venerdì 9 novembre 2007

l’Unità 9.11.07
Riforme, Veltroni non molla «Al Paese non servono urla»
«Disponibili al confronto, sistema tedesco solo se corretto»
Sulla sicurezza scontro aperto con Rifondazione
di Bruno Miserendino


«LORO PENSANO ALLE SPALLATE, noi alle riforme». Quindi, dice Veltroni, «andremo avanti e cercheremo ampie intese per il bene del paese», nonostante i niet di Berlusconi. Sembrerebbe l’epilogo di una ordinaria giornata di incomunicabilità tra maggio-
ranza e opposizione, invece il confronto a distanza tra il leader di Forza Italia e il neosegretario del Pd disegna una partita molto aperta. Berlusconi, rimarcano tutti nel centrosinistra, «con l’ossessione della spallata ha rinunciato a fare politica», ma nella Cdl il tempo concesso al leader naturale sta scadendo. L’Udc è pronta al dialogo, la Lega potrebbe esserlo e An aspetta solo gennaio per vedere le carte. Pare sia così anche per molti azzurri, anche se formalmente, davanti alle telecamere smentiscono. Mastella, ieri, spiegava perchè un senatore non fa una spallata, però citava un suo professore che diceva: «Non so se le cose andranno meglio o diversamente ma so che per andare meglio dovranno andare diversamente». Aggiunta: «Noi - dice - non ci fermiamo davanti al fatto che, nella contingenza politica quotidiana e nella vocazione alle spallate, ci sia questa volontà di non dialogare. Il Paese ha bisogno di soluzioni».
Veltroni lo sa e per questo iniste. L’altro ieri aveva detto che se la maggioranza superava la prova della finanziaria sarebbe stato «tutto un altro film», ieri lo ha spiegato più chiaramente: «Il Paese vive una difficoltà del sistema democratico, questo è evidente ed è responsabilità di tutti impegnarsi per risolvere questo nodo». «Noi dichiariamo la nostra disponibilità al dialogo e mi auguro che anche dalle altre forze ci sia analoga disponibilità. Il Paese ha bisogno di dialogo e di soluzioni. È un’idea sbagliata che il Paese abbia bisogno di urla».
Infatti Veltroni ha iniziato a girare le prime prove del film in una riunione ristretta a palazzo Madama con Finocchiaro, Chiti, Amato, Enzo Bianco, e Violante e i giuristi Ceccanti e Vassallo, dedicata proprio alla legge elettorale, da cui sono emersi con più chiarezza i paletti del Pd per il confronto. In sintesi, la base discussione è il sistema tedesco ma con correzioni maggioritarie. Solo che anche per Veltroni la partita è a rischio. Sa benissimo, come chiede anche palazzo Chigi ufficialmente, che bisogna prima trovare l’unità del centrosinistra su una proposta, ma sa anche che la cosa è quasi impossibile. Sa che nello stesso Pd ci sono molti fautori del sistema tedesco puro, e sa quanto la partita delle riforme sia inevitabilmente inquinata dalle urgenze del dibattito politico. Sulla sicurezza, ad esempio, è in corso un braccio di ferro nemmeno tanto sotterraneo. Veltroni e i sindaci non sono entusiasti delle correzioni imposte da Rc al decreto espulsioni e continuano a ritenere utile un confronto con la Cdl. Sul tema c’è una discreta frizione tra Veltroni e Rifondazione, e anche se alla fine il centrosinistra riuscirà a mantenersi unito, perchè il decreto è meglio di niente, tutti capiscono che in queste ore si confrontano due modi di intendere il rapporto tra politica e bisogni dei cittadini.
Veltroni per ora si muove, tenendo fede all’impianto descritto nel discorso di Milano: sostenendo il governo ma reclamando novità. Sulla legge elettorale Veltroni ha confermato che si può partire dal modello tedesco, purchè venga corretto in senso maggioritario. «Ma da questa posizione - ha detto il neosegretario - non ci si sposta» Infatti l’attenzione si è spostata tutta sui correttivi, con Vassallo e Ceccanti che hanno esposto le soluzioni praticabili. Fermo restano che si presuppone una sola Camera politica, e che il 50% dei seggi viene assegnato col metodo maggioritario uninominale il correttivo maggioritario potrebbe essere adottato sul riconteggio proporzionale che viene fatto sul restante degli eletti con le liste. L’idea è di inserire correttivi «spagnoli» sul modello tedesco, con circoscrizioni elettorali più piccole o con un premio di lista per evitare situazioni di stallo come è avvenuto proprio in Germania. Come si sa in questa partita Prodi Veltroni, e tutti gli ulivisti, sono perfettamente d’accordo: bisogna resistere alle lusinghe del tedesco puro che, calcoli alla mano, porterebbe o ad ammucchiate di centro, o a governissimi o a governi di centrodestra. Il problema è che nell’Unione alcune forze piccole, come il Pdci e i Verdi non vedono di buon occhio nessuna riforma, mentre Rifondazione e Udc sembrano al momento interessati a discutere solo di tedesco puro. Ieri Russo Spena scherzava: «Walter sta studiando il tedesco? Fa bene...» L’Udc non a caso invita Veltroni a uscire dalla logica delle alleanze che invece sta a cuore a palazzo Chigi, perchè altrimenti, dice D’Onofrio, «sarà un’ennesima sceneggiata». Veltroni invece è convinto che su un tedesco corretto in senso bipolarista, alla fine anche An sarebbe della partita. Le condizioni per il dialogo non ci sono tutte, ma qualcuna l’ha creata.

Repubblica 9.11.07
Il senatore del Pd D'Ambrosio: troppe disparità tra italiani e comunitari
"Decreto emotivo e anticostituzionale modifiche profonde o non passerà"


ROMA - «Il decreto non deve passare». Parola dell´ex procuratore Gerardo D´Ambrosio, oggi senatore Pd. «È un testo contro l´Europa e la Costituzione».
Non lo voterà?
«Va profondamente modificato. Così com´è va contro le direttive Ue, e quindi contro i tempi e la realtà di un´Europa allargata con diritto di libera circolazione».
Anche quella di delinquere?
«Il decreto crea disparità pesantissime, dal punto di vista penale, tra cittadini italiani e comunitari, e tratta questi ultimi peggio degli extracomunitari».
Quali sarebbero gli errori?
«Le ragioni imperative per l´espulsione non sono delineate a sufficienza, col rischio di provvedimenti arbitrari. Allo stato, anche se sarà corretta, non c´è una sufficiente tutela giurisdizionale. È assurdo trasformare in delitto il rientro dell´espulso punendolo con tre anni».
Il dl non andava fatto?
«Agire sotto una forte spinta emotiva fa fare misure che non andavano assolutamente fatte. L´Italia è tra i paesi che ha "fatto" l´Europa e non possiamo approvare un dl che ne è la negazione».
(l. mi.)

Repubblica 9.11.07
Riappare un capitolo del "Ramo d´Oro" che James Frazer non pubblicò per prudenza
Le maschere del potere
Quando si crocifigge un re
di Antonio Gnoli


Nei Saturnali della Roma antica si metteva a morte un finto sovrano giovane e bello
Le analogie tra i riti antichi e la storia di Cristo avevano colpito la fantasia dell´autore

Tra quelle infime derive che la storia a volte crea, può accadere di imbattersi in una figura bizzarra. È un curioso personaggio che si ammanta delle insegne regali e che è fatto oggetto di scherno e venerazione. È un re. O almeno così appare, o dice di essere. Di solito la sua sovranità lambisce la decadenza di un´epoca, ne ravviva le ombre. E sembra, allora, che giochi, come un bimbo, con il declino che tutto e tutti avvolge. La figura ridanciana si fa carico di un potere eccessivo, mostra il suo lato meno cupo, ma non per questo meno insidioso. Ogni qualvolta ci sentiamo attratti da questa recita trasgressiva, scorgiamo la stessa stravaganza che Svetonio nella Vita dei Cesari ritrovava in Nerone, in Caligola, in Eliogabalo. Ed è come se improvvisamente la sovranità porga il proprio orecchio all´altezza della voce di un popolo, ne ascolti (deliziata o irritata) i motteggi, gli insulti, la derisione, ma anche l´adulazione più sfacciata. Quel costrutto, minaccioso e ilare, non rinuncia tuttavia al suo mandato teologico, alla sua discendenza divina.
Come è possibile dunque che un potere, intangibile e remoto, legato alle ritualità del sacro, si nutra di una sostanza così greve? C´è un saggio di James George Frazer dedicato ai Saturnali e alla crocifissione del Cristo - che ora appare per la prima volta in italiano (La crocifissione del Cristo, pagg. 254, euro 16, curato ottimamente da Andrea Damascelli, edizioni Quodlibet) - nel quale si abbozza una risposta, in larga parte involontaria.
Nel 1890 - in uno di quei momenti in cui la storia si immagina felicemente in marcia - uscì Il ramo d´oro di James Georges Frazer. Era un´opera di intensa ingegneria spirituale nella quale agivano le forze razionali il cui compito era di spiegare su quale base il mondo umano aveva costruito le proprie civiltà. Frazer - figlio di un farmacista e del positivismo ottocentesco - andò a stanare il rapporto che l´umanità aveva da sempre avuto con la credenza, le superstizioni e naturalmente le religioni.
Tra quelle migliaia di pagine, che esordivano accostando un quadro di Turner a un bosco sacro dell´Italia arcaica, Frazer aveva inserito un capitolo dai tratti culturali esplosivi. Egli amava spesso divagare. Con la frenesia dell´accumulatore compilava lunghe annotazioni. Ma rispetto alle vaste comparazioni fin lì condotte quel capitolo, dedicato alla crocifissione di Cristo, sembrava una deviazione troppo netta. Una stranezza. Un´escrescenza. La provocazione che un ateo (almeno tale era stato considerato) lanciava contro il cristianesimo e le sue origini. La tesi, ancorché fragile nello sviluppo, era affascinante. Frazer - come in un gioco di scatole cinesi - immaginò che la passione e poi la crocifissione del Cristo per larghi tratti si potevano ricondurre al Purim, una festa ebraica che mostrava degli evidenti legami con le Sacee babilonesi e i Saturnali romani.
Frazer - colpito dal fatto che durante i saturnali c´era l´usanza di mettere a morte un finto re - descrive il modo in cui i soldati romani celebravano ogni anno quel rito cruento e pagano: «Trenta giorni prima della festa sceglievano tra loro, sorteggiandolo, un uomo giovane e bello, che veniva vestito con abiti regali perché assomigliasse a Saturno. Così ornato e scortato da uno stuolo di soldati, questi andava in giro in pubblico, autorizzato a dare libero sfogo a tutte le passioni e a gustare ogni piacere, per quanto vile e ignominioso». Allo scadere dei trenta giorni - durante i quali il falso re si permetteva qualunque licenza - l´impostore si dava o trovava la morte tagliandosi la gola. Era, il suo, un regno breve, gioioso ed efferato; burlesco, come saranno in seguito certi Carnevali italiani, ma anche sommamente tragico come dimostra l´anonima cronaca del martirio di San Dasio. Soldato romano, convertito al cristianesimo, e di stanza sul Danubio, Dasio viene prescelto per svolgere la parte del finto re. Il suo rifiuto lo condurrà al martirio e alla morte.
Ma cosa c´entra tutto questo con la festa di Purim? Nel Libro di Ester si narra della festa che venne istituita per commemorare la liberazione degli ebrei dal pericolo di cadere sotto il giogo persiano durante il regno di Serse. I contenuti di quel rituale liberatorio e gioioso richiamano, secondo Frazer, i tratti fondamentali delle Sacee babilonesi che sfociavano come è noto in un frenetico baccanale. In quell´occasione c´era l´usanza di mascherare uno schiavo da re. Quel sovrano provvisorio alla fine del suo "mandato" moriva sulla forca o, a volte, sulla croce. Anche nel Libro di Ester c´è un finale cruento e lieto. Fra intrighi di corte e complotti contro il re Assuero, si svolge la vicenda di Aman, visir del regno di Assuero e di Mardocheo, un ebreo influente e giusto che si rifiuta di onorare la carica di Aman e per questo è accusato dallo stesso Aman di congiurare contro il re. La pena richiesta prevede lo sterminio degli ebrei e l´impiccagione (o crocifissione) di Mardocheo. Ester, sposa di Assuero, implora il re di risparmiare il suo popolo, e svela che a capo della congiura c´è Aman che a quel punto il re fa giustiziare. Quanto a Mardocheo, che aveva fatto fallire il complotto, viene portato in trionfo. Aman, nella tradizione festosa del Purim, subirà, dice Frazer, una trasformazione parodica, diventando egli stesso un finto re, oggetto di scherno.
Molti studiosi hanno rilevato le forzature, l´approssimazione con cui l´antropologo accostava vicende storiche e letterarie molto diverse. In soccorso, almeno parziale, alle sue tesi, venne Edgard Wind, studioso d´arte legato alla scuola di Warburg che nel 1938 rianalizzò la morte di Aman riconducendola a un affresco di Michelangelo, e ad alcuni versi di Dante. In quell´affresco, un dettaglio della Cappella Sistina, l´esecuzione del Visir raffigura un uomo crocifisso. Aman come il Cristo? L´idea che la morte di Gesù fosse accostabile a quella di Aman, quantunque suggestiva aprirebbe una questione delicatissima.
Può il cristianesimo fondarsi su una parodia? Frazer si tenne alla larga da una simile conclusione (tanto è vero che espunse il capitolo sulla crocifissione da Il ramo d´oro e lo stesso Wind, ove avesse accolto pienamente una simile lettura, avrebbe visto sfigurarsi il volto stesso della storia. Sia Frazer che Wind non furono del tutto indenni alla suggestione che la passione del Cristo, pur nella sua tragedia, ricalcasse il paradigma del finto re: la corona di spine, lo scherno dei soldati, le grida della folla tumultuante erano indizi a carico di quella versione. Che il Cristo fosse una variante di quel modello parodico è stata in seguito respinta e smontata da gran parte degli studiosi.
Resta una questione che Frazer e Wind lasciano sullo sfondo: chi è il re? Vi è un potere che aspira alla regalità, all´unto, alla non contraddizione. Esso si serve di quel retroterra sovrannaturale, grazie al quale cerca di infondere ai propri gesti una natura divina. Al tempo stesso quel potere si può mostrare buffonesco, logorroico, impertinente. Esso ci appare come un mero scherzo, una maschera comica, segnata da una corona sbilenca e instabile sempre sul punto di rovinare miseramente al suolo. Di norma, quei re finti, scherzosi, gaudenti, che venivano eletti nel corso di una baldoria, avevano vita breve. Duravano il tempo della festa. Sufficiente tuttavia per mostrare il lato nascosto della sovranità.
Nella folle Ninive, racconta Frazer, si poteva incontrare un antico Ercole persiano dalle accentuate movenze femminee. Incedeva tra la folla come un re. A volte era un re, irriconoscibile: la biacca sul viso pallido, le ciglia annerite dal bistro, carico di anelli, catene e orecchini, con l´ascia in una mano e la coppa di vino nell´altra.
Chi vedesse in queste insegne ridicole il puro aspetto licenzioso e stravagante, perderebbe di vista quel bisogno che il potere a volte ha di mostrare il suo volto indegno. Il potere grottesco - che con il potere criminale condivide l´arbitrio assoluto - non è semplice rappresentazione teatrale, e non si esaurisce nell´acclamazione in vista di un riconoscimento. Il potere grottesco è l´altra faccia del carisma. La sua nudità. Che il sovrano, a volte, riveste di infamia.

