mercoledì 14 novembre 2007

l’Unità 14.11.07
Il libro di Bettini
Generazione senza Muro
di Sergio Zavoli


Il testo è tratto dal discorso che Sergio Zavoli ha tenuto lunedì sera al Teatro Argentina di Roma per la presentazione del libro «A chiare lettere» di Goffredo Bettini

Goffredo Bettini è un intellettuale formatosi con una generazione che porta in se stessa una grande ferita della storia: di fronte ai muri che cadono, per confrontarsi con un’autentica sofferenza sceglie quella di una personalità complessa, di grande ricchezza umana e civile, Pietro Ingrao, un politico di rango, incapace di uscirne con l’abiura, e perciò testimone esemplare di quella ferita. Il dialogo tra Bettini e Ingrao, in cui i conti non si fanno più sul «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» di Montale, è un documento di rara, persino spietata trasparenza. L’epistolario, dunque, è la chiave interpretativa di cose che hanno ancora le radici dentro un’ormai remota, sconfessata passione.
Alla storia politica di entrambi, cioè di Ingrao e di Bettini, sebbene li divida un certo numero d’anni, sono stati tagliati tre rami (Pci, Pds, Ds) e da quelle privazioni è nato, ogni volta, un liberante fattore di conciliazione rispetto alla propria vicenda anche personale. A chiare lettere, in questo senso, ha qualche non casuale assonanza con un altro libro, Memorie di una ragazza del secolo scorso, di Rossana Rossanda. Certo, queste ultime sono pagine più vicine alla temperie vissuta da Ingrao, rispetto a quelle di Bettini, anagraficamente più lontane, ma vi si trovano atmosfere e sentimenti che attraversano esperienze comuni e, al tempo stesso, diverse. Non si tratta, nell’un caso e nell’altro, di ripescare temi annegati nel «mare dell’oggettività», ma di non arrendersi, per dirla con Calvino, al «corso del mondo». È quello che fa Bettini, vivendo una storia cui è toccato, per la velocità del cambiamento, di essere sempre più contemporanea di se stessa.(...)
A chiare lettere affronta il tema scabroso della conversione da uno sbugiardato bigottismo ideologico a un laicismo che chiama in causa il rischio personale, con la sola garanzia della propria non barattabile libertà. È uno dei versanti fondamentali del libro: il mio amico Piero Coda, presidente dei teologi italiani, provocato sul tema delle scelte cruciali della vita, ha scritto: «Il senso tragico dell’esistenza umana sta nella coscienza per noi insuperabile della nostra responsabilità nel realizzare quella forma che la vita ci affida fino al limite della morte». Bettini, qui, a mio avviso tocca un punto alto di condivisione e di responsabilità: non sfugge infatti a una domanda concreta, politica: se cioè tutto ciò che è possibile è per ciò stesso anche lecito. Chiunque di noi sa che proprio nella politica Bettini sta esercitando la sua più intima e razionale compromissione con questo nuovo snodo postogli da una storia non solo sua, ma anche dei cattolici, o di una gran parte di essi. E sono proprio questi i giorni in cui è impegnato a creare una inedita, intelligente condivisione tra persone e cittadini diversi, rispetto al tema proprio della laicità.
Bisognerà disporsi, insomma, a una lettura nuova del rapporto tra Storia e Dio, vale a dire, a chiare lettere, tra questa e un’altra vita. Con una rivisitazione rispettosa e intelligente di regole, deleghe e deroghe che la laicità dovrà affrontare perché Dio non si identifichi solo nelle riserve, nei pregiudizi e nei dinieghi, ma anche nell’accoglienza del nuovo e del buono che permeano l’ecclesia, ma attraversano anche la comunità civile. Non andranno incoraggiate, di conseguenza, le intromettenze della politica, e meno ancora dell’ideologia, nelle questioni generate dal positivismo sperimentale della scienza, con le tecnologie sempre all’erta per cavarne cose, per la verità, non sempre nobili: qui la politica dovrà essere moderatrice e strumento ordinatore di materie che vanno sottoposte a giudizi di valore, con spirito di libertà e di ricerca, ma anche filtrati da codici interiori: a cominciare dalle norme di carattere etico. L’incontro, nel Pd, di due grandi culture, e di altre ancora, tutte fondate sulle rispettive diversità, non saranno, postula Bettini, un problema angustamente identitario, ma l’occasione di un’esperienza condivisa in nome di un progetto aperto, lealmente, a una comune, reciproca e riconosciuta diversità.
Bisognerà inoltre chiedersi se possa o no essere lecito pensare che anche un’etica razionale sia generatrice e portatrice di principi a loro volta ispiratori di altri sistemi valoriali, cioè di altre etiche nelle quali riconoscere - in ragione della pari dignità - diritti e doveri corrispondenti a un delicatissimo interesse di carattere generale; reclamando con ciò un’attenzione più realistica ed equa alle novità straordinarie introdotte dalle conoscenze teoriche, dalle tecnologie sperimentali e, come valore riassuntivo, dalla storia stessa. Bettini non ha, in materia, una duttilità opportunistica: al contrario è per la compromissione più profonda e dialetticamente più creativa. Una novità che, in altri tempi, sarebbe stata una ferma risposta ai dileggi in voga sul cosiddetto catto-comunismo.
Penso a quando, con la sua giovinezza, Goffredo fu in una posizione di singolare rilievo che implicava responsabilità intellettuali e morali riconducibili alla qualità della politica: già nell’80 era membro della direzione del Pci, quella delle grandi icone, e segretario della Federazione romana del partito. Viveva un momento di straordinarie accelerazioni della sua carriera politica, si facevano per lui ipotesi di valorizzazione che andavano al di là dell’osservanza di una tradizione attendista, fondata sulle cosiddette, magari un po’ bigotte, «prudenze illuminate». Già allora Bettini dovette misurarsi, fino a sacrificarne una gran parte, con «il patrimonio accumulato dalla parte dei sentimenti», per citare una bella espressione di Norberto Bobbio. Oggi è qui, con questo libro, approdato a una ricchezza di pensiero, di volontà, di utopia che si affida alla capacità della politica di liberare, non solo di redimere, la sua storia.
Ricordo quando la caduta del muro di Berlino mise in campo la responsabilità, non solo ideologica e politica, del dover prendere atto che un’epoca vista attraverso la Tv non avrebbe potuto, prima o poi, non rivelare un mondo attardato, e poi sconfitto, nelle sue illusioni e dalle sue colpe.
Penso al prezzo che uomini come Bettini, quando lo strappo venne a scadenza, pagarono al dover saldare il conto non solo politico, ma anche civile, culturale, etico delle loro scelte; senza rivalse o rinnegamenti, perché quel che contava non era rivendicare attestati di veggenza o certificare pentimenti, ma condividere la scoperta proprio dell’errore. Spesso, in quegli anni, ci si comportò come se non potesse che succedere quanto stava accadendo, e fossimo condotti per mano dalla televisione a vedere i risultati di una storia che esisteva, per i più, in quanto veniva mostrata; diventando oggetto di curiosità e di sorpresa, anziché essere letta come il frutto dell’agire e della decisione di produrla. Fra tante inquietudini - è detto nelle pagine di Bettini - ci solleva l’idea che non sia andata completamente perduta l’antica saggezza secondo cui c’è da allarmarsi quando la vita ha bisogno di promesse e di impegni straordinari, non quando ci si educa alla normalità, cioè a quella condizione favorevole all’intelligenza che, come nella storia di Ingrao, salva persino la sua lieve malinconia di poeta. (...)
Leggendo queste righe, che appartengono al corpo di riflessioni più inedite, inquiete e coraggiose dell’autore, confesso di avere avuto la sensazione di vivere un mistero, se così posso dire, religioso: quello di una generazione che si è mossa dentro il suo travaglio come i «ladri nella notte», al tempo in cui «il silenzio dei comunisti» era tutt’uno con le meditazioni notturne sul «Dio che è fallito», quando Reichlin, la Mafai e Foa s’interrogavano nel silenzio, rispondendosi con un altro silenzio - ma assordante, pauroso, ultimativo - che prima o poi avrebbe preteso di portare tutto alla luce.
Per parlare «a chiare lettere», come fa Bettini, non più disposti a essere come i cappotti della metafora pirandelliana, quella del maestro che crede di parlare ai suoi scolari, i quali non gli rispondono semplicemente perché sono i loro cappotti: in fila, ordinati e, appunto, silenziosi. Questo libro, in tempi di gravi cecità e strabismi, ha sullo sfondo lo scenario di un’apertura risoluta e incoraggiante, coglie aspetti di netto e forte rilievo umano e politico, civile e culturale. Essere qui a parlarne è segno di qualcosa che va cercando il suo momento; ciascuno lo veda come sa e vuole. Il libro è qui per riportare una grande e tragica storia al grado più alto di consapevolezza e responsabilità, coraggio e passione, perché il titolo dato a queste pagine non si limiti a richiamarle alla nostra attenzione. Per non dover dire, come fu umano tanti anni fa, che volevamo la luna.
Dimenticavo: la dedica del libro è a Walter. A chiare lettere, più che mai.

l’Unità 14.11.07
Hollywood, confessa: sei comunista?
di Alberto Crespi


DOCUMENTARI Sky lo programma in questi giorni: in 25 minuti ecco la storia di come il maccartismo abbia seminato odio e disperazione nella fabbrica del cinema cercando comunisti. «Hollywood 10», perché dieci sono i cineasti sotto accusa...

Il 6 dicembre 1938 Hallie Flanagan, direttrice del Federal Theatre Project (un’istituzione teatrale creata da Roosevelt nel 1935, nella quale lavorarono anche Orson Welles e Joseph Losey), venne chiamata a testimoniare davanti alla commissione per le attività anti-americane. La interrogò Joseph Starnes, deputato democratico dell’Alabama. Dal verbale:
Starnes: «Leggo qui in un suo articolo che lei, parlando degli operai che parteciparono al Federal Theatre Project, fa riferimento a, cito, “una certa follia marlowesca”. Chi è questo Marlowe, un comunista?» (il pubblico che assiste all’udienza scoppia a ridere).
Flanagan: «Ma… citavo Christopher Marlowe, ovviamente».
Starnes: «Bene, ci dica chi è questo Marlowe, cosicché possiamo comprendere la giusta relazione».
Flanagan: «Sia messo a verbale che Marlowe è stato il più grande drammaturgo del periodo antecedente la venuta di Shakespeare».
Starnes: «Sì, sia messo a verbale, perché l’accusa nei suoi confronti è che il suo articolo trasuda comunismo da tutti i pori».
Questo dialogo degno di Ionesco è tratto dal libro Fuori i rossi da Hollywood! Il maccartismo e il cinema americano, di Sciltian Gastaldi, edizioni Lindau. Ed è storicamente vero. Il pericolo, quando si parla del maccartismo e della caccia alle streghe degli anni ’40 e ’50, è di scambiare tutto per una gigantesca barzelletta. I numerosi verbali delle udienze tenute davanti all’Hcua (l’acronimo per «House Committee for the Un-American Activities», la suddetta commissione) sono spesso surrealismo allo stato puro. Eppure, dietro quel profluvio di idiozia burocratica si nasconde un vulnus molto grave inflitto alla democrazia americana, una spirale di nevrosi anti-comunista che non può essere semplicemente giustificata con le necessità politiche e propagandistiche della guerra fredda. Anche perché, come abbiamo visto, il vulnus comincia già negli anni ’30 - l’udienza testé citata è del ’38 - e la cosa non deve stupire, se si pensa a quanti americani erano convinti che gli Usa dovessero allearsi con la Germania di Hitler, e non certo con l’Urss di Stalin. La Hcua viene istituita dalla Camera degli Stati Uniti il 26 maggio 1938 e viene abolita ufficialmente solo nel 1975, anche se dagli anni ’60 è praticamente inattiva. Il maccartismo - nome con cui si identifica quel periodo, dal senatore repubblicano Joseph McCarthy - inizia ben prima dell’ascesa politica dello stesso McCarthy e prosegue oltre la sua morte, avvenuta il 2 maggio 1957.
In questi giorni viene programmato su Studio Universal il documentario - realizzato dallo stesso canale - Hollywood 10. Se siete abbonati a Sky, cercate di vederlo: è breve (circa 25 minuti) ma ben fatto, e assai istruttivo. Parte dal 1947, quando la Hcua ha già 9 anni di vita: ma è l’anno - esattamente 60 anni fa - in cui la sua attività investigativa «punta» Hollywood in modo violento. Molti registi, attori e produttori testimoniarono con grande solerzia, denunciando le infiltrazioni comuniste nell’industria cinematografica. Nella seconda parte il documentario si concentra sui cosiddetti «10 di Hollywood», un gruppo di cineasti che divennero il simbolo della resistenza alle intrusioni della commissione. Vale la pena di ricordare i loro nomi: Ring Lardner Jr., Dalton Trumbo, Edward Dmytryk, John Howard Lawson, Adrian Scott, Samuel Ornitz, Alvah Bessie, Lester Cole, Albert Maltz, Herbert Biberman. Dmytryk e Biberman erano anche registi, gli altri erano scrittori. Non tutti erano famosi. I più bravi erano Lardner (autore anche di magnifici racconti, 2 Oscar a distanza di quasi 30 anni con La donna del giorno, del ’42, e M.A.S.H., del ’70) e Dalton Trumbo (lo sceneggiatore di Spartacus, anch’egli 2 Oscar… ma sotto pseudonimo: come Robert Rich per La più grande corrida, 1957, e come Ian McLellan Hunter per Vacanze romane, 1953). Dmytryk, il regista di I giovani leoni e di Ultima notte a Warlock, è quello che tradì: messo sotto pressione, denunciò numerosi compagni, come Elia Kazan che però - nonostante la memoria spinga a identificarlo con loro - non era uno dei «10».
Anni fa incontrammo Dmytryk al festival di San Sebastiano, in Spagna. Gli chiedemmo un’intervista, gli dicemmo che eravamo dell’«Unità» - sapeva benissimo cos’era - e gli buttammo là, con grande cortesia (era pur sempre un signore di quasi 90 anni!), una domanda sul suo «tradimento». Non si tirò indietro. Parlò a lungo dei suoi sogni giovanili, del comunismo come utopia, e della sua denuncia che ancora difendeva, «perché era necessario rivelare i metodi stalinisti interni al partito». Probabile fosse vero. Negli anni 30 e 40 tutti i partiti comunisti del mondo erano «stalinisti», anche se non tutti fucilavano i propri iscritti o li mandavano nei gulag. Ciò che ci sembra interessante dire, oggi, è che nell’America degli anni 40 e 50 il vero stalinismo era quello della commissione, che interrogava i sospetti in modo arbitrario e puntava solo ad ottenere ulteriori delazioni, per allargare il campo del nemico e dimostrare che i «rossi», in America, erano milioni. Poi, certo: il maccartismo non ha ucciso (quasi) nessuno, ha «solo» rovinato la vita di centinaia di cittadini. Ma è stato un momento in cui la democrazia americana si è trovata in pericolo. Questo, ai tempi di Bush, è bene non dimenticarlo.

