lunedì 12 novembre 2007

Apcom 10.11.07
Bertinotti: la crisi politica più grande nella storia contemporanea
"Ma in Italia si muovono anticorpi"


Milano, 10 nov. (Apcom) - Secondo il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, "oggi siamo di fronte ad una crisi della politica drammatica, forse la più grande nella storia contemporanea, dal punto di vista della sua dissoluzione". Lo ha detto nell'ambito di un convegno organizzato a Milano dalla Fondazione Giorgio Gaber.
"Siamo di fronte a una modernizzazione capitalistica - ha continuato - che lavora a consumare la democrazia e a realizzare forme inedite di dominio in cui tutto è governato dal capitale. Il mercato produce un processo ulteriore di mercificazione delle persone. Dopo la fase taylorista e fordista oggi conosciamo una sostituzione dell'alienazione dell'omino di Chaplin con una precarietà che tende ad essere cifra del nostro tempo e molti elementi di governo della politica sono cancellati. La sovranità è messa in discussione e le forze politiche sono private della capacità di disegnare idee e società".
"Questa fase dello sviluppo capitalistico e della storia umana - ha proseguito Bertinotti -, almeno in Europa, mette a rischio la politica e le istituzioni democratiche. Può essere benissimo che si vada verso governi tecnocratici che sono semplicemente accompagnamento a questa macchina tesa a realizzare la competizione. Un capitalismo totalizzante".
Quanto alla situazione strettamente italiana, alla fine del suo intervento, il presidente della Camera è parso più ottimista: "Penso che si vedano anche nella società italiana, insieme a molti elementi di imbarbarimento, anche tanti elementi di anticorpi che si muovono nella società civile e che siano per la riforma e l'autoriforma della politica una grande opportunità. Un grande artista come Gaber, certo non ti può dare la ricetta, ma ti aiuta".

l’Unità 12.11.07
Vuoti di memoria. Il ‘68 di Berselli
di Rinaldo Gianola


In «Adulti con riserva» Berselli se la prende con l’anno mirabile ma dimentica molte cose
Stroncare il 1968? Ok, ma giù le mani dal 1969

La vita è un lampo, signora mia: non si fa in tempo a voltarsi indietro e sono già passati altri dieci anni. Di decennio in decennio «maturiamo», diventiamo adulti, invecchiamo, ma aspiriamo a restare giovani coltivando la sottile illusione che i tempi andati siano sempre i migliori. Anticipando la prevedibile ondata retorico-celebrativa che tra qualche mese inonderà la stampa e le tv per i quarant’anni del leggendario o detestabile 1968, Edmondo Berselli ha scritto un libro fresco e frizzante, che si beve come una gazzosa d’estate.
Vuole farci sapere che lui, impegnato direttore del Mulino e autorevole editorialista del gruppo Repubblica-Espresso, stava meglio prima di quello storico anno.
«Adulti con riserva. Com’era allegra l’Italia prima del ‘68» (Mondadori) è un «The way we were» senza Robert Redford e Barbra Streisand, declinato in salsa emiliana, melassa consociativa che avvolge tutto ed elimina spigoli e contrasti, dove i protagonisti sono l’Equipe 84 e Guccini, Berruti e la velocista Rudolph, il boom economico e Mike Bongiorno e via discorrendo con i soliti protagonisti dei formidabili Sessanta. Con questi ingredienti masticati e rimasticati, il libro potrebbe essere mortale. Ma Berselli ha la mano giusta, non scrive un saggio banale anche perchè ha il vantaggio di capire di calcio e di musica, e quindi la Cultura e la Ragione, sottofondo a tutto il lavoro, vengono mitigate e contaminate da sane pulsioni e prorompenti passioni.
La filosofia di Berselli sul ‘68 è limpida: se ne poteva fare a meno. C’era già tutto quello che valeva la pena vedere, ascoltare, vivere. Nel mondo trionfavano i Beatles e Dylan, in Italia c’erano le partecipazioni statali e l’Autostrada del Sole, i Kennedy sorridevano alla nuova frontiera e a Carpi iniziava il successo delle magliaie nei sottoscala (ma non bisogna ironizzare su questo tema: i colleghi di Berselli, i professori Romano Prodi e Patrizio Bianchi, hanno campato per anni teorizzando lo sviluppo dei distretti e poi chissà a quanti convegni sul modello emiliano ha partecipato). Al professore non interessa valutare se, proprio perchè prima c’erano il Vietnam, i pacifisti, le Black Panthers, Marcuse e i francofortesi, il ‘68 fosse ineluttabile. Non è questo il tema. Lasciamo stare. Berselli non scrive un libro di Storia, ma di storie personali e generazionali intrecciate e siamo certi che preferirebbe di gran lunga discutere sull’eredità degli Yardbirds tra Jeff Beck e Jimi Page che non di Eros e Civiltà. Di Berselli si può condividere la scelta, fatta in tempi non sospetti, dei Rolling Stones come «gruppo di riferimento» nell’eterno contrasto con i Beatles. Anche noi, cresciuti non nella placida Modena ma nella nebbiosa e proletaria periferia milanese, abbiamo sempre preferito la carica vitale di Simpathy for the devil e se cedemmo a qualche «lento» sulle note neoromantiche di Yesterdays fu solo per poterci avvicinare più facilmente alle ragazze della solida borghesia lombarda, con le loro gonnelline a scacchi chiuse dalla spillona.
E poi il professore, come molti giovani d’allora, leggeva Il Giorno, imparava calcio&letteratura dai pezzi di Gianni Brera, e qui vorremmo aggiungere la nostra stima e riconoscenza eterna a un amico di Brera, il grande cronista Mario Fossati che, molti anni dopo quando condividemmo il lavoro a Repubblica, scoprimmo con piacere essere persino un comunista. Nell’Adulto con riserva c’è tutto per celebrare i ‘60 e stroncare, ma bonariamente, il 1968. Forse Berselli lascia qualche vuoto, ci poteva mettere qualche pagina in più sulle droghe e sulle relazioni tra i sessi, tanto per riscaldare l’atmosfera intellettuale, elementi importanti della svolta epocale - se svolta c’è stata - di quegli anni, e certamente sottovaluta (neanche una citazione!), sotto il profilo storico-calcistico, il Milan di Rocco del 1968-1969 (citiamo a memoria: Cudicini, Anquilletti, Schnellinger, Rosato, Malatrasi, Trapattoni, Hamrin, Lodetti, Sormani, Rivera e Prati) capace di vincere, con una squadra di scarti e di anziani, scudetto e poi la Coppa dei Campioni contro l’Ajax di Johan Cruijff, il vero rivoluzionario del ‘68 nel pallone.
L’unico dubbio sul libro di Berselli ci è venuto verso la fine, quando ci siamo ricordati che un anno fa aveva pubblicato un altro saggio (Venerati maestri) e ci era piaciuta la sua idea di catalogare sotto due illuminanti definizioni - «i soliti stronzi» e «i perfetti cazzoni» - produttori e protagonisti, si fa per dire, del mondo culturale, dai media allo spettacolo. Pensavamo come sarebbe stato innovativo se Berselli avesse portato queste due categorie sui giornali dove scrive, magari per stroncare un Baricco o contestare un Benigni. Così non è stato.
Ora, però, ed è questo il nostro sospetto, non vorremmo che Berselli, preso il giusto ritmo, decidesse l’anno prossimo, dopo aver affossato il ‘68 e la cosa ci lascia quasi indifferenti, di fare a pezzi il 1969. Speriamo che sia solo una nostra paura. Perché sul 1969 non si scherza: i metalmeccanici, piazza Fontana, Giuseppe Pinelli, il Cub Pirelli-Bicocca, il papà democristiano che prende la tessera della Cgil, «Il mucchio selvaggio» di Sam Peckinpah... Se il professor Berselli, o chi per lui, si azzarda a toccare il ‘69 dovrà fare i conti con noi. Se saremo ancora qui, s’intende.

l’Unità 12.11.07
Guidonia: la mente, le armi e i ritardi della psichiatria
di Luigi Cancrini


Si legge sempre più spesso, sui giornali, di servizi psichiatrici che erano stati consultati, giorni o settimane prima della crisi, da persone che hanno poi commesso delitti gravissimi. Nel caso ancora dell’uomo che ha organizzato una vera e propria strage a Guidonia, si è data notizia del fatto che gli era stata diagnosticata (e curata) una depressione. È davvero impossibile per chi lavora in questo campo prevedere l’esplosione di una follia come quella? Cos’è che non funziona ancora in questa branca così specifica della medicina?
Lettera firmata

Quello che particolarmente non va in questa branca così specifica della medicina è il livello di preparazione di tanti (troppi) che la esercitano senza essere adeguatamente preparati a farlo. Per motivi complessi che esulano, spesso, dalla volontà e dalle responsabilità individuali. Su cui un caso come quello di Guidonia apre, in effetti, una possibilità di discutere in modo estremamente interessante.
Prendiamo per buona l’idea che all’uomo che ha sparato a Guidonia sia stata posta una diagnosi di depressione. Che lui si sia presentato al servizio, cioè, proponendo un suo disagio, un suo star male collegato ai fatti della sua vita (il fallimento del matrimonio prima e del lavoro poi) che ha suscitato in chi lo ascoltava l’idea di avere a che fare con un paziente, appunto, depresso. Quello che sicuramente lui non ha permesso al suo interlocutore, in quella fase, è un contatto con il suo mondo interno: un mondo sconvolto, come si è saputo dopo, dall’idea assurda del “complotto” che gli permetteva di mettere fuori da lui le ragioni dei suoi fallimenti; un mondo delirante, cioè, di cui aveva sicuramente imparato che è importante non parlare a terzi. Che non ti credono. Di cui non è detto che tu ti possa fidare. Giocato tutto sul filo di una dissimulazione (nulla io ti dico di ciò che veramente sento) l’incontro che si è concluso con una diagnosi di “depressione” ha esitato, dunque, in un errore grave del tipo di quelli cui si va incontro spesso purtroppo in psichiatria quando della psichiatria non si ha sufficiente esperienza. Quando non si è avuta la possibilità di apprendere in una scuola di psicoterapia, cioè, la capacità di ascoltare, dietro e oltre l’apparenza delle cose dette, le cose che il paziente non dice con le parole. Il turbamento profondo dello sguardo e dei gesti. L’incongruità di un pensiero irrigidito dalla paura e dal bisogno di difendersi dal proprio interlocutore. La difficoltà a stabilire un rapporto di confidenza e intimità. La freddezza legata alla insuperabilità della distanza con l’altro e la violenza al calor bianco delle emozioni che il paziente non riesce a esprimere e raccontare. Si chiedeva Freud, tanti anni fa, se davvero è importante, per curare i disturbi psichici, l’aver conseguito una laurea in medicina. Quella che gli sembrava necessario, per medici e non medici, era infatti quella capacità speciale di mettersi in posizione di ascolto che si sviluppa intorno a una riflessione faticosa e continuativa sul funzionamento della propria mente che i medici raramente fanno. Capire e curare con una psicoterapia i pazienti (tanti) che non possono essere curati in nessun altro modo e quelli cui le altre cure (i farmaci) comunque non bastano richiede non solo e non tanto il titolo di laurea o di specializzazione quanto la disponibilità e la capacità di guardarsi dentro. Di riconoscere, utilizzandole, le emozioni che si provano nel rapporto con il paziente e con i suoi racconti. Di sapere sempre, su questa strada, che la depressione non è una malattia ma il sintomo di qualcos’altro che ha a che fare con l’esperienza profonda della persona e che c’è qualcosa dentro di noi che misteriosamente ci permette di entrare in rapporto con quel tipo di paura che inevitabilmente si collega alle convinzioni (deliranti) persecutorie nella mente di una persona gravemente malata.
L’errore commesso dal medico che ha creduto di poter diagnosticare uno stato depressivo in questo paziente era evitabile? Io credo di sì. La qualità del contatto che si ha con una persona portatrice di un disturbo delirante dovrebbe essere sempre riconosciuta o almeno intuita da un esperto che porta avanti il suo colloquio. L’incertezza e il dubbio, se a questo si resta, andrebbero affrontati consigliando un approfondimento di tipo clinico e/o testologico. Programmando altri colloqui con la persona ed eventualmente con chi le vive accanto o programmando l’applicazione di reattivi mentali come il Rorschach. Costruendosi comunque uno spazio mentale per la verifica e l’approfondimento. Sapendo dare il giusto valore e significato alle reazioni suscitate nell’altro dalla situazione della visita oltre che dal proprio commento o dal proprio intervento.
Ma evitando assolutamente soprattutto, finché non si è capito bene il suo problema, la somministrazione di farmaci potenzialmente pericolosi in quanto capaci di aumentare la tensione e l’irritabilità del paziente: come accade in questi casi soprattutto a chi incautamente somministra, a pazienti di questo tipo, degli antidepressivi. Argomenti di questo tipo hanno una qualche possibilità di essere valutati nello sviluppo successivo di questa vicenda? Probabilmente sì se, come è probabile, i giudici disporranno una perizia psichiatrica sulla persona che ha sparato a Guidonia.
Quello che ne seguirà tuttavia, anche se le cose stessero davvero così, se il paziente avesse davvero ricevuto una diagnosi e una terapia così profondamente sbagliati, non sarà un intervento (un provvedimento) nei confronti dell’errore sanitario che è stato commesso. Quelle che ho esposto qui sono convinzioni personali, infatti, non da tutti condivise sulla psichiatria e sugli psichiatri: su quello che dovrebbero o non dovrebbero sapere o fare. Convinzioni in linea con quanto insegnato da Freud e da chi il suo discorso ha seguito ma che poco o nulla piacciono ai medici che nulla sanno della psichiatria come dovrebbe essere e che si accontentano ancora di considerarla, la psichiatria, come una pura e semplice “branca” della medicina: un’attività basata sulla prescrizione di farmaci.
Quello cui ci troviamo di fronte oggi nel campo proprio della psichiatria è un ritardo di ordine culturale prima che organizzativo. Basato sulla sordità dei medici di fronte a tutto quello che gli psicoterapeuti hanno potuto capire in un secolo e più di lavoro sul funzionamento della mente umana. Su cui dovremmo riflettere e lavorare se davvero vogliamo porci il problema della sicurezza senza inventarci soluzioni che sono globali solo nell’apparenza e terribilmente povere di risultati nella realtà. Rinunciando a discutere, per esempio, di criteri da utilizzare nel momento in cui si concede il porto d’armi ad una persona che lo chiede: per motivi, spesso, che hanno rapporti stretti con una loro patologia.

Repubblica 12.11.07
Le sfide che attendono il pd
di Stefano Rodotà


La nascita del Partito democratico, la novità della procedura seguita, l´investitura del suo segretario rendono più stringenti alcune questioni che riguardano il funzionamento dell´intero sistema politico, e quindi interrogano non soltanto il nuovo partito. Provo a riassumerle in dieci punti.
1) Una vocazione all´"adattabilità" del nuovo segretario poteva aver fatto pensare, seguendo la dichiarata passione cinematografica di Veltroni, ad una sorta di partito Zelig, mimeticamente capace di adeguarsi ai diversi contesti in cui si trova ad operare. Ma la proclamata volontà di "coltivare fino in fondo la vocazione maggioritaria" rompe questo schema e punta su "un programma chiaro, magari rinunciando ad aggregare tutte le forze". Apparentemente lineare, questa impostazione fa nascere almeno quattro domande. Il Partito democratico ha al suo interno l´omogeneità necessaria per dar vita ad un programma chiaro, considerando il fallimento del "Manifesto" che avrebbe dovuto accompagnare la nascita del nuovo partito? L´omogeneità sarà cercata allontanandosi il più possibile dalle impostazioni della sinistra "radicale", come molti sostenitori del Partito democratico chiedono in modo insistente? Verso quale rappresentanza sociale si indirizza il nuovo partito? Quali prezzi si pagherebbero se si decidesse di correre il rischio calcolato di perdere le elezioni pur di affermare l´identità del partito?
2) Ma, si ricorda, le prospettive aperte dal modo in cui è nato il Partito democratico impongono uno sguardo diverso, perché al futuro del partito metteranno mano tre milioni e mezzo di votanti alle primarie, perché sta nascendo una cittadinanza attiva che farà saltare i vecchi schemi partitici. La logica partecipativa al posto delle oligarchie. Un partito non più piramidale, ma a rete. Proprio qui, tuttavia, nascono nuovi problemi. La "rete", a prenderla sul serio, è il mondo dei rapporti orizzontali, tendenzialmente insofferente proprio di leadership forti. Come si faranno convivere il "decisionismo" manifestato dal segretario ed una effettiva distribuzione di potere che dovrebbe arrivare al di là degli stessi iscritti? Si andrà verso una forma di partecipazione atomizzata o nasceranno forme anch´esse nuove di organizzazione collettiva, utilizzando sempre più intensamente le opportunità offerte dalle tecnologie e incidendo così sulla stabilità degli equilibri interni?
3) La nascita del Partito democratico pone domande perentorie, e finora eluse, alle forze che si trovano alla sua sinistra. Per le quali, finora, l´unico elemento unificante è stato rappresentato dalla formula, che riprende vecchi schemi, della "Cosa rossa". Si poteva ingenuamente ritenere che proprio la novità del Partito democratico avrebbe spinto ad una riflessione rapida, alla ricerca di forme chiare e visibili di organizzazione e azione comune. Invece, a parte qualche mossa azzeccata, abbiamo assistito a schermaglie, a fughe, a fedeltà invecchiate, a tentativi di resuscitare vecchie etichette. Calcoli senza lungimiranza e ossessioni identitarie oscurano l´orizzonte, in un momento in cui cambiamenti radicali imporrebbero uno sguardo più largo sul mondo, una capacità di capire e di proporre sostenuta da strumenti analitici anch´essi rinnovati. Se il Partito democratico pensa di tutelare la sua nascente identità persino a costo della sconfitta elettorale, nell´arcipelago della sinistra si manifestano pulsioni anch´esse pericolose verso elezioni anticipate che rischiano d´essere soltanto un espediente per sfuggire alle domande che la realtà impietosamente pone.
4) "Abbiamo un paese che non è governato da 12 anni". Piaccia o no questa sommaria diagnosi del Presidente della Confindustria, il rischio della trasformazione della crisi politica in crisi istituzionale è palese, la difesa acritica del bipolarismo continua testardamente a bloccare analisi serie del presente. Come già fece negli anni ´90, anche questa volta Berlusconi confida di trarre profitto dall´intrecciarsi di varie debolezze. Lo fa anche a costo di insediarsi su un cumulo di rovine, sbarrando la strada a qualsiasi riforma della legge elettorale che, pur nella sua parzialità, è lo strumento minimo per cercar di arrestare la deriva che stiamo vivendo. Lo intuì subito il Presidente della Repubblica, indicando in questa riforma la condizione per eventuali elezioni anticipate. Di fronte ai dati di realtà e ad una presa di posizione istituzionalmente così significativa, in altri tempi si sarebbe detto che per le forze politiche si poneva una questione di "responsabilità nazionale". Si può, a questo punto, trasformare in una trappola la virtuosa propensione a riformare la legge elettorale solo con il massimo consenso? O le forze che sentono quella responsabilità debbono ormai assumersela in pieno e, senza negarsi al dialogo, hanno il dovere di dire chiaramente che sono pronte ad approvare a maggioranza la riforma elettorale?
5) In questo clima, come si costruisce l´agenda politica? Sicurezza e fisco, questa sembra essere l´unico orizzonte della politica. Questioni urgenti, senza dubbio, ma che non possono schiacciare ogni altro tema, rendendo così inefficaci le stesse politiche della sicurezza che esigono sempre una molteplicità di interventi. Solo opponendosi alla riduzione d´ogni problema a questione d´ordine pubblico, alla nuova tentazione di una delega alla tecnologia che espropria la politica dei suoi compiti e delle sue responsabilità, è possibile non solo parlare ad una platea più larga di persone, ma soprattutto fare politiche davvero incisive, che vanno alla radice dei fenomeni, consentono impostazioni di lungo periodo, restituiscono ai cittadini la dimensione reale dei problemi che li preoccupano.
6) Bisogna disinquinare un ambiente sociale e istituzionale "polluted by politics of fear", inquinato appunto da politiche della paura, come continua a scrivere il "New York Times" analizzando la situazione americana. "La fabbrica della paura" è divenuta una grande industria, con dividendi politici ed economici assai elevati. Ma proprio chi vuole promuovere forme di cittadinanza attiva dovrebbe sapere che queste non fioriscono quando il clima culturale è propizio piuttosto a dare legittimazione ai "giustizieri della notte". Proprio perché si deve fronteggiare una situazione difficilissima, abbiamo bisogno di una sinistra con i nervi saldi.
7) Servono politiche che ci portino verso una più matura consapevolezza della necessità di costruire un´agenda che muova dalla constatazione che i diritti, o la loro negazione, stanno ridisegnando il mondo. Il Governatore della Banca d´Italia ha parlato di una miseria salariale che deprime i consumi. Dobbiamo dare il giusto valore a questa importante denuncia, ma andare oltre, per evitare la riduzione del cittadino a consumatore, per ribadire che la retribuzione è finalizzata in primo luogo a garantire al lavoratore ed alla sua famiglia "un´esistenza libera e dignitosa", come vuole l´articolo 36 della Costituzione, una delle pietre angolari di quella "costituzionalizzazione della persona" che impone di rispettarne l´autonomia e le scelte di vita. Dobbiamo ricordare che la democrazia non tollera scambi tra le diverse categorie di diritti, come ha ben detto Miriam Mafai parlando di un Pontefice che vuol liberare le persone dalle ristrettezze economiche, ma pretende pure di limitarne la libertà di decisione. Dobbiamo salvaguardare le libertà a tutto campo, opponendoci al dilatarsi della società del controllo, considerando l´ambiente tecnologico in cui vivono diritti vecchi e nuovi e che fa parlare della necessità di un Internet Bill of Rights, di un Genetic Bill of Rights.
8) L´Europa sembra lontana dalla politica italiana. L´orizzonte non può essere quello del litigio sulla collocazione del Partito democratico nel Parlamento europeo. Alla fine dell´anno prossimo diverrà vincolante la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. L´Europa diventerà così la più larga "regione dei diritti" del mondo. Una risorsa politica di cui si stenta a cogliere l´importanza, ma di cui proprio l´Italia dovrebbe chiedere la massima valorizzazione.
9) Non può esservi vera novità politica senza una rinnovata intransigenza, senza un recupero profondo del senso della legalità. Bisogna essere severamente moralisti se si vuole davvero reagire ad un rifiuto della politica che nasce proprio da un crescente disagio morale.
10) Il Partito democratico, insieme ad altri, è ogni giorno di fronte non al tema del rapporto con la religione, al ruolo del sacro nelle nostre società, ma alla concreta politica vaticana volta a cancellare valori costituzionali, a contestare la legittimità stessa di singole leggi. L´invito perentorio all´obiezione di coscienza dei farmacisti, che nega la logica del servizio pubblico, è una accelerazione ulteriore in questa direzione. Quale idea di Stato emergerà dai programmi e dalle azioni del Partito democratico?