Repubblica 9.11.07
Se Hamas e Al Fatah leggessero Shakespeare
di Adonis


Shakespeare dice che soltanto la lingua è in grado di «mutare il verde in rosso». Il problema è che noi arabi crediamo a questa capacità e alle sue conseguenze.

Mentre tutto ciò accade, la questione palestinese non soltanto assume l´immagine di una tragedia a cielo aperto, in cui vengono annientati una patria e un popolo, ma anche un´immagine che fa poco onore ai principi e ai valori per i quali quel popolo combatte, e poco importa se quei principi s´ispirino al panarabismo o all´Islam, oppure a entrambi. Da quest´immagine balza agli occhi una assurdità storica tale che per esprimerla servirebbe uno Shakespeare palestinese.

Malgrado l´assurdità dello scenario, non mi sorprende affatto che i palestinesi abbiano due governi contrapposti e che dinanzi a un unico nemico un solo esercito arabo si spacchi in due eserciti rivali. Né mi stupirà il fatto che la realtà palestinese si riveli un´anteprima, e in questo senso prefiguri la probabile immagine di tutti i paesi arabi. Quasi che l´immagine dei "feudi" sia alla radice della storia araba e del suo corso, e ne determini il destino se non s´invertirà radicalmente la prospettiva della storia, della sua connotazione religiosa, soprattutto se non si getteranno le basi per edificare una nuova società e scrivere un´altra storia.
Se vogliamo davvero cogliere l´essenza di quel che va accadendo, e la traiettoria futura, non dobbiamo fermarci a quel che affiora in superficie: eventi, interpretazioni, analisi, notizie, pubblicità, slogan, propaganda, canti e lodi per i leader. Dobbiamo andare oltre gli eventi: trascurare il fuso propagandistico che tesse soltanto vesti mimetiche, abiti che appena indossati invecchiano consunti.
E´ semplicistico e impreciso sostenere che Hamas sia soltanto un gruppo di fanatici estremisti. E´ molto più di questo. Rappresenta sogni storici, immaginario religioso e ambizioni represse che non riconoscono alcuna realtà o limite. E´ un´immagine che racchiude verità considerate universali, complete e definitive.

Lo si potrebbe sconfiggere in quanto "potere", ma non in quanto fenomeno socio-religioso dalla portata esplosiva, a meno che non si debelli alla radice il male che lo ha generato e che, prima ancora, ha dato vita a fenomeni simili. Combattere Hamas non tenendo conto di quelle radici e limitando gli sforzi ad eliminarlo in quanto "potere", vuol dire insistere con una terapia già decretata inutile dall´esperienza storica, passata e presente. Anzi, può avere un effetto contrario, e la terapia divenire essa stessa un "male". E´ accaduto altre volte: ci ridestiamo e vediamo che il "male" dal quale ci eravamo illusi di essere guariti, si è propagato. Lascio perdere gli esempi del passato, per ricordarne soltanto due, rilevanti, del presente. I risultati cui ha portato il regime di Saddam Hussein: soppressione del "potere" dei feudi senza riuscire a eliminare il fenomeno stesso. Prima di lui, toccò al regime di Nasser trattare con il "male" rappresentato da Sayyd Qutb (leader intellettuale dei Fratelli musulmani, ndr.), che fu arrestato e giustiziato. Ed ecco che ora Nasser è senza eredi e sempre più in declino, mentre i discendenti di Sayyd Qutb, sempre più numerosi, attivi e potenti, scuotono la struttura della società egiziana e i pilastri dello Stato.
Sia Nasser sia Saddam Hussein, malgrado le tante differenze che li separano, hanno costruito un "potere" ma non una società. E questo lo si può affermare per tutti i governanti arabi dei due secoli passati. In verità, la storia degli arabi negli ultimi duecento anni non è stata storia di scienza, arti, tecnologia, libertà e progresso, ma una storia di lotta per il potere, di lacerazioni, arretramento e cedimenti. Ed è una storia che continua tuttora.
Hamas-Al Fatah: una dicotomia che evidenzia la probabile o possibile frattura tra arabi musulmani. Una frattura del presente, portatrice della frattura del futuro. Ogni qualvolta la Palestina rivela, in quanto "questione", l´impotenza e la frammentazione degli Arabi, la frattura tra Palestinesi rivela la frattura della "realtà" araba. Forse i cuori dei musulmani sono con Hamas e sicuramente non tutte le menti sono con Al Fatah. Mentre Hamas sembra un passato che fagocita il presente, Al Fatah sembra un presente che fagocita il passato.
Non si può cambiare la realtà di Hamas con gli stessi metodi usati da Nasser contro i "Fratelli musulmani", o dai governanti arabi con i loro oppositori. E´ probabile che si riesca a cambiare il "potere" in questa realtà, ma ciò non varrebbe granché: si limiterebbe al controllo delle sue armi materiali. La forza di Hamas sta non solo in queste armi ma nelle basi religiose su cui si regge. Però nel frattempo la catastrofe tragicomica continua: il potere è "illusione", nella "realtà" in cui vive Hamas. Illusione che si regge sulla violenza. La violenza dell´illusione armata è più fatale della violenza della realtà armata, perché la prima parla e agisce in "vece" del cielo.
Non è quindi una violenza "assediata" da confini, perché li scavalca come se volesse "cancellare" la Terra stessa. Poiché la Terra, secondo Hamas, è Dar al-Islam (dimora dell´Islam) ovunque sia e ovunque si possa immaginare che essa sia, oltre le nazioni, le lingue e i Paesi, e oltre la storia. E´ un´estensione trans-continentale che attraversa le organizzazioni jihadiste islamiche in tutte le loro denominazioni, forme e varianti. Così Hamas sembra combattere la storia attuale rimanendo nell´orbita universale della storia islamica, mentre Al Fatah sembra combattere un nemico specifico e delimitato rimanendo nell´orbita del potere. Hamas è in ogni luogo islamico, Al Fatah è soltanto nella West Bank o a Gaza.

Per tutti questi motivi se Al Fatah vuole uscire dalla "logica" di Hamas, deve elevare il livello del conflitto, concentrarsi sulla costruzione del futuro e non sulla rievocazione del passato. Per riuscirci non c´è altra via che la fondazione di una società civile palestinese. Solo così potrà uscire dalla "illusione" e dalla "ambiguità" e dalla violenza che esse generano; di conseguenza potrà fondare una nuova società e nuovi valori, e costruire un presente diverso come nucleo e preludio di un´altra e diversa storia.
Senza dubbio Al Fatah rimarrà al di sotto della storia poiché noi possiamo interpretare Hamas valutandola col metro del passato, ma come interpretare e valutare Al Fatah? Il suo significato storico, culturale e sociale si fonda soltanto sulla differenza: sul fatto di essere l´antitesi di Hamas, specie nelle sue connotazioni religiose. Creerà così una frattura radicale con Hamas e darà legittimità civile e umana alla propria causa. E, cessando di subire gli eventi, innescherà una dinamica creativa.
Senza di ciò, Al Fatah, anche se conquisterà il potere, non sarà soltanto al di sotto della storia come il resto dei regimi arabi, ma sarà oggettivamente valutata, in un modo o nell´altro, da una mentalità religiosa che appartiene al passato, alle sue ideologie e alle sue illusioni.
In questo caso, quale sarà il suo significato?
Traduzione dall´arabo di Fawzi Al Delmi

Repubblica 9.11.07
Anticipazione / Esce un carteggio tra Pietro Ingrao e Goffredo Bettini
Parlando di cinema e di politica


Sarà presentato lunedì sera al teatro Argentina di Roma il volume A chiare lettere - Un carteggio con Pietro Ingrao e altri scritti di Goffredo Bettini (Edizioni Ponte Sisto di Roma, pagg. 220, euro 12). A discuterne saranno Giuliano Ferrara, Anna Finocchiaro, Mario Tronti e Sergio Zavoli coordinati da Barbara Palombelli. Anticipiamo qui parte di una lettera di Ingrao a Bettini.
«E´ vero - scriveva Ingrao a Bettini - ci sono due facce contraddittorie (ma è giusto chiamarle così?) della mia vita. Evidentemente io devo avere una "passione" per la politica che è tenace: altrimenti non si spiega come essa passione duri così a lungo, e ancora adesso - in un´età così avanzata - fatichi a spegnersi». Ingrao rispondeva ad un articolo di Bettini uscito su Paese Sera, Bettini rispose alla lettera solo molti anni dopo, ma il tempo pare non aver consumato il nocciolo forte del dialogo: la politica e il suo rinnovarsi continuo a contatto con la realtà. Nella fattispecie emerge l´esperienza di un uomo politico che ha vissuto intensamente il Novecento guidato, specie negli anni più maturi, dal dubbio e quella di un politico più giovane alle prese con una dimensione nuova della politica e con la necessità di non lasciare alla sinistra la sola identità forte dell´antiberlusconismo.
Ma attraverso queste lettere passa anche un discorso culturale, un dialogo fatto, per esempio, di passioni per il cinema che diventa termine emblematico di confronto con i problemi che il mondo si trova ad affrontare. «Tu - scrive Bettini a Ingrao - preferisci Umberto D a Germania anno zero. Sai che la penso diversamente. Il dolore nel finale di Umberto D. ... è per me più sopportabile: lo vive un uomo anziano, povero, senza famiglia. Un contesto lo spiega. È il risultato di una situazione particolare, anche se diffusa, nel dopoguerra italiano... In Germania anno zero il bambino che va verso il suicidio ha una vita di fronte, è bello, ha una famiglia, è pieno di sentimenti e di voglia di vivere... L´atto finale, quel precipitare improvviso nel vuoto, fa avvertire la precarietà della nostra condizione, appesa a una misteriosa combinazione delle cose...».
Ed è ancora un film, Monsieur Verdoux di Chaplin, nel brano di lettera che qui segue, che Ingrao usa per affrontare il problema terribile della pena di morte.

