Riforme, Veltroni non molla «Al Paese non servono urla»
«Disponibili al confronto, sistema tedesco solo se corretto»
Sulla sicurezza scontro aperto con Rifondazione
di Bruno Miserendino
«LORO PENSANO ALLE SPALLATE, noi alle riforme». Quindi, dice Veltroni, «andremo avanti e cercheremo ampie intese per il bene del paese», nonostante i niet di Berlusconi. Sembrerebbe l’epilogo di una ordinaria giornata di incomunicabilità tra maggio-
ranza e opposizione, invece il confronto a distanza tra il leader di Forza Italia e il neosegretario del Pd disegna una partita molto aperta. Berlusconi, rimarcano tutti nel centrosinistra, «con l’ossessione della spallata ha rinunciato a fare politica», ma nella Cdl il tempo concesso al leader naturale sta scadendo. L’Udc è pronta al dialogo, la Lega potrebbe esserlo e An aspetta solo gennaio per vedere le carte. Pare sia così anche per molti azzurri, anche se formalmente, davanti alle telecamere smentiscono. Mastella, ieri, spiegava perchè un senatore non fa una spallata, però citava un suo professore che diceva: «Non so se le cose andranno meglio o diversamente ma so che per andare meglio dovranno andare diversamente». Aggiunta: «Noi - dice - non ci fermiamo davanti al fatto che, nella contingenza politica quotidiana e nella vocazione alle spallate, ci sia questa volontà di non dialogare. Il Paese ha bisogno di soluzioni».
Veltroni lo sa e per questo iniste. L’altro ieri aveva detto che se la maggioranza superava la prova della finanziaria sarebbe stato «tutto un altro film», ieri lo ha spiegato più chiaramente: «Il Paese vive una difficoltà del sistema democratico, questo è evidente ed è responsabilità di tutti impegnarsi per risolvere questo nodo». «Noi dichiariamo la nostra disponibilità al dialogo e mi auguro che anche dalle altre forze ci sia analoga disponibilità. Il Paese ha bisogno di dialogo e di soluzioni. È un’idea sbagliata che il Paese abbia bisogno di urla».
Infatti Veltroni ha iniziato a girare le prime prove del film in una riunione ristretta a palazzo Madama con Finocchiaro, Chiti, Amato, Enzo Bianco, e Violante e i giuristi Ceccanti e Vassallo, dedicata proprio alla legge elettorale, da cui sono emersi con più chiarezza i paletti del Pd per il confronto. In sintesi, la base discussione è il sistema tedesco ma con correzioni maggioritarie. Solo che anche per Veltroni la partita è a rischio. Sa benissimo, come chiede anche palazzo Chigi ufficialmente, che bisogna prima trovare l’unità del centrosinistra su una proposta, ma sa anche che la cosa è quasi impossibile. Sa che nello stesso Pd ci sono molti fautori del sistema tedesco puro, e sa quanto la partita delle riforme sia inevitabilmente inquinata dalle urgenze del dibattito politico. Sulla sicurezza, ad esempio, è in corso un braccio di ferro nemmeno tanto sotterraneo. Veltroni e i sindaci non sono entusiasti delle correzioni imposte da Rc al decreto espulsioni e continuano a ritenere utile un confronto con la Cdl. Sul tema c’è una discreta frizione tra Veltroni e Rifondazione, e anche se alla fine il centrosinistra riuscirà a mantenersi unito, perchè il decreto è meglio di niente, tutti capiscono che in queste ore si confrontano due modi di intendere il rapporto tra politica e bisogni dei cittadini.
Veltroni per ora si muove, tenendo fede all’impianto descritto nel discorso di Milano: sostenendo il governo ma reclamando novità. Sulla legge elettorale Veltroni ha confermato che si può partire dal modello tedesco, purchè venga corretto in senso maggioritario. «Ma da questa posizione - ha detto il neosegretario - non ci si sposta» Infatti l’attenzione si è spostata tutta sui correttivi, con Vassallo e Ceccanti che hanno esposto le soluzioni praticabili. Fermo restano che si presuppone una sola Camera politica, e che il 50% dei seggi viene assegnato col metodo maggioritario uninominale il correttivo maggioritario potrebbe essere adottato sul riconteggio proporzionale che viene fatto sul restante degli eletti con le liste. L’idea è di inserire correttivi «spagnoli» sul modello tedesco, con circoscrizioni elettorali più piccole o con un premio di lista per evitare situazioni di stallo come è avvenuto proprio in Germania. Come si sa in questa partita Prodi Veltroni, e tutti gli ulivisti, sono perfettamente d’accordo: bisogna resistere alle lusinghe del tedesco puro che, calcoli alla mano, porterebbe o ad ammucchiate di centro, o a governissimi o a governi di centrodestra. Il problema è che nell’Unione alcune forze piccole, come il Pdci e i Verdi non vedono di buon occhio nessuna riforma, mentre Rifondazione e Udc sembrano al momento interessati a discutere solo di tedesco puro. Ieri Russo Spena scherzava: «Walter sta studiando il tedesco? Fa bene...» L’Udc non a caso invita Veltroni a uscire dalla logica delle alleanze che invece sta a cuore a palazzo Chigi, perchè altrimenti, dice D’Onofrio, «sarà un’ennesima sceneggiata». Veltroni invece è convinto che su un tedesco corretto in senso bipolarista, alla fine anche An sarebbe della partita. Le condizioni per il dialogo non ci sono tutte, ma qualcuna l’ha creata.
Repubblica 9.11.07
Il senatore del Pd D'Ambrosio: troppe disparità tra italiani e comunitari
"Decreto emotivo e anticostituzionale modifiche profonde o non passerà"
ROMA - «Il decreto non deve passare». Parola dell´ex procuratore Gerardo D´Ambrosio, oggi senatore Pd. «È un testo contro l´Europa e la Costituzione».
Non lo voterà?
«Va profondamente modificato. Così com´è va contro le direttive Ue, e quindi contro i tempi e la realtà di un´Europa allargata con diritto di libera circolazione».
Anche quella di delinquere?
«Il decreto crea disparità pesantissime, dal punto di vista penale, tra cittadini italiani e comunitari, e tratta questi ultimi peggio degli extracomunitari».
Quali sarebbero gli errori?
«Le ragioni imperative per l´espulsione non sono delineate a sufficienza, col rischio di provvedimenti arbitrari. Allo stato, anche se sarà corretta, non c´è una sufficiente tutela giurisdizionale. È assurdo trasformare in delitto il rientro dell´espulso punendolo con tre anni».
Il dl non andava fatto?
«Agire sotto una forte spinta emotiva fa fare misure che non andavano assolutamente fatte. L´Italia è tra i paesi che ha "fatto" l´Europa e non possiamo approvare un dl che ne è la negazione».
(l. mi.)
Repubblica 9.11.07
Riappare un capitolo del "Ramo d´Oro" che James Frazer non pubblicò per prudenza
Le maschere del potere
Quando si crocifigge un re
di Antonio Gnoli
Nei Saturnali della Roma antica si metteva a morte un finto sovrano giovane e bello
Le analogie tra i riti antichi e la storia di Cristo avevano colpito la fantasia dell´autore
Tra quelle infime derive che la storia a volte crea, può accadere di imbattersi in una figura bizzarra. È un curioso personaggio che si ammanta delle insegne regali e che è fatto oggetto di scherno e venerazione. È un re. O almeno così appare, o dice di essere. Di solito la sua sovranità lambisce la decadenza di un´epoca, ne ravviva le ombre. E sembra, allora, che giochi, come un bimbo, con il declino che tutto e tutti avvolge. La figura ridanciana si fa carico di un potere eccessivo, mostra il suo lato meno cupo, ma non per questo meno insidioso. Ogni qualvolta ci sentiamo attratti da questa recita trasgressiva, scorgiamo la stessa stravaganza che Svetonio nella Vita dei Cesari ritrovava in Nerone, in Caligola, in Eliogabalo. Ed è come se improvvisamente la sovranità porga il proprio orecchio all´altezza della voce di un popolo, ne ascolti (deliziata o irritata) i motteggi, gli insulti, la derisione, ma anche l´adulazione più sfacciata. Quel costrutto, minaccioso e ilare, non rinuncia tuttavia al suo mandato teologico, alla sua discendenza divina.