Repubblica 12.11.07
Su Newsweek. Che cosa resta del '68, gli Usa si interrogano


IL SETTIMANALE statunitense Newsweek dedica la copertina al 1968, "L´anno che ha cambiato tutto". Christopher Dickey, capo della redazione parigina del settimanale e autore di numerosi saggi di politica estera, definisce l´epoca come pervasa soprattutto da un «sentimento dominante era piuttosto semplice: spazzare via le fondamenta dell´ordine costituito» e «arrivare a un futuro migliore e soprattutto più giusto». Secondo Dickey, non a caso gli slogan che si ricordano meglio sono «vietato vietare» e «sotto i sampietrini c´è la spiaggia». Nell´articolo anche un´analisi sul modo diverso con cui in Europa e Stati Uniti si visse quell´epoca: per la prima "colonialismo" e "fascismo" erano un passato con cui fare i conti, mentre per l´America «mere parole per riscaldare gli animi con i discorsi retorici». Dickey rintraccia nelle politiche di oggi gli echi delle rivendicazioni di quell´anno memorabile e sottolinea che molti tra coloro che furono nei cortei di allora sono stati in seguito e sono oggi leader di livello mondiale. L´articolo si chiude con un auspicio: che anche a Teheran, come accadde a Parigi, presto i ragazzi possano scoprire la spiaggia sotto le pietre e abbattere i divieti.

Corriere della Sera 12.11.07
Esce in Italia «La misura della mia speranza», raccolta di riflessioni che l'autore aveva pubblicato solo nel 1926
Borges. Il saggio rinnegato sulla patria e le sue glorie «Inutile cercarlo ancora, quel libro non esiste»
di Giovanni Mariotti


Con la pubblicazione del libro «rinnegato» («La misura della mia speranza») Adelphi prosegue sulla strada che, nel 2006, l'aveva già portata alla pubblicazione di uno dei libri più celebri di Borges, «Il libro degli esseri immaginari».
Sempre nel 2007, in Italia, sono poi uscite altre nuove edizioni di opere di Borges: «Manuale di zoologia fantastica» (Einaudi); «Elogio dell'ombra» (Einaudi); «Una via di poesia» (Spirali)

Nel 1926 le cronache culturali argentine furono movimentate da un visitatore sgargiante: Filippo Tommaso Marinetti. In mezzo agli applausi che ne accolsero l'avvento, vale la pena di isolare la reazione del ventisettenne Jorge Luis Borges. Un giornale di Buenos Aires gli aveva chiesto quale influenza avrebbero avuto Marinetti e il futurismo sulla cultura argentina. Con sdegnosa brevità Borges rispose: «Nessuna, qui non ci sono musei e antichità da distruggere».
Risposta recisa, che non dà conto di quanto la circostanza di vivere in un Paese «senza musei e senza antichità» — insomma senza Storia — fosse al centro dei pensieri di Borges, in quegli anni. Solo più tardi avrebbe capito che non possedere un passato proprio, un'ingombrante tradizione legata a una certa nazione o a una certa area, presentava il vantaggio non trascurabile di poter sentire come propri tutti i passati degli uomini, reali o fantastici.
Ma l'approdo definitivo al cosmopolitismo (ricordo il piacere ingenuo con cui il vecchio Borges pronunciava la parola «cosmopolita», e ne ricordava la facile etimologia: «cittadino del cosmo») era ancora lontano. Per capirlo, basterà al lettore aprire la raccolta di saggi La misura della mia speranza, pubblicata da Borges proprio nel 1926, e oggi tradotta per la prima volta in italiano (Adelphi, pp. 148, e 16).
Sin dalla prima pagina viene posta la domanda cruciale: «Che cosa abbiamo fatto noi argentini?», e, dopo un résumé, contenuto tutto nel giro di un capoverso che non esclude il tango, ecco la conclusione: «... penso che il lettore sarà d'accordo con me quando affermo l'essenziale povertà del nostro agire. Queste terre non hanno generato né un mistico né un metafisico, o qualcuno capace di sentire o intendere la vita... La nostra realtà vitale è grandiosa e la nostra realtà pensata miserabile».
Disamina per nulla indulgente... il che non significa ripudio. A 27 anni Borges non solo era argentino, ma faceva l'argentino (in seguito osserverà ironicamente: «Dato che ero argentino, non avevo nessun motivo di mascherarmi da argentino»). Declamava, con un piglio tribunizio che non sapeva ancora quanto gli fosse estraneo: «È ai criollos che voglio parlare; agli uomini che in questa terra si sentono vivere e morire, non a quelli che credono che il sole e la luna si trovino in Europa... Il mio argomento di oggi è la patria». Per sottolineare il suo criollismo, non esitava a colorare di vernacolo le pagine, scrivendo ciudá
invece di ciudad, realidá invece di realidad, eccetera. Allestì, con quello che aveva sottomano, un suo pantheon di glorie indigene. Compilò un canone di letteratura finto rustica e gauchesca. Come sono soliti fare i nazionalisti nati in Paesi periferici, insinuava che la speranza e il futuro potessero essere tanto più grandi quanto più modesti erano memoria e passato.
Tutto ciò sembrerà rilevante solo nel contesto di una biografia dell'autore di Finzioni, o di una storia dell'argentinità. Quanto, ne La misura della mia speranza,
valeva la pena di leggere, Borges l'avrebbe detto meglio nelle opere della maturità. Per questo impedì che il libro venisse ripubblicato nelle sue Opere complete; e a chi gliene chiedeva notizia, rispondeva: «Non lo cerchi, quel libro non esiste». Sarebbe tuttavia sbagliato credere che il solo interesse della riesumazione consista nell'offrirci un'immagine provvisoria e ingannevole del suo autore. La misura della mia speranza è un'opera sintomatica, cioè indicativa di un fenomeno, e quel fenomeno non ha smesso di essere attuale (penso a una recente intervista del turco Pamuk al
Corriere), anche se i suoi contorni sono col tempo mutati. Innumerevoli scrittori nel mondo si sono trovati, e probabilmente si trovano, di fronte allo stesso problema con cui il giovane Borges si confrontava: quello, diciamo così, di abitare la periferia.
Borges amava i sobborghi e li celebrava nelle sue poesie. Intuisco una connessione fra quell'amore e la percezione dell'Argentina come uno dei sobborghi del mondo (connessione che, nel corso di una lunga vita, avrebbe assunto coloriture diverse, come una grande metafora in continua trasformazione). Quando scrisse La misura della mia speranza Borges riteneva che uno dei suoi compiti fosse correggere un destino minore e insediarsi nel vuoto spazioso della letteratura nazionale. Ma col tempo l'intera letteratura, con ciò che presupponeva e testimoniava, assunsero per lui (credo) i tratti di un suburbio senza frontiere, di una banlieue metafisica.
Questa percezione, che la sua opera trasmette, è diventata patrimonio comune. Oggi abitare la periferia non ha niente di peculiare e di specifico. I conterranei di Dante, di Cervantes o di Shakespeare non si sentono più vicini al Centro di chi è nato in qualsiasi sperduto angolo del globo. L'illusione delle letterature nazionali è caduta, e la periferia è dappertutto. In quello spazio, che si sgrana e si sfrangia, gli scrittori vanno cercando, ognuno per suo conto, una giustificazione e una voce.

Corriere della Sera 12.11.07
Epopea. Lo scrittore antiminimalista e un'impresa kolossal: una saga sul Nuovo mondo
Vollmann: in America, alle origini della violenza
«I nostri avi sterminarono i nativi, noi ne abbiamo ottenuto benefici»
di Ranieri Polese


Una cronaca che si apre con lo sbarco dei vichinghi

Pensa in grande, William Vollmann. E scrive in grande, del mondo, della storia universale, del Bene e del Male, per niente intimorito da tutti i precetti minimalisti che hanno condizionato la letteratura americana degli ultimi decenni. Nel 2004, per esempio, pubblicava, in sette volumi di oltre tremila pagine, i risultati di una ricerca che lo aveva impegnato per vent'anni, equamente divisi fra studi in biblioteca e viaggi nei Paesi sconvolti dalle guerre (nel 1994, in Bosnia, la sua macchina fu colpita e i due compagni che erano con lui rimasero uccisi). Era Come un'onda che sale e che scende. E il sottotitolo spiegava intenti e contenuto dell'opera: Pensieri su violenza, libertà e misure d'emergenza.
Da quell'immenso lavoro, sempre nel 2004, estraeva un condensato di quasi mille pagine (pubblicato da Mondadori nel marzo di quest'anno, nella collana Strade blu). Massimalista per vocazione (o «nichilista costruttivo», come si definisce in omaggio a Nietzsche), Vollmann si proponeva di raccontare la storia del mondo come storia della violenza. Il cui sbocco, per esempio, sarebbe stato l'11 settembre (ma il libro era già concluso prima dell'attacco alle Torri) e il conseguente inizio di altre guerre.
Nel frattempo, a partire del 1990, Vollmann si era impegnato in un'altra impresa kolossal, i Sette sogni, che già nel frontespizio del primo volume promettevano di rendere esplicite «molte rivelazioni riguardanti alberi e fiumi, antenati, verità eterne, vichinghi, padri-corvo, violazioni, esecuzioni, assassinii, massacri». Tutto questo con le parole dell'alter ego di Vollmann, William il Cieco, cantore di un mondo lontano da quello del cieco Omero, ma non per questo meno epico. Questo «libro di paesaggi nordamericani» che ancora non si è concluso (quattro su sette sono finora i sogni pubblicati) comincia ora a essere tradotto anche in Italia. Da Alet di Padova, che fa uscire in libreria il primo sogno, La camicia di ghiaccio (traduzione di Nazzareno Mataldi, pagine 480, e 21, con glossari, cronologia, bibliografia, nonché disegni e mappe realizzati dallo stesso Vollmann).
È una grande epopea che parte dalla prima scoperta dell'America, quella dei vichinghi sbarcati in una terra verde e generosa di vino (Greenland e Vinland) nel X secolo dopo Cristo. Si basa, in molte parti, su saghe norvegesi e islandesi, sulle tradizioni orali degli inuit e degli indiani micmac, sulle interviste con moderni abitanti della Groenlandia. Racconta delle guerre intestine che portarono Erik il Rosso a lasciare la Norvegia per approdare prima in Islanda e poi, ancora più a ovest, in Groenlandia e nell'odierno New England. Ma questi rapaci conquistatori provocarono la rovina del Nuovo Mondo: là dove non c'era mai ghiaccio, la terra si coprì di gelo e ogni vegetazione scomparve. Tutto per colpa di Freydis, figlia bastarda di Erik, che stringe un patto con il diavolo e si copre con la Camicia di ghiaccio. Così, molti secoli prima di Colombo, i vichinghi lasciarono le loro disgraziate colonie per far ritorno a casa.
Il «New York Times», recensendo il romanzo, evocava la Tetralogia wagneriana (magari in versione eretica: regia di Sam Peckinpah, libretto adattato da Tolkien). Abbiamo chiesto a Vollmann, appena tornato in California da un soggiorno in Kosovo, se anche nei suoi Sogni, come nel ciclo di Wagner, c'è una maledizione originaria che condiziona il destino dei personaggi: «Sì, c'è una maledizione che simbolicamente, un sogno dopo l'altro, si materializza in oggetti diversi. Nella
Camicia di ghiaccio è l'ascia di ferro dei vichinghi; nel sesto, I fucili, sono le armi da fuoco. Insomma, sono i simboli di una tecnologia avanzata che provoca la rovina dei popoli meno evoluti». Partendo dai vichinghi, lei va in cerca delle origini della violenza nella storia del suo Paese? «Non c'è un'origine. Oramai, dopo la ricerca compiuta in Come un'onda che sale e che scende, sono sempre più convinto che la violenza è costitutiva della natura umana».
Ma la saga dei Sette sogni si può leggere come la denuncia dell'operato dei colonizzatori bianchi, che hanno sfruttato, decimato, praticamente annientato i nativi. «Non è così semplice, per me, dividere bene e male nella storia d'America. Da una parte io ho goduto, indirettamente, dei benefici che mi provenivano dalla crudele rapacità dei miei antenati nei confronti dei nativi. Ma anch'io sono un nativo americano, un californiano: perciò nei sentimenti che nutro nei confronti del mio Paese c'è molta ambiguità. E non potrebbe non esserci».
Lei ha detto che ha trovato una fonte di ispirazione nelle Metamorfosi di Ovidio, nei racconti di trasformazioni da uomo ad animale, a pianta, a stella. Ci attendono altre trasformazioni nel futuro o, invece, dopo la fine della preistoria mitica, è finita anche la storia? «Credo che ci saranno altre trasformazioni, e saranno estreme come tutte quelle già verificatesi. La camicia di ghiaccio si basa, in parte, su saghe norvegesi che cominciano nel regno del mito e gradualmente trapassano nella storia. Analogamente, nel romanzo, vediamo il progressivo indebolirsi degli elementi soprannaturali, fino al loro scomparire. Certamente, i miei Sette sogni trattano tutti, in diversi modi, del tema della perdita. La perdita, per l'uomo, della capacità di trasformarsi in orso può essere tragica e significativa come qualunque altra perdita».
Forse, la perdita più dura per Vollmann è stata quella dell'idea di un futuro inevitabilmente migliore. Dalla perdita di ogni speranza è nato Come un'onda che sale e che scende. Dove si legge questa frase desolata: «Se le speranze di ieri ci paiono oggi pie illusioni, come si può presumere che le speranze di oggi siano più plausibili di quelle di ieri?».