Repubblica 9.11.07
"Monsieur Verdoux" il film di Charlie Chaplin affronta in modo esemplare il tema della pena di morte
di Pietro Ingrao


Caro Goffredo, ti ricordi quel film singolare di Chaplin, Monsieur Verdoux? Se non sbaglio, uscì nel ‘47, all´alba della "guerra fredda". Non è fra le opere di Chaplin più belle. Ha delle parti curiose, messe nell´opera come per breve memoria: almeno, a me così sembra tutta quella parte - ricordi? - in cui il protagonista, un piccolo investitore rovinato dalla crisi (penso a quella cruciale del ‘29), fa vedere la sua breve famiglia: la moglie, un figlioletto, salvati dalla tempesta in un angolo sperduto della Francia. Ecco: tutta quella parte è un breve ritratto di maniera (...).
Alla fine dell´opera però, c´è una conclusione fulminante, che è il racconto scarno della fine di Verdoux in manette e dell´approdo al supplizio. (...) In piedi, ormai avviato alla morte, Verdoux dice così rivolto ai giudici: «Signori, l´accusa è stata piuttosto parca di complimenti, ma ha ammesso che ho cervello. La ringrazio signore, ha ragione, e per 35 anni l´ho usato in maniera onesta. Dopodiché non è tornato più utile a nessuno e io ho dovuto cercarmi una nuova attività. Carnefice? Credevo che il mondo li incoraggiasse i carnefici. Non costruisce forse armi con l´unico scopo di commettere carneficine? Non ha fatto forse saltare in mille pezzi bambini e donne ignare, con precisione persino scientifica? In confronto, io come carnefice sono un dilettante...».
È un testo bruciante: in brevi, scarne parole, è un giudizio sul secolo (...). Che io mi ricordi forse è l´unico - brevissimo - testo di Chaplin in cui egli evoca il drammatico senza concedere nulla al buffo. Non vediamo il patibolo. Sappiamo solo che per l´omino al termine di quel cammino c´è l´uccidere: l´essere umano che uccide l´altro essere umano, che pure adesso è in suo assoluto possesso: inerme ormai, i polsi serrati nelle manette.
(...) Nei suoi modi la favola di Verdoux sembra tornare. Stavolta il mondo intorno al protagonista non è più la Francia. Siamo all´estremo dell´Occidente: in California. Protagonista è un bandito delle parti di Los Angeles, che si chiama, se ho annotato bene, Stanley Williams, detto "Tookie". Williams nasce e cresce in un ghetto povero della periferia di Los Angeles. E mette in piedi, nel 1969, con Raymond Washington, un´organizzazione criminale che prende il nome di "Crips": insieme danno vita a un´ondata di violenza e di delitti. A Williams sono stati addebitati l´assassinio di Albert Ovens, di Tzai-Shai Yang, di Yen-lo Yang e Yee Che Lin, compiuti nel corso di più rapine separate. Dice un testimone che «Williams stava uccidendo tutta la gente bianca». Ma viene sterminata anche la famiglia di Yang, che era immigrata da Taiwan.
L´arresto di Williams è del marzo del 1979, quasi trenta anni fa. E l´accusa denuncia efferati incitamenti di Williams ad assassinare la polizia, e commissionare delitti anche dall´interno della prigione dove è stato rinchiuso. Poi Williams ha una svolta nella sua vita. Ripudia quel passato sanguinoso. Scrive nella prigione libri per bambini in cui sostiene la non-violenza. Amici, che l´hanno conosciuto in quegli anni di carcere e di svolta, addirittura propongono il Williams per il premio Nobel per la pace. E vengono raccolte firme per chiedere clemenza. Ma il "regolatore" californiano Arnold Schwarzenegger è inflessibile. Respinge la richiesta. Il 13 dicembre del 2005 Williams viene condotto al patibolo. Il boia, nell´eseguire la condanna, fatica a inserire nel braccio del condannato la siringa avvelenata. Poi è la fine.
Più o meno quasi tutti i giornali del mondo escono criticando il rifiuto della clemenza. Ma presto - già il giorno dopo - altri eventi incalzano nel globo. La storia di Williams cade subito nell´oblio. Anche coloro che si erano commossi sono chiamati dalla vita ad altre premure, e su Williams scende la cupa cappa del silenzio. Ancora una volta, nei secoli, sulle terre del globo è tornata la pena di morte.

Corriere della Sera 9.11.07
Dibattiti. Piattelli Palmarini risponde ai rilievi di Boncinelli e Pievani sul «Foglio»
Tra Dio e Darwin meglio ascoltare la natura
«Ma superare l'evoluzionismo non vuol dire credere a un disegno esterno»
di Massimo Piattelli Palmarini


Il mio articolo di critica al neo-Darwinismo ortodosso, pubblicato domenica 4 novembre nelle pagine di cultura del Corriere della Sera, ha trovato un'ampia e positiva eco su Il Foglio del 6 e 7 novembre. Sono grato al direttore, ai redattori e ai collaboratori di quella testata per la gentile attenzione rivoltami, per il fedele riassunto degli argomenti da me trattati e per una lusinghiera biografia. Intelligentemente, Il Foglio ha consultato due qualificatissimi colleghi e amici, il genetista Edoardo Boncinelli e lo storico della scienza Telmo Pievani. Con loro sono da tempo in perfetta sintonia sul modo di ri-pensare l'evoluzione. Vorrei qui rassicurare Pievani che sono lungi dall'invocare qualsiasi intervento «esterno» e Boncinelli che sono lungi dall'invocare un'alternativa all'evoluzione. Arricchimento sì, alternativa no. Da loro mi distanzio solo per quanto riguarda alcune valutazioni espresse sul peso delle cose che dico in quell'articolo e sull'opportunità di dirle.
Boncinelli mi accusa garbatamente di «dire cose vecchie» quando faccio presente l'intreccio delle regolazioni dei geni maestri (sui quali lui stesso e i suoi colleghi hanno lavorato tanto) e di dire «un'ovvietà» quando sottolineo l'importanza delle leggi della fisica nel fornire grandi linee maestre e insospettate leggi di ottimizzazione per lo sviluppo degli organismi viventi. Alcune delle scoperte alle quali mi riferisco in quell'articolo sono vecchie di circa vent'anni, ma quasi ogni mese vengono pubblicate scoperte nuove e spesso sbalorditive. Per esempio l'intero campo della giunzione alternativa di segmenti di geni (alternative splicing) è in pieno e tumultuoso sviluppo, al Broad Institute di Cambridge Massachusetts (congiuntamente di Harvard e del Mit) e la prima sintesi comprensiva sull'argomento è del 2006. I lavori sulle ottimizzazioni biologiche spontanee delle quali parlavo spaziano dal 1999 al 2006, quindi non sono poi tanto vecchi.
Christopher Cherniak e colleghi all'Università del Maryland hanno sudato per ben due anni (dal 2002 al 2004) a soddisfare le obiezioni dei recensori scientifici, prima di poter pubblicare il loro articolo sull'ottimizzazione naturale (innata ma non geneticamente determinata) delle connessioni nervose, dal verme al macaco. Non proprio il trattamento riservato a chi dice un'ovvietà. Sia Boncinelli che Pievani dichiarano che i darwinisti ortodossi sono, oggi, una minoranza, che quanto affermo è ormai condiviso dalla maggioranza dei biologi e dei genetisti e che, quindi (lasciano capire), avrei agitato una tempesta in un bicchier d'acqua. Li smentisce l'eco immediata e notevole suscitata dal mio articolo, i messaggi di posta elettronica che sto ricevendo (in maggioranza di apprezzamento, soprattutto da professori di biologia dei licei), il folto pubblico che mi ha onorato al Festival di Genova e la nutrita discussione che ne è seguita (alla quale Pievani era presente). Se anche fossero cose vecchie e ovvietà, non sembrano essere state abbastanza divulgate. Ma vengo adesso ai colleghi ascoltati da Il Foglio, dai quali, invece, parzialmente dissento. Il corsivista riporta correttamente le parole del cardinale Christoph Schoenborn, che invitava, in un suo celebre articolo del 2005 (pubblicato sul New York Times), a «superare la visione materialistica dell'evoluzionismo». Il cardinale ed io concordiamo (in sintonia con i laicissimi biologi Stephen Jay Gould, Richard Lewontin e Stuart Kauffman) nel rivendicare il ruolo centrale giocato nell'evoluzione della vita dalle leggi della forma e da principi universali di coordinazione e ottimizzazione molto generali ed astratti. Ma anche questa è una visione perfettamente materialistica. Complessa, astratta, ma materialistica, proprio come lo sono la fisica e le sue leggi. L'antropologo e paleontologo monsignor Fiorenzo Facchini, nella sua intervista a Il Foglio, dice tantissime cose con le quali concordo, in particolare che esula dalla scienza trovare «il significato di un mondo che ha una sua storia evolutiva ». Su questo, a mio giudizio, Montale, Goethe e Borges ci hanno detto molto. Dissento, però, quando afferma: «L'evoluzione non può dimostrare, ma neppure escludere la sfera trascendente».
Invece penso proprio che la escluda, almeno quando si resta in ambito scientifico. Introdurre il trascendente violerebbe il patto scientifico, che consiste nello spiegare la natura restando nel naturale. Il significato del mondo, appunto, esula dalla scienza e ciascuno lo cerca a suo modo, nella letteratura, l'arte, la filosofia, la musica e, ovviamente, i credenti nella religione. Ma la spiegazione dell'evoluzione biologica è, per contratto intellettuale, impresa estranea al trascendente. Vengo infine al genetista Giuseppe Sermonti, il cui pezzo del 7 novembre assimila la selezione naturale a enti inesistenti congetturati dagli scienziati di altri tempi. La selezione naturale, a differenza di quanto afferma Sermonti, è ben reale ed avviene da miliardi di anni e avviene anche dentro di noi mentre leggiamo questo articolo (anticorpi, cellule del pancreas, cellule epiteliali, per non parlare delle connessioni nervose). Che non basti da sola a spiegare l'evoluzione e vada integrata con molti altri complessi meccanismi è quanto anche io sostengo, ma assimilarla all'inesistente flogisto degli antichi alchimisti e all'inesistente etere dei fisici di inizio Novecento è scorretto. A differenza di quanto afferma Sermonti, c'è continuità tra la genetica di popolazioni e l'evoluzione dei viventi, così come c'è continuità tra la biochimica e l'embriologia. Parafrasando nel presente contesto una bella espressione di Bertrand Russell, è un errore ritenere che, siccome la selezione naturale non è sufficiente, allora essa non è nemmeno necessaria.

Redattore sociale 8.11.07
Psichiatria 2007
Lo 0,4% degli italiani colpito da schizofrenia; il 55% non guarisce


Roma - Disabilita', stigma, isolamento. Senza contare le difficolta' per i familiari e i servizi assistenziali. Sono solo alcuni dei problemi derivanti dalla schizofrenia, uno dei disturbi mentali piu' gravi e invalidanti, che generalmente colpisce nella fascia di eta' compresa tra i 15 e i 35 anni, e che nel nostro paese, attualmente, coinvolge circa 150 mila persone (245 mila, invece, equivalente a circa il 0,4% della popolazione, nel complesso, gli individui che sono, o sono stati affetti, da disturbi di tipo schizofrenico). "Un fenomeno che non e' in aumento, ma che si segnale stabile. Noi ci aspettiamo dai 10 ai 20 nuovi casi ogni 100 mila abitanti" spiega Mirella Ruggeri, della Societa' italiana di epidemiologia psichiatrica, che questa mattina ha partecipato, al ministero della Salute, alla presentazione delle linee guida "Interventi precoci nella schizofrenia", promosse dal ministero e realizzate dalla Siep.
Ma anche un fenomeno che, come spiega Giovanni De Girolamo, dell'agenzia sanitaria regionale dell'Emilia Romagna, in circa cinquant'anni, ovvero da quando sono stati introdotti i farmaci, ha avuto un incremento di guarigione solo del 10%. "Erano, infatti, il 35% prima del 1956, mentre ora si attestano intorno al 45%". Con il conseguente risultato che il 55% delle persone colpite da schizofrenia non riesce ancora a trovare una via d'uscita dalla patologia.
E proprio per agevolare la ricognizione di validi strumenti per l'identificazione precoce di soggetti a rischio, il ministero della Salute a messo a punto le linee guida sulla schizofrenia, primo caso a livello internazionale, realizzate da un gruppo di lavoro multidisciplinare e destinate non ai medici di base, ma ai dipartimenti di salute mentale. Nell'elaborazione delle linee guida, il criterio prioritario sta nella distinzione tra "soggetti a rischio di schizofrenia" e quelli che si trovano al "primo episodio psicotico". Per i primi, l'efficacia degli interventi e' stata valutata assumendo come obiettivi la modifica del decorso di malattia o la prevenzione della sua insorgenza. Mentre, per quanto riguarda i pazienti al primo episodio psicotico, lo studio di valutazione ha portato ad una serie di raccomandazioni: da quella di attuare programmi di strutturati di identificazione e trattamento precoci dei soggetti al primo episodio, a quello di usare tecniche di "imaging" (come Tc e Mri) a supporto delle diagnosi, ma non in regime di screening, fino a quello di trattare farmacologicamente il paziente all'esordio psicotico, o nel periodo successivo all'esordio. (DIRE)
© Copyright Redattore Sociale

il Riformista 9.11.07
Provocazioni. Hilary Putnam continua la battaglia contro i sofismi
I filosofi della polenta, troppo mega e troppo micro
Speculazioni come quella di Galimberti su Heidegger danno un senso di appagamelo, ma in realtà non ci svelano nulla. Rimane la fame di conoscere la verità, che si nasconde nei dettagli, non nei grandi temi. Meglio il sano pragmatismo della cattiva letteratura della mente.
di Filippo La Porta


