Il libro di Bettini
Generazione senza Muro
di Sergio Zavoli
Il testo è tratto dal discorso che Sergio Zavoli ha tenuto lunedì sera al Teatro Argentina di Roma per la presentazione del libro «A chiare lettere» di Goffredo Bettini
Goffredo Bettini è un intellettuale formatosi con una generazione che porta in se stessa una grande ferita della storia: di fronte ai muri che cadono, per confrontarsi con un’autentica sofferenza sceglie quella di una personalità complessa, di grande ricchezza umana e civile, Pietro Ingrao, un politico di rango, incapace di uscirne con l’abiura, e perciò testimone esemplare di quella ferita. Il dialogo tra Bettini e Ingrao, in cui i conti non si fanno più sul «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» di Montale, è un documento di rara, persino spietata trasparenza. L’epistolario, dunque, è la chiave interpretativa di cose che hanno ancora le radici dentro un’ormai remota, sconfessata passione.
Alla storia politica di entrambi, cioè di Ingrao e di Bettini, sebbene li divida un certo numero d’anni, sono stati tagliati tre rami (Pci, Pds, Ds) e da quelle privazioni è nato, ogni volta, un liberante fattore di conciliazione rispetto alla propria vicenda anche personale. A chiare lettere, in questo senso, ha qualche non casuale assonanza con un altro libro, Memorie di una ragazza del secolo scorso, di Rossana Rossanda. Certo, queste ultime sono pagine più vicine alla temperie vissuta da Ingrao, rispetto a quelle di Bettini, anagraficamente più lontane, ma vi si trovano atmosfere e sentimenti che attraversano esperienze comuni e, al tempo stesso, diverse. Non si tratta, nell’un caso e nell’altro, di ripescare temi annegati nel «mare dell’oggettività», ma di non arrendersi, per dirla con Calvino, al «corso del mondo». È quello che fa Bettini, vivendo una storia cui è toccato, per la velocità del cambiamento, di essere sempre più contemporanea di se stessa.(...)
A chiare lettere affronta il tema scabroso della conversione da uno sbugiardato bigottismo ideologico a un laicismo che chiama in causa il rischio personale, con la sola garanzia della propria non barattabile libertà. È uno dei versanti fondamentali del libro: il mio amico Piero Coda, presidente dei teologi italiani, provocato sul tema delle scelte cruciali della vita, ha scritto: «Il senso tragico dell’esistenza umana sta nella coscienza per noi insuperabile della nostra responsabilità nel realizzare quella forma che la vita ci affida fino al limite della morte». Bettini, qui, a mio avviso tocca un punto alto di condivisione e di responsabilità: non sfugge infatti a una domanda concreta, politica: se cioè tutto ciò che è possibile è per ciò stesso anche lecito. Chiunque di noi sa che proprio nella politica Bettini sta esercitando la sua più intima e razionale compromissione con questo nuovo snodo postogli da una storia non solo sua, ma anche dei cattolici, o di una gran parte di essi. E sono proprio questi i giorni in cui è impegnato a creare una inedita, intelligente condivisione tra persone e cittadini diversi, rispetto al tema proprio della laicità.
Bisognerà disporsi, insomma, a una lettura nuova del rapporto tra Storia e Dio, vale a dire, a chiare lettere, tra questa e un’altra vita. Con una rivisitazione rispettosa e intelligente di regole, deleghe e deroghe che la laicità dovrà affrontare perché Dio non si identifichi solo nelle riserve, nei pregiudizi e nei dinieghi, ma anche nell’accoglienza del nuovo e del buono che permeano l’ecclesia, ma attraversano anche la comunità civile. Non andranno incoraggiate, di conseguenza, le intromettenze della politica, e meno ancora dell’ideologia, nelle questioni generate dal positivismo sperimentale della scienza, con le tecnologie sempre all’erta per cavarne cose, per la verità, non sempre nobili: qui la politica dovrà essere moderatrice e strumento ordinatore di materie che vanno sottoposte a giudizi di valore, con spirito di libertà e di ricerca, ma anche filtrati da codici interiori: a cominciare dalle norme di carattere etico. L’incontro, nel Pd, di due grandi culture, e di altre ancora, tutte fondate sulle rispettive diversità, non saranno, postula Bettini, un problema angustamente identitario, ma l’occasione di un’esperienza condivisa in nome di un progetto aperto, lealmente, a una comune, reciproca e riconosciuta diversità.
Bisognerà inoltre chiedersi se possa o no essere lecito pensare che anche un’etica razionale sia generatrice e portatrice di principi a loro volta ispiratori di altri sistemi valoriali, cioè di altre etiche nelle quali riconoscere - in ragione della pari dignità - diritti e doveri corrispondenti a un delicatissimo interesse di carattere generale; reclamando con ciò un’attenzione più realistica ed equa alle novità straordinarie introdotte dalle conoscenze teoriche, dalle tecnologie sperimentali e, come valore riassuntivo, dalla storia stessa. Bettini non ha, in materia, una duttilità opportunistica: al contrario è per la compromissione più profonda e dialetticamente più creativa. Una novità che, in altri tempi, sarebbe stata una ferma risposta ai dileggi in voga sul cosiddetto catto-comunismo.
Penso a quando, con la sua giovinezza, Goffredo fu in una posizione di singolare rilievo che implicava responsabilità intellettuali e morali riconducibili alla qualità della politica: già nell’80 era membro della direzione del Pci, quella delle grandi icone, e segretario della Federazione romana del partito. Viveva un momento di straordinarie accelerazioni della sua carriera politica, si facevano per lui ipotesi di valorizzazione che andavano al di là dell’osservanza di una tradizione attendista, fondata sulle cosiddette, magari un po’ bigotte, «prudenze illuminate». Già allora Bettini dovette misurarsi, fino a sacrificarne una gran parte, con «il patrimonio accumulato dalla parte dei sentimenti», per citare una bella espressione di Norberto Bobbio. Oggi è qui, con questo libro, approdato a una ricchezza di pensiero, di volontà, di utopia che si affida alla capacità della politica di liberare, non solo di redimere, la sua storia.
