, meglio votare.
«Meglio votare che vivere nella paura di andare a votare: paura, cattiva consigliera, come dice il proverbio. Tanti lettori mi scrivono: Valentino, che cavolo dici? E io rispondo: non si può stare sotto l'eterno ricatto della crisi».
Niente governi tecnici di transizione.
«Per carità. Un governo tecnico dovrebbe essere bipartisan. Per il Pd e per la sinistra alternativa governare assieme alla destra sarebbe lacerante, dannosissimo».
Votare con questa legge elettorale?
«Si potrebbe evitare: segnalo che il professor Guarino sul manifesto ha sostenuto che è anticostituzionale».
Ma per chi la pensa come lei non sarebbe dannosissimo il ritorno di Berlusconi al comando?
«Sarebbe pessimo, una vera sconfitta, un arretramento. Però, ripeto, la paura non deve farci arretrare senza limiti. Consideriamo che Berlusconi non è un alieno, fa parte dell'Italia, degli italiani: dobbiamo combattere il berlusconismo dentro di noi...».
C'è il sospetto che la sinistra si trovi meglio all'opposizione.
«Bisogna ammetterlo: la sinistra alternativa è più a suo agio all'opposizione.
Si deve, d'altronde, ricordare la storia: io ero nel vecchio Pci e sono state fatte più riforme col Pci all'opposizione che non quando tutti i riformisti sono andati al governo. Con un'opposizione senza grida, costruttiva, si sono ottenute la riforma agraria, la riforma della scuola... Tuttavia non è detto che si perdano le elezioni».
Non è detto?
«Il fascino di Berlusconi mi pare spento, oscurato. Non potrà rifare il contratto con gli italiani: grande idea ma ormai bruciata! Poi, gli imprenditori italiani non lo gradiscono più. Montezemolo, mi pare, piuttosto vorrebbe addomesticare questo governo, oppure vorrebbe Veltroni senza la sinistra alternativa. Quanto a Veltroni, dovrebbe essere il più favorevole alle elezioni... ».
Perché?
«Perché il Pd dovrebbe sentirsi più sicuro ed euforico degli altri, visto il successo incassato con le primarie ».
E la sinistra alternativa farà l'unificazione?
«Dovrebbe, ma non vedo passi avanti. La fine delle ideologie ha portato la fine degli ideali e ora l'ideale può essere diventare ministro o sottosegretario.
Anche a sinistra».
Quando il governo Prodi nacque, lei che pensò?
«Che era debole. Che la nomina di Padoa- Schioppa all'Economia era poco rassicurante. Che sul piano sociale sarebbe stato carente».
E cosa l'ha delusa di più?
«Un incedere molle. Mi ha deluso la parte che riguarda il lavoro. E i diritti civili. Il rapporto con la Chiesa. Il decreto antiromeni... ».
Lei che farebbe sul tema immigrazione?
«Un accordo con la Romania per decidere il numero di ingressi e poi a chi entra darei casa e lavoro. Meno soldi per rifare il
look alle strade come via Tomacelli, dove ha sede la redazione del manifesto, e più fondi per aiutare i romeni».
È vero che il manifesto va meglio quando sta all'opposizione?
«Certo. Il massimo lo toccammo durante il primo governo Berlusconi: 45 mila copie vendute. Ora invece, con Prodi, da 28 mila siamo scesi a 26 mila».

Corriere della Sera 7.11.07
Ricolfi, raccontare la storia senza date e ideologia
Sulla scia di Braudel e Furet un'analisi politica che non dipende dagli schieramenti
di Sergio Romano


La parola usata dagli storici per delimitare la materia del loro lavoro è «periodizzazione ». Apparentemente è un termine tecnico, neutrale, utile per segnalare al lettore la fase storica su cui l'autore ha deciso di concentrare la propria attenzione. Ma dietro la sua apparente neutralità la periodizzazione nasconde convinzioni aprioristiche o, addirittura, fedi ideologiche. Chi sceglie di far decorrere la storia dal 1789, dal 1848 o dal 1917 lascia intendere implicitamente che le rivoluzioni sono svolte «epocali» da cui cominciano fasi nuove, profondamente diverse dal passato. Usata con questi criteri, la periodizzazione dà per scontato e risaputo sin dalla prima pagina ciò che dovrebbe essere invece documentato e dimostrato. Gli storici che non accettano le vecchie cesure sono spesso quelli che danno prova di coraggio e spregiudicatezza. Fernand Braudel raccontò la storia del Mediterraneo e del mondo come un flusso di eventi che si susseguono su tempi lunghi senza dipendere, se non marginalmente, da una battaglia o da un trattato. François Furet retrocesse il 1789 e la presa della Bastiglia ad eventi di minore importanza, dimostrando che la Francia «una e indivisibile », creata dai giacobini, era soltanto la tappa conclusiva di un processo accentratore avviato dai Borbone e gestito con particolare efficacia da Richelieu, Mazarino, Luigi XIV.
Luca Ricolfi non è uno storico. È sociologo, insegna Analisi dei dati all'Università di Torino e ha più familiarità con i bilanci di quanta ne abbia con le grandi ere della storia mondiale. Ma anche Ricolfi deve periodizzare, vale a dire scegliere l'arco di tempo all'interno del quale fare analisi e confronti. Rifiuta di farlo, tuttavia, secondo gli schemi temporali di cui si servono i suoi colleghi sociologi ed economisti quando analizzano la situazione economica e finanziaria dell'Italia degli ultimi quindici anni, da Tangentopoli al ritorno di Prodi nella politica nazionale.
Questi dividono il tempo, generalmente, in ministeri e governi: Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D'Alema e, come nel gioco dell'oca, dove si torna spesso alla casella precedente, Amato, Berlusconi, Prodi. Ricolfi, invece, rompe le convenzioni e spariglia il gioco, dimostrando che i dati dell'economia e della finanza rispondono, in buona parte, ad altri fattori, diversi da quelli dell'alternanza fra destra e sinistra. In un breve libro, pubblicato qualche anno fa presso il Mulino, dimostrò che Giulio Tremonti non sbagliava quando sosteneva che il governo Berlusconi aveva ereditato un «buco» dal governo precedente. Ora, con un libro apparso presso Longanesi in cui ha raccolto gli articoli pubblicati dalla Stampa ( L'arte del non governo), Ricolfi propone di dividere gli ultimi quindici anni con criteri diversi.
Esiste una prima fase (1992-98) in cui tutti hanno dato prova di spirito riformatore e affrontato, con qualche buon risultato, problemi cruciali come quelli delle pensioni o dell'euro. Esiste poi una seconda fase, quella del ministero D'Alema, in cui il governo realizza un certo numero di privatizzazioni e accenna a liberalizzare il commercio, ma rinuncia a risanare la finanza pubblica. Esiste una terza fase, dal 2000 al 2005 (il governo Amato e i primi quattro anni del governo Berlusconi), in cui i conti pubblici peggiorano, ma vi sono, secondo Ricolfi, provvedimenti riformatori di una certa importanza, anche se talora discutibili: il nuovo Titolo V della Costituzione, la legge Maroni sulle pensioni, la legge Biagi, quella sul risparmio, la riforma universitaria. E vi è infine la fase 2005-07 (dal ritorno di Tremonti a oggi) in cui i conti ricominciano a migliorare, ma il governo dell'Italia diventa un esercizio sempre più difficile, sino a capovolgersi nel suo opposto: l'arte del non governo.
Questa nuova periodizzazione può essere interpretata in modi diversi. A me sembra dimostrare che riforme e risanamento procedono in Italia secondo tempi e ritmi che non hanno nulla a che vedere con la classica contrapposizione bipolare fra destra e sinistra. I due poli possono essere egualmente, anche se per ragioni e in momenti diversi, riformatori e conservatori, risanatori delle pubbliche finanze e dilapidatori del pubblico denaro, rispettosi del mercato e suoi avversari. Guardate da vicino con l'occhio di Ricolfi, destra e sinistra si assomigliano, dicono le stesse bugie e sono legate da una sorta di continuità. Sono, insomma, altrettanto «italiane», nel senso meno positivo della parola. Ma negli scontri politici di ogni giorno ciascuno dei due poli continua a considerare l'altro un alieno e a rappresentarlo come il male assoluto. È davvero sorprendente che gli italiani stiano mandando ambedue a quel paese?