Qualche giorno fa ho ascoltato all'auditorium di Roma Tre l'ottuagenario Hilary Putnam che ripercorreva i temi della sua ricerca filosofica, è stato particolarmente avvincente. Duemila anni dopo, si continua la battaglia di Socrate contro i sofisti. Contro ogni relativismo e scetticismo postmoderni c'è stato assicurato che la verità esiste, ancorché sia fallibile e ovviamente condizionata dal linguaggio che usiamo per dirla. Non si esaurisce in un effetto retorico e anzi ci impedisce di parlare a vanvera di qualcosa. Putnam infatti, dopo molte svolte teoretiche, è approdato a una idea di «realismo naif», per cui la realtà esterna, che pure possiamo descrivere in tanti modi diversi, decide in ultima istanza se un nostro enunciato sia vero o falso. Il mondo non è perduto, anche se ne esistono innumerevoli versioni. La verità è conoscibile, benché la nostra conoscenza sia sempre esposta all'errore, come sottolinea uno dei nostri più acuti interpreti di Putnam, Massimo Dell’Utri. Una conclusione che da qualche conforto anche a chi, come me, dilettante di filosofia, cerca nelle opere letterarie le tracce, i frammenti di una verità che, al tempo stesso, è «inventata» e anche «trovata» dagli scrittori. Ma torniamo per un momento alla filosofia.
Da qualche tempo mi vado convincendo che i filosofi sono non tanto i nemici dell'umanità ma, paradossalmente, i nemici di ogni genuina curiosità verso il reale? Non mi riferisco tanto alla annosa querelle sulla fede nazista di Heidegger, un filosofo molto amato (nell'ordine) dalla spaesata sinistra, ipnotizzata dal suo stile signorile, dai critici letterari perché da una patina di ineffabile alle loro interpretazioni, dai poeti in virtù del suo aroma di «profondità». Anche se è vero che nella filosofia dell'insondabile Heidegger sia arduo distinguere tra un Lager e una fabbrica di automobili, e anche se resta singolare il fatto che una rivista come Micromega, che dovrebbe essere naturalmente attratta da sobri filosofi neoilluministi e neorazionalisti pulluli invece di heideggeriani e metafisici alquanto verbosi.
No, il punto è un altro. Direi piuttosto che il limite principale della filosofia consiste nell'illuderci di capire, d'un tratto - e con poche formule ingegnose -, il mondo, l'essere, la storia, etc... quando non riesce a mettere bene a fuoco neanche la realtà a noi più prossima. In questo senso, ovviamente, i filosofi analitici e anglofobi (accomunati più da uno «stile» che da una «teoria»), giustamente ossessionati da rigore, chiarezza, coerenza, adesione all'esperienza, etc. (e quando non siano interamente votati allo scientismo e a un naturalismo riduzionista) sembrano un po' meglio attrezzati rispetto ai continentali, inclini alla metaforizzazione e alla cattiva letteratura. In genere quell'illusione di dominio conoscitivo sulle cose - non lontana utilmente "testare" attraverso un inconfondibile "effetto-polenta", a lettura conclusa.
Prendiamo proprio un numero di Micromega uscito la primavera scorsa e dedicato, come del resto molti altri (tutti utilissimi per orientarsi nel pensiero contemporaneo) alla filosofia. C'è un contributo di Umberto Galimberti, peraltro pieno di osservazioni stimolanti, che si incarica di riassumere – e lo fa benissimo - il pensiero di Heidegger. Dopo aver letto l'articolo - almeno questa è stata la mia esperienza - ci si sente davvero "pieni", appagati. Si è convinti di aver capito, finalmente, il nocciolo della nostra epoca e dell'occidente: abitiamo l'era della tecnica, dove ha spazio solo il pensiero calcolante e la logica dell'utile, e dove le uniche domande sul senso dell'esistenza possono nascere da una esperienza del negativo, dell'essere gettati, etc.
Magnifico. Però, esattamente come dopo una scorpacciata di polenta, ci troviamo ad aver fame quasi subito! Il teorema Heidegger, qui sobriamente compendiato, da l'ebbrezza - lievemente sadica - di incapsulare l'intera realtà, dal Macintosh alla Coca-Cola, ma poi lascia tantissime cose importanti fuori del suo raggio. Come una volta osservò il pragmatico Richard Rorty, da poco scomparso, i filosofi sono degli asceti, nel senso che riportano la realtà alla sua "essenza", perdendo così di vista i "dettagli", che invece, apparentemente banali, sono quasi sempre più significativi.
Anche se il mondo sembra oggi sparire nelle sue simulazioni non siamo cervelli immersi in una vasca come in Matrix, e illimitatamente manipolagli. Le nostre innumerevoli "narrazioni" devono pur sempre confrontarsi con una realtà esterna che a loro resiste.

Liberazione 8.11.07
Il sociologo entra nel dibattito su sicurezza e società
Bauman: «Con la menzogna politica
i governi oggi corrono pochi rischi»
di Susanna Marietti


Secondo il famoso sociologo molti governi cercano di seguire la strategia sulla sicurezza made in Usa: le minacce
devono essere dipinte con i colori più sinistri, così se non accade niente è il risultato di abilità degli organi statali
Bauman: «Con la menzogna politica i governi oggi rischiano poco»

Zygmunt Bauman, sociologo di origini polacche rifugiatosi in Gran Bretagna giovanissimo, ha raccontato nelle sue opere la solitudine del cittadino globale (come recita il titolo di un suo notissimo volume) e la ‘modernità liquida' dei nostri tempi. La liquidità, nel lessico di Bauman, è la mancanza di punti di riferimento, di progetti unitari e direzioni definite da seguire. Nella prefazione a un libro curato dall'associazione Antigone di imminente uscita per le edizioni Carta scrive:
«Gli stati cercano oggi urgentemente nuovi fondamenti per la loro autorità e la loro richiesta di obbedienza. I fondamenti esistenti - la promessa, e in buona parte la pratica, dello ‘stato sociale' che assicura i cittadini contro la sfortuna sofferta individualmente, benché originata socialmente - sono stati progressivamente indeboliti e rischiano di venir smantellati del tutto. La custodia della sicurezza personale sembra allora essere un'alternativa attraente».

In Italia viviamo in questo senso una situazione esemplare. Centrodestra e centrosinistra fanno a gara nel denunciare i pericoli drammatici delle nostre città, nonostante gli omicidi siano nettamente in calo e gli altri reati siano più o meno stabili da decenni. Eppure si distraggono le persone dai problemi di natura sociale, indirizzando il loro sguardo verso la parte economicamente debole e di conseguenza non integrata della società.
Certo. Per rendere efficace questa nuova legittimazione dell'autorità statale, i governi sono tentati di esagerare in ogni modo l'intensità delle minacce alla sicurezza. Essi hanno anche un disperato bisogno di dimostrare la propria fermezza nel combattere queste minacce stroncando il pericolo sul nascere. Nello sforzo di soddisfare entrambi i bisogni mantenendo un umore di costante emergenza, la menzogna politica si dimostra un espediente ideale. E curiosamente i cittadini quando vengono sottoposti a forti restrizioni delle proprie libertà personali, come interminabili controlli agli aeroporti o telecamere disposte ovunque, tendono a essere grati piuttosto che a sentirsi disturbati. Ricevono la dimostrazione che lo stato li protegge contro pericoli inimmaginabili in cui altrimenti si imbatterebbero… In molti acconsentirebbero a rinunciare a una buona parte delle proprie libertà personali per la sicurezza così intesa.

Il ricorso alla menzogna politica, dunque, porta a far sacrificare di buon grado quote di libertà personale.
Due minacce incombono oggi sul futuro della democrazia e dei diritti umani, nonché sulle speranze di far fronte seriamente alle sfide della nuova interdipendenza planetaria: i segreti di stato e le menzogne politiche. Entrambe le cose sono in rapida crescita ed entrambe sono usate per far spostare la legittimazione dei poteri locali e statali dalla sicurezza sociale a quella individuale. La menzogna politica, al contrario dei segreti di stato, è urlata a gran voce ‘per il bene dei cittadini'. Ma la sua efficacia nell'assalto alle libertà personali si basa sul presupposto che lo stato sa cose che i suoi cittadini non sono in grado di venire a sapere ed è meglio che non sappiano.
Il ricorso a una menzogna politica comporta un rischio minimo. Lo stato fabbrica un'informazione che finge di possedere, benché di nuovo ‘per il bene dei cittadini' non possa rivelarne i contenuti e le fonti. Ogni domanda posta dagli scettici è così squalificata in anticipo e costretta a rimanere senza risposta. Visto che tutte le possibili prove sono ben nascoste nel regno inaccessibile dei segreti di stato, il bluff non potrà mai venir scoperto. Nel caso in cui l'inganno venga messo a nudo da successivi eventi che lo stato non può controllare - come nel caso delle armi di distruzione di massa che Saddam Hussein doveva essere in grado di rovesciare sulle isole britanniche in meno di un'ora - questi può ancora contare sulla deplorevolmente corta memoria pubblica e sulle ben note fluttuazioni della pubblica attenzione. La menzogna sarà rapidamente dimenticata, oppure al momento della sua rivelazione non sarà più al centro dell'interesse pubblico. Mentire è oggi sicuro come mai prima: se gli allarmi dello stato su un imminente disastro non trovano conferma, non si sarà mai in grado di decidere se la minaccia non si sia materializzata grazie alla vigilanza del governo e all'efficacia delle sue contromisure o perché si basava su invenzioni.

Nella modernità liquida i rifiuti umani divengono sempre più numerosi.
Lo ‘stato sociale', quel coronamento della lunga storia della democrazia europea che fino a poco fa ha costituito la sua forma dominante, è oggi in ritirata. Esso fondava la richiesta di lealtà e obbedienza da parte dei cittadini sulla promessa di assicurarli contro la disoccupazione e l'esclusione, contro l'assegnazione alla condizione di ‘rifiuto umano' delle sfortune individuali, inserendo certezza in quelle vite altrimenti preda e dell'imprevisto. Se individui sfortunati inciampano e cadono, ci sarà qualcuno pronto ad aiutarli a rimettersi in piedi. Le instabili condizioni di occupazione dovute alle leggi del mercato erano allora, e continuano a essere, la maggiore fonte di insicurezza rispetto alla condizione sociale e all'autostima personale. Fu in primo luogo contro questa insicurezza che lo stato sociale prese a proteggere i suoi cittadini. Questo oggi non è più il caso per molte ragioni, tra cui principalmente la globalizzazione e la redistribuzione globale dei suoi rifiuti, processi gemelli che gli unici attori politici effettivi, gli stati nazione, non possono arrestare né influenzare seriamente. Gli stati attuali non possono mantenere la promessa dello stato sociale, e i loro politici neanche la rinnovano. Le politiche di questi ultimi preannunciano invece un'esistenza ancor più precaria e ossessionata dal rischio. Si chiede agli elettori di essere ‘più flessibili' - cioè di prepararsi a un'ulteriore futura insicurezza - e di cercare individualmente le proprie soluzioni ai problemi socialmente prodotti….

In Italia, l'ultima frontiera dell'emergenza è costituita dai rumeni.
A differenza di quanto accade con l'insicurezza, tangibilissima e quotidianamente esperita, prodotta dai mercati, i quali non hanno bisogno di alcun aiuto da parte dei poteri politici eccetto essere lasciati in pace, la mentalità da ‘fortezza assediata' e da proprietà privata e corpi individuali minacciati deve essere coltivata attivamente. Le minacce devono essere dipinte con i colori più sinistri, cosicché non l'avvento dell'apocalisse preannunciata, ma al contrario la non materializzazione delle minacce possa essere presentata al pubblico spaventato come un evento straordinario, e soprattutto come il risultato di abilità, vigilanza, cura e buona volontà eccezionali degli organi statali. E' ciò che viene fatto, e con risultati spettacolari. Quasi ogni giorno, almeno una volta alla settimana, Cia e Fbi mettono in guardia gli americani dagli imminenti attentati alla loro sicurezza, mentre il Presidente americano continua a ricordare ai suoi elettori che «basterebbe una fiala, una bomboletta, una bottiglia introdotta in questo paese a portarci un orrore mai conosciuto prima». Questa strategia è copiata con impegno, anche se finora con ardore un po' ridotto per mancanza di fondi (ma non di volontà), da altri governi che sovrintendono alla sepoltura dello stato sociale.





Su iniziativa di alcune associazioni e di numerosi militanti iscritti ai quattro partiti di sinistra o animatori di importanti e significative strutture politiche, culturali e sociali è nata “Sinistra per Roma” che vuole contribuire alla costruzione di un movimento culturale e politico che abbia come obiettivo l’apertura di una fase costituente per la nascita di un nuovo soggetto politico a sinistra, unitario, plurale ed ecologista.
Le associazioni e i firmatari dell’appello pure convinti che un nuovo soggetto unitario a sinistra non può nascerete prescindendo dal ruolo decisivo dei partiti, sono altrettanto convinti che i partiti da soli, se non vi sarà una vigorosa spinta dal basso, non sono in grado di determinare questo esito, anzi rischiano di realizzare pericolose scorciatoie o di dar vita ad accordi dettati dalla solo necessità di eventuali difficoltà elettorali. Occorre invece indicare, con nettezza e coerenza, un percorso, una strategia, delle tappe. Insomma, impegnarsi in un lavoro politico, organizzativo e culturale di medio periodo per costruire una grande moderna sinistra, capace di rinnovare la politica e di ricostruire il rapporto tra politica, cultura e cittadini.
Per queste ragioni i promotori dell’appello (è in corso la raccolta delle adesioni ed è intenzione dei promotori superare, entro la fine del mese, le mille firme) sollecitano tutte le organizzazioni della sinistra e in particolare i gruppi dirigenti romani dei partiti del PRC - SE, PdCI, Verdi, Sinistra Democratica, affinché condividano con i promotori dell’iniziativa la proposta di avviare una fase costituente attraverso la formazione di una Assemblea rappresentativa di tutto il popolo della sinistra, e segnare così, unitariamente, in termini forti, il dibattito politico nazionale sul futuro della sinistra italiana.
Per rafforzare il carattere insieme unitario e propositivo dell’iniziativa si è deciso, assieme ai promotori di altre iniziative analoghe, di tenere entro la prossima settimana una riunione di tutti i firmatari dei diversi appelli. Nel corso della riunione saranno anche affrontati, in modo democratico e partecipato, i problemi da affrontare e gli intendimenti che dovranno emergere dalla grande assemblea cittadina di tutta la Sinistra di Roma prevista per lunedì 3 dicembre, con la partecipazione di personalità e rappresentanti di iniziative simili alla nostra maturate in altre città d’Italia.
“Sinistra per Roma” ha la sede presso L’Associazione Culturale di Monteverde, in Via di Monteverde 57.

Segue l’appello con le firme.