Libri e film
per capire il maccartismo
Ci sono 3 possibili approcci al periodo del maccartismo attraverso i film, e sono tutti buoni. Studio Universal, in questi giorni, propone - oltre al documentario Hollywood 10 del quale parliamo qui accanto - alcuni film scritti dai 10 prima di essere costretti all'inattività o alla clandestinità: e rivedere titoli come L'ombra del passato, Sahara, La donna del giorno o Anime sporche fa sempre bene, agli occhi e al cuore. Un altro approccio, più indiretto ma forse addirittura più interessante, sarebbe rivedere (e ripensare) alcuni film dei «traditori» Kazan e Dmytryk: entrambi hanno passato anni ad espiare, attraverso i film, il proprio senso di colpa, e la cosa è molto evidente anche in capolavori come Fronte del porto (di Kazan) o Ultima notte a Warlock (di Dmytryk). Il terzo approccio riguarda i film che, in anni successivi, hanno ricostruito quel periodo storico. Il più importante rimane Il prestanome, diretto da Martin Ritt, interpretato da Woody Allen e scritto da Walter Bernstein, uno sceneggiatore a suo tempo finito sulla lista nera. Altri film sul tema: Come eravamo, splendido melodramma di Sydney Pollack con Robert Redford e Barbra Streisand; Indiziato di reato di Irwin Winkler, con Robert De Niro; e il recente Good Night and Good Luck di e con George Clooney, sugli effetti del maccartismo nella tv e nell'informazione. Per saperne di più: Fuori i rossi da Hollywood! di Sciltian Gastaldi, Lindau; Lillian Hellman, Pentimento e L'età dei furfanti, entrambi Adelphi; Giuliana Muscio, Hollywood-Washington. L'industria cinematografica americana nella guerra fredda, Cleup, Padova, e Lista nera a Hollywood, Feltrinelli; Larry Ceplair e Steven Englund, Inquisizione a Hollywood, Editori Riuniti; e l'autobiografia di Elia Kazan (A Life), libro straordinario qualunque sia il giudizio morale sul suo autore. al.c.

Se dovessimo descrivere la natura del Creatore partendo dallo studio della creazione, diremmo che Dio ha una passione sfrenata per le stellee per i coleotteri
J.B.S. Haldane

l’Unità 14.11.07
«Kriminalfilm», il noir di Arthur Schnitzler
di Luigi Reitani


INEDITI Una sceneggiatura dello scrittore e drammaturgo viennese per un film poliziesco. Fu tra i primi a capire l’importanza del cinema ed è uno degli autori più «filmati»: da Ophuls a Kubrick

Quando, nell’ottobre del 1931, Arthur Schnitzler muore a Vienna all’età di sessantanove anni, ha sul suo tavolo il progetto di una sceneggiatura originale per un «film poliziesco» di cui ha già abbozzato le prime scene: una donna è stata assassinata in un albergo, una coppia di amanti che occupa la stanza accanto viene interrogata dagli investigatori, le ragioni dell’omicidio sembrano inesplicabili. Un ottimo inizio per un noir d’autore. Non si trattava di un interesse tardivo verso un genere alla moda, da parte di uno scrittore ormai giunto al termine della carriera. Schnitzler aveva scoperto le potenzialità espressive del nuovo mezzo estetico già molti anni prima, quando la nascente industria cinematografica, che allora aveva il suo centro in Danimarca, aveva a sua volta intuito che le opere dello scrittore si prestavano molto bene a essere trasportate sul grande schermo, sia per i loro contenuti che per il loro stesso statuto formale. Uomo di lettere e di teatro, Schnitzler non opporrà resistenze estetiche alla nuova arte, ma cercherà di indirizzare al meglio la versione filmica delle proprie opere, collaborando quando possibile alle sceneggiature e intervenendo con suggerimenti e consigli. Così invano l’autore si opporrà all’inserimento delle didascalie, allora d’obbligo, nel primo film muto tratto dal suo dramma Amoretto, giudicandole superflue per una storia che si sarebbe dovuta reggere sulla forza delle immagini, quasi che il film fosse la traduzione visiva del linguaggio verbale. E tra i primi capirà l’importanza della musica d’accompagnamento, che allora variava a seconda delle città e delle sale, e che egli voleva almeno uniformata ovunque.
Non stupisce così vedere Schnitzler impegnato negli anni Venti come consulente di una casa di produzione cinematografica viennese. E non stupisce che tra i suoi abbozzi inediti vi siano progetti per film. Su sollecitazione del regista Georg Wilhelm Pabst, interessato a una sua possibile realizzazione, poi naufragata, Schnitzler trae una prima sceneggiatura per lo schermo anche di Doppio sogno - la novella che ispirerà l’ultimo film di Kubrick Eyes Wide Shut - abbozzando 54 quadri e arrestandosi prima della festa mascherata e del parallelo sogno di Albertine. E mentre l’autore registra puntualmente nel Diario (monumentale cronaca dell’intera vita) i film che ha visto, i diritti delle sue opere sono contesi dalle maggiori case di produzione. Sono così in tutto sette i film ispirati ai libri dello scrittore quand’egli è ancora in vita. Ma la vera fortuna cinematografica di Schnitzler si sviluppa solo nel secondo dopoguerra. Dall’indimenticabile La Ronde (1950) di Max Ophuls agli esperimenti del cinema di avanguardia, dalle produzioni televisive austriache e tedesche alle interpretazioni italiane di Pasquale Festa Campanile o Roberto Faenza, da scadenti produzioni commerciali alla potenza visionaria di Kubrick non c’è genere e paese che non abbia contribuito a questa «seconda vita» dell’autore, che conta oltre settanta pellicole.
A questo avvincente rapporto è dedicato un convegno internazionale di studi che si apre oggi all’Università di Udine (fino a sabato, programma dettagliato in www.abaudine.org), accompagnato da una mostra documentaria e da una ricca rassegna cinematografica che sarà poi variata e iterata a Pordenone e a Trieste, in cui si potranno vedere alcuni tra i film più rari ispirati all’opera dello scrittore, come Der junge Medardus di Michael Kertész (il regista di Casablanca).
In questa pagina proponiamo, per la prima volta in Italia, gli ultimi quadri della sceneggiatura per un «film poliziesco» (Kriminalfilm) a cui Schnitzler stava lavorando prima della morte. Le prime 25 scene sono state tradotte e pubblicate da Leonardo Quaresima in Sogno Viennese (La casa Usher, 1984). Il manoscritto si interrompe dopo le ultime battute.

Perché mia figlia avrebbe dovuto uccidersi?
di Arthur Schnitzler
Traduzione di Luigi Reitani
26
Nella stanza accanto Hilde e Franz. Si accingono ad andarsene.
Bussano alla porta. Hilde spaventata a morte.
Il commissario entra, saluta in tono molto cortese, nota il turbamento di Hilde.
Il commissario Devo solo farvi qualche domanda. Non c’è ragione di agitarsi. Non vuole accomodarsi, signora?
Hilde si siede. Franz resta in piedi.
Commissario Si tratta di questo: nella stanza accanto c’è stato un incidente.
Hilde Per l’amor del cielo, che cosa è successo?
Commissario Nulla che la possa riguardare direttamente. Volevo solo chiedervi se avete notato qualcosa, se per caso avete sentito parlare ad alta voce o se avete percepito dei rumori.
Hilde Niente, niente, assolutamente niente, signor commissario.
27.
Stazione. Atrio degli arrivi. Normale trambusto. Passeggeri in arrivo, tra loro anche Weber, un uomo giovane con una valigetta. Dall’atrio si reca al buffet, ordina una colazione.
28.
Il commissario. Hilde e Franz nella stanza dell’hotel.
Commissario Non avrete alcuna noia. È una pura formalità. Probabilmente il giudice istruttore non vorrà neppure ascoltarvi.
Hilde Ma io non ho sentito nulla, non ho visto nulla.
Commissario Si calmi, signora.
Franz (guardando l’orologio) Possiamo andare, adesso?
Commissario Senz’altro.
Hilde e Franz vanno via.
29.
Il commissario di nuovo nella stanza numero 7.
Commissario (rivolto al proprietario dell’hotel) E l’altra stanza non era -
Proprietario dell’hotel No - nessuno.
30.
Hilde e Franz scendono le scale.
Franz Perché hai detto il tuo nome?
Hilde Non potevo fare diversamente. Anche tu, del resto.
Quando stanno per varcare la porta dell’albergo arriva una autoambulanza.
Hilde Per l’amor del cielo - ma questa -
Franz Vieni, vieni!
Attraversano rapidamente la strada; si fermano a un angolo.
Hilde Telefonami a mezzogiorno. Si allontana rapidamente.
Franz in direzione opposta.
31.
La signora Dolein aspetta ancora la figlia a colazione.
32.
Weber in stazione paga il conto, esce per strada.
Sigaretta. Prende un taxi, si allontana.
33.
Nella casa dei Weber, pianerottolo.
Hilde arriva, suona il campanello. La cameriera apre.
Hilde Il signore è già a casa?
Cameriera Non ancora, signora. Non sono ancora le dodici. Il treno non è ancora arrivato.
34.
Aula dell’università. Studenti. Entra Franz, saluta i colleghi.
35.
Abitazione della signora Dolein. La figlia non è ancora tornata. Visita di un’amica a cui comunica la propria inquietudine. Non riesco proprio a capacitarmi. Non è mai accaduto. Tutta la notte fuori di casa. È quasi mezzogiorno.
36.
Redazione di un giornale. Consueta attività. Un giovane intento a correggere. L’impaginatore porta le bozze fresche di stampa. Titolo leggibile, a grandi caratteri. «Omicidio o suicidio?» La sconosciuta. - Poi si vedono altri titoli: «Incidente automobilistico» - «Inondazione» ecc.
37.
Casa di Weber.
Weber con la valigetta, sale le scale.
Davanti alla porta, suona.
Targhetta sulla porta: Anton Weber (artista umoristico di varietà, correttore di bozze, agente)
Mentre il campanello suona, rapida inquadratura: Hilde in sala da pranzo, ha appena apparecchiato la tavola, ha un sobbalzo improvviso.
La cameriera apre la porta. Weber, molto allegro, entra nella stanza dov’è Hilde, scambio un po’ esagerato di effusioni e saluti da entrambe le parti. Viene servito il pranzo.
Hilde Com’è andato il viaggio?
Weber Sono contento di essere a casa. La prossima volta devi venire con me.
38.
Di nuovo la redazione del giornale. Prosecuzione della notizia. La sconosciuta aveva un abito rosso a maglia, calze di seta marroni, scarpe basse marroni.
39.
Dalla signora Dolein. L’amica.
L’amica Devi sporgere denuncia.
Il giornale. Lo ha mandato a prendere la signora o lo porta la cameriera.
La signora Dolein legge la notizia: «Omicidio o suicidio di una sconosciuta … con un abito rosso a maglia, calze di seta marrone, scarpe basse, collana d’ambra». - Mortalmente spaventata. Va via precipitosamente. L’amica legge il giornale: collana d’ambra - Obitorio…
40.
Abitazione di Weber.
Viene portato il caffè. Lui fuma un sigaro, lei si accende una sigaretta. Lui si siede al pianoforte e suona (eventualmente). Questo pezzo ha avuto ieri l’applauso più lungo. La prossima volta devi venire con me. Senza di te non mi metto più in viaggio. La cameriera porta il giornale.
Mentre Weber suona il pianoforte, Hilde scorre il giornale.
«Omicidio o suicidio». In un hotel che non gode della miglior fama… Le indagini sono in corso.
Weber smette di suonare, si siede accanto a Hilde. Ora leggono entrambi la notizia. Poi Weber guarda l’orologio, ha da fare, la saluta, va via.
41.
La signora Dolein diretta al riconoscimento della salma. Per le strade. In commissariato. In ospedale, ecc,
La signora Dolein e il commissario, nel corridoio davanti all’obitorio oppure in un ufficio.
La signora Dolein È lei. È mia figlia. Chi l’ha uccisa?
42.
Un professore detta il referto o meglio la denuncia di morte. Una dose in grado di procurare la morte nel giro di qualche minuto. Nessun segno di violenza subita, nessuna ferita, nessuna traccia, neppure la più piccola, che il veleno sia stato somministrato perfidamente. Con ogni probabilità è da ipotizzare un suicidio.
43.
Commissario dalla signora Dolein.
La signora Dolein perché avrebbe dovuto uccidersi? In un simile hotel? La ragazza più a modo sulla faccia della terra!
44.
Hilde nella sua stanza. Suona il telefono. Si affretta a rispondere.
Hilde Sia ringraziato il cielo che sei tu. È già andato via. Hai letto? Nella stanza accanto alla nostra. Ma conoscono i nostri nomi. Speriamo. Domani. Mi vuoi ancora bene?
45.
Dalla signora Dolein. Il commissario e la signora Dolein.
Commissario Ha lasciato qualcosa di scritto? Dobbiamo cercare. Lettere? Diari?
La signora Dolein apre la scrivania e l’armadio della figlia.
Il commissario fruga.
È insieme a un funzionario della polizia criminale.
Commissario Con chi aveva contatti negli ultimi tempi?
Frau Dolein Era fidanzata.
Commissario Questo naturalmente è interessante.
Frau Dolein Non vive a Vienna. In primavera si sarebbero dovuti sposare.
Commissario È del suo fidanzato questa lettera? (fa un nome) -
La signora Dolein No.
Commissario Neppure questa? - e quest’altra? Una corrispondenza vivace.
Nessuna firma. - Karl
….