Corriere della Sera 12.11.07
Claude Lanzmann e il suo documento di oltre 9 ore sullo sterminio
Shoah, film-ricerca ciclopico sulla radicalità della morte
di Paolo Mereghetti


«C'è qualche cosa di magico in questo film» scriveva Simone de Beauvoir su Le Monde nel 1985, subito dopo la prima della monumentale opera di Lanzmann. Ma si potrebbe aggiungere anche che c'è qualche cosa di misterioso nelle nove ore e mezza di Shoah, il ciclopico lavoro di ricerca e di documentazione sui sei milioni di ebrei uccisi e «spariti» (perché inceneriti) nei campi di concentramento e nei ghetti.
L'idea di un film intitolato Shoah, dal termine ebraico che significa «distruzione» e che viene usato in alternativa a Olocausto, nasce in Claude Lanzmann all'inizio del 1973.
Nipote di ebrei russi, nato a Parigi nel 1925, entrato giovanissimo nella resistenza, saggista e giornalista (è direttore della prestigiosa rivista Les Temps modernes), inizia a occuparsi di cinema attraverso dei reportage televisivi. La realizzazione di Shoah occuperà undici anni della sua vita, di cui più di cinque solo per montare le trecentocinquanta ore di interviste. A chi? A tutti coloro che potessero in qualche modo ricostruire quello di cui si era persa qualsiasi traccia: la metodica eliminazione degli ebrei internati.
Diversamente dai film fatti prima e dopo sullo stesso argomento, Lanzmann evita di utilizzare qualsiasi tipo di materiale di repertorio (quasi sempre girato dagli americani e dai russi dopo la fine delle ostilità), si guarda bene dal porre interrogativi di tipo morale o filosofico (come fa dire allo storico Hilberg intervistato nel film: «Non ho mai cominciato dalle grandi domande perché temevo di ricevere delle risposte piccole») e dà come l'impressione di inseguire minuzie secondarie (i treni a Treblinka o ad Auschwitz spingevano o tiravano i vagoni dei deportati?). Ma in questo modo, quasi strappando parola dopo parola ai pochi sopravvissuti, ai contadini che abitavano nelle vicinanze dei campi, agli stessi aguzzini nazisti, riesce pian piano ad aprirci gli occhi sul buco nero dello sterminio nazista. Per raccontarci qualcosa che spesso sfugge alle parole e alle immagini: la «radicalità della morte».
Forse non c'è una vera ragione della smisurata durata del film, ma la magia di cui parlava la de Beauvoir nasce anche da questo andamento fluviale, dove non esiste una sola parola di commento e tutto si limita alla ricostruzione dei piccoli atti quotidiani. Di chi portava o mandava le persone a morire e di chi doveva entrare nei camion o nelle camere a gas. Capolavoro assoluto oltre che documento unico, l'edizione in 4 dvd del film (distribuito dalla Bim e pubblicato dall'Einaudi) è accompagnata da un prezioso libro con la trascrizione dei dialoghi, il saggio della de Beauvoir, un'intervista da Les Introcks eanche dai dialoghi di un film successivo di Lanzmann, Un vivo che passa.
SHOAH Regia di Claude Lanzmann 4 dvd Einaudi e un saggio di Simone de Beauvoir
Con i 4 dvd un saggio di Simone de Beauvoir

Corriere della Sera Roma 12.11.07
Lettere, ricordi e interventi politici. «L'occasione per entrare nel Pci furono i film»
Bettini, le stagioni della sinistra
Il carteggio con Pietro Ingrao, la passione per il cinema
di Edoardo Sassi


Gennaio 1992: «Caro Goffredo, torno a ringraziarti per l'articolo che hai scritto su di me...». 30 marzo 2005: «Caro Pietro, scrivo queste brevi note personali dopo più di dieci anni dal momento nel quale ho ricevuto la tua lettera...». Un carteggio, ma non solo, questo libro nel quale l'autore — Goffredo Bettini — pubblica il suo epistolario, tanto breve (quattro lettere, di cui due inedite) quanto intenso, con uno dei padri della sinistra italiana comunista: quel Pietro Ingrao, classe 1915, al quale Bettini ha sempre tributato, al di là dei diversi percorsi intrapresi negli ultimi lustri, il ruolo di maestro.
Un carteggio, si diceva, ma non solo: perché oltre allo scambio di missive il volume («Ponte Sisto» editore) contiene anche una serie di saggi in cui Bettini ha trascritto alcuni suoi interventi, più o meno recenti, sul tema del riformismo. Il libro rappresenta così l'occasione per ripercorrere, dal punto di vista di uno dei suoi protagonisti, l'ormai lungo cammino del principale partito della sinistra italiana (Pci, Pds, Ds, Pd) dal secondo dopoguerra — Svolta di Salerno, Togliatti, Berlinguer, compromesso storico... — fino alla svolta della Bolognina e oltre. Bettini, 54 anni, è infatti anche uno dei leader costituenti del neonato partito Democratico (da sempre, dai tempi del primo Ulivo, indicato come uno degli «strateghi» dell'evoluzionismo di sinistra) e a ben vedere proprio all'evoluzione che ha portato alla fondazione del Pd sono dedicate molte pagine del libro intitolato «A chiare lettere. Un carteggio con Pietro Ingrao e altri scritti» (il volume verrà presentato stasera alle 21 al Teatro Argentina, da Giuliano Ferrara, Anna Finocchiaro, Barbara Palombelli, Mario Tronti e Sergio Zavoli).
La prima lettera di Ingrao a Bettini e la risposta di quest'ultimo tredici anni dopo furono scritte in due momenti particolari. Ingrao scrisse a Goffredo dopo che questi gli aveva dedicato un articolo su «Paese Sera », commentando la sua decisione di non ripresentarsi alle elezioni per un seggio alla Camera, dove Ingrao era stato eletto ininterrottamente dal 1948 e di cui era stato presidente dal '76 al '79. La risposta di Bettini arriva invece nel giorno del novantesimo compleanno di Ingrao, 30 marzo 2005, festeggiato proprio in quell'Auditorium di cui Bettini era allora presidente prima di trasmigrare alla Festa del Cinema. Il cinema, che passione (e qualcosa di più): la comune fascinazione per la Settima Arte è uno dei fili rossi che intrecciano di continuo le 220 pagine del libro, dove si trovano anche scritti dell'autore dedicati a Pietro Germi e Pasolini. «L'occasione materiale per entrare nel Pci fu il cinema, caro Pietro, da noi così amato», gli scrive Bettini. E Pietro, come è noto, fu, oltre che allievo del Centro sperimentale, intimamente legato, anche per via di un'amicizia fraterna che lo legò a Giuseppe De Santis, alle vicende della grande stagione del Neorealismo. Chaplin, Umberto D, Rossellini... Riferimenti e citazioni cinefile sono lo spunto per più ampie riflessioni sui grandi temi dell'esistenza — dalla pena di morte alla solitudine dell'uomo contemporaneo — e dunque sul significato della politica,
vera protagonista del volume.
«Un libro che riflette più i dubbi che le certezze di questa enorme fatica che è fare politica», ha detto recentemente Bettini. Verissimo, stando alla lettura, e anche per certi aspetti sorprendente considerando chi quelle pagine le ha scritte: la politica di oggi, si legge ad esempio in uno dei tanti passi dove il grande dubbio fa capolino, è quella che «si consuma nell'ansia del fare e nei comunicati stampa», dove «c'è la ricerca del potere più che l'ambizione dell'esperienza ». Dal libro però (dedicato «A Walter, alla sua impresa che è anche la mia») traspare infine che unico riscatto alla precarietà del vivere e della politica è la politica stessa, di cui al dunque è rivendicato il primato pur nella piena consapevolezza delle contraddizioni e della difficoltà del cammino, anche di quello appena intrapreso (si legga, ad esempio, il capitolo dedicato al tema della laicità).

Liberazione 11.11.07
La scelta dell'Unità di non scioperare nell'era Angelucci
di Antonella Marrone


La redazione dell' Unità , con 41 voti contro 38, ha bocciato una giornata di sciopero contro la vendita della testata alla famiglia Angelucci. O per meglio dire: ha bocciato la preoccupazione che il giornale di Antonio Gramsci perda un po' del suo appeal fra i lettori di sinistra e che, nel contempo, diventi veramente un giornale espressione di altri valori. I valori di un imprenditore che ha nel suo "palmares" editoriale un giornale come Libero e che finanzia anche Il Riformista . Ma l' Unità non è Libero e non è neanche Il Rformista . Almeno agli occhi dei suoi lettori più affezionati. Uno sciopero che doveva essere una specie di altolà rivendicativo sulle origini e la "mission" del giornale, giusto per ricordare (o per far sapere ai nuovi possibili proprietari) che non tutto e non sempre è in vendita. Che alcune teoriche ma decisive questioni permeano ancora gli esseri umani. Fra queste la dignità del proprio lavoro e l'integrità della propria intelligenza. Ora è facile capire.
Dire che di fronte allo spettro di una crisi aziendale e della cassa integrazione i lavoratori si pongano il problema di come uscirne e vogliano ragionarci sopra. E' un diritto dovere. Del resto l'Unità è rinata dalle "ceneri" di tanto affanno sindacale, dopo una crisi lacrime e sangue che ha visto falcidiare la redazione, dopo 9 mesi di estenuanti trattative e di promesse politiche con il giornale fuori dall edicole. Mesi attraversati da tensioni anche nella redazione, ovviamente, segnati da gesti forti come la manifestazione dei lavoratori sotto Botteghe Oscure per protestare con l'allora editore. Insomma tra critiche e polemiche, compatti o in ordine sparso, alla fine i lavoratori trattarono, ma c'erano stati segni di vita, come dire, reattiva. Qualche principio fu mantenuto (l'area politica di riferimento, ad esempio) e lo fu grazie anche alle richieste, alle assemblee, alle oramai vecchie questioni di principio.
Comunque questo fa parte del passato, mentre è normale che oggi si cerchino nuovi metodi di confronto politico, anche per affermare - nel caso ve ne siano - i propri principi.
Per questo non è stata esattamente un'assemblea a bocciare lo sciopero. L'assemblea è uno sbocco antico, che appartiene a vecchie forme di democrazia sindacale. L'Unità, che è un giornale come tutti gli altri, ossia sul mercato, si è adeguata ai tempi. E non potendo fare le primarie perché non c'erano partiti da fondare, ha optato per un referendum (che generalmente si fanno su accordi sottoscritti dal sindacato e non sugli scioperi). Così, dopo un'assemblea che aveva affidato al Cdr un pacchetto di sei giorni di sciopero e un'altra che aveva dato un mandato per il primo di questi scioperi, una parte della redazione, quella forse più politicamente impegnata, ha raccolto le firme per un referendum: sciopero si o no? Chissà se il Cdr avrà problemi identitari o se si sentirà delegittimato, ma la scelta di non scioperare, operata con l'antico e discutibile sistema di Ponzio Pilato, non dà un'immagine di forte ancoraggio politico o "etico" (come invece dai tanti corsivi e commenti politici ci era parso di capire). Probabilmente una parte di questa maggioranza che ha votato contro lo sciopero si sarà chiesta perché contrastare il mercato e la libera imprenditoria, così come ha ben detto Vittorio Feltri in più di un'occasione. Un'altra parte, forse, quella più idealista, si sarà posta la questione politica: Veltroni si sta dando molto da fare insieme a Fassino (che dopo i monaci birmani ha preso a cuore anche la questione del giornalisti dell'Unità) per ridimensionare il peso economico degli Angelucci nella proprietà. Diamo loro credito, facciamoli lavorare. Ecco che si sono saldati due ottimi motivi per evitare di dare un segnale forte sia dal punto di vista etico-politico sia dal punto di vista economico. Del resto c'è chi sostiene - con qualche ragione - che la politica abbia ormai appaltato l'etica ai preti e l'economia agli imprenditori. Di che cosa dovrebbe occuparsi? L'Unità, da grande quotidiano quale è, sta al passo con i tempi.

domenica 11 novembre 2007

l’Unità 11.11.07
Ai tempi del Papa Re
di Furio Colombo


Il caso Ici? Ci sarà un teologo non impegnato a far contenti i finti credenti, per dare un tono rispettoso alla discussione? O avremo di nuovo il tempo della messa all’indice, del pensiero laico giudicato «immorale»?

Qualcuno ricorda lo scorso 20 settembre? Quel giorno - anniversario della conquista di Roma, che ha cessato di essere capitale dello Stato Pontificio per diventare capitale d’Italia - i Radicali di Marco Pannella hanno invitato i cittadini a incontrarsi a Porta Pia, il luogo in cui le truppe italiane sono entrate nella “Città Santa” nel 1860. A molti sarà sembrata una inutile e dispettosa celebrazione di un passato morto e sepolto, una manifestazione simile e opposta a quella di anziani nobili che quello stesso giorno assistono ogni anno a una messa di cordoglio.
Personalmente rimpiango di non essere andato a Porta Pia la mattina del 20 settembre. Ho saputo in questi giorni, nell’Aula del Senato, iniziando a votare la Legge finanziaria 2007-2008 della Repubblica italiana, che quell’evento non riguardava un’eco retorica del passato, non era una trovata retro. Riguardava i cittadini italiani di oggi, vicende politiche di cui siamo testimoni e che stiamo vivendo.
Infatti, la mattina del giorno 7 novembre, quando è circolato fra i banchi di destra e sinistra l’emendamento 2/800 a firma dei senatori Angius, Montalbano, Barbieri che cancellava la esenzione degli immobili della Chiesa cattolica dal pagamento della tassa Ici se quegli edifici sono usati non per fini religiosi o di carità ma per scopi commerciali (nel lucroso parco turistico di Roma e intorno a Roma) subito si è levato da ogni parte dell’aula un forte vento di irritazione, di ostilità e anche di sdegno.
Inutile ricordare che la fine di un simile privilegio (aprire un confortevole albergo a tariffe correnti e con una rete internazionale di contatti che assicura il flusso continuo di presenze) viene chiesto all’Italia dalla Commissione Europea per ragioni di violazione grave delle regole di concorrenza. Inutile ricordare che negli Stati Uniti provvede non il Parlamento, ma la denuncia del fisco all’autorità giudiziaria, a perseguire chi usa la religione (che è esente da tasse) a scopi commerciali (che non lo sono mai), ed è noto che seguono conseguenze gravi e condanne pesanti e tutt’altro che infrequenti, a chi ha usato la religione per coprire il commercio.

Sono cose che accadono in tutto il mondo civile, democratico, rispettoso, in ambiti diversi, della religione e della legge. Persino in Messico e nelle Filippine.
Ma non in Italia.
E infatti nel Senato italiano è scattata una reazione ferma e istantanea, come se fosse in gioco un grave e vistoso problema morale con cui le persone perbene non vogliono avere niente a che fare. Il problema grave c’era, ma rovesciato. Si voleva stabilire che, di fronte alla legge, e dunque alle tasse, tutti i cittadini sono uguali, con gli stessi doveri.
Invece è stato deciso, bocciando subito e in modo quasi unanime l’emendamento del diavolo (far pagare le tasse all’albergatore ecclesiastico) oppure astenendosi, che è bene, se non altro per prudenza, stare alla larga dalla tentazione blasfema.
Conta, per capire e valutare l’evento, il contesto storico e politico di questi giorni.
Sono giorni difficili, una società frantumata che stenta a trovare riferimenti unificanti e comuni. Un’Italia dove ogni gruppo o corporazione di interessi si scontra con un altro o contro i cittadini (negando di volta in volta assistenza, servizi, persino risposte che orientino). E in questo momento, in questa Italia, il Papa decide di incitare i farmacisti (notare: solo i farmacisti italiani) alla obiezione di coscienza, ovvero all’obbligo religioso di rifiutare ai pazienti “le medicine immorali”, benché regolarmente prescritte dai medici. Un’altissima autorità introduce un criterio estraneo a un Paese moderno, alla democrazia e contro la scienza. Il Papa comanda, dal suo altissimo pulpito, la disubbidienza civile ai responsabili di quel punto di raccordo e fiducia comune che sono le farmacie, ancora più rilevanti e delicate dei doveri d’ufficio di un pubblico ufficiale.
È in queste condizioni che si è tuonato nel Senato italiano in difesa devota e assoluta della Chiesa cattolica italiana come se la Chiesa fosse minacciata da un Emiliano Zapata in agguato sulle colline di Roma, invece di essere implacabile e infaticabile parte che attacca, conquista e impone.
Alla fine solo undici senatori, e chi scrive, hanno votato l’obbligo di far pagare le tasse alla Chiesa quando la Chiesa si occupa non di Religione ma di commercio. Dunque hanno votato come avrebbero votato deputati e senatori inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, americani.
Ha ragione il Cardinale Ruini: «la Chiesa vince». Per questo rimpiango di non avere almeno partecipato a quel simbolo mite di dignità italiana che è stato il ricordo radicale di Porta Pia.
* * *
Perché rivangare oggi queste storie “anticlericali”?
Una ragione è certo la svolta della Santa Sede che, per quel che riguarda l’Italia, ha deciso di scendere direttamente in politica. S’intende che il fenomeno della cosiddetta “ingerenza” vaticana nella vita politica italiana non dipende solo dall’irruenza vaticana (qualunque predicatore ha diritto di essere irruente) ma piuttosto dalla spontanea e volenterosa sottomissione italiana, una vera e propria corsa, dalle alte autorità ai cittadini prudenti, ad accettare tutto. Proprio per questo ricordare simbolicamente la data del 20 settembre per celebrare uno sdoppiamento dei poteri (potere temporale finalmente diviso dal potere spirituale) non è fuori posto e non è contro la Chiesa. Al contrario, tende a restituire alla Chiesa tutta la sua diversa autorità, presenza, competenza, fuori e lontano dal cortile della politica.
Una riflessione sul 20 settembre, se fatta con un po’ di serenità ma anche con un po’ di coraggio (si rischia facilmente la stizzosa aggressività dei finti credenti) ci porta forse a dire che il 20 settembre ha liberato non solo Roma ma anche la Chiesa dal regno e dal governo pontificio, che era una maschera di ferro saldata sulla religiosità dei credenti e persino sulla cultura religiosa di coloro che, per tante ragioni, hanno interesse vero e profondo a inoltrarsi nel misterioso territorio della fede.
Purtroppo un mare di finti credenti prendono continuamente la zelante iniziativa di portare il Papa in processione, una processione senza pace e senza sosta, dentro la politica, dentro le leggi, dentro la scienza, persino dentro le intricate e sgradevoli proteste fiscali. E ci sono anche pattuglie di veri credenti che pensano davvero, non saprei dire perché, che la processione anche un po’ fanatica dei finti credenti che spingono il Papa in ogni vicolo della vita pubblica e anche del comportamento personale e privato dei cittadini, giovi davvero alla fede.
Giova, certo, alle conversioni di convenienza, molto frequenti nella vita politica italiana, dove essere visti vicino al Papa (qualunque sia la vita realmente vissuta) viene considerata una eccellente raccomandazione. Avete notato quante persone in vista, nell’Italia di questi giorni, confidano improvvisamente ai giornali conversioni e vampate di fede come se fossero materia di pubblico interesse?
In tal modo la doppia scorta di finti credenti e di alcuni veri credenti priva il Papa e le sue parole e la sua predicazione, di vera attenzione, vero rispetto e vera discussione.
La cultura cattolica, già così viva in un Paese che va da Don Milani a Padre Turoldo, da Pasolini al Cardinale Martini, da Giorgio la Pira a Don Ciotti, da Padre Balducci a don Puglisi, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, da Dossetti ad Alex Zanotelli (e stiamo parlando solo dell’Italia contemporanea, solo di pochi esempi) diventa una cultura del monologo senza risposte, di un Papa solitario, issato dai media sui cittadini muti tramutati in folla. E il monologo continua attraverso tutti i telegiornali, ora dopo ora, rete dopo rete, fino al punto assolutamente strano e bizzarro, di aprire con il Papa telegiornali nazionali in ore di massimo ascolto, in giorni e occasioni in cui non vi è alcun annuncio o notizia o evento che giustifichi tale “apertura”, dando così un colpo mortale a tutte le possibili gerarchie di valori della comunicazione, provocando una omologazione triste fra Tg che aprono con il Papa e chiudono con Valentino Rossi.
* * *
Tutto ciò avviene - sia concesso di dirlo anche a chi non è parte in causa - con un prezzo molto pesante per Chiesa e dottrina intesi in senso religioso, o anche solo culturale e non politico.
Il Papa, infatti, diventa omologo non solo di Bush e Blair e Putin, come mai era avvenuto ai tempi di un uso più parsimonioso della sua immagine e della sua parola. Il Papa sta diventando, omologo dei leader politici nazionali. Gli viene attribuita dunque forzosamente una statura alquanto modesta. Come fanno i veri credenti, pur fra la concitazione entusiasta dei finti credenti, a vedere senza allarme il costante abbassamento di livello, di tono, di rilevanza, lo spreco quotidiano che induce a includere immagine e frammento di parole del Papa - ormai rese uguali a quelle di ogni altra “personalità televisiva” - in tutti (tutti) i telegiornali?
Non solo si disperde la sacralità. Si disperde l’interesse, il senso, perché il messaggio, qualunque cosa valga, evapora fra le mille finestre aperte di una comunicazione ovviamente priva di rispetto, priva di senso del più alto e del più basso, del triviale e del sacro, di ciò che importa e di ciò che è irrilevante, della salvezza e del lancio dell’ultimo film.
Possibile che sia accettabile e anzi desiderata l’immagine del Papa come “personalità televisiva” che, fatalmente, prende posto nel gruppo di tutte le altre personalità televisive?
* * *
Altro grave problema - ed è strano che tocchi ai non credenti parlarne - è che non esiste alcuna legittima e autorevole sede per considerare e discutere le parole, i concetti, gli insegnamenti, le raccomandazioni, le prescrizioni del Papa. Infatti poiché il capo della Chiesa sceglie di parlare non alla Chiesa ma a tutti, attraverso tutti i mezzi di comunicazione di massa, è naturale immaginare (sarebbe meglio dire: sapere) che vi saranno voci, posizioni, pensieri, decisioni diverse, anche profondamente diverse.
Ma prima ancora che io faccia in tempo ad aggiungere che sono e saranno opinioni “rispettosamente diverse”, viene la bordata violenta dei difensori del Papa. Ci dicono che la sua parola deve restare indiscutibile sempre anche per i non credenti, persino se parla di sport.
Cattivi difensori. Perché bloccano il capo della Chiesa cattolica in un omaggio forzato e obbligatorio che allarga l’area dei finti credenti (che si sentono incoraggiati a rinnovare i loro teatrali slanci di adesione pubblica), aumentando sorprendentemente il numero di persone (specialmente se note) che si accostano ai sacramenti (si dice così?) in caso di presenza di telecamere o di «Dagospia».
E privano la parte intelligente e pensosa del Paese Italia, e dell’ex regno del Papa Re, di riflessione, scambio di idee, confronto intelligente e civile su temi che, oltre che di fede, sono anche di vita e di morte quotidiana nei suoi aspetti più difficili e drammatici.
Proprio per questo il ricordo, senza provocazione e senza alcuna intenzione polemica, del passaggio di Roma da territorio del Papa a città italiana e capitale del nuovo Paese, è utile oggi più che mai, per evocare la diversità fra Chiesa spirituale e Chiesa-regno, fra il Papa teologo e il Papa regnante, fra la predicazione ai credenti e l’emanazione di una legge erga omnes. È un atto di vero composto rispetto verso la Chiesa, come votare no al commercio travestito da religione.
A chi scrive sembra evidente che, fuori dalla irrefrenabile euforia dei finti credenti, il rispetto più profondo della Chiesa è tra coloro che non credono che sia bene trattare il Papa come “personalità televisiva”, la predicazione come legge, la divisione tra Stato e Chiesa come mai avvenuta.
Ci sarà un teologo non euforico, non impegnato a far contenti i finti credenti, per dare un tono rispettoso alla discussione (discussione, non concitata, preventiva condanna) che non c’è mai, o meglio che non c’è più? O avremo di nuovo, ma in tutto il Paese, il tempo fermo e chiuso della messa all’indice, della condanna preventiva, del pensiero laico giudicato “immorale”, del governo del Papa Re?
colombo_f@posta.senato.it

l’Unità 11.11.07
Allarme minorenni
di Luigi Cancrini


I dati del ministero
L’ultima relazione parlamentare: aumento del 50% del consumo di cocaina tra i 15 e i 24 anni