Come è possibile dunque che un potere, intangibile e remoto, legato alle ritualità del sacro, si nutra di una sostanza così greve? C´è un saggio di James George Frazer dedicato ai Saturnali e alla crocifissione del Cristo - che ora appare per la prima volta in italiano (La crocifissione del Cristo, pagg. 254, euro 16, curato ottimamente da Andrea Damascelli, edizioni Quodlibet) - nel quale si abbozza una risposta, in larga parte involontaria.
Nel 1890 - in uno di quei momenti in cui la storia si immagina felicemente in marcia - uscì Il ramo d´oro di James Georges Frazer. Era un´opera di intensa ingegneria spirituale nella quale agivano le forze razionali il cui compito era di spiegare su quale base il mondo umano aveva costruito le proprie civiltà. Frazer - figlio di un farmacista e del positivismo ottocentesco - andò a stanare il rapporto che l´umanità aveva da sempre avuto con la credenza, le superstizioni e naturalmente le religioni.
Tra quelle migliaia di pagine, che esordivano accostando un quadro di Turner a un bosco sacro dell´Italia arcaica, Frazer aveva inserito un capitolo dai tratti culturali esplosivi. Egli amava spesso divagare. Con la frenesia dell´accumulatore compilava lunghe annotazioni. Ma rispetto alle vaste comparazioni fin lì condotte quel capitolo, dedicato alla crocifissione di Cristo, sembrava una deviazione troppo netta. Una stranezza. Un´escrescenza. La provocazione che un ateo (almeno tale era stato considerato) lanciava contro il cristianesimo e le sue origini. La tesi, ancorché fragile nello sviluppo, era affascinante. Frazer - come in un gioco di scatole cinesi - immaginò che la passione e poi la crocifissione del Cristo per larghi tratti si potevano ricondurre al Purim, una festa ebraica che mostrava degli evidenti legami con le Sacee babilonesi e i Saturnali romani.
Frazer - colpito dal fatto che durante i saturnali c´era l´usanza di mettere a morte un finto re - descrive il modo in cui i soldati romani celebravano ogni anno quel rito cruento e pagano: «Trenta giorni prima della festa sceglievano tra loro, sorteggiandolo, un uomo giovane e bello, che veniva vestito con abiti regali perché assomigliasse a Saturno. Così ornato e scortato da uno stuolo di soldati, questi andava in giro in pubblico, autorizzato a dare libero sfogo a tutte le passioni e a gustare ogni piacere, per quanto vile e ignominioso». Allo scadere dei trenta giorni - durante i quali il falso re si permetteva qualunque licenza - l´impostore si dava o trovava la morte tagliandosi la gola. Era, il suo, un regno breve, gioioso ed efferato; burlesco, come saranno in seguito certi Carnevali italiani, ma anche sommamente tragico come dimostra l´anonima cronaca del martirio di San Dasio. Soldato romano, convertito al cristianesimo, e di stanza sul Danubio, Dasio viene prescelto per svolgere la parte del finto re. Il suo rifiuto lo condurrà al martirio e alla morte.
Ma cosa c´entra tutto questo con la festa di Purim? Nel Libro di Ester si narra della festa che venne istituita per commemorare la liberazione degli ebrei dal pericolo di cadere sotto il giogo persiano durante il regno di Serse. I contenuti di quel rituale liberatorio e gioioso richiamano, secondo Frazer, i tratti fondamentali delle Sacee babilonesi che sfociavano come è noto in un frenetico baccanale. In quell´occasione c´era l´usanza di mascherare uno schiavo da re. Quel sovrano provvisorio alla fine del suo "mandato" moriva sulla forca o, a volte, sulla croce. Anche nel Libro di Ester c´è un finale cruento e lieto. Fra intrighi di corte e complotti contro il re Assuero, si svolge la vicenda di Aman, visir del regno di Assuero e di Mardocheo, un ebreo influente e giusto che si rifiuta di onorare la carica di Aman e per questo è accusato dallo stesso Aman di congiurare contro il re. La pena richiesta prevede lo sterminio degli ebrei e l´impiccagione (o crocifissione) di Mardocheo. Ester, sposa di Assuero, implora il re di risparmiare il suo popolo, e svela che a capo della congiura c´è Aman che a quel punto il re fa giustiziare. Quanto a Mardocheo, che aveva fatto fallire il complotto, viene portato in trionfo. Aman, nella tradizione festosa del Purim, subirà, dice Frazer, una trasformazione parodica, diventando egli stesso un finto re, oggetto di scherno.
Molti studiosi hanno rilevato le forzature, l´approssimazione con cui l´antropologo accostava vicende storiche e letterarie molto diverse. In soccorso, almeno parziale, alle sue tesi, venne Edgard Wind, studioso d´arte legato alla scuola di Warburg che nel 1938 rianalizzò la morte di Aman riconducendola a un affresco di Michelangelo, e ad alcuni versi di Dante. In quell´affresco, un dettaglio della Cappella Sistina, l´esecuzione del Visir raffigura un uomo crocifisso. Aman come il Cristo? L´idea che la morte di Gesù fosse accostabile a quella di Aman, quantunque suggestiva aprirebbe una questione delicatissima.
Può il cristianesimo fondarsi su una parodia? Frazer si tenne alla larga da una simile conclusione (tanto è vero che espunse il capitolo sulla crocifissione da Il ramo d´oro e lo stesso Wind, ove avesse accolto pienamente una simile lettura, avrebbe visto sfigurarsi il volto stesso della storia. Sia Frazer che Wind non furono del tutto indenni alla suggestione che la passione del Cristo, pur nella sua tragedia, ricalcasse il paradigma del finto re: la corona di spine, lo scherno dei soldati, le grida della folla tumultuante erano indizi a carico di quella versione. Che il Cristo fosse una variante di quel modello parodico è stata in seguito respinta e smontata da gran parte degli studiosi.
Resta una questione che Frazer e Wind lasciano sullo sfondo: chi è il re? Vi è un potere che aspira alla regalità, all´unto, alla non contraddizione. Esso si serve di quel retroterra sovrannaturale, grazie al quale cerca di infondere ai propri gesti una natura divina. Al tempo stesso quel potere si può mostrare buffonesco, logorroico, impertinente. Esso ci appare come un mero scherzo, una maschera comica, segnata da una corona sbilenca e instabile sempre sul punto di rovinare miseramente al suolo. Di norma, quei re finti, scherzosi, gaudenti, che venivano eletti nel corso di una baldoria, avevano vita breve. Duravano il tempo della festa. Sufficiente tuttavia per mostrare il lato nascosto della sovranità.
Nella folle Ninive, racconta Frazer, si poteva incontrare un antico Ercole persiano dalle accentuate movenze femminee. Incedeva tra la folla come un re. A volte era un re, irriconoscibile: la biacca sul viso pallido, le ciglia annerite dal bistro, carico di anelli, catene e orecchini, con l´ascia in una mano e la coppa di vino nell´altra.
Chi vedesse in queste insegne ridicole il puro aspetto licenzioso e stravagante, perderebbe di vista quel bisogno che il potere a volte ha di mostrare il suo volto indegno. Il potere grottesco - che con il potere criminale condivide l´arbitrio assoluto - non è semplice rappresentazione teatrale, e non si esaurisce nell´acclamazione in vista di un riconoscimento. Il potere grottesco è l´altra faccia del carisma. La sua nudità. Che il sovrano, a volte, riveste di infamia.
Repubblica 9.11.07
Se Hamas e Al Fatah leggessero Shakespeare
di Adonis
Shakespeare dice che soltanto la lingua è in grado di «mutare il verde in rosso». Il problema è che noi arabi crediamo a questa capacità e alle sue conseguenze.