il manifesto 7.11.07
Tutti espulsi da Veltroni
di Micaela Bongi


Ne ha dovuto prendere atto anche il ministro Paolo Ferrero, ieri davanti alla direzione del suo partito, Rifondazione comunista: sulla sicurezza il leader del Pd Walter Veltroni «ha giocato una partita politica». Del resto è lo stesso sindaco di Roma a scoprire le sue carte, a chiarire contro quali forze - proprio quelle della sinistra - la partita è stata giocata. E lo fa, Veltroni, ripetendo con ancora maggiore nettezza e nuovi particolari quello che ha più volte sostenuto: «Il nostro percorso deve svilupparsi con l'ambizione di essere maggioritario, facendo i conti anche con la possibilità di dare risposte più difficili rispetto al passato» ha dichiarato ieri. Basta con le alleanze che contengono tutto e il contrario di tutto. Basta con le trattative che alla fine rendono «non più riconoscibile il contributo riformista».
Il decreto razzista, la «risposta difficile», il «contributo» dettato dal Campidoglio a palazzo Chigi nel giorno del massacro di Giovanna Reggiani, a questo serviva. A dare corpo a quella vocazione di tagliare di netto le zavorre appese al nuovo riformismo. A segnare uno spartiacque. A sancire che la «consueta ripartizione dei ruoli» tra destra e sinistra da ora in poi va messa in discussione perché, dice ancora il supersindaco, «è arrivato il momento di spiccare il volo». Lasciando a terra i fragili equilibri di una coalizione condannata a vivere alla giornata e l'ostinazione di un presidente del consiglio che nonostante tutto ripete di non temere spallate, da qualsiasi parte esse possano provenire.
Fuori i romeni e fuori la sinistra, sembra dunque dire Veltroni. La sua partita politica per il momento il leader del Pd non l'ha vinta completamente. L'ostinato premier ha liquidato la Casa delle libertà e le sue pretese di irrigidire ulteriormente le misure staordinarie varate in consiglio dei ministri nelle stesse ore in cui Fassino e Rutelli duettavano rispettivamente con Fini e Casini dicendosi prontissimi a considerare le loro proposte indecenti. Palazzo Chigi vuole invece che il decreto sia convertito in legge dall'attuale maggioranza, senza sostituire i voti della sinistra con quelli del centro e per l'occasione pure di nazional-alleati e forzisti.
Ma anche se il colpo non andrà definitivamente a segno, Veltroni ha finora ottenuto moltissimo. Nessuno in parlamento mette in discussione la necessità del decreto in sé. Potrà essere ammorbidito, aggiustato anche negli aspetti tecnici, in modo da essere più accettabile o meno imbarazzante - per quanto possibile - per le cosiddette forze radicali. Ma non potranno essere cancellati il valore simbolico che a quel decreto il leader del Pd ha attribuito né la sostanza di un provvedimento che comunque lo si imbelletti fa fare un pericoloso salto indietro alla democrazia e un salto nel buio alla sinistra. Quella che d'ora in poi rischia di essere in senato determinante, ma politicamente irrilevante. Quella che Veltroni intende ridurre a satellite del luminoso pianeta del futuro, il partito di tutti dove è sempre più difficile trovare cittadinanza.

il manifesto 7.11.07
La Rivoluzione ha 90 anni
La stella dell'Ottobre
Intervista a Mario Tronti di Ida Dominijanni


Fuori sincrono. Memoria e bilancio di un evento europeo
La «follìa» di Lenin fra politica, economia, teologia. Il salto al di là di quello che c'è, il confine sottile fra potere e dominio, la lotta impari fra rottura e continuità, i conti fra il comunismo e lo Stato Perché la rivoluzione si mangia i suoi figli e si capovolge in oppressione? La potenza della storia è più forte di quella della politica