Il rapporto pubblicato dal ministero della Salute propone alcune notizie interessanti. Il numero degli assistiti aumenta ancora toccando quota 171mila con una percentuale del 21% di nuovi casi.
L’invecchiamento continuo di questa particolare popolazione costituita in gran parte ormai da pazienti cronici di una certa età in trattamento da anni con metadone o con altri sostitutivi. L’ascesa continua, sempre più evidente fra i nuovi ingressi, della dipendenza da cocaina e la diminuzione corrispondente, ugualmente più marcata fra i nuovi, di quelle da eroina. L’aumento, modesto numericamente ma significativo dal punto di vista statistico, degli adolescenti in cura presso i servizi pubblici. L’assenza sostanziale di dati relativi all’alcool e all’alcolismo che continuano ad essere considerati, in molte regioni italiane un problema che non è di competenza di questi servizi.
Si tratta di dati che meritano una riflessione attenta nel momento in cui sta iniziando, alla Camera, l’iter di una legge che dovrebbe riordinare tutto questo settore. Uscendo, io almeno lo spero, dalla fase delle polemiche ideologiche fra chi considera lecito e chi vuole proibire l’uso degli spinelli. Occupandosi sul serio, in termini di prevenzione e terapia, dei problemi proposti dal nuovo mercato della droga. Rendendosi conto con chiarezza, a questo scopo, che le statistiche sui tossicodipendenti assistiti dai Sert riproposte oggi dal ministero della Sanità sono statistiche estremamente parziali, immediatamente e naturalmente collegate al tipo di risposte che in questi servizi si è in grado di dare.
Si rifletta, per rendersene conto, sul dato relativo agli adolescenti. Quelli curati presso i Sert nel 2006 sono stati in tutta Italia 327. Quello che io so e che tutti quelli che di questi problemi si occupano sanno, tuttavia, è che la gran parte dei ragazzi che abusano pesantemente di cocaina oggi (o di cocaina e di ecstasy e di ketamina) non arrivano alle strutture di terapia perché non ritengono di avere bisogno di aiuto. Anche nei casi, rari, in cui le famiglie vengono a sapere della loro abitudine i loro genitori non vanno nelle strutture pubbliche percepite come luoghi in cui i figli incontrerebbero dei tossicomani «veri». Chiedono aiuto ai privati, dunque, medici o psicologi.
Una statistica vera, capace di tenere conto di tutti questi dati porterebbe a moltiplicare almeno per cento il numero delle situazioni per cui è necessario ed opportuno un intervento terapeutico. Proponendo la necessità di affiancare agli attuali servizi per i tossicodipendenti centri di ascolto aperti in prima battuta alle famiglie oltre che agli individui in difficoltà. Come accade per esempio in Messico dove il centro cosiddetto di integrazione giovanile, un’agenzia nazionale finanziata dal governo e dai singoli Stati ha messo in opera più di 200 strutture, ben collegatei con le istituzioni locali di volontariato, la cui attività è incentrata soprattutto sulla prevenzione e sull’appoggio ai ragazzi e ai giovani a rischio. Sono strutture di questo tipo quelle che permetterebbero di dare numeri più reali e risposte più adeguate di quelli che riusciamo a dare oggi in tema di diffusione della droga tra i giovani ed i giovanissimi. Affrontando in modo corretto quella che si sta proponendo sempre di pù come una vera e propria emergenza.
Un secondo punto su cui mi sembra importante insistere riguarda la percentuale dei casi di dipendenza da cocaina. L’aumento che viene segnalato dal ministero (dall’1,3% del 1991 al 14% del 2006) è molto più basso di quello suggerito dall’esperienza clinica e dei ricercatori. Frequenti in persone che non si considerano malate o drogate e diffuse in ceti sociali in cui anche i più gravi non ricorrono al servizio pubblico, le dipendenze da cocaina sono oggi più numerose di quelle legate all’eroina.
Quello che negativamente incide anche qui, sulle statistiche rese note ieri è il fatto che la gran parte dei Sert sono servizi sintonizzati soprattutto sulle esigenze di cura degli eroinomani. Il che vuol dire, in buona sostanza, che quella di cui c’è bisogno, se vogliamo affrontare il problema cocaina, è una politica dei servizi centrata sull’esigenza di intercettare, dando loro risposte adeguate, questo nuovo tipo di utenti. Sapendo che i loro bisogni sono abitualmente di ordine più psicoterapeutico che medico ed attrezzando opportunamente, a tal fine i centri di cura. Utilizzando magari, se si riuscirà ad approvarla, la legge sulle psicoterapie oggi in discussione alla Camera. Ma affrontando nello stesso tempo il problema costituito dalla necessità di una riorganizzazione profonda dei nostri servizi di cura.
Riportare questo tema fra le grandi priorità di un paese che vuole garantirsi i livelli maggiori di sicurezza e di civiltà è, in effetti, uno dei compiti più importanti che abbiamo oggi davanti a noi. I pacchetti legislativi sulla sicurezza e gli inasprimenti delle pene a chi ne vìola le norme serviranno a poco se non riusciremo a dare risposte adeguate a chi sta male ed ha bisogno di aiuto. Perché è questo il modo più efficace a nostra disposizione per evitare tanti scivolamenti delinquenziali. Che l’opinione pubblica se ne renda conto o no, che i sondaggi lo indichino o meno in modo chiaro, le cose oggi, nelle strade d’Italia, stanno così. Anche se i politici di questo Paese sembrano averlo dimenticato, a differenza di quanto avviene in tanti altre parti del mondo dove su questo si lavora e si discute molto di più che da noi.

l’Unità 11.11.07
La rivoluzione pacifica de «Le figlie dell’Islam»
Storia di Nawal che a cinque anni litigò con Dio
di Lilli Gruber


Pubblichiamo «La bambina che litigò con Dio», ottavo capitolo dell’ultimo libro di Lilli Gruber Figlie dell’Islam La rivoluzione pacifica delle donna musulmane, 2007 edito da Rizzoli, pp 354, euro 18,50.
La giornalista e saggista, prima donna ad aver presentato un telegiornale in prima serata ed attualmente parlamentare europea della sinistra, ha già scritto numerosi saggi da I miei giorni a Baghdad, (2003). L’altro Islam (2004), Chador (2005) e America anno zero (2006).

Nawal El-Saadawi è una veterana della «jihad femminile». Ha cominciato a protestare nel 1936, all’età di cinque anni, e direttamente con Dio. Scrivendogli una lettera.
«Caro Dio, perché preferisci mio fratello? Lui è pigro e stupido, non fa nulla né a scuola, né a casa, mentre io m’impegno. Come fai a preferire lui?».
Era l’inizio di una carriera letteraria, e di un rapporto con le autorità a dir poco tormentato.
Nawal proviene da una famiglia colta e benestante, ma questo non è bastato a evitarle la mutilazione genitale. A dieci anni è scampata a un matrimonio combinato e ha deciso di continuare a studiare nonostante le perplessità familiari.
«Se non fossi stata la migliore, mio padre avrebbe smesso di pagarmi gli studi, ma lo ero». Nel 1955 si laurea in medicina, specializzazione in psichiatria, e comincia a lavorare a Kafr Tahla, il piccolo villaggio rurale dove è nata. «Ogni giorno combattevo con le difficoltà, i soprusi e le ingiustizie subite dalle donne». Nawal è richiamata al Cairo e nominata direttrice della Sanità Pubblica.
Nel 1972 pubblica Women and Sex un atto d’accusa contro la disumana pratica dell’infibulazione. Nawal è la prima donna araba a portare allo scoperto un tema così scomodo e scabroso e di lì a poco cominciano i guai. Perde il lavoro e la rivista che ha fondato, «Health», viene chiusa. Ma non si abbatte: per tre anni conduce una ricerca sulle nevrosi femminili presso la facoltà di medicina dell’Ain Shams University, e nel 1979 diventa consigliere presso le Nazioni Unite per il programma a favore delle donne in Africa e Medio Oriente.
I suoi studi la portano nei manicomi e nelle carceri, e la sua critica alle religioni, in particolare all’Islam, e al sistema politico egiziano finisce per inasprire i già tesi rapporti con le istituzioni. Nel 1981 viene incarcerata senza processo con altri 1600 intellettuali ed esponenti politici. Sarà liberata lo stesso anno, esattamente un mese dopo l’assassinio del presidente Sadat, che aveva ordinato il suo arresto. Tra i fermati c’è anche suo marito, il dottor Sherif Hetata, che invece sconterà ben quindici anni nel carcere di massima sicurezza del Cairo.
«Il pericolo è stato parte della mia vita fin da quando ho impugnato una penna», mi spiega la donna-simbolo del femminismo egiziano. «Non c’è niente di più pericoloso della verità in un mondo che mente».
Ma proprio quando il governo sperava di averla messa a tacere, scrive in prigione il suo libro più importante, che sarà tradotto in 12 lingue e pubblicato in tutto il mondo: Memorie dal carcere delle donne.
«Mi negavano perfino la carta», mi racconta. «La prostituta nella cella accanto mi allungava penna e carta igienica. Non ci crederà, ma le altre donne facevano di tutto affinché io potessi sempre scrivere. La creatività è il mezzo più efficace per porre un freno alle multinazionali dell’intelletto!».
Quando compare nella lista nera di un gruppo fondamentalista, Nawal si trasferisce in North Carolina. Insegna alla Duke e alla Washington University, ma nel 1996 decide di tornare a casa. Cinque anni dopo viene nuovamente accusata di eresia: grazie a un’imponente mobilitazione internazionale riesce a evitare il processo per apostasia, che l’avrebbe costretta al divorzio forzato dal marito. Oggi nel suo Paese Nawal rischia un nuovo procedimento penale in seguito alla pubblicazione, nel gennaio 2007, della commedia teatrale Dio rassegna le dimissioni nel corso del vertice. Ma oggi vede sviluppi positivi all’orizzonte grazie al lavoro delle femministe islamiche, prezioso nella battaglia per i diritti. Anche se il suo approccio alle religioni è più scientifico: «Ho speso vent’anni della mia vita a confrontare i tre libri sacri: l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento e il Corano. Sono andata in India e ho studiato anche la Bhagavadgita. Non si può conoscere l’Islam senza uno studio comparativo. Prendiamo per esempio la questione del velo. Se i sedicenti esperti avessero fatto i dovuti confronti, si sarebbero accorti che le donne si coprivano il caso anche nell’Ebraismo e nel Cristianesimo. In forme diverse, sono sempre state considerate inferiori in qualsiasi religione. In più il Corano è molto difficile da capire: esistono numerose scuole che lo interpretano in modo diverso, così come sono diverse le interpretazioni che i vari governi danno dell’Islam».
L’Egitto, negli ultimi anni, è molto cambiato, sostiene Nawal: «Quando studiavo medicina, negli anni Cinquanta al Cairo, nessuna portava l’hijab; quando mia figlia era studentessa a sua volta, negli anni Settanta, il 45 per cento delle ragazze lo indossava. E la percentuale è aumentata ancora. Sono stati l’imperialismo americano e il neocolonialismo a sfruttare la religione e fomentare ovunque il fondamentalismo. Il velo e l’infibulazione sono le dirette conseguenze. Oggi in Egitto tutti parlano di religione: professoresse universitarie, scrittrici e perfino le femministe indossano il foulard, magari con i jeans e la pancia scoperta! Le donne si trovano tra due fuochi, tra americanizzazione e islamizzazione».
Per loro il clima nel Paese si sta facendo più pesante e anche il sistema giudiziario non è certo incline a tutelarle. Come quello legislativo è un sistema misto, secolare e religioso. Esistono Corti separate: islamica, cristiana e laica, e per quanto riguarda la prima il codice di riferimento è ovviamente la Sharia.
«Ma viene applicata in modo assolutamente arbitrario: gli uomini continuano a essere poligami e a divorziare dalle mogli quando vogliono. Il figlio deve portare il nome del padre, e se questi è ignoto il bambino è illegittimo. I fondamentalisti sostengono che lo dice il Corano. Il nome della madre è considerato tuttora una vergogna sociale per la legge islamica». Quando sua figlia ha deciso di portare il suo cognome, hanno dovuto comparire entrambe in tribunale con l’accusa di apostasia. «In Egitto ci sono due milioni di bambini illegittimi. È giusto punire i piccoli che non hanno alcuna colpa?»
Mi racconta l’esperienza traumatica della circoncisione, praticata una mattina, nella sua stanza, da quattro donne del villaggio vestite di nero, senza anestesia né disinfettanti. «Mi dissero che era Dio a volerlo. Da allora ho cominciato a ribellarmi contro di Lui. Anche se i miei genitori mi dicevano di pregare, non mi sono mai convinta che Dio fosse giusto, mai. Perché io ho un cervello che ha sempre lavorato a pieno regime. Per me il vero piacere è quello della conoscenza, e della sfida. Ho settantacinque anni e vivo come se ne avessi trenta. Faccio ginnastica, suono, nuoto: certo mi stanco, mi viene mal di testa, ma non importa. Essere attivi tiene viva la mente».
Quando le chiedo se il velo possa essere considerato anche un simbolo di libertà risponde senza esitare: «Da un punto di vista politico, assolutamente no. La schiavitù non è un simbolo di libertà».
Quindi, secondo lei il velo equivale sempre a oppressione? «Sì, certo, ma anche la mercificazione è oppressione. Sono due facce della stessa medaglia. Ci sono donne che lo portano come altre usano il trucco: per questo definisco il make-up un velo postmoderno. Perché secondo te si mettono il rossetto sulla labbra? Perché mostrano il reggiseno e indossano minigonne cortissime? Perché sono considerate un oggetto sessuale. Essere coperte per dettami religiosi oppure spogliate per leggi di mercato è sempre una forma di schiavitù».
Secondo Nawal che dice che l’Islam è incompatibile con la democrazia ha ragione: «In nessuna religione esiste democrazia perché Dio è un dittatore. La religione si fonda sull’obbedienza, non si può discutere con il Creatore. E i potenti della Terra non fanno altro che seguire il loro maestro in Cielo. Non esiste separazione tra religione e politica, sono una cosa sola: nella storia Dio era il re».
Come molte altre intellettuali che ho incontrato, ritiene siano le donne l’elemento chiave nascosto, il vero motore del cambiamento: «Per questo la politica è contro di noi. Ci hanno rese così stupide da farci credere in un Dio che ci opprime. Ma come si può credere davvero che Dio sia contro di noi?».
Mi saluta con un invito a dir poco perentorio: «Ricordati che la multinazionale peggiore non è quella genitale ma quella intellettuale. Il velo sul cervello è molto peggio del velo sui capelli».