Ricordo quando la caduta del muro di Berlino mise in campo la responsabilità, non solo ideologica e politica, del dover prendere atto che un’epoca vista attraverso la Tv non avrebbe potuto, prima o poi, non rivelare un mondo attardato, e poi sconfitto, nelle sue illusioni e dalle sue colpe.
Penso al prezzo che uomini come Bettini, quando lo strappo venne a scadenza, pagarono al dover saldare il conto non solo politico, ma anche civile, culturale, etico delle loro scelte; senza rivalse o rinnegamenti, perché quel che contava non era rivendicare attestati di veggenza o certificare pentimenti, ma condividere la scoperta proprio dell’errore. Spesso, in quegli anni, ci si comportò come se non potesse che succedere quanto stava accadendo, e fossimo condotti per mano dalla televisione a vedere i risultati di una storia che esisteva, per i più, in quanto veniva mostrata; diventando oggetto di curiosità e di sorpresa, anziché essere letta come il frutto dell’agire e della decisione di produrla. Fra tante inquietudini - è detto nelle pagine di Bettini - ci solleva l’idea che non sia andata completamente perduta l’antica saggezza secondo cui c’è da allarmarsi quando la vita ha bisogno di promesse e di impegni straordinari, non quando ci si educa alla normalità, cioè a quella condizione favorevole all’intelligenza che, come nella storia di Ingrao, salva persino la sua lieve malinconia di poeta. (...)
Leggendo queste righe, che appartengono al corpo di riflessioni più inedite, inquiete e coraggiose dell’autore, confesso di avere avuto la sensazione di vivere un mistero, se così posso dire, religioso: quello di una generazione che si è mossa dentro il suo travaglio come i «ladri nella notte», al tempo in cui «il silenzio dei comunisti» era tutt’uno con le meditazioni notturne sul «Dio che è fallito», quando Reichlin, la Mafai e Foa s’interrogavano nel silenzio, rispondendosi con un altro silenzio - ma assordante, pauroso, ultimativo - che prima o poi avrebbe preteso di portare tutto alla luce.
Per parlare «a chiare lettere», come fa Bettini, non più disposti a essere come i cappotti della metafora pirandelliana, quella del maestro che crede di parlare ai suoi scolari, i quali non gli rispondono semplicemente perché sono i loro cappotti: in fila, ordinati e, appunto, silenziosi. Questo libro, in tempi di gravi cecità e strabismi, ha sullo sfondo lo scenario di un’apertura risoluta e incoraggiante, coglie aspetti di netto e forte rilievo umano e politico, civile e culturale. Essere qui a parlarne è segno di qualcosa che va cercando il suo momento; ciascuno lo veda come sa e vuole. Il libro è qui per riportare una grande e tragica storia al grado più alto di consapevolezza e responsabilità, coraggio e passione, perché il titolo dato a queste pagine non si limiti a richiamarle alla nostra attenzione. Per non dover dire, come fu umano tanti anni fa, che volevamo la luna.
Dimenticavo: la dedica del libro è a Walter. A chiare lettere, più che mai.
l’Unità 14.11.07
Hollywood, confessa: sei comunista?
di Alberto Crespi
DOCUMENTARI Sky lo programma in questi giorni: in 25 minuti ecco la storia di come il maccartismo abbia seminato odio e disperazione nella fabbrica del cinema cercando comunisti. «Hollywood 10», perché dieci sono i cineasti sotto accusa...
Il 6 dicembre 1938 Hallie Flanagan, direttrice del Federal Theatre Project (un’istituzione teatrale creata da Roosevelt nel 1935, nella quale lavorarono anche Orson Welles e Joseph Losey), venne chiamata a testimoniare davanti alla commissione per le attività anti-americane. La interrogò Joseph Starnes, deputato democratico dell’Alabama. Dal verbale:
Starnes: «Leggo qui in un suo articolo che lei, parlando degli operai che parteciparono al Federal Theatre Project, fa riferimento a, cito, “una certa follia marlowesca”. Chi è questo Marlowe, un comunista?» (il pubblico che assiste all’udienza scoppia a ridere).
Flanagan: «Ma… citavo Christopher Marlowe, ovviamente».
Starnes: «Bene, ci dica chi è questo Marlowe, cosicché possiamo comprendere la giusta relazione».
Flanagan: «Sia messo a verbale che Marlowe è stato il più grande drammaturgo del periodo antecedente la venuta di Shakespeare».
Starnes: «Sì, sia messo a verbale, perché l’accusa nei suoi confronti è che il suo articolo trasuda comunismo da tutti i pori».
Questo dialogo degno di Ionesco è tratto dal libro Fuori i rossi da Hollywood! Il maccartismo e il cinema americano, di Sciltian Gastaldi, edizioni Lindau. Ed è storicamente vero. Il pericolo, quando si parla del maccartismo e della caccia alle streghe degli anni ’40 e ’50, è di scambiare tutto per una gigantesca barzelletta. I numerosi verbali delle udienze tenute davanti all’Hcua (l’acronimo per «House Committee for the Un-American Activities», la suddetta commissione) sono spesso surrealismo allo stato puro. Eppure, dietro quel profluvio di idiozia burocratica si nasconde un vulnus molto grave inflitto alla democrazia americana, una spirale di nevrosi anti-comunista che non può essere semplicemente giustificata con le necessità politiche e propagandistiche della guerra fredda. Anche perché, come abbiamo visto, il vulnus comincia già negli anni ’30 - l’udienza testé citata è del ’38 - e la cosa non deve stupire, se si pensa a quanti americani erano convinti che gli Usa dovessero allearsi con la Germania di Hitler, e non certo con l’Urss di Stalin. La Hcua viene istituita dalla Camera degli Stati Uniti il 26 maggio 1938 e viene abolita ufficialmente solo nel 1975, anche se dagli anni ’60 è praticamente inattiva. Il maccartismo - nome con cui si identifica quel periodo, dal senatore repubblicano Joseph McCarthy - inizia ben prima dell’ascesa politica dello stesso McCarthy e prosegue oltre la sua morte, avvenuta il 2 maggio 1957.