Né il 24 né il 26 ma il 25 di ottobre 1917, per il nostro calendario il 7 novembre, novant'anni fa giusto oggi: il tempo della rivoluzione, per Lenin, era un'ora esatta. Né prima né dopo, l'ora che o la cogli o passa e non torna. Il novantesimo, per un anniversario, è invece un tempo incerto: non ha la passione calda e partigiana del decennale né la distanza fredda e ponderata del centenario; per le regole del grande show mediatico è un fuori sincrono, per i criteri politici del presente un'assurdità. Mario Tronti la mette in metafora: «Questo anniversario è come una stella che cade in una palude. Ma quando cade una stella ci tocca un desiderio. Il mio è questo, che nei dieci anni che ci separano dal centenario accada qualche sorpresa, che renda almeno possibile il discorso». Il discorso sull'Ottobre, nonché quello sulla rivoluzione di cui l'Ottobre continua a essere simbolo imprescindibile, oggi è in effetti un discorso impossibile. E non da oggi, né solo dall''89 o dal '91, quando il crollo del Muro di Berlino prima e dell'Urss poi ha travolto, con gli esiti, anche l'inizio dell'esperimento sovietico: il revisionismo storico era al lavoro già da prima, e in vent'anni ha reso di senso comune l'equivalenza fra i due totalitarismi, comunista e nazista, del Novecento, quando non, à la Nolte, l'interpretazione del secondo come reazione (legittima) al primo. Di contro, una memoria «ortodossa» del mito dell'Ottobre resiste nella sinistra europea, ma senza carica e in difensiva, come se le mancassero, prima che le giuste risposte, le giuste domande da rivolgere a quell'evento.
Novant'anni dall'inizio e sedici dalla fine dell'esperimento sovietico: ancora troppo pochi per la giusta distanza che serve a un bilancio storico e teorico?
Evidentemente sì, ancora troppo pochi per un bilancio lucido, realistico e anche disincantato. Una volta chiesero a Chu en-lai: quali, secondo lei, le conseguenze della Rivoluzione francese? E lui: troppo presto per dirlo. Però, rifugiarsi nella retorica minoritaria, o in un culto passivo della memoria, non serve a niente, lanciarsi nei giudizi di valore nemmeno. Bisogna piuttosto rimettere a punto delle coordinate, provare almeno a interpretare la storia visto che è diventato sempre più difficile cambiarla. Prima coordinata: la Rivoluzione d'ottobre sta dentro la Grande guerra. Senza guerra mondiale, niente rivoluzione russa. Nel 1914 finisce quella che Polanyi chiama la pace dei cento anni, nel '17 l'Ottobre apre l'età delle guerre civili mondiali, a cominciare da quella che subito si consuma all'interno della Russia.
Dunque l'Ottobre è un evento europeo. Eppure l'unificazione europea sembra compiersi oggi nel segno della sua cancellazione, come se fosse possibile riammettere - o riannettere - i paesi dell'Est solo al prezzo di chiudere in parentesi la storia della rivoluzione, del socialismo e dell'Urss...
La Russia è Europa, oggi come novant'anni fa. Non a caso allora l'effetto dell'Ottobre rimbalzò immediatamente nell'Europa continentale, in particolare nei paesi più vicini allo «spirito» russo come la Germania. E oggi, senza ricollocare quell'evento e il seguito nella storia europea, non ci può essere ricostruzione della storia e della memoria né qui né lì. E non ci può essere nemmeno un' Europa credibile.
Al di là della memoria passiva e minoritaria che dicevi poco fa, la Rivoluzione d'ottobre è diventata una sorta di evento indicibile, o impensato, anche per la cultura della sinistra radicale occidentale, nata nel '68 sulla base della critica e del rifiuto del socialismo reale e del comunismo di stato. Come se il seguito indifendibile della storia sovietica si fosse mangiato l'evento originario. Si può ancora separare l'evento originario dal seguito? O il seguito era tutto inscritto nell'origine?
La rivoluzione bolscevica resta un evento simbolico ineludibile, per almeno due ragioni, tuttora effettivamente impensate, o quantomeno da tornare a pensare, negli effetti storici e nei risvolti teorici. Primo: l'Ottobre segna la fine della storia delle classi subalterne. Per la prima volta gli «umiliati e offesi» conquistano il potere e rovesciano una tradizione millenaria di sconfitte. C'era stato, sottolineato da Lenin, il precedente della Comune di Parigi; ma da Parigi a San Pietroburgo c'è un salto di dimensione: la conquista del Palazzo d'inverno è il farsi Stato, cioè potere e autorità, delle classi subalterne. Le quali purtroppo - il fallimento sta qui - finiranno molto presto con il ricalcare, nei fini e nei mezzi, la storia del potere, dello Stato e del governo delle classi dominanti. E' sottile il confine fra potere e dominio, e travalicarlo sembra ineluttabile: l'eterogenesi dei fini dell'Ottobre ci riconsegna questo problema in tutto il suo spessore.
Secondo: l'Ottobre è stato, secondo la geniale definizione di Gramsci, una «rivoluzione contro il Capitale». La rivoluzione scoppia, imprevista, laddove secondo lo schema marxiano ortodosso non c'erano le condizioni perché scoppiasse. Questo imprevisto segnerà la storia del Movimento operaio, facendo esplodere la frattura fra socialdemocrazia e partiti comunisti. Ma apre anche il passaggio teorico dalla critica dell'economia politica di Marx alla critica della politica di Lenin. Con la Rivoluzione d'ottobre accade qualcosa che nello schema logico di Marx non era compreso, e che ha a che fare con l'autonomia e l'irriducibilità della politica. L'atto di Lenin mostra che il politico non sta dentro l'economico, non ne consegue e lo eccede. Lenin sta alla critica della politica come Marx sta alla critica dell'economia: è questo «il salto» di Lenin, un salto logico e storico che in seguito verrà variamente assunto o rifiutato, ma che resta a tutt'oggi un problema inevaso.
Mi viene in mente Zizek, in Tredici volte Lenin. Anche lui si interroga sull'«eccedenza» del Lenin politico rispetto al Marx della forma-merce, anche lui rovescia l'idea «fallimentare» di Lenin in una rivalutazione della sua «follìa» - per «follìa» intendendo la sua capacità di cogliere nella catastrofe della guerra «l'urgenza del momento» rivoluzionario, e di spezzare così lo storicismo evoluzionista della Seconda internazionale. Lenin dunque non come «volontarista soggettivista», ma come politico dell'eccezione. E Stalin, all'opposto, come figura del ritorno «a un realistico 'senso comune'» economico-sociale.
Infatti, Lenin riprende la grande tradizione della politica moderna europea e porta la politica al centro della rivoluzione. E probabilmente una delle ragioni principali del fallimento dell'esperimento sovietico sta proprio nel fatto che questa centralità della politica, nel dopo-Lenin, finisce. Si torna al primato dell'economia, imbarcandosi nella costruzione del socialismo con gli stessi schemi logici e metodologici del secondo libro del Capitale. Ne parlò una volta Rita di Leo. E' questa la matrice del fallimento: l'idea di organizzare un'economia non capitalistica ma restando dentro le regole della scienza economica, in competizione diretta e simmetrica con il capitalismo. Non funziona, e non funzionava neanche in Marx: senza politica, la critica dell'economia politica ha il fiato corto.
Anche Lenin insomma ci riporta alla questione dell'autonomia del politico?
Ci riporta alla questione di come la politica riesca a mantenere il suo statuto autonomo, senza diventare economia politica. Lenin, pur senza la necessaria consapevolezza teorica - all'epoca c'erano già stati Weber e tutta la scienza politica e giuridica, soprattutto tedesca, tra Otto e Novecento - aveva colto che la politica era il vero elemento rivoluzionario che l'Ottobre, nella sua follia storica, faceva intravedere.