Mentre tutto ciò accade, la questione palestinese non soltanto assume l´immagine di una tragedia a cielo aperto, in cui vengono annientati una patria e un popolo, ma anche un´immagine che fa poco onore ai principi e ai valori per i quali quel popolo combatte, e poco importa se quei principi s´ispirino al panarabismo o all´Islam, oppure a entrambi. Da quest´immagine balza agli occhi una assurdità storica tale che per esprimerla servirebbe uno Shakespeare palestinese.
Malgrado l´assurdità dello scenario, non mi sorprende affatto che i palestinesi abbiano due governi contrapposti e che dinanzi a un unico nemico un solo esercito arabo si spacchi in due eserciti rivali. Né mi stupirà il fatto che la realtà palestinese si riveli un´anteprima, e in questo senso prefiguri la probabile immagine di tutti i paesi arabi. Quasi che l´immagine dei "feudi" sia alla radice della storia araba e del suo corso, e ne determini il destino se non s´invertirà radicalmente la prospettiva della storia, della sua connotazione religiosa, soprattutto se non si getteranno le basi per edificare una nuova società e scrivere un´altra storia.
Se vogliamo davvero cogliere l´essenza di quel che va accadendo, e la traiettoria futura, non dobbiamo fermarci a quel che affiora in superficie: eventi, interpretazioni, analisi, notizie, pubblicità, slogan, propaganda, canti e lodi per i leader. Dobbiamo andare oltre gli eventi: trascurare il fuso propagandistico che tesse soltanto vesti mimetiche, abiti che appena indossati invecchiano consunti.
E´ semplicistico e impreciso sostenere che Hamas sia soltanto un gruppo di fanatici estremisti. E´ molto più di questo. Rappresenta sogni storici, immaginario religioso e ambizioni represse che non riconoscono alcuna realtà o limite. E´ un´immagine che racchiude verità considerate universali, complete e definitive.
Lo si potrebbe sconfiggere in quanto "potere", ma non in quanto fenomeno socio-religioso dalla portata esplosiva, a meno che non si debelli alla radice il male che lo ha generato e che, prima ancora, ha dato vita a fenomeni simili. Combattere Hamas non tenendo conto di quelle radici e limitando gli sforzi ad eliminarlo in quanto "potere", vuol dire insistere con una terapia già decretata inutile dall´esperienza storica, passata e presente. Anzi, può avere un effetto contrario, e la terapia divenire essa stessa un "male". E´ accaduto altre volte: ci ridestiamo e vediamo che il "male" dal quale ci eravamo illusi di essere guariti, si è propagato. Lascio perdere gli esempi del passato, per ricordarne soltanto due, rilevanti, del presente. I risultati cui ha portato il regime di Saddam Hussein: soppressione del "potere" dei feudi senza riuscire a eliminare il fenomeno stesso. Prima di lui, toccò al regime di Nasser trattare con il "male" rappresentato da Sayyd Qutb (leader intellettuale dei Fratelli musulmani, ndr.), che fu arrestato e giustiziato. Ed ecco che ora Nasser è senza eredi e sempre più in declino, mentre i discendenti di Sayyd Qutb, sempre più numerosi, attivi e potenti, scuotono la struttura della società egiziana e i pilastri dello Stato.
Sia Nasser sia Saddam Hussein, malgrado le tante differenze che li separano, hanno costruito un "potere" ma non una società. E questo lo si può affermare per tutti i governanti arabi dei due secoli passati. In verità, la storia degli arabi negli ultimi duecento anni non è stata storia di scienza, arti, tecnologia, libertà e progresso, ma una storia di lotta per il potere, di lacerazioni, arretramento e cedimenti. Ed è una storia che continua tuttora.
Hamas-Al Fatah: una dicotomia che evidenzia la probabile o possibile frattura tra arabi musulmani. Una frattura del presente, portatrice della frattura del futuro. Ogni qualvolta la Palestina rivela, in quanto "questione", l´impotenza e la frammentazione degli Arabi, la frattura tra Palestinesi rivela la frattura della "realtà" araba. Forse i cuori dei musulmani sono con Hamas e sicuramente non tutte le menti sono con Al Fatah. Mentre Hamas sembra un passato che fagocita il presente, Al Fatah sembra un presente che fagocita il passato.
Non si può cambiare la realtà di Hamas con gli stessi metodi usati da Nasser contro i "Fratelli musulmani", o dai governanti arabi con i loro oppositori. E´ probabile che si riesca a cambiare il "potere" in questa realtà, ma ciò non varrebbe granché: si limiterebbe al controllo delle sue armi materiali. La forza di Hamas sta non solo in queste armi ma nelle basi religiose su cui si regge. Però nel frattempo la catastrofe tragicomica continua: il potere è "illusione", nella "realtà" in cui vive Hamas. Illusione che si regge sulla violenza. La violenza dell´illusione armata è più fatale della violenza della realtà armata, perché la prima parla e agisce in "vece" del cielo.
Non è quindi una violenza "assediata" da confini, perché li scavalca come se volesse "cancellare" la Terra stessa. Poiché la Terra, secondo Hamas, è Dar al-Islam (dimora dell´Islam) ovunque sia e ovunque si possa immaginare che essa sia, oltre le nazioni, le lingue e i Paesi, e oltre la storia. E´ un´estensione trans-continentale che attraversa le organizzazioni jihadiste islamiche in tutte le loro denominazioni, forme e varianti. Così Hamas sembra combattere la storia attuale rimanendo nell´orbita universale della storia islamica, mentre Al Fatah sembra combattere un nemico specifico e delimitato rimanendo nell´orbita del potere. Hamas è in ogni luogo islamico, Al Fatah è soltanto nella West Bank o a Gaza.
Per tutti questi motivi se Al Fatah vuole uscire dalla "logica" di Hamas, deve elevare il livello del conflitto, concentrarsi sulla costruzione del futuro e non sulla rievocazione del passato. Per riuscirci non c´è altra via che la fondazione di una società civile palestinese. Solo così potrà uscire dalla "illusione" e dalla "ambiguità" e dalla violenza che esse generano; di conseguenza potrà fondare una nuova società e nuovi valori, e costruire un presente diverso come nucleo e preludio di un´altra e diversa storia.
Senza dubbio Al Fatah rimarrà al di sotto della storia poiché noi possiamo interpretare Hamas valutandola col metro del passato, ma come interpretare e valutare Al Fatah? Il suo significato storico, culturale e sociale si fonda soltanto sulla differenza: sul fatto di essere l´antitesi di Hamas, specie nelle sue connotazioni religiose. Creerà così una frattura radicale con Hamas e darà legittimità civile e umana alla propria causa. E, cessando di subire gli eventi, innescherà una dinamica creativa.
Senza di ciò, Al Fatah, anche se conquisterà il potere, non sarà soltanto al di sotto della storia come il resto dei regimi arabi, ma sarà oggettivamente valutata, in un modo o nell´altro, da una mentalità religiosa che appartiene al passato, alle sue ideologie e alle sue illusioni.
In questo caso, quale sarà il suo significato?
Traduzione dall´arabo di Fawzi Al Delmi
Repubblica 9.11.07
Anticipazione / Esce un carteggio tra Pietro Ingrao e Goffredo Bettini
Parlando di cinema e di politica
Sarà presentato lunedì sera al teatro Argentina di Roma il volume A chiare lettere - Un carteggio con Pietro Ingrao e altri scritti di Goffredo Bettini (Edizioni Ponte Sisto di Roma, pagg. 220, euro 12). A discuterne saranno Giuliano Ferrara, Anna Finocchiaro, Mario Tronti e Sergio Zavoli coordinati da Barbara Palombelli. Anticipiamo qui parte di una lettera di Ingrao a Bettini.