In questi giorni viene programmato su Studio Universal il documentario - realizzato dallo stesso canale - Hollywood 10. Se siete abbonati a Sky, cercate di vederlo: è breve (circa 25 minuti) ma ben fatto, e assai istruttivo. Parte dal 1947, quando la Hcua ha già 9 anni di vita: ma è l’anno - esattamente 60 anni fa - in cui la sua attività investigativa «punta» Hollywood in modo violento. Molti registi, attori e produttori testimoniarono con grande solerzia, denunciando le infiltrazioni comuniste nell’industria cinematografica. Nella seconda parte il documentario si concentra sui cosiddetti «10 di Hollywood», un gruppo di cineasti che divennero il simbolo della resistenza alle intrusioni della commissione. Vale la pena di ricordare i loro nomi: Ring Lardner Jr., Dalton Trumbo, Edward Dmytryk, John Howard Lawson, Adrian Scott, Samuel Ornitz, Alvah Bessie, Lester Cole, Albert Maltz, Herbert Biberman. Dmytryk e Biberman erano anche registi, gli altri erano scrittori. Non tutti erano famosi. I più bravi erano Lardner (autore anche di magnifici racconti, 2 Oscar a distanza di quasi 30 anni con La donna del giorno, del ’42, e M.A.S.H., del ’70) e Dalton Trumbo (lo sceneggiatore di Spartacus, anch’egli 2 Oscar… ma sotto pseudonimo: come Robert Rich per La più grande corrida, 1957, e come Ian McLellan Hunter per Vacanze romane, 1953). Dmytryk, il regista di I giovani leoni e di Ultima notte a Warlock, è quello che tradì: messo sotto pressione, denunciò numerosi compagni, come Elia Kazan che però - nonostante la memoria spinga a identificarlo con loro - non era uno dei «10».
Anni fa incontrammo Dmytryk al festival di San Sebastiano, in Spagna. Gli chiedemmo un’intervista, gli dicemmo che eravamo dell’«Unità» - sapeva benissimo cos’era - e gli buttammo là, con grande cortesia (era pur sempre un signore di quasi 90 anni!), una domanda sul suo «tradimento». Non si tirò indietro. Parlò a lungo dei suoi sogni giovanili, del comunismo come utopia, e della sua denuncia che ancora difendeva, «perché era necessario rivelare i metodi stalinisti interni al partito». Probabile fosse vero. Negli anni 30 e 40 tutti i partiti comunisti del mondo erano «stalinisti», anche se non tutti fucilavano i propri iscritti o li mandavano nei gulag. Ciò che ci sembra interessante dire, oggi, è che nell’America degli anni 40 e 50 il vero stalinismo era quello della commissione, che interrogava i sospetti in modo arbitrario e puntava solo ad ottenere ulteriori delazioni, per allargare il campo del nemico e dimostrare che i «rossi», in America, erano milioni. Poi, certo: il maccartismo non ha ucciso (quasi) nessuno, ha «solo» rovinato la vita di centinaia di cittadini. Ma è stato un momento in cui la democrazia americana si è trovata in pericolo. Questo, ai tempi di Bush, è bene non dimenticarlo.
Libri e film
per capire il maccartismo
Ci sono 3 possibili approcci al periodo del maccartismo attraverso i film, e sono tutti buoni. Studio Universal, in questi giorni, propone - oltre al documentario Hollywood 10 del quale parliamo qui accanto - alcuni film scritti dai 10 prima di essere costretti all'inattività o alla clandestinità: e rivedere titoli come L'ombra del passato, Sahara, La donna del giorno o Anime sporche fa sempre bene, agli occhi e al cuore. Un altro approccio, più indiretto ma forse addirittura più interessante, sarebbe rivedere (e ripensare) alcuni film dei «traditori» Kazan e Dmytryk: entrambi hanno passato anni ad espiare, attraverso i film, il proprio senso di colpa, e la cosa è molto evidente anche in capolavori come Fronte del porto (di Kazan) o Ultima notte a Warlock (di Dmytryk). Il terzo approccio riguarda i film che, in anni successivi, hanno ricostruito quel periodo storico. Il più importante rimane Il prestanome, diretto da Martin Ritt, interpretato da Woody Allen e scritto da Walter Bernstein, uno sceneggiatore a suo tempo finito sulla lista nera. Altri film sul tema: Come eravamo, splendido melodramma di Sydney Pollack con Robert Redford e Barbra Streisand; Indiziato di reato di Irwin Winkler, con Robert De Niro; e il recente Good Night and Good Luck di e con George Clooney, sugli effetti del maccartismo nella tv e nell'informazione. Per saperne di più: Fuori i rossi da Hollywood! di Sciltian Gastaldi, Lindau; Lillian Hellman, Pentimento e L'età dei furfanti, entrambi Adelphi; Giuliana Muscio, Hollywood-Washington. L'industria cinematografica americana nella guerra fredda, Cleup, Padova, e Lista nera a Hollywood, Feltrinelli; Larry Ceplair e Steven Englund, Inquisizione a Hollywood, Editori Riuniti; e l'autobiografia di Elia Kazan (A Life), libro straordinario qualunque sia il giudizio morale sul suo autore. al.c.