L'Ottobre, o il Febbraio? Nel novantesimo della rivoluzione, non è ancora risolta la controversia fra chi nell'Ottobre vede l'esito del processo rivoluzionario, e chi ci vede invece il suo tradimento, il colpo di Stato bolscevico che strangola nella culla la fragile democrazia russa messa al mondo dalla rivoluzione di febbraio.
Ma no, la Rivoluzione di febbraio ricalcava lo schema delle rivoluzioni borghesi, di uno sviluppo economico-sociale che cercava la sua espressione e i suoi canali politici. Quella di Ottobre è il contrario, l'uno-due di Lenin rompe lo schema: mettersi alla testa della rivoluzione borghese per portarla oltre se stessa, questa è l'intuizione geniale - ancora attualissima per i governi delle sinistre, se ancora ce ne fossero. Ovviamente questo produce moltissimi problemi, perché non stabilizza la situazione, ma la destabilizza. Con l'Ottobre la politica moderna arriva a quel punto di tensione, che bisognerebbe oggi ritrovare e rilanciare.
Ma perché da quel punto precipita? Tu dici: perché dalla politica si regredisce all'economia. Solo questo, o c'è dell'altro?
C'è dell'altro, sì, che gli eredi dell'Ottobre non calcolarono: qualcosa che attiene non al rapporto fra politica ed economia, ma a quello fra politica e storia, e fra discontinuità e regolarità. Ci manca purtroppo, sul dopo-Rivoluzione russa, un'opera come quella di Tocqueville, L'ancien régime et la révolution, sul dopo-Rivoluzione francese. Contro il senso comune, Tocqueville legge l'89 francese non come il rovesciamento ma come il completamento del processo di centralizzazione del potere cominciato con la monarchia assoluta, processo che continuerà infatti con Napoleone e la costruzione dello Stato-nazione: sotto la rottura rivoluzionaria, si ristruttura la continuità. Lo stesso accade in Unione sovietica: sotto la rivoluzione, l'identità della Grande Russia si ristruttura nelle nuove forme dello Stato e del partito unico. La continuità del processo storico presenta regolarmente il conto alle discontinuità della politica. Stalin in qualche modo lo sapeva, e perciò usò la seconda guerra mondiale come guerra patriottica. E Putin oggi riconverte la memoria dell'Unione sovietica, deprivata della matrice dell'Ottobre, in un segmento di memoria, e di rilancio, della Grande Russia: in linea con quanto accade ovunque si mobiliti, sotto il termine «civiltà», la riserva simbolica di una dimensione antropologica e culturale più antica della storia degli stati nazionali.
Riepilogo: la storia della Rivoluzione russa mostra che la dimensione politica è più forte della struttura economica, ma deve vedersela con una terza dimensione, quella della continuità storica che prevale sulle rotture politiche, e con una quarta dimensione, antropologico-culturale, nel lungo periodo decisiva.
Non solo nel lungo periodo, ma anche nel momento sorgivo della rivoluzione. Mi sono chiesto: perché la rivoluzione scoppia, imprevista, in Russia? Perché proprio lì? Perché lì c'era la massima oppressione dei contadini, il massimo aggravamento delle condizioni di vita degli operai, la massima sofferenza della guerra fra i soldati.. ma forse non anche perché l'anima russa, il misticismo del pellegrino russo, un certo humus religioso avevano fecondato il terreno per l'evento escatologico della rivoluzione? L'Ottobre non si capisce senza Dostoevskij. La rivoluzione fu un atto apocalittico, un salto - un «assalto al cielo» appunto. Non c'è spiegazione solo razionale di un evento in cui agisce l'impulso a qualcosa d'altro. Nell'atto della rivoluzione si vede che la politica tocca una dimensione teologica, e libera dimensioni dell'essere umano imprigionate nell'homo oeconomicus, in una concezione borghese della vita. Dalla quantità alla qualità: è questo lo spostamento dall'economico al politico, su cui oggi bisognerebbe impiantare un programma strategico di nuovi rovesciamenti.
Anche oggi, in uno scenario completamente diverso da quello del 1914, ci troviamo al passaggio da un'epoca di pace, anzi di guerra fredda, a un'epoca di guerre civili mondiali. Ma senza rivoluzione...Cos'è oggi «la rivoluzione», cos'è diventata questa parola nel nostro immaginario?
«Rivoluzione» è termine assai controverso, sul piano storico-politico nonché sul piano etimologico e semantico. C'è chi lo riconduce al copernicano giro ritornante delle orbite, più che alla frattura: come vedi, il tema del rapporto fra discontinuità e continuità, fra rottura e ritorno, è insito nella parola stessa. Se vuoi un'immagine, per me «rivoluzione» è Lenin che dice ai soldati contadini russi di non sparare sui soldati operai tedeschi ma di voltare i fucili e sparare sui generali zaristi. Questo è «rivoluzione»: la trasmutazione di tutti i valori correnti, quando non regge più nulla di quello che c'è e bisogna saltare al di là. Il problema però non è il salto, l'evento rivoluzionario, ma il processo successivo. Perché la rivoluzione si mangia i suoi figli, perché si capovolge in oppressione? Per questa domanda non abbiamo ancora una risposta, se non la constatazione di una antropologia pessimistica, comprovata dall'esperienza, che la potenza della storia è più forte di quella della politica. La storia ha dalla sua la continuità e la continuità vince sempre sulla rottura: è una lotta impari.
La politica, e la rivoluzione, perde perché la storia vince, dici tu. Ma se perdesse anche perché si incolla al potere? Perché con la presa del potere la politica, e la rivoluzione, diventa solo potere, e il potere diventa solo dominio? Hannah Arendt, Simone Weil e tutto il pensiero politico femminile del Novecento hanno posto questa domanda. Che resta anch'essa inevasa.
D'accordo. Insieme con un'altra, posta anche da Carl Schmitt e dalla lettura che ne abbiamo dato in Italia negli anni Ottanta, di come portare il politico oltre lo Stato. Questione da riaprire, perché la politica moderna nasce prima dello Stato moderno e può andare oltre lo Stato moderno - anche se il Leviatano è stato così forte da conquistare per secoli tutto il terreno della politica. Come pure prima della costruzione dello Stato sovietico c'era nel Movimento operaio un'articolazione che dopo viene quasi tutta risucchiata dall'obiettivo del farsi-Stato.
Dopo la storia dell'Urss, dovrebbe dunque essere ancora pensabile un comunismo che non si fa Stato, o oltre lo Stato...ma per questo non serve ancora Marx, la marxiana «estinzione» dello Stato?
No, perché l'estinzione dello Stato prevedeva il passaggio della dittatura del proletariato, ovvero del massimo dello Stato...Anche in Occidente, l'espansione del sociale non ha portato e non pare portare a una politica oltre lo Stato, ma a più Stato, nella forma dello Stato sociale, e meno politica. Semmai bisognerebbe recuperare il comunismo autogestionale, e il solidarity for ever del primo socialismo, ridotti a esperienza minoritaria dal comunismo fatto Stato. Ma non sto proponendo di tornare all'alternativa Lenin o Luxemburg: nessuna delle esperienze del comunismo novecentesco è ripetibile oggi. La memoria è buona memoria se è una memoria attiva, se serve per andare oltre il passato, non per ripeterlo. L'Ottobre stesso è irripetibile: ricordarlo serve per aprire l'immaginario e l'intelligenza a pensare che cosa di nuovo potrebbe accadere se si aprisse un processo di crisi dell'ordine costituito. La rivoluzione è davvero impensabile, oggi, se non ritorna un passaggio di crisi di sistema che rimetta in moto la critica di tutto ciò che è. Non una crisi economica, non le file davanti alle borse o alle banche che vediamo ogni tanto in tv, ma una crisi politica, un conflitto fra grandi potenze per la ridefinizione degli spazi politici sui due oceani. E' la geopolitica forse oggi il luogo di una crisi possibile, di un conflitto fra finanza-mondo e politica-mondo sulla riorganizzazione del Nomos della Terra.