Sinistra per Roma
Un movimento politico per la costituente
Appello
(Roma, 12 novembre 2007)

L’unità della sinistra è necessaria e urgente, pena il suo inesorabile declino. È infatti essenziale porre fine alle divisioni e al frazionamento che rendono sempre più deboli le sue ragioni per la pace, la democrazia, la libertà, l’uguaglianza e la salvaguardia del pianeta. Occorre uno strumento adeguato ed efficace per dare una diversa e nuova rappresentanza politica al mondo del lavoro, ai movimenti pacifisti, ambientalisti e di tutela dei diritti civili. Una sinistra che sappia, inoltre, condurre una sfida politica e culturale anche nell’ambito del centrosinistra e nel ricercare convergenze e intese col Partito Democratico ne contrasti, con una sua specifica iniziativa, la deriva neocentrista nelle idee, nelle culture e nelle politiche. Una sinistra, infine, in grado di sostenere e assecondare i migliori valori collegati alla laicità dello Stato e che sia in grado di svolgere una critica di massa al sistema capitalistico e ai suoi dis-valori basati sull'individualismo e che, proprio perché intende misurarsi con i Democratici sul terreno dell’egemonia politica, operi per un’alternativa di società.

Per queste ragioni è indispensabile dar vita a un processo per la costruzione di un nuovo soggetto unitario della sinistra, plurale e di massa, aperto alla società e ai movimenti, insediato nel mondo del lavoro e nei territori. Un soggetto innovativo che recuperi il concetto migliore sia di rappresentanza diretta che di delega, oggi colpevolmente trascurati e sacrificati da una politica sempre più distante dalle esigenze dei cittadini e delle cittadine; un nuovo soggetto politico che sappia dunque sostenere – valorizzandoli – sia la partecipazione democratica sia il conflitto sociale e ricerchi un nuovo spazio pubblico per uscire da sinistra dalla crisi della politica. Pertanto proponiamo di realizzare un modello partecipativo che si basi su forme innovative e più avanzate di democrazia che realizzino una rottura con il modo attuale di fare politica – professione separata dalla società – e con i suoi alti costi. Un nuovo soggetto politico quindi in netta discontinuità con il carattere monosessuato della politica e con la pratica organizzativa piramidale, verticale e gerarchica e che traduca positivamente, tra quelle le rivendicazioni condivise delle comunità locali, prima di tutto sui temi del lavoro e dell’ambiente.

Siamo convinti che la proposta della “Federazione della Sinistra”sia inadeguata. e che per avviare il processo unitario di un nuovo soggetto politico sia decisivo aprire una vera e propria fase costituente, attraverso la formazione di un’ “Assemblea Costituente” rappresentativa di tutto il popolo di sinistra. Un’Assemblea eletta in termini democratici e che sia il risultato di un coinvolgimento popolare vero, dal basso, di rappresentanze dai territori. Dunque, un’Assemblea che vada oltre i partiti esistenti e i loro apparati. La convocazione pertanto degli “Stati Generali” deve essere l’occasione per un lavoro che abbia come risultato l’indicazione dei tempi, delle forme e delle norme con le quali giungere all’”Assemblea Costituente”.

La volontà dei gruppi dirigenti dei partiti di sinistra di lavorare su un progetto unitario è una condizione, ma da sola è insufficiente, anzi a lungo andare potrebbe diventare una pericolosa e fallimentare scorciatoia. Infatti, un soggetto politico unitario nuovo non può essere la sommatoria delle debolezze dei partiti Per questo occorre che si realizzino case della sinistra, laboratori sociali, momenti di aggregazione nei territori: luoghi aperti del confronto e della contaminazione per dare costante impulso e forza al processo costitutivo. Sul piano elettorale è necessario dar vita a liste unitarie a tutti i livelli, la cui formazione deve svolgersi in modo partecipato e trasparente. Le liste unitarie comunque non sono né un punto di partenza né un punto d’arrivo del processo costitutivo, bensì una tappa di un lavoro politico, culturale e organizzativo di lunga lena che non può esaurirsi con la composizione di unitarie rappresentanze istituzionali.

La grande area urbana di Roma è attraversata da drammatici problemi come la precarietà sociale, l’insicurezza di vita soprattutto per le nuove generazioni, la scarsa qualità dei servizi, l’insufficienza organizzativa delle strutture amministrative, il degrado ambientale e il consumo continuo di territorio, il caotico sviluppo urbanistico e l’inadeguatezza delle infrastrutture, il traffico congestionato. Il cosiddetto “modello Roma” sta assumendo le sembianze di un blocco sociale e di potere per la modernizzazione neoliberista della società romana. La necessità di una sinistra capace di dare risposte adeguate e di indicare un percorso di profonde trasformazioni dell’area metropolitana per una diversa qualità della vita è quindi forte e urgente, anche in considerazione del fatto che la sinistra governa insieme con il Partito Democratico in quasi la totalità dei Municipi, al Comune, alla Provincia e alla Regione.

È tempo dunque di promuovere e favorire un lavoro comune di analisi e proposta politica, un lavoro collettivo culturale e di iniziativa nel sociale e nelle istituzioni, per unire la sinistra su un progetto di cambiamento del Paese e attorno a un programma di governo per Roma, per la Provincia e per la Regione. Occorre favorire e sostenere tutte le attività di carattere politico e programmatico impegnate in questa direzione.

Per questo i firmatari del presente appello si fanno promotori, nella sede de “L’Associazione Culturale di Monte Verde”, storica struttura unitaria della sinistra romana, di “Sinistra per Roma”, con l’obiettivo di mettere insieme – in un sistema a rete - tutte quelle forze ed energie, singole personalità e militanti ma anche realtà associative e collettivi territoriali, che a Roma si riconoscono nella proposta di aprire una fase costituente per dare - da subito - forza e consenso popolare al processo costitutivo di un soggetto unitario e plurale della sinistra. Crediamo, inoltre, che “Sinistra per Roma” possa contribuire all’unificazione di tutte quelle iniziative analoghe per dare vita a un movimento per la costituente. Questo è il nostro impegno, la nostra finalità politica.

Intendiamo, lavorando in primo luogo con i partiti, anzi in stretta collaborazione con essi, dare - donne e uomini di sinistra della Capitale - il nostro fattivo ma autonomo contributo per realizzare l’unità della sinistra. Crediamo che questa nostra scelta sia importante e meritevole di essere condivisa e sostenuta. Per questo chiediamo che questo nostro appello sia pubblicato su tutti i siti delle organizzazioni della sinistra.

Firmatari:

Antonio ALCARO; Salvatore ALFIERI; Pino ARLACCHI; Andrea AMATO; Bruno AMOROSO; Bruno BARTOLOZZI; Mariella BACARINI; Paolo BERDINI; Stefano BOCCONETTI; Salvatore BONADONNA; Sergio BELLUCCI; Elena CANALI; Mario CANINO; Tommaso CAPEZZONE; Aldo CARRA; Antonio CASTRONOVI; Bruno CECCARELLI; Giulietto CHIESA; Armando CIPRIANI; Neno COLDAGELLI; Paola CORTESE; Mariopaolo DARIO; Anubi D’AVOSSA LUSSURGIU; Ivano DI CERBO; Carlo DRAGO; Maurizio FABBRI; Giorgio FABOZZI; Daniela FALCONE; Antonello FALOMI; Sergio FORTUNATO; Simone FUSCO; Pino GALEOTA; Paolo GENTILE; Fabio GRIECO; Claudio LAUDISA; Lino LELLI; Lucio LIBONATI; Enrico GIARDINO; Luciano IACOVINO; Francesco MANCUSO; Augusto MANGIONI; Vittorio MANTELLI; Paolo MENICHETTI; Raul MORDENTI; Antonio MURRI; Roberto NAPOLEONE; Franco OTTAVIANO; Carlo PATRIGNANI; Cirio PESACANE; Anna PIZZO; Giovannella PODESTA’; Raffaele PRINCIPE; Francesco PULIA; Simona RICOTTI; Mimmo RIZZUTI; Elio ROMANO; Vittorio SARTOGO; Enzo SCANDURRA; Roberto SCIACCA; Luisa SEVERI; Volfango SINISCALCHI; Ester STOCCO; Luigi TAMBORRINO; Corrado TEOFILI; Marco TIMARCO; Tommaso VACCARO; Alessandro VALENTINI; Sergio VASARRI; Anna Maria VIRGILI; Angelo ZOLA.

Hanno inoltre aderito le seguenti strutture:

Associazione AMBIENTE E SINISTRA – NODO AMBIENTALISTA; Associazione Culturale MONTEVERDE; ARS – Associazione per il Rinnovamento della Sinistra; Associazione SINISTRA EUROMEDITERRANEA; Associazione ROSSOVERDE per la sinistra europea; Circolo Culturale “A SINISTRA, PUNTO E BASTA!”; Forum LUIGI PETROSELLI – Uniti a Sinistra; Rivista LEFT; SINISTRA ROMANA – Uniti a Sinistra.

giovedì 8 novembre 2007

Corriere della Sera 8.11.07
Rifondazione vince la sfida. Veltroni: avete svuotato il testo
di Maria Teresa Meli


ROMA — Paolo Ferrero arriva alla Camera con l'aria trafelata. Il ministro rifondarolo del Welfare è reduce dall'ennesimo vertice a Palazzo Chigi. Finalmente si ferma, e sfodera un sorriso: «Abbiamo tolto dal decreto i punti inaccettabili e abbiamo ristretto i casi in cui sono possibili le espulsioni. Insomma l'abbiamo spuntata». Propaganda? «Macché — risponde Ferrero (e il sorriso scompare) — lo stesso premier romeno ha ringraziato il governo e ha detto che il problema per loro riguarda i sindaci che gestiscono le città italiane... Veltroni insomma ».
E dopo averla buttata là con l'aria di chi sta facendo una dichiarazione come un'altra il ministro del Welfare infila il portone di Montecitorio. Di certo Walter Veltroni non ha avuto modo di sentire le sue parole. Era al piano nobile della Camera, nella sede del neo-gruppo del Partito democratico a festeggiare il nuovo presidente dei deputati dell'Ulivo. Ma il sindaco di Roma non è un ingenuo, né tanto meno un politico non avveduto. Il primo cittadino della Capitale sa bene che per Rifondazione comunista quello del decreto (benché Ferrero l'abbia votato nel consiglio dei ministri straordinario convocato sull'onda dell'aggressione a Giovanna Reggiani) è il primo banco di prova del braccio di ferro con il Pd.
Non per niente il sindaco, mentre scende le scale che dal gruppo dell'Ulivo portano all'androne di Montecitorio, appena intercetta il presidente dei deputati del Prc Gennaro Migliore lo aggancia: «Perché mi attaccate?», è l'esordio non proprio cordiale. Ma Migliore è un napoletano a cui è difficile far perdere la pazienza. «Noi non stiamo attaccando te, è che quel decreto così come era stato fatto andava contro le direttive europee». Veltroni però insiste: «Avete detto che è colpa mia, che non so governare le periferie ma guarda che c'è un assessore che si occupa di queste aree ed è vostro». Il capogruppo di Rifondazione non ci sta: «Il problema lo sai, è un altro e il sindaco comunque sei tu. Non si può andare dietro alla destra per prendere voti». Veltroni, però, è veramente amareggiato e sa di avere dietro di sé il consenso degli altri sindaci del centrosinistra, da Leonardo Domenici a Cofferati: «Non capisci — insiste — che a me non interessa il consenso: a me interessa la sicurezza. Arriveranno migliaia di romeni in questo modo perché voi avete svuotato il decreto». «E allora fatti il tuo decreto alleandoti con i fascisti», è la replica di Migliore. Risposta velenosissima che però viene pronunciata senza alzare il tono della voce, se non altro perché i giornalisti, sebbene a debita distanza, stanno seguendo il siparietto tra i due.
Dunque Rifondazione (grazie anche a una direttiva Ue) è riuscita, ameno per ora, a costringere il governo a fare qualche passo indietro. Del resto, sin dall'inizio, nonostante il voto di Ferrero in Consiglio dei ministri, la posizione del Prc è stata ferma. I due capigruppo Migliore e Giovanni Russo Spena hanno fatto argine. Non era difficile. Il partito sente molto questa battaglia, perché, come spiega uno dei giovani deputati del Prc approdati alla Camera in questa legislatura, Giuseppe De Cristofaro, «tutto questo è accaduto solo perché l'omicidio è avvenuto a Roma, quando sono successe cose analoghe in altre città c'è stato il silenzio, invece ora bisognava salvare il sindaco che è anche il segretario del Pd».
Ma l'offensiva di Rifondazione non si ferma qui. Migliore propone di tenere iniziative del partito nei campi rom, di segno, ovviamente, del tutto opposto, alla visita fatta da Gianfranco Fini. «Il governo — è il ragionamento del capogruppo di Rifondazione — è una cosa, il Pd un'altra. E nel governo ci siamo anche noi». Come a dire: non potete sempre contare sul fatto che noi ci accodiamo alle decisioni del partito maggiore. D'altra parte, come afferma il segretario del Prc Franco Giordano, la sfida è tra la sinistra e «il modello moderato che propone il Pd». Una sfida che, c'è da scommetterci, continuerà almeno fin quando questa legislatura avrà vita. Chiosa il capogruppo della Sd al Senato Cesare Salvi: «Quel che è accaduto è la dimostrazione che la diarchia c'è. Ma questa volta ha vinto Prodi, che ha preferito il rapporto con la sinistra, cioè la tenuta della maggioranza, mentre Veltroni si sarebbe alleato anche con Fini...».