«E´ vero - scriveva Ingrao a Bettini - ci sono due facce contraddittorie (ma è giusto chiamarle così?) della mia vita. Evidentemente io devo avere una "passione" per la politica che è tenace: altrimenti non si spiega come essa passione duri così a lungo, e ancora adesso - in un´età così avanzata - fatichi a spegnersi». Ingrao rispondeva ad un articolo di Bettini uscito su Paese Sera, Bettini rispose alla lettera solo molti anni dopo, ma il tempo pare non aver consumato il nocciolo forte del dialogo: la politica e il suo rinnovarsi continuo a contatto con la realtà. Nella fattispecie emerge l´esperienza di un uomo politico che ha vissuto intensamente il Novecento guidato, specie negli anni più maturi, dal dubbio e quella di un politico più giovane alle prese con una dimensione nuova della politica e con la necessità di non lasciare alla sinistra la sola identità forte dell´antiberlusconismo.
Ma attraverso queste lettere passa anche un discorso culturale, un dialogo fatto, per esempio, di passioni per il cinema che diventa termine emblematico di confronto con i problemi che il mondo si trova ad affrontare. «Tu - scrive Bettini a Ingrao - preferisci Umberto D a Germania anno zero. Sai che la penso diversamente. Il dolore nel finale di Umberto D. ... è per me più sopportabile: lo vive un uomo anziano, povero, senza famiglia. Un contesto lo spiega. È il risultato di una situazione particolare, anche se diffusa, nel dopoguerra italiano... In Germania anno zero il bambino che va verso il suicidio ha una vita di fronte, è bello, ha una famiglia, è pieno di sentimenti e di voglia di vivere... L´atto finale, quel precipitare improvviso nel vuoto, fa avvertire la precarietà della nostra condizione, appesa a una misteriosa combinazione delle cose...».
Ed è ancora un film, Monsieur Verdoux di Chaplin, nel brano di lettera che qui segue, che Ingrao usa per affrontare il problema terribile della pena di morte.
Repubblica 9.11.07
"Monsieur Verdoux" il film di Charlie Chaplin affronta in modo esemplare il tema della pena di morte
di Pietro Ingrao
Caro Goffredo, ti ricordi quel film singolare di Chaplin, Monsieur Verdoux? Se non sbaglio, uscì nel ‘47, all´alba della "guerra fredda". Non è fra le opere di Chaplin più belle. Ha delle parti curiose, messe nell´opera come per breve memoria: almeno, a me così sembra tutta quella parte - ricordi? - in cui il protagonista, un piccolo investitore rovinato dalla crisi (penso a quella cruciale del ‘29), fa vedere la sua breve famiglia: la moglie, un figlioletto, salvati dalla tempesta in un angolo sperduto della Francia. Ecco: tutta quella parte è un breve ritratto di maniera (...).
Alla fine dell´opera però, c´è una conclusione fulminante, che è il racconto scarno della fine di Verdoux in manette e dell´approdo al supplizio. (...) In piedi, ormai avviato alla morte, Verdoux dice così rivolto ai giudici: «Signori, l´accusa è stata piuttosto parca di complimenti, ma ha ammesso che ho cervello. La ringrazio signore, ha ragione, e per 35 anni l´ho usato in maniera onesta. Dopodiché non è tornato più utile a nessuno e io ho dovuto cercarmi una nuova attività. Carnefice? Credevo che il mondo li incoraggiasse i carnefici. Non costruisce forse armi con l´unico scopo di commettere carneficine? Non ha fatto forse saltare in mille pezzi bambini e donne ignare, con precisione persino scientifica? In confronto, io come carnefice sono un dilettante...».
È un testo bruciante: in brevi, scarne parole, è un giudizio sul secolo (...). Che io mi ricordi forse è l´unico - brevissimo - testo di Chaplin in cui egli evoca il drammatico senza concedere nulla al buffo. Non vediamo il patibolo. Sappiamo solo che per l´omino al termine di quel cammino c´è l´uccidere: l´essere umano che uccide l´altro essere umano, che pure adesso è in suo assoluto possesso: inerme ormai, i polsi serrati nelle manette.
(...) Nei suoi modi la favola di Verdoux sembra tornare. Stavolta il mondo intorno al protagonista non è più la Francia. Siamo all´estremo dell´Occidente: in California. Protagonista è un bandito delle parti di Los Angeles, che si chiama, se ho annotato bene, Stanley Williams, detto "Tookie". Williams nasce e cresce in un ghetto povero della periferia di Los Angeles. E mette in piedi, nel 1969, con Raymond Washington, un´organizzazione criminale che prende il nome di "Crips": insieme danno vita a un´ondata di violenza e di delitti. A Williams sono stati addebitati l´assassinio di Albert Ovens, di Tzai-Shai Yang, di Yen-lo Yang e Yee Che Lin, compiuti nel corso di più rapine separate. Dice un testimone che «Williams stava uccidendo tutta la gente bianca». Ma viene sterminata anche la famiglia di Yang, che era immigrata da Taiwan.
L´arresto di Williams è del marzo del 1979, quasi trenta anni fa. E l´accusa denuncia efferati incitamenti di Williams ad assassinare la polizia, e commissionare delitti anche dall´interno della prigione dove è stato rinchiuso. Poi Williams ha una svolta nella sua vita. Ripudia quel passato sanguinoso. Scrive nella prigione libri per bambini in cui sostiene la non-violenza. Amici, che l´hanno conosciuto in quegli anni di carcere e di svolta, addirittura propongono il Williams per il premio Nobel per la pace. E vengono raccolte firme per chiedere clemenza. Ma il "regolatore" californiano Arnold Schwarzenegger è inflessibile. Respinge la richiesta. Il 13 dicembre del 2005 Williams viene condotto al patibolo. Il boia, nell´eseguire la condanna, fatica a inserire nel braccio del condannato la siringa avvelenata. Poi è la fine.
Più o meno quasi tutti i giornali del mondo escono criticando il rifiuto della clemenza. Ma presto - già il giorno dopo - altri eventi incalzano nel globo. La storia di Williams cade subito nell´oblio. Anche coloro che si erano commossi sono chiamati dalla vita ad altre premure, e su Williams scende la cupa cappa del silenzio. Ancora una volta, nei secoli, sulle terre del globo è tornata la pena di morte.
Corriere della Sera 9.11.07
Dibattiti. Piattelli Palmarini risponde ai rilievi di Boncinelli e Pievani sul «Foglio»
Tra Dio e Darwin meglio ascoltare la natura
«Ma superare l'evoluzionismo non vuol dire credere a un disegno esterno»
di Massimo Piattelli Palmarini
Il mio articolo di critica al neo-Darwinismo ortodosso, pubblicato domenica 4 novembre nelle pagine di cultura del Corriere della Sera, ha trovato un'ampia e positiva eco su Il Foglio del 6 e 7 novembre. Sono grato al direttore, ai redattori e ai collaboratori di quella testata per la gentile attenzione rivoltami, per il fedele riassunto degli argomenti da me trattati e per una lusinghiera biografia. Intelligentemente, Il Foglio ha consultato due qualificatissimi colleghi e amici, il genetista Edoardo Boncinelli e lo storico della scienza Telmo Pievani. Con loro sono da tempo in perfetta sintonia sul modo di ri-pensare l'evoluzione. Vorrei qui rassicurare Pievani che sono lungi dall'invocare qualsiasi intervento «esterno» e Boncinelli che sono lungi dall'invocare un'alternativa all'evoluzione. Arricchimento sì, alternativa no. Da loro mi distanzio solo per quanto riguarda alcune valutazioni espresse sul peso delle cose che dico in quell'articolo e sull'opportunità di dirle.