il manifesto 7.11.07
Migliore (Prc): «Per ora restiamo. Il governo non sia ostaggio del Pd»
di Sara Menafra


Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione alla Camera, Walter Veltroni dice che la ripartizione tra sinistra e destra deve essere superata, partendo in particolare dal tema dell'immigrazione. Cosa si sente di rispondere?
Quello di cui parla Veltroni è un progetto politico omnicomprensivo, omnibus, liquido. Insomma tutto tranne un partito politico. Oggi (ieri per i lettori, ndr) in un articolo su Repubblica il filosofo Slavoj Zizek ha spiegato bene cos'è la post politica di cui parla Veltroni. E' una politica che sceglie di concentrarsi solo sull'esistente e sulla gestione del presente. E' un progetto senza futuro che si occupa esclusivamente dell'amministrazione della paura. La paura ti isola, ti fa sentire più debole e al governo chiedi semplicemente delle rassicurazioni. Invece, la politica dovrebbe occuparsi del futuro. Un'idea come quella di cui parla Veltroni nel lungo periodo rischia di collassare su se stessa, perché sottovaluta la società. Si occupa del treno che deve arrivare puntuale, della riduzione del debito...
Si potrebbe rispondere che queste sono le necessità primarie espresse dai cittadini...
La politica ha anche il compito di indicare strade di emancipazione radicale, come è avvenuto nell'epoca delle schiavitù di fatto. Non si occupa solo della ripetizione dello stato di diritto, ma anche della trasformazione della società. Non solo la repressione del reprobo, ma la capacità di migliorare e intervenire. Quella di cui parla Veltroni è una politica di puro esercizio di potere.
Il partito democratico americano non sembra affatto in crisi...
La crisi di cui parlo non è un collasso organizzativo. In america i partito politici non funzionano, basta ricordare che neppure il 50% della popolazione partecipa al voto. E non riescono neppure a risolvere i problemi della società. Basta guardare un documentario di Michael Moore e ci troviamo tutti in piazza per la sanità pubblica italiana.
Veltroni parla di un partito autonomo dalle alleanze obbligate, un chiaro riferimento alla sinistra della coalizione...
Vedremo chi ha più filo per tessere. Ognuno di noi aspira a rappresentare la maggioranza del paese, anche noi vorremmo poter rappresentare il 51% degli italiani, non mi pare il problema principale. Bisogna vedere come vuole arrivare a questa autonomia. Una legge elettorale tutta maggioritaria non farebbe che aumentare il rischio dell'autonomia della politica dalla società. Credo che a rifiutarla dovrebbe essere prima di tutto la costituente eletta dalle primarie del Partito democratico.
E il riferimento ai programmi piuttosto che alle alleanze?
Lo diciamo anche noi. Anzi siamo la parte della coalizione più scottata dall'aver firmato un programma che puntualmente non viene rispettato.
In sostanza il leader del Pd parla di un progetto politico che prescinde dalla sinistra. E' un pressing che può finire con l'escludervi dalla maggioranza di governo, come reagirete?
Intanto dobbiamo dire, e abbiamo già detto, che l'ultima uscita di Veltroni sul pacchetto sicurezza non c'è piaciuta. Il governo non può essere ostaggio del Pd.
Durante la direzione del partito avete parlato anche di una verifica sulla vostra presenza all'interno della coalizione. Che succede se il bilancio sarà negativo?
Abbiamo fissato una nuova verifica dopo i passaggi programmati per i prossimi mesi: il decreto fiscale, il pacchetto welfare e quello sicurezza. Alla fine faremo un bilancio e non ha senso anticiparlo ora: finché c'è margine per continuare la discussione politica vale la pena proseguire. Si deve provare ad agire lo scenario fino all'ultimo. Poi vedremo.