l’Unità 14.11.07
Mussolini «generoso» con Gramsci? E quando mai?
di Giuseppe Tamburrano


Nell’articolo di Giuseppe Tamburrano (l’Unità 08/11/2007) a commento della lettera inviata da Gramsci a Novelli (responsabile nel 1933 delle case di pena) sulle condizioni insopportabili cui era costretto, su violazioni del regolamento carcerario e su violenze psicologiche e fisiche subite, vi sono imprecisioni ed inesattezze. La più grave - ed è la prima volta che viene avanzata da un socialista - è certamente l’affermazione gratuita e infondata, secondo la quale Mussolini, fu tutto sommato, «generoso» con Gramsci. Questa affermazione, finora sostenuta da personaggi come Veneziani ed i suoi amici fascisti, e smentita dai fatti. La «generosità» sarebbe consistita nel aver permesso che un medico di fiducia (Prof. Arcangeli) lo visitasse in carcere. Questo era un diritto previsto da regolamento carcerario. La libertà vigilata non fu una concessione di Mussolini, ma perché Gramsci era nelle condizioni giudiziarie per poterne usufruire. In un incontro tra Mussolini e l’ambasciatore sovietico Potëmkin (dicembre 1934) alle richieste di quest’ultimo di procedere ad uno «scambio di prigionieri politici», il duce risponde: «Gramsci non è un prigioniero politico... ma un delinquente comune che tramava una congiura contro il Regno».
La destinazione di una casa di cura di Gramsci è decisa personalmente da Mussolini (a Formia) per il timore che si organizzasse una sua fuga. Pur in stato di libertà condizionale la situazione del prigioniero non cambia come scrive Tania alla sorella Julka. Fino al giorno della sua morte la clinica Quisisana di Roma (ove Gramsci aveva chiesto di essere trasferito) è circondata da poliziotti e carabinieri. La verità è che Mussolini fu costretto ad alcune concessioni al prigioniero, in primo luogo perché non voleva che morisse in carcere, ma soprattutto perché, come ha annotato Gaetano Salvemini «era molto sensibile alla campagna di solidarietà che si svolgeva soprattutto in Francia a favore della liberazione di Gramsci, Terracini, Pertini, Ravera ed altri detenuti».
Tutta la parte (i due terzi) dell’articolo di Tamburrano dedicata alla solita polemica anticomunista, non è una novità. Nessun comunista lanciò pietre contro Gramsci. La testimonianza che ci ha più volte ricordato Pertini, presente all’episodio, è che due anarchici gettarono contro Gramsci una palla di neve. Gramsci non fu escluso dal collettivo dei 16 comunisti detenuti a Turi (vi erano anche due socialisti, tra i quali Pertini, e due anarchici), ma fu lui a decidere, per non aggravare la situazione nel collettivo, di interrompere il ciclo di lezioni che aveva iniziato. I colpevoli dei contrasti e delle critiche a Gramsci (in particolare Tulli, Scucchia e Lisa) furono colpiti da misure disciplinari dal centro estero del Pci, fino all’espulsione di due dei tre. Ma ci furono altri detenuti comunisti come Trombetti, Laj, Tosin, Ceresa, Piacentini che continuarono ad aiutare e a sostenere Gramsci. Trombetti, comunista, condivise la stessa cella di Gramsci molti mesi, per poterlo assistere ed aiutare nei momenti più difficili. Su altri episodi la polemica con Tamburrano va avanti da molto tempo, nel silenzio di chi sa e non dovrebbe tacere. Continuo a condividere il giudizio espresso da Carlo Rosselli in un articolo apparso su Giustizia e Libertà il 30 aprile 1937: Mussolini aveva operato contro Gramsci e attuato «un lento assassinio». Carlo Rosselli e il fratello saranno pochi mesi dopo assassinati a loro volta dai fascisti francesi, finanziati e sostenuti da quelli italiani, complice il duce. Per concludere questa nota suggerisco a Tamburrano di rileggere l’articolo di Gramsci dal titolo «Capo» (L’Ordine Nuovo, 01-03-1924) per comprendere, in una certa misura, l’accanimento di Mussolini contro di lui.
Michele Pistillo

La nota di Pistillo è scritta nel «vecchio stile» del partito di Lenin e Stalin, fino all’accusa implicita quasi di «socialfascismo». Io ho scritto che Mussolini voleva Gramsci a lungo nel carcere e che fosse sottoposto a strettissima vigilanza. «Per il resto Mussolini fu ’generoso’ con Gramsci» (le virgolette danno un sapore ironico all’aggettivo). Pistillo afferma che le generosità erano diritti di Gramsci in base alle leggi dimenticando, forse, che il fascismo non era un regime fondato sulla legalità. E Mussolini era il padrone e faceva quello che voleva: e se non voleva accogliere le richieste di Gramsci (come pure ha fatto) diceva «no» e basta.
Pistillo scrive che Mussolini fu costretto ad alcune concessioni (allora ci furono delle concessioni?!) soprattutto per la campagna di solidarietà a favore di Gramsci. Figurarsi! Mussolini sensibile alla «campagna di solidarietà»! Tra l’altro è vero il contrario: il padre di Piero Sraffa, l’amico fedele di Gramsci, ha scritto che la pubblicazione della diagnosi del prof. Arcangeli sulle gravi condizioni di salute di Gramsci, la quale suscitò la campagna di solidarietà, «è stata un ’patatrac’ sui passi compiuti, e con prospettive favorevoli, per la liberazione vigilata di Gramsci». (Questa lettera è riportata da Paolo Spriano in Gramsci in carcere e il Partito, l’Unità, p. 156). Le «pietre contro Gramsci»? Non è una mia invenzione: lo riferisce il comunista Athos Lisa nelle Memorie, Feltrinelli, 1973, con prefazione di Terracini, p. 75).
«Gramsci non fu escluso dal collettivo» del carcere: afferma Pistillo. A me lo ha detto Leonetti che lo ha saputo da un comunista di Turi, Enrico Tulli. E Terracini ha confermato: «È senz’altro così», usando la parola «emarginato».
Mi pare che sia tutto.
P.S. Nel mio articolo in questione ho scritto «carcere di Formia»: per l’esattezza era una clinica privata e da qui le misure severe di vigilanza.

Corriere della Sera 14.11.07
Amore&Guerra
Picasso e la giovane ispiratrice Dora: così nacque Guernica Eros, arte e politica per celebrare l'antifascismo spagnolo
di Sergio Luzzatto


Non era quella la prima volta che si incontravano, lì ai «Deux Magots», nel più leggendario tra i cafés della Rive Gauche. Si erano visti già in altre occasioni dopo che Paul Éluard, il poeta comunista, aveva presentato al celebre pittore spagnolo l'intrigante fotografa mezzo francese e mezzo croata, cresciuta in Argentina e nota a Parigi come artista engagée. Ma fu quel giorno d'autunno del 1935 che Dora Maar conquistò Pablo Picasso, con un gioco di crudele intensità erotica.
Portava guanti neri ricamati con fiorellini rosa. Se li era tolti, aveva impugnato un coltello nella mano destra e aveva preso a piantarlo dentro il legno del tavolo, sempre più velocemente, fra le dita aperte della mano sinistra. Ogni tanto — questione di millimetri — sbagliava il colpo, e il sangue sgorgava copiosamente dalle sue ferite. Pablo era rimasto incantato da quel numero, forse un lascito delle stramberie sadomaso apprese da Dora negli anni della liaison con Georges Bataille e delle frequentazioni surrealiste. Fuori, sul marciapiede, Picasso aveva chiesto alla donna di offrirgli in dono i guanti neri, e li aveva solennemente riposti nella vetrina dove conservava questo genere di reliquie. La loro storia d'amore era incominciata così, dentro una cornice quasi improbabile di spagnolesco esibizionismo. Lui aveva 54 anni, lei 28.
Nel decennio successivo, Dora avrebbe sostenuto come una musa la creazione artistica di Picasso, servendo da inesauribile soggetto della sua pittura. «Donna seduta in poltrona», «Donna seduta in giardino», «Donna col cappello a piume », «Donna col gatto », «Donna che piange »: un po' tutto il catalogo di Picasso dal 1935 al '45 risulta occupato dalla presenza di Dora, tenebrosa almeno altrettanto che sensuale, drammatica almeno altrettanto che impudica.
E tuttavia, Dora Maar non è entrata nella storia dell'arte soltanto come l'amante e la musa del Picasso maturo. Grazie a uno straordinario rovesciamento di ruoli, ci è entrata anche per avere fatto di Picasso il soggetto della sua propria creazione d'artista. Successe nell'estate del '37, quando nel nuovo studio che Dora stessa gli aveva trovato in rue des Grands Augustins (a due passi dai galeotti «Deux Magots») Picasso lavorò alla più gigantesca delle sue tele, gli oltre venti metri quadrati di un dipinto unico nel suo genere, «Guernica». E Dora era là, con la macchina fotografica in mano, a immortalare giorno per giorno la nascita del quadro forse più famoso del Novecento.
Settant'anni più tardi, la riproduzione di una di quelle foto figura sulla copertina di Guernica, 1937 (Donzelli): il libro che Angelo d'Orsi ha dedicato non tanto alla storia del dipinto di Picasso, né alla storia della cittadina basca che al dipinto diede il titolo, ma alla storia del mondo nuovo inaugurato nel pomeriggio del 26 aprile 1937, quando — si era nel pieno della guerra civile spagnola — l'aviazione tedesca si accanì contro un paesone alle porte di Bilbao, seminando ovunque il terrore e la morte. Primo bombardamento aereo a tappeto, in un secolo che ne avrebbe conosciuti fin troppi. Superamento di una soglia, poiché fino ad allora, colpendo dall'alto, si erano risparmiati gli obiettivi civili (almeno in Europa: non nell'Etiopia del '36, straziata dall'aviazione italiana). Prova generale di Coventry e di Dresda, se non proprio di Hiroshima.
Della guerra civile spagnola, d'Orsi coltiva un'idea diversa da quella oggi prevalente nella migliore storiografia. Secondo lo studioso torinese, quanto lacerò la Spagna dal 1936 al '39 fu un conflitto internazionale piuttosto che un conflitto intestino: la penisola iberica come l'insanguinata palestra dove si affrontarono i totalitarismi di destra e di sinistra, a fronte della colpevole inazione delle maggiori democrazie occidentali. «Non fu una guerra civile», arriva a scrivere d'Orsi: fu una «aggressione combinata alla Repubblica spagnola », dall'interno attraverso l'alzamiento di Francisco Franco, dall'esterno attraverso la mobilitazione delle potenze fasciste.
«Uno scontro fra l'antidemocrazia e la democrazia »: semplicemente questo, per d'Orsi, la guerra di Spagna. Ed è un'interpretazione manichea, tutto bianco o tutto nero, laddove storici avvertiti ci hanno insegnato a riconoscere nella tragedia spagnola numerose tonalità di grigio. Il che non toglie a d'Orsi il merito di avere preso le mosse da un'intuizione culturalmente felice, che regge bene alla verifica della scrittura. Appunto, l'intuizione secondo cui il bombardamento di Guernica rappresenta un buco nero della storia contemporanea, dove si concentrano e dove implodono un po' tutto il bene e po' tutto il male del XX secolo.
La Germania nazista, risoluta a testare sul campo le meraviglie della Luftwaffe di Göring. L'Urss comunista, decisa a eliminare anche fuori casa i trotzkisti, gli anarchici, e tutti gli altri traditori del proletariato sfuggiti alle purghe di Stalin. L'Italia fascista, intenzionata a mostrare sui campi di battaglia d'Europa la muscolatura sfoggiata per pochi intimi sugli altipiani d'Abissinia. Le Brigate internazionali, variopinta armata di volenterosi divisi su tante cose, ma uniti nella convinzione che difendere la Repubblica da Franco equivalesse a difendere l'umanità dalla barbarie. I personaggi collettivi del libro di d'Orsi hanno poco di originale, sono i medesimi che ritornano in quasi tutte le ricostruzioni della guerra di Spagna come vicenda internazionale. Ma il racconto si impenna (e l'analisi storica si fa stringente) quando i nomi collettivi lasciano il posto ai nomi individuali: ai singoli, uomini o donne, che da vicino o da lontano fecero i conti con l'inaudito, Guernica.
Questi conti non ebbe il tempo di fare Antonio Gramsci, che in una clinica di Roma consumò il proprio martirio entro ventiquatt'ore dal martirio della cittadina basca. Ma li fece, dalla Francia, Pablo Picasso, che scelse di dipingere Guernica per onorare il padiglione della Repubblica spagnola all'Esposizione internazionale dell'estate 1937. Una tela — dichiarò l'autore senza mezzi termini — dipinta per «odio» della «casta militare» che aveva sprofondato la Spagna «in un oceano di dolore e di morte». Un'opera programmaticamente politica, esposta al pubblico parigino durante l'estate stessa in cui nella Berlino hitleriana si esponevano i mostri della cosiddetta «arte degenerata », e si additava Picasso (ariano, ma in odore di comunismo) come l'artista più degenerato di tutti.
A suo modo, anche il Guernica di d'Orsi può valere come antidoto a certe odierne liquidazioni dell'arte impegnata e, in generale, della politicità della cultura.