Corriere della Sera 8.11.07
Il premier e la strategia del muro di gomma
di Massimo Franco

Naufraga il dialogo con il centrodestra e il Pd deve fare i conti con Rifondazione

La tolleranza non è più «zero», come sembrava dopo le reazioni a caldo per l'omicidio di una signora a Roma, compiuto da un immigrato romeno. Il colloquio di ieri fra Romano Prodi ed il presidente della Romania, Tariceanu ha cercato di svelenire i rapporti fra Roma e Bucarest, chiamando in causa l'Europa. Ma soprattutto, il «no» del Prc al decreto ha costretto l'Unione, con in testa il Pd di Walter Veltroni, a ripiegare su posizioni meno rigide. Il risultato è il naufragio del dialogo fra maggioranza e centrodestra: un esito perseguito con freddezza da Fausto Bertinotti; assecondato da Palazzo Chigi; e accettato dalla coalizione per evitare una crisi.
L'immagine-simbolo di ieri è il colloquio fra Veltroni e il capogruppo del Prc alla Camera, Gennaro Migliore: col leader del Pd che lo rassicura contro l'eventualità di espulsioni indiscriminate di immigrati; e reagisce alle accuse virulente dell'estrema sinistra, di avere trascurato le periferie capitoline. Sono conferme di una coalizione costretta a tenere conto dei propri alleati; e trattata con feroce ironia da un'opposizione che non ha mai creduto alla possibilità di un accordo trasversale sulla sicurezza. Anzi, probabilmente non l'ha neppure cercato, alzando fin dall'inizio l'asticella delle richieste.
La sensazione è che Prodi lo avesse intuito. Così, dopo avere subito la pressione di Veltroni a trasformare le misure del governo in un decreto, ha lasciato che il segretario del Pd insistesse sulla «tolleranza zero» contro gli immigrati, soprattutto romeni, autori di reati. Ma il saldo è un'offensiva della sinistra radicale contro un Pd accusato di «inseguire i fascisti e la Lega»; e un governo indotto anche dalle leggi europee ad assumere un profilo meno arcigno. Si è visto nell'incontro fra Prodi e Tariceanu.
Il presidente del Consiglio se l'è presa con «le minoranze criminali» e con le «minoranze xenofobe». Ed ha assicurato che gli episodi dei giorni scorsi «non hanno nulla a che fare con la nazionalità di chi li ha commessi...». Il sigillo è stato messo ieri sera in Parlamento. Non ci sarà nessun «allontanamento indiscriminato di massa», hanno garantito Prodi e il Viminale. «D'altronde, un voto bipartisan con chi ha posizioni razziste», secondo il ministro del Prc, Ferrero, «sarebbe stato una iattura».
Per il fronte berlusconiano sono notizie buone a metà. Certo, rilanciano lo schema di un governo «ostaggio di Rifondazione». Permettono di puntare il dito ironicamente contro i segnali inviati nei giorni scorsi dal Pd veltroniano all'elettorato moderato. Ma la frattura non porta ancora alla crisi di governo sulla quale Silvio Berlusconi ha investito un pezzo della propria credibilità. Lamberto Dini continua ad essere scontento, ma non rompe. E Prodi sprizza ottimismo. Il governo è sopravvissuto anche ieri, e questo per il momento sembra bastargli.

Repubblica 8.11.07
Il premier romeno Tariceanu: troppe dichiarazioni infiammate, non si condanna un popolo intero per le colpe di una minoranza
"Dalla destra parole che evocano il fascismo mi ha deluso anche l’attacco di Veltroni"
di Vincenzo Nigro


ROMA - «Con il governo Prodi c´è una vera sintonia, abbiamo deciso insieme di affrontare nel modo giusto il problema della criminalità romena in Italia. Ma nelle dichiarazioni infiammate di alcuni leader politici italiani io semplicemente sento qualcosa di intollerabile, che mi richiama l´epoca fascista. Non è accettabile, oggi, in Europa». La giornata di Calin Tariceanu è stata lunga e faticosa. In tutti i suoi incontri il premier romeno ha sempre difeso la legge, ha condannato chi la viola, e quindi ha difeso la «legge naturale» per cui non si condanna un popolo intero per i crimini di pochi. Un messaggio che ha ripetuto con forza, di continuo, rivolto soprattutto ai leader politici italiani, compreso il sindaco di Roma Walter Veltroni.
«Io sono veramente preoccupato, e uso un eufemismo per non dire di più, per le dichiarazioni di alcuni esponenti politici della destra italiana: capisco le reazioni per l´assassinio di Giovanna Reggiani, ma sentire qualcuno che specula con parole incendiarie, che dice «bisogna cacciare l´ambasciatore romeno», «bisogna cacciare 200 mila romeni» è un´incredibile sorpresa. E´ come sentire parole che sono più adatte all´epoca fascista. Con Romano Prodi abbiamo la stessa idea dell´Europa: l´Europa è un luogo in cui cooperare insieme, quando abbiamo problemi dobbiamo trovare insieme le giuste soluzioni, ma naturalmente seguendo le leggi che esistono, che prevedono di rispettare i diritti degli individui, e i diritti umani».
Il sindaco di Roma Walter Veltroni è stato uno dei politici italiani più attivi nel chiedere la punizione di chi ha commesso crimini. Lei lo ha criticato. Ma cosa avrebbe fatto se fosse stato lei il sindaco di una grande città i cui cittadini sono minacciati dalla violenza di alcuni cittadini stranieri?
«La mia percezione è che la xenofobia non sia una caratteristica italiana, so che l´Italia ha un carattere tollerante. E posso capire che una serie di atti criminali possa provocare una risposta emotiva dell´opinione pubblica. Quello che non posso capire è che qualcuno che ha avuto un comportamento più passivo che attivo nei confronti dei problemi, all´improvviso capisca di essere davanti a una situazione drammatica e punti il dito nella direzione sbagliata. Il fenomeno della creazione di campi in cui molte persone vivono in modo non integrato non è un problema nato ieri. Tutto questo è successo da anni, sotto gli occhi tolleranti delle autorità locali. All´inizio probabilmente c´erano solo una o due famiglie: ora ci sono campi di centinaia di persone. Questo è un problema delle autorità locali italiane. Per questo - se fossi sindaco di una grande città - non approfitterei di quella che è stata anche una mia mancanza di azione per poi usarla a fini politici».
Allora: lei chiede «tolleranza zero» per il passato, lamenta che non si sia fatto abbastanza nel passato, ma poi lamenta che i sindaci italiani chiedono misure dure oggi?
«Guardi, io dichiaro per oggi e per sempre che ogni cittadino romeno deve rispettare la legge dei paesi in cui vive, in Romania, in Italia, ovunque. Non c´è nessuna tolleranza su questo, e le autorità italiane hanno il diritto di prendere le loro decisioni. Ma non con misure amministrative, o magari con misure che possano configurare abusi nei confronti di questi cittadini. Sarebbe preferibile adottare misure preventive. E tra l´altro devo dire che ci sono città in cui i problemi vengono risolti meglio, ci sono città in cui forse non sono stati creati gli stessi problemi che sono stati creati a Roma. Per esser franco, non mi sarei mai aspettato di vedere il sindaco di Roma sostenere posizioni che non sono consone al suo profilo politico».
Insisto: lei prima dice che i sindaci non hanno fatto "tolleranza zero" a suo tempo, adesso accusa Veltroni di aver chiesto di espellere i criminali. E lei sa bene che né i sindaci né il governo italiano stanno organizzando espulsioni di massa.
«Le spiego: io faccio una chiara differenza tra la necessità di prendere misure anche dure e le dichiarazioni che possono infiammare la situazione. Ogni leader politico deve essere cauto quando parla pubblicamente. Leggiamo bene le statistiche: non c´è nessun indicatore che dice che i romeni siano coinvolti più di altri in attività criminali, questo deve essere chiaro. Aggiungo una cosa: non so se lo sapete, ma in Spagna ci sono tanti romeni quanti in Italia. Perché non abbiamo lo stesso problema lì? Non voglio accusare le autorità italiane, ma c´è un modo differente in cui le autorità trattano questo fenomeno, anche in Italia cambia di città in città. Questi temi vanno affrontati insieme, come abbiamo iniziato a fare oggi con il governo italiano, e con la visione di popoli che vogliono vivere insieme in Europa».

Corriere della Sera 8.11.07
«La Chiesa paghi l'Ici». Ma il «fronte cattolico» ferma i socialisti
L'emendamento raccoglie solo 12 voti a favore. No dei Democratici, sinistra astenuta. Angius: sconcertante
di Roberto Zuccolini


ROMA — Nelle intenzioni dei socialisti era una «crociata laica» per annullare l'esenzione dell'Ici alla Chiesa. Ma alla fine si è trasformata in una batosta: solo 12 senatori a favore, 240 contro (tutta la Cdl e i moderati dell'Unione), 48 astenuti, cioè la sinistra radicale con qualche eccezione. Una sconfitta che ha trovato nella compattezza del Pd un suo punto di forza. Perché in questo caso il partito di Veltroni non ha avuto un'ombra di dubbio nel votare contro e a difesa della Chiesa. Tanto che Gavino Angius, uno dei massimi sponsor dell'emendamento, che in quel momento presiedeva l'aula di Palazzo Madama, grida al «tradimento ». Mentre l'Udeur, al contrario, minaccia «mani libere» per il precedente di un gruppo dell'Unione, anche se minoritario, che non osserva la ferrea disciplina del Senato, dove la maggioranza ha pochissimi voti in più della Cdl.
L'emendamento all'articolo 2 della Finanziaria parte con una versione molto severa nei confronti della Chiesa: abolizione dell'esenzione anche per le attività non a fini di lucro. All'ultimo momento il primo firmatario, il socialista Accursio Montalbano, toglie quest'ultimo riferimento, ma non accoglie il pressante invito del relatore della Finanziaria Giovanni Legnini a ritirare l'emendamento. Si apre subito la discussione e intervengono un po' tutti i gruppi. Dal centrodestra arrivano accuse di «dibattito ottocentesco» e «anticlericalismo di principio». L'udc Francesco D'Onofrio parla di «laicismo deteriore» e di «regole vessatorie per le istituzioni caritatevoli».
Dai moderati dell'Unione, in particolare dal Pd, giungono invece inviti a considerare che, di fatto, c'è già una trattativa aperta tra Stato e Vaticano per risolvere il problema, anche alla luce della lettera inviata dalla Ue all'Italia per fare chiarezza sull'argomento. Ragionamento che suggerisce alla sinistra radicale di scegliere per l'astensione (che comunque al Senato vale come voto contrario). Così come spiega la combattuta Rina Gagliardi, di Rifondazione Comunista: «Noi vorremmo votare questo emendamento, ma il senso di responsabilità ci fa esprimere una scelta diversa e sofferta. Speriamo che analogo senso di responsabilità sia diffuso in tutte le componenti della coalizione». Protesta Montalbano: «Mi pare serpeggi una sorta di invito garbato ad una disciplina di maggioranza rispetto a temi di questa natura». Ma alla fine, oltre a se stesso e all'altro socialista Barbieri (Angius presiedeva l'aula) l'emendamento accoglie il «sì» di appena altri dieci senatori tra cui il verde Marco Bulgarelli, il repubblicano Antonio Del Pennino, l'ex di Rifondazione Franco Turigliatto e Furio Colombo.
Ma la scelta del gruppetto, oltre alle dichiarazioni pro astensione della sinistra radicale, non piacciono affatto al capogruppo dell'Udeur, Tommaso Barbato, che avverte gli alleati: «Prendiamo atto dell'atteggiamento della sinistra su questo punto e, di conseguenza, ci sentiamo liberi di comportarci in maniera analoga nel prosieguo dell'esame della Finanziaria ». Alla fine la bocciatura è sonora. Luigi Lusi dell'Ulivo tira un sospiro di sollievo: «Il testo dei socialisti era schizofrenico perché avrebbe colpito sia le mense della Caritas che alcune associazioni laiche». L'ex ds Gavino Angius parla invece di «voto semplicemente sconcertante». Quello del Partito democratico, «sorprendente, ma non troppo per via dell'abbraccio con i settori teodem dell'ex Margherita». Ma, soprattutto, quello di Rifondazione Comunista: «La sua astensione ha veramente dell'incredibile. Come quella di Sinistra democratica, Verdi e Pdci. Forse più che radicale questa sinistra è diventata ormai flessibile».

Corriere della Sera 8.11.07
Binetti: soddisfatta Giusta la laicità, non l'anticlericalismo
di L. Sal.


ROMA — Paola Binetti risponde al telefonino che la seduta è finita da poco.
«Grazie, grazie, grazie...», risponde ad ogni senatore che le passa davanti e si complimenta infilandosi il cappotto. Quasi fosse proprio lei, la numeraria dell'Opus Dei voluta in lista da Francesco Rutelli, l'artefice di quella maggioranza bulgara che ha detto no all'emendamento sull'Ici e la Chiesa. «In effetti — spiega la senatrice — mi ero attivata cercando di capire quale sarebbe stato il risultato. Avevo parlato con tante persone.
Ecco, davvero non speravo che sarebbe andata così bene». «Scontato» il no dell'opposizione, «responsabile» l'astensione della sinistra radicale «perché ha fatto vedere il suo dissenso senza compromettere la maggioranza». E soprattutto «incoraggiante» il no di Ds e Margherita, cioè del nascente Partito democratico. Perché incoraggiante?
«Perché nella nuova formazione gli atteggiamenti potranno essere anche molto diversi. Ma questa compattezza è il segnale che nel Pd la cifra della laicità non sarà l'anticlericalismo bensì quella della ragione, che vuol dire difendere le attività che servono al bene comune senza fare battaglie ideologiche». E se quell'emendamento fosse passato? «Per un emendamento non cade il governo ma, certo, saremmo molto dispiaciuti. Perché magari si può anche discutere del problema dell'Ici e della Chiesa, ma non fare un colpo di mano come questo, infilando due righe in Finanziaria. Magari la gente non va a Messa e critica certi atteggiamenti dei preti o dei vertici della Chiesa. Ma poi quasi tutte le famiglie possono contare materialmente sul loro aiuto. E questa è una ricchezza che va difesa, altrimenti a perderci è tutto il Paese».

l’Unità 8.11.07
La Chiesa si salva anche stavolta
L’emendamento dei socialisti sugli immobili non passa
di b. di g.