Boncinelli mi accusa garbatamente di «dire cose vecchie» quando faccio presente l'intreccio delle regolazioni dei geni maestri (sui quali lui stesso e i suoi colleghi hanno lavorato tanto) e di dire «un'ovvietà» quando sottolineo l'importanza delle leggi della fisica nel fornire grandi linee maestre e insospettate leggi di ottimizzazione per lo sviluppo degli organismi viventi. Alcune delle scoperte alle quali mi riferisco in quell'articolo sono vecchie di circa vent'anni, ma quasi ogni mese vengono pubblicate scoperte nuove e spesso sbalorditive. Per esempio l'intero campo della giunzione alternativa di segmenti di geni (alternative splicing) è in pieno e tumultuoso sviluppo, al Broad Institute di Cambridge Massachusetts (congiuntamente di Harvard e del Mit) e la prima sintesi comprensiva sull'argomento è del 2006. I lavori sulle ottimizzazioni biologiche spontanee delle quali parlavo spaziano dal 1999 al 2006, quindi non sono poi tanto vecchi.
Christopher Cherniak e colleghi all'Università del Maryland hanno sudato per ben due anni (dal 2002 al 2004) a soddisfare le obiezioni dei recensori scientifici, prima di poter pubblicare il loro articolo sull'ottimizzazione naturale (innata ma non geneticamente determinata) delle connessioni nervose, dal verme al macaco. Non proprio il trattamento riservato a chi dice un'ovvietà. Sia Boncinelli che Pievani dichiarano che i darwinisti ortodossi sono, oggi, una minoranza, che quanto affermo è ormai condiviso dalla maggioranza dei biologi e dei genetisti e che, quindi (lasciano capire), avrei agitato una tempesta in un bicchier d'acqua. Li smentisce l'eco immediata e notevole suscitata dal mio articolo, i messaggi di posta elettronica che sto ricevendo (in maggioranza di apprezzamento, soprattutto da professori di biologia dei licei), il folto pubblico che mi ha onorato al Festival di Genova e la nutrita discussione che ne è seguita (alla quale Pievani era presente). Se anche fossero cose vecchie e ovvietà, non sembrano essere state abbastanza divulgate. Ma vengo adesso ai colleghi ascoltati da Il Foglio, dai quali, invece, parzialmente dissento. Il corsivista riporta correttamente le parole del cardinale Christoph Schoenborn, che invitava, in un suo celebre articolo del 2005 (pubblicato sul New York Times), a «superare la visione materialistica dell'evoluzionismo». Il cardinale ed io concordiamo (in sintonia con i laicissimi biologi Stephen Jay Gould, Richard Lewontin e Stuart Kauffman) nel rivendicare il ruolo centrale giocato nell'evoluzione della vita dalle leggi della forma e da principi universali di coordinazione e ottimizzazione molto generali ed astratti. Ma anche questa è una visione perfettamente materialistica. Complessa, astratta, ma materialistica, proprio come lo sono la fisica e le sue leggi. L'antropologo e paleontologo monsignor Fiorenzo Facchini, nella sua intervista a Il Foglio, dice tantissime cose con le quali concordo, in particolare che esula dalla scienza trovare «il significato di un mondo che ha una sua storia evolutiva ». Su questo, a mio giudizio, Montale, Goethe e Borges ci hanno detto molto. Dissento, però, quando afferma: «L'evoluzione non può dimostrare, ma neppure escludere la sfera trascendente».
Invece penso proprio che la escluda, almeno quando si resta in ambito scientifico. Introdurre il trascendente violerebbe il patto scientifico, che consiste nello spiegare la natura restando nel naturale. Il significato del mondo, appunto, esula dalla scienza e ciascuno lo cerca a suo modo, nella letteratura, l'arte, la filosofia, la musica e, ovviamente, i credenti nella religione. Ma la spiegazione dell'evoluzione biologica è, per contratto intellettuale, impresa estranea al trascendente. Vengo infine al genetista Giuseppe Sermonti, il cui pezzo del 7 novembre assimila la selezione naturale a enti inesistenti congetturati dagli scienziati di altri tempi. La selezione naturale, a differenza di quanto afferma Sermonti, è ben reale ed avviene da miliardi di anni e avviene anche dentro di noi mentre leggiamo questo articolo (anticorpi, cellule del pancreas, cellule epiteliali, per non parlare delle connessioni nervose). Che non basti da sola a spiegare l'evoluzione e vada integrata con molti altri complessi meccanismi è quanto anche io sostengo, ma assimilarla all'inesistente flogisto degli antichi alchimisti e all'inesistente etere dei fisici di inizio Novecento è scorretto. A differenza di quanto afferma Sermonti, c'è continuità tra la genetica di popolazioni e l'evoluzione dei viventi, così come c'è continuità tra la biochimica e l'embriologia. Parafrasando nel presente contesto una bella espressione di Bertrand Russell, è un errore ritenere che, siccome la selezione naturale non è sufficiente, allora essa non è nemmeno necessaria.
Redattore sociale 8.11.07
Psichiatria 2007
Lo 0,4% degli italiani colpito da schizofrenia; il 55% non guarisce
Roma - Disabilita', stigma, isolamento. Senza contare le difficolta' per i familiari e i servizi assistenziali. Sono solo alcuni dei problemi derivanti dalla schizofrenia, uno dei disturbi mentali piu' gravi e invalidanti, che generalmente colpisce nella fascia di eta' compresa tra i 15 e i 35 anni, e che nel nostro paese, attualmente, coinvolge circa 150 mila persone (245 mila, invece, equivalente a circa il 0,4% della popolazione, nel complesso, gli individui che sono, o sono stati affetti, da disturbi di tipo schizofrenico). "Un fenomeno che non e' in aumento, ma che si segnale stabile. Noi ci aspettiamo dai 10 ai 20 nuovi casi ogni 100 mila abitanti" spiega Mirella Ruggeri, della Societa' italiana di epidemiologia psichiatrica, che questa mattina ha partecipato, al ministero della Salute, alla presentazione delle linee guida "Interventi precoci nella schizofrenia", promosse dal ministero e realizzate dalla Siep.
Ma anche un fenomeno che, come spiega Giovanni De Girolamo, dell'agenzia sanitaria regionale dell'Emilia Romagna, in circa cinquant'anni, ovvero da quando sono stati introdotti i farmaci, ha avuto un incremento di guarigione solo del 10%. "Erano, infatti, il 35% prima del 1956, mentre ora si attestano intorno al 45%". Con il conseguente risultato che il 55% delle persone colpite da schizofrenia non riesce ancora a trovare una via d'uscita dalla patologia.
E proprio per agevolare la ricognizione di validi strumenti per l'identificazione precoce di soggetti a rischio, il ministero della Salute a messo a punto le linee guida sulla schizofrenia, primo caso a livello internazionale, realizzate da un gruppo di lavoro multidisciplinare e destinate non ai medici di base, ma ai dipartimenti di salute mentale. Nell'elaborazione delle linee guida, il criterio prioritario sta nella distinzione tra "soggetti a rischio di schizofrenia" e quelli che si trovano al "primo episodio psicotico". Per i primi, l'efficacia degli interventi e' stata valutata assumendo come obiettivi la modifica del decorso di malattia o la prevenzione della sua insorgenza. Mentre, per quanto riguarda i pazienti al primo episodio psicotico, lo studio di valutazione ha portato ad una serie di raccomandazioni: da quella di attuare programmi di strutturati di identificazione e trattamento precoci dei soggetti al primo episodio, a quello di usare tecniche di "imaging" (come Tc e Mri) a supporto delle diagnosi, ma non in regime di screening, fino a quello di trattare farmacologicamente il paziente all'esordio psicotico, o nel periodo successivo all'esordio. (DIRE)
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il Riformista 9.11.07
Provocazioni. Hilary Putnam continua la battaglia contro i sofismi
I filosofi della polenta, troppo mega e troppo micro
Speculazioni come quella di Galimberti su Heidegger danno un senso di appagamelo, ma in realtà non ci svelano nulla. Rimane la fame di conoscere la verità, che si nasconde nei dettagli, non nei grandi temi. Meglio il sano pragmatismo della cattiva letteratura della mente.
di Filippo La Porta
Qualche giorno fa ho ascoltato all'auditorium di Roma Tre l'ottuagenario Hilary Putnam che ripercorreva i temi della sua ricerca filosofica, è stato particolarmente avvincente. Duemila anni dopo, si continua la battaglia di Socrate contro i sofisti. Contro ogni relativismo e scetticismo postmoderni c'è stato assicurato che la verità esiste, ancorché sia fallibile e ovviamente condizionata dal linguaggio che usiamo per dirla. Non si esaurisce in un effetto retorico e anzi ci impedisce di parlare a vanvera di qualcosa. Putnam infatti, dopo molte svolte teoretiche, è approdato a una idea di «realismo naif», per cui la realtà esterna, che pure possiamo descrivere in tanti modi diversi, decide in ultima istanza se un nostro enunciato sia vero o falso. Il mondo non è perduto, anche se ne esistono innumerevoli versioni. La verità è conoscibile, benché la nostra conoscenza sia sempre esposta all'errore, come sottolinea uno dei nostri più acuti interpreti di Putnam, Massimo Dell’Utri. Una conclusione che da qualche conforto anche a chi, come me, dilettante di filosofia, cerca nelle opere letterarie le tracce, i frammenti di una verità che, al tempo stesso, è «inventata» e anche «trovata» dagli scrittori. Ma torniamo per un momento alla filosofia.