Ma la tela fu dedicata a un torero
Fu soprattutto la celebre tela di Pablo Picasso a trasformare la città basca di Guernica, bombardata da aerei tedeschi e italiani alleati di Franco durante la guerra civile spagnola, nel simbolo di un uso spietato dell'aviazione contro popolazioni inermi. In realtà l'incursione fece meno vittime rispetto ad altri raid aerei compiuti in quel conflitto. E anche sulle reali origini del quadro sono stati avanzati dubbi. Alcuni sostengono che si trattasse di un dipinto dedicato alla morte del torero Joselito e che Picasso lo abbia poi modificato su commissione del governo repubblicano spagnolo.

Corriere della Sera 14.11.07
Al Palladium di Roma «Settanta». Gli interpreti: cattivo maestro? No, è contro la violenza
Negri, autobiografia a teatro
Un'educazione sentimentale tra scontri e dibattito politico
Ultrasinistra Pièce scritta dal teorico dell'ultrasinistra sul rapporto tra un intellettuale e una femminista
di Emilia Costantini


ROMA — Andrea e Margherita: lui è un intellettuale; lei, molto più giovane, una femminista. Sono stati militanti insieme e si sono amati. Nel bene e nel male, hanno creduto in un mondo migliore. Lui, però, accusato di essere un ideologo del terrorismo, ha passato in galera un bel po' di tempo, poi in esilio all'estero. Si incontrano dopo trent'anni, nella stessa città dove tutto è cominciato: è l'occasione di un bilancio, politico e soprattutto sentimentale.
Settanta è la prima e unica pièce scritta da Toni Negri, teorico dell'ultrasinistra, insieme alla drammaturga Raffaella Battaglini: legati ora in palcoscenico e legati trent'anni fa anche nella realtà. Un testo autobiografico, che domani sera al Teatro Palladium sarà prima presentato dallo stesso Negri e poi letto dagli attori Nello Mascia e Alvia Reale. Dice Mascia: «Nella mia gioventù, Negri era un mito, un eroe». Dunque, non un «cattivo maestro»? Ribatte: «Neanche per sogno. Era una personalità al di fuori della mischia, un fine intellettuale che credeva in una rivoluzione non cruenta. Il suo è stato un caso emblematico di ingiustizia da parte della classe politica dell'epoca: un capro espiatorio».
Andrea e Margherita, nella pièce, ripercorrono la loro avventura, attraverso le tappe della loro educazione sentimentale, ma anche attraverso il ricordo degli scontri di piazza, del dibattito interno al movimento, in un gioco di flashback che mettono a confronto le illusioni di un tempo con le conseguenze nel tempo attuale. Dice la Reale: «Negli Anni '70 loro credevano nel movimento operaio come modello rivoluzionario, che avesse come unico scopo una vita diversa. Un progetto fallito». Anche lei difende Negri: «Non è mai stato un cattivo maestro. Era assolutamente contrario alla lotta armata e infatti, nel testo, spunta un personaggio simbolico: l"intruso" (interpretato da Nuccio Siano,
ndr). È lui il compagno che mette Andrea nei guai, facendolo deragliare nella lotta armata. Ed è duro lo scontro tra Andrea, puro idealista, e il terrorista».
Aggiunge Mascia: «Che è poi ciò che è successo nella realtà: Toni Negri si è sempre dissociato dalla cosiddetta "ala romana" del movimento, quella per intenderci responsabile del sequestro Moro. Non ha mai teorizzato l'affermazione violenta dell'ideologia. Nonostante ciò, fu sbattuto in galera e fu solo grazie a Pannella che, facendolo diventare deputato, uscì fuori da quella situazione» Un testo revisionista, dunque? Risponde la Reale: «È solo un modo per confrontarci con un pezzo della nostra storia, per ragionare, riflettere sugli errori commessi e, perché no?, aprire un dibattito oggi: se ci sarà qualcuno, tra il pubblico, che si alza e dice "non sono d'accordo", ben venga. Meglio la discussione, che dimenticare o, peggio, rimuovere».
A parte alcuni spettacoli sul «caso Moro», il teatro si è aperto poche volte al dibattito sui bui anni di piombo: «Rimozione bella e buona— ribadisce Mascia — C'è una battuta nel testo che dice più o meno così: quegli anni sono stati duri, difficili, magari sbagliati, ma non si può ignorarli, perché ci hanno cambiato la vita a tutti».
Un teatro che vuole interrogarsi? Conclude l'attore napoletano, già più volte impegnato nel teatro civile: «Serve a fare chiarezza. In fondo, è la testimonianza di una sconfitta. Come Toni Negri, noi di quella generazione abbiamo perso».

il manifesto 14.11.07
Al festival di Damasco il cinema è tutto da scoprire
Immagini stranianti e estranee da altri mondi, da Antonioni a David Lynch, una retrospettiva sull'attore, comico e regista Dureid Laham, «Caramel» di Nadine Labaki: nelle sale siriane si accendono i riflettori
di Donatella Della Ratta


Damasco. Un omaggio a Michelangelo Antonioni e a Ingmar Bergman, una panoramica sui film di Marlene Dietrich, un focus su Luis Malle, oltre alle migliori pellicole internazionali di ultima produzione, fra cui spiccano il Rivette di Ne touchez pas la hache e l'ultimo Lynch di Inland Empire poi il Tarantino di Death Proof in coppia con Planet Terror di Rodriguez. Niente di trascendentale, se non fosse che siamo a Damasco, al festival internazionale del cinema appena conclusosi nella capitale siriana, e questi sono titoli che difficilmente arrivano nelle sale del paese, scarse in numero e dominate dalla produzione di massa egiziana e americana, i due «imperialisti» del cinema in tutto il mondo arabo. E a giudicare dalla folla che si è accalcata nelle poche sale damascene per seguire il festival, c'è richiesta di un certo cinema anche al di là del Mediterraneo, dove arriva ancora più difficilmente che sulle nostre sponde.
Sale sempre piene, ressa per acquistare i biglietti, e soprattutto un pubblico incuriosito, anche di fronte a cinematografie - come quella lynchiana - completamente estranee e mai distribuite nel paese. Pellicole presentate in versione integrale, senza tagli, cosa che stupisce lo sguardo occidentale abituato a pensare i paesi arabi in termini di censura. E invece la scelta, coraggiosa, del festival, è stata quella di presentare tutto al pubblico locale, di offrire una panoramica sul cinema occidentale più controverso, innovativo e moderno. E pare che il pubblico abbia reagito bene, cosa che ha convinto la direzione del festival a trasformarlo in appuntamento annuale da evento biennale quale era in passato. Anche nel palmares dei premi è emerso uno sguardo attento su cinematografie raffinate, come quella iraniana di It's winter di Rafi Pitts (in lizza per l'Orso d'oro a Berlino 2006) che a Damasco ha portato a casa la medaglia d'oro; mentre il premio alla miglior regia è andato a Marco Bellocchio, con il suo Regista di matrimoni accolto in modo incuriosito e caloroso dal pubblico siriano. Insomma, un festival riuscito nello sforzo di presentare immagini stranianti ed estranee da altri mondi, immagini insolite rispetto al gusto dominante del blockbuster Usa. Purtroppo, per chi invece è in cerca di film di produzione araba non si può dire lo stesso. Certo, si è vista una preziosa retrospettiva del lavoro di Dureid Laham, comico e regista siriano di eccezionale popolarità in tutto il mondo arabo.
Laham, in tandem con Nihad Qalei, ha letteralmente inventato la comicità siriana, dando vita a una coppia di personaggi che riflettevano la società del tempo, una sorta di Stanlio e Onlio siriani. I personaggi creati da Dureid e Nihad riflettono una Siria che cerca di emanciparsi dagli strascichi dell'Impero Ottomano, e più tardi del mandato francese, per entrare nell'epoca moderna con le sue problematiche sociali, economiche e politiche. L'ascesa di un cinema come quello di Dureid e Niham racconta una Siria che si afferma sempre di più come paese che produce industria culturale di massa ma di qualità, combattendo il monopolio della cultura egiziana con l'uso del dialetto siriano e l'introduzione di temi sociali anche nella commedia. Dureid e Niham furono talmente capaci di restituire le problematiche del tempo in un tessuto comico universale, che negli anni sessanta la tv libanese cominciò a produrre uno show con i due comici e con la regia del siriano Khaldoun Al Maleh, più tardi distribuito a tutti gli altri canali arabi. Lo show successivo, Maqaleb Ghawar, sempre prodotto per la tv libanese, segnò il definitivo boom della comicità siriana nei paesi arabi. Più tardi, nel 1984, Dureid Laham, in coppia con il grande sceneggiatore teatrale Mohammad al Maghouti, diede vita a una delle più sferzanti satire che siano mai viste nel mondo arabo: Al hudud (la frontiera), pellicola dove il protagonista - lo stesso Laham - perde il passaporto al confine fra due paesi arabi immaginari, ed è costretto a vivere sulla frontiera, rifiutato da entrambi. Un film che, riproposto proprio dal festival di Damasco, non ha perso in attualità, ritraendo un mondo che si proclama senza frontiere e che si spreca in promesse democratiche ma che in realtà naviga da tutt'altra parte. Quello che stupisce di più, proprio di fronte alla contemporaneità di Laham, è l'assenza di temi rilevanti e attuali nei film arabi contemporanei, o almeno nella selezione presentata al festival. Con una produzione scarsissima (in media una o due pellicole all'anno) il cinema siriano presentato a Damasco - per esempio Out of coverage di Abdellatif Abdelhamid - sembra essersi ripiegato su se stesso piuttosto che voler riflettere sulla società contemporanea e le sue problematiche - cosa che invece fanno registi di soap opera tv, come Najdat Anzour, ormai capofila di un movimento di fiction siriane impegnate e di alta qualità. Pochissimi sono gli esempi che riescono felicemente a portare il close up da un gruppo ristretto di relazioni umane a un livello sociale più ampio regalando uno spaccato sociale contemporaneo: il libanese candidato all'Oscar Caramel di Nadine Labaki (a Damasco premio come migliore interpretazione femminile), che racconta le vicende di quattro giovani libanesi alle prese con relazioni extraconiugali, innamoramenti lesbici, e operazioni per recuperare la verginità perduta agli occhi di una società solo apparentemente di costumi liberali, è uno di questi. Così Driving to Zgizgiland di Nicole Ballivian, produzione Usa-Palestina, commedia black su un tassista palestinese che sogna la green card e per ottenerla deve fare i conti con una routine di razzismo, intolleranza, e soprattutto ignoranza.

martedì 13 novembre 2007

l’Unità 13.11.07
Il palazzo del Congresso Usa fu costruito dagli schiavi
Regolarmente pagati 60 dollari l’anno. Ai loro padroni bianchi.
di Roberto Rezzo


Gli storici non hanno ancora stabilito con certezza se a costruire le piramidi d’Egitto furono operai specializzati strapagati dal faraone o schiavi stremati a colpi di frusta.
A una commissione parlamentare americana sono bastati due anni di lavoro per accertare che il palazzo del Congresso, modestamente chiamato il Tempio della Libertà, l’hanno costruito proprio gli schiavi.

EMANCIPATION HALL «I compiti includono trasportare pietre, disporre mattoni e segare travi - risulta dalla contabilità dell’epoca tuttora ben conservata negli archivi- L’opera si presta sotto il sole, la neve, il vento o la pioggia». Gli studiosi si son trovati davanti
un reperto originale del XIX secolo su flessibilità e lavoro interinale nel Nuovo continente. «Oggi guardiamo al passato non per riaprire ferite ma perché sia detta tutta la verità e il prezzo pagato da quegli schiavi afro americani non sia dimenticato - spiega John Lewis, il deputato democratico della Georgia che ha presieduto la commissione - La schiavitù è una parte della storia della nostra nazione di cui non siamo fieri. Questo non vuol dire che possiamo chiudere gli occhi e far finta di niente». A Capitol Hill ora vogliono allestire una mostra e il reverendo Jesse Jackson ha proposto di chiamare la sala d’ingresso per i visitatori Emancipation Hall.
La storia della schiavitù negli Stati Uniti inizia nel 1619 con i primi coloni inglesi che si stabiliscono in Virginia e finisce nel 1865 con l’approvazione del 13mo emendamento della Costituzione. Circa dodici milioni di africani vengono trascinati prigionieri nelle Americhe tra il XVII e il XIX secolo. Di questi poco più di mezzo milione negli Stati Uniti. Le schiave erano regolarmente messe incinte dai padroni e i figli ereditavano dalla madre lo status di schiavi. I dati del Census contano nel 1860 una popolazione di quattro milioni di schiavi.
Benjamin Franklin, uno dei padri della patria, quello che sorride sui biglietti da cento dollari, aveva due schiavi come servitori personali: George e King. Il suo giornale, la Pennsylvania Gazette, negli annunci economici aveva un’intera sezione dedicata al commercio di schiavi. Franklin ha più volte occasione di affermare e scrivere che i neri sono una razza inferiore e non possono essere educati. Il colpo di fulmine nel 1763 quando visita una scuola e scopre che basta farli seguire da una maestra e i bambini neri imparano subito a leggere e a scrivere.
Nel 1785, appena tornato dalla Francia, si aggrega a un movimento abolizionista fondato dai quaccheri. E in breve diventa presidente della Società per la promozione dell’abolizione della schiavitù e il sollievo dei negri illegalmente tenuti in catene. Proclama George e King uomini liberi e loro per gratitudine restano al suo servizio.
Poche settimane dopo gli attacchi dell’11 settembre l’ex presidente Bill Clinton dichiarava: «Gli Stati Uniti sono nati come una nazione che praticava la schiavitù. E gli schiavi molto spesso erano ammazzati anche quando erano innocenti. Tanti in questo Paese hanno guardato dall’altra parte quando un gran numero di nativi è stato privato delle sue terre, delle sue ricchezze e ucciso. Forse perché pensavano che valessero meno degli altri esseri umani. È un prezzo che stiamo pagando ancora oggi»
Cicatrici mai sanate, pregiudizi inconfessabili che ancora fanno parte della moderna società americana nonostante un nero per la prima volta stia conducendo una campagna elettorale per la Casa Bianca che non è un mero atto di testimonianza.