Se dovessimo descrivere la natura del Creatore partendo dallo studio della creazione, diremmo che Dio ha una passione sfrenata per le stellee per i coleotteri
J.B.S. Haldane
l’Unità 14.11.07
«Kriminalfilm», il noir di Arthur Schnitzler
di Luigi Reitani
INEDITI Una sceneggiatura dello scrittore e drammaturgo viennese per un film poliziesco. Fu tra i primi a capire l’importanza del cinema ed è uno degli autori più «filmati»: da Ophuls a Kubrick
Quando, nell’ottobre del 1931, Arthur Schnitzler muore a Vienna all’età di sessantanove anni, ha sul suo tavolo il progetto di una sceneggiatura originale per un «film poliziesco» di cui ha già abbozzato le prime scene: una donna è stata assassinata in un albergo, una coppia di amanti che occupa la stanza accanto viene interrogata dagli investigatori, le ragioni dell’omicidio sembrano inesplicabili. Un ottimo inizio per un noir d’autore. Non si trattava di un interesse tardivo verso un genere alla moda, da parte di uno scrittore ormai giunto al termine della carriera. Schnitzler aveva scoperto le potenzialità espressive del nuovo mezzo estetico già molti anni prima, quando la nascente industria cinematografica, che allora aveva il suo centro in Danimarca, aveva a sua volta intuito che le opere dello scrittore si prestavano molto bene a essere trasportate sul grande schermo, sia per i loro contenuti che per il loro stesso statuto formale. Uomo di lettere e di teatro, Schnitzler non opporrà resistenze estetiche alla nuova arte, ma cercherà di indirizzare al meglio la versione filmica delle proprie opere, collaborando quando possibile alle sceneggiature e intervenendo con suggerimenti e consigli. Così invano l’autore si opporrà all’inserimento delle didascalie, allora d’obbligo, nel primo film muto tratto dal suo dramma Amoretto, giudicandole superflue per una storia che si sarebbe dovuta reggere sulla forza delle immagini, quasi che il film fosse la traduzione visiva del linguaggio verbale. E tra i primi capirà l’importanza della musica d’accompagnamento, che allora variava a seconda delle città e delle sale, e che egli voleva almeno uniformata ovunque.
Non stupisce così vedere Schnitzler impegnato negli anni Venti come consulente di una casa di produzione cinematografica viennese. E non stupisce che tra i suoi abbozzi inediti vi siano progetti per film. Su sollecitazione del regista Georg Wilhelm Pabst, interessato a una sua possibile realizzazione, poi naufragata, Schnitzler trae una prima sceneggiatura per lo schermo anche di Doppio sogno - la novella che ispirerà l’ultimo film di Kubrick Eyes Wide Shut - abbozzando 54 quadri e arrestandosi prima della festa mascherata e del parallelo sogno di Albertine. E mentre l’autore registra puntualmente nel Diario (monumentale cronaca dell’intera vita) i film che ha visto, i diritti delle sue opere sono contesi dalle maggiori case di produzione. Sono così in tutto sette i film ispirati ai libri dello scrittore quand’egli è ancora in vita. Ma la vera fortuna cinematografica di Schnitzler si sviluppa solo nel secondo dopoguerra. Dall’indimenticabile La Ronde (1950) di Max Ophuls agli esperimenti del cinema di avanguardia, dalle produzioni televisive austriache e tedesche alle interpretazioni italiane di Pasquale Festa Campanile o Roberto Faenza, da scadenti produzioni commerciali alla potenza visionaria di Kubrick non c’è genere e paese che non abbia contribuito a questa «seconda vita» dell’autore, che conta oltre settanta pellicole.
A questo avvincente rapporto è dedicato un convegno internazionale di studi che si apre oggi all’Università di Udine (fino a sabato, programma dettagliato in www.abaudine.org), accompagnato da una mostra documentaria e da una ricca rassegna cinematografica che sarà poi variata e iterata a Pordenone e a Trieste, in cui si potranno vedere alcuni tra i film più rari ispirati all’opera dello scrittore, come Der junge Medardus di Michael Kertész (il regista di Casablanca).
In questa pagina proponiamo, per la prima volta in Italia, gli ultimi quadri della sceneggiatura per un «film poliziesco» (Kriminalfilm) a cui Schnitzler stava lavorando prima della morte. Le prime 25 scene sono state tradotte e pubblicate da Leonardo Quaresima in Sogno Viennese (La casa Usher, 1984). Il manoscritto si interrompe dopo le ultime battute.
Perché mia figlia avrebbe dovuto uccidersi?
di Arthur Schnitzler
Traduzione di Luigi Reitani
26
Nella stanza accanto Hilde e Franz. Si accingono ad andarsene.
Bussano alla porta. Hilde spaventata a morte.
Il commissario entra, saluta in tono molto cortese, nota il turbamento di Hilde.
Il commissario Devo solo farvi qualche domanda. Non c’è ragione di agitarsi. Non vuole accomodarsi, signora?
Hilde si siede. Franz resta in piedi.
Commissario Si tratta di questo: nella stanza accanto c’è stato un incidente.
Hilde Per l’amor del cielo, che cosa è successo?
Commissario Nulla che la possa riguardare direttamente. Volevo solo chiedervi se avete notato qualcosa, se per caso avete sentito parlare ad alta voce o se avete percepito dei rumori.
Hilde Niente, niente, assolutamente niente, signor commissario.
27.
Stazione. Atrio degli arrivi. Normale trambusto. Passeggeri in arrivo, tra loro anche Weber, un uomo giovane con una valigetta. Dall’atrio si reca al buffet, ordina una colazione.
28.
Il commissario. Hilde e Franz nella stanza dell’hotel.
Commissario Non avrete alcuna noia. È una pura formalità. Probabilmente il giudice istruttore non vorrà neppure ascoltarvi.
Hilde Ma io non ho sentito nulla, non ho visto nulla.
Commissario Si calmi, signora.
Franz (guardando l’orologio) Possiamo andare, adesso?
Commissario Senz’altro.
Hilde e Franz vanno via.
29.
Il commissario di nuovo nella stanza numero 7.
Commissario (rivolto al proprietario dell’hotel) E l’altra stanza non era -
Proprietario dell’hotel No - nessuno.
30.
Hilde e Franz scendono le scale.
Franz Perché hai detto il tuo nome?
Hilde Non potevo fare diversamente. Anche tu, del resto.
Quando stanno per varcare la porta dell’albergo arriva una autoambulanza.
Hilde Per l’amor del cielo - ma questa -
Franz Vieni, vieni!
Attraversano rapidamente la strada; si fermano a un angolo.
Hilde Telefonami a mezzogiorno. Si allontana rapidamente.
Franz in direzione opposta.
31.
La signora Dolein aspetta ancora la figlia a colazione.
32.
Weber in stazione paga il conto, esce per strada.
Sigaretta. Prende un taxi, si allontana.
33.
Nella casa dei Weber, pianerottolo.
