martedì 13 novembre 2007

l’Unità 13.11.07
Il palazzo del Congresso Usa fu costruito dagli schiavi
Regolarmente pagati 60 dollari l’anno. Ai loro padroni bianchi.
di Roberto Rezzo


Gli storici non hanno ancora stabilito con certezza se a costruire le piramidi d’Egitto furono operai specializzati strapagati dal faraone o schiavi stremati a colpi di frusta.
A una commissione parlamentare americana sono bastati due anni di lavoro per accertare che il palazzo del Congresso, modestamente chiamato il Tempio della Libertà, l’hanno costruito proprio gli schiavi.

EMANCIPATION HALL «I compiti includono trasportare pietre, disporre mattoni e segare travi - risulta dalla contabilità dell’epoca tuttora ben conservata negli archivi- L’opera si presta sotto il sole, la neve, il vento o la pioggia». Gli studiosi si son trovati davanti
un reperto originale del XIX secolo su flessibilità e lavoro interinale nel Nuovo continente. «Oggi guardiamo al passato non per riaprire ferite ma perché sia detta tutta la verità e il prezzo pagato da quegli schiavi afro americani non sia dimenticato - spiega John Lewis, il deputato democratico della Georgia che ha presieduto la commissione - La schiavitù è una parte della storia della nostra nazione di cui non siamo fieri. Questo non vuol dire che possiamo chiudere gli occhi e far finta di niente». A Capitol Hill ora vogliono allestire una mostra e il reverendo Jesse Jackson ha proposto di chiamare la sala d’ingresso per i visitatori Emancipation Hall.
La storia della schiavitù negli Stati Uniti inizia nel 1619 con i primi coloni inglesi che si stabiliscono in Virginia e finisce nel 1865 con l’approvazione del 13mo emendamento della Costituzione. Circa dodici milioni di africani vengono trascinati prigionieri nelle Americhe tra il XVII e il XIX secolo. Di questi poco più di mezzo milione negli Stati Uniti. Le schiave erano regolarmente messe incinte dai padroni e i figli ereditavano dalla madre lo status di schiavi. I dati del Census contano nel 1860 una popolazione di quattro milioni di schiavi.
Benjamin Franklin, uno dei padri della patria, quello che sorride sui biglietti da cento dollari, aveva due schiavi come servitori personali: George e King. Il suo giornale, la Pennsylvania Gazette, negli annunci economici aveva un’intera sezione dedicata al commercio di schiavi. Franklin ha più volte occasione di affermare e scrivere che i neri sono una razza inferiore e non possono essere educati. Il colpo di fulmine nel 1763 quando visita una scuola e scopre che basta farli seguire da una maestra e i bambini neri imparano subito a leggere e a scrivere.
Nel 1785, appena tornato dalla Francia, si aggrega a un movimento abolizionista fondato dai quaccheri. E in breve diventa presidente della Società per la promozione dell’abolizione della schiavitù e il sollievo dei negri illegalmente tenuti in catene. Proclama George e King uomini liberi e loro per gratitudine restano al suo servizio.
Poche settimane dopo gli attacchi dell’11 settembre l’ex presidente Bill Clinton dichiarava: «Gli Stati Uniti sono nati come una nazione che praticava la schiavitù. E gli schiavi molto spesso erano ammazzati anche quando erano innocenti. Tanti in questo Paese hanno guardato dall’altra parte quando un gran numero di nativi è stato privato delle sue terre, delle sue ricchezze e ucciso. Forse perché pensavano che valessero meno degli altri esseri umani. È un prezzo che stiamo pagando ancora oggi»
Cicatrici mai sanate, pregiudizi inconfessabili che ancora fanno parte della moderna società americana nonostante un nero per la prima volta stia conducendo una campagna elettorale per la Casa Bianca che non è un mero atto di testimonianza.

Repubblica 13.11.07
La nuova paura dell’Occidente. Lo straniero che bussa alle porte dell’Occidente
Le società contemporanee e l’enigma dell’altro
di Gustavo Zagrebelsky


La recente vicenda dei rumeni in Italia riapre antiche ossessioni
Cos´è che spinge un individuo o un gruppo sociale a crearsi un nemico virtuale

Quelli che, come me che scrivo e voi che leggete, stanno dalla parte di gran lunga privilegiata del mondo hanno forse perso il significato drammatico della parola straniero. Se i rapporti sociali fossero perfettamente equilibrati, la parola straniero, con i suoi quasi sinonimi odierni (migrante, immigrato, extra-comunitario) e le loro declinazioni nazionali (magrebino, islamico, senegalese, rom, cinese, cingalese, eccetera), sarebbe oggi una parola neutrale, priva di significato discriminatorio. Non sarebbe più una parola della politica conflittuale. E invece lo è, e in misura eminente.
Se consultiamo costituzioni e convenzioni internazionali, traiamo l´idea che esiste ormai un ordinamento sopranazionale, che aspira a diventare cosmopolita, dove almeno un nucleo di diritti e doveri fondamentali è riconosciuto a ogni essere umano, per il fatto solo di essere tale, indipendentemente dalla terra e dalla società in cui vive.
Questo è un progresso della civiltà. Nelle società antiche, lo straniero era il nemico per definizione (hospes-hostis), poteva essere depredato e privato della vita. Il presupposto era l´idea dell´umanità divisa in comunità separate, naturalmente ostili l´una verso l´altra. Lo straniero, in quanto longa manus di potenze nemiche, era da trattare come nemico. Da allora, molto è cambiato, innanzitutto per le esigenze dei traffici commerciali. Il nómos panellenico e lo jus gentium, lontanissimi progenitori del diritto internazionale, nascono da queste esigenze. L´universalismo cristiano, in seguito, ha dato il suo contributo. Nella medievale res publica christiana e nello jus commune l´idea di straniero perde di nettezza, sostituita se mai, nella sua funzione discriminatoria, da quella di infedele o di eretico. E l´universalismo umanistico e razionalistico ha dato l´ultima spinta.
Il concetto di straniero, nella sua portata discriminatoria, non è però mai morto, anzi ha sempre covato sotto la cenere, a portata di mano per affermare "legalmente" l´esistenza di una nostra casa, di un nostro éthnos, di un nostro ordine, di un nostro benessere. I regimi totalitari del secolo passato vi hanno fatto brutale ricorso. Ad esempio, per restare da noi, la "Carta di Verona", manifesto del fascismo di Salò, all´art.7 dichiarava laconicamente: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri», come prodromo della confisca dei beni e dello sterminio delle vite. Una sola parola, terribili conseguenze.
Si può ben dire che, dopo quelle tragedie xenofobe, la "Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo" del 1948 rappresenti, nell´essenziale, la condanna di quel modo di concepire l´umanità per comparti sociali e territoriali, ostili tra loro. «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti»: l´appartenenza a uno Stato o a una società, piuttosto che a un´altra, passa in secondo piano e non può più essere motivo di discriminazione. Ciò che conta è l´uguale appartenenza al genere umano e la fratellanza in diritti e dignità non conosce confini geografici, etnici e politici.
Da allora, l´idea di una comunità mondiale dei diritti ha fatto strada. Le convenzioni e le dichiarazioni internazionali si sono moltiplicate e hanno riguardato ogni genere di diritti. Se si tratta di essenziali diritti umani, la protezione non dipenderà dalla nazionalità, riguardando tutte le persone che, per qualsiasi ragione, si trovano a essere o transitare sul territorio di un Paese che aderisce a questa concezione dei diritti umani e non è condizionata dalla reciprocità.
Tutto bene, dunque? La parola straniero non contiene oggi alcun significato discriminatorio o, almeno, è destinata a non averne più. Possiamo stare tranquilli?
Proviamo a guardare la questione dal punto di vista degli stranieri che stanno dalla parte debole e oggi si riversano nei nostri paesi. Essi sono alla ricerca di quelle condizioni di vita che, nei loro, sono diventate impossibili, spesso a causa delle politiche militari, economiche, energetiche e ambientali dei paesi più forti. Si riconoscerebbero costoro in quella "famiglia umana" di cui parlano le convenzioni internazionali sui diritti umani? Concorderebbero nel giudizio che la parola straniero non comporta discriminazione?
La trappola sta nella distinzione tra straniero "regolare" e "irregolare". Ciò che è irregolare, per definizione, dovrebbe trovare nella regola giuridica il suo antidoto: quando è possibile, per impedire; quando è impossibile, per regolarizzare. Invece, nel caso degli stranieri migranti, la legge promuove, anzi amplifica l´irregolarità, invece di tentare di ricondurla nella regola. Così facendo, è legge criminogena.
Fissiamo innanzitutto un punto: il flusso migratorio non si arresterà con misure come quote annue d´ingresso, permessi e carte di soggiorno, espulsione degli irregolari. Questi sono strumenti spuntati, che corrispondono all´illusione che lo Stato sia in grado di fronteggiare un fenomeno di massa con misure amministrative e di polizia. Esse potevano valere in altri tempi, quando la presenza di stranieri sul territorio nazionale era un fenomeno di élite. Oggi è un fatto collettivo che fa epoca, mosso dalla disperazione di milioni di persone che vengono nelle nostre terre, tagliando i ponti con la loro perché non avrebbero dove ritornare. Li chiamiamo stranieri "irregolari", ma sono la regola.
Siamo in presenza di una grande ipocrisia, che si alimenta della massa degli irregolari, un´ipocrisia che va incontro a radicati interessi criminali. Non ci sarebbe il racket sulla vita di tante persone che muoiono nei cassoni di autotreni, nelle stive di navi, sui gommoni alla deriva e in fondo al mare; non ci sarebbe un mercato nero del lavoro né lo sfruttamento, talora al limite della schiavitù, di lavoratori irregolari, che non possono far valere i loro diritti; non ci sarebbe la facile possibilità di costringere persone, venute da noi con la prospettiva di una vita onesta, a trasformarsi in criminali, prostituti e prostitute, né di sfruttare i minori, per attività lecite e illecite; non ci sarebbe tutto questo, o tutto questo sarebbe meno facile, se non esistesse la figura dello straniero irregolare, inerme esposto alla minaccia, e quindi al ricatto, di un "rimpatrio" coatto, in una patria che non ha più.
La prepotenza dei privati si accompagna per lui all´assenza dello Stato. Per la stessa ragione, per non essere "scoperto" nella sua posizione, l´irregolare che subisce minacce, violenze, taglieggiamenti non si rivolgerà al giudice; se vittima di un incidente cercherà di dileguarsi, piuttosto che essere accompagnato in ospedale; se ammalato, preferirà i rischi della malattia al ricovero, nel timore di una segnalazione all´Autorità; se ha figli, preferirà nasconderne l´esistenza e non inviarli a scuola; se resta incinta, preferirà abortire (presumibilmente in modo clandestino).
In breve, lo straniero irregolare dei nostri giorni soggiace totalmente al potere di chi è più forte di lui. I diritti valgono a difendere dalle prepotenze dei più forti, ma non ha la possibilità di farli valere: il diritto alla vita, alla sicurezza, alla salute, all´integrazione sociale, al lavoro, all´istruzione, alla maternità…
Davvero, allora, la parola straniero, nel mondo di oggi, è priva di significato discriminatorio?
Possiamo da qui tentare una sintetica conclusione, molto parziale, sul tema della sicurezza e della legalità, oggi così acutamente avvertito. Quella sacca di violenza che è il mondo degli irregolari è una minaccia non solo per loro, ma per tutta la società. La condizione dello straniero irregolare, su cui incombe la spada di Damocle dell´espulsione, sembra essere studiata apposta per generare insicurezza, violenza e criminalità che contagiano tutta la società. Quando si metterà mano alla legge n. 189 del 2002 (la cosiddetta Bossi-Fini) sarà utile rammentarsi di queste connessioni.