Repubblica 13.11.07
La nuova paura dell’Occidente. Lo straniero che bussa alle porte dell’Occidente
Le società contemporanee e l’enigma dell’altro
di Gustavo Zagrebelsky


La recente vicenda dei rumeni in Italia riapre antiche ossessioni
Cos´è che spinge un individuo o un gruppo sociale a crearsi un nemico virtuale

Quelli che, come me che scrivo e voi che leggete, stanno dalla parte di gran lunga privilegiata del mondo hanno forse perso il significato drammatico della parola straniero. Se i rapporti sociali fossero perfettamente equilibrati, la parola straniero, con i suoi quasi sinonimi odierni (migrante, immigrato, extra-comunitario) e le loro declinazioni nazionali (magrebino, islamico, senegalese, rom, cinese, cingalese, eccetera), sarebbe oggi una parola neutrale, priva di significato discriminatorio. Non sarebbe più una parola della politica conflittuale. E invece lo è, e in misura eminente.
Se consultiamo costituzioni e convenzioni internazionali, traiamo l´idea che esiste ormai un ordinamento sopranazionale, che aspira a diventare cosmopolita, dove almeno un nucleo di diritti e doveri fondamentali è riconosciuto a ogni essere umano, per il fatto solo di essere tale, indipendentemente dalla terra e dalla società in cui vive.
Questo è un progresso della civiltà. Nelle società antiche, lo straniero era il nemico per definizione (hospes-hostis), poteva essere depredato e privato della vita. Il presupposto era l´idea dell´umanità divisa in comunità separate, naturalmente ostili l´una verso l´altra. Lo straniero, in quanto longa manus di potenze nemiche, era da trattare come nemico. Da allora, molto è cambiato, innanzitutto per le esigenze dei traffici commerciali. Il nómos panellenico e lo jus gentium, lontanissimi progenitori del diritto internazionale, nascono da queste esigenze. L´universalismo cristiano, in seguito, ha dato il suo contributo. Nella medievale res publica christiana e nello jus commune l´idea di straniero perde di nettezza, sostituita se mai, nella sua funzione discriminatoria, da quella di infedele o di eretico. E l´universalismo umanistico e razionalistico ha dato l´ultima spinta.
Il concetto di straniero, nella sua portata discriminatoria, non è però mai morto, anzi ha sempre covato sotto la cenere, a portata di mano per affermare "legalmente" l´esistenza di una nostra casa, di un nostro éthnos, di un nostro ordine, di un nostro benessere. I regimi totalitari del secolo passato vi hanno fatto brutale ricorso. Ad esempio, per restare da noi, la "Carta di Verona", manifesto del fascismo di Salò, all´art.7 dichiarava laconicamente: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri», come prodromo della confisca dei beni e dello sterminio delle vite. Una sola parola, terribili conseguenze.
Si può ben dire che, dopo quelle tragedie xenofobe, la "Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo" del 1948 rappresenti, nell´essenziale, la condanna di quel modo di concepire l´umanità per comparti sociali e territoriali, ostili tra loro. «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti»: l´appartenenza a uno Stato o a una società, piuttosto che a un´altra, passa in secondo piano e non può più essere motivo di discriminazione. Ciò che conta è l´uguale appartenenza al genere umano e la fratellanza in diritti e dignità non conosce confini geografici, etnici e politici.
Da allora, l´idea di una comunità mondiale dei diritti ha fatto strada. Le convenzioni e le dichiarazioni internazionali si sono moltiplicate e hanno riguardato ogni genere di diritti. Se si tratta di essenziali diritti umani, la protezione non dipenderà dalla nazionalità, riguardando tutte le persone che, per qualsiasi ragione, si trovano a essere o transitare sul territorio di un Paese che aderisce a questa concezione dei diritti umani e non è condizionata dalla reciprocità.
Tutto bene, dunque? La parola straniero non contiene oggi alcun significato discriminatorio o, almeno, è destinata a non averne più. Possiamo stare tranquilli?
Proviamo a guardare la questione dal punto di vista degli stranieri che stanno dalla parte debole e oggi si riversano nei nostri paesi. Essi sono alla ricerca di quelle condizioni di vita che, nei loro, sono diventate impossibili, spesso a causa delle politiche militari, economiche, energetiche e ambientali dei paesi più forti. Si riconoscerebbero costoro in quella "famiglia umana" di cui parlano le convenzioni internazionali sui diritti umani? Concorderebbero nel giudizio che la parola straniero non comporta discriminazione?
La trappola sta nella distinzione tra straniero "regolare" e "irregolare". Ciò che è irregolare, per definizione, dovrebbe trovare nella regola giuridica il suo antidoto: quando è possibile, per impedire; quando è impossibile, per regolarizzare. Invece, nel caso degli stranieri migranti, la legge promuove, anzi amplifica l´irregolarità, invece di tentare di ricondurla nella regola. Così facendo, è legge criminogena.
Fissiamo innanzitutto un punto: il flusso migratorio non si arresterà con misure come quote annue d´ingresso, permessi e carte di soggiorno, espulsione degli irregolari. Questi sono strumenti spuntati, che corrispondono all´illusione che lo Stato sia in grado di fronteggiare un fenomeno di massa con misure amministrative e di polizia. Esse potevano valere in altri tempi, quando la presenza di stranieri sul territorio nazionale era un fenomeno di élite. Oggi è un fatto collettivo che fa epoca, mosso dalla disperazione di milioni di persone che vengono nelle nostre terre, tagliando i ponti con la loro perché non avrebbero dove ritornare. Li chiamiamo stranieri "irregolari", ma sono la regola.
Siamo in presenza di una grande ipocrisia, che si alimenta della massa degli irregolari, un´ipocrisia che va incontro a radicati interessi criminali. Non ci sarebbe il racket sulla vita di tante persone che muoiono nei cassoni di autotreni, nelle stive di navi, sui gommoni alla deriva e in fondo al mare; non ci sarebbe un mercato nero del lavoro né lo sfruttamento, talora al limite della schiavitù, di lavoratori irregolari, che non possono far valere i loro diritti; non ci sarebbe la facile possibilità di costringere persone, venute da noi con la prospettiva di una vita onesta, a trasformarsi in criminali, prostituti e prostitute, né di sfruttare i minori, per attività lecite e illecite; non ci sarebbe tutto questo, o tutto questo sarebbe meno facile, se non esistesse la figura dello straniero irregolare, inerme esposto alla minaccia, e quindi al ricatto, di un "rimpatrio" coatto, in una patria che non ha più.
La prepotenza dei privati si accompagna per lui all´assenza dello Stato. Per la stessa ragione, per non essere "scoperto" nella sua posizione, l´irregolare che subisce minacce, violenze, taglieggiamenti non si rivolgerà al giudice; se vittima di un incidente cercherà di dileguarsi, piuttosto che essere accompagnato in ospedale; se ammalato, preferirà i rischi della malattia al ricovero, nel timore di una segnalazione all´Autorità; se ha figli, preferirà nasconderne l´esistenza e non inviarli a scuola; se resta incinta, preferirà abortire (presumibilmente in modo clandestino).
In breve, lo straniero irregolare dei nostri giorni soggiace totalmente al potere di chi è più forte di lui. I diritti valgono a difendere dalle prepotenze dei più forti, ma non ha la possibilità di farli valere: il diritto alla vita, alla sicurezza, alla salute, all´integrazione sociale, al lavoro, all´istruzione, alla maternità…
Davvero, allora, la parola straniero, nel mondo di oggi, è priva di significato discriminatorio?
Possiamo da qui tentare una sintetica conclusione, molto parziale, sul tema della sicurezza e della legalità, oggi così acutamente avvertito. Quella sacca di violenza che è il mondo degli irregolari è una minaccia non solo per loro, ma per tutta la società. La condizione dello straniero irregolare, su cui incombe la spada di Damocle dell´espulsione, sembra essere studiata apposta per generare insicurezza, violenza e criminalità che contagiano tutta la società. Quando si metterà mano alla legge n. 189 del 2002 (la cosiddetta Bossi-Fini) sarà utile rammentarsi di queste connessioni.

Repubblica 13.11.07
Il nemico. Più cresce l’insicurezza e più si alimenta il sospetto verso l’altro
Noi, ospiti di un’Europa che ci vede con sospetto
di Tahar Ben Jelloun


La paura, la vecchia paura dei tempi della guerra del fuoco, è ancora qui ad accompagnarci. Potrebbe sparire se considerassimo che non esiste uno straniero assoluto, perché siamo sempre stranieri rispetto agli altri

Viviamo in un´epoca in cui lo straniero è diventato un´ossessione: «Abbiate timore di lasciar morire lo straniero in povertà: lo straniero che supplica è inviato dagli dei» ci avverte il poeta André Chénier vissuto all´epoca della rivoluzione francese (1762-1794). Un po´ più di un secolo dopo, l´uomo politico Maurice Barrès (1861-1923) dichiara che «lo straniero, come un parassita, ci avvelena». Percepito come un pericolo per la coesione della comunità che lo accoglie, lo straniero è sempre stato sospettato di portare con sé gli ingredienti per far saltare in aria l´identità del paese in cui sbarca. Sarà sempre malvisto e mal considerato in ogni epoca e paese.
Scrive Primo Levi in Se questo è un uomo che la convinzione che lo straniero è nemico «giace in fondo agli animi come un´infezione latente».
Siamo prevenuti. Lo straniero è una figura che preoccupa, più che rassicurare. E questo da sempre. Verrebbe da pensare che con l´evoluzione delle società, con il progresso della comunicazione, lo straniero debba essere accettato più facilmente. Macché. La paura, la vecchia paura dei tempi della guerra del fuoco è ancora qui, ad accompagnarci e a osservarci.
Potrebbe sparire se considerassimo che non esiste uno straniero assoluto, poiché siamo sempre stranieri rispetto agli altri come loro sono stranieri rispetto a noi. Non esiste una terra in cui nascano soltanto stranieri. È impossibile. Lo straniero è un cittadino che si muove. Tutto dipende dalle motivazioni. Potrebbe venire da me per prendere la mia casa come potrebbe intervenire per salvarmi se vengo attaccato o c´è un incendio. Ma l´idea più diffusa è quella dell´invasore, quello che vorrebbe approfittare dei miei beni o magari anche portarmeli via.
Come direbbe l´umorista francese Coluche, oggi «ce n´è che sono più stranieri di altri». Pare infatti che ci siano vari gradi nella scala della "stranierità", una tavolozza di colori. Più lo straniero mi somiglia, meno è sospetto. Prova ne sia che per molti decenni italiani, spagnoli e portoghesi sono emigrati in Francia. Appartenere alla stessa sfera della civiltà giudaico-cristiana li ha aiutati a integrarsi e a passare quasi inosservati. Con gli Africani e gli Arabi è un´altra faccenda. Con i musulmani, un´altra storia. L´integrazione non funziona più. Il razzismo è quasi istituzionale. L´immigrato è improvvisamente malvisto. Non si cercherà di far valere le sue qualità, i suoi contributi, il suo lato positivo: si vedrà soltanto quello che disturba, quello che dà fastidio e che allontana gli uni dagli altri. La sua religione è stigmatizzata. Le sue tradizioni sono presentate come strane e barbare. Si fanno pochi sforzi per eliminare le distanze, le riserve e il sospetto. Si troverà sempre un individuo – venuto da fuori – per commettere un crimine spaventoso, un atto brutale che susciterà una generalizzazione; si passerà da un atto isolato a un´azione collettiva e si dirà «i gitani sono tutti ladri e assassini»!
Proprio come, dopo la Seconda Guerra mondiale, dopo quanto era accaduto a Montecassino, è stato detto che i Marocchini sono stupratori di donne. La gente si costruisce, per rassicurarsi, immagini che mettono gli "altri" in categorie caricaturali. È quello che sta succedendo adesso in Europa. Uno squilibrato musulmano fanatico ha assassinato un cineasta olandese ad Amsterdam e il ministro dell´interno dei Paesi Bassi ha cambiato la politica dell´immigrazione mettendo in atto una serie di dure restrizioni. Il male è stato fatto e tutta la Comunità immigrata deve pagare. Un proverbio arabo dice «un solo pesce guasto fa marcire tutta la cassa».
Il concetto di ospitalità è cambiato. La parola greca xenos rimanda a un patto preliminare, la xenia, che impegnava la città nei confronti degli stranieri. L´Europa non rifiuta questo patto ma vi aggiunge condizioni. Così la nuova politica di Nicolas Sarkozy in materia d´immigrazione si è indurita: per immigrare in Francia bisogna conoscere la lingua francese; per riunire la propria famigli, occorre dimostrare con prove del Dna che i bambini sono effettivamente figli propri, eccetera.
L´ospitalità ha le sue leggi e lo straniero che viene accolto ha dei doveri. Va da sé. Ma che fare quando lo straniero non è più una persona venuta da fuori ma chi è nato e vive in Europa?
Chiedete attorno a voi: quel giovane che parla italiano, dall´aspetto meticcio, nato a Torino da genitori marocchini, è un cittadino italiano o è uno straniero, un immigrato?
È esattamente il dramma che sta affrontando la Francia con i figli di immigrati, che non sono a loro volta immigrati perché non hanno fatto il viaggio. Sono nati in Francia, sono francesi ma portano nomi arabi e hanno la pelle un po´ più scura dei Normanni. Quando questi francesi di seconda categoria si sono rivoltati, nell´ottobre 2005, sono stati trattati come stranieri. Alcuni uomini politici hanno anche chiesto che fossero "rispediti al loro paese"! I loro genitori sono stranieri, ma loro sono cittadini europei. Questo non impedisce che siano visti come stranieri, invasori, "barbari". Nell´antica Grecia era considerato barbaro chi non parlava la lingua della città. In Francia si nega a milioni di giovani l´appartenenza al panorama umano francese e la loro lingua non è considerata del tutto francese.
L´epoca in cui viviamo, con le sue guerre e i suoi conflitti, favorisce grandi spostamenti umani. Sempre più persone fuggono le guerre e cercano di trovare una terra d´asilo. La storia dell´umanità è fatta di queste ibridazioni. La mescolanza degli individui è inevitabile. Fino a poco tempo fa, la Francia era il paese d´Europa che accoglieva il maggior numero di esiliati. Ma i tempi cambiano.
Sappiate che siamo sempre lo straniero dell´altro. Tutto dipende da dove ci si trova, quello che si fa e perché ci si è spostati. Un turista che viene a spendere il suo denaro è certo percepito come straniero, ma come una presenza positiva perché il suo soggiorno è limitato. Lo straniero che fa paura è quello che viene a insediarsi, per rifarsi una vita; spesso è povero e disperato. La povertà non è fotogenica. Ma quell´uomo disperato potreste essere voi o potrei essere io. Non dimentichiamo mai che il destino non è un fiume tranquillo né una serata estiva con gli amici. Il destino è misterioso. Non si sa mai che cosa ci riserva. La paura dell´altro, la fissazione che lo straniero sia una minaccia per la mia sicurezza, sono sensazioni irrazionali che appartengono all´istinto animale. Siamo uomini: facciamo qualcosa per espellere di nostri cuori questi istinti primordiali e nocivi! Perché un giorno o l´altro, saremo noi a trovarci sull´altro versante di questa paura e di questa esclusione, perché saremo diventati stranieri.
(Traduzione di Elda Volterrani)