Repubblica 11.11.07
Norman Mailer. Il pacifista sempre in guerra
di Antonio Monda


Se ne è andata ieri a ottantaquattro anni una delle voci più potenti d´America. Famoso già a vent´anni, polemista, attivista politico, libertario, pugile e sindaco mancato, attore Ma anche violento nella vita privata, sregolato, odiato. Uno scrittore che insieme a Truman Capote cambiò per sempre il modo di raccontare il mondo, la guerra, gli abissi della mente umana. Tutti posti in cui vedeva la vittoria del male sul bene.
Uscito da Harvard, non esitò ad arruolarsi, ma nonostante avesse sperato di essere tra i liberatori dell´Europa fu inviato a combattere nel Pacifico, dove un commilitone lo descrisse come un soldato che passava più tempo a combattere i superiori che il nemico

Nnorman Mailer è morto ieri all´ospedale Mount Sinai di New York per insufficienza renale. Aveva ottantaquattro anni. Era stato ricoverato più volte durante l´anno, l´ultima volta il mese scorso per un problema ai polmoni. Con un asciutto comunicato diffuso dalla sua famiglia e dal suo agente e biografo Michael Lennon, se ne va una delle voci più critiche, sovversive e scomode della letteratura americana. Tanto discreta la sua morte quanto rumorosa fu la sua vita.
I genitori lo avevano chiamato Norman Kingsley Mailer, e da piccolo il futuro scrittore era particolarmente attaccato al secondo nome, che la madre aveva tradotto dall´ebraico "malech": re. Nel corso di tutta l´adolescenza se ne vantò e vergognò a seconda delle circostanze, e solo negli ultimi anni ricominciò ad utilizzarlo con una punta di orgoglio. Era nato a Long Branch, nel New Jersey, da una coppia di ebrei sudafricani, ma era cresciuto a Brooklyn nel quartiere povero e violento di Crown Heights, dal quale si allontanava soltanto durante l´estate per andare a trovare i nonni che possedevano un piccolo albergo a Long Beach. Il padre, un ragioniere che era costretto a fare ogni tipo di sacrificio per arrivare a fine mese, aveva riversato su di lui un desiderio di riscatto e affermazione nella terra delle opportunità, e la madre, che stravedeva per il figlio con un destino da re, aveva promesso a tutti parenti che il piccolo li avrebbe resi l´orgoglio del quartiere.
Norman Kingsley non deluse le loro aspettative: promise ai genitori di diventare un «grande scrittore» e scrisse a nove anni un romanzo di duecentocinquanta pagine intitolato Invasion from Mars. In un primo momento i due rimasero perplessi: avrebbero preferito che il piccolo si dedicasse a qualcosa di più concretamente redditizio, ma perfino in quelle pagine infantili risultavano evidenti una passione e un talento fuori dal comune. Reagirono con commozione e entusiasmo quando Norman Kingsley riuscì ad iscriversi ad Harvard, e non seppero mai quanto avesse sofferto provando sulla sua pelle cosa significasse non far parte dell´élite wasp: perfino recentemente lo scrittore ha rievocato la sensazione bruciante di non avere «i vestiti, l´accento e la religione giusta». Nel periodo universitario scrisse sulle riviste del campus e sfogò il proprio senso di inadeguatezza tirando di boxe. Non fu mai il grande pugile che volle far credere in seguito, ma è certo che sul ring era in grado di terrorizzare i colleghi di studio che lo snobbavano in pubblico. La laurea coincise con il momento più cruento della Seconda guerra mondiale e, uscito da Harvard, non esitò ad arruolarsi, ma nonostante avesse sperato di essere tra i liberatori dell´Europa fu inviato a combattere nel Pacifico, dove un commilitone lo descrisse come un soldato che passava più tempo a combattere i superiori che il nemico. Il carattere provocatorio e aggressivo era già formato, così come l´insofferenza per ogni tipo di imposizione irrazionale.
La sua esperienza al fronte divenne il soggetto di partenza per il capolavoro giovanile Il nudo e il morto, il romanzo che lo rese una star della letteratura a soli venticinque anni. Il libro, tradotto in tutto il mondo, venne accolto come uno dei casi letterari più importanti dell´epoca e ebbe ovunque recensioni osannanti con l´eccezione di Mary McCarthy, che parlò di «ambizione più che di talento» e di Gore Vidal, che arrivò a metterne in dubbio l´autenticità. Due anni dopo consegnò alle stampe La costa dei Barbari, che fu accolto tiepidamente, e quindi decise di rivolgersi ad Hollywood, dove cercò di ottimizzare commercialmente il proprio successo editoriale, ma l´avventura si rivelò una grande delusione.
Il nudo e il morto divenne un film solo molti anni dopo per la regia di Raoul Walsh, e Mailer si dedicò insieme a Jean Malaquais alla scrittura di una sceneggiatura che non venne mai realizzata. Entrò rapidamente in contrasto con i principali produttori hollywoodiani (in particolare con Sam Goldwyn che aveva l´abitudine di riceverlo in accappatoio) e dopo esser tornato a New York cominciò a scrivere un nuovo romanzo intitolato The deer park, basato sulle esperienze nella fabbrica dei sogni. Nonostante fosse ancora viva l´eco dello straordinario successo del Nudo e il Morto, il nuovo libro faticò a trovare un editore, e venne accolto da critiche negative. Sul momento sembrò che Mailer abbandonasse per sempre il cinema, ma il tempo dimostrò che si trattava di un rapporto intimo ed intenso: in seguito si cimentò nella regia (adattando con scarsi risultati il suo romanzo I duri non ballano), nella recitazione (tra i tanti film ha partecipato a Ragtime di Milos Forman e Re Lear di Jean Luc Godard) e, ovviamente, nella sceneggiatura: è sua la prima stesura di C´era una volta in America, scritta su richiesta di Sergio Leone, che poi la bocciò dopo aver detto all´amico «sei un grande scrittore ma non sei fatto per il cinema».
Innumerevoli le partecipazioni in cui interpreta se stesso, tra le quali la più memorabile rimane quella in Quando eravamo re, dove rievoca l´incontro di boxe Ali-Foreman che raccontò anche in uno dei suoi libri più appassionanti: Il Match. La delusione cinematografica e il disincanto verso il mondo dell´editoria lo convinsero a tentare altre strade: sono gli anni in cui si dimostrò un saggista di prim´ordine con analisi sociali come The White Negro, e un pamphlettista appassionato con i celebri interventi sulla guerra in Vietnam. Ma furono soprattutto gli anni in cui si rivelò un motore della cultura americana con progetti quali The Village Voice, settimanale alternativo che acquistò immediatamente una dimensione di culto e che lo vide tra i fondatori. È il periodo in cui si trasferisce nel Greenwich Village e si appassiona alla cultura "hipster", ma anche il momento dei maggiori eccessi e violenze: nel 1960 dopo una notte di droghe e alcool accoltellò la prima moglie Adele, che lo salvò dal carcere non sporgendo alcuna denuncia, ma poi raccontò tutto nel libro autobiografico The last party. Da un punto di vista della saggistica, si tratta probabilmente del periodo più felice: nei suoi scritti, raccolti principalmente in Advertisment for myself, Mailer esamina la violenza, l´isteria, il disordine della società americana dell´epoca con un´energia prettamente statunitense ma anche sotto l´influenza di alcuni autori europei studiati ed amati profondamente, a cominciare da Jean Genet.
Tra i libri più importanti di quel periodo ci sono The presidential papers, Cannibali e Cristiani, nel quale accusò gli scrittori americani di non dare una visione chiara della propria realtà sociale e culturale, e, soprattutto, The armies of the night, nel quale raccontò la marcia pacifista del 1967 a Washington e grazie al quale vinse il premio Pulitzer. Mai come in quel periodo si aggiunse all´energia e all´intelligenza dell´argomentazione un approccio aggressivo sino alla provocazione, e la pubblicazione di The prisoner of sex lo fece diventare uno dei bersagli preferiti delle femministe: in Sexual Politics Kate Millet lo definì senza mezzi termini un «porco maschilista». Mailer accettò di buon grado lo scontro in numerosi interventi pubblici che alimentarono la tensione delle polemiche, poi scrisse un libro su Marilyn Monroe che fu massacrato dalla critica (John Simon lo definì «politicamente demente») ma divenne un successo internazionale, e quindi Executioner´s Song, forse il miglior libro di "new journalism" dai tempi di A sangue freddo. Truman Capote, che soffrì la rivalità di Mailer non meno di Gore Vidal, reagì con fastidio a quella che visse come un´invasione di campo, e paragonando il suo libro a quello di Mailer sugli ultimi giorni del condannato a morte Gary Gilmore definì Executioner´s Song il testo di «un correttore di bozze».
Dopo il tentativo di candidarsi a sindaco di New York (ebbe solo il sei per cento dei voti), Mailer cominciò ad appassionarsi anche alla politica internazionale e decise di visitare l´Unione Sovietica che definì «non tanto l´impero del male, quanto un paese del terzo mondo». È il momento in cui codifica nei saggi e nei romanzi con maggior precisione il parallelo tra gli Stati Uniti e l´impero romano, ritagliando per sé il ruolo di Petronio. Il libro più significativo di questo periodo è Antiche sere, che sorprese la critica per l´ambientazione nell´antico Egitto. Dopo l´incerto risultato di I duri non ballano, un violento noir ambientato nel mondo della boxe, Mailer raggiunse una delle punte più alte della sua produzione con Harlot´s Ghosts, una cronaca spietata ed inquietante delle attività della Cia. Meno riusciti i successivi Oswald´s Tale dedicato al presunto assassino del presidente Kennedy, e Vangelo secondo il Figlio, una rivisitazione del Vangelo sulla falsariga dei testi di Saramago e Kazantzakis, che fu accolta molto tiepidamente.
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dalla pubblicazione di numerose antologie e dalla preparazione del grande romanzo americano che invocava dai tempi di Cannibali e Cristiani. Esemplare la scelta tematica dei due ultimi libri: nel Castello nella Foresta ha individuato in Hitler una vera e propria incarnazione del demonio, quindi ha dato alle stampe On God, un testo nel quale si definisce un esistenzialista che crede nell´esistenza di Dio, si interroga sul perché l´Onnipotente abbia bisogno di essere amato, e quindi si dichiara convinto che il diavolo stia vincendo l´eterna battaglia tra il bene e il male.

l’Unità 11.11.07
Un Tenco da Skiantos, a Sanremo
di Silvia Boschero


MUSICA Quest’anno il premio Tenco ha invitato i cantanti a rivisitare l’artista scomparso 40 anni fa e così ha pescato belle sorprese. Come Ricky Gianco che ha scovato la prima vena rock del cantante genovese

Sanremo. Tenco interpretato in calabrese e in romanesco. Follia? No, amore incondizionato. Tenco in tutte le salse, con passione e con ironia, dissacrandolo o venerandolo, ma senza ombra di retorica. Meno male che quest’anno tra tante celebrazioni e tanti libri monografici più o meno riusciti, ci ha pensato il Club Tenco a ricordare il cantautore genovese a quarant’anni dalla scomparsa con l’annuale premio conclusosi ieri sera.
Tenco cantato con la voce di un uccellino notturno (quella di Carmen Consoli) e da quella spacca-bicchieri stile Yma Sumac di Petra Magoni, che ancora alle due di notte, al dopofestival, ha fiato da vendere mentre tutti traballano. Tenco rock dei primi tempi nella versione di Vorrei sapere perché di Ricky Gianco che con lui ebbe il piacere di suonare «prima che fosse famoso, quando suonava il sassofono», ma anche Tenco l’ironico che nella voce e negli occhi spiritati di Freak Antoni degli Skiantos su una disillusa e divertente Un giorno di questi ti sposerò, in una performance situazionista indimenticabile. Insomma, il Luigi Tenco che non ti aspetti, quello nascosto dietro la faccia malinconica del bel ragazzo triste su cui mezza Italia spese le sue lacrime.
Nella riproposta a tutto tondo del cantautore genovese il Premio Tenco quest’anno ha fatto decisamente centro. E ha anche messo uno «stop» definitivo al fiume di libri celebrativi usciti in questo 2007 con uno splendido e per nulla pruriginoso volume edito dalla Bur (Il mio posto al mondo. Luigi Tenco cantautore) scritto dal patron Enrico De Angelis assieme ad Enrico De Regibus e Sergio Secondiano Sacchi con la prefazione di Fausto Bertinotti e oltre 200 canzoni commentate da altrettanti personaggi.
Il bello è stato vedere come le «nuove leve» salite sul palco hanno affrontato un maestro della canzone italiana: in maniera viscerale, drammatica e ingenua il bravissimo Peppe Voltarelli (già al Tenco negli scorsi anni con la sua ex band Il parto delle nuvole pesanti e stavolta in proprio) su Ragazzo mio; in maniera un po’ fredda ma coraggiosa (da sola, chitarra e voce) Carmen Consoli, ma forse l’attesa su un brano così amato come In qualche parte del mondo era fin troppo grande. O ancora in maniera naif come i romani Ardecore, un mix tra Renato Zero, Rugantino e John Zorn, ma se la cavano meglio sul loro repertorio che su quello dell’artista ligure. C’è stato poi chi ha piegato Tenco al proprio volere e al proprio arrangiamento come ha fatto Edoardo Bennato sull’interpretazione di Ognuno è libero, su un Tenco giovane, ribelle e un po’ strafottente. C’è chi ha trascinato il pubblico in una festa popolare come Ginevra di Marco con Io sì e chi ha aggiunto a un’interpretazione piuttosto fedele la sua carica teatrale su Vedrai vedrai come Mauro Ermanno Giovanardi, ex La Crus e noto appassionato della musica di Tenco. Questo riguarda la serata di venerdì, prima dunque che arrivassero Morgan a reinterpretare Il mio regno, Gino Paoli in Mi sono innamorato di te, Teresa de Sio, Ada Montellanico, Irene Grandi e gli altri due vincitori dell’edizione 2007: Gianmaria Testa (Lontano lontano) e i Tetes de Bois, a loro agio sia sul palco dell’Ariston nella versione di Angela, sia al dopofestival con la loro esilarante canzone Vomito, sia sulla strada, accampati a suonare nel pomeriggio sul loro storico pulmino dipinto di fresco per l’occasione.
Il Tenco a oltre trent’anni dalla sua nascita è ancora vivo e vibrante, e se il prossimo anno riuscirà ancor di più ad aprirsi ai nuovi giovani autori che non percorrono la strada canonica della canzone italiana (e ce ne sono tanti), la festa sarà ancora più gioiosa. Insomma, celebrata e digerita la grande lezione di Tenco, da domani, non resta che «dimenticarlo» e ripartire.

l’Unità 11.11.07
Il carcere uccide, la marijuana no
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Aldo Bianzino era un falegname di 44 anni. È morto il 14 ottobre, due giorni dopo il suo arresto, nell’istituto penitenziario Capanne di Perugia. Non era un truffatore, un ladro, un assassino; era una persona mite, Bianzino, che consumava marijuana da lui stesso coltivata. Per questo, per coltivazione e detenzione di canapa indiana, era detenuto in quel carcere. Non ci sarebbe bisogno, in questa storia, di spiegare chi fosse: il fatto che un cittadino muoia in carcere già interpella l’amministrazione penitenziaria e le istituzioni, già esige verifiche scrupolose e riflessioni non di maniera. Ma, per essere chiari e raccontare, in piccola parte e per quel che si può, anche una vicenda umana, chiariamo che Bianzino non era uno spacciatore (non nel senso corrente del termine, certamente): era, piuttosto, un uomo che aveva deciso di vivere, con la sua famiglia, in un luogo remoto dell’Umbria, in mezzo alla natura; era un musicista e un appassionato di filosofie indiane; era un uomo definitivamente estraneo, per stile di vita e inclinazioni, a qualsivoglia condotta criminosa. Sulle circostanze della sua morte, su quelle poche ore passate in cella, si addensano dubbi che andranno diradati quanto prima, con scrupolo e rigore. Perché le ipotesi iniziali, che collegavano il decesso a un malanno cardiaco, sembrano smentite da altri dati emersi dai rilievi autoptici: fegato e milza gravemente lesionati, gravi traumi cerebrali (è a questi per il momento, che si imputa la sua morte), due costole fratturate. Sul suo corpo, inoltre, nessuna traccia di ematomi: come se i traumi subiti avessero danneggiato direttamente gli organi interni, senza lasciare lesioni evidenti sull’epidermide.
C’è un avviso di garanzia, allo stato dei fatti, emesso contro l’agente di polizia penitenziaria incaricato, quel giorno e in quel turno, della sorveglianza nell’ala di reclusione di Bianzino. I vicini di cella avrebbero sentito richeste d'aiuto; che, così sostengono e così hanno confermato in un recente incidente probatorio, non sarebbero state raccolte. Bianzino, in altre parole, non sarebbe stato soccorso. Ora si attendono i risultati di una terza autopsia, che saranno disponibili tra qualche giorno e contribuiranno a fare luce su questo caso. Su cui non c’è bisogno di emettere sentenze premature, di fomentare sospetti o accuse: perché è evidente, sin d’ora, che la prima cosa che le indagini dovranno accertare è l’ipotesi che Bianzino sia deceduto di una morte violenta. La procura perugina ha aperto un fascicolo per omicidio a carico di ignoti.
La morte di quel falegname ci consegna però, sin d’ora, tre questioni da affrontare con urgenza. La prima riguarda la responsabilità che lo Stato ha nei confronti della salute e dell’incolumità dei suoi cittadini; e di quella che, in special modo, ha nei confronti dei suoi cittadini limitati nella libertà personale, ristretti, reclusi. Il carcere, strumento ed emblema della prerogativa sanzionatoria dell’autorità pubblica, deve diventare quanto prima, soprattutto, luogo simbolo di legalità, istituzione modello nell’applicazione scrupolosa della legge. Là dove vivono reclusi coloro che la legge hanno infranto, la legge deve essere osservata e valorizzata in tutta la sua utilità, in tutta la sua equità. E, dunque, non si può permettere che un cittadino detenuto, per giunta ancora non condannato, per giunta ancora non giudicato, muoia tragicamente e in circostanze poco chiare quali quelle descritte. C’è poi da interrogarsi sull’utilità del carcere per quanti sono rei di consumo di droghe, e di droghe leggere in special modo (fatto salvo che, nel caso di Bianzino, l’ipotesi di piccolo spaccio che ha determinato l’arresto era stata respinta dall’interessato). Su questo punto la nostra prospettiva è semplice ed è quella già enunciata in molte occasioni: legalizzare i derivati della canapa indiana per ridurre i possibili danni del loro abuso, sottoponendoli a un regime di autorizzazioni e controlli, di limiti e imposte, analogo a quello previsto per sostanze perfettamente legali, eppure assai dannose, come l’alcool e il tabacco (lo ha ricordato più volte Gian Luigi Gessa, già presidente della Società italiana di farmacologia e studioso di chiara fama, come «una dipendenza da nicotina sia molto più grave e più difficile da curare di una da marijuana»).
Ciò significa, tra le molte cose, non dover rinchiudere in carcere persone innocue come Aldo Bianzino. E stroncare gran parte del mercato criminale legato agli stupefacenti.
Infine, la morte di quell’uomo può segnare uno spartiacque. La storia dell’amministrazione penitenziaria italiana è macchiata da morti di detenuti sulle quali rimangono ombre, sulle quali si poteva e si doveva indagare di più, accertare delle responsabilità, cercare giustizia.
Il lavoro e l’impegno delle molte persone che operano nei nostri istituti di pena con passione, e spesso con sacrificio, meritano che al sistema carcerario sia resa integra e indiscutibile la sua onorabilità e la sua trasparenza.