Repubblica 13.11.07
Il nemico. Più cresce l’insicurezza e più si alimenta il sospetto verso l’altro
Noi, ospiti di un’Europa che ci vede con sospetto
di Tahar Ben Jelloun


La paura, la vecchia paura dei tempi della guerra del fuoco, è ancora qui ad accompagnarci. Potrebbe sparire se considerassimo che non esiste uno straniero assoluto, perché siamo sempre stranieri rispetto agli altri

Viviamo in un´epoca in cui lo straniero è diventato un´ossessione: «Abbiate timore di lasciar morire lo straniero in povertà: lo straniero che supplica è inviato dagli dei» ci avverte il poeta André Chénier vissuto all´epoca della rivoluzione francese (1762-1794). Un po´ più di un secolo dopo, l´uomo politico Maurice Barrès (1861-1923) dichiara che «lo straniero, come un parassita, ci avvelena». Percepito come un pericolo per la coesione della comunità che lo accoglie, lo straniero è sempre stato sospettato di portare con sé gli ingredienti per far saltare in aria l´identità del paese in cui sbarca. Sarà sempre malvisto e mal considerato in ogni epoca e paese.
Scrive Primo Levi in Se questo è un uomo che la convinzione che lo straniero è nemico «giace in fondo agli animi come un´infezione latente».
Siamo prevenuti. Lo straniero è una figura che preoccupa, più che rassicurare. E questo da sempre. Verrebbe da pensare che con l´evoluzione delle società, con il progresso della comunicazione, lo straniero debba essere accettato più facilmente. Macché. La paura, la vecchia paura dei tempi della guerra del fuoco è ancora qui, ad accompagnarci e a osservarci.
Potrebbe sparire se considerassimo che non esiste uno straniero assoluto, poiché siamo sempre stranieri rispetto agli altri come loro sono stranieri rispetto a noi. Non esiste una terra in cui nascano soltanto stranieri. È impossibile. Lo straniero è un cittadino che si muove. Tutto dipende dalle motivazioni. Potrebbe venire da me per prendere la mia casa come potrebbe intervenire per salvarmi se vengo attaccato o c´è un incendio. Ma l´idea più diffusa è quella dell´invasore, quello che vorrebbe approfittare dei miei beni o magari anche portarmeli via.
Come direbbe l´umorista francese Coluche, oggi «ce n´è che sono più stranieri di altri». Pare infatti che ci siano vari gradi nella scala della "stranierità", una tavolozza di colori. Più lo straniero mi somiglia, meno è sospetto. Prova ne sia che per molti decenni italiani, spagnoli e portoghesi sono emigrati in Francia. Appartenere alla stessa sfera della civiltà giudaico-cristiana li ha aiutati a integrarsi e a passare quasi inosservati. Con gli Africani e gli Arabi è un´altra faccenda. Con i musulmani, un´altra storia. L´integrazione non funziona più. Il razzismo è quasi istituzionale. L´immigrato è improvvisamente malvisto. Non si cercherà di far valere le sue qualità, i suoi contributi, il suo lato positivo: si vedrà soltanto quello che disturba, quello che dà fastidio e che allontana gli uni dagli altri. La sua religione è stigmatizzata. Le sue tradizioni sono presentate come strane e barbare. Si fanno pochi sforzi per eliminare le distanze, le riserve e il sospetto. Si troverà sempre un individuo – venuto da fuori – per commettere un crimine spaventoso, un atto brutale che susciterà una generalizzazione; si passerà da un atto isolato a un´azione collettiva e si dirà «i gitani sono tutti ladri e assassini»!
Proprio come, dopo la Seconda Guerra mondiale, dopo quanto era accaduto a Montecassino, è stato detto che i Marocchini sono stupratori di donne. La gente si costruisce, per rassicurarsi, immagini che mettono gli "altri" in categorie caricaturali. È quello che sta succedendo adesso in Europa. Uno squilibrato musulmano fanatico ha assassinato un cineasta olandese ad Amsterdam e il ministro dell´interno dei Paesi Bassi ha cambiato la politica dell´immigrazione mettendo in atto una serie di dure restrizioni. Il male è stato fatto e tutta la Comunità immigrata deve pagare. Un proverbio arabo dice «un solo pesce guasto fa marcire tutta la cassa».
Il concetto di ospitalità è cambiato. La parola greca xenos rimanda a un patto preliminare, la xenia, che impegnava la città nei confronti degli stranieri. L´Europa non rifiuta questo patto ma vi aggiunge condizioni. Così la nuova politica di Nicolas Sarkozy in materia d´immigrazione si è indurita: per immigrare in Francia bisogna conoscere la lingua francese; per riunire la propria famigli, occorre dimostrare con prove del Dna che i bambini sono effettivamente figli propri, eccetera.
L´ospitalità ha le sue leggi e lo straniero che viene accolto ha dei doveri. Va da sé. Ma che fare quando lo straniero non è più una persona venuta da fuori ma chi è nato e vive in Europa?
Chiedete attorno a voi: quel giovane che parla italiano, dall´aspetto meticcio, nato a Torino da genitori marocchini, è un cittadino italiano o è uno straniero, un immigrato?
È esattamente il dramma che sta affrontando la Francia con i figli di immigrati, che non sono a loro volta immigrati perché non hanno fatto il viaggio. Sono nati in Francia, sono francesi ma portano nomi arabi e hanno la pelle un po´ più scura dei Normanni. Quando questi francesi di seconda categoria si sono rivoltati, nell´ottobre 2005, sono stati trattati come stranieri. Alcuni uomini politici hanno anche chiesto che fossero "rispediti al loro paese"! I loro genitori sono stranieri, ma loro sono cittadini europei. Questo non impedisce che siano visti come stranieri, invasori, "barbari". Nell´antica Grecia era considerato barbaro chi non parlava la lingua della città. In Francia si nega a milioni di giovani l´appartenenza al panorama umano francese e la loro lingua non è considerata del tutto francese.
L´epoca in cui viviamo, con le sue guerre e i suoi conflitti, favorisce grandi spostamenti umani. Sempre più persone fuggono le guerre e cercano di trovare una terra d´asilo. La storia dell´umanità è fatta di queste ibridazioni. La mescolanza degli individui è inevitabile. Fino a poco tempo fa, la Francia era il paese d´Europa che accoglieva il maggior numero di esiliati. Ma i tempi cambiano.
Sappiate che siamo sempre lo straniero dell´altro. Tutto dipende da dove ci si trova, quello che si fa e perché ci si è spostati. Un turista che viene a spendere il suo denaro è certo percepito come straniero, ma come una presenza positiva perché il suo soggiorno è limitato. Lo straniero che fa paura è quello che viene a insediarsi, per rifarsi una vita; spesso è povero e disperato. La povertà non è fotogenica. Ma quell´uomo disperato potreste essere voi o potrei essere io. Non dimentichiamo mai che il destino non è un fiume tranquillo né una serata estiva con gli amici. Il destino è misterioso. Non si sa mai che cosa ci riserva. La paura dell´altro, la fissazione che lo straniero sia una minaccia per la mia sicurezza, sono sensazioni irrazionali che appartengono all´istinto animale. Siamo uomini: facciamo qualcosa per espellere di nostri cuori questi istinti primordiali e nocivi! Perché un giorno o l´altro, saremo noi a trovarci sull´altro versante di questa paura e di questa esclusione, perché saremo diventati stranieri.
(Traduzione di Elda Volterrani)

Repubblica 13.11.07
La diffidenza. Quando il pregiudizio travolge la ragione
La crisi sociale fa nascere il capro espiatorio
Intervista a Emmanuel Todd


Al loro arrivo è così che gli stranieri vengono guardati. Perfino negli Usa gli immigrati irlandesi dovettero scontare il pregiudizio anti cattolico

«In una società in crisi, che non riesce a risolvere i propri problemi economici e d´identità, lo straniero diventa un nemico e un capro espiatorio ideale». Emmanuel Todd ha iniziato a occuparsi d´immigrazioni parecchi anni fa con Le destin des immigrés. Di recente, in collaborazione con Youssef Courbage, ha pubblicato Le rendez-vous des civilisations (che in Italia verrà tradotto da Tropea), dove, in polemica con la tesi di Huntington sullo scontro delle civiltà, smonta i pregiudizi di chi sostiene l´impossibile modernità del mondo musulmano. «Quando si parla d´immigrazione si tende sempre a idealizzare il passato, ma ci si sbaglia», spiega lo storico e antropologo francese, di cui in Italia stati pubblicati Dopo l´impero e Il crollo finale. «Tutta la storia dell´immigrazione è costellata di difficoltà e incomprensioni. Al loro arrivo, gli stranieri vengono sempre guardati con sospetto e diffidenza. È accaduto perfino negli Stati Uniti, dove ad esempio i primi immigrati irlandesi dovettero scontare il pregiudizio anticattolico».
Oggi però l´Europa percepisce gli stranieri più come una minaccia che come una risorsa.
«La vera differenza rispetto al passato è che oggi l´immigrazione sta diventando un´ossessione anche in paesi dove le difficoltà concrete sono in fondo limitate. Naturalmente, non nego che i problemi esistano. L´Italia ad esempio in questi anni scopre l´immigrazione di massa, con tutte le contraddizioni e le tensioni che ne conseguono. In Francia però la situazione è molto diversa, dato che da noi gli immigrati sono arrivati molti anni fa. Nonostante ciò, si continua ad agitare lo spettro dell´immigrazione come invasione. Ciò dimostra che quello dell´immigrazione è un fantasma esagerato».
Come si spiega questa paura degli stranieri?
«La diffidenza rivela soprattutto l´incertezza della società europea. L´Europa è in crisi, prigioniera dei dubbi, incerta sulle proprie potenzialità economiche, preoccupata per il futuro. Negli ultimi trent´anni ha rimesso in discussione tutte le certezze, comprese le credenze religiose. Più o meno consapevolmente, cerca un capro espiatorio che molto spesso trova negli stranieri».
Li respinge perché la loro presenza rimette in discussione i nostri valori e i nostri costumi?
«Non credo. L´arrivo degli stranieri dovrebbe avere l´effetto contrario, rassicurandoci sul valore del nostro mondo. Invece di rimetterci in discussione, ci valorizzano».
Come rendere l´integrazione meno problematica?
«Più che d´integrazione, preferisco parlare di assimilazione. Di fronte all´immigrazione di massa ci sono infatti due sole possibilità. L´assimilazione, che, attraverso l´adozione dei costumi e dei valori del paese d´accoglienza, permette ai figli e ai nipoti degli immigrati di fondersi nella popolazione locale. Oppure la segregazione, con la nascita di comunità separate che conservano costumi e valori tradizionali. Nessun paese però vive serenamente la presenza al suo interno di un gruppo separato. Per questo preferisco l´assimilazione. È il modello difeso dallo stato francese, che nonostante tutto funziona meglio di quello anglosassone basato sul multiculturalismo e la creazione di comunità separate. Lo dimostra tra l´altro il numero di matrimoni misti, che in Francia è oggi in crescita».
Tolleranza e ospitalità hanno ancora un senso?
«Certo, purtroppo però funzionano bene solo quando si tratta di pochi individui. Allora lo straniero è un ospite che non disturba nessuno, anche se ha costumi molto diversi dai nostri. Di fronte all´immigrazione di massa, tutto ciò è molto più complicato. Per questo occorre avere il coraggio di dire che la vera generosità consiste nel domandare allo straniero di accettare i nostri costumi».
Alcuni però rimproverano a questa prospettiva un eccesso di eurocentrismo. Come risponde?
«Non si tratta di giudicare i sistemi di valori e i costumi negli altri. Ogni popolazione ha i suoi e quelli europei non sono certo superiori. Tuttavia, la tolleranza che isola gli stranieri nelle loro tradizioni nasconde spesso un vero e proprio rifiuto degli altri, e in particolare dei figli degli altri. Gli immigrati in fondo resteranno stranieri, anche se possono integrarsi felicemente. I loro figli invece non lo saranno più, saranno francesi o italiani. Motivo per cui hanno bisogno di aderire ai nostri valori e ai nostri costumi. Insomma, nei confronti degli stranieri occorre un discorso generoso ma chiaro, un misto di pragmatismo e comprensione. Dobbiamo comprendere i loro costumi, ma aiutandoli a fare sì che i loro figli siano come i nostri».
I pregiudizi e luoghi comuni nei confronti degli stranieri rendono difficile questa prospettiva...
«L´ignoranza degli altri che nutre i pregiudizi è purtroppo una costante della storia dell´immigrazione. Oggi oltretutto si diffonde anche tra le élite, che invece avrebbero la possibilità di accedere alle informazioni necessarie. Proprio per combattere i pregiudizi, ho scritto insieme a Youssef Courbage Le rendez-vous des civilisations. Volevo mostrare che l´islam non è assolutamente incompatibile con la modernità, come invece molti sostengono. Anche al suo interno, la progressiva alfabetizzazione e la rapida riduzione del tasso di natalità mostrano una profonda evoluzione delle mentalità e dei costumi. L´individualismo e l´arretramento della religione, che molti considerano due condizioni proprie della modernità occidentale, sono tendenze che si sviluppano rapidamente, spingendo il mondo musulmano verso strutture sociali moderne. Il fondamentalismo religioso esiste, ma non è certo rappresentativo di tutto l´islam. Avere coscienza di questa realtà permette di guardare con occhi diversi i musulmani che giungono in Europa».