Da qualche tempo mi vado convincendo che i filosofi sono non tanto i nemici dell'umanità ma, paradossalmente, i nemici di ogni genuina curiosità verso il reale? Non mi riferisco tanto alla annosa querelle sulla fede nazista di Heidegger, un filosofo molto amato (nell'ordine) dalla spaesata sinistra, ipnotizzata dal suo stile signorile, dai critici letterari perché da una patina di ineffabile alle loro interpretazioni, dai poeti in virtù del suo aroma di «profondità». Anche se è vero che nella filosofia dell'insondabile Heidegger sia arduo distinguere tra un Lager e una fabbrica di automobili, e anche se resta singolare il fatto che una rivista come Micromega, che dovrebbe essere naturalmente attratta da sobri filosofi neoilluministi e neorazionalisti pulluli invece di heideggeriani e metafisici alquanto verbosi.
No, il punto è un altro. Direi piuttosto che il limite principale della filosofia consiste nell'illuderci di capire, d'un tratto - e con poche formule ingegnose -, il mondo, l'essere, la storia, etc... quando non riesce a mettere bene a fuoco neanche la realtà a noi più prossima. In questo senso, ovviamente, i filosofi analitici e anglofobi (accomunati più da uno «stile» che da una «teoria»), giustamente ossessionati da rigore, chiarezza, coerenza, adesione all'esperienza, etc. (e quando non siano interamente votati allo scientismo e a un naturalismo riduzionista) sembrano un po' meglio attrezzati rispetto ai continentali, inclini alla metaforizzazione e alla cattiva letteratura. In genere quell'illusione di dominio conoscitivo sulle cose - non lontana utilmente "testare" attraverso un inconfondibile "effetto-polenta", a lettura conclusa.
Prendiamo proprio un numero di Micromega uscito la primavera scorsa e dedicato, come del resto molti altri (tutti utilissimi per orientarsi nel pensiero contemporaneo) alla filosofia. C'è un contributo di Umberto Galimberti, peraltro pieno di osservazioni stimolanti, che si incarica di riassumere – e lo fa benissimo - il pensiero di Heidegger. Dopo aver letto l'articolo - almeno questa è stata la mia esperienza - ci si sente davvero "pieni", appagati. Si è convinti di aver capito, finalmente, il nocciolo della nostra epoca e dell'occidente: abitiamo l'era della tecnica, dove ha spazio solo il pensiero calcolante e la logica dell'utile, e dove le uniche domande sul senso dell'esistenza possono nascere da una esperienza del negativo, dell'essere gettati, etc.
Magnifico. Però, esattamente come dopo una scorpacciata di polenta, ci troviamo ad aver fame quasi subito! Il teorema Heidegger, qui sobriamente compendiato, da l'ebbrezza - lievemente sadica - di incapsulare l'intera realtà, dal Macintosh alla Coca-Cola, ma poi lascia tantissime cose importanti fuori del suo raggio. Come una volta osservò il pragmatico Richard Rorty, da poco scomparso, i filosofi sono degli asceti, nel senso che riportano la realtà alla sua "essenza", perdendo così di vista i "dettagli", che invece, apparentemente banali, sono quasi sempre più significativi.
Anche se il mondo sembra oggi sparire nelle sue simulazioni non siamo cervelli immersi in una vasca come in Matrix, e illimitatamente manipolagli. Le nostre innumerevoli "narrazioni" devono pur sempre confrontarsi con una realtà esterna che a loro resiste.
Liberazione 8.11.07
Il sociologo entra nel dibattito su sicurezza e società
Bauman: «Con la menzogna politica
i governi oggi corrono pochi rischi»
di Susanna Marietti
Secondo il famoso sociologo molti governi cercano di seguire la strategia sulla sicurezza made in Usa: le minacce
devono essere dipinte con i colori più sinistri, così se non accade niente è il risultato di abilità degli organi statali
Bauman: «Con la menzogna politica i governi oggi rischiano poco»
Zygmunt Bauman, sociologo di origini polacche rifugiatosi in Gran Bretagna giovanissimo, ha raccontato nelle sue opere la solitudine del cittadino globale (come recita il titolo di un suo notissimo volume) e la ‘modernità liquida' dei nostri tempi. La liquidità, nel lessico di Bauman, è la mancanza di punti di riferimento, di progetti unitari e direzioni definite da seguire. Nella prefazione a un libro curato dall'associazione Antigone di imminente uscita per le edizioni Carta scrive:
«Gli stati cercano oggi urgentemente nuovi fondamenti per la loro autorità e la loro richiesta di obbedienza. I fondamenti esistenti - la promessa, e in buona parte la pratica, dello ‘stato sociale' che assicura i cittadini contro la sfortuna sofferta individualmente, benché originata socialmente - sono stati progressivamente indeboliti e rischiano di venir smantellati del tutto. La custodia della sicurezza personale sembra allora essere un'alternativa attraente».
In Italia viviamo in questo senso una situazione esemplare. Centrodestra e centrosinistra fanno a gara nel denunciare i pericoli drammatici delle nostre città, nonostante gli omicidi siano nettamente in calo e gli altri reati siano più o meno stabili da decenni. Eppure si distraggono le persone dai problemi di natura sociale, indirizzando il loro sguardo verso la parte economicamente debole e di conseguenza non integrata della società.
Certo. Per rendere efficace questa nuova legittimazione dell'autorità statale, i governi sono tentati di esagerare in ogni modo l'intensità delle minacce alla sicurezza. Essi hanno anche un disperato bisogno di dimostrare la propria fermezza nel combattere queste minacce stroncando il pericolo sul nascere. Nello sforzo di soddisfare entrambi i bisogni mantenendo un umore di costante emergenza, la menzogna politica si dimostra un espediente ideale. E curiosamente i cittadini quando vengono sottoposti a forti restrizioni delle proprie libertà personali, come interminabili controlli agli aeroporti o telecamere disposte ovunque, tendono a essere grati piuttosto che a sentirsi disturbati. Ricevono la dimostrazione che lo stato li protegge contro pericoli inimmaginabili in cui altrimenti si imbatterebbero… In molti acconsentirebbero a rinunciare a una buona parte delle proprie libertà personali per la sicurezza così intesa.
Il ricorso alla menzogna politica, dunque, porta a far sacrificare di buon grado quote di libertà personale.
Due minacce incombono oggi sul futuro della democrazia e dei diritti umani, nonché sulle speranze di far fronte seriamente alle sfide della nuova interdipendenza planetaria: i segreti di stato e le menzogne politiche. Entrambe le cose sono in rapida crescita ed entrambe sono usate per far spostare la legittimazione dei poteri locali e statali dalla sicurezza sociale a quella individuale. La menzogna politica, al contrario dei segreti di stato, è urlata a gran voce ‘per il bene dei cittadini'. Ma la sua efficacia nell'assalto alle libertà personali si basa sul presupposto che lo stato sa cose che i suoi cittadini non sono in grado di venire a sapere ed è meglio che non sappiano.