Repubblica 13.11.07
La diffidenza. Quando il pregiudizio travolge la ragione
La crisi sociale fa nascere il capro espiatorio
Intervista a Emmanuel Todd


Al loro arrivo è così che gli stranieri vengono guardati. Perfino negli Usa gli immigrati irlandesi dovettero scontare il pregiudizio anti cattolico

«In una società in crisi, che non riesce a risolvere i propri problemi economici e d´identità, lo straniero diventa un nemico e un capro espiatorio ideale». Emmanuel Todd ha iniziato a occuparsi d´immigrazioni parecchi anni fa con Le destin des immigrés. Di recente, in collaborazione con Youssef Courbage, ha pubblicato Le rendez-vous des civilisations (che in Italia verrà tradotto da Tropea), dove, in polemica con la tesi di Huntington sullo scontro delle civiltà, smonta i pregiudizi di chi sostiene l´impossibile modernità del mondo musulmano. «Quando si parla d´immigrazione si tende sempre a idealizzare il passato, ma ci si sbaglia», spiega lo storico e antropologo francese, di cui in Italia stati pubblicati Dopo l´impero e Il crollo finale. «Tutta la storia dell´immigrazione è costellata di difficoltà e incomprensioni. Al loro arrivo, gli stranieri vengono sempre guardati con sospetto e diffidenza. È accaduto perfino negli Stati Uniti, dove ad esempio i primi immigrati irlandesi dovettero scontare il pregiudizio anticattolico».
Oggi però l´Europa percepisce gli stranieri più come una minaccia che come una risorsa.
«La vera differenza rispetto al passato è che oggi l´immigrazione sta diventando un´ossessione anche in paesi dove le difficoltà concrete sono in fondo limitate. Naturalmente, non nego che i problemi esistano. L´Italia ad esempio in questi anni scopre l´immigrazione di massa, con tutte le contraddizioni e le tensioni che ne conseguono. In Francia però la situazione è molto diversa, dato che da noi gli immigrati sono arrivati molti anni fa. Nonostante ciò, si continua ad agitare lo spettro dell´immigrazione come invasione. Ciò dimostra che quello dell´immigrazione è un fantasma esagerato».
Come si spiega questa paura degli stranieri?
«La diffidenza rivela soprattutto l´incertezza della società europea. L´Europa è in crisi, prigioniera dei dubbi, incerta sulle proprie potenzialità economiche, preoccupata per il futuro. Negli ultimi trent´anni ha rimesso in discussione tutte le certezze, comprese le credenze religiose. Più o meno consapevolmente, cerca un capro espiatorio che molto spesso trova negli stranieri».
Li respinge perché la loro presenza rimette in discussione i nostri valori e i nostri costumi?
«Non credo. L´arrivo degli stranieri dovrebbe avere l´effetto contrario, rassicurandoci sul valore del nostro mondo. Invece di rimetterci in discussione, ci valorizzano».
Come rendere l´integrazione meno problematica?
«Più che d´integrazione, preferisco parlare di assimilazione. Di fronte all´immigrazione di massa ci sono infatti due sole possibilità. L´assimilazione, che, attraverso l´adozione dei costumi e dei valori del paese d´accoglienza, permette ai figli e ai nipoti degli immigrati di fondersi nella popolazione locale. Oppure la segregazione, con la nascita di comunità separate che conservano costumi e valori tradizionali. Nessun paese però vive serenamente la presenza al suo interno di un gruppo separato. Per questo preferisco l´assimilazione. È il modello difeso dallo stato francese, che nonostante tutto funziona meglio di quello anglosassone basato sul multiculturalismo e la creazione di comunità separate. Lo dimostra tra l´altro il numero di matrimoni misti, che in Francia è oggi in crescita».
Tolleranza e ospitalità hanno ancora un senso?
«Certo, purtroppo però funzionano bene solo quando si tratta di pochi individui. Allora lo straniero è un ospite che non disturba nessuno, anche se ha costumi molto diversi dai nostri. Di fronte all´immigrazione di massa, tutto ciò è molto più complicato. Per questo occorre avere il coraggio di dire che la vera generosità consiste nel domandare allo straniero di accettare i nostri costumi».
Alcuni però rimproverano a questa prospettiva un eccesso di eurocentrismo. Come risponde?
«Non si tratta di giudicare i sistemi di valori e i costumi negli altri. Ogni popolazione ha i suoi e quelli europei non sono certo superiori. Tuttavia, la tolleranza che isola gli stranieri nelle loro tradizioni nasconde spesso un vero e proprio rifiuto degli altri, e in particolare dei figli degli altri. Gli immigrati in fondo resteranno stranieri, anche se possono integrarsi felicemente. I loro figli invece non lo saranno più, saranno francesi o italiani. Motivo per cui hanno bisogno di aderire ai nostri valori e ai nostri costumi. Insomma, nei confronti degli stranieri occorre un discorso generoso ma chiaro, un misto di pragmatismo e comprensione. Dobbiamo comprendere i loro costumi, ma aiutandoli a fare sì che i loro figli siano come i nostri».
I pregiudizi e luoghi comuni nei confronti degli stranieri rendono difficile questa prospettiva...
«L´ignoranza degli altri che nutre i pregiudizi è purtroppo una costante della storia dell´immigrazione. Oggi oltretutto si diffonde anche tra le élite, che invece avrebbero la possibilità di accedere alle informazioni necessarie. Proprio per combattere i pregiudizi, ho scritto insieme a Youssef Courbage Le rendez-vous des civilisations. Volevo mostrare che l´islam non è assolutamente incompatibile con la modernità, come invece molti sostengono. Anche al suo interno, la progressiva alfabetizzazione e la rapida riduzione del tasso di natalità mostrano una profonda evoluzione delle mentalità e dei costumi. L´individualismo e l´arretramento della religione, che molti considerano due condizioni proprie della modernità occidentale, sono tendenze che si sviluppano rapidamente, spingendo il mondo musulmano verso strutture sociali moderne. Il fondamentalismo religioso esiste, ma non è certo rappresentativo di tutto l´islam. Avere coscienza di questa realtà permette di guardare con occhi diversi i musulmani che giungono in Europa».

Repubblica 13.11.07
"Il primo grido" spopola in Francia il film sulla nascita
di Laura Putti


Tre anni di lavoro, 15 mesi di riprese per dieci storie in altrettanti paesi dall´India al Niger

Uscito da due settimane nei cinema francesi, "Le premier cri" è già un fenomeno. Un caso forse annunciato, dato che il film di Gilles de Maistre è un documentario su qualcosa che riguarda il mondo intero: la nascita di un essere umano. Non è un film sulla gravidanza o sulla maternità in generale: mostra proprio il gesto di dare alla luce, il momento fisico, reale, del parto. Accompagnato da una strutturata (ma elegante) campagna pubblicitaria, "Le premier cri" (il primo grido) ha, nella prima settimana di programmazione in circa 250 sale francesi, attirato ben 140 mila spettatori. Più di "L´incubo di Darwin" di Hubert Sauper, più di "Una scomoda verità" di Al Gore. Ed essendo già stato venduto in tutto il mondo (anche in Cina, India, perfino Turchia, ma, per ora, non in Africa. In Italia nel 2008), il film è destinato a un dibattito planetario. Come restare indifferenti al parto in diretta di dieci donne in altrettanti paesi del mondo?
Osservando Gilles de Maistre, minuto e nervoso, viene da chiedersi dove abbia trovato il coraggio di affrontare (spesso da solo, cinepresa in spalla) un momento tanto selvaggiamente femminile. «Proprio questo andavo cercando» risponde il regista, seduto in un rumoroso caffè sui Campi Elisi. «Avevo già realizzato una serie di documentari televisivi nella sofisticatissima maternità del Robert-Debré, l´ospedale pediatrico di Parigi. E´ vero che ogni parto è sempre un momento straordinario in cui accadono cose ogni volta diverse. Le persone dimenticano la cinepresa, sono totalmente concentrate soltanto su quello che accade. Ma, partorendo, le donne lasciano trasparire la loro storia e mi è piaciuta l´idea di raccontarle, queste storie. Il momento della nascita è un argomento che ci riguarda da vicino e che, insieme al momento della morte, è una delle due esperienze che tutti abbiamo in comune».
Tre anni di lavoro, quindici mesi di riprese per dieci storie in dieci luoghi diversi (la più "normale" in Francia, poi Stati Uniti, Vietnam, India, Brasile, Niger, Tanzania, Giappone, Messico, Siberia), Gilles de Maistre ha spesso viaggiato leggero. «Il più delle volte, soprattutto in luoghi molto disagiati come i deserti africani, sono andato soltanto con l´ingegnere del suono e con una giornalista, Marie-Claire Javoy, che sul film ha appena pubblicato due libri, uno dei quali per bambini (uscito anche il cd con le musiche di Armand Amar, con un brano cantato da Sinead O´Connor per l´occasione, ndr). Il parto è un momento intimo. Volevo che fosse diverso da quelli, più o meno naturali, che tante volte avevo visto nell´ospedale parigino».
Pur nella sua forzata staticità, "Le premier cri" sembra un film d´azione. Le donne partoriscono in maniere diverse. Straordinarie le immagini che riguardano Majtonré, la indiana Kayapo che Maistre ha filmato in Brasile, in un villaggio nella foresta amazzonica. Come nel caso della donna Masai (Kokya, in Tanzania), il parto è preceduto da un rituale. Le donne più anziane dipingono il corpo della puerpera. Majtonrè partorirà in piedi in una capanna, al solo bagliore del fuoco, sorretta sotto le ascelle da un´altra donna. Tragico invece il parto notturno di Manè, donna Tuareg, nel deserto di Kogo in Niger. Nonostante il sacrificio di un animale organizzato in fretta e furia dal marito della ragazza, il bimbo nascerà podalico (di bacino) e morto.
Ma il parto sul quale Gilles de Maistre più si sofferma è quello dell´americana Vanessa, 32 anni, in una casa in un bosco del Maine. Vanessa e Mikael vivono bio e no global in una comune di dieci persone. Lei sceglie un parto non assistito, senza visite mediche, ecografie, medicine. Quando le doglie iniziano, Vanessa e Mikael si infilano nudi in una piscinetta al centro di una stanza. Attorno a loro gli otto compagni con la chitarra. Il bimbo nascerà (dopo alcune ore) nell´acqua, ma la placenta non uscirà subito, Quasi decisa a un ricovero in ospedale, Vanessa verrà poi "salvata" da una ragazza della comune. L´insistenza del film sulla coppia americana è forse la sua unica debolezza. «Cercavo qualcuno che potesse parlare del momento della nascita» dice Maistre «In ogni parto filmato c´è una storia, ma nessuna donna africana o siberiana o vietnamita o indiana è in grado di parlare di ciò che vive. Lo vive e basta. Vanessa invece racconta, spiega quello che sente».
"Le premier cri" inizia sott´acqua, con un parto tra i delfini. Seguiamo due ragazze messicane, Gaby e Pilar, guidate dall´ispirata ostetrica Adriana tra gli straordinari mammiferi acquatici. Il regista afferma di non essersi mai permesso di giudicare le dieci storie. Ma qualcosa vorrà pur dire se ha deciso di mostrare l´insuccesso di uno dei due parti acquatici: una delle due ragazze non farà in tempo a correre in piscina e il suo bambino nascerà in un letto, senza tante moine new age.