Repubblica 13.11.07
"Il primo grido" spopola in Francia il film sulla nascita
di Laura Putti


Tre anni di lavoro, 15 mesi di riprese per dieci storie in altrettanti paesi dall´India al Niger

Uscito da due settimane nei cinema francesi, "Le premier cri" è già un fenomeno. Un caso forse annunciato, dato che il film di Gilles de Maistre è un documentario su qualcosa che riguarda il mondo intero: la nascita di un essere umano. Non è un film sulla gravidanza o sulla maternità in generale: mostra proprio il gesto di dare alla luce, il momento fisico, reale, del parto. Accompagnato da una strutturata (ma elegante) campagna pubblicitaria, "Le premier cri" (il primo grido) ha, nella prima settimana di programmazione in circa 250 sale francesi, attirato ben 140 mila spettatori. Più di "L´incubo di Darwin" di Hubert Sauper, più di "Una scomoda verità" di Al Gore. Ed essendo già stato venduto in tutto il mondo (anche in Cina, India, perfino Turchia, ma, per ora, non in Africa. In Italia nel 2008), il film è destinato a un dibattito planetario. Come restare indifferenti al parto in diretta di dieci donne in altrettanti paesi del mondo?
Osservando Gilles de Maistre, minuto e nervoso, viene da chiedersi dove abbia trovato il coraggio di affrontare (spesso da solo, cinepresa in spalla) un momento tanto selvaggiamente femminile. «Proprio questo andavo cercando» risponde il regista, seduto in un rumoroso caffè sui Campi Elisi. «Avevo già realizzato una serie di documentari televisivi nella sofisticatissima maternità del Robert-Debré, l´ospedale pediatrico di Parigi. E´ vero che ogni parto è sempre un momento straordinario in cui accadono cose ogni volta diverse. Le persone dimenticano la cinepresa, sono totalmente concentrate soltanto su quello che accade. Ma, partorendo, le donne lasciano trasparire la loro storia e mi è piaciuta l´idea di raccontarle, queste storie. Il momento della nascita è un argomento che ci riguarda da vicino e che, insieme al momento della morte, è una delle due esperienze che tutti abbiamo in comune».
Tre anni di lavoro, quindici mesi di riprese per dieci storie in dieci luoghi diversi (la più "normale" in Francia, poi Stati Uniti, Vietnam, India, Brasile, Niger, Tanzania, Giappone, Messico, Siberia), Gilles de Maistre ha spesso viaggiato leggero. «Il più delle volte, soprattutto in luoghi molto disagiati come i deserti africani, sono andato soltanto con l´ingegnere del suono e con una giornalista, Marie-Claire Javoy, che sul film ha appena pubblicato due libri, uno dei quali per bambini (uscito anche il cd con le musiche di Armand Amar, con un brano cantato da Sinead O´Connor per l´occasione, ndr). Il parto è un momento intimo. Volevo che fosse diverso da quelli, più o meno naturali, che tante volte avevo visto nell´ospedale parigino».
Pur nella sua forzata staticità, "Le premier cri" sembra un film d´azione. Le donne partoriscono in maniere diverse. Straordinarie le immagini che riguardano Majtonré, la indiana Kayapo che Maistre ha filmato in Brasile, in un villaggio nella foresta amazzonica. Come nel caso della donna Masai (Kokya, in Tanzania), il parto è preceduto da un rituale. Le donne più anziane dipingono il corpo della puerpera. Majtonrè partorirà in piedi in una capanna, al solo bagliore del fuoco, sorretta sotto le ascelle da un´altra donna. Tragico invece il parto notturno di Manè, donna Tuareg, nel deserto di Kogo in Niger. Nonostante il sacrificio di un animale organizzato in fretta e furia dal marito della ragazza, il bimbo nascerà podalico (di bacino) e morto.
Ma il parto sul quale Gilles de Maistre più si sofferma è quello dell´americana Vanessa, 32 anni, in una casa in un bosco del Maine. Vanessa e Mikael vivono bio e no global in una comune di dieci persone. Lei sceglie un parto non assistito, senza visite mediche, ecografie, medicine. Quando le doglie iniziano, Vanessa e Mikael si infilano nudi in una piscinetta al centro di una stanza. Attorno a loro gli otto compagni con la chitarra. Il bimbo nascerà (dopo alcune ore) nell´acqua, ma la placenta non uscirà subito, Quasi decisa a un ricovero in ospedale, Vanessa verrà poi "salvata" da una ragazza della comune. L´insistenza del film sulla coppia americana è forse la sua unica debolezza. «Cercavo qualcuno che potesse parlare del momento della nascita» dice Maistre «In ogni parto filmato c´è una storia, ma nessuna donna africana o siberiana o vietnamita o indiana è in grado di parlare di ciò che vive. Lo vive e basta. Vanessa invece racconta, spiega quello che sente».
"Le premier cri" inizia sott´acqua, con un parto tra i delfini. Seguiamo due ragazze messicane, Gaby e Pilar, guidate dall´ispirata ostetrica Adriana tra gli straordinari mammiferi acquatici. Il regista afferma di non essersi mai permesso di giudicare le dieci storie. Ma qualcosa vorrà pur dire se ha deciso di mostrare l´insuccesso di uno dei due parti acquatici: una delle due ragazze non farà in tempo a correre in piscina e il suo bambino nascerà in un letto, senza tante moine new age.

Corriere della Sera 13.11.07
Scoperta Usa. Il cervello a tempo di musica balla e «pensa» al sesso
di Andrea Frova


Daniel Levitin, professore di psicologia e musica alla McGill University di Montreal, racconta sul New York Times in un articolo dal titolo «Dancing in the Seats», i risultati di una ricerca effettuata su cervelli sottoposti ad ascolti musicali. La tecnica usata è la fMRI (functional Magnetic Resonance Imaging), capace di individuare le zone attivate del cervello su scala del millimetro cubo (l'attivazione si riconosce per un incremento del flusso sanguigno).
CONTROPROVA — Sono state esaminate 13 persone durante l'ascolto di brani musicali e, come controprova, di loro versioni strutturalmente scompaginate. Si è trovato che, anche in condizioni di immobilità, l'ascolto di musica eccita zone che coordinano le attività motorie. Se il corpo non può danzare, lo fa il cervello, confermando l'indissolubilità del legame tra musica e movimento.
Celebri sono le frasi di Hausegger: «Le espressioni sonore non sono altro che movimenti muscolari fattisi udibili, gesti che si sentono», o del musicologo francese Roland-Manuel (inizio Novecento): «La musica commuove in quanto muove».
L'attribuire poco peso al metro e al ritmo, come si è fatto in talune forme musicali dell'ultimo secolo, quali la serialità e la dodecafonia, ha un effetto negativo giacché tali elementi, appellandosi all'aspetto motorio del discorso musicale, sono essenziali nel conferirgli forma e vitalità. Per Stravinskij «il ritmo e il movimento, e non l'espressione delle emozioni, costituiscono i fondamenti dell'arte musicale». Un altro risultato delle immagini cerebrali — dovuto a A.J. Blood e R.J. Zatorre — è che musiche che provocano un'intensa commozione interessano pure le aree dell'orgasmo sessuale e di altre soddisfazioni corporali, come la degustazione del buon cibo, ossia ataviche funzioni biologiche inerenti alla sopravvivenza o coinvolte negli stati di allucinazione da droga. Gli stessi autori osservano anche che accordi consonanti e dissonanti attivano aree diverse.
DISSONANZE — Inoltre, i treni di «spari neurali» (segnali elettrici che l'orecchio invia al cervello) associati alle consonanze risultano assai più facilmente elaborabili dal cervello rispetto a quelli di altri insiemi di note, in particolare dissonanti. Il che spiega perché le prime giungono ben accette anche a un cervello naïf, laddove il ruolo della dissonanza viene valorizzato solo dopo una certa frequentazione della musica. Sono prove evidenti della straordinaria immediatezza fisica del piacere musicale, per quanto concerne non solo lo stimolo motorio, ma anche melodia e armonia tradizionali.

Repubblica 12.11.07
Tenco torna a Sanremo un tributo fra jazz e tanta sregolatezza
La rassegna della canzone d'autore dedicata ai 40 anni della sua scomparsa
di Carlo Moretti


Per la prima volta da quando è nato nel 1974 il Premio Tenco è stato dedicato a Luigi Tenco. E per la prima volta la canzone d´autore cui è tradizionalmente dedicato ha ceduto la scena al jazz. L´ultima delle tre sere, sabato, non poteva che chiudersi così, con il gotha del jazz italiano sul palco dell´Ariston per rendere omaggio al grande cantautore, a cominciare dal quartetto di Rava che ha accompagnato l´esibizione di Gino Paoli. Perché Luigi Tenco, come ha notato Ada Montellanico, «non scriveva mai con una metratura canonica: era una scrittura la sua che per l´andatura sempre sghemba e originale, per il ritmo di due quarti, le strofe di nove battute, conteneva sempre una decisa anima jazz».
L´emozione più forte non l´ha però offerta la magia del jazz. La 32esima edizione del Tenco si ricorderà per quanto, al contrario, avvenuto in chiusura della prima serata, quella in cui veniva celebrata la grande canzone dialettale anche grazie all´intervento della cantante sarda Elena Ledda. Un momento emozionante per l´applauso fragoroso e sorprendentemente rivolto verso il palco vuoto dell´Ariston: Massimo Ranieri aveva appena lasciato la scena e l´amplificazione continuava a diffondere la voce di Andrea Parodi, il cantautore sardo scomparso un anno fa, come si può ascoltare nel duetto per Piscatore ‘e Pusilleco pubblicato in un recente album di Ranieri. Il quale ha avuto l´ottima idea e il sapiente gusto teatrale di un´uscita di scena a effetto per lasciare che il pubblico apprezzasse fino in fondo i colori di una delle più belle voci della nostra canzone.
Momento emozionante che faceva seguito alla cerimonia in cui la moglie di Parodi, Valentina, ha ricevuto la Targa Tenco vinta dall´album Rosa Resolza, l´ultimo registrato da Parodi, prima della morte, con la cantautrice Elena Ledda. Che ne ha proposto alcuni brani (tra i quali De Bentu) dopo una suggestiva versione in sardo di La ballata del marinaio di Tenco: «Ho voluto tradurre la canzone di Luigi Tenco per portarla più vicina a me, perché la forma della canzone popolare è completamente diversa rispetto a quella della mia tradizione. La soddisfazione è di essere riuscita a tradurla quasi letteralmente».
Al Tenco non si va da semplici spettatori, al Tenco una serata si vive. Perché la poesia di un´esibizione non può essere annunciata, ti prende di sorpresa. Ci sono i momenti memorabili perché sopra le righe come quello offerto dal cantautore francese e Premio Tenco 2007 Jacques Higelin, senza voce ma assolutamente geniale nel saper riportare ogni volta la performance nel giusto binario («Ieri sera ho bevuto troppo», si è scusato) o quelli sorprendenti per forza carismatica come quello offerto dall´altro premio Tenco di quest´anno Marianne Faithfull, che ha aperto la sua performance con As tears go by scritta nel 1965 per lei dalla coppia Jagger-Richards: «Non ho mai avuto una grande voce», ha ammesso lei, «ma ho sempre avuto un discreto talento».
Le targhe Tenco, oltre a quella per l´album di Ledda e Parodi, sono state vinte dai romani Ardecore per l´album «Chimera», dai Tetes de Bois per «Avanti Pop» e da Gianmaria Testa per «Da questa parte del mare». Da segnalare il debutto di Paolo Simoni autore di «Mala Tempora», una luce accesa dal Tenco 2007 e il verso più curioso della rassegna: «Se pensi che questo sia jazz. è solo stress».

Rosso di Sera 12.11.07
La malapianta degli ultrà
di Alessandro Curzi


Sui fatti di domenica, due piani della questione vanno nettamente e preliminarmente distinti. Altrimenti non ci si capisce, si fa confusione e si consentono (e ci si consente) strumentalizzazioni politiche che è lecito definire infami in riferimento alla morte di un povero ragazzo e irresponsabili in riferimento alle loro conseguenze nei rapporti fra cittadini e istituzioni. Questi due piani sono: l’uccisione di Gabriele Sandri da parte di un poliziotto, e le violenze perpetrate dagli ultrà.
Sul primo piano, siamo di fronte ad un tragico incidente, determinato ovviamente dal tipo di formazione e dal livello di preparazione di un agente di polizia – e presumibilmente di molti agenti di polizia – oltre che da funeste casualità. Qui si fa bene a pretendere il massimo di trasparenza e di severità, nella individuazione e nella punizione di un comportamento oggettivamente criminale. Tanto più grave in quanto proveniente da un addetto alla pubblica sicurezza, peraltro descritto come esperto e assennato. Il capo della polizia Antonio Manganelli ha assicurato che “ci assumeremo le nostre responsabilità”. E’ ciò che doveva dire. E’ ciò che ci aspettiamo faccia, senza riserve di alcun tipo. Dopo di che, spetterà alla magistratura fare il suo dovere e alle autorità (e in primis al ministero degli Interni) mettere in campo finalmente efficaci politiche di prevenzione e repressive – sì, anche repressive – affinché questi episodi, come suol dirsi con amaro scetticismo, non abbiano più a ripetersi. E qui arriviamo al secondo piano di riflessione, quello sugli incidenti creati domenica in tutta Italia da masse di scalmanati e teppisti, in un preteso rapporto di causa ed effetto col fattaccio svoltosi nei pressi dell’autogrill aretino. “Voi avete colpito uno di noi, noi colpiamo voi e con voi questo sistema”: questa, in sostanza, la logica di quelle ore di guerriglia, di insulti e aggressione alle forze dell’ordine, di auto bruciate, di assalti a caserme e sedi Coni, e di imposizione della “legge gli ultrà” negli stadi, a cominciare dalla sospensione di alcune partite sotto il ricatto di pericolosi incidenti.
Su questo piano, va detto con estrema fermezza che l’incidente di Arezzo è stato solo un pretesto. Più precisamente, un detonatore. Il problema è la bomba, rappresentata dal ruolo e dal peso degli ultrà negli stadi e presso le società calcistiche, e dai loro ambigui rapporti con esse. Un problema di ordine pubblico e di legalità di enormi dimensioni – prima ancora che di rispetto, di agevole praticabilità e di pubblico godimento dello spettacolo calcistico – rimasto irrisolto, nonostante le periodiche conferme della sua pericolosità e le ripetute esplosioni di violenza spesso tragiche.
Perciò mi sembra produttore di ulteriore confusione il dibattito che si svolge in queste ore sull’opportunità di fare svolgere comunque o di interrompere le partite, nel quale ci si è rimpallato le responsabilità fra mondo politico e mondo calcistico, accettando tutti di fatto la conseguenzialità fra l’uccisione di quel giovane tifoso laziale e la “reazione” degli ultrà. Invece, ripeto, bisogna guardarsi dal fornire anche involontariamente pretesti ai numerosi gruppi di teppisti che da decenni stanno avvelenando la vita del calcio, mettendo semplicemente a nudo l’incapacità del sistema (calcistico e istituzionale) di imporre legalità e ordine pubblico, e ribadendo anche in questo settore la logica della impunità.
Non ci voleva un altro morto per convincerci che il vaso è colmo ormai da tempo. Che non sono più rinviabili una serie organica di misure assai dure e inequivocabili – che coinvolgano la primaria responsabilità delle società di calcio, delle istituzioni sportive, delle autorità di governo e del legislatore – per ristabilire ordine e legalità anche nel calcio, sradicando la malapianta delle organizzazioni ultrà. Concludo dichiarandomi, anche come consigliere di amministrazione della Rai, profondamente insoddisfatto e allarmato per il mancato ruolo di seria resocontazione e riflessione sull’accaduto del sistema mediatico nel suo complesso e in particolare del servizio pubblico radiotelevisivo. Ho assistito a un ininterrotto e spesso scadente chiacchiericcio senza capo né coda, che non ha registrato momenti di individuazione precisa e chiara delle responsabilità e della barbarie in campo. Alla Rai si chiede di più e di meglio: aiutare la gente a capire e a far crescere la consapevolezza collettiva – anche sollecitando l’autorevole intervento e la responsabile assunzione di responsabilità da parte del governo - su ciò che avviene e su come, concretamente, si esce da un problema lasciato incancrenire.