Corriere della Sera 11.11.07
Tendenze. Da Onfray a Odifreddi, da Hitchens a Dawkins: opere che fanno mercato ma non convertono nessuno
Ateologia, la nuova scienza del bestseller
I libri antireligiosi: un fenomeno commerciale che confonde fede e integralismo
di Alberto Melloni


È ormai un'abitudine: non solo italiana, ma in Italia fortissima. Ogni sei mesi una casa editrice, dalle più prestigiose alle più piccole, pubblica un libro (gli autori hanno curricula assai vari), che con linguaggio più o meno paludato, con pretese più o meno universali, con toni più o meno grezzi, se la prende con Dio (anzi, con dio) e con chi gli crede. La tendenza, nella sua versione pensosa, è tutt'altro che nuova. Giacché è da secoli che posizioni scettiche o di ateismo dottrinale circolano nella cultura occidentale: ma sarebbe sbagliato e perfino irreverente andare a citare i grandi nomi della filosofia per spiegare questo fenomeno, che è di livello assai diverso e che ha orizzonti più che altro commerciali.
Con quel quid di civetteria francofona, Michel Onfray ha avuto successo sciorinando argomentazioni che intendono «dimostrare» l'inconsistenza della fede: lo ha fatto con un libro di successo —il Trattato di ateologia — che raccoglie un'azione di insegnamento extra-accademico, somministrato ad un pubblico serale che rimane incantato quando lui giocherella con contraddizioni bibliche o aporie dottrinali. Ma chi abbia seguito anche solo i giornali avrà notato la verve di un matematico come Piergiorgio Odifreddi, il quale — se ne è indignato perfino un autore mite e in tutt'altre faccende affaccendato come Aldo Grasso — non nasconde che per lui la fede è roba da «cretini». E poi più di recente sul mercato italiano è passato l'affresco di Hitchens, per il quale non genericamente la fede cristiana o i monoteismi dei figli di Abramo, ma tutte le religioni, singolarmente considerate, sono una delle piaghe dell'umanità: accusa senza sconti, che trova singolare ascolto perché ha saputo mettere in caricatura l'Islam astratto, monoforme e senza storia che oggi impasta tanto discorso pubblico (l'Islam è irrazionalista, l'Islam è fondamentalista, l'Islam è un impasto di fede e politica). Dopo di lui è arrivato un biologo di rango come Richard Dawkins a spiegarci che «l'egoismo del gene » ci deve bastare ed è facile immaginare che sia già in bozze un altro «Adversus Deum» di qualcuno — un fisico, un atleta, un giornalista — che esprimerà la sua posizione agonistica con lo zelo dei missionari dello sbattezzo, appena prima che arrivi un altro. Perché, nella faticosa lotta per un posto in libreria, i volumi così vanno da dio.
Qualcuno, in ambito credente, si sente minacciato da queste «empietà», reagisce allarmato, e capita che nella foga retorica alambicchi su questa spia di una «persecuzione»: una mentalità timida e potenzialmente violenta, non di rado associata all'idea che la rivincita debba avvenire (o sia avvenuta) in Parlamento o al Tesoro. In realtà chi abbia la pazienza di leggere questa letteratura dell'«abbasso-dio» non farà fatica a scoprirne il carattere «reazionario» in senso tecnico. Perché ciò con cui polemizzano questi autori, al netto delle differenze talora sensibili fra l'uno e l'altro, non sono le fedi così come si sono sviluppate nel tempo, là dove una vita o un insegnamento o la follia della predicazione hanno radicato un'esperienza senza la quale alcuni e non altri non saprebbero essere se stessi. Gli ateologi polemizzano contro l'essenzialismo: l'idea, concepita contro la modernità, che esista un nucleo astratto e atemporale, fatto di dottrine coerenti, di meccanismi che rendono tutto ovvio, spiegabile, necessario. È l'essenzialismo che, trovandosi a mal partito davanti alla rugosità dei testi «sacri» (che per quanto «sacri» hanno una filologia e una storicità), si arrocca sul semplicismo e sprezza la fatica dell'esegeta. È l'essenzialismo che, davanti al progressivo mutare dei quadri di riferimento collettivi, s'affanna ad eternizzare una morale come fosse un fine a se stessa e legge il cambiamento come frutto di arrendevolezza. È l'essenzialismo che eccita l'arroganza credente, quella che, davanti all'immensità storica del dolore, sorride come se fosse la prova dei guai che vengono dalla poca fede. Evidenza dell'inevidente contro inevidenza dell'evidente, l'essenzialismo è diventato concime per i soloni dell'ateologia, il bersaglio contro il quale esibirsi in virtuosismi para-razionalisti (simmetrici al virtuosismo para-spirituale) e chiedersi come mai chi esce di casa per andare a pregare il venerdì o il sabato o la domenica non si senta un idiota. Se pochi vengono «convertiti» all'ateismo da queste opere che fanno mercato, ma non una cultura, è perché nella realtà delle vite concrete l'esperienza religiosa non è fatta di essenze, ma di una dimensione intima e comune, che sfugge agli essenzialisti esattamente come allo scetticismo bestseller. È quella dimensione che nemmeno sa del bisogno fisico di potere, della brama di luminescenza mediatica, della voluttà del proscenio politico che infiltra tanta religiosità e altrettanta irreligiosità. Perché, là dove c'è, il primato dell'interiore risulta così delicato e forte che nemmeno s'affanna a dichiararsi. E lascia volentieri che nel piccolo colosseo dei cataloghi editoriali si azzuffino i gladiatori dell'una e dell'altra parte in una lotta che assomiglia al wrestling, dove si fingono botte tremende, e si finisce poi a dividersi gli incassi. A questa dimensione interiore non si rivolge ormai quasi nessuno per insegnare ad ascoltare quella che, nella teofania di cui è testimone, il profeta Elia chiama «la voce del silenzio più impalpabile»: e forse questo spiega perché in tanta letteratura sul divino, in tanta editoria religiosa e irreligiosa, resti intatta e insoddisfatta la sete di maestri.
Pochi ce ne sono in quelle che sono le riconosciute autorità spirituali e i loro ripetitori, che preferiscono dar battaglia nei campi dell'etica e del naturale, sui quali si può lucrare qualcosa, piuttosto che cimentarsi con la difficile arte del cammino dell'uomo, dell'esemplarità della vita, dell'apprendistato del mistero. E di maestri certo ce n'è nessuno della sezione «abbasso dio» della biblioteca italiana dei bestseller, così importante nei bilanci, così irrilevante nella realtà.

Corriere della Sera 11.11.07
Ginecologia Il farmaco, già disponibile in gran parte d'Europa, dovrebbe ottenere il via libera entro tre mesi
RU-486 in arrivo anche in Italia
Rischi e benefici della pillola abortiva, promossa da un rapporto dell'Aifa
di Margherita Fronte


Per un'azienda che punta tutto sulla vendita di un farmaco abortivo, il nostro è un Paese difficile. Alla fine però la francese Exelgyn si è decisa e questa settimana ha presentato la domanda per la messa in commercio in Italia della RU-486, la pillola a base di mifepristone che permette di interrompere la gravidanza entro le prime 9 settimane, senza ricorrere all'intervento chirurgico.
La RU-486 è già venduta nella maggior parte dei paesi europei: grazie alla procedura del mutuo riconoscimento, che prevede che l'autorizzazione rilasciata da uno Stato dell'Unione europea sia estesa anche agli altri, avrà il via libera entro 90 giorni.
«È una buona notizia — commenta Nicola Natale, vicepresidente della Società italiana di ginecologia e ostetricia —. Ora le donne potranno scegliere se ricorrere all'intervento chirurgico o al farmaco, ma sarà importante che siano informate sugli effetti collaterali della RU-486». E non è detto che la scelta cadrà sempre su quest'ultima. Nei Paesi in cui il medicinale è già in commercio, la percentuale di chi sceglie l'aborto farmacologico non supera il 60 per cento. «La donna che opta per l'intervento chirurgico, si sente rassicurata dal fatto che sia un altro ad agire e che tutto si esaurisca in poco tempo» spiega Silvio Viale, ginecologo dell'ospedale Sant'Anna di Torino e pioniere della sperimentazione italiana. «È certo, comunque, che siamo in ritardo di almeno dieci anni », dice Natale. Un'attesa che le polemiche degli anni scorsi hanno allungato e che alcuni fatti recenti hanno invece contribuito a concludere. Ultimo, in ordine di tempo, la posizione favorevole dell'Agenzia italiana del farmaco (Aifa), ribadita in un articolo pubblicato sull'ultimo numero del suo Bollettino d'informazione. L'articolo riassume le caratteristiche e le modalità di impiego del medicinale. L'intervento — spiega — avviene in due tappe: inizialmente si somministra il mifepristone, che inibisce lo sviluppo embrionale. Dopo un paio di giorni è la volta di un secondo farmaco, una prostaglandina, che ne facilita l'espulsione. Il 95% delle donne abortisce entro pochi giorni; per il 2-4% è necessario un raschiamento, mentre nell'1-3% dei casi la pillola fallisce. Fra gli effetti collaterali, sono abbastanza frequenti nausea, vomito e diarrea. La maggior parte delle donne ha poi dolori addominali. «Le complicanze gravi sono rare — chiarisce l'Aifa — e riconducibili al sanguinamento importante, alla necessità di trasfusione o all'infezione uterina». Più in generale, i rischi dell'aborto farmacologico non sono superiori a quelli dell'intervento chirurgico.
Sul pericolo che la RU-486 possa far crescere il numero di aborti, l'Aifa cita gli studi effettuati nei paesi in cui il farmaco è disponibile da diversi anni: non ci sono «variazioni di rilievo successive all'introduzione del mifepristone ». Per tutti questi motivi, e considerando anche che il mifepristone è stato inserito nell'elenco dei farmaci essenziali per la salute riproduttiva dell'Organizzazione mondiale della sanità, l'Aifa ritiene che la RU-486 possa essere «un'opzione fornita dal Servizio sanitario nazionale, in linea con le scelte operate da tempo in molti Paesi dell'Unione».
L'articolo è stato preceduto da due pubblicazioni di analogo tenore, curate rispettivamente dalla Food and drug administration (che regola la messa in commercio dei farmaci negli Usa) e dal suo corrispettivo europeo: l'Emea. La prima ha esaminato fra l'altro i sei decessi, verificatisi in America e dovuti a un'infezione batterica seguita all'assunzione della RU-486.
Vista la rarità dell'evento (un caso ogni 100.000 donne), la Fda ritiene che il rapporto fra rischi e benefici resti favorevole all'uso del farmaco. L'Emea ha invece chiarito indicazioni e modalità di somministrazione, con l'obiettivo di armonizzare le procedure europee. Il protocollo prevede tre visite: nella prima, viene dato il mifepristone; nella seconda, la prostaglandina e dopo due o tre settimane si fa un ultimo controllo.
«Non è previsto il ricovero in ospedale — sottolinea Viale —. È un fatto importante, perché in Italia la polemica è centrata proprio su questo ». Viale è tuttora sotto inchiesta per violazione della legge 194, per non aver trattenuto in ospedale 300 delle 362 donne sottoposte al trattamento.

Corriere della Sera 11.11.07
Lo scopritore: «Il mio farmaco non serve soltanto per l'aborto»
di M.F.

Etienne-Emile Baulieu, già presidente dell'Accademia di Francia, ha messo a punto la RU-486 all'inizio degli anni Ottanta.
Non ha mai chiesto i diritti sulle vendite perché, sostiene «chi è ricco, smette di lavorare; e poi mi sarei trovato a disagio nel consigliare una medicina su cui avevo un interesse economico». Da oltre 20 anni vive nell'occhio del ciclone (negli Usa si muove con la scorta). Da sempre interessato alla politica, non ha smesso di studiare gli effetti del «suo» farmaco, né di combattere per migliorare le condizioni della donna in un settore che, dice «è al confine fra la ricerca scientifica e la sociologia».
La Exelgyn ha chiesto l'autorizzazione alla messa in commercio della RU-486 in Italia: che ne pensa?
«Era ora! Ho conosciuto molti italiani e tutti erano favorevoli.
Credo che il ritardo sia stato causato dalle idee del Vaticano.
Ognuno ha le sue opinioni e io le rispetto. Ma le donne devono poter scegliere indipendentemente da ciò che pensa il proprio medico, il prete o il marito».
Si sta ancora studiando RU-486.
Con quali obiettivi?
«Lo sviluppo di questo farmaco è stato bloccato da controversie che non hanno nulla a che fare con la scienza.
Oltre che per indurre l'aborto, può essere usato anche per altro. In Francia per esempio è impiegato per facilitare i parti difficili, e può essere utile anche per alcune forme di miomi e fibromi dell'utero. È poi allo studio un suo utilizzo nel tumore della mammella e un gruppo di ricercatori dell'università di Stanford ne sta valutando l'efficacia nelle forme gravi di depressione. Di certo ci sono una serie di effetti sul cervello che devono essere studiati meglio e sui quali stiamo lavorando.
Ma è difficile ottenere fondi, a causa delle polemiche».
Lei sta anche lavorando al Dhea, un precursore degli ormoni sessuali che lei stesso ha scoperto negli anni 60. A questa sostanza però sono state attribuite proprietà anti-età non sempre dimostrate scientificamente…
«Il problema è che la gente non ha capito che cosa può fare il Dhea. Se nelle persone anziane i livelli di Dhea sono bassi rispetto a quelli normali per la loro età, allora la sostanza può essere somministrata per migliorare la memoria, l'umore, la qualità della pelle. Se i livelli sono già nella norma, però, non serve. Di recente poi abbiamo visto che il Dhea può essere utile anche per l'ipertensione polmonare».

Le sperimentazioni a Torino e le importazioni contestate
Secondo l'Agenzia italiana del farmaco, nel nostro Paese gli aborti eseguiti con la RU-486 nel 2005 e nel 2006 sono stati quasi 1.300, pari allo 0,9% di tutte le interruzioni volontarie di gravidanza.
La pillola è arrivata dall'estero seguendo due strade diverse. A Torino, fra il settembre del 2005 e lo stesso mese dell'anno seguente, la sperimentazione coordinata da Silvio Viale ha permesso all'ospedale Sant'Anna di rifornirsi del medicinale e di usarlo come farmaco abortivo (in Italia, al di fuori delle sperimentazioni, l'impiego della RU-486 è altrimenti autorizzato solo per la «sindrome di Cushing di origine paraneoplastica», un raro disordine ormonale causato da tumori di tipo diverso).
L'esperienza torinese è stata bloccata per presunte violazioni della legge 194 ed è in corso un'inchiesta della magistratura. Nel capoluogo piemontese sono state trattate 362 donne, sulle 400 previste dal protocollo iniziale. «Abbiamo dei risultati informali e non pubblicati sugli esiti dell'intervento, che confermano però i dati positivi emersi a livello internazionale», racconta Silvio Viale. Per procurarsi il farmaco, in altre regioni è stata invece attivata la procedura di importazione, che un decreto del 1997 rende possibile qualora il medico lo ritenga utile per un suo paziente. «Questo iter è usato per esempio nel caso di alcuni farmaci antitumorali», spiega Viale. L'importazione dall'estero permette di utilizzare il medicinale, con le indicazioni in vigore negli altri Paesi dell'Unione. Hanno usufruito così della pillola abortiva alcuni ospedali in Toscana, Trentino, Emilia Romagna, Marche e Puglia. «In questi casi non si è trattato di sperimentazioni — chiarisce il ginecologo torinese —.
Comunque, i dati raccolti complessivamente confermano il bilancio positivo sul farmaco che emerge dalle altre ricerche condotte finora». La strada per ottenere la pillola è ancora tutta in salita. «Alcuni ospedali continuano a procurarsi la RU-486 con la procedura dell'importazione — prosegue Viale —. Si tratta però di un iter molto macchinoso, che richiede numerosi passaggi e autorizzazioni. A Roma, per esempio, le richieste dei medici sono state sempre scoraggiate dalle stesse direzioni sanitarie degli ospedali, cui spetta il via libera in prima istanza. Anche se l'unica inchiesta della magistratura sulla RU-486 è stata quella di Torino, molti centri hanno ugualmente sospeso l'importazione del farmaco proprio perché scoraggiati dalla complessità delle procedure».

Corriere della Sera 11.11.07
Adolescenti Secondo un sondaggio, 7 medici italiani su 10 sono favorevoli a una distribuzione controllata
«Portiamo gli anticoncezionali a scuola»
di Antonella Sparvoli


I giovani non sono abbastanza informati in tema di contraccezione. Negli Usa si parla addirittura di allarme school pregnancy, cioè di gravidanze indesiderate nate nei corridoi. Per rimediare, in una scuola di Portland, le autorità scolastiche hanno persino deciso di mettere a disposizione delle undicenni pillole anticoncezionali e del giorno dopo.
La singolare iniziativa non ha lasciato indifferenti i medici italiani, tanto che la Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) e la Società italiana di medicina generale (Simg) hanno deciso di promuovere un sondaggio tra i «camici bianchi » italiani. Più di 600, i medici interpellati in tutta Italia. Di questi, sette su dieci considerano utile introdurre nelle scuole superiori la distribuzione controllata di anticoncezionali (pillola e preservativi). La scuola, con la famiglia e i media rimane, per il 49% dei medici, l'istituzione dove maggiormente operare. Senza però dimenticare, sottolineano 5 intervistati su 10, che i medici possono e devono promuovere maggiore educazione. Sbagliato, invece, per il 95% degli specialisti, eliminare l'obbligo di prescrizione della pillola.
«Come negli Usa, anche nel nostro Paese, sebbene in maniera più contenuta, sono in aumento le gravidanze fra le più giovani: sono casi drammatici per la gravità e per le pesanti ripercussioni sulla psiche e le condizioni sociali della ragazza e della sua famiglia», fa notare Emilio Arisi, direttore dell'Unità operativa di ostetricia e ginecologia dell'ospedale Santa Chiara di Trento, nonché consigliere nazionale della Sigo e responsabile per la società della campagna Scegli tu sul tema dell'educazione a una sessualità consapevole avviata da più di due anni. «È dimostrato — continua — che le adolescenti cadono più facilmente vittime di aborti clandestini. Una gravidanza a questa età presenta ripercussioni mediche e sociali importanti, sia che si decida di interromperla o di portarla a termine. E le ragazze italiane non sono abbastanza informate».
Da un precedente sondaggio della Sigo è emerso che per una ragazzina su tre il primo rapporto è senza precauzioni e che il 30% continua a sfidare la sorte, senza utilizzare alcun metodo contraccettivo oppure fa affidamento sul coito interrotto (20%). Non solo, il 50% delle ragazze non sa che può rimanere incinta al primo rapporto. Nel complesso, solo una su quattro raggiunge un livello di educazione sessuale sufficiente. E così, per ignoranza, superficialità o inesperienza, il nostro Paese si colloca agli ultimi posti per l'utilizzo di mezzi contraccettivi.
Per questo la Sigo e la Simg hanno pensato di favorirne l'accesso nelle scuole superiori e presto chiederanno la disponibilità del ministero dell'Istruzione. «Nessuno di noi pensa che il problema si risolva con la mera distribuzione di anticoncezionali, ma la presenza continuativa e strutturata di un medico negli istituti scolastici può rappresentare un passo in avanti — osserva Raffaella Michieli, segretario nazionale della Simg —. Se i giovani non vanno dal medico o nei consultori, è opportuno che il medico vada nelle scuole a parlare in modo corretto di sessualità, di metodi contraccettivi sicuri e sia a disposizione per ascoltare, farsi spiegare dubbi, problemi, aspettative».

Corriere della Sera 11.11.07
Sessuologia Una ricerca svela i desideri erotici di 18mila uomini e donne
Nelle fantasie tutto il sesso che non osate chiedere
Nell'immaginario intimo si dissolvono limiti e paure
di Angelo de' Micheli


C'è un mondo sotterraneo che nascondiamo non solo al partner ma anche a noi stessi. È il mondo delle fantasie sessuali. In questo pianeta misterioso si è avventurato Brett Kahr, psicoterapeuta e ricercatore del Centro per le relazioni di coppia del Tavistock Institute di Londra. E il risultato delle sue indagini è ora pubblicato nel libro «Indovina chi viene a letto?» (edito tra i saggi del Ponte delle Grazie). Nel libro sono raccolte oltre mille fantasie sessuali, scelte tra quelle di più di 18mila persone. Ma le fantasie sessuali sono davvero diffuse? «Perché stupirsi? Si dipinge con il cervello, non con le mani, diceva il grande Michelangelo — ribatte Carlo Alfredo Clerici, medico, specialista in psicologia clinica, ricercatore dell' Università di Milano — e quello che si immagina con la mente può essere più interessante e reale di quello che si vive e si "tocca". Le fantasie sessuali hanno una precisa funzione, soddisfano, in modo sostitutivo, bisogni che resterebbero inappagati, danno vita a situazioni che nella realtà sono difficili da vivere, da agire. Nell'immaginario non ci sono limiti, paure, freni. Non ci sono né pericoli, né sanzioni, proprio per questo il mondo delle fantasie è sempre affollato, giorno e notte».
La ricerca di Brett Kahr parte dalla trascrizione di pensieri raccontati da uomini e donne dai diciotto ai novant'anni. Le persone sono state scelte in diverse contee inglesi, in diversi gruppi sociali, hanno differenti orientamenti religiosi e differenti attività lavorative. Nessuno ha mai sofferto di disturbi psichici degni di rilievo. Il 95% dei partecipanti non ha mai rivelato prima le proprie fantasie sessuali. Nemmeno ai partner.
«Che io sappia non esiste una ricerca equivalente sulla popolazione italiana, ma ormai, almeno nel mondo industrializzato, le fantasie sessuali non conoscono confini geografici — commenta Clerici —. È quindi interessante notare come dallo studio emerga che quasi la metà degli uomini e il 34% delle donne fanno ricorso a fantasie sessuali per "esplorare" attività sessuali mai agite nella realtà. Evidente dimostrazione che c'è voglia di altro, di un altro che non si osa chiedere, ma che ci affascina. Altrettanto significativa la percentuale degli uomini (30%) e donne (19%) che si serve della fantasia per compiere atti che dichiara esplicitamente di non ammettere nella vita reale. Evidente, ancora, il bisogno di sconfinare, di andare oltre ».
«Ma le fantasie sono anche un aiuto per la coppia: "aiutano ad eccitarsi quando si è con il partner" per il 24% degli uomini e per il 26% delle donne » aggiunge Clerici.Se questi e altri sono i motivi per cui si fantastica, che cosa si fantastica? Il sesso di gruppo è gettonatissimo: il 58% degli uomini immagina di fare sesso con due o più donne, mentre il 28% delle donne sogna due o più uomini. «Questo è un modo per esprimere il proprio desiderio di onnipotenza, — precisa Clerici — per assicurare a se stessi, almeno nelle fantasie, una posizione vincente, per dire a se stessi: io piaccio».
In classifica, questa fantasia è seguita, per il 36% degli uomini, da quella di guardare due o più donne che fanno sesso fra loro. «Questo è invece un modo indiretto per esprimere il desiderio di far sesso con più persone». L'idea di partecipare ad un'orgia attrae invece il 28% degli uomini e solo il 12 % delle donne. Farsi filmare mentre si fa del sesso, lo vorrebbe il 17% degli uomini e il 15% delle donne. Fare sesso con un personaggio famoso è una fantasia presente nel 43% degli uomini e nel 25% delle donne. «La notorietà della "controparte" appaga evidentemente a sufficienza, poiché nella graduatoria di che cosa si farebbe con queste persone celebri, al primo posto c'è il sesso normale e solo al sesto il sadomasochismo e all'11˚ il sesso in pubblico» sottolinea Clerici.
Una buona parte degli intervistati cerca poi il piacere immaginando un oggetto: in particolare capi di abbigliamento intimo. Dalla ricerca emerge che l'8% degli uomini ma anche il 3% delle donne è attratta da forme di feticismo, diffuso maggiormente tra i giovani «ai quali l'esperienza difetta e viene compensata dall'aspettativa » aggiunge Clerici.
Dalla lettura dello studio inglese si esce con la convinzione che le aspettative riguardo al sesso siano in rialzo, ma è vero? «Siamo spinti a ricercare piaceri sempre maggiori e per soddisfare l'istinto di piacere la strada della sessualità è certamente la più conosciuta e frequentata, ma non è la sola. Pensiamo, per esempio, al cibo, classico sostituto del sesso, cui è facile accedere senza farsi fermare da troppi tabù».