Corriere della Sera 13.11.07
Scoperta Usa. Il cervello a tempo di musica balla e «pensa» al sesso
di Andrea Frova


Daniel Levitin, professore di psicologia e musica alla McGill University di Montreal, racconta sul New York Times in un articolo dal titolo «Dancing in the Seats», i risultati di una ricerca effettuata su cervelli sottoposti ad ascolti musicali. La tecnica usata è la fMRI (functional Magnetic Resonance Imaging), capace di individuare le zone attivate del cervello su scala del millimetro cubo (l'attivazione si riconosce per un incremento del flusso sanguigno).
CONTROPROVA — Sono state esaminate 13 persone durante l'ascolto di brani musicali e, come controprova, di loro versioni strutturalmente scompaginate. Si è trovato che, anche in condizioni di immobilità, l'ascolto di musica eccita zone che coordinano le attività motorie. Se il corpo non può danzare, lo fa il cervello, confermando l'indissolubilità del legame tra musica e movimento.
Celebri sono le frasi di Hausegger: «Le espressioni sonore non sono altro che movimenti muscolari fattisi udibili, gesti che si sentono», o del musicologo francese Roland-Manuel (inizio Novecento): «La musica commuove in quanto muove».
L'attribuire poco peso al metro e al ritmo, come si è fatto in talune forme musicali dell'ultimo secolo, quali la serialità e la dodecafonia, ha un effetto negativo giacché tali elementi, appellandosi all'aspetto motorio del discorso musicale, sono essenziali nel conferirgli forma e vitalità. Per Stravinskij «il ritmo e il movimento, e non l'espressione delle emozioni, costituiscono i fondamenti dell'arte musicale». Un altro risultato delle immagini cerebrali — dovuto a A.J. Blood e R.J. Zatorre — è che musiche che provocano un'intensa commozione interessano pure le aree dell'orgasmo sessuale e di altre soddisfazioni corporali, come la degustazione del buon cibo, ossia ataviche funzioni biologiche inerenti alla sopravvivenza o coinvolte negli stati di allucinazione da droga. Gli stessi autori osservano anche che accordi consonanti e dissonanti attivano aree diverse.
DISSONANZE — Inoltre, i treni di «spari neurali» (segnali elettrici che l'orecchio invia al cervello) associati alle consonanze risultano assai più facilmente elaborabili dal cervello rispetto a quelli di altri insiemi di note, in particolare dissonanti. Il che spiega perché le prime giungono ben accette anche a un cervello naïf, laddove il ruolo della dissonanza viene valorizzato solo dopo una certa frequentazione della musica. Sono prove evidenti della straordinaria immediatezza fisica del piacere musicale, per quanto concerne non solo lo stimolo motorio, ma anche melodia e armonia tradizionali.

Repubblica 12.11.07
Tenco torna a Sanremo un tributo fra jazz e tanta sregolatezza
La rassegna della canzone d'autore dedicata ai 40 anni della sua scomparsa
di Carlo Moretti


Per la prima volta da quando è nato nel 1974 il Premio Tenco è stato dedicato a Luigi Tenco. E per la prima volta la canzone d´autore cui è tradizionalmente dedicato ha ceduto la scena al jazz. L´ultima delle tre sere, sabato, non poteva che chiudersi così, con il gotha del jazz italiano sul palco dell´Ariston per rendere omaggio al grande cantautore, a cominciare dal quartetto di Rava che ha accompagnato l´esibizione di Gino Paoli. Perché Luigi Tenco, come ha notato Ada Montellanico, «non scriveva mai con una metratura canonica: era una scrittura la sua che per l´andatura sempre sghemba e originale, per il ritmo di due quarti, le strofe di nove battute, conteneva sempre una decisa anima jazz».
L´emozione più forte non l´ha però offerta la magia del jazz. La 32esima edizione del Tenco si ricorderà per quanto, al contrario, avvenuto in chiusura della prima serata, quella in cui veniva celebrata la grande canzone dialettale anche grazie all´intervento della cantante sarda Elena Ledda. Un momento emozionante per l´applauso fragoroso e sorprendentemente rivolto verso il palco vuoto dell´Ariston: Massimo Ranieri aveva appena lasciato la scena e l´amplificazione continuava a diffondere la voce di Andrea Parodi, il cantautore sardo scomparso un anno fa, come si può ascoltare nel duetto per Piscatore ‘e Pusilleco pubblicato in un recente album di Ranieri. Il quale ha avuto l´ottima idea e il sapiente gusto teatrale di un´uscita di scena a effetto per lasciare che il pubblico apprezzasse fino in fondo i colori di una delle più belle voci della nostra canzone.
Momento emozionante che faceva seguito alla cerimonia in cui la moglie di Parodi, Valentina, ha ricevuto la Targa Tenco vinta dall´album Rosa Resolza, l´ultimo registrato da Parodi, prima della morte, con la cantautrice Elena Ledda. Che ne ha proposto alcuni brani (tra i quali De Bentu) dopo una suggestiva versione in sardo di La ballata del marinaio di Tenco: «Ho voluto tradurre la canzone di Luigi Tenco per portarla più vicina a me, perché la forma della canzone popolare è completamente diversa rispetto a quella della mia tradizione. La soddisfazione è di essere riuscita a tradurla quasi letteralmente».
Al Tenco non si va da semplici spettatori, al Tenco una serata si vive. Perché la poesia di un´esibizione non può essere annunciata, ti prende di sorpresa. Ci sono i momenti memorabili perché sopra le righe come quello offerto dal cantautore francese e Premio Tenco 2007 Jacques Higelin, senza voce ma assolutamente geniale nel saper riportare ogni volta la performance nel giusto binario («Ieri sera ho bevuto troppo», si è scusato) o quelli sorprendenti per forza carismatica come quello offerto dall´altro premio Tenco di quest´anno Marianne Faithfull, che ha aperto la sua performance con As tears go by scritta nel 1965 per lei dalla coppia Jagger-Richards: «Non ho mai avuto una grande voce», ha ammesso lei, «ma ho sempre avuto un discreto talento».
Le targhe Tenco, oltre a quella per l´album di Ledda e Parodi, sono state vinte dai romani Ardecore per l´album «Chimera», dai Tetes de Bois per «Avanti Pop» e da Gianmaria Testa per «Da questa parte del mare». Da segnalare il debutto di Paolo Simoni autore di «Mala Tempora», una luce accesa dal Tenco 2007 e il verso più curioso della rassegna: «Se pensi che questo sia jazz. è solo stress».

Rosso di Sera 12.11.07
La malapianta degli ultrà
di Alessandro Curzi


Sui fatti di domenica, due piani della questione vanno nettamente e preliminarmente distinti. Altrimenti non ci si capisce, si fa confusione e si consentono (e ci si consente) strumentalizzazioni politiche che è lecito definire infami in riferimento alla morte di un povero ragazzo e irresponsabili in riferimento alle loro conseguenze nei rapporti fra cittadini e istituzioni. Questi due piani sono: l’uccisione di Gabriele Sandri da parte di un poliziotto, e le violenze perpetrate dagli ultrà.
Sul primo piano, siamo di fronte ad un tragico incidente, determinato ovviamente dal tipo di formazione e dal livello di preparazione di un agente di polizia – e presumibilmente di molti agenti di polizia – oltre che da funeste casualità. Qui si fa bene a pretendere il massimo di trasparenza e di severità, nella individuazione e nella punizione di un comportamento oggettivamente criminale. Tanto più grave in quanto proveniente da un addetto alla pubblica sicurezza, peraltro descritto come esperto e assennato. Il capo della polizia Antonio Manganelli ha assicurato che “ci assumeremo le nostre responsabilità”. E’ ciò che doveva dire. E’ ciò che ci aspettiamo faccia, senza riserve di alcun tipo. Dopo di che, spetterà alla magistratura fare il suo dovere e alle autorità (e in primis al ministero degli Interni) mettere in campo finalmente efficaci politiche di prevenzione e repressive – sì, anche repressive – affinché questi episodi, come suol dirsi con amaro scetticismo, non abbiano più a ripetersi. E qui arriviamo al secondo piano di riflessione, quello sugli incidenti creati domenica in tutta Italia da masse di scalmanati e teppisti, in un preteso rapporto di causa ed effetto col fattaccio svoltosi nei pressi dell’autogrill aretino. “Voi avete colpito uno di noi, noi colpiamo voi e con voi questo sistema”: questa, in sostanza, la logica di quelle ore di guerriglia, di insulti e aggressione alle forze dell’ordine, di auto bruciate, di assalti a caserme e sedi Coni, e di imposizione della “legge gli ultrà” negli stadi, a cominciare dalla sospensione di alcune partite sotto il ricatto di pericolosi incidenti.
Su questo piano, va detto con estrema fermezza che l’incidente di Arezzo è stato solo un pretesto. Più precisamente, un detonatore. Il problema è la bomba, rappresentata dal ruolo e dal peso degli ultrà negli stadi e presso le società calcistiche, e dai loro ambigui rapporti con esse. Un problema di ordine pubblico e di legalità di enormi dimensioni – prima ancora che di rispetto, di agevole praticabilità e di pubblico godimento dello spettacolo calcistico – rimasto irrisolto, nonostante le periodiche conferme della sua pericolosità e le ripetute esplosioni di violenza spesso tragiche.
Perciò mi sembra produttore di ulteriore confusione il dibattito che si svolge in queste ore sull’opportunità di fare svolgere comunque o di interrompere le partite, nel quale ci si è rimpallato le responsabilità fra mondo politico e mondo calcistico, accettando tutti di fatto la conseguenzialità fra l’uccisione di quel giovane tifoso laziale e la “reazione” degli ultrà. Invece, ripeto, bisogna guardarsi dal fornire anche involontariamente pretesti ai numerosi gruppi di teppisti che da decenni stanno avvelenando la vita del calcio, mettendo semplicemente a nudo l’incapacità del sistema (calcistico e istituzionale) di imporre legalità e ordine pubblico, e ribadendo anche in questo settore la logica della impunità.
Non ci voleva un altro morto per convincerci che il vaso è colmo ormai da tempo. Che non sono più rinviabili una serie organica di misure assai dure e inequivocabili – che coinvolgano la primaria responsabilità delle società di calcio, delle istituzioni sportive, delle autorità di governo e del legislatore – per ristabilire ordine e legalità anche nel calcio, sradicando la malapianta delle organizzazioni ultrà. Concludo dichiarandomi, anche come consigliere di amministrazione della Rai, profondamente insoddisfatto e allarmato per il mancato ruolo di seria resocontazione e riflessione sull’accaduto del sistema mediatico nel suo complesso e in particolare del servizio pubblico radiotelevisivo. Ho assistito a un ininterrotto e spesso scadente chiacchiericcio senza capo né coda, che non ha registrato momenti di individuazione precisa e chiara delle responsabilità e della barbarie in campo. Alla Rai si chiede di più e di meglio: aiutare la gente a capire e a far crescere la consapevolezza collettiva – anche sollecitando l’autorevole intervento e la responsabile assunzione di responsabilità da parte del governo - su ciò che avviene e su come, concretamente, si esce da un problema lasciato incancrenire.

Affari Italiani 13.11.07
La morte di Sandri/ Gli psichiatri: preoccupante escalation di violenza


L'escalation di violenza gratuita per cui si muore ammazzati per una partita di calcio e questo diventa poi l'occasione per scatenare una guerriglia urbana contro le forze dell'ordine, preoccupa molto il mondo politico non meno di quello psichiatrico alla ricerca di una spiegazione. "E' solo una faccenda di calcio e di tifo o siamo davanti ad un fenomeno sociale da osservare attentamente? Si passano voce da Milano a Catania e in piazza fanno qualcosa che è fuori legge e che la magistratura chiama apologia di fascismo: è un fenomeno strano da tener sotto osservazione", spiega lo psichiatra Massimo Fagioli al quale non torna affatto che la polizia in servizio di ordine pubblico abbia armi da fuoco.
"Bisogna fare come in altri paese europei: togliere le armi da fuoco e darle - osserva - solo in casi eccezionali: mi sembra che all'estero anche quando carica la polizia non ha armi". E non lo convince neanche "l'accidentalita'" dello sparo: non è la prima volta che un colpo 'accidentale' ammazza una persona... E le manifestazioni di piazza? "Intanto va detto che il malessere, il disagio sociale che è stato messo in piazza il 20 ottobre - spiega lo psichiatra - non ha prodotto alcun incidente: quindi con queste manifestazioni il malessere o il disagio sociale non hanno nulla a che fare: qui si tratta di decine, centinaia di persone che portano in piazza una violenza gratuita per cui non si generalizzi, come se il popolo italiano fosse tutto contro le forze dell'ordine: non è vero". E sulla commistione politica punta l'indice anche Francesco Bruno. "Non si soffia sul fuoco per anni senza che poi - nota il criminologo - non scoppi il fuoco: cos'è successo dopo la morte di Raciti a Catania? Niente, passato il momento, tutto è tornato 'punto e a capo' ed ora ci risiamo: ma attenzione a non fare di tutta l'erba un fascio".
Si tratta "certo di episodi drammatici e violenti ma circoscritti a gruppi che usano il calcio - avverte Bruno - non tutti gli italiani appassionati di calcio che vanno allo stadio hanno fatto della polizia il loro nemico, ma solo gruppi di tifosi collusi mi pare molto evidente dalle immagini e resoconti con la destra più estrema". E ben protetti, poi, dalle stesse squadre di calcio. Insomma, non c'è una emergenza sicurezza? "No, non c'è pure se si cerca - risponde Bruno - di crearla, di costruirla e di far credere che ci sia: c'è invece un fenomeno ben circoscritto sul quale appuntare l'attenzione ed assumere per tempo provvedimenti efficaci". E la polizia dev'essere disarmata o no? "In Europa neanche quando carica ha armi da fuoco...", è la risposta del criminologo.