Affari Italiani 13.11.07
La morte di Sandri/ Gli psichiatri: preoccupante escalation di violenza


L'escalation di violenza gratuita per cui si muore ammazzati per una partita di calcio e questo diventa poi l'occasione per scatenare una guerriglia urbana contro le forze dell'ordine, preoccupa molto il mondo politico non meno di quello psichiatrico alla ricerca di una spiegazione. "E' solo una faccenda di calcio e di tifo o siamo davanti ad un fenomeno sociale da osservare attentamente? Si passano voce da Milano a Catania e in piazza fanno qualcosa che è fuori legge e che la magistratura chiama apologia di fascismo: è un fenomeno strano da tener sotto osservazione", spiega lo psichiatra Massimo Fagioli al quale non torna affatto che la polizia in servizio di ordine pubblico abbia armi da fuoco.
"Bisogna fare come in altri paese europei: togliere le armi da fuoco e darle - osserva - solo in casi eccezionali: mi sembra che all'estero anche quando carica la polizia non ha armi". E non lo convince neanche "l'accidentalita'" dello sparo: non è la prima volta che un colpo 'accidentale' ammazza una persona... E le manifestazioni di piazza? "Intanto va detto che il malessere, il disagio sociale che è stato messo in piazza il 20 ottobre - spiega lo psichiatra - non ha prodotto alcun incidente: quindi con queste manifestazioni il malessere o il disagio sociale non hanno nulla a che fare: qui si tratta di decine, centinaia di persone che portano in piazza una violenza gratuita per cui non si generalizzi, come se il popolo italiano fosse tutto contro le forze dell'ordine: non è vero". E sulla commistione politica punta l'indice anche Francesco Bruno. "Non si soffia sul fuoco per anni senza che poi - nota il criminologo - non scoppi il fuoco: cos'è successo dopo la morte di Raciti a Catania? Niente, passato il momento, tutto è tornato 'punto e a capo' ed ora ci risiamo: ma attenzione a non fare di tutta l'erba un fascio".
Si tratta "certo di episodi drammatici e violenti ma circoscritti a gruppi che usano il calcio - avverte Bruno - non tutti gli italiani appassionati di calcio che vanno allo stadio hanno fatto della polizia il loro nemico, ma solo gruppi di tifosi collusi mi pare molto evidente dalle immagini e resoconti con la destra più estrema". E ben protetti, poi, dalle stesse squadre di calcio. Insomma, non c'è una emergenza sicurezza? "No, non c'è pure se si cerca - risponde Bruno - di crearla, di costruirla e di far credere che ci sia: c'è invece un fenomeno ben circoscritto sul quale appuntare l'attenzione ed assumere per tempo provvedimenti efficaci". E la polizia dev'essere disarmata o no? "In Europa neanche quando carica ha armi da fuoco...", è la risposta del criminologo.

il Riformista 13.11.07
Scuola. Bilanci provvisori ma non parziali, a trent’anni dall’integrazione
No all’«ecologia relazionale» verso i disabili nelle scuole
La cooperazione deve avvenire anche e soprattutto a livello di corpo docente. Manca la capacità di lavorare in equipe. Per una società alternativa a quella competitiva.
di Nora Sasso


Tra il 16 e il 18 novembre prossimi si terrà a Rimini la sesta edizione del convegno internazionale La Qualità dell’integrazione scolastica, che da anni raccoglie intorno a questo delicato tema migliaia di presenze, tra esperti, docenti e persone a vario titolo coinvolte. Organizzato dal Centro Studi Erickson in collaborazione con diverse amministrazioni locali e istituzioni universitarie e scolastiche, al convegno parteciperanno, accanto al gotha della ricerca nazionale ed internazionale in materia, anche ospiti “speciali” che interverranno su tematiche più vaste ma connesse. Tra questi lo scrittore Niccolò Ammaniti, che terrà una conferenza sul tema “Scrivere del mondo del bambino e dell’adolescente”, e il medico e psicologo Edward de Bono, studioso del pensiero creativo.
Questa sesta edizione coincide anche con la ricorrenza dei trent’anni dal varo della Legge 517 del 1977 sull’integrazione scolastica degli alunni disabili nella scuola italiana, sulla quale nel convegno verranno presentati i primi risultati di una ricerca nazionale indipendente, incentratata sulla percezione delle varie fasi dell’integrazione da parte delle famiglie coinvolte. Quali siano questi risultati, è certo però che lo spazio di miglioramento è ampio, e coinvolge direttamente un più ampio ambito culturale, etico e politico.
Basta leggere infatti il densissimo programma del convegno per rendersi conto di quanto occuparsi della qualità dell’integrazione dei disabili non comporti un discutere di altro rispetto alla qualità della scuola tutta. Perché la tematica dell’integrazione di chi viene percepito come “diverso”, lungi dall’essere materia per addetti ai lavori, si pone al contrario al crocevia di problemi cruciali d’una intera società, troppo spesso in emergenza.
Una scuola consapevole della sua funzione dovrebbe infatti sapere che cieco e sordo è innanzi tutto chi pretende di insegnare senza sentire e vedere la realtà totale di qualsiasi alunno, disabile e no. Il bambino o il ragazzo che vi entra non lascia fuori dal cancello, come entrasse in una camera iperbarica, la qualità dei rapporti, i valori o disvalori che respira in famiglia e nel tessuto sociale in cui cresce. Valga significativamente l’esempio del workshop dal titolo “Fanno i bulli, ce l’hanno con me”, che immediatamente richiama alla mente i recenti ripetuti episodi di violenza psicologica e fisica di gruppo sui compagni di classe disabili, diffusi poi anche su internet. L’insegnante che volesse prevenire il verificarsi di situazioni del genere dovrebbe fare molta attenzione a quanto ciascuno dei suoi alunni, insieme a quello disabile, si senta incluso, accolto, “visto” nel suo universo difficile e spesso confuso; con quella paura, sempre inconfessata, di non essere all’altezza: della ragazzina del secondo banco, degli amici con l’ultimo hi-pod, di suo padre che non ha mai tempo, del professore alle prese con le verifiche quadrimestrali.
La scuola che non trovi il coraggio e la capacità di essere alternativa ad una società competitiva e indifferente, che si astenga dal difficile compito di strattonare genitori distratti, o di ascoltare la solitudine di famiglie ripiegate su difficoltà di ogni genere, resterà in affanno anche sul fronte di una didattica autenticamente inclusiva dei disabili. Così come velleitario, ai limiti dell’incoerenza, apparirebbe il proposito di promuovere un’ecologia dei rapporti tra gli alunni, stimolandoli all’accoglienza paritaria del diversamente abile, senza occuparsi della qualità dei rapporti tra docenti e alunni tutti, e anche tra docenti stessi, sui quali il convegno presenta alcuni significativi incontri.
Si tratta di temi importanti da discutere, perché un apprendimento cooperativo tra alunni può essere promosso solo da insegnanti che sappiano in primo luogo, e a loro volta, essere autenticamente cooperativi. Comunemente poco si parla invece della impreparazione al lavoro di équipe, endemicamente diffusa in molti ambienti di lavoro, che trova paradossalmente le sue radici proprio nella formazione scolastica, tuttora fondamentalmente individualistica e competitiva, ma purtroppo coerente con il modello di società cui prepara. In realtà, la scuola che più e meglio integra alcuni, è solo quella che si propone di integrare tutti.

Aprile on line 13.12.07
Aspettando l'8 dicembre...
di Giovanni Perrino


Dibattito
Gli Stati Generali della sinistra si avvicinano con un impeto quantomeno affievolito, testimoniato dalla mancanza di una più profonda ed ampia discussione di quella imposta dal solito tam tam mediatico. Se non vogliamo favorire ancora di più una pericolosa deriva a destra, sia data la parola a chiunque voglia cambiare veramente il mondo, e i rapporti tra gli uomini e le donne, e la cultura

Cari dirigenti della Sinistra,
non sono tanti i giorni che ci separano dalla assemblea generale della sinistra dell'8 e 9 dicembre prossimi, però sembrerebbe che lo slancio unitario del dopo 20 ottobre seguito alla spinta possente dell'organizzazione e della forza ideale di Rifondazione Comunista si sia quantomeno affievolito. Se infatti misurassimo la distanza che separa il grande evento passato a quello ormai prossimo con i metri della politica, concluderemmo con facilità che il tempo per una discussione un tantino più profonda e più ampia di quella imposta dal solito tam tam mediatico è ormai pochissimo.
Vi pongo in conseguenza la seguente domanda: la ricerca dell'unità a sinistra è sinceramente rivolta verso una novità sostanziale nel panorama politico, oppure è un pretesto per affermare vecchie appartenenze sconfitte dalla storia in un contenitore possibilmente più largo?
Mi si potrebbe obiettare che la mia affermazione, seppure interrogativa, contenga un errore di analisi della realtà, perché appunto non dubita dell'inevitabilità di una rottura - più causata o più subita a seconda dell'interlocutore - nella storia italiana, che cambia finalmente il suo scenario. Per non inficiare dunque la domanda o celarmi dietro parole e concetti difficili, vi affermo chiaramente: la Sinistra Democratica, i Verdi, i Comunisti Italiani e perfino Rifondazione Comunista non hanno oggi chiara consapevolezza dell'esaurimento della funzione storica della sinistra così come essa si è andata declinando nella società prima della caduta del Muro di Berlino, né hanno sentore complessivamente della crisi di identità delle società occidentali e del riemergere di appartenenze tribali o, nel migliore dei casi, superstizioso-religiose accomunate da deliri e violenze che la civiltà dei Lumi sembrava avesse definitivamente superato.
Sì, lo so che rischio di incastrarmi in una generalizzazione disfattista, e so anche che da parte di singoli alti dirigenti di questo o di quel partito (a me pare solo di quello, e cioè, dato che mi trovo annoverato tra le file di SD, in Rifondazione Comunista), ci sono state prove di straordinaria intelligenza nei tentativi di stravolgere vecchi e logori sistemi di pensiero con le rivoluzioni identitarie accarezzate e presentate (già ne avevo fatto menzione in un mio precedente articolo su questo stesso giornale) dal vasto e tutto interessante arcipelago del Movimento no-global, che pensa alla possibilità-necessità di un altro mondo, dall'analisi collettiva di Massimo Fagioli nichilisticamente rivolta contro una pseudo-cultura che vorrebbe l'essere umano naturalmente perverso-egoista-violento-capitalista e lo Stato ovviamente repressivo e religioso, dagli esperimenti pure contraddittori (come sempre nelle pratiche politiche) del Socialismo del XXI secolo nell'America latina.
Ma il corpo dei militanti (ed elettori) della Sinistra non ha saputo-potuto, finora, apprezzare nessuna sostanziale trasformazione, a interrompere un disorientato flusso abitudinario di frustrazione, rabbia e demenzialità, in attesa che la dilagante marea della destra sommerga ogni alternativa.
Nelle sezioni, cari dirigenti della sinistra, ormai non si parla quasi di altro che delle buche nelle strade, del traffico e del trasporto pubblico e si prospettano, a seconda che prevalga un'opzione di governo o di opposizione (indipendentemente dallo stare o non stare al governo di questo o quel Municipio o del piccolo Comune) soluzioni diverse, sulle quali si litiga o ci si accorda. E'tutta qui la politica? Si ama dire che sia delegata ai dirigenti nazionali, oppure che non si possano lasciare da parte le questioni del territorio (la famosa "politica della fontanella") sulle quali in realtà si costruisce il consenso (confondendo il plauso immediato con il voto elettorale), ma in realtà si nasconde un enorme vuoto culturale e si tenta, ancora più colpevolmente, di coprire i propri meschini interessi.
In tali circostanze un ipotetico giovane (che nella diversa percezione del tempo e delle cose propria della classe politica corrisponde sostanzialmente a un uomo - le donne capaci di definirsi tali non riescono proprio a trovare spazi di accoglienza - in un'età compresa tra i 18 e i 35 anni) che dovesse riuscire a proporre a se stesso l'uscita da quella fantomatica massa grigia indifferenziata nella quale si subiscono i processi sociali ed economici per partecipare ad una consapevole azione politica, cosa troverebbe? Una realtà nera?
Se non vogliamo che il blog di Beppe Grillo sia l'unica risposta, se non vogliamo favorire ancora di più una pericolosa deriva a destra, allora l'8 e il 9 Dicembre sia data la parola a chiunque voglia cambiare veramente il mondo, e i rapporti tra gli uomini e le donne, e la cultura. Risparmiamoci la solita difesa di un orticello, che davvero oggi è tanto piccolo da essere nell'economia del mondo globalizzato invisibile. Evitiamo di dare ragione al Partito Democratico dimostrando un insensatezza della Sinistra, capace al massimo da fare la tappa-buchi della politica (e delle strade rionali).
Se c'è una speranza, non deludiamola; altrimenti meglio chiudersi a chiave dentro casa e mettere anche tanti lucchetti, perché i tempi che verranno, senza la Sinistra, saranno brutti, sporchi e cattivi.