Corriere della Sera 11.11.07
Oltre la realtà
Le fantasie sessuali servono a soddisfare bisogni che resterebbero inappagati nella realtà
di Gianna Schelotto

La psicoterapeuta All'interno di coppie felici può nascere il bisogno di piaceri sorprendenti
L'impossibile fa bene anche all'amore

C’è stato un tempo, nemmeno troppo remoto, nel quale la sessualità era carica di peccato, di vergogna e di censure. Ogni comportamento relativo al sesso era rigidamente codificato; di desiderio, di eccitazione e di piacere non era lecito nemmeno parlare e le cose dell'amore erano schedate sotto l'etichetta «si fa, ma non si dice».
In quel clima di intransigenza repressiva l'unico soccorso possibile sembrava la fantasia che poteva espandersi in forme svariate, libere e creative. Con l'immaginario erotico si riusciva a inventare qualsiasi cosa per permettere alla piena dei pensieri proibiti un più o meno soddisfacente scorrimento. Persino le tornite gambe di innocenti tavolini suggerivano a castigati lords, in epoca vittoriana, indebiti richiami alle forme del corpo femminile.
Di quelle assurde repressioni oggi fortunatamente non c'è più traccia. Il radicale cambiamento dei costumi, l'accesso facile a materiale pornografico, il nuovo mondo di virtualità erotiche sia lecite sia illecite sembra non lascino più spazio all'immaginazione. Tutto (o quasi) è ormai permesso, le cose proibite sono pochissime, eppure - la ricerca di Brett Kahr lo dimostra - le fantasie sessuali restano una potente funzione psichica tanto segreta quanto diffusa. Dunque, non era solo la repressione ad alimentarle.
La necessità di "inquadrare" i propri desideri sessuali in cornici sorprendenti può nascere da molte istanze. Si può fantasticare per migliorare la stima di sé o per superare timidezze e paure; si trasforma la realtà che sembra povera e incompleta mettendoci dentro immagini, personaggi, oggetti capaci di suscitare emozioni forti ed eccitanti. A volte, anche all'interno di rapporti felici c'è il bisogno di concedersi quel tipo di piacere che solo la fantasia può regalare.
La divagazione fantastica permette di esprimere liberamente gli aspetti più personali delle aspirazioni amorose, ma offre anche una possibilità di "controllo" sulla parte più oscura dei propri desideri. «Se sono io ad inventarli - questo potrebbe essere il pensiero di fondo - io saprò governarli e non ne sarò sopraffatto».
Le donne che immaginano di essere costrette al sesso da partners violenti, gli uomini che si abbandonano al sogno di essere dominati, superano i ruoli sociali e i modelli della quotidianità e liberano parti di sé che non riuscirebbero ad ammettere nemmeno con se stessi. Intrecciando il reale con l'irreale si costruisce una sorta di alimento erotico per la coppia all'interno della quale i fantasmi possono essere condivisi o nascosti, ma comunque utili per salvarsi dalla monotonia.
È vero che la fantasia sessuale è ripetitiva, ma la sua carica potente nasce proprio dal fatto che il desiderio fantasticato non è mai completamente soddisfatto dal piacere reale e questo permette ogni volta di immaginare che il prossimo rapporto sarà più appagante. Questa carica di ottimismo giova alla continuità della coppia sia che i due mondi fantastici si aprano rinforzandosi reciprocamente, sia che restino chiusi in sé lasciando passare solo l'intensità dell'eccitazione.
Nell'immaginario erotico ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è sembrano tutt'uno: vi confluiscono desideri di aggressività o di passività, di avventura o di totale affidamento all'altro. Forse per questo la fantasia è più frequentata che mai e sembra un accogliente rifugio in un mondo ansiogeno e conflittuale.

Corriere della Sera 11.11.07
Una ricerca italiana ha scoperto la funzione dei «neuroni specchio». E che la loro attività è alterata nelle persone che soffrono di autismo
Così impariamo a prevedere le mosse degli altri
di Cesare Peccarisi


Nei fuoriclasse del calcio, come Kaká , la capacità di creare «copie mentali» delle azioni che un avversario sta compiendo può essere più «allenata»

Come fanno Kaka e Ibrahimovic a capire in anticipo in che modo si muoveranno gli avversari, per poterli scartare o rubargli la palla prima che se ne rendano conto? La risposta è nella scoperta fatta dai ricercatori del Dipartimento di neuroscienze dell'Università di Parma, diretti da Giacomo Rizzolatti, con uno studio pubblicato sulla rivista Pnas. I due campioni "vedono" l'intera sequenza motoria degli avversari, già dai loro primissimi movimenti, grazie a catene di «neuroni specchio dedicati ad un'azione specifica», che si trovano nella corteccia parietale e premotoria del cervello.
«Le nostre azioni sono codificate da catene di neuroni, ognuna selettiva per un particolare atto motorio elementare — spiega Rizzolatti —. Nel compiere un'azione, scegliamo automaticamente una specifica catena di neuroni, che fanno sviluppare l'azione in maniera armonica, senza dover riorganizzare ogni volta quello schema motorio. Quando, invece, osserviamo un'azione, i neuroni specchio "dedicati" attivano una sequenza motoria virtuale, che ci permette di creare una rappresentazione mentale dell'intera azione, facendocene capire le finalità». Tutti usiamo questi neuroni: quando, ad esempio, incrociamo altre persone salendo sul metrò, nel cervello si attiva istantaneamente una copia dell'intero schema motorio dei loro movimenti e così evitiamo di scontrarci. I fuoriclasse utilizzano benissimo questi neuroni, forse perché campioni si nasce, ma un po' anche perché lo si diventa con l'allenamento, che rende più pronti a visualizzare mentalmente i movimenti. Ma c'è anche qualcuno che si trova in una situazione opposta. Oltre ad aver dimostrato la presenza di queste catene di neuroni dedicati nei soggetti con sviluppo normale, lo studio ha, infatti, dimostrato che sono malfunzionanti in chi soffre di autismo: i bambini autistici non riescono a correlarsi con gli altri perché non sanno organizzare mentalmente sequenza e finalità dei movimenti, né traggono giovamento dall'esperienza. Per scoprire tutto questo i ricercatori di Parma, con i colleghi del centro di Neuropsichiatria di Empoli, hanno valutato (registrando l'attività elettrica delle fibre nervose) il comportamento dei muscoli di apertura della bocca in 15 bambini (8 normali e 7 autistici) mentre osservavano uno sperimentatore che, inizialmente, prendeva del cibo e lo portava alla bocca, poi prendeva un pezzo di carta e lo metteva in un contenitore.
Nei bambini con sviluppo normale i muscoli della bocca si attivavano non appena lo sperimentatore muoveva il braccio verso il cibo: il sistema dei neuroni specchio dedicati permetteva a quei bambini di capire le intenzioni del ricercatore. E la catena non si attivava quando lo sperimentatore muoveva il braccio verso il pezzettino di carta. Niente di tutto questo accadeva, invece, nei bambini autistici, perché non sviluppavano alcuna copia motoria di ciò che osservavano.
In una seconda fase dello studio i bambini hanno eseguito da soli l'esperimento: anche in questo caso in quelli normali l'attivazione dei muscoli della bocca si verificava già quando stavano per afferrare il cibo, mentre negli autistici la pre-attivazione arrivava solo quando era ormai portato alla bocca.
«Anche gli autistici riescono a comprendere l'intenzione che sta dietro ad azioni semplici come queste; — dice Rizzolatti — la loro comprensione, però, non avviene su base "esperenziale", ma attraverso strategie di tipo cognitivo. Più precisamente: i bambini normali sviluppano un'organizzazione dell'azione motoria in catene neuronali, con cui comprendono, per esperienza, l'intenzione dell'azione osservata, che poi organizzano in maniera armonica. Nei soggetti autistici questa organizzazione non è armonica e impedisce di attivare catene di neuroni dedicati su cui basare una comprensione esperenziale delle azioni osservate. Ora, sarà possibile sviluppare nuovi interventi riabilitativi, per "risvegliare" i meccanismi motori che sembrano non funzionare in questi soggetti».

il manifesto 11.11.07
L'Onu accusa. L'Italia viola i diritti dei Rom
di Miloon Kothari, Jorge Bustamante, Gay McDougall, Doudou Diène (Alto Commissariato dell'Onu per i diritti umani)


Vogliamo richiamare l'attenzione del governo italiano sugli incidenti seguiti allo sfratto delle comunità Rom di Pisa e di Roma. Stando a informazioni in nostro possesso, le comunità Rom presenti in Italia subirebbero discriminazioni, violazioni del diritto a un alloggio adeguato e sarebbero soggette a sgomberi forzati.
Ci è stato reso noto, per esempio, che il 19 luglio 2007 la polizia italiana in cooperazione con quella rumena presente in loco, ha espulso circa 1.000 Rom con la forza da un campo sito in via dell'Imbarco, nel quartiere periferico della Magliana.
Ancora prima, nel luglio 2007, la polizia nazionale e municipale ha espulso con la forza circa 100 Rom rumeni da un campo sito in Bagno di Tivoli, nelle vicinanze di Roma. Durante entrambe le operazioni, beni personali e abitazioni sarebbero stati distrutti.
Il 25 giugno 2007, il sindaco di Roma Walter Veltroni si è recato in Romania in una visita ufficiale per discutere con i sindaci di Craiova, Calarasi e Turnu Severin, il primo ministro della Romania Calin Popescu Taricenau e il segretario del Partito socialdemocratico Mircea Geoana, la possibilità di predisporre un modello di sviluppo per ridurre il numero di immigrati a Roma e creare le condizioni favorevoli per il loro rimpatrio.
A seguito della visita di Veltroni, è stato firmato un accordo tra il governo italiano e la Romania, secondo cui le polizie dei due paesi avrebbero collaborato nello sgombero, l'identificazione e il rimpatrio dei Rom di origini rumene stabilitisi in campi nella città di Roma. Nonostante si parlasse di un piano per «rientri volontari», sono seguite dichiarazioni da cui è emersa la volontà di rimpatriare i Rom con la forza. (...)
Il vicepresidente della Commissione Europea, Franco Frattini, ha dichiarato recentemente che «non è vero che i cittadini europei non possono essere rimpatriati... Esiste una direttiva molto chiara, valida per tutti i cittadini dell'Unione europea che prevede espulsioni per tutti coloro che non possono provare di avere mezzi di sussistenza adeguati per vivere in maniera dignitosa». Sembra che questa dichiarazione venga usata da uomini politici in dichiarazioni pubbliche contro i Rom. In particolare, dal sindaco di Verona Flavio Tosi, condannato in passato a due mesi di reclusione per propaganda razzista ai danni dei Rom, che si è servito della dichiarazione sopra riportata per affermare che molti Rom rumeni che vivono in «campi nomadi» possono essere rimpatriati.
Nelle informazioni in nostro possesso, risulta anche che gli sgomberi avvenuti il mese scorso a Roma facciano parte di un disegno discriminatorio ai danni delle comunità Rom.
L'11 agosto del 2007 quattro bambini Rom rumeni, Lenuca, Danchiu, Dengi e Eva sono morti a Livorno in un incendio scoppiato per cause ancora ignote nella baracca dove vivevano temporaneamente con i propri genitori in seguito al loro sgombero forzato da Pisa nel maggio 2007. I genitori sono attualmente in carcere, accusati di abbandono di minori e di mancato esercizio della patria potestà. Senza trarre conclusioni dai fatti sopra menzionati, vorremmo richiamare l'attenzione del governo italiano sull'interpretazione delle norme contenute negli strumenti di diritto internazionale che il governo stesso ha ratificato. (...)
Ricordiamo che l'articolo 5 della Convenzione internazionale per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, impegna i paesi sottoscrittori a intraprendere la proibizione e l'eliminazione della discriminazione razziale in tutte le sue forme e di garantire l'uguaglianza davanti alla legge, senza distinzione di razza, colore, etnia e nazionalità. In particolare in materia di fruizione dei diritti civili, economici, sociali e culturali, anche per quanto riguarda il diritto alla casa. (...)
Nel 2005 il Comitato europeo per i diritti sociali ha colto l'Italia in violazione della Carta sociale europea, a causa del fallimento del governo nel promuovere l'accesso dei Rom ad alloggi di standard adeguato e nel rendere il prezzo delle abitazioni accessibile a quei Rom che non dispongono di risorse adeguate. Il Comitato ha riscontrato anche violazioni del divieto di discriminazione.
In conclusione, vorremmo richiamare l'attenzione verso gli obblighi stabiliti dalla Dichiarazione Onu dei Diritti per le minoranze linguistiche, nazionali, etniche e religiose. L'articolo 4 stabilisce che «gli stati dovranno prendere misure per assicurare che le persone facenti parte di minoranze possano godere pienamente ed effettivamente di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali senza discriminazione e in piena eguaglianza di fronte alla legge».

il manifesto 11.11.07
Con il mio voto c'è ancora la possibilità di cambiare
di Paolo Ferrero


Vorrei brevemente rispondere alle cose dette dal mio amico Gigi Sullo sul manifesto di giovedì scorso, anche perché quei quesiti e quelle domande hanno attraversato la discussione di tanti compagne e compagni negli ultimi giorni. E' infatti evidente che la scelta più normale per il sottoscritto sarebbe stata quella di non votare il decreto, ma non sempre la cosa più semplice è quella migliore.
Gigi dice che se avessi votato no, oggi, in un contesto di proteste di settori liberali, di ripresa della parola da parte del tessuto associazionistico sui territori, e di possibile modifica del decreto da parte della maggioranza, avrei potuto dire: «solo io avevo capito, ho tenuto fermo un principio e ho avuto ragione».
Secondo me Gigi non si rende conto che oggi si può modificare il decreto proprio perché ho votato sì e che se invece avessi votato no, le cose sarebbero diverse e assai peggiori. Un mio voto negativo avrebbe spalancato le porte a un accordo bipartisan che in nome dell'emergenza criminalità metteva insieme il Partito democratico e la destra. Di fronte a un mio voto contrario il Pd, la destra e mass media avrebbero detto che era necessaria un'intesa tra i poli «perché la sicurezza degli italiani non può mica essere messa in pericolo dalle idee balzane di un ministro comunista!».
Il decreto sarebbe stato modificato in peggio, sulla base delle proposte del Polo e quell'accordo avrebbe avuto una forza enorme non solo sul piano parlamentare e mediatico ma anche nel riscontro di massa, mettendoci in un angolo sul piano sociale. Fantapolitica? Chiunque abbia visto anche solo di sfuggita alcune delle trasmissioni televisive serali dei giorni scorsi ha potuto apprezzare di persona come non si trattasse di fantasie. Cosa meglio di una grande coalizione per far passare delle norme repressive in nome della sicurezza collettiva e dell'emergenza criminalità per poi magari arrivare in primavera a un bel referendum sulla legge elettorale che sulla base di un bel plebiscito popolare tolga di mezzo i rompipalle?
Ecco, credo che quel sì, travagliato e discutibile, in Consiglio dei ministri, abbia tenuto aperta la strada per ostacolare un tale progetto, lasciando alla sinistra lo spazio di manovra nel quale ci stiamo muovendo per modificare il decreto nella direzione indicata in questi giorni dai giuristi e da coloro che nelle associazioni come nelle parrocchie lavorano da sempre per l'inclusione dei migranti. La possibilità di modificare il decreto in Parlamento, in sintonia con la Costituzione, la direttiva europea e l'antirazzismo, è data proprio dal fatto che il Prc non si è messo fuori dalla partita da solo e che oggi esiste ancora l'Unione e il governo, altrimenti tutta la questione sarebbe stata giocata nel dialogo tra Pd e Fini.
Infine, tre punti, non certo secondari.
Il drammatico sgombero con le ruspe di alcuni insediamenti, specie nelle grandi città, è proprio del clima isterico in cui è nato il decreto. Esattamente come è avvenuta la mediatizzazione della paura per la tragedia che si era consumata a Tor di Quinto che Rossanda ha giustamente richiamato nel suo editoriale di giovedì scorso. Un voto contrario purtroppo non avrebbe impedito questo.
In secondo luogo gli emendamenti al decreto sono ora presentati da tutta la sinistra, e non solo dal Prc. Se la cosa si fosse chiusa la sera del 31 ottobre tra polemiche e divisioni questo sarebbe stato un po' più difficile.
Inoltre credo di poter dire che l'esito di un mio «no» sarebbe stato irreversibile, mentre il mio «sì» ha lasciato aperta ogni possibilità. E' infatti evidente che se non fossimo riusciti a tenere aperta la partita della modifica del decreto, Rifondazione avrebbe potuto sconfessare il mio voto favorevole, mentre un mio voto contrario e la dinamica bipartisan che ne sarebbe seguita avrebbe determinato da sola gli esiti - anche politici - della vicenda. Oggi decidiamo noi cosa fare, se avessi votato no avrebbero deciso solo altri e non sarebbero state buone decisioni, né per noi né per i rom. Questo richiama per me un punto essenziale nel fare politica. Ogni dirigente sa che ci sono passaggi in cui devi piantare la bandiera e dire no e ci sono passaggi in cui devi fare un passo indietro oggi - per evitare di essere spazzato via - e poter riprendere il cammino il giorno dopo. Lo sa la compagna o il compagno che opera in un comitato di base, lo deve sapere un ministro. In quella mezz'oretta in cui mercoledì sera ho dovuto decidere cosa fare, a questo ho pensato. Visto che il decreto lo cambiamo, credo di non aver pensato male.
* ministro della Solidarietà sociale

il manifesto 11.11.07
Come ti percepisco il giovane
di Alessandro Robecchi


Una malsana esposizione ai mass media dopo un recente caso di cronaca nera mi ha insegnato a capire i giovani. Ecco cosa devi fare per essere veramente un giovane: drogarti come una rockstar, andare in macchina a trecento all'ora di notte, possibilmente ubriaco. Bere come una spugna anche se sei a piedi, scopare come John Holmes non importa chi, o che cosa, a qualunque ora, farti dei filmini e metterli su youtube, andare al pub, fare un blog e nel tempo libero annoiarti mortalmente. Nei casi estremi, per combattere la noia puoi anche ammazzare qualcuno. Se queste deliziose attitudini fossero attribuite ai rom avremmo roghi e spedizioni punitive. Trattandosi dei giovani nostri, il pogrom si limita al preoccupato dibattito, alla mesta riflessione. Ed ecco il «giovane percepito»: le vecchiette cambiano marciapiede, i genitori si preoccupano, i Tg intervengono con le forze d'assalto. Allarme! Arriva il giovane percepito, in poche parole un cretino integrale pericoloso a sé e agli altri. Ovviamente il giovane percepito non esiste, nella vita reale, ma non importa, questa faccenda delle cose percepite funziona sempre, per la paura, per l'inflazione, per l'immigrato, per il rom, e anche per il giovane. Fateci caso: non è mai una percezione piacevole. Ogni volta che si parla di «percepito» anziché di «reale» aumentano in qualche modo paura e inquietudine. Vedere, studiare, conoscere, aprirà degli orizzonti, ma percepire mette solo fifa. Presto ci diranno (come hanno fatto con la sicurezza) che non importa se è reale, che quello che conta è la percezione, insomma, se in tanti pensano che i giovani siano fancazzisti ubriachi potenziali serial killer drogati e maniaci sessuali, bene, buona la prima, ecco fatto. Qualcun altro (specie a sinistra) percepisce invece un giovane più soft, che è soltanto un mezzo scemo rincretinito (non come quando eravamo giovani noi!). Risultato: ecco un'altra componente della società che diventa minaccia percepita. Quanti anni hai? Venti? Ti prego, non sgozzarmi! Paura, eh?