Liberazione 7.11.07
Gli avvocati: decreto incostituzionale
Giordano: modifiche o non lo votiamo
di Frida Nacinovich


Documento dell'Unione delle Camere penali al governo: il pacchetto sicurezza viola quattro volte la Costituzione
Rifondazione: impossibile un accordo con le destre. Amato: sulle espulsioni si al giudice ordinario e non a quello di pace

Decreto sicurezza, Gianfranco Fini avverte: «Il Partito democratico deve scegliere, o dar vita a un provvedimento serio oppure seguire la sinistra radicale. Prodi non può pensare di avere il voto di tutte le forze politiche». Ancor prima del presidente del Consiglio, una implicita risposta al leader di An arriva dall'Unione delle Camere penali, gli avvocati penalisti, che inviano una lettera alla commissione affari costituzionali del Senato. Nel provvedimento del governo sulle espulsioni ci sono «quattro punti di palese incostituzionalità». Due flash per descrivere una giornata, al solito convulsa, politicamente avvitata su se stessa (gli aut aut del centrodestra, la ricerca di convergenze del piddì), ma con alcuni punti fermi. Almeno uno: dopo l'Unione europea, dopo giuristi e costituzionalisti, anche gli avvocati in prima linea, quelli che lavorano quotidianamente nei tribunali, segnalano le storture del decreto legge sulla "sicurezza" approvato in fretta e furia la settimana scorsa.
Le critiche riguardano innanzi tutto un «palese contrasto con l'articolo 13 della Costituzione» che legittima l'adozione di provvedimenti provvisori, limitativi della libertà personale, da parte dell'autorità di pubblica sicurezza soltanto «in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge»; «la rilevanza del comportamento del familiare»; «la mancanza di ogni vaglio giurisdizionale nelle ipotesi di accompagnamento immediato alla frontiera» e «l'irragionevolezza dell'attribuzione della competenza penale al giudice di pace», poiché «il giudice di pace nasce come organo di composizione bonaria di conflitti fra privati e non nelle controversie tra la pubblica autorità e i privati».
Su quest'ultimo punto è importante registrare che il ministro dell'Interno Giuliano Amato, riunito con Prodi, Ferrero e D'Alema a palazzo Chigi, anticipa la decisione di accogliere la richiesta di Rifondazione di fare un primo cambiamento al decreto legge. In sostanza, non saranno i giudici di pace ma quelli del tribunale a dover decidere sulla legittimità o meno delle espulsioni.
Un primo, piccolo passo vanti. «La discussione è appena cominciata», spiega Paolo Ferrero. Oggi il primo ministro rumeno Calin Popescu Tariceanu incontrerà Prodi, non sono un segreto le preoccupazioni del governo di Bucarest sul rischio xenofobia legato al decreto espulsioni.
Il decreto legge fa acqua da tutte le parti, non lo dicono solo i partiti della sinistra dell'Unione, Rifondazione in testa. Eppure da destra si continua con la strategia del pugno di ferro in guanto d'acciaio. Il presidentissimo di Alleanza nazionale dà voce alle pulsioni più profonde del suo popolo: «I rom non sono integrabili». Non è vero, ci sono le prove, ma questo chiedono gli elettori nazional alleati. Fiuggi è lontana, lontanissima. Di fronte ai diktat di An e del suo leader, Ferrero osserva: «Fini non è un gentiluomo un po' conservatore, ha un profilo razzista». Ma il presidentissimo si dice «del tutto indifferente a quello che pensa il Ferrero», e ribadisce che il provvedimento del governo è «insufficiente per le esigenze di legalità». Le tre richieste non trattabili dell'opposizione sono note: più risorse, espulsioni effettive mediante l'accompagnamento coatto alla frontiera, provvedimenti allargati ai nullatenenti. Il presidente dell'Unione delle camere penali, Oreste Dominioni non fa mistero di essere un conservatore. Ma di fronte al diritto preso a calci, l'avvocato Dominioni segnala tutto il suo imbarazzo, è lui a firmare materialmente la lettera alla Commissione affari costituzionali del Senato. Si parla di profili di illegittimità costituzionale presenti nel decreto espulsioni. E di incostituzionalità parla anche un'interpellanza alla Commissione europea, firmata dagli europarlamentari Musacchio, Catania, Agnoletto, Napolitano, Fava, Guidoni, Frassoni, da tutta la sinistra. Si fa naturalmente riferimento al trattato di Schengen, a quello che assicura la libertà di movimento dei cittadini degli Stati dell'Unione.
Intanto il segretario di Rifondazione, Franco Giordano spiega la posizione del partito: «Vincoliamo il nostro voto positivo al recepimento delle modifiche che proponiamo e alla volontà di tenere sbarrate le porte alla destra». In pratica un secco altolà al governo all'ipotesi di accettare le modifiche al decreto proposte dalla Casa delle libertà. Rifondazione mette nero su bianco le sue condizioni. «Penso che il decreto vada modificato nel suo percorso parlamentare, aggiungendo la questione della lotta al razzismo», dice il ministro della Solidarietà sociale Ferrero. Il Prc vincola il suo voto positivo a quattro punti ritenuti essenziali: l'espulsione degli extracomunitari non può avvenire solo ad opera dei prefetti, le fattispecie di reato devono essere chiarite e circoscritte, le stesse espulsioni devono essere legate a reati che destano grave allarme sociale. Porta chiusa, invece, verso il far coincidere l'assenza di reddito con l'allontanamento coatto (cosa che invece la destra porta avanti con fermezza). Infine la richiesta di reintrodurre i reati di xenofobia e razzismo.
Ancora temperatura incandescente tra maggioranza e opposizione sul decreto espulsioni varato la settimana scorsa dal Consiglio dei ministri. Con la Casa delle libertà che continua a chiedere delle modifiche sostanziali e la sinistra dell'Unione che critica decisamente il provvedimento ammonendo Prodi a non accettare i voti del centrodestra. Questo mentre il provvedimento inizia il suo iter in commissione Affari costituzionali, che non avrà un lavoro facile da fare.