Liberazione 13.11.07
Quell'emendamento dei socialisti
Cari senatori avete sbagliato: l'Ici-vaticana doveva essere votata
di Imma Barbarossa
*

Care compagne e cari compagni senatori e senatrici della costruenda sinistra unitaria e plurale, non va per niente bene. Penso che sarebbe stato giusto votare a favore dell'emendamento socialista che tendeva ad abolire l'esenzione dal pagamento dell'Ici per gli immobili di proprietà della Chiesa Cattolica. Non l'avete votato nemmeno quando i socialisti l'hanno modificato contro gli immobili "a fini di lucro" (alberghi, foresterie, esercizi commerciali, spiagge, etc.). Dirò di più, avreste dovuto proporlo voi, non lasciando ai socialisti la difesa della laicità.
Infatti la laicità è qualcosa di complesso, non si risolve né nella formula liberale (e cavourriana) della libera chiesa in libero stato, né solo nell'eliminare i vistosi privilegi del Vaticano, né nel "senza oneri per lo stato" dell'art. 33 della Costituzione italiana. La laicità è una questione culturale di libertà, di liberazione da ogni integralismo e fondamentalismo, da ogni chiusura identitaria, da ogni egoismo corporativo, dalla paura dell'altro, del diverso. Laicità è capacità di confronto, di scambio, di relazione vera. Laicità è rifiuto di etnicismi e nazionalismi, è la costruzione di uno spazio pubblico e di un'etica pubblica. E' possibile - come sostengono Erminia Emprin e Giovanna Capelli - che l'emendamento socialista fosse impreciso e di difficile applicazione, ma sarebbe stato un segnale facilmente comprensibile, e una dichiarazione di voto avrebbe potuto "correggerne" l'interpretazione.
Proprio per la complessità della questione, il parlamento italiano deve legiferare in modo da eliminare le sacche di privilegi per una potenza, il Vaticano, che usa il suo potere per aggredire le libertà, per condizionare gli orientamenti sessuali, la vita, la morte, la malattia di donne e uomini, per normare il corpo delle donne, invadendo l'autonomia del parlamento medesimo. Il quotidiano La Repubblica ha pubblicato le cifre delle proprietà della Chiesa Cattolica e quanto costano ai contribuenti italiani, cifre enormi. Non ci sono soldi per i precari, ma ci sono per esentare la Chiesa Cattolica dalle tasse? Non era un emendamento concordato con la maggioranza? E allora? I socialisti non fanno parte della maggioranza? Cosa vuol dire, che i socialisti sono irresponsabili e voi no? Per favore, siamo seri. Persino la Binetti ha dichiarato che, se fosse passato l'emendamento, il governo non ne avrebbe risentito, soltanto ne avrebbe sofferto lei. Facciamola soffrire, ogni tanto!
In ogni caso non sarebbe passato perché c'è il macigno del partito democratico che guai se si tocca l'Oltretevere! Allora, sarebbe stata una prova che siete punto di riferimento del popolo della sinistra laica. Pensateci, avreste fatto un'opera meritoria aiutando la Chiesa Cattolica a ritrovare il vero suo fondamento, il rifiuto del potere e la povertà, le due pietre miliari del movimento francescano. San Francesco dal Paradiso vi avrebbe ringraziati. Anche Cristo, che moltiplicò i pani e i pesci, non i milioni di euro. Cari senatori e care senatrici del mio partito, dite di aver sofferto (dichiarazioni di Rina Gagliardi e Lidia Menapace) nel respingere quell'emendamento, ma almeno su queste questioni raccogliete la nostra insofferenza, rappresentateci. Non si tratta dei soldi al piccolo oratorio della parrocchia di campagna, si tratta di alberghi di lusso nel centro di Roma. Pensate a San Francesco e fateglielo studiare alla Binetti.
*Segreteria Naz. Prc-Se

lunedì 12 novembre 2007

Apcom 10.11.07
Bertinotti: la crisi politica più grande nella storia contemporanea
"Ma in Italia si muovono anticorpi"


Milano, 10 nov. (Apcom) - Secondo il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, "oggi siamo di fronte ad una crisi della politica drammatica, forse la più grande nella storia contemporanea, dal punto di vista della sua dissoluzione". Lo ha detto nell'ambito di un convegno organizzato a Milano dalla Fondazione Giorgio Gaber.
"Siamo di fronte a una modernizzazione capitalistica - ha continuato - che lavora a consumare la democrazia e a realizzare forme inedite di dominio in cui tutto è governato dal capitale. Il mercato produce un processo ulteriore di mercificazione delle persone. Dopo la fase taylorista e fordista oggi conosciamo una sostituzione dell'alienazione dell'omino di Chaplin con una precarietà che tende ad essere cifra del nostro tempo e molti elementi di governo della politica sono cancellati. La sovranità è messa in discussione e le forze politiche sono private della capacità di disegnare idee e società".
"Questa fase dello sviluppo capitalistico e della storia umana - ha proseguito Bertinotti -, almeno in Europa, mette a rischio la politica e le istituzioni democratiche. Può essere benissimo che si vada verso governi tecnocratici che sono semplicemente accompagnamento a questa macchina tesa a realizzare la competizione. Un capitalismo totalizzante".
Quanto alla situazione strettamente italiana, alla fine del suo intervento, il presidente della Camera è parso più ottimista: "Penso che si vedano anche nella società italiana, insieme a molti elementi di imbarbarimento, anche tanti elementi di anticorpi che si muovono nella società civile e che siano per la riforma e l'autoriforma della politica una grande opportunità. Un grande artista come Gaber, certo non ti può dare la ricetta, ma ti aiuta".

l’Unità 12.11.07
Vuoti di memoria. Il ‘68 di Berselli
di Rinaldo Gianola


In «Adulti con riserva» Berselli se la prende con l’anno mirabile ma dimentica molte cose
Stroncare il 1968? Ok, ma giù le mani dal 1969

La vita è un lampo, signora mia: non si fa in tempo a voltarsi indietro e sono già passati altri dieci anni. Di decennio in decennio «maturiamo», diventiamo adulti, invecchiamo, ma aspiriamo a restare giovani coltivando la sottile illusione che i tempi andati siano sempre i migliori. Anticipando la prevedibile ondata retorico-celebrativa che tra qualche mese inonderà la stampa e le tv per i quarant’anni del leggendario o detestabile 1968, Edmondo Berselli ha scritto un libro fresco e frizzante, che si beve come una gazzosa d’estate.
Vuole farci sapere che lui, impegnato direttore del Mulino e autorevole editorialista del gruppo Repubblica-Espresso, stava meglio prima di quello storico anno.
«Adulti con riserva. Com’era allegra l’Italia prima del ‘68» (Mondadori) è un «The way we were» senza Robert Redford e Barbra Streisand, declinato in salsa emiliana, melassa consociativa che avvolge tutto ed elimina spigoli e contrasti, dove i protagonisti sono l’Equipe 84 e Guccini, Berruti e la velocista Rudolph, il boom economico e Mike Bongiorno e via discorrendo con i soliti protagonisti dei formidabili Sessanta. Con questi ingredienti masticati e rimasticati, il libro potrebbe essere mortale. Ma Berselli ha la mano giusta, non scrive un saggio banale anche perchè ha il vantaggio di capire di calcio e di musica, e quindi la Cultura e la Ragione, sottofondo a tutto il lavoro, vengono mitigate e contaminate da sane pulsioni e prorompenti passioni.
La filosofia di Berselli sul ‘68 è limpida: se ne poteva fare a meno. C’era già tutto quello che valeva la pena vedere, ascoltare, vivere. Nel mondo trionfavano i Beatles e Dylan, in Italia c’erano le partecipazioni statali e l’Autostrada del Sole, i Kennedy sorridevano alla nuova frontiera e a Carpi iniziava il successo delle magliaie nei sottoscala (ma non bisogna ironizzare su questo tema: i colleghi di Berselli, i professori Romano Prodi e Patrizio Bianchi, hanno campato per anni teorizzando lo sviluppo dei distretti e poi chissà a quanti convegni sul modello emiliano ha partecipato). Al professore non interessa valutare se, proprio perchè prima c’erano il Vietnam, i pacifisti, le Black Panthers, Marcuse e i francofortesi, il ‘68 fosse ineluttabile. Non è questo il tema. Lasciamo stare. Berselli non scrive un libro di Storia, ma di storie personali e generazionali intrecciate e siamo certi che preferirebbe di gran lunga discutere sull’eredità degli Yardbirds tra Jeff Beck e Jimi Page che non di Eros e Civiltà. Di Berselli si può condividere la scelta, fatta in tempi non sospetti, dei Rolling Stones come «gruppo di riferimento» nell’eterno contrasto con i Beatles. Anche noi, cresciuti non nella placida Modena ma nella nebbiosa e proletaria periferia milanese, abbiamo sempre preferito la carica vitale di Simpathy for the devil e se cedemmo a qualche «lento» sulle note neoromantiche di Yesterdays fu solo per poterci avvicinare più facilmente alle ragazze della solida borghesia lombarda, con le loro gonnelline a scacchi chiuse dalla spillona.
E poi il professore, come molti giovani d’allora, leggeva Il Giorno, imparava calcio&letteratura dai pezzi di Gianni Brera, e qui vorremmo aggiungere la nostra stima e riconoscenza eterna a un amico di Brera, il grande cronista Mario Fossati che, molti anni dopo quando condividemmo il lavoro a Repubblica, scoprimmo con piacere essere persino un comunista. Nell’Adulto con riserva c’è tutto per celebrare i ‘60 e stroncare, ma bonariamente, il 1968. Forse Berselli lascia qualche vuoto, ci poteva mettere qualche pagina in più sulle droghe e sulle relazioni tra i sessi, tanto per riscaldare l’atmosfera intellettuale, elementi importanti della svolta epocale - se svolta c’è stata - di quegli anni, e certamente sottovaluta (neanche una citazione!), sotto il profilo storico-calcistico, il Milan di Rocco del 1968-1969 (citiamo a memoria: Cudicini, Anquilletti, Schnellinger, Rosato, Malatrasi, Trapattoni, Hamrin, Lodetti, Sormani, Rivera e Prati) capace di vincere, con una squadra di scarti e di anziani, scudetto e poi la Coppa dei Campioni contro l’Ajax di Johan Cruijff, il vero rivoluzionario del ‘68 nel pallone.
L’unico dubbio sul libro di Berselli ci è venuto verso la fine, quando ci siamo ricordati che un anno fa aveva pubblicato un altro saggio (Venerati maestri) e ci era piaciuta la sua idea di catalogare sotto due illuminanti definizioni - «i soliti stronzi» e «i perfetti cazzoni» - produttori e protagonisti, si fa per dire, del mondo culturale, dai media allo spettacolo. Pensavamo come sarebbe stato innovativo se Berselli avesse portato queste due categorie sui giornali dove scrive, magari per stroncare un Baricco o contestare un Benigni. Così non è stato.
Ora, però, ed è questo il nostro sospetto, non vorremmo che Berselli, preso il giusto ritmo, decidesse l’anno prossimo, dopo aver affossato il ‘68 e la cosa ci lascia quasi indifferenti, di fare a pezzi il 1969. Speriamo che sia solo una nostra paura. Perché sul 1969 non si scherza: i metalmeccanici, piazza Fontana, Giuseppe Pinelli, il Cub Pirelli-Bicocca, il papà democristiano che prende la tessera della Cgil, «Il mucchio selvaggio» di Sam Peckinpah... Se il professor Berselli, o chi per lui, si azzarda a toccare il ‘69 dovrà fare i conti con noi. Se saremo ancora qui, s’intende.

l’Unità 12.11.07
Guidonia: la mente, le armi e i ritardi della psichiatria
di Luigi Cancrini


Si legge sempre più spesso, sui giornali, di servizi psichiatrici che erano stati consultati, giorni o settimane prima della crisi, da persone che hanno poi commesso delitti gravissimi. Nel caso ancora dell’uomo che ha organizzato una vera e propria strage a Guidonia, si è data notizia del fatto che gli era stata diagnosticata (e curata) una depressione. È davvero impossibile per chi lavora in questo campo prevedere l’esplosione di una follia come quella? Cos’è che non funziona ancora in questa branca così specifica della medicina?
Lettera firmata