il Riformista 13.11.07
Scuola. Bilanci provvisori ma non parziali, a trent’anni dall’integrazione
No all’«ecologia relazionale» verso i disabili nelle scuole
La cooperazione deve avvenire anche e soprattutto a livello di corpo docente. Manca la capacità di lavorare in equipe. Per una società alternativa a quella competitiva.
di Nora Sasso


Tra il 16 e il 18 novembre prossimi si terrà a Rimini la sesta edizione del convegno internazionale La Qualità dell’integrazione scolastica, che da anni raccoglie intorno a questo delicato tema migliaia di presenze, tra esperti, docenti e persone a vario titolo coinvolte. Organizzato dal Centro Studi Erickson in collaborazione con diverse amministrazioni locali e istituzioni universitarie e scolastiche, al convegno parteciperanno, accanto al gotha della ricerca nazionale ed internazionale in materia, anche ospiti “speciali” che interverranno su tematiche più vaste ma connesse. Tra questi lo scrittore Niccolò Ammaniti, che terrà una conferenza sul tema “Scrivere del mondo del bambino e dell’adolescente”, e il medico e psicologo Edward de Bono, studioso del pensiero creativo.
Questa sesta edizione coincide anche con la ricorrenza dei trent’anni dal varo della Legge 517 del 1977 sull’integrazione scolastica degli alunni disabili nella scuola italiana, sulla quale nel convegno verranno presentati i primi risultati di una ricerca nazionale indipendente, incentratata sulla percezione delle varie fasi dell’integrazione da parte delle famiglie coinvolte. Quali siano questi risultati, è certo però che lo spazio di miglioramento è ampio, e coinvolge direttamente un più ampio ambito culturale, etico e politico.
Basta leggere infatti il densissimo programma del convegno per rendersi conto di quanto occuparsi della qualità dell’integrazione dei disabili non comporti un discutere di altro rispetto alla qualità della scuola tutta. Perché la tematica dell’integrazione di chi viene percepito come “diverso”, lungi dall’essere materia per addetti ai lavori, si pone al contrario al crocevia di problemi cruciali d’una intera società, troppo spesso in emergenza.
Una scuola consapevole della sua funzione dovrebbe infatti sapere che cieco e sordo è innanzi tutto chi pretende di insegnare senza sentire e vedere la realtà totale di qualsiasi alunno, disabile e no. Il bambino o il ragazzo che vi entra non lascia fuori dal cancello, come entrasse in una camera iperbarica, la qualità dei rapporti, i valori o disvalori che respira in famiglia e nel tessuto sociale in cui cresce. Valga significativamente l’esempio del workshop dal titolo “Fanno i bulli, ce l’hanno con me”, che immediatamente richiama alla mente i recenti ripetuti episodi di violenza psicologica e fisica di gruppo sui compagni di classe disabili, diffusi poi anche su internet. L’insegnante che volesse prevenire il verificarsi di situazioni del genere dovrebbe fare molta attenzione a quanto ciascuno dei suoi alunni, insieme a quello disabile, si senta incluso, accolto, “visto” nel suo universo difficile e spesso confuso; con quella paura, sempre inconfessata, di non essere all’altezza: della ragazzina del secondo banco, degli amici con l’ultimo hi-pod, di suo padre che non ha mai tempo, del professore alle prese con le verifiche quadrimestrali.
La scuola che non trovi il coraggio e la capacità di essere alternativa ad una società competitiva e indifferente, che si astenga dal difficile compito di strattonare genitori distratti, o di ascoltare la solitudine di famiglie ripiegate su difficoltà di ogni genere, resterà in affanno anche sul fronte di una didattica autenticamente inclusiva dei disabili. Così come velleitario, ai limiti dell’incoerenza, apparirebbe il proposito di promuovere un’ecologia dei rapporti tra gli alunni, stimolandoli all’accoglienza paritaria del diversamente abile, senza occuparsi della qualità dei rapporti tra docenti e alunni tutti, e anche tra docenti stessi, sui quali il convegno presenta alcuni significativi incontri.
Si tratta di temi importanti da discutere, perché un apprendimento cooperativo tra alunni può essere promosso solo da insegnanti che sappiano in primo luogo, e a loro volta, essere autenticamente cooperativi. Comunemente poco si parla invece della impreparazione al lavoro di équipe, endemicamente diffusa in molti ambienti di lavoro, che trova paradossalmente le sue radici proprio nella formazione scolastica, tuttora fondamentalmente individualistica e competitiva, ma purtroppo coerente con il modello di società cui prepara. In realtà, la scuola che più e meglio integra alcuni, è solo quella che si propone di integrare tutti.

Aprile on line 13.12.07
Aspettando l'8 dicembre...
di Giovanni Perrino


Dibattito
Gli Stati Generali della sinistra si avvicinano con un impeto quantomeno affievolito, testimoniato dalla mancanza di una più profonda ed ampia discussione di quella imposta dal solito tam tam mediatico. Se non vogliamo favorire ancora di più una pericolosa deriva a destra, sia data la parola a chiunque voglia cambiare veramente il mondo, e i rapporti tra gli uomini e le donne, e la cultura

Cari dirigenti della Sinistra,
non sono tanti i giorni che ci separano dalla assemblea generale della sinistra dell'8 e 9 dicembre prossimi, però sembrerebbe che lo slancio unitario del dopo 20 ottobre seguito alla spinta possente dell'organizzazione e della forza ideale di Rifondazione Comunista si sia quantomeno affievolito. Se infatti misurassimo la distanza che separa il grande evento passato a quello ormai prossimo con i metri della politica, concluderemmo con facilità che il tempo per una discussione un tantino più profonda e più ampia di quella imposta dal solito tam tam mediatico è ormai pochissimo.
Vi pongo in conseguenza la seguente domanda: la ricerca dell'unità a sinistra è sinceramente rivolta verso una novità sostanziale nel panorama politico, oppure è un pretesto per affermare vecchie appartenenze sconfitte dalla storia in un contenitore possibilmente più largo?
Mi si potrebbe obiettare che la mia affermazione, seppure interrogativa, contenga un errore di analisi della realtà, perché appunto non dubita dell'inevitabilità di una rottura - più causata o più subita a seconda dell'interlocutore - nella storia italiana, che cambia finalmente il suo scenario. Per non inficiare dunque la domanda o celarmi dietro parole e concetti difficili, vi affermo chiaramente: la Sinistra Democratica, i Verdi, i Comunisti Italiani e perfino Rifondazione Comunista non hanno oggi chiara consapevolezza dell'esaurimento della funzione storica della sinistra così come essa si è andata declinando nella società prima della caduta del Muro di Berlino, né hanno sentore complessivamente della crisi di identità delle società occidentali e del riemergere di appartenenze tribali o, nel migliore dei casi, superstizioso-religiose accomunate da deliri e violenze che la civiltà dei Lumi sembrava avesse definitivamente superato.
Sì, lo so che rischio di incastrarmi in una generalizzazione disfattista, e so anche che da parte di singoli alti dirigenti di questo o di quel partito (a me pare solo di quello, e cioè, dato che mi trovo annoverato tra le file di SD, in Rifondazione Comunista), ci sono state prove di straordinaria intelligenza nei tentativi di stravolgere vecchi e logori sistemi di pensiero con le rivoluzioni identitarie accarezzate e presentate (già ne avevo fatto menzione in un mio precedente articolo su questo stesso giornale) dal vasto e tutto interessante arcipelago del Movimento no-global, che pensa alla possibilità-necessità di un altro mondo, dall'analisi collettiva di Massimo Fagioli nichilisticamente rivolta contro una pseudo-cultura che vorrebbe l'essere umano naturalmente perverso-egoista-violento-capitalista e lo Stato ovviamente repressivo e religioso, dagli esperimenti pure contraddittori (come sempre nelle pratiche politiche) del Socialismo del XXI secolo nell'America latina.
Ma il corpo dei militanti (ed elettori) della Sinistra non ha saputo-potuto, finora, apprezzare nessuna sostanziale trasformazione, a interrompere un disorientato flusso abitudinario di frustrazione, rabbia e demenzialità, in attesa che la dilagante marea della destra sommerga ogni alternativa.
Nelle sezioni, cari dirigenti della sinistra, ormai non si parla quasi di altro che delle buche nelle strade, del traffico e del trasporto pubblico e si prospettano, a seconda che prevalga un'opzione di governo o di opposizione (indipendentemente dallo stare o non stare al governo di questo o quel Municipio o del piccolo Comune) soluzioni diverse, sulle quali si litiga o ci si accorda. E'tutta qui la politica? Si ama dire che sia delegata ai dirigenti nazionali, oppure che non si possano lasciare da parte le questioni del territorio (la famosa "politica della fontanella") sulle quali in realtà si costruisce il consenso (confondendo il plauso immediato con il voto elettorale), ma in realtà si nasconde un enorme vuoto culturale e si tenta, ancora più colpevolmente, di coprire i propri meschini interessi.
In tali circostanze un ipotetico giovane (che nella diversa percezione del tempo e delle cose propria della classe politica corrisponde sostanzialmente a un uomo - le donne capaci di definirsi tali non riescono proprio a trovare spazi di accoglienza - in un'età compresa tra i 18 e i 35 anni) che dovesse riuscire a proporre a se stesso l'uscita da quella fantomatica massa grigia indifferenziata nella quale si subiscono i processi sociali ed economici per partecipare ad una consapevole azione politica, cosa troverebbe? Una realtà nera?
Se non vogliamo che il blog di Beppe Grillo sia l'unica risposta, se non vogliamo favorire ancora di più una pericolosa deriva a destra, allora l'8 e il 9 Dicembre sia data la parola a chiunque voglia cambiare veramente il mondo, e i rapporti tra gli uomini e le donne, e la cultura. Risparmiamoci la solita difesa di un orticello, che davvero oggi è tanto piccolo da essere nell'economia del mondo globalizzato invisibile. Evitiamo di dare ragione al Partito Democratico dimostrando un insensatezza della Sinistra, capace al massimo da fare la tappa-buchi della politica (e delle strade rionali).
Se c'è una speranza, non deludiamola; altrimenti meglio chiudersi a chiave dentro casa e mettere anche tanti lucchetti, perché i tempi che verranno, senza la Sinistra, saranno brutti, sporchi e cattivi.

Liberazione 13.11.07
Quell'emendamento dei socialisti
Cari senatori avete sbagliato: l'Ici-vaticana doveva essere votata
di Imma Barbarossa
*

Care compagne e cari compagni senatori e senatrici della costruenda sinistra unitaria e plurale, non va per niente bene. Penso che sarebbe stato giusto votare a favore dell'emendamento socialista che tendeva ad abolire l'esenzione dal pagamento dell'Ici per gli immobili di proprietà della Chiesa Cattolica. Non l'avete votato nemmeno quando i socialisti l'hanno modificato contro gli immobili "a fini di lucro" (alberghi, foresterie, esercizi commerciali, spiagge, etc.). Dirò di più, avreste dovuto proporlo voi, non lasciando ai socialisti la difesa della laicità.
Infatti la laicità è qualcosa di complesso, non si risolve né nella formula liberale (e cavourriana) della libera chiesa in libero stato, né solo nell'eliminare i vistosi privilegi del Vaticano, né nel "senza oneri per lo stato" dell'art. 33 della Costituzione italiana. La laicità è una questione culturale di libertà, di liberazione da ogni integralismo e fondamentalismo, da ogni chiusura identitaria, da ogni egoismo corporativo, dalla paura dell'altro, del diverso. Laicità è capacità di confronto, di scambio, di relazione vera. Laicità è rifiuto di etnicismi e nazionalismi, è la costruzione di uno spazio pubblico e di un'etica pubblica. E' possibile - come sostengono Erminia Emprin e Giovanna Capelli - che l'emendamento socialista fosse impreciso e di difficile applicazione, ma sarebbe stato un segnale facilmente comprensibile, e una dichiarazione di voto avrebbe potuto "correggerne" l'interpretazione.
Proprio per la complessità della questione, il parlamento italiano deve legiferare in modo da eliminare le sacche di privilegi per una potenza, il Vaticano, che usa il suo potere per aggredire le libertà, per condizionare gli orientamenti sessuali, la vita, la morte, la malattia di donne e uomini, per normare il corpo delle donne, invadendo l'autonomia del parlamento medesimo. Il quotidiano La Repubblica ha pubblicato le cifre delle proprietà della Chiesa Cattolica e quanto costano ai contribuenti italiani, cifre enormi. Non ci sono soldi per i precari, ma ci sono per esentare la Chiesa Cattolica dalle tasse? Non era un emendamento concordato con la maggioranza? E allora? I socialisti non fanno parte della maggioranza? Cosa vuol dire, che i socialisti sono irresponsabili e voi no? Per favore, siamo seri. Persino la Binetti ha dichiarato che, se fosse passato l'emendamento, il governo non ne avrebbe risentito, soltanto ne avrebbe sofferto lei. Facciamola soffrire, ogni tanto!
In ogni caso non sarebbe passato perché c'è il macigno del partito democratico che guai se si tocca l'Oltretevere! Allora, sarebbe stata una prova che siete punto di riferimento del popolo della sinistra laica. Pensateci, avreste fatto un'opera meritoria aiutando la Chiesa Cattolica a ritrovare il vero suo fondamento, il rifiuto del potere e la povertà, le due pietre miliari del movimento francescano. San Francesco dal Paradiso vi avrebbe ringraziati. Anche Cristo, che moltiplicò i pani e i pesci, non i milioni di euro. Cari senatori e care senatrici del mio partito, dite di aver sofferto (dichiarazioni di Rina Gagliardi e Lidia Menapace) nel respingere quell'emendamento, ma almeno su queste questioni raccogliete la nostra insofferenza, rappresentateci. Non si tratta dei soldi al piccolo oratorio della parrocchia di campagna, si tratta di alberghi di lusso nel centro di Roma. Pensate a San Francesco e fateglielo studiare alla Binetti.
*Segreteria Naz. Prc-Se