Hilde arriva, suona il campanello. La cameriera apre.
Hilde Il signore è già a casa?
Cameriera Non ancora, signora. Non sono ancora le dodici. Il treno non è ancora arrivato.
34.
Aula dell’università. Studenti. Entra Franz, saluta i colleghi.
35.
Abitazione della signora Dolein. La figlia non è ancora tornata. Visita di un’amica a cui comunica la propria inquietudine. Non riesco proprio a capacitarmi. Non è mai accaduto. Tutta la notte fuori di casa. È quasi mezzogiorno.
36.
Redazione di un giornale. Consueta attività. Un giovane intento a correggere. L’impaginatore porta le bozze fresche di stampa. Titolo leggibile, a grandi caratteri. «Omicidio o suicidio?» La sconosciuta. - Poi si vedono altri titoli: «Incidente automobilistico» - «Inondazione» ecc.
37.
Casa di Weber.
Weber con la valigetta, sale le scale.
Davanti alla porta, suona.
Targhetta sulla porta: Anton Weber (artista umoristico di varietà, correttore di bozze, agente)
Mentre il campanello suona, rapida inquadratura: Hilde in sala da pranzo, ha appena apparecchiato la tavola, ha un sobbalzo improvviso.
La cameriera apre la porta. Weber, molto allegro, entra nella stanza dov’è Hilde, scambio un po’ esagerato di effusioni e saluti da entrambe le parti. Viene servito il pranzo.
Hilde Com’è andato il viaggio?
Weber Sono contento di essere a casa. La prossima volta devi venire con me.
38.
Di nuovo la redazione del giornale. Prosecuzione della notizia. La sconosciuta aveva un abito rosso a maglia, calze di seta marroni, scarpe basse marroni.
39.
Dalla signora Dolein. L’amica.
L’amica Devi sporgere denuncia.
Il giornale. Lo ha mandato a prendere la signora o lo porta la cameriera.
La signora Dolein legge la notizia: «Omicidio o suicidio di una sconosciuta … con un abito rosso a maglia, calze di seta marrone, scarpe basse, collana d’ambra». - Mortalmente spaventata. Va via precipitosamente. L’amica legge il giornale: collana d’ambra - Obitorio…
40.
Abitazione di Weber.
Viene portato il caffè. Lui fuma un sigaro, lei si accende una sigaretta. Lui si siede al pianoforte e suona (eventualmente). Questo pezzo ha avuto ieri l’applauso più lungo. La prossima volta devi venire con me. Senza di te non mi metto più in viaggio. La cameriera porta il giornale.
Mentre Weber suona il pianoforte, Hilde scorre il giornale.
«Omicidio o suicidio». In un hotel che non gode della miglior fama… Le indagini sono in corso.
Weber smette di suonare, si siede accanto a Hilde. Ora leggono entrambi la notizia. Poi Weber guarda l’orologio, ha da fare, la saluta, va via.
41.
La signora Dolein diretta al riconoscimento della salma. Per le strade. In commissariato. In ospedale, ecc,
La signora Dolein e il commissario, nel corridoio davanti all’obitorio oppure in un ufficio.
La signora Dolein È lei. È mia figlia. Chi l’ha uccisa?
42.
Un professore detta il referto o meglio la denuncia di morte. Una dose in grado di procurare la morte nel giro di qualche minuto. Nessun segno di violenza subita, nessuna ferita, nessuna traccia, neppure la più piccola, che il veleno sia stato somministrato perfidamente. Con ogni probabilità è da ipotizzare un suicidio.
43.
Commissario dalla signora Dolein.
La signora Dolein perché avrebbe dovuto uccidersi? In un simile hotel? La ragazza più a modo sulla faccia della terra!
44.
Hilde nella sua stanza. Suona il telefono. Si affretta a rispondere.
Hilde Sia ringraziato il cielo che sei tu. È già andato via. Hai letto? Nella stanza accanto alla nostra. Ma conoscono i nostri nomi. Speriamo. Domani. Mi vuoi ancora bene?
45.
Dalla signora Dolein. Il commissario e la signora Dolein.
Commissario Ha lasciato qualcosa di scritto? Dobbiamo cercare. Lettere? Diari?
La signora Dolein apre la scrivania e l’armadio della figlia.
Il commissario fruga.
È insieme a un funzionario della polizia criminale.
Commissario Con chi aveva contatti negli ultimi tempi?
Frau Dolein Era fidanzata.
Commissario Questo naturalmente è interessante.
Frau Dolein Non vive a Vienna. In primavera si sarebbero dovuti sposare.
Commissario È del suo fidanzato questa lettera? (fa un nome) -
La signora Dolein No.
Commissario Neppure questa? - e quest’altra? Una corrispondenza vivace.
Nessuna firma. - Karl
….
l’Unità 14.11.07
Mussolini «generoso» con Gramsci? E quando mai?
di Giuseppe Tamburrano
Nell’articolo di Giuseppe Tamburrano (l’Unità 08/11/2007) a commento della lettera inviata da Gramsci a Novelli (responsabile nel 1933 delle case di pena) sulle condizioni insopportabili cui era costretto, su violazioni del regolamento carcerario e su violenze psicologiche e fisiche subite, vi sono imprecisioni ed inesattezze. La più grave - ed è la prima volta che viene avanzata da un socialista - è certamente l’affermazione gratuita e infondata, secondo la quale Mussolini, fu tutto sommato, «generoso» con Gramsci. Questa affermazione, finora sostenuta da personaggi come Veneziani ed i suoi amici fascisti, e smentita dai fatti. La «generosità» sarebbe consistita nel aver permesso che un medico di fiducia (Prof. Arcangeli) lo visitasse in carcere. Questo era un diritto previsto da regolamento carcerario. La libertà vigilata non fu una concessione di Mussolini, ma perché Gramsci era nelle condizioni giudiziarie per poterne usufruire. In un incontro tra Mussolini e l’ambasciatore sovietico Potëmkin (dicembre 1934) alle richieste di quest’ultimo di procedere ad uno «scambio di prigionieri politici», il duce risponde: «Gramsci non è un prigioniero politico... ma un delinquente comune che tramava una congiura contro il Regno».