Quello che particolarmente non va in questa branca così specifica della medicina è il livello di preparazione di tanti (troppi) che la esercitano senza essere adeguatamente preparati a farlo. Per motivi complessi che esulano, spesso, dalla volontà e dalle responsabilità individuali. Su cui un caso come quello di Guidonia apre, in effetti, una possibilità di discutere in modo estremamente interessante.
Prendiamo per buona l’idea che all’uomo che ha sparato a Guidonia sia stata posta una diagnosi di depressione. Che lui si sia presentato al servizio, cioè, proponendo un suo disagio, un suo star male collegato ai fatti della sua vita (il fallimento del matrimonio prima e del lavoro poi) che ha suscitato in chi lo ascoltava l’idea di avere a che fare con un paziente, appunto, depresso. Quello che sicuramente lui non ha permesso al suo interlocutore, in quella fase, è un contatto con il suo mondo interno: un mondo sconvolto, come si è saputo dopo, dall’idea assurda del “complotto” che gli permetteva di mettere fuori da lui le ragioni dei suoi fallimenti; un mondo delirante, cioè, di cui aveva sicuramente imparato che è importante non parlare a terzi. Che non ti credono. Di cui non è detto che tu ti possa fidare. Giocato tutto sul filo di una dissimulazione (nulla io ti dico di ciò che veramente sento) l’incontro che si è concluso con una diagnosi di “depressione” ha esitato, dunque, in un errore grave del tipo di quelli cui si va incontro spesso purtroppo in psichiatria quando della psichiatria non si ha sufficiente esperienza. Quando non si è avuta la possibilità di apprendere in una scuola di psicoterapia, cioè, la capacità di ascoltare, dietro e oltre l’apparenza delle cose dette, le cose che il paziente non dice con le parole. Il turbamento profondo dello sguardo e dei gesti. L’incongruità di un pensiero irrigidito dalla paura e dal bisogno di difendersi dal proprio interlocutore. La difficoltà a stabilire un rapporto di confidenza e intimità. La freddezza legata alla insuperabilità della distanza con l’altro e la violenza al calor bianco delle emozioni che il paziente non riesce a esprimere e raccontare. Si chiedeva Freud, tanti anni fa, se davvero è importante, per curare i disturbi psichici, l’aver conseguito una laurea in medicina. Quella che gli sembrava necessario, per medici e non medici, era infatti quella capacità speciale di mettersi in posizione di ascolto che si sviluppa intorno a una riflessione faticosa e continuativa sul funzionamento della propria mente che i medici raramente fanno. Capire e curare con una psicoterapia i pazienti (tanti) che non possono essere curati in nessun altro modo e quelli cui le altre cure (i farmaci) comunque non bastano richiede non solo e non tanto il titolo di laurea o di specializzazione quanto la disponibilità e la capacità di guardarsi dentro. Di riconoscere, utilizzandole, le emozioni che si provano nel rapporto con il paziente e con i suoi racconti. Di sapere sempre, su questa strada, che la depressione non è una malattia ma il sintomo di qualcos’altro che ha a che fare con l’esperienza profonda della persona e che c’è qualcosa dentro di noi che misteriosamente ci permette di entrare in rapporto con quel tipo di paura che inevitabilmente si collega alle convinzioni (deliranti) persecutorie nella mente di una persona gravemente malata.
L’errore commesso dal medico che ha creduto di poter diagnosticare uno stato depressivo in questo paziente era evitabile? Io credo di sì. La qualità del contatto che si ha con una persona portatrice di un disturbo delirante dovrebbe essere sempre riconosciuta o almeno intuita da un esperto che porta avanti il suo colloquio. L’incertezza e il dubbio, se a questo si resta, andrebbero affrontati consigliando un approfondimento di tipo clinico e/o testologico. Programmando altri colloqui con la persona ed eventualmente con chi le vive accanto o programmando l’applicazione di reattivi mentali come il Rorschach. Costruendosi comunque uno spazio mentale per la verifica e l’approfondimento. Sapendo dare il giusto valore e significato alle reazioni suscitate nell’altro dalla situazione della visita oltre che dal proprio commento o dal proprio intervento.
Ma evitando assolutamente soprattutto, finché non si è capito bene il suo problema, la somministrazione di farmaci potenzialmente pericolosi in quanto capaci di aumentare la tensione e l’irritabilità del paziente: come accade in questi casi soprattutto a chi incautamente somministra, a pazienti di questo tipo, degli antidepressivi. Argomenti di questo tipo hanno una qualche possibilità di essere valutati nello sviluppo successivo di questa vicenda? Probabilmente sì se, come è probabile, i giudici disporranno una perizia psichiatrica sulla persona che ha sparato a Guidonia.
Quello che ne seguirà tuttavia, anche se le cose stessero davvero così, se il paziente avesse davvero ricevuto una diagnosi e una terapia così profondamente sbagliati, non sarà un intervento (un provvedimento) nei confronti dell’errore sanitario che è stato commesso. Quelle che ho esposto qui sono convinzioni personali, infatti, non da tutti condivise sulla psichiatria e sugli psichiatri: su quello che dovrebbero o non dovrebbero sapere o fare. Convinzioni in linea con quanto insegnato da Freud e da chi il suo discorso ha seguito ma che poco o nulla piacciono ai medici che nulla sanno della psichiatria come dovrebbe essere e che si accontentano ancora di considerarla, la psichiatria, come una pura e semplice “branca” della medicina: un’attività basata sulla prescrizione di farmaci.
Quello cui ci troviamo di fronte oggi nel campo proprio della psichiatria è un ritardo di ordine culturale prima che organizzativo. Basato sulla sordità dei medici di fronte a tutto quello che gli psicoterapeuti hanno potuto capire in un secolo e più di lavoro sul funzionamento della mente umana. Su cui dovremmo riflettere e lavorare se davvero vogliamo porci il problema della sicurezza senza inventarci soluzioni che sono globali solo nell’apparenza e terribilmente povere di risultati nella realtà. Rinunciando a discutere, per esempio, di criteri da utilizzare nel momento in cui si concede il porto d’armi ad una persona che lo chiede: per motivi, spesso, che hanno rapporti stretti con una loro patologia.

Repubblica 12.11.07
Le sfide che attendono il pd
di Stefano Rodotà


La nascita del Partito democratico, la novità della procedura seguita, l´investitura del suo segretario rendono più stringenti alcune questioni che riguardano il funzionamento dell´intero sistema politico, e quindi interrogano non soltanto il nuovo partito. Provo a riassumerle in dieci punti.
1) Una vocazione all´"adattabilità" del nuovo segretario poteva aver fatto pensare, seguendo la dichiarata passione cinematografica di Veltroni, ad una sorta di partito Zelig, mimeticamente capace di adeguarsi ai diversi contesti in cui si trova ad operare. Ma la proclamata volontà di "coltivare fino in fondo la vocazione maggioritaria" rompe questo schema e punta su "un programma chiaro, magari rinunciando ad aggregare tutte le forze". Apparentemente lineare, questa impostazione fa nascere almeno quattro domande. Il Partito democratico ha al suo interno l´omogeneità necessaria per dar vita ad un programma chiaro, considerando il fallimento del "Manifesto" che avrebbe dovuto accompagnare la nascita del nuovo partito? L´omogeneità sarà cercata allontanandosi il più possibile dalle impostazioni della sinistra "radicale", come molti sostenitori del Partito democratico chiedono in modo insistente? Verso quale rappresentanza sociale si indirizza il nuovo partito? Quali prezzi si pagherebbero se si decidesse di correre il rischio calcolato di perdere le elezioni pur di affermare l´identità del partito?
2) Ma, si ricorda, le prospettive aperte dal modo in cui è nato il Partito democratico impongono uno sguardo diverso, perché al futuro del partito metteranno mano tre milioni e mezzo di votanti alle primarie, perché sta nascendo una cittadinanza attiva che farà saltare i vecchi schemi partitici. La logica partecipativa al posto delle oligarchie. Un partito non più piramidale, ma a rete. Proprio qui, tuttavia, nascono nuovi problemi. La "rete", a prenderla sul serio, è il mondo dei rapporti orizzontali, tendenzialmente insofferente proprio di leadership forti. Come si faranno convivere il "decisionismo" manifestato dal segretario ed una effettiva distribuzione di potere che dovrebbe arrivare al di là degli stessi iscritti? Si andrà verso una forma di partecipazione atomizzata o nasceranno forme anch´esse nuove di organizzazione collettiva, utilizzando sempre più intensamente le opportunità offerte dalle tecnologie e incidendo così sulla stabilità degli equilibri interni?
3) La nascita del Partito democratico pone domande perentorie, e finora eluse, alle forze che si trovano alla sua sinistra. Per le quali, finora, l´unico elemento unificante è stato rappresentato dalla formula, che riprende vecchi schemi, della "Cosa rossa". Si poteva ingenuamente ritenere che proprio la novità del Partito democratico avrebbe spinto ad una riflessione rapida, alla ricerca di forme chiare e visibili di organizzazione e azione comune. Invece, a parte qualche mossa azzeccata, abbiamo assistito a schermaglie, a fughe, a fedeltà invecchiate, a tentativi di resuscitare vecchie etichette. Calcoli senza lungimiranza e ossessioni identitarie oscurano l´orizzonte, in un momento in cui cambiamenti radicali imporrebbero uno sguardo più largo sul mondo, una capacità di capire e di proporre sostenuta da strumenti analitici anch´essi rinnovati. Se il Partito democratico pensa di tutelare la sua nascente identità persino a costo della sconfitta elettorale, nell´arcipelago della sinistra si manifestano pulsioni anch´esse pericolose verso elezioni anticipate che rischiano d´essere soltanto un espediente per sfuggire alle domande che la realtà impietosamente pone.
4) "Abbiamo un paese che non è governato da 12 anni". Piaccia o no questa sommaria diagnosi del Presidente della Confindustria, il rischio della trasformazione della crisi politica in crisi istituzionale è palese, la difesa acritica del bipolarismo continua testardamente a bloccare analisi serie del presente. Come già fece negli anni ´90, anche questa volta Berlusconi confida di trarre profitto dall´intrecciarsi di varie debolezze. Lo fa anche a costo di insediarsi su un cumulo di rovine, sbarrando la strada a qualsiasi riforma della legge elettorale che, pur nella sua parzialità, è lo strumento minimo per cercar di arrestare la deriva che stiamo vivendo. Lo intuì subito il Presidente della Repubblica, indicando in questa riforma la condizione per eventuali elezioni anticipate. Di fronte ai dati di realtà e ad una presa di posizione istituzionalmente così significativa, in altri tempi si sarebbe detto che per le forze politiche si poneva una questione di "responsabilità nazionale". Si può, a questo punto, trasformare in una trappola la virtuosa propensione a riformare la legge elettorale solo con il massimo consenso? O le forze che sentono quella responsabilità debbono ormai assumersela in pieno e, senza negarsi al dialogo, hanno il dovere di dire chiaramente che sono pronte ad approvare a maggioranza la riforma elettorale?
5) In questo clima, come si costruisce l´agenda politica? Sicurezza e fisco, questa sembra essere l´unico orizzonte della politica. Questioni urgenti, senza dubbio, ma che non possono schiacciare ogni altro tema, rendendo così inefficaci le stesse politiche della sicurezza che esigono sempre una molteplicità di interventi. Solo opponendosi alla riduzione d´ogni problema a questione d´ordine pubblico, alla nuova tentazione di una delega alla tecnologia che espropria la politica dei suoi compiti e delle sue responsabilità, è possibile non solo parlare ad una platea più larga di persone, ma soprattutto fare politiche davvero incisive, che vanno alla radice dei fenomeni, consentono impostazioni di lungo periodo, restituiscono ai cittadini la dimensione reale dei problemi che li preoccupano.
6) Bisogna disinquinare un ambiente sociale e istituzionale "polluted by politics of fear", inquinato appunto da politiche della paura, come continua a scrivere il "New York Times" analizzando la situazione americana. "La fabbrica della paura" è divenuta una grande industria, con dividendi politici ed economici assai elevati. Ma proprio chi vuole promuovere forme di cittadinanza attiva dovrebbe sapere che queste non fioriscono quando il clima culturale è propizio piuttosto a dare legittimazione ai "giustizieri della notte". Proprio perché si deve fronteggiare una situazione difficilissima, abbiamo bisogno di una sinistra con i nervi saldi.
7) Servono politiche che ci portino verso una più matura consapevolezza della necessità di costruire un´agenda che muova dalla constatazione che i diritti, o la loro negazione, stanno ridisegnando il mondo. Il Governatore della Banca d´Italia ha parlato di una miseria salariale che deprime i consumi. Dobbiamo dare il giusto valore a questa importante denuncia, ma andare oltre, per evitare la riduzione del cittadino a consumatore, per ribadire che la retribuzione è finalizzata in primo luogo a garantire al lavoratore ed alla sua famiglia "un´esistenza libera e dignitosa", come vuole l´articolo 36 della Costituzione, una delle pietre angolari di quella "costituzionalizzazione della persona" che impone di rispettarne l´autonomia e le scelte di vita. Dobbiamo ricordare che la democrazia non tollera scambi tra le diverse categorie di diritti, come ha ben detto Miriam Mafai parlando di un Pontefice che vuol liberare le persone dalle ristrettezze economiche, ma pretende pure di limitarne la libertà di decisione. Dobbiamo salvaguardare le libertà a tutto campo, opponendoci al dilatarsi della società del controllo, considerando l´ambiente tecnologico in cui vivono diritti vecchi e nuovi e che fa parlare della necessità di un Internet Bill of Rights, di un Genetic Bill of Rights.
8) L´Europa sembra lontana dalla politica italiana. L´orizzonte non può essere quello del litigio sulla collocazione del Partito democratico nel Parlamento europeo. Alla fine dell´anno prossimo diverrà vincolante la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. L´Europa diventerà così la più larga "regione dei diritti" del mondo. Una risorsa politica di cui si stenta a cogliere l´importanza, ma di cui proprio l´Italia dovrebbe chiedere la massima valorizzazione.
9) Non può esservi vera novità politica senza una rinnovata intransigenza, senza un recupero profondo del senso della legalità. Bisogna essere severamente moralisti se si vuole davvero reagire ad un rifiuto della politica che nasce proprio da un crescente disagio morale.
10) Il Partito democratico, insieme ad altri, è ogni giorno di fronte non al tema del rapporto con la religione, al ruolo del sacro nelle nostre società, ma alla concreta politica vaticana volta a cancellare valori costituzionali, a contestare la legittimità stessa di singole leggi. L´invito perentorio all´obiezione di coscienza dei farmacisti, che nega la logica del servizio pubblico, è una accelerazione ulteriore in questa direzione. Quale idea di Stato emergerà dai programmi e dalle azioni del Partito democratico?