il manifesto 11.11.07
Giuliani e Obama, chi è più bigotto?
Repubblicani e democratici giocano con passione la carta dei valori religiosi. Ma Hillary Clinton può invocare dio ogni due per tre, ma nessun evangelico si fiderà mai della «moglie di quel puttaniere»
di Marco d'Eramo


«Facciamo a chi è più bigotto» è il gioco politico dell'anno qui negli Stati uniti. E lo giocano con sfrenata passione tutti i candidati alle primarie per le presidenziali del 2008, sia i repubblicani, sia i democratici. È uno spettacolo persino esilarante, farcito di gaffes, passi falsi, affermazioni ridicole, tanto più che - come quasi sempre avviene - i politici sono in ritardo di un treno (qui di una messa) sul clima predominante nel paese. Come la pubblicità «più moderna» offre sempre una visione anacronistica e desueta della vita familiare e dei ruoli domestici, così la politica ha ormai sostituito la filosofia nel ruolo di «civetta di Minerva» (che «inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo», secondo Hegel).
Per esempio, nel week-end del 20 ottobre era in cartellone a Washington un'incredibile sceneggiata, al Values Voter Summit, dove si riunivano 2.500 pastori e attivisti conservatori cristiani per decidere quale tra i vari candidati alla nomination avrebbero appoggiato. In passerella è stato tutto un «ho incontrato dio», un «mi sento 'rinato'» (usare l'espressione born again è un segnale semantico che ti arruola tra gli evangelici). Il senatore dell'Arizona John McCain ha rivelato che durante la sua prigionia in Vietnam un soldato viet gli ha passato di nascosto una croce. Mitt Romney, che deve superare l'handicap di essere mormone e perciò considerato infedele dagli evangelici, ha insistito sui 38 anni del suo matrimonio, i 5 figli e i 10 nipoti. Quand'era governatore di uno stato liberal come il Massachusetts, Romney era pro-aborto e pro-matrimonio dei gay: ora dice che si è sempre opposto fieramente sia all'aborto sia ai matrimoni gay. L'ex attore ed ex senatore, Fred Thompson, ha spiegato nei dettagli di essere stato per tutta la vita fermamente contrario all'aborto, dimenticando che nel 1994, quando era candidato in Tennessee, aveva detto che l'aborto dovrebbe essere sempre legale nel primo trimestre di gravidanza.
Rudy Giuliani ha parlato di «valori familiari», ha detto che «ostacolerà l'aborto in ogni modo» e favorirà le adozioni. Parole non credibili da parte di un uomo che si è sempre detto favorevole all'aborto, che ha vissuto in casa con una coppia di gay mentre si separava, che ha avuto una relazione pubblica mentre non era ancora divorziato, che si è fatto fotografare a una festa in maschera in abito da donna. Cosa non fa un ex sindaco di New York pur di diventare il «sindaco d'America»!
D'altronde i repubblicani hanno una lunga tradizione di corteggiamento dei valori cristiani, dalla Moral Majority di Jerry Falwell che fu una delle tre componenti del «blocco storico reaganiano»: a) gli evangelici conservatori appunto, b) la classe salariata che si sentiva tradita nei valori dai liberal riccastri e che fino ad allora aveva sempre votato democratico (i cosiddetti Reagan democrats), e c) la maggioranza del gran capitale. Nel 1992 un repubblicano laico e spregiudicato (da ex direttore della Cia qual era) come George Bush senior, fece di tutto perché il fondamentalista Pat Buchanan lo appoggiasse, e nella convention di quell'anno Buchanan tuonò slogan che i repubblicani vorrebbero ripetuti anche oggi: «Nel nostro paese è in corso una guerra di religione per conquistare l'anima dell'America», in cui attaccò a fondo i Clinton su diritti dei gay, aborto, discriminazione contro le scuole religiose e donne combattenti. Allora l'appoggio di Buchanan non evitò a Bush sr. la sconfitta contro Bill Clinton, ma l'idea della «guerra di religione«, si fece strada.
Però mai i conservatori cristiani hanno avuto un peso tanto forte sulla Casa bianca come sotto il giovane Bush, grazie anche alla strategia elettorale del suo principale consigliere politico, Karl Rove (oggi dimessosi dallo staff della presidenza). Nel 2000 Bush aveva perso il voto popolare contro Al Gore e dovette la presidenza a un colpo di mano della Corte Suprema. Nell'analizzare quella sconfitta/vittoria, Rove giunse alla conclusione che Bush era andato in minoranza perché aveva cercato di conquistare i moderati con il «conservatorismo compassionevole», ma così facendo aveva scoraggiato i conservatori cristiani dal recarsi alle urne: quel che aveva guadagnato al centro, lo aveva più che perso in astensione. Si tenga conto che l'espressione «conservatori cristiani» nasconde in realtà una base elettorale esclusivamente bianca, spesso derivante da organizzazioni apertamente razziste. Nel 2004 Rove decise quindi di spostare a destra la campagna, di fregarsene del voto moderato, andò contro tutti i luoghi comuni dei sistemi bipolari, secondo cui tutti e due i poli competono inevitabilmente per la «conquista del centro». Così facendo ottenne che 4 milioni di evangelici, che nel 2000 si erano astenuti, andassero a votare quattro anni dopo quando Bush, a differenza della tornata precedente, stravinse il voto popolare contro John Kerry.
Quel novembre 2004 costituì l'apice del potere per i conservatori cristiani, soprattutto quando i sondaggi dissero che per una fetta consistente di americani i «valori» erano stati il fattore decisivo nel determinare il loro voto e che i democratici erano in forte svantaggio sul terreno «morale». Quel sondaggio mandò in tilt i democratici, che non tennero conto di successivi sondaggi che ridimensionarono il primo (ricordiamo che l'Istituto Gallup è in mano ai fondamentalisti).
Un membro della «Famiglia»
Fatto sta che da allora, come Fausto Bertinotti che va a Monte Athos e Piero Fassino che rivela di essere stato credente fin da piccolo, così tutti i democratici si sono messi a giocare anche loro a chi è più bigotto. Come ha scritto l'Economist, «Hillary Clinton cita dio più spesso del normale vescovo europeo». La cosa può non stupire da parte di una politica che da ragazza aveva fatto l'attivista per Barry Goldwater (estrema destra pre-reaganiana), che da 15 anni fa parte della Fellowship Foundation (la «Family», come viene chiamata), un'associazione assai riservata, alle soglie della segretezza, che riunisce politici di tutte le tendenze, finanzieri, industriali, diplomatici, ufficiali superiori, in cellule separate sessualmente, e il cui unico evento pubblico è il National Prayer Breakfast che dal 1953 si tiene ogni anno il primo giovedì di febbraio a Washington e a cui quest'anno hanno partecipato, a 500 dollari a testa, 3.400 commensali-preganti. La «Famiglia» ha una lunga storia di rapporti con dittatori come l'indonesiano Suharto, il generale brasiliano Costa e Silva, il generale salvadoregno Carlos Eugenio Vides Casanova (condannato per migliaia di torture in Florida), il generale honduregno Alvarez Martinez (lui stesso pastore evangelico). Negli ultimi anni, oratori del Prayer sono stati il re di Giordania, Abdullah II, il cantante Bono, il presidente George W. Bush.
Anche Barak Obama si è infognato in questa corsa all'acquasantiera, anche perché negli Stati del sud le chiese battiste nere sono potentissime e controllano decisivi pacchetti di voti neri. Una delle prime primarie si terrà proprio in uno di questi stati, la Carolina del sud in cui Obama si gioca una buona parte del proprio futuro politico. Così per assicurarsi l'appoggio religioso, in un comizio in South Carolina ha invitato a esibirsi il cantante nero di gospel (genere musicale di canti religiosi, letteralmente gospel vuol dire «vangelo») Donnie McClurkin, famoso anche perché nel 1992 aveva cantato alla Convention democratica di Bill Clinton e nel 2004 a quella repubblicana di Bush. Il problema è che McClurkin è impegnato in una crociata anti-gay e dice che l'omosessualità può essere curata dalla fede. Da qui la rivolta dei blog gay in tutto il paese. Obama faticherà parecchio a riprendersi da questa gaffe.
Il problema con tutte queste avances, tutti questi piedini ai veri credenti è duplice, e non mi riferisco al piedino che il senatore repubblicano dell'Idaho, Larry Craig (virulento conservatore cristiano), ha fatto in agosto nel cesso dell'aeroporto di Minneapolis a un uomo seduto nel cesso accanto e che è poi risultato essere un agente sotto copertura per indagare su crimini sessuali (quel cesso è da allora affollata meta turistica). Il primo è che queste accorate dichiarazioni di fede sono inefficaci. Giuliani può raccontare quel che gli pare, ma per gli evangelici resta sempre «una mezza checca newyorkese», come dicono nei loro talk show radiofonici: per gli integralisti cristiani Usa, geograficamente New York è situata a metà strada tra Gomorra e Sodoma. Il televangelista Pat Robertson, può anche dare il proprio sostegno a Giuliani, ma ciò non toglie che al Values Voter Summit Giuliani abbia ottenuto appena il 2% dei 5.600 voti depositati o mandati per e-amail. L'enfant chéri degli evangelici, il senatore Sam Brownback, si è pronunciato per McCain che però tra i Values Voters ha ottenuto ancora meno. Quanto ai democratici, per loro la religione è come in Italia i negozianti per la sinistra: la sinistra può fare tutte le aperture che vuole, ma per fare una politica di destra è meglio la destra. Così Hillary Clinton può invocare dio ogni due per tre, ma nessun evangelico si fiderà mai della «moglie di quel puttaniere» (talk show radiofonico).
Il secondo problema è che questa volta il voto dei conservatori cristiani non è più decisivo. Un po' perché anche tra i fondamentalisti, sta prendendo peso una componente di sinistra. Tra i puritani c'è sempre stata un'ala sociale, in un certo senso progressista (un po' come i nostri cattolici di sinistra): per esempio il proibizionismo degli anni '20 fu dovuto in gran parte ai puritani che volevano liberare le classi disagiate dalla piaga dell'alcolismo.
Fondamentalisti verdi
Temi come la sanità pubblica, la crescita delle disuguaglianze, perfino l'inquinamento compaiono sempre più spesso nei sermoni dei pastori evangelici. L'ultima copertina del New York Times Magazine riguardava proprio questo fenomeno. D'altronde, se ci sono verdi fondamentalisti, potranno pur esserci fondamentalisti verdi.
In secondo luogo gli evangelici si sentono scottati dalla carta bianca che hanno firmato al partito repubblicano. Votando Bush non volevano impelagarsi nel ginepraio iracheno, né prevedevano tutti gli scandali che avrebbero gettato una luce assai dubbia sui valori dei difensori dei valori, a partire da Mark Foley e Ted Haggard. Il deputato repubblicano della Florida Mark Foley, 53 anni, crociato contro gli abusi sui bambini, si è dimesso il 29 settembre del 2006 per lo scandalo dei «paggi», cioè degli adolescenti borsisti in parlamento, cui lui mandava e-mail molto osées. Ted Haggard invece, 50 anni, sposato con 5 figli, presidente della National Association of Evangelicals (30 milioni di aderenti), crociato contro i gay, ha dovuto dimettersi nel novembre 2006 perché un prostituto aveva rivelato i suoi rapporti con il pastore.
Più in profondità però la disaffezione verso i repubblicani è dovuta al fatto che questo partito non è mai, come si dice qui, «passato alla consegna», non ha mai messo in atto le sue promesse elettorali: in fondo per 6 anni i repubblicani hanno avuto il controllo totale del paese: maggioranza forte alla Camera, al Senato, alla Corte suprema, e possesso della Casa bianca. Eppure non sono mai riusciti limitare seriamente l'aborto né a far dichiarare incostituzionali i matrimoni gay, né a emanare leggi sulla «difesa della vita». Storicamente i conservatori cristiani erano stati per molti decenni dei «naderiani di destra»: per loro cioè repubblicani e democratici erano tutti uguali, tutti servi di mammona, e tutti i gatti di notte sono neri. L'impegno totale a favore dei repubblicani riguarda solo l'ultimo trentennio. Quest'identificazione assoluta oggi è venuta meno e si tornerà alla configurazione precedente dei conservatori cristiani, con forte astensione e il resto in tasca ai repubblicani. Ecco perché è inutile, oltre che ridicola tutta questa frenesia, questo stracciarsi le vesti.
Ma i politici continuano a far rotta verso Gerusalemme e la terra promessa, quando invece il vento della società americana ha preso a spirare in un'altra direzione. Anche se la risposta non soffia ancora come nella celebre canzone di Bob Dylan.

Il Sole-24 Ore Domenica 11.11.07
La malattia dell'anima
La giusta distanza di Mazzacurati racconta la vita di Concadalbero, un villaggio veneto.
Una quiete apparente che si spezza tra storie d'amore, d'immigrazione e di sangue

di Roberto Escobar


Ampio e quieto come il fiume che l'attraversa: così sembra Concadalbero, adagiato nella pianura veneta. Non ci sono vette e non ci sono abissi, nei suoi giorni uguali. Lontana, la Storia divora il tempo e le coscienze. Ma qui, nella dolcezza di questo "luogo comune", non c'è che lo scorrere innocente delle stagioni, e delle vite. Di che cosa poi si nutra quest'innocenza, è il senso amaro di La giusta distanza (Italia, 2007, 93')·
Noi, i buoni: questo dicono, in silenzio, i volti degli uomini e delle donne nel piccolo paese. Eppure qualcosa turba l'idillio, qualcosa che sta sui margini, familiare e strano. Allusiva, presto lo annuncia la sceneggiatura. Un mostro nascosto sventra i cani, lasciandoli a macchiare di rosso i cigli dei canali. Ma non c'è chi se ne preoccupi davvero, in paese. E da quest'indifferenza nasce un sospetto. Chissà, forse il luogo comune è meno dolce di quanto s'immagini.
Una malattia ignota insidia dunque gli uomini e le donne di Concadalbero. Sembra difficile sapere da dove venga. Certo, se ne potrebbero cogliere i sintomi, se solo si volessero vedere altri fatti, meno apertamente sanguinosi ma non meno inquietanti. E proprio attorno a questi fatti è costruita la storia raccontata da Carlo Mazzacurati e dai suoi cosceneggiatori Doriana Leondeff, Marco Pettenello e Claudio Piersanti.
È di Giovanni (Giovanni Capovilla) lo sguardo che a poco a poco li illumina, quei fatti. A lui, aspirante giornalista, un vecchio cronista (Fabrizio Bentivoglio) insegna il mestiere. Non ci si deve lasciar coinvolge gli spiega. Occorre invece stare lontani da quello che si racconta ai lettori se si vuole che appunto ci leggano. Sembrerebbe una lezione di giornalismo, questa della giusta distanza. Ma forse è soprattutto una considerazione amara sull'indifferenza degli uomini e delle donne, che vivano a Concadalbero o altrove.
Che cosa chiede il vecchio cronista a Giovanni? Certo non che racconti come decine di poveri esseri umani siano tenuti prigionieri dentro un tetro edificio semiabbandonato, e l'obbligo di lavorare e produrre. Non sono di Concadalbero. E non sono nemmeno italiani. Perciò, semplicemente non sono. Rispetto a loro, la stanza giusta è quella del silenzio. Non conta che il ragazzo sia stato svelto, e che sia arrivato a vedere quel che nessun altro ha visto. Conta che un suo articolo su quegli schiavi e su quelle schiave non avrebbe lettori. Non li avrebbe, perché a loro in paese ci si interessa ancor meno dei cani straziati. D'altra parte, quei poveretti vengono da lontano e da fuori, da tanto lontano e da tanto fuori essere intrisi di Storia, del tutto estranei alla sicura, dolce pianura dell'anima del luogo comune, comunque si chiami e dovunque si trovi il piccolo paese raccontato da Mazzacurati
Da lontano e da fuori viene anche Hassan (Ahmed Hefiane). Lavorando nella sua autofficina, sembra riuscito a far dimenticare questa anomalia. Ma basta che abbandoni la prudenza, e che si innamori di Mara (Valentina Lodovini), perché 1'anomalia torni a farsi evidente. Quello che è permesso a un tabaccaio chiassoso o a un galante conducente d'autobus, non è permesso a un tunisino. A Concadalbero nessuno lo confesserebbe, certo, e forse neppure lo penserebbe. A meno che non fosse proprie il tunisino a farglielo pensare. Ossia a meno che il tunisino superasse ii confine invisibile che gli è imposte dentro il luogo comune, e pretendesse di fare, anche lui, quello che fa ur tabaccaio' o un conducente d'autobus. Ma allora la colpa sarebbe del tutto sua, non di «noi, i buoni».
Racconta dunque una storie d'amore, la prima parte di La giusta distanza. E la racconta quasi con i toni di una commedia di costume, scoprendo il piccolo mondo del paese, la sua quotidiana bonarietà, e persino la sua tolleranza. E però, allo stessc modo dei cani sventrati, qualcose "eccede" la dolcezza di superficie, E la confuta. Ora si tratta di uno sguardo di desiderio inconfessato nei confronti di Mara (anche lei, cittadina e intellettuale, viene da fuori e da lontano, del resto). Ora invece si tratta di una vecchia donna folle, che attraversa la notte su un battello alla deriva. Ora infine si tratta di un omicidio e di un colpevole annunciato.
Qual è la giusta distanza, rispetto alla malattia dell'anima che sempre più si manifesta a Concadalbero? Questa è la domanda che finisce per porsi Giovanni. La sua risposta è che nessuna distanza è giusta, di fronte all'orrore morale. È giusto invece prender posizione, anche se questo significa fare i conti con la Storia, non più protetti dalla dolcezza quieta del piccolo paese, né dalla crudele innocenza del luogo comune.