La destinazione di una casa di cura di Gramsci è decisa personalmente da Mussolini (a Formia) per il timore che si organizzasse una sua fuga. Pur in stato di libertà condizionale la situazione del prigioniero non cambia come scrive Tania alla sorella Julka. Fino al giorno della sua morte la clinica Quisisana di Roma (ove Gramsci aveva chiesto di essere trasferito) è circondata da poliziotti e carabinieri. La verità è che Mussolini fu costretto ad alcune concessioni al prigioniero, in primo luogo perché non voleva che morisse in carcere, ma soprattutto perché, come ha annotato Gaetano Salvemini «era molto sensibile alla campagna di solidarietà che si svolgeva soprattutto in Francia a favore della liberazione di Gramsci, Terracini, Pertini, Ravera ed altri detenuti».
Tutta la parte (i due terzi) dell’articolo di Tamburrano dedicata alla solita polemica anticomunista, non è una novità. Nessun comunista lanciò pietre contro Gramsci. La testimonianza che ci ha più volte ricordato Pertini, presente all’episodio, è che due anarchici gettarono contro Gramsci una palla di neve. Gramsci non fu escluso dal collettivo dei 16 comunisti detenuti a Turi (vi erano anche due socialisti, tra i quali Pertini, e due anarchici), ma fu lui a decidere, per non aggravare la situazione nel collettivo, di interrompere il ciclo di lezioni che aveva iniziato. I colpevoli dei contrasti e delle critiche a Gramsci (in particolare Tulli, Scucchia e Lisa) furono colpiti da misure disciplinari dal centro estero del Pci, fino all’espulsione di due dei tre. Ma ci furono altri detenuti comunisti come Trombetti, Laj, Tosin, Ceresa, Piacentini che continuarono ad aiutare e a sostenere Gramsci. Trombetti, comunista, condivise la stessa cella di Gramsci molti mesi, per poterlo assistere ed aiutare nei momenti più difficili. Su altri episodi la polemica con Tamburrano va avanti da molto tempo, nel silenzio di chi sa e non dovrebbe tacere. Continuo a condividere il giudizio espresso da Carlo Rosselli in un articolo apparso su Giustizia e Libertà il 30 aprile 1937: Mussolini aveva operato contro Gramsci e attuato «un lento assassinio». Carlo Rosselli e il fratello saranno pochi mesi dopo assassinati a loro volta dai fascisti francesi, finanziati e sostenuti da quelli italiani, complice il duce. Per concludere questa nota suggerisco a Tamburrano di rileggere l’articolo di Gramsci dal titolo «Capo» (L’Ordine Nuovo, 01-03-1924) per comprendere, in una certa misura, l’accanimento di Mussolini contro di lui.
Michele Pistillo
La nota di Pistillo è scritta nel «vecchio stile» del partito di Lenin e Stalin, fino all’accusa implicita quasi di «socialfascismo». Io ho scritto che Mussolini voleva Gramsci a lungo nel carcere e che fosse sottoposto a strettissima vigilanza. «Per il resto Mussolini fu ’generoso’ con Gramsci» (le virgolette danno un sapore ironico all’aggettivo). Pistillo afferma che le generosità erano diritti di Gramsci in base alle leggi dimenticando, forse, che il fascismo non era un regime fondato sulla legalità. E Mussolini era il padrone e faceva quello che voleva: e se non voleva accogliere le richieste di Gramsci (come pure ha fatto) diceva «no» e basta.
Pistillo scrive che Mussolini fu costretto ad alcune concessioni (allora ci furono delle concessioni?!) soprattutto per la campagna di solidarietà a favore di Gramsci. Figurarsi! Mussolini sensibile alla «campagna di solidarietà»! Tra l’altro è vero il contrario: il padre di Piero Sraffa, l’amico fedele di Gramsci, ha scritto che la pubblicazione della diagnosi del prof. Arcangeli sulle gravi condizioni di salute di Gramsci, la quale suscitò la campagna di solidarietà, «è stata un ’patatrac’ sui passi compiuti, e con prospettive favorevoli, per la liberazione vigilata di Gramsci». (Questa lettera è riportata da Paolo Spriano in Gramsci in carcere e il Partito, l’Unità, p. 156). Le «pietre contro Gramsci»? Non è una mia invenzione: lo riferisce il comunista Athos Lisa nelle Memorie, Feltrinelli, 1973, con prefazione di Terracini, p. 75).
«Gramsci non fu escluso dal collettivo» del carcere: afferma Pistillo. A me lo ha detto Leonetti che lo ha saputo da un comunista di Turi, Enrico Tulli. E Terracini ha confermato: «È senz’altro così», usando la parola «emarginato».
Mi pare che sia tutto.
P.S. Nel mio articolo in questione ho scritto «carcere di Formia»: per l’esattezza era una clinica privata e da qui le misure severe di vigilanza.
Corriere della Sera 14.11.07
Amore&Guerra
Picasso e la giovane ispiratrice Dora: così nacque Guernica Eros, arte e politica per celebrare l'antifascismo spagnolo
di Sergio Luzzatto
Non era quella la prima volta che si incontravano, lì ai «Deux Magots», nel più leggendario tra i cafés della Rive Gauche. Si erano visti già in altre occasioni dopo che Paul Éluard, il poeta comunista, aveva presentato al celebre pittore spagnolo l'intrigante fotografa mezzo francese e mezzo croata, cresciuta in Argentina e nota a Parigi come artista engagée. Ma fu quel giorno d'autunno del 1935 che Dora Maar conquistò Pablo Picasso, con un gioco di crudele intensità erotica.