Repubblica 12.11.07
Su Newsweek. Che cosa resta del '68, gli Usa si interrogano


IL SETTIMANALE statunitense Newsweek dedica la copertina al 1968, "L´anno che ha cambiato tutto". Christopher Dickey, capo della redazione parigina del settimanale e autore di numerosi saggi di politica estera, definisce l´epoca come pervasa soprattutto da un «sentimento dominante era piuttosto semplice: spazzare via le fondamenta dell´ordine costituito» e «arrivare a un futuro migliore e soprattutto più giusto». Secondo Dickey, non a caso gli slogan che si ricordano meglio sono «vietato vietare» e «sotto i sampietrini c´è la spiaggia». Nell´articolo anche un´analisi sul modo diverso con cui in Europa e Stati Uniti si visse quell´epoca: per la prima "colonialismo" e "fascismo" erano un passato con cui fare i conti, mentre per l´America «mere parole per riscaldare gli animi con i discorsi retorici». Dickey rintraccia nelle politiche di oggi gli echi delle rivendicazioni di quell´anno memorabile e sottolinea che molti tra coloro che furono nei cortei di allora sono stati in seguito e sono oggi leader di livello mondiale. L´articolo si chiude con un auspicio: che anche a Teheran, come accadde a Parigi, presto i ragazzi possano scoprire la spiaggia sotto le pietre e abbattere i divieti.

Corriere della Sera 12.11.07
Esce in Italia «La misura della mia speranza», raccolta di riflessioni che l'autore aveva pubblicato solo nel 1926
Borges. Il saggio rinnegato sulla patria e le sue glorie «Inutile cercarlo ancora, quel libro non esiste»
di Giovanni Mariotti


Con la pubblicazione del libro «rinnegato» («La misura della mia speranza») Adelphi prosegue sulla strada che, nel 2006, l'aveva già portata alla pubblicazione di uno dei libri più celebri di Borges, «Il libro degli esseri immaginari».
Sempre nel 2007, in Italia, sono poi uscite altre nuove edizioni di opere di Borges: «Manuale di zoologia fantastica» (Einaudi); «Elogio dell'ombra» (Einaudi); «Una via di poesia» (Spirali)

Nel 1926 le cronache culturali argentine furono movimentate da un visitatore sgargiante: Filippo Tommaso Marinetti. In mezzo agli applausi che ne accolsero l'avvento, vale la pena di isolare la reazione del ventisettenne Jorge Luis Borges. Un giornale di Buenos Aires gli aveva chiesto quale influenza avrebbero avuto Marinetti e il futurismo sulla cultura argentina. Con sdegnosa brevità Borges rispose: «Nessuna, qui non ci sono musei e antichità da distruggere».
Risposta recisa, che non dà conto di quanto la circostanza di vivere in un Paese «senza musei e senza antichità» — insomma senza Storia — fosse al centro dei pensieri di Borges, in quegli anni. Solo più tardi avrebbe capito che non possedere un passato proprio, un'ingombrante tradizione legata a una certa nazione o a una certa area, presentava il vantaggio non trascurabile di poter sentire come propri tutti i passati degli uomini, reali o fantastici.
Ma l'approdo definitivo al cosmopolitismo (ricordo il piacere ingenuo con cui il vecchio Borges pronunciava la parola «cosmopolita», e ne ricordava la facile etimologia: «cittadino del cosmo») era ancora lontano. Per capirlo, basterà al lettore aprire la raccolta di saggi La misura della mia speranza, pubblicata da Borges proprio nel 1926, e oggi tradotta per la prima volta in italiano (Adelphi, pp. 148, e 16).
Sin dalla prima pagina viene posta la domanda cruciale: «Che cosa abbiamo fatto noi argentini?», e, dopo un résumé, contenuto tutto nel giro di un capoverso che non esclude il tango, ecco la conclusione: «... penso che il lettore sarà d'accordo con me quando affermo l'essenziale povertà del nostro agire. Queste terre non hanno generato né un mistico né un metafisico, o qualcuno capace di sentire o intendere la vita... La nostra realtà vitale è grandiosa e la nostra realtà pensata miserabile».
Disamina per nulla indulgente... il che non significa ripudio. A 27 anni Borges non solo era argentino, ma faceva l'argentino (in seguito osserverà ironicamente: «Dato che ero argentino, non avevo nessun motivo di mascherarmi da argentino»). Declamava, con un piglio tribunizio che non sapeva ancora quanto gli fosse estraneo: «È ai criollos che voglio parlare; agli uomini che in questa terra si sentono vivere e morire, non a quelli che credono che il sole e la luna si trovino in Europa... Il mio argomento di oggi è la patria». Per sottolineare il suo criollismo, non esitava a colorare di vernacolo le pagine, scrivendo ciudá
invece di ciudad, realidá invece di realidad, eccetera. Allestì, con quello che aveva sottomano, un suo pantheon di glorie indigene. Compilò un canone di letteratura finto rustica e gauchesca. Come sono soliti fare i nazionalisti nati in Paesi periferici, insinuava che la speranza e il futuro potessero essere tanto più grandi quanto più modesti erano memoria e passato.
Tutto ciò sembrerà rilevante solo nel contesto di una biografia dell'autore di Finzioni, o di una storia dell'argentinità. Quanto, ne La misura della mia speranza,
valeva la pena di leggere, Borges l'avrebbe detto meglio nelle opere della maturità. Per questo impedì che il libro venisse ripubblicato nelle sue Opere complete; e a chi gliene chiedeva notizia, rispondeva: «Non lo cerchi, quel libro non esiste». Sarebbe tuttavia sbagliato credere che il solo interesse della riesumazione consista nell'offrirci un'immagine provvisoria e ingannevole del suo autore. La misura della mia speranza è un'opera sintomatica, cioè indicativa di un fenomeno, e quel fenomeno non ha smesso di essere attuale (penso a una recente intervista del turco Pamuk al
Corriere), anche se i suoi contorni sono col tempo mutati. Innumerevoli scrittori nel mondo si sono trovati, e probabilmente si trovano, di fronte allo stesso problema con cui il giovane Borges si confrontava: quello, diciamo così, di abitare la periferia.
Borges amava i sobborghi e li celebrava nelle sue poesie. Intuisco una connessione fra quell'amore e la percezione dell'Argentina come uno dei sobborghi del mondo (connessione che, nel corso di una lunga vita, avrebbe assunto coloriture diverse, come una grande metafora in continua trasformazione). Quando scrisse La misura della mia speranza Borges riteneva che uno dei suoi compiti fosse correggere un destino minore e insediarsi nel vuoto spazioso della letteratura nazionale. Ma col tempo l'intera letteratura, con ciò che presupponeva e testimoniava, assunsero per lui (credo) i tratti di un suburbio senza frontiere, di una banlieue metafisica.
Questa percezione, che la sua opera trasmette, è diventata patrimonio comune. Oggi abitare la periferia non ha niente di peculiare e di specifico. I conterranei di Dante, di Cervantes o di Shakespeare non si sentono più vicini al Centro di chi è nato in qualsiasi sperduto angolo del globo. L'illusione delle letterature nazionali è caduta, e la periferia è dappertutto. In quello spazio, che si sgrana e si sfrangia, gli scrittori vanno cercando, ognuno per suo conto, una giustificazione e una voce.

Corriere della Sera 12.11.07
Epopea. Lo scrittore antiminimalista e un'impresa kolossal: una saga sul Nuovo mondo
Vollmann: in America, alle origini della violenza
«I nostri avi sterminarono i nativi, noi ne abbiamo ottenuto benefici»
di Ranieri Polese


Una cronaca che si apre con lo sbarco dei vichinghi

Pensa in grande, William Vollmann. E scrive in grande, del mondo, della storia universale, del Bene e del Male, per niente intimorito da tutti i precetti minimalisti che hanno condizionato la letteratura americana degli ultimi decenni. Nel 2004, per esempio, pubblicava, in sette volumi di oltre tremila pagine, i risultati di una ricerca che lo aveva impegnato per vent'anni, equamente divisi fra studi in biblioteca e viaggi nei Paesi sconvolti dalle guerre (nel 1994, in Bosnia, la sua macchina fu colpita e i due compagni che erano con lui rimasero uccisi). Era Come un'onda che sale e che scende. E il sottotitolo spiegava intenti e contenuto dell'opera: Pensieri su violenza, libertà e misure d'emergenza.
Da quell'immenso lavoro, sempre nel 2004, estraeva un condensato di quasi mille pagine (pubblicato da Mondadori nel marzo di quest'anno, nella collana Strade blu). Massimalista per vocazione (o «nichilista costruttivo», come si definisce in omaggio a Nietzsche), Vollmann si proponeva di raccontare la storia del mondo come storia della violenza. Il cui sbocco, per esempio, sarebbe stato l'11 settembre (ma il libro era già concluso prima dell'attacco alle Torri) e il conseguente inizio di altre guerre.
Nel frattempo, a partire del 1990, Vollmann si era impegnato in un'altra impresa kolossal, i Sette sogni, che già nel frontespizio del primo volume promettevano di rendere esplicite «molte rivelazioni riguardanti alberi e fiumi, antenati, verità eterne, vichinghi, padri-corvo, violazioni, esecuzioni, assassinii, massacri». Tutto questo con le parole dell'alter ego di Vollmann, William il Cieco, cantore di un mondo lontano da quello del cieco Omero, ma non per questo meno epico. Questo «libro di paesaggi nordamericani» che ancora non si è concluso (quattro su sette sono finora i sogni pubblicati) comincia ora a essere tradotto anche in Italia. Da Alet di Padova, che fa uscire in libreria il primo sogno, La camicia di ghiaccio (traduzione di Nazzareno Mataldi, pagine 480, e 21, con glossari, cronologia, bibliografia, nonché disegni e mappe realizzati dallo stesso Vollmann).
È una grande epopea che parte dalla prima scoperta dell'America, quella dei vichinghi sbarcati in una terra verde e generosa di vino (Greenland e Vinland) nel X secolo dopo Cristo. Si basa, in molte parti, su saghe norvegesi e islandesi, sulle tradizioni orali degli inuit e degli indiani micmac, sulle interviste con moderni abitanti della Groenlandia. Racconta delle guerre intestine che portarono Erik il Rosso a lasciare la Norvegia per approdare prima in Islanda e poi, ancora più a ovest, in Groenlandia e nell'odierno New England. Ma questi rapaci conquistatori provocarono la rovina del Nuovo Mondo: là dove non c'era mai ghiaccio, la terra si coprì di gelo e ogni vegetazione scomparve. Tutto per colpa di Freydis, figlia bastarda di Erik, che stringe un patto con il diavolo e si copre con la Camicia di ghiaccio. Così, molti secoli prima di Colombo, i vichinghi lasciarono le loro disgraziate colonie per far ritorno a casa.
Il «New York Times», recensendo il romanzo, evocava la Tetralogia wagneriana (magari in versione eretica: regia di Sam Peckinpah, libretto adattato da Tolkien). Abbiamo chiesto a Vollmann, appena tornato in California da un soggiorno in Kosovo, se anche nei suoi Sogni, come nel ciclo di Wagner, c'è una maledizione originaria che condiziona il destino dei personaggi: «Sì, c'è una maledizione che simbolicamente, un sogno dopo l'altro, si materializza in oggetti diversi. Nella
Camicia di ghiaccio è l'ascia di ferro dei vichinghi; nel sesto, I fucili, sono le armi da fuoco. Insomma, sono i simboli di una tecnologia avanzata che provoca la rovina dei popoli meno evoluti». Partendo dai vichinghi, lei va in cerca delle origini della violenza nella storia del suo Paese? «Non c'è un'origine. Oramai, dopo la ricerca compiuta in Come un'onda che sale e che scende, sono sempre più convinto che la violenza è costitutiva della natura umana».
Ma la saga dei Sette sogni si può leggere come la denuncia dell'operato dei colonizzatori bianchi, che hanno sfruttato, decimato, praticamente annientato i nativi. «Non è così semplice, per me, dividere bene e male nella storia d'America. Da una parte io ho goduto, indirettamente, dei benefici che mi provenivano dalla crudele rapacità dei miei antenati nei confronti dei nativi. Ma anch'io sono un nativo americano, un californiano: perciò nei sentimenti che nutro nei confronti del mio Paese c'è molta ambiguità. E non potrebbe non esserci».
Lei ha detto che ha trovato una fonte di ispirazione nelle Metamorfosi di Ovidio, nei racconti di trasformazioni da uomo ad animale, a pianta, a stella. Ci attendono altre trasformazioni nel futuro o, invece, dopo la fine della preistoria mitica, è finita anche la storia? «Credo che ci saranno altre trasformazioni, e saranno estreme come tutte quelle già verificatesi. La camicia di ghiaccio si basa, in parte, su saghe norvegesi che cominciano nel regno del mito e gradualmente trapassano nella storia. Analogamente, nel romanzo, vediamo il progressivo indebolirsi degli elementi soprannaturali, fino al loro scomparire. Certamente, i miei Sette sogni trattano tutti, in diversi modi, del tema della perdita. La perdita, per l'uomo, della capacità di trasformarsi in orso può essere tragica e significativa come qualunque altra perdita».
Forse, la perdita più dura per Vollmann è stata quella dell'idea di un futuro inevitabilmente migliore. Dalla perdita di ogni speranza è nato Come un'onda che sale e che scende. Dove si legge questa frase desolata: «Se le speranze di ieri ci paiono oggi pie illusioni, come si può presumere che le speranze di oggi siano più plausibili di quelle di ieri?».