Il ricorso a una menzogna politica comporta un rischio minimo. Lo stato fabbrica un'informazione che finge di possedere, benché di nuovo ‘per il bene dei cittadini' non possa rivelarne i contenuti e le fonti. Ogni domanda posta dagli scettici è così squalificata in anticipo e costretta a rimanere senza risposta. Visto che tutte le possibili prove sono ben nascoste nel regno inaccessibile dei segreti di stato, il bluff non potrà mai venir scoperto. Nel caso in cui l'inganno venga messo a nudo da successivi eventi che lo stato non può controllare - come nel caso delle armi di distruzione di massa che Saddam Hussein doveva essere in grado di rovesciare sulle isole britanniche in meno di un'ora - questi può ancora contare sulla deplorevolmente corta memoria pubblica e sulle ben note fluttuazioni della pubblica attenzione. La menzogna sarà rapidamente dimenticata, oppure al momento della sua rivelazione non sarà più al centro dell'interesse pubblico. Mentire è oggi sicuro come mai prima: se gli allarmi dello stato su un imminente disastro non trovano conferma, non si sarà mai in grado di decidere se la minaccia non si sia materializzata grazie alla vigilanza del governo e all'efficacia delle sue contromisure o perché si basava su invenzioni.
Nella modernità liquida i rifiuti umani divengono sempre più numerosi.
Lo ‘stato sociale', quel coronamento della lunga storia della democrazia europea che fino a poco fa ha costituito la sua forma dominante, è oggi in ritirata. Esso fondava la richiesta di lealtà e obbedienza da parte dei cittadini sulla promessa di assicurarli contro la disoccupazione e l'esclusione, contro l'assegnazione alla condizione di ‘rifiuto umano' delle sfortune individuali, inserendo certezza in quelle vite altrimenti preda e dell'imprevisto. Se individui sfortunati inciampano e cadono, ci sarà qualcuno pronto ad aiutarli a rimettersi in piedi. Le instabili condizioni di occupazione dovute alle leggi del mercato erano allora, e continuano a essere, la maggiore fonte di insicurezza rispetto alla condizione sociale e all'autostima personale. Fu in primo luogo contro questa insicurezza che lo stato sociale prese a proteggere i suoi cittadini. Questo oggi non è più il caso per molte ragioni, tra cui principalmente la globalizzazione e la redistribuzione globale dei suoi rifiuti, processi gemelli che gli unici attori politici effettivi, gli stati nazione, non possono arrestare né influenzare seriamente. Gli stati attuali non possono mantenere la promessa dello stato sociale, e i loro politici neanche la rinnovano. Le politiche di questi ultimi preannunciano invece un'esistenza ancor più precaria e ossessionata dal rischio. Si chiede agli elettori di essere ‘più flessibili' - cioè di prepararsi a un'ulteriore futura insicurezza - e di cercare individualmente le proprie soluzioni ai problemi socialmente prodotti….
In Italia, l'ultima frontiera dell'emergenza è costituita dai rumeni.
A differenza di quanto accade con l'insicurezza, tangibilissima e quotidianamente esperita, prodotta dai mercati, i quali non hanno bisogno di alcun aiuto da parte dei poteri politici eccetto essere lasciati in pace, la mentalità da ‘fortezza assediata' e da proprietà privata e corpi individuali minacciati deve essere coltivata attivamente. Le minacce devono essere dipinte con i colori più sinistri, cosicché non l'avvento dell'apocalisse preannunciata, ma al contrario la non materializzazione delle minacce possa essere presentata al pubblico spaventato come un evento straordinario, e soprattutto come il risultato di abilità, vigilanza, cura e buona volontà eccezionali degli organi statali. E' ciò che viene fatto, e con risultati spettacolari. Quasi ogni giorno, almeno una volta alla settimana, Cia e Fbi mettono in guardia gli americani dagli imminenti attentati alla loro sicurezza, mentre il Presidente americano continua a ricordare ai suoi elettori che «basterebbe una fiala, una bomboletta, una bottiglia introdotta in questo paese a portarci un orrore mai conosciuto prima». Questa strategia è copiata con impegno, anche se finora con ardore un po' ridotto per mancanza di fondi (ma non di volontà), da altri governi che sovrintendono alla sepoltura dello stato sociale.
Su iniziativa di alcune associazioni e di numerosi militanti iscritti ai quattro partiti di sinistra o animatori di importanti e significative strutture politiche, culturali e sociali è nata “Sinistra per Roma” che vuole contribuire alla costruzione di un movimento culturale e politico che abbia come obiettivo l’apertura di una fase costituente per la nascita di un nuovo soggetto politico a sinistra, unitario, plurale ed ecologista.
Le associazioni e i firmatari dell’appello pure convinti che un nuovo soggetto unitario a sinistra non può nascerete prescindendo dal ruolo decisivo dei partiti, sono altrettanto convinti che i partiti da soli, se non vi sarà una vigorosa spinta dal basso, non sono in grado di determinare questo esito, anzi rischiano di realizzare pericolose scorciatoie o di dar vita ad accordi dettati dalla solo necessità di eventuali difficoltà elettorali. Occorre invece indicare, con nettezza e coerenza, un percorso, una strategia, delle tappe. Insomma, impegnarsi in un lavoro politico, organizzativo e culturale di medio periodo per costruire una grande moderna sinistra, capace di rinnovare la politica e di ricostruire il rapporto tra politica, cultura e cittadini.
Per queste ragioni i promotori dell’appello (è in corso la raccolta delle adesioni ed è intenzione dei promotori superare, entro la fine del mese, le mille firme) sollecitano tutte le organizzazioni della sinistra e in particolare i gruppi dirigenti romani dei partiti del PRC - SE, PdCI, Verdi, Sinistra Democratica, affinché condividano con i promotori dell’iniziativa la proposta di avviare una fase costituente attraverso la formazione di una Assemblea rappresentativa di tutto il popolo della sinistra, e segnare così, unitariamente, in termini forti, il dibattito politico nazionale sul futuro della sinistra italiana.
Per rafforzare il carattere insieme unitario e propositivo dell’iniziativa si è deciso, assieme ai promotori di altre iniziative analoghe, di tenere entro la prossima settimana una riunione di tutti i firmatari dei diversi appelli. Nel corso della riunione saranno anche affrontati, in modo democratico e partecipato, i problemi da affrontare e gli intendimenti che dovranno emergere dalla grande assemblea cittadina di tutta la Sinistra di Roma prevista per lunedì 3 dicembre, con la partecipazione di personalità e rappresentanti di iniziative simili alla nostra maturate in altre città d’Italia.
“Sinistra per Roma” ha la sede presso L’Associazione Culturale di Monteverde, in Via di Monteverde 57.
Segue l’appello con le firme.
Sinistra per Roma
Un movimento politico per la costituente
Appello
(Roma, 12 novembre 2007)
Un movimento politico per la costituente
Appello
(Roma, 12 novembre 2007)
L’unità della sinistra è necessaria e urgente, pena il suo inesorabile declino. È infatti essenziale porre fine alle divisioni e al frazionamento che rendono sempre più deboli le sue ragioni per la pace, la democrazia, la libertà, l’uguaglianza e la salvaguardia del pianeta. Occorre uno strumento adeguato ed efficace per dare una diversa e nuova rappresentanza politica al mondo del lavoro, ai movimenti pacifisti, ambientalisti e di tutela dei diritti civili. Una sinistra che sappia, inoltre, condurre una sfida politica e culturale anche nell’ambito del centrosinistra e nel ricercare convergenze e intese col Partito Democratico ne contrasti, con una sua specifica iniziativa, la deriva neocentrista nelle idee, nelle culture e nelle politiche. Una sinistra, infine, in grado di sostenere e assecondare i migliori valori collegati alla laicità dello Stato e che sia in grado di svolgere una critica di massa al sistema capitalistico e ai suoi dis-valori basati sull'individualismo e che, proprio perché intende misurarsi con i Democratici sul terreno dell’egemonia politica, operi per un’alternativa di società.