Portava guanti neri ricamati con fiorellini rosa. Se li era tolti, aveva impugnato un coltello nella mano destra e aveva preso a piantarlo dentro il legno del tavolo, sempre più velocemente, fra le dita aperte della mano sinistra. Ogni tanto — questione di millimetri — sbagliava il colpo, e il sangue sgorgava copiosamente dalle sue ferite. Pablo era rimasto incantato da quel numero, forse un lascito delle stramberie sadomaso apprese da Dora negli anni della liaison con Georges Bataille e delle frequentazioni surrealiste. Fuori, sul marciapiede, Picasso aveva chiesto alla donna di offrirgli in dono i guanti neri, e li aveva solennemente riposti nella vetrina dove conservava questo genere di reliquie. La loro storia d'amore era incominciata così, dentro una cornice quasi improbabile di spagnolesco esibizionismo. Lui aveva 54 anni, lei 28.
Nel decennio successivo, Dora avrebbe sostenuto come una musa la creazione artistica di Picasso, servendo da inesauribile soggetto della sua pittura. «Donna seduta in poltrona», «Donna seduta in giardino», «Donna col cappello a piume », «Donna col gatto », «Donna che piange »: un po' tutto il catalogo di Picasso dal 1935 al '45 risulta occupato dalla presenza di Dora, tenebrosa almeno altrettanto che sensuale, drammatica almeno altrettanto che impudica.
E tuttavia, Dora Maar non è entrata nella storia dell'arte soltanto come l'amante e la musa del Picasso maturo. Grazie a uno straordinario rovesciamento di ruoli, ci è entrata anche per avere fatto di Picasso il soggetto della sua propria creazione d'artista. Successe nell'estate del '37, quando nel nuovo studio che Dora stessa gli aveva trovato in rue des Grands Augustins (a due passi dai galeotti «Deux Magots») Picasso lavorò alla più gigantesca delle sue tele, gli oltre venti metri quadrati di un dipinto unico nel suo genere, «Guernica». E Dora era là, con la macchina fotografica in mano, a immortalare giorno per giorno la nascita del quadro forse più famoso del Novecento.
Settant'anni più tardi, la riproduzione di una di quelle foto figura sulla copertina di Guernica, 1937 (Donzelli): il libro che Angelo d'Orsi ha dedicato non tanto alla storia del dipinto di Picasso, né alla storia della cittadina basca che al dipinto diede il titolo, ma alla storia del mondo nuovo inaugurato nel pomeriggio del 26 aprile 1937, quando — si era nel pieno della guerra civile spagnola — l'aviazione tedesca si accanì contro un paesone alle porte di Bilbao, seminando ovunque il terrore e la morte. Primo bombardamento aereo a tappeto, in un secolo che ne avrebbe conosciuti fin troppi. Superamento di una soglia, poiché fino ad allora, colpendo dall'alto, si erano risparmiati gli obiettivi civili (almeno in Europa: non nell'Etiopia del '36, straziata dall'aviazione italiana). Prova generale di Coventry e di Dresda, se non proprio di Hiroshima.
Della guerra civile spagnola, d'Orsi coltiva un'idea diversa da quella oggi prevalente nella migliore storiografia. Secondo lo studioso torinese, quanto lacerò la Spagna dal 1936 al '39 fu un conflitto internazionale piuttosto che un conflitto intestino: la penisola iberica come l'insanguinata palestra dove si affrontarono i totalitarismi di destra e di sinistra, a fronte della colpevole inazione delle maggiori democrazie occidentali. «Non fu una guerra civile», arriva a scrivere d'Orsi: fu una «aggressione combinata alla Repubblica spagnola », dall'interno attraverso l'alzamiento di Francisco Franco, dall'esterno attraverso la mobilitazione delle potenze fasciste.
«Uno scontro fra l'antidemocrazia e la democrazia »: semplicemente questo, per d'Orsi, la guerra di Spagna. Ed è un'interpretazione manichea, tutto bianco o tutto nero, laddove storici avvertiti ci hanno insegnato a riconoscere nella tragedia spagnola numerose tonalità di grigio. Il che non toglie a d'Orsi il merito di avere preso le mosse da un'intuizione culturalmente felice, che regge bene alla verifica della scrittura. Appunto, l'intuizione secondo cui il bombardamento di Guernica rappresenta un buco nero della storia contemporanea, dove si concentrano e dove implodono un po' tutto il bene e po' tutto il male del XX secolo.
La Germania nazista, risoluta a testare sul campo le meraviglie della Luftwaffe di Göring. L'Urss comunista, decisa a eliminare anche fuori casa i trotzkisti, gli anarchici, e tutti gli altri traditori del proletariato sfuggiti alle purghe di Stalin. L'Italia fascista, intenzionata a mostrare sui campi di battaglia d'Europa la muscolatura sfoggiata per pochi intimi sugli altipiani d'Abissinia. Le Brigate internazionali, variopinta armata di volenterosi divisi su tante cose, ma uniti nella convinzione che difendere la Repubblica da Franco equivalesse a difendere l'umanità dalla barbarie. I personaggi collettivi del libro di d'Orsi hanno poco di originale, sono i medesimi che ritornano in quasi tutte le ricostruzioni della guerra di Spagna come vicenda internazionale. Ma il racconto si impenna (e l'analisi storica si fa stringente) quando i nomi collettivi lasciano il posto ai nomi individuali: ai singoli, uomini o donne, che da vicino o da lontano fecero i conti con l'inaudito, Guernica.
Questi conti non ebbe il tempo di fare Antonio Gramsci, che in una clinica di Roma consumò il proprio martirio entro ventiquatt'ore dal martirio della cittadina basca. Ma li fece, dalla Francia, Pablo Picasso, che scelse di dipingere Guernica per onorare il padiglione della Repubblica spagnola all'Esposizione internazionale dell'estate 1937. Una tela — dichiarò l'autore senza mezzi termini — dipinta per «odio» della «casta militare» che aveva sprofondato la Spagna «in un oceano di dolore e di morte». Un'opera programmaticamente politica, esposta al pubblico parigino durante l'estate stessa in cui nella Berlino hitleriana si esponevano i mostri della cosiddetta «arte degenerata », e si additava Picasso (ariano, ma in odore di comunismo) come l'artista più degenerato di tutti.
A suo modo, anche il Guernica di d'Orsi può valere come antidoto a certe odierne liquidazioni dell'arte impegnata e, in generale, della politicità della cultura.