Corriere della Sera 12.11.07
Claude Lanzmann e il suo documento di oltre 9 ore sullo sterminio
Shoah, film-ricerca ciclopico sulla radicalità della morte
di Paolo Mereghetti


«C'è qualche cosa di magico in questo film» scriveva Simone de Beauvoir su Le Monde nel 1985, subito dopo la prima della monumentale opera di Lanzmann. Ma si potrebbe aggiungere anche che c'è qualche cosa di misterioso nelle nove ore e mezza di Shoah, il ciclopico lavoro di ricerca e di documentazione sui sei milioni di ebrei uccisi e «spariti» (perché inceneriti) nei campi di concentramento e nei ghetti.
L'idea di un film intitolato Shoah, dal termine ebraico che significa «distruzione» e che viene usato in alternativa a Olocausto, nasce in Claude Lanzmann all'inizio del 1973.
Nipote di ebrei russi, nato a Parigi nel 1925, entrato giovanissimo nella resistenza, saggista e giornalista (è direttore della prestigiosa rivista Les Temps modernes), inizia a occuparsi di cinema attraverso dei reportage televisivi. La realizzazione di Shoah occuperà undici anni della sua vita, di cui più di cinque solo per montare le trecentocinquanta ore di interviste. A chi? A tutti coloro che potessero in qualche modo ricostruire quello di cui si era persa qualsiasi traccia: la metodica eliminazione degli ebrei internati.
Diversamente dai film fatti prima e dopo sullo stesso argomento, Lanzmann evita di utilizzare qualsiasi tipo di materiale di repertorio (quasi sempre girato dagli americani e dai russi dopo la fine delle ostilità), si guarda bene dal porre interrogativi di tipo morale o filosofico (come fa dire allo storico Hilberg intervistato nel film: «Non ho mai cominciato dalle grandi domande perché temevo di ricevere delle risposte piccole») e dà come l'impressione di inseguire minuzie secondarie (i treni a Treblinka o ad Auschwitz spingevano o tiravano i vagoni dei deportati?). Ma in questo modo, quasi strappando parola dopo parola ai pochi sopravvissuti, ai contadini che abitavano nelle vicinanze dei campi, agli stessi aguzzini nazisti, riesce pian piano ad aprirci gli occhi sul buco nero dello sterminio nazista. Per raccontarci qualcosa che spesso sfugge alle parole e alle immagini: la «radicalità della morte».
Forse non c'è una vera ragione della smisurata durata del film, ma la magia di cui parlava la de Beauvoir nasce anche da questo andamento fluviale, dove non esiste una sola parola di commento e tutto si limita alla ricostruzione dei piccoli atti quotidiani. Di chi portava o mandava le persone a morire e di chi doveva entrare nei camion o nelle camere a gas. Capolavoro assoluto oltre che documento unico, l'edizione in 4 dvd del film (distribuito dalla Bim e pubblicato dall'Einaudi) è accompagnata da un prezioso libro con la trascrizione dei dialoghi, il saggio della de Beauvoir, un'intervista da Les Introcks eanche dai dialoghi di un film successivo di Lanzmann, Un vivo che passa.
SHOAH Regia di Claude Lanzmann 4 dvd Einaudi e un saggio di Simone de Beauvoir
Con i 4 dvd un saggio di Simone de Beauvoir

Corriere della Sera Roma 12.11.07
Lettere, ricordi e interventi politici. «L'occasione per entrare nel Pci furono i film»
Bettini, le stagioni della sinistra
Il carteggio con Pietro Ingrao, la passione per il cinema
di Edoardo Sassi


Gennaio 1992: «Caro Goffredo, torno a ringraziarti per l'articolo che hai scritto su di me...». 30 marzo 2005: «Caro Pietro, scrivo queste brevi note personali dopo più di dieci anni dal momento nel quale ho ricevuto la tua lettera...». Un carteggio, ma non solo, questo libro nel quale l'autore — Goffredo Bettini — pubblica il suo epistolario, tanto breve (quattro lettere, di cui due inedite) quanto intenso, con uno dei padri della sinistra italiana comunista: quel Pietro Ingrao, classe 1915, al quale Bettini ha sempre tributato, al di là dei diversi percorsi intrapresi negli ultimi lustri, il ruolo di maestro.
Un carteggio, si diceva, ma non solo: perché oltre allo scambio di missive il volume («Ponte Sisto» editore) contiene anche una serie di saggi in cui Bettini ha trascritto alcuni suoi interventi, più o meno recenti, sul tema del riformismo. Il libro rappresenta così l'occasione per ripercorrere, dal punto di vista di uno dei suoi protagonisti, l'ormai lungo cammino del principale partito della sinistra italiana (Pci, Pds, Ds, Pd) dal secondo dopoguerra — Svolta di Salerno, Togliatti, Berlinguer, compromesso storico... — fino alla svolta della Bolognina e oltre. Bettini, 54 anni, è infatti anche uno dei leader costituenti del neonato partito Democratico (da sempre, dai tempi del primo Ulivo, indicato come uno degli «strateghi» dell'evoluzionismo di sinistra) e a ben vedere proprio all'evoluzione che ha portato alla fondazione del Pd sono dedicate molte pagine del libro intitolato «A chiare lettere. Un carteggio con Pietro Ingrao e altri scritti» (il volume verrà presentato stasera alle 21 al Teatro Argentina, da Giuliano Ferrara, Anna Finocchiaro, Barbara Palombelli, Mario Tronti e Sergio Zavoli).
La prima lettera di Ingrao a Bettini e la risposta di quest'ultimo tredici anni dopo furono scritte in due momenti particolari. Ingrao scrisse a Goffredo dopo che questi gli aveva dedicato un articolo su «Paese Sera », commentando la sua decisione di non ripresentarsi alle elezioni per un seggio alla Camera, dove Ingrao era stato eletto ininterrottamente dal 1948 e di cui era stato presidente dal '76 al '79. La risposta di Bettini arriva invece nel giorno del novantesimo compleanno di Ingrao, 30 marzo 2005, festeggiato proprio in quell'Auditorium di cui Bettini era allora presidente prima di trasmigrare alla Festa del Cinema. Il cinema, che passione (e qualcosa di più): la comune fascinazione per la Settima Arte è uno dei fili rossi che intrecciano di continuo le 220 pagine del libro, dove si trovano anche scritti dell'autore dedicati a Pietro Germi e Pasolini. «L'occasione materiale per entrare nel Pci fu il cinema, caro Pietro, da noi così amato», gli scrive Bettini. E Pietro, come è noto, fu, oltre che allievo del Centro sperimentale, intimamente legato, anche per via di un'amicizia fraterna che lo legò a Giuseppe De Santis, alle vicende della grande stagione del Neorealismo. Chaplin, Umberto D, Rossellini... Riferimenti e citazioni cinefile sono lo spunto per più ampie riflessioni sui grandi temi dell'esistenza — dalla pena di morte alla solitudine dell'uomo contemporaneo — e dunque sul significato della politica,
vera protagonista del volume.
«Un libro che riflette più i dubbi che le certezze di questa enorme fatica che è fare politica», ha detto recentemente Bettini. Verissimo, stando alla lettura, e anche per certi aspetti sorprendente considerando chi quelle pagine le ha scritte: la politica di oggi, si legge ad esempio in uno dei tanti passi dove il grande dubbio fa capolino, è quella che «si consuma nell'ansia del fare e nei comunicati stampa», dove «c'è la ricerca del potere più che l'ambizione dell'esperienza ». Dal libro però (dedicato «A Walter, alla sua impresa che è anche la mia») traspare infine che unico riscatto alla precarietà del vivere e della politica è la politica stessa, di cui al dunque è rivendicato il primato pur nella piena consapevolezza delle contraddizioni e della difficoltà del cammino, anche di quello appena intrapreso (si legga, ad esempio, il capitolo dedicato al tema della laicità).

Liberazione 11.11.07
La scelta dell'Unità di non scioperare nell'era Angelucci
di Antonella Marrone


La redazione dell' Unità , con 41 voti contro 38, ha bocciato una giornata di sciopero contro la vendita della testata alla famiglia Angelucci. O per meglio dire: ha bocciato la preoccupazione che il giornale di Antonio Gramsci perda un po' del suo appeal fra i lettori di sinistra e che, nel contempo, diventi veramente un giornale espressione di altri valori. I valori di un imprenditore che ha nel suo "palmares" editoriale un giornale come Libero e che finanzia anche Il Riformista . Ma l' Unità non è Libero e non è neanche Il Rformista . Almeno agli occhi dei suoi lettori più affezionati. Uno sciopero che doveva essere una specie di altolà rivendicativo sulle origini e la "mission" del giornale, giusto per ricordare (o per far sapere ai nuovi possibili proprietari) che non tutto e non sempre è in vendita. Che alcune teoriche ma decisive questioni permeano ancora gli esseri umani. Fra queste la dignità del proprio lavoro e l'integrità della propria intelligenza. Ora è facile capire.
Dire che di fronte allo spettro di una crisi aziendale e della cassa integrazione i lavoratori si pongano il problema di come uscirne e vogliano ragionarci sopra. E' un diritto dovere. Del resto l'Unità è rinata dalle "ceneri" di tanto affanno sindacale, dopo una crisi lacrime e sangue che ha visto falcidiare la redazione, dopo 9 mesi di estenuanti trattative e di promesse politiche con il giornale fuori dall edicole. Mesi attraversati da tensioni anche nella redazione, ovviamente, segnati da gesti forti come la manifestazione dei lavoratori sotto Botteghe Oscure per protestare con l'allora editore. Insomma tra critiche e polemiche, compatti o in ordine sparso, alla fine i lavoratori trattarono, ma c'erano stati segni di vita, come dire, reattiva. Qualche principio fu mantenuto (l'area politica di riferimento, ad esempio) e lo fu grazie anche alle richieste, alle assemblee, alle oramai vecchie questioni di principio.
Comunque questo fa parte del passato, mentre è normale che oggi si cerchino nuovi metodi di confronto politico, anche per affermare - nel caso ve ne siano - i propri principi.
Per questo non è stata esattamente un'assemblea a bocciare lo sciopero. L'assemblea è uno sbocco antico, che appartiene a vecchie forme di democrazia sindacale. L'Unità, che è un giornale come tutti gli altri, ossia sul mercato, si è adeguata ai tempi. E non potendo fare le primarie perché non c'erano partiti da fondare, ha optato per un referendum (che generalmente si fanno su accordi sottoscritti dal sindacato e non sugli scioperi). Così, dopo un'assemblea che aveva affidato al Cdr un pacchetto di sei giorni di sciopero e un'altra che aveva dato un mandato per il primo di questi scioperi, una parte della redazione, quella forse più politicamente impegnata, ha raccolto le firme per un referendum: sciopero si o no? Chissà se il Cdr avrà problemi identitari o se si sentirà delegittimato, ma la scelta di non scioperare, operata con l'antico e discutibile sistema di Ponzio Pilato, non dà un'immagine di forte ancoraggio politico o "etico" (come invece dai tanti corsivi e commenti politici ci era parso di capire). Probabilmente una parte di questa maggioranza che ha votato contro lo sciopero si sarà chiesta perché contrastare il mercato e la libera imprenditoria, così come ha ben detto Vittorio Feltri in più di un'occasione. Un'altra parte, forse, quella più idealista, si sarà posta la questione politica: Veltroni si sta dando molto da fare insieme a Fassino (che dopo i monaci birmani ha preso a cuore anche la questione del giornalisti dell'Unità) per ridimensionare il peso economico degli Angelucci nella proprietà. Diamo loro credito, facciamoli lavorare. Ecco che si sono saldati due ottimi motivi per evitare di dare un segnale forte sia dal punto di vista etico-politico sia dal punto di vista economico. Del resto c'è chi sostiene - con qualche ragione - che la politica abbia ormai appaltato l'etica ai preti e l'economia agli imprenditori. Di che cosa dovrebbe occuparsi? L'Unità, da grande quotidiano quale è, sta al passo con i tempi.