La Chiesa si salva ancora, grazie al voto congiunto di maggioranza e opposizione. L’emendamento dei socialisti sul pagamento dell’Ici per gli immobili della Chiesa adibiti ad attività commerciali non viene ritirato. Il gruppo insiste, ma l’assemblea boccia compatta: 240 i contrari, 12 i senatori favorevoli e 48 gli astenuti (che in Senato corrispondono ai contrari).
A nulla è valso l’appello di Accursio Montalbano che durante la dichiarazione di voto aveva chiesto ai colleghi della maggioranza di trasgredire la disciplina di partito «almeno» in ciò che non tocca la manovra nei suoi punti fondamentali. Infatti Rifondazione, Sinistra democratica e Verdi-Pdci, salvo qualche distinguo, si sono astenuti. «Una decisione sofferta - annuncia Rina Gagliardi - ma esclusivamente politica», nonostante l’adesione ideologica al contenuto dell’emendamento. Compatta nel no la Casa delle libertà. Giusta la bocciatura anche secondo Luigi Lusi dell’Ulivo che aveva definito il testo dei socialisti «schizofrenico» in quanto avrebbe colpito «sia le mense della Caritas che delle associazioni laiche» finendo per dare agli italiani «un segnale di divisione».
Sull’emendamento c’era l’invito al ritiro, o parere contrario, del relatore Giovanni Legnini (Ulivo). I cattolici hanno tuonato in Aula contro la proposta. «Questo emendamento - attacca in Aula il capogruppo Francesco D’Onofrio - è figlio della peggiore cultura laicista e di chi non conosce la storia del nostro paese. L’assistenza non è una riserva di questa o di quella parte politica ma un bene comune di tutti». Per D’Onofrio «è intollerabile la pretesa di sottrarre l’esenzione dell’Ici alle opere destinate non a fini di lucro» ed è altrettanto l’intervento di Tommaso Barbato, mentre la Lega Nord sceglie di «esprimersi secondo coscienza». In extremis il senatore socialista Montalbano cancella una parte dell’emendamento conservando solo quella riferita alle attività commerciali e lancia «un appello» per sostenere la modifica. Ma il Senato lo boccia.
«Una discussione ottocentesca», «ideologica», «identitaria». Nell’aula del Senato va in scena ancora una volta la polemica Stato-Chiesa. Era già successo pochi giorni fa quando un emendamento al decreto fiscale collegato alla manovra sull’8 per mille aveva scatenato la bagarre tra guelfi e ghibellini. Ieri il canovaccio si è ripetuto.
Più di un’ora di discussione, sempre gli stessi i protagonisti. Sull’emendamento, firmato da Montalbano, Gavino Angius e Roberto Barbieri il relatore aveva invitato al ritiro «perché non è opportuno affrontare adesso la materia». Ma Giovanni Legnini viene accusato dai socialisti di nascondere la testa sotto la sabbia.

Repubblica 8.11.07
Lo scrittore lo ignora alla consegna di un premio
Lo schiaffo di Grossman niente stretta di mano a Olmert
di Alberto Stabile


David Grossman, il celebre scrittore israeliano e convinto pacifista che ha perso un figlio nella guerra in Libano l´anno scorso, si è rifiutato di stringere la mano al premier israeliano Ehud Olmert. Il fatto è accaduto ieri sera in occasione di una cena di gala per la consegna di un premio televisivo a Gerusalemme.
Grossman contro Olmert. La polemica del grande scrittore israeliano impegnato sul fronte della pace verso il primo ministro cauto e temporeggiatore si è espressa ieri in una forma di pubblico dissenso allorquando in occasione della cerimonia per l´assegnazione del Premio Emet, uno dei riconoscimenti più prestigiosi assegnati dal overno israeliano, Grossman s´è rifiutato di stringere la mano del premier. Mentre gli altri premiati sfilavano davanti a Olmert per riceverne le congratualzioni, l´autore di «Vedi alla voce: Amore», è rimasto al suo posto e Olmert, scuro in visto, non si è alzato dalla sedia.
La cerimonia, indetta come ogni anno al teatro di Gerusalemme, veniva ripresa in diretta dalla Tv. La sala era piena. Personalità di governo e autorità nelle prime file. Undici personalità della cultura, dell´arte, della ricerca scelti per condividere un premio di un milione di dollari. E Grossman a rappresentare le lettere israeliane ma anche l´impegno politico per la pace, per il dialogo, per la ripresa di quel negoziato che, assieme agli altri due principi della letteratura israeliana, Amos Oz e Avraham Jeoshua, non ha mai smesso di sollecitare. Fino all´ultimo appello al governo, di poche settimane fa, con la richiesta di stabilire contatti con il Movimento islamico, Hamas.
«Suppongo possiate immaginare perché non ho stretto al mano al primo ministro», ha detto Grossman ai giornalisti alla fine della cerimonia. E il pensiero è corso ad un anno fa, al discorso che lo scrittore tenne in Piazza Rabin in occasione dell´undicesimo anniversario della morte dell´artefice degli accordi di Oslo.
Grossman ha peso un figlio, Uri, di 22 anni, nella seconda guerra del Libano, ucciso 48 ore prima che venisse messa in atto la tregua tra Israele e gli Hezbollah, Tregua che era già stata decisa ma che veniva tatticamente rinviata. Olmert comise l´errore di considerare le critche di Grossman sulla condotta della guerra e soprattutto del negoziato che vi avrebbe posto fine come espressioni del dolore di un padre.
Grossman gli rispose dalla tribuna di Piazza Rabin: «Sono, sì, un padre che soffre, ma quello che mi addolora è ciò che lei e i suoi amici state facendo a questo paese».
Quel giorno, al di la della confronto personale, Gorssman invitò Olmert ad uscire allo scoperto, ad assumere un´iniziativa forte, ad osare di abbracciare il dialogo coi nemici e criticò l´atteggiamento del premier che, dopo lesito disastroso della guerra era impegnato a difendere la sua reputazione più che ad aprire un nuovo capitolo. Le cose non sono molto cambiate da allora. C´è il dialogo con abu Mazen, fato di sorrisi, pranzi e strette di mano, ma c´è anche la paura di Olmert di concedere «troppo» ai palestinesi e di doversi trovare esposto agli attacchi dell´opposizione interna. Il consiglio di Grossman non è stato accolto dal premier e lo scrittore non l´ha perdonato.

Repubblica 8.11.07
La grande corsa di Cina e India
di Federico Rampini


Il petrolio schizza a 100 dollari il barile, la valuta americana precipita in una débacle vertiginosa: è il futuro che ci arriva addosso come una locomotiva impazzita. Il futuro appartiene a Cindia, e la rapidità con cui lo sviluppo asiatico cambia il pianeta impone scelte urgenti.

Cresce la fame di greggio E fra tre anni la Cina consumerà più degli Usa
Tre miliardi e mezzo di cinesi e indiani ci contendono le risorse naturali
Anche i giganti dell´Asia al tavolo del G7 perché si assumano le loro responsabilità

Non bastano il documentario da premio Oscar e il Nobel per la pace ad Al Gore, non basta affidarsi alle "prese di coscienza", per tingere di verde il linguaggio politichese. L´adattamento alle nuove sfide energetiche e ambientali deve inseguire l´accelerazione spettacolare degli eventi. Dietro al comportamento isterico dei mercati ci sono interessi potenti in azione, hedge fund e finanza derivata scommettono sull´instabilità, capitali speculativi amplificano il rincaro petrolifero e il ribasso del dollaro. Ma la speculazione opera sulla base di uno scenario reale: tre miliardi e mezzo di cinesi indiani e altri popoli asiatici ci contendono le risorse naturali sempre più scarse; le riserve petrolifere mondiali sono sotto una pressione inaudita; l´effetto economico è brutale, l´impatto sull´ambiente è pauroso.
Proprio mentre la compagnia petrolifera cinese PetroChina diventa la regina mondiale delle Borse, con una capitalizzazione superiore ai big americani Exxon e General Electric messi insieme, l´Agenzia internazionale per l´energia (Aie) pubblica un rapporto allarmante sul peso di Cindia nella crisi energetica. L´Aie ci avverte che entro il 2030, cioè in soli 23 anni, i cinesi avranno sette volte più automobili di oggi (270 milioni), il loro consumo di energia sarà più che raddoppiato. Già fra tre anni la Cina avrà superato gli Stati Uniti per il consumo di petrolio: appena due anni fa, la domanda americana era ancora superiore di un terzo. L´India segue dappresso la Cina, la sua domanda di energia sarà più che raddoppiata entro il 2030, e la maggior parte di quel fabbisogno aggiuntivo dovrà essere importato. A causa di Cina e India, «i giganti emergenti dell´economia mondiale e dei mercati internazionali dell´energia», l´Aie ci avverte che i consumi di petrolio, gas e carbone in un ventennio cresceranno oltre il 50% rispetto ai livelli odierni. Se la situazione di oggi è così tesa da sospingere il greggio a 100 dollari il barile, quanto spenderemo nei prossimi anni per continuare a usare l´automobile? I paesi petroliferi dovranno aumentare la produzione a 116 milioni di barili al giorno entro il 2030, cioè 32 milioni di barili in più. A quella data, sostiene l´Aie, il prezzo nominale del greggio potrebbe toccare i 159 dollari. Ma esisteranno ancora riserve sufficienti? A quale costo di estrazione? Già oggi una delle cause del caro-petrolio è la carenza di infrastrutture per estrarre, trasportare e raffinare "l´oro nero". Per rispondere alla spaventosa impennata dei consumi mondiali bisogna investire altri 22 mila miliardi di dollari nelle infrastrutture per l´approvvigionamento: tutti costi che verranno scaricati sull´utente finale, il consumatore.
Gli equilibri geopolitici, la sicurezza interna dei nostri paesi, la stabilità e la pace sono minacciate. Da una parte Cina e India si affacciano con piglio sempre più aggressivo in Medio Oriente, Africa e America latina a contenderci le stesse fonti di approvvigionamento da cui dipendiamo; d´altra parte la nuova ricchezza finanziaria generata dalla penuria energetica andrà a concentrarsi in zone come il Golfo Persico dove il fondamentalismo islamico è terreno di coltura del terrorismo. Un´altra minaccia immediata incombe sulla nostra salute e la nostra sopravvivenza. In assenza di una svolta nei modelli di sviluppo e di una conversione repentina verso le fonti alternative, le emissioni carboniche esploderanno del +57% nel prossimo ventennio. «La Cina – scrivono gli esperti Aie – è di gran lunga la maggiore responsabile delle emissioni aggiuntive, superando gli Stati Uniti. L´India diventa il terzo maggior responsabile intorno al 2015». Il cambiamento climatico fin d´ora impone un prezzo pesante a quei paesi. Secondo la Banca mondiale 16 tra le 20 metropoli più inquinate del pianeta sono in Asia. In Cina le morti premature dovute allo smog sono 750.000 ogni anno. L´aumento delle temperature scioglie i ghiacciai dell´Himalaya che alimentano i grandi fiumi d´Oriente. Desertificazione, diminuzione delle terre coltivabili, penuria d´acqua, aprono scenari di crisi alimentari che possono sfociare su conflitti armati, in zone ad alta densità di eserciti e testate nucleari. Non siamo al riparo noi, vista la rapidità con cui il nuovo inquinamento made in Cindia arriva nei nostri cieli o sulle nostre tavole.
Il rapporto dell´Aie è un antidoto all´egoismo dei paesi ricchi. Riconoscere il peso esorbitante di Cindia nei consumi energetici e nell´effetto-serra, non significa che spetti solo a quei paesi prevenire il disastro. L´Aie ricorda che «le emissioni carboniche pro capite della Cina nel 2030 raggiungeranno solo il 40% di quelle degli Stati Uniti, in India rimarranno ancora più basse rispetto alla media pro capite dei paesi industrializzati». L´enorme stazza demografica di quei due paesi non deve farci dimenticare che ogni italiano col suo tenore di vita continua e continuerà a emettere molti più gas carbonici di un cinese o di un indiano. Ai paesi dove si concentra la maggior parte della popolazione mondiale non si può chiedere di bloccarsi. I primi a inquinare siamo stati noi, continuiamo a farlo – pro capite – molto più di loro, l´aspirazione al benessere non è un nostro monopolio. Il rapporto dell´Aie è categorico: «Bisogna attuare immediatamente misure politiche e trasformazioni tecnologiche senza precedenti». In ordine di efficacia gli interventi da privilegiare per l´Aie sono «efficienza e conservazione dell´energia; sviluppo del nucleare e delle fonti rinnovabili; diffusione delle tecnologie per un carbone pulito».
Dobbiamo anche dare un posto a Cina e India al tavolo dei grandi. Il G7 è il luogo per affrontare problemi di governance globale. E´ assurdo che Italia, Francia, Inghilterra e Germania vi occupino ciascuno una sedia (sarebbe più logico un unico rappresentante europeo) mentre indiani e cinesi non ne fanno parte. Perché si assumano le loro responsabilità bisogna prendere atto che il loro peso è mutato.
Senza la cooperazione di Cindia anche il terremoto valutario è difficile da affrontare. Il crollo del dollaro è il risultato di anni in cui l´America è vissuta al di sopra dei suoi mezzi, accumulando deficit commerciali verso l´Asia. Il peso dei debiti americani è la mina vagante che genera un´instabilità finanziaria mondiale. La banca centrale cinese è il più grosso creditore di Washington, con 1.500 miliardi di dollari di riserve investiti in larga parte in BoT americani. Mentre cascano come birilli tutti i capi delle grandi banche americane travolti dagli scandali dei mutui subprime, la Federal Reserve deve curare il malato lasciando scivolare i tassi e il dollaro. Pechino ha adottato una tattica abile nel breve periodo, pericolosa nel lungo termine. Ha sganciato la sua moneta dalla parità fissa col dollaro, ma "pilota" il cambio in modo da rivalutarlo molto lentamente rispetto alla moneta Usa. Di conseguenza la valuta cinese e altre valute asiatiche di paesi satelliti si deprezzano quotidianamente rispetto all´euro. Tutto l´onere dell´aggiustamento del dollaro si scarica così sull´euro, amplificandone la forza e creando le premesse per altri squilibri. Da questa impasse non si esce finché ci si culla nell´illusione che il mondo sia ancora un condominio America-Europa.