Liberazione 7.11.07
7 novembre 1917
La Rivoluzione d'Ottobre
di Rina Gagliardi


Perchè a distanza di novant'anni quanto accadde fa ancora paura?

Una domanda "semplice": come mai, a novant'anni di distanza, la Rivoluzione d'Ottobre continua ad essere rappresentata, a destra e a sinistra, come un misfatto della storia ? In fondo, l'Unione Sovietica non esiste più, da quasi vent'anni e il movimento comunista, nel mondo, non si aggira certo con la forza dello "spettro" di cui parlavano Marx ed Engels nel "Manifesto". In fondo, il revisionismo noltiano è a sua volta invecchiato, e ha comunque dispiegato da un pezzo i suoi effetti perversi nella cultura e perfino nel senso comune. Eppure, nei servizi del Tg2 o nell'ultimo libro di Vittorio Strada (o anche nelle polemiche di giornata, come quella che arriva a fare di Pol Pot un discendente del comunismo), i toni sono tutto fuorché distaccati - si va dalla denigrazione propagandistica, se non dalla demonizzazione, a falsità del tutto grossolane, quasi fossimo a ridosso del '17, o nel pieno di una battaglia politica e culturale del tutto attuale. Appunto: perché? Perché in fondo è vero quel che paventano i nostri avversari: la Rivoluzione d'Ottobre - non l'Urss, non il "socialismo reale", non il così detto comunismo fattosi Stato - è un evento di tale straordinarietà storica, e forza politica, che il suo valore simbolico, il suo fascino, i suoi effetti "sotterranei" non sono esauriti, a dispetto di tutte le sconfitte e le tragedie che l'hanno seguito. Perché, come avrebbe detto Cesare Luporini, essa "ci sta addosso" e resta fondativa della nostra coscienza politica moderna, e anche postmoderna. Perché è stata la prima grande scalata al cielo delle larghe masse, un'accelerazione colossale della storia, in cui si è provato - quasi contro l'evidenza, contro l'"immaturità delle condizioni oggettive" (la "rivoluzione contro il Capitale" di gramsciana memoria), contro l'apparenza dei rapporti di forza, a costruire l'aldilà sulla terra. Nemmeno la Rivoluzione francese, l'altra tappa costitutiva della modernità - aveva osato tanto, aveva potuto spingersi a immaginare una società davvero retta, nelle sue strutture portanti, sulle parole d'ordine della libertà, dell'eguaglianza e della fraternità. L'Ottobre osò. E una nuova grande soggettività - il moderno proletariato organizzato - uscì dai sotterranei, come nella metropoli "metafisica" di Fritz Lang, occupò la scena, cambiò la faccia del XXesimo secolo. Tutto quello che accadde dopo, anche un attimo dopo la presa del palazzo d'inverno, non può cancellare questo dato gigantesco: la Rivoluzione degli ultimi , di coloro che "avevano da perdere solo le loro catene e un mondo da guadagnare" , era possibile, non più solo pensabile o desiderabile. Verum ipsum factum .
***
Storicamente parlando, certo, l'Ottobre è inseparabile dal contesto in cui nacque, dalla tragedia della prima guerra mondiale ("la madre di tutte le guerre moderne"), che stava distruggendo milioni di vite - la "migliore gioventù d'Europa", ragazzi nel fiore degli anni, morivano sui campi di Verdun a centinaia di migliaia, in uno scontro fratricida, in uno scannatoio totale di cui si era perduta perfino la ragione formale. In questa autentica carneficina, che aveva spinto papa Benedetto XVesimo a lanciare il grido sulla "inutile strage" che si andava consumando, crollavano gli imperi centrali - e crollava la sinistra, quasi tutti i partiti dell'Internazionale socialista, che si erano di colpo scoperti patriottici, nazionalisti, bellicisti. Fu un'apocalissi, delle cose e delle coscienze, nella quale - a Lenin, ai bolscevichi ma non solo - il capitalismo e l'imperialismo sembrarono logicamente ad un passo dalla loro fase finale. Ma fu anche, allo stesso tempo, la necessità imperiosa di salvare l'umanità dal crollo che la stava travolgendo - la guerra che non finiva, la fame che attanagliava milioni di persone, la miseria morale e materiale che avvolgeva la società. In questo quadro, nella Russia degli Zar, poteva bastare la cacciata dei Romanov, la "rivoluzione borghese" e "liberale" di febbraio?
(segue)

Liberazione 7.11.07
Rifondazione si interroga sulla presenza al governo
La proposta del segretario: «Dobbiamo rovesciarne il calendario. Indichiamo le priorità»
di Angela Mauro