Per queste ragioni è indispensabile dar vita a un processo per la costruzione di un nuovo soggetto unitario della sinistra, plurale e di massa, aperto alla società e ai movimenti, insediato nel mondo del lavoro e nei territori. Un soggetto innovativo che recuperi il concetto migliore sia di rappresentanza diretta che di delega, oggi colpevolmente trascurati e sacrificati da una politica sempre più distante dalle esigenze dei cittadini e delle cittadine; un nuovo soggetto politico che sappia dunque sostenere – valorizzandoli – sia la partecipazione democratica sia il conflitto sociale e ricerchi un nuovo spazio pubblico per uscire da sinistra dalla crisi della politica. Pertanto proponiamo di realizzare un modello partecipativo che si basi su forme innovative e più avanzate di democrazia che realizzino una rottura con il modo attuale di fare politica – professione separata dalla società – e con i suoi alti costi. Un nuovo soggetto politico quindi in netta discontinuità con il carattere monosessuato della politica e con la pratica organizzativa piramidale, verticale e gerarchica e che traduca positivamente, tra quelle le rivendicazioni condivise delle comunità locali, prima di tutto sui temi del lavoro e dell’ambiente.
Siamo convinti che la proposta della “Federazione della Sinistra”sia inadeguata. e che per avviare il processo unitario di un nuovo soggetto politico sia decisivo aprire una vera e propria fase costituente, attraverso la formazione di un’ “Assemblea Costituente” rappresentativa di tutto il popolo di sinistra. Un’Assemblea eletta in termini democratici e che sia il risultato di un coinvolgimento popolare vero, dal basso, di rappresentanze dai territori. Dunque, un’Assemblea che vada oltre i partiti esistenti e i loro apparati. La convocazione pertanto degli “Stati Generali” deve essere l’occasione per un lavoro che abbia come risultato l’indicazione dei tempi, delle forme e delle norme con le quali giungere all’”Assemblea Costituente”.
La volontà dei gruppi dirigenti dei partiti di sinistra di lavorare su un progetto unitario è una condizione, ma da sola è insufficiente, anzi a lungo andare potrebbe diventare una pericolosa e fallimentare scorciatoia. Infatti, un soggetto politico unitario nuovo non può essere la sommatoria delle debolezze dei partiti Per questo occorre che si realizzino case della sinistra, laboratori sociali, momenti di aggregazione nei territori: luoghi aperti del confronto e della contaminazione per dare costante impulso e forza al processo costitutivo. Sul piano elettorale è necessario dar vita a liste unitarie a tutti i livelli, la cui formazione deve svolgersi in modo partecipato e trasparente. Le liste unitarie comunque non sono né un punto di partenza né un punto d’arrivo del processo costitutivo, bensì una tappa di un lavoro politico, culturale e organizzativo di lunga lena che non può esaurirsi con la composizione di unitarie rappresentanze istituzionali.
La grande area urbana di Roma è attraversata da drammatici problemi come la precarietà sociale, l’insicurezza di vita soprattutto per le nuove generazioni, la scarsa qualità dei servizi, l’insufficienza organizzativa delle strutture amministrative, il degrado ambientale e il consumo continuo di territorio, il caotico sviluppo urbanistico e l’inadeguatezza delle infrastrutture, il traffico congestionato. Il cosiddetto “modello Roma” sta assumendo le sembianze di un blocco sociale e di potere per la modernizzazione neoliberista della società romana. La necessità di una sinistra capace di dare risposte adeguate e di indicare un percorso di profonde trasformazioni dell’area metropolitana per una diversa qualità della vita è quindi forte e urgente, anche in considerazione del fatto che la sinistra governa insieme con il Partito Democratico in quasi la totalità dei Municipi, al Comune, alla Provincia e alla Regione.
È tempo dunque di promuovere e favorire un lavoro comune di analisi e proposta politica, un lavoro collettivo culturale e di iniziativa nel sociale e nelle istituzioni, per unire la sinistra su un progetto di cambiamento del Paese e attorno a un programma di governo per Roma, per la Provincia e per la Regione. Occorre favorire e sostenere tutte le attività di carattere politico e programmatico impegnate in questa direzione.
Per questo i firmatari del presente appello si fanno promotori, nella sede de “L’Associazione Culturale di Monte Verde”, storica struttura unitaria della sinistra romana, di “Sinistra per Roma”, con l’obiettivo di mettere insieme – in un sistema a rete - tutte quelle forze ed energie, singole personalità e militanti ma anche realtà associative e collettivi territoriali, che a Roma si riconoscono nella proposta di aprire una fase costituente per dare - da subito - forza e consenso popolare al processo costitutivo di un soggetto unitario e plurale della sinistra. Crediamo, inoltre, che “Sinistra per Roma” possa contribuire all’unificazione di tutte quelle iniziative analoghe per dare vita a un movimento per la costituente. Questo è il nostro impegno, la nostra finalità politica.
Intendiamo, lavorando in primo luogo con i partiti, anzi in stretta collaborazione con essi, dare - donne e uomini di sinistra della Capitale - il nostro fattivo ma autonomo contributo per realizzare l’unità della sinistra. Crediamo che questa nostra scelta sia importante e meritevole di essere condivisa e sostenuta. Per questo chiediamo che questo nostro appello sia pubblicato su tutti i siti delle organizzazioni della sinistra.
Firmatari:
Antonio ALCARO; Salvatore ALFIERI; Pino ARLACCHI; Andrea AMATO; Bruno AMOROSO; Bruno BARTOLOZZI; Mariella BACARINI; Paolo BERDINI; Stefano BOCCONETTI; Salvatore BONADONNA; Sergio BELLUCCI; Elena CANALI; Mario CANINO; Tommaso CAPEZZONE; Aldo CARRA; Antonio CASTRONOVI; Bruno CECCARELLI; Giulietto CHIESA; Armando CIPRIANI; Neno COLDAGELLI; Paola CORTESE; Mariopaolo DARIO; Anubi D’AVOSSA LUSSURGIU; Ivano DI CERBO; Carlo DRAGO; Maurizio FABBRI; Giorgio FABOZZI; Daniela FALCONE; Antonello FALOMI; Sergio FORTUNATO; Simone FUSCO; Pino GALEOTA; Paolo GENTILE; Fabio GRIECO; Claudio LAUDISA; Lino LELLI; Lucio LIBONATI; Enrico GIARDINO; Luciano IACOVINO; Francesco MANCUSO; Augusto MANGIONI; Vittorio MANTELLI; Paolo MENICHETTI; Raul MORDENTI; Antonio MURRI; Roberto NAPOLEONE; Franco OTTAVIANO; Carlo PATRIGNANI; Cirio PESACANE; Anna PIZZO; Giovannella PODESTA’; Raffaele PRINCIPE; Francesco PULIA; Simona RICOTTI; Mimmo RIZZUTI; Elio ROMANO; Vittorio SARTOGO; Enzo SCANDURRA; Roberto SCIACCA; Luisa SEVERI; Volfango SINISCALCHI; Ester STOCCO; Luigi TAMBORRINO; Corrado TEOFILI; Marco TIMARCO; Tommaso VACCARO; Alessandro VALENTINI; Sergio VASARRI; Anna Maria VIRGILI; Angelo ZOLA.
Hanno inoltre aderito le seguenti strutture:
Associazione AMBIENTE E SINISTRA – NODO AMBIENTALISTA; Associazione Culturale MONTEVERDE; ARS – Associazione per il Rinnovamento della Sinistra; Associazione SINISTRA EUROMEDITERRANEA; Associazione ROSSOVERDE per la sinistra europea; Circolo Culturale “A SINISTRA, PUNTO E BASTA!”; Forum LUIGI PETROSELLI – Uniti a Sinistra; Rivista LEFT; SINISTRA ROMANA – Uniti a Sinistra.