Repubblica 8.11.07
Lo psicoterapeuta Ammaniti "La rete amplifica le loro patologie"


ROMA - Massimo Ammaniti, psicoterapeuta, è specialista nei problemi dell´età evolutiva. Di ragazzi con problemi simili a quelli dell´adolescente finlandese dice di incontrarne spesso.
Professore, perché questi ragazzi lasciano un video?
«È una sorta di testamento spirituale: in queste persone c´è un dato costante, la convinzione di dover svolgere una missione unica. Hanno l´idea messianica di essere chiamati a purificare il mondo, uccidendo chi considerano indegno di vivere. È una sorta di delirio megalomanico. Vogliono che gli altri sappiano chi sono. In più gli adolescenti hanno spesso l´idea che il suicidio non sia una morte vera, pensano di sopravvivere, almeno con la mente».
Sapere che le proprie ragioni saranno ascoltate e viste in tutto il mondo tramite internet può essere uno stimolo per una mente malata?
«Internet è una cassa di risonanza enorme. L´idea che possono uscire dal chiuso della loro mente e investire il mondo con la loro immagine li fa sentire potenti. Non è certo la rete a provocare questi fenomeni, ma è chiaro che tramite essa crescono di potenza».
Il fenomeno dei giovani assassini è aumentato negli ultimi anni o è solo più visibile?
«In parte è più visibile per le ragioni che spiegavo prima. Ma in parte è aumentato anche a causa di fenomeni come l´immigrazione: gli adolescenti attraversano una fase della loro vita in cui temono la diversità, il contatto con gli altri, con ciò che è diverso. In alcuni casi questa si trasforma in una patologia. Chi ne soffre ha paura della contaminazione. Queste persone, che di solito sono isolate, vogliono mantenere la loro sacralità, la loro purezza. Per questo ideologie come il nazismo che sosteneva la purezza della razza hanno tanta presa su questi soggetti».
(fr. caf.)

Repubblica 8.11.07
Intervista / Esce il nuovo libro dello psicoanalista Antonino Ferro
Se si cancellano le emozioni
di Luciana Sica


Spesso avvertiamo un malessere diffuso, un´angoscia che non sappiamo nominare
Nella stanza d´analisi il risveglio della vita emotiva procura gioia ma anche molto dolore

«Non ci sono emozioni positive e negative, sono tutte musica della vita. Possono però anche essere la fonte di tanti nostri guai, se non sappiamo riconoscerle, se qualcuno non ci aiuta a farlo. Secondo me, ma anche secondo altri, oggi l´analisi si fa soprattutto per essere in grado di viverle, le emozioni. Negli anni si è passati da una analisi dei contenuti infantili, o anche delle cosiddette parti scisse, a un´analisi che si occupa principalmente della strumentazione per trasformare gli stati protoemotivi più arcaici, confusivi e disaggregati in emozioni riconoscibili, nominabili, contenibili, vivibili». A dirlo in questa intervista è Antonino Ferro, sessantenne, "didatta" della Società psicoanalitica italiana, editor per l´Europa dell´International Journal of Psychoanalysis. Il suo nuovo libro s´intitola Evitare le emozioni, vivere le emozioni (Cortina, pagg. 224, euro 21).
Se per Cartesio appartenevano all´esprit des bêtes, allo spirito degli animali, è con Darwin che le emozioni si ancorano alla biologia e acquistano un significato adattativo: servono cioè a comunicare "qualcosa". Oggi sono diventate molto di più, paradossalmente in un´epoca dominata dalle tecnologie che così poco spazio consentono all´espressione dei sentimenti. Da sempre materiale incandescente, rovente lastra di fuoco che mette a dura prova il regno più ghiacciato del Logos, il Pantheon delle emozioni è ormai il luogo in cui si incrociano le menti più brillanti di saperi anche molto diversi. Sono state le neuroscienze a collocarle al centro dei meccanismi di funzionamento della mente - si chiama Emotional Brain il caposaldo firmato da LeDoux, ma si potrebbero almeno citare le ricerche di Kandel, Damasio, Edelman... Senza dimenticare, naturalmente, che da Freud in poi hanno rappresentato lo "specifico" del pensiero psicoanalitico e della sua clinica. Ma forse con qualche precisazione.
Dottor Ferro, che intende la psicoanalisi contemporanea per emozioni? Il linguaggio comune, come accade spesso in questi casi, non rischia di essere impreciso o addirittura fuorviante?
«Le racconto una mia esperienza personale, un aneddoto. L´anno scorso, per una conferenza, mi è capitato di dover prendere un treno da New York a Washington. Ora, negli Stati Uniti, i treni si prendono come in qualsiasi altra parte del mondo, ma per me era la prima volta e all´improvviso mi ha assalito un umore pessimo, mi sentivo terribilmente angosciato, turbato, malmostoso, non sapevo che diavolo avessi... Continuavo a chiedermi "come si prende? come si prende quel treno?". Chiamai allora una carissima amica, una collega, per provare a calmarmi. Lei mi disse quattro parole: Quel treno per Yuma... Se lo ricorderà quel film western degli anni Cinquanta dove un agricoltore si trova a scortare in Arizona un feroce bandito, in un viaggio pieno di insidie...».
C´è il remake di quel film... E allora, com´è andata?
«È andata che la semplice citazione di quel film annidato nei ricordi d´infanzia è stata sufficiente a trasformare in un´immagine quella mia terribile ansia, a condensare quello stato d´animo confuso, quello stato emotivo persecutorio che rimandava a quanto sarebbe accaduto di lì a poco, di come sarebbe andato il mio lavoro, riconoscendone la radice per l´appunto infantile. Allora il malumore si è come sgonfiato, e quel trenino me lo sono davvero goduto, è stato uno dei più bei viaggi che abbia mai fatto».
Torniamo alla domanda iniziale?
«Sì, voglio dire questo: l´aspetto più specifico dell´emozione in psicoanalisi è la necessità che venga raccolta e descritta da qualcun altro, da un´altra mente. Fino a quando non impariamo a farlo da soli, se l´onda emotiva è troppo intensa e non sufficientemente elaborata, direi raffinata, c´è bisogno di un "altro" che riesca a cogliere questo stato diffuso di malessere, il suo carattere essenzialmente persecutorio, e a trasformarlo in un´immagine affettiva, dotata di senso. A quel punto è possibile provare il piacere di vivere quella determinata emozione».
Se uno dice "mi sento terribilmente triste", sta esprimendo un suo stato d´animo. Ma la dinamica dell´emozione non tende a sfuggire alla coscienza?
«È così, molto spesso. Mettiamo che uno dica "la gelosia mi rende rabbioso": ha già fatto da solo un processo di alfabetizzazione dell´emozione, è capace di descriverla e di darle un nome, e può tentare quindi di modificarla. Ma più spesso a noi manca il sillabario emotivo, avvertiamo un malessere diffuso, un´angoscia che non siamo in grado di nominare, soffriamo di una forma di dislessia rispetto all´emozione, non riusciamo a compiere quel passo importante che è appunto nominarla. In quel caso siamo in preda di stati protoemotivi indifferenziati con il rischio di fare ricorso a meccanismi evacuativi molto arcaici».
Qui c´è bisogno di usare un altro lessico. Di che sta parlando, fuori dello slang psicoanalitico?
«Immaginiamo che le protoemozioni siano delle punte di spillo, o anche dei pezzi di gnomi terrificanti che si agitano dentro di noi. Posso trasformare questi stati confusi della mente in emozioni, chiamarli magari paura, collera, delusione. Oppure posso evacuare quelle punte di spillo nel tubo del gas e allora passerò la notte a controllare se ho spento il rubinetto del gas oppure no, con una modalità vistosamente ossessiva. O posso anche evacuare quegli orribili gnomi in un animale e allora insorgerà una fobia di quel determinato animale o magari in una parte del mio corpo, e allora diventerò ipocondriaco. Ma qui siamo ancora nel campo delle nevrosi, di difese anche riuscite che ci consentono di vivere».
Può succedere di peggio?
«Certo, perché quando invece evacuo le mie protoemozioni su un altro, quell´altro diventerà mio nemico. E se faccio la stessa operazione su tutti gli altri, mi sentirò minacciato da chiunque, entrerò in un classico stato di paranoia. Sono le evacuazioni massicce a trasformare una persona apparentemente controllata in un protagonista di cronaca nera, a fornire una chiave di lettura ai deliri di ogni epoca».
La nostra epoca incoraggia a esprimere le emozioni?
«Tutt´altro. Non incoraggia né a metabolizzarle né tanto meno a esprimerle, perdendosi sempre più l´importanza della relazione, decisiva per la vitalità delle emozioni».
Che idea si fa, nella stanza d´analisi, quando le capita un paziente che sembra ricoperto da uno strato di ghiaccio?
«Penso che solo letargizzando le sue emozioni sia riuscito a sopravvivere ad esperienze, spesso anche tragiche. Ed è affascinante assistere al "risveglio" della vita emotiva, un momento di estrema gioia ma anche molto doloroso. Ricordo il caso di una mia paziente, una giovane donna che per la prima volta sentiva sciogliere quel ghiaccio. Piangeva e rideva. Tra le lacrime e il riso che la illuminava: "piove con il sole" mi diceva».

l’Unità 8.11.07
Vedrai vedrai come suona il Tenco
di Silvia Boschero


FESTIVAL Da oggi a sabato il teatro Ariston di Sanremo accoglie il 32esimo premio Tenco. Dedicato per la prima volta al repertorio del cantautore ligure, dal suo periodo rock’n’roll ai classici ai brani satirici

Anche quest’anno a Sanremo si compie il miracolo del Premio Tenco. La città si sveste dei lustrini impolverati rimasti dallo scorso festivalone televisivo e si prepara ad accogliere una carovana di musica concepita, nata e vissuta per essere solo e unicamente musica. Non tormentone, non investimento di marketing, non meteora. Questo è il premio Tenco, quest’anno dedicato per la prima volta in trentadue anni al repertorio del cantautore che gli ha dato il nome, quel Luigi che moriva quarant’anni fa.
Saranno oltre trenta gli artisti (vincitori e non della rassegna) che si esibiranno nelle tre serate a partire da stasera. Stasera, sempre all’Ariston, suona Giovanni Block (premio come musicista esordiente) ma anche Giorgio Conte, Simone Cristicchi, Marianne Faithfull (premio all’operatore culturale), Jacques Higelin (premio al cantautore), Elena Ledda (Targa Tenco al miglior disco in dialetto con Andrea Parodi), Massimo Ranieri, Shel Shapiro e Paola Turci. Domani, tra gli altri, salgono sul palcoscenico gli Ardecore, band che rivisita in chiave moderna la tradizione popolare romanesca e che ha ricevuto la Targa Tenco all’opera prima. Oltre a loro, cantano Edoardo Bennato, Sergio Cammariere, Carmen Consoli, Ricky Gianco, Morgan, gli Skiantos. Sabato, infine, sarà il turno di Gerardo Balestrieri, Teresa De Sio, Irene Grandi, Ada Montellanico (che con Enrico Pieranunzi ha musicato di recente alcuni sorprendenti testi inediti di Tenco stesso), Gino Paoli, Enrico Rava, Peppe Voltarelli e gli altri due vincitori: Gianmaria Testa (Targa Tenco al miglior disco con lo splendido concept sulle migrazioni Da questa parte del mare) e i Têtes de Bois, che hanno vinto nella categoria «miglior interprete» col loro Avanti pop.
I vincitori, che vengono indicati da una giuria di oltre cento giornalisti, in queste tre giorni interpreteranno le loro canzoni per poi dedicarsi alla rivisitazione di un brano di Tenco. Dal primo periodo rock’n’roll (Vorrei sapere perché), alle canzoni degli esordi aurorali (Quando, Il mio regno, In qualche parte del mondo, ai grandissimi classici (Mi sono innamorato di te, Angela, Ho capito che ti amo, Vedrai vedrai) fino a brani meno noti come Ballata del marinaio o Quasi sera. Un modo poetico e eclettico per scoprire i lati meno noti di Tenco: quello impegnato, quello satirico o ancora quello antimilitarista di Li vidi tornare, versione originale e quasi sconosciuta della notissima Ciao amore, ciao. Se volete approfondire la vita e la storia del cantante che si uccise a 29 anni al festival sanremese del ‘67, in occasione della rassegna il giornalista Renzo Parodi ha appena pubblicato per la Sperling & Kupfer una biografia su Tenco. Oggi alle 17 invece, nell’ambito della kermesse, viene presentato il volume Il posto nel mondo. Luigi Tenco, cantautore» (Bur), curato da Enrico De Angelis, Enrico Deregibus e Sergio Scondiano Sacchi.