Il decreto legge sulle espulsioni è stata l'ultima goccia. Per Rifondazione il vaso dell'insoddisfazione per l'operato del governo di cui fa parte non è ancora traboccato. Ma il tema c'è - se vogliamo c'era anche prima dell'exploit securitario seguito all'omicidio di Tor di Quinto - e si infila prepotentemente nel dibattito della direzione nazionale di ieri, al di là delle critiche favorevoli o contrarie alla "domanda proibita" posta da Liberazione , appunto: «Perchè restiamo in questo governo?».
Franco Giordano non nega che la questione esista, ma, spiega, bisogna uscire dalla «dinamica angosciosa e nevrotica con cui ne discutiamo». Il segretario avanza una proposta precisa: approfittare dell'assemblea generale della sinistra a dicembre per «definire insieme un nuovo calendario di priorità, sulla base del programma dell'Unione, sottoporlo al governo e dargli un lasso di tempo per risolverle». Certo, è la battuta che gli sfugge a proposito dell'ultimo "pallino" di Diliberto, «se mentre noi stiamo qui a discutere, c'è chi a sinistra discute di dove trasferire il mausoleo di Lenin...», si comprende che «quel definire insieme il calendario» diventa complicato. «Lo mettiamo nella Cosa rossa il mausoleo...». Dalla platea Ramon Mantovani non si lascia scappare l'occasione per l'ennesima frecciata al processo unitario a sinistra e come al solito apre il varco a qualche secondo di gustosa distrazione. Al di là delle battute, la proposta del segretario è chiara: «E' impensabile giocare di rimessa rispetto al Pd. Rimettiamo al centro il programma e verifichiamo la congruità ed efficacia del governo». Che poi è quanto chiede la piazza del 20 ottobre. E forse, riconosce il ministro Paolo Ferrero, «non abbiamo fatto abbastanza per tenere il filo con quella manifestazione».
Di domande, in questi tempi complicati, ce ne sono tante. Gennaro Migliore ne tira fuori una cruciale. «Questo governo è ostaggio del Partito Democratico?». Evidentemente sì. Sulla sicurezza, spiega il capogruppo alla Camera, «l'azione proditoria di Veltroni ha condizionato l'Unione. Io non ci sto ad un'agenda dettata dal Pd e senza un patto chiaro non c'è possibilità di mediazione. Il governo è malato e deve essere curato dalla occupazione da parte del Pd. La nostra deve essere una battaglia a viso aperto».
Ma non bisogna guardare solo al vicino di casa. Si guardi anche alla sinistra, suggerisce Rina Gagliardi, ci si guardi allo specchio. «Noi abbiamo delle idee generali buone sulla società, ma da lì saltiamo subito al ruolo emendativo» sulle proposte del Pd. «In mezzo - continua la senatrice - non c'è la nostra proposta di riforma della società e se manca questa autonomia, la nostra presenza al governo rischia di essere subalterna e deludente e siamo costretti a seguire l'agenda che ci viene di volta in volta assegnata». La conclusione fa proprio uno degli slogan del 20 ottobre: «Questo è un governo di merda, ma è il mio governo».
Soprattutto se legata alla sicurezza, la questione del governo si intreccia con quella della cultura politica. «Ci vuole tempo per costruirne una che cammini su gambe di massa», dice Giordano. Ma l'obiettivo della costruzione c'è e i fatti degli ultimi giorni aguzzano la riflessione. La direzione mette sul banco degli imputati Milziade Caprili, per la recente intervista a Repubblica sui rom (chi non ha reddito, sia rispedito in Romania). «Non condivido», sottolinea Giordano. E Migliore parla di «dissenso profondo che non può essere mitigato dal fatto che siamo nello stesso partito». Mantovani picchia giù duro sulla cultura politica: «Caprili ha detto delle cose che appartengono a un filone del comunismo che pensa nei termini di "noi e loro", il noi sono gli elettori, loro sono gli immigrati. Siamo schiavi degli elettori...». Russo Spena è meno fosco: «Se l'identità comunista non è museale, se non è la mummia di Lenin da portare a Roma, se è trasformazione, allora coniuga i diritti dei nativi con quelli dei migranti». Ferrero mette in guardia sul rischio di «divisione tra noi, tra chi si mantiene garantista e chi tende a scivolare sulla sicurezza, come Caprili. Detto che io starei nel primo gruppo, rischiamo una spaccatura come una mela che non porta a niente». Invita a placare i toni anche Alfonso Gianni, con il solito tono "dinoccolato": «Non prendiamocela con il "Caprili espiatorio" di turno. Guardiamo al Pd e al suo pesante carico di razzismo e xenofobia, superiore a qualunque aspettativa». Detto questo, il giudizio del sottosegretario allo Sviluppo Economico è tranchant: «Al governo conviene starci per un obiettivo: fare la riforma elettorale. Senza questo, le possibilità di vivere in un posto diverso sono precluse».
Il governo, appunto. Anche Claudio Grassi, di Essere Comunisti, condivide la proposta Giordano, ma chiede un mea culpa sulla linea del congresso di Venezia: «Dobbiamo dire che l'ipotesi iniziale si è rivelata sbagliata, sennò ricadiamo nell'errore». E Alberto Burgio invita a «essere consequenziali, se davvero alziamo il tiro». Claudio Bellotti di Falce e Martello non ha dubbi: «Brodini? La minestra del governo è stracotta». «La questione del governo va approfondita e in questo il ruolo di Liberazione è stato importantissimo», sigla Graziella Mascia. Sulla linea opposta Francesco Forgione, cui la "domanda proibita" proprio non è andata giù: «Vorrei capire se la linea del partito la deve dare il giornale, che non è entrato nel merito del pacchetto sicurezza, tralasciando di dire che le norme su falso in bilancio e antimafia sono positive. Vorrei discutere in questa sede se il governo è di destra e non sentire Sansonetti che lo dice in tv». Sul governo non ha dubbi Mantovani: «Dopo il dl sulle espulsioni ci è nemico. Per noi deve essere un luogo, il mezzo resta il partito che deve fare rete nella società con la consapevolezza di essere minoranza, sennò si prendono abbagli»