Ma la tela fu dedicata a un torero
Fu soprattutto la celebre tela di Pablo Picasso a trasformare la città basca di Guernica, bombardata da aerei tedeschi e italiani alleati di Franco durante la guerra civile spagnola, nel simbolo di un uso spietato dell'aviazione contro popolazioni inermi. In realtà l'incursione fece meno vittime rispetto ad altri raid aerei compiuti in quel conflitto. E anche sulle reali origini del quadro sono stati avanzati dubbi. Alcuni sostengono che si trattasse di un dipinto dedicato alla morte del torero Joselito e che Picasso lo abbia poi modificato su commissione del governo repubblicano spagnolo.
Corriere della Sera 14.11.07
Al Palladium di Roma «Settanta». Gli interpreti: cattivo maestro? No, è contro la violenza
Negri, autobiografia a teatro
Un'educazione sentimentale tra scontri e dibattito politico
Ultrasinistra Pièce scritta dal teorico dell'ultrasinistra sul rapporto tra un intellettuale e una femminista
di Emilia Costantini
ROMA — Andrea e Margherita: lui è un intellettuale; lei, molto più giovane, una femminista. Sono stati militanti insieme e si sono amati. Nel bene e nel male, hanno creduto in un mondo migliore. Lui, però, accusato di essere un ideologo del terrorismo, ha passato in galera un bel po' di tempo, poi in esilio all'estero. Si incontrano dopo trent'anni, nella stessa città dove tutto è cominciato: è l'occasione di un bilancio, politico e soprattutto sentimentale.
Settanta è la prima e unica pièce scritta da Toni Negri, teorico dell'ultrasinistra, insieme alla drammaturga Raffaella Battaglini: legati ora in palcoscenico e legati trent'anni fa anche nella realtà. Un testo autobiografico, che domani sera al Teatro Palladium sarà prima presentato dallo stesso Negri e poi letto dagli attori Nello Mascia e Alvia Reale. Dice Mascia: «Nella mia gioventù, Negri era un mito, un eroe». Dunque, non un «cattivo maestro»? Ribatte: «Neanche per sogno. Era una personalità al di fuori della mischia, un fine intellettuale che credeva in una rivoluzione non cruenta. Il suo è stato un caso emblematico di ingiustizia da parte della classe politica dell'epoca: un capro espiatorio».
Andrea e Margherita, nella pièce, ripercorrono la loro avventura, attraverso le tappe della loro educazione sentimentale, ma anche attraverso il ricordo degli scontri di piazza, del dibattito interno al movimento, in un gioco di flashback che mettono a confronto le illusioni di un tempo con le conseguenze nel tempo attuale. Dice la Reale: «Negli Anni '70 loro credevano nel movimento operaio come modello rivoluzionario, che avesse come unico scopo una vita diversa. Un progetto fallito». Anche lei difende Negri: «Non è mai stato un cattivo maestro. Era assolutamente contrario alla lotta armata e infatti, nel testo, spunta un personaggio simbolico: l"intruso" (interpretato da Nuccio Siano,
ndr). È lui il compagno che mette Andrea nei guai, facendolo deragliare nella lotta armata. Ed è duro lo scontro tra Andrea, puro idealista, e il terrorista».
Aggiunge Mascia: «Che è poi ciò che è successo nella realtà: Toni Negri si è sempre dissociato dalla cosiddetta "ala romana" del movimento, quella per intenderci responsabile del sequestro Moro. Non ha mai teorizzato l'affermazione violenta dell'ideologia. Nonostante ciò, fu sbattuto in galera e fu solo grazie a Pannella che, facendolo diventare deputato, uscì fuori da quella situazione» Un testo revisionista, dunque? Risponde la Reale: «È solo un modo per confrontarci con un pezzo della nostra storia, per ragionare, riflettere sugli errori commessi e, perché no?, aprire un dibattito oggi: se ci sarà qualcuno, tra il pubblico, che si alza e dice "non sono d'accordo", ben venga. Meglio la discussione, che dimenticare o, peggio, rimuovere».
A parte alcuni spettacoli sul «caso Moro», il teatro si è aperto poche volte al dibattito sui bui anni di piombo: «Rimozione bella e buona— ribadisce Mascia — C'è una battuta nel testo che dice più o meno così: quegli anni sono stati duri, difficili, magari sbagliati, ma non si può ignorarli, perché ci hanno cambiato la vita a tutti».
Un teatro che vuole interrogarsi? Conclude l'attore napoletano, già più volte impegnato nel teatro civile: «Serve a fare chiarezza. In fondo, è la testimonianza di una sconfitta. Come Toni Negri, noi di quella generazione abbiamo perso».
il manifesto 14.11.07
Al festival di Damasco il cinema è tutto da scoprire
Immagini stranianti e estranee da altri mondi, da Antonioni a David Lynch, una retrospettiva sull'attore, comico e regista Dureid Laham, «Caramel» di Nadine Labaki: nelle sale siriane si accendono i riflettori
di Donatella Della Ratta
Damasco. Un omaggio a Michelangelo Antonioni e a Ingmar Bergman, una panoramica sui film di Marlene Dietrich, un focus su Luis Malle, oltre alle migliori pellicole internazionali di ultima produzione, fra cui spiccano il Rivette di Ne touchez pas la hache e l'ultimo Lynch di Inland Empire poi il Tarantino di Death Proof in coppia con Planet Terror di Rodriguez. Niente di trascendentale, se non fosse che siamo a Damasco, al festival internazionale del cinema appena conclusosi nella capitale siriana, e questi sono titoli che difficilmente arrivano nelle sale del paese, scarse in numero e dominate dalla produzione di massa egiziana e americana, i due «imperialisti» del cinema in tutto il mondo arabo. E a giudicare dalla folla che si è accalcata nelle poche sale damascene per seguire il festival, c'è richiesta di un certo cinema anche al di là del Mediterraneo, dove arriva ancora più difficilmente che sulle nostre sponde.
Sale sempre piene, ressa per acquistare i biglietti, e soprattutto un pubblico incuriosito, anche di fronte a cinematografie - come quella lynchiana - completamente estranee e mai distribuite nel paese. Pellicole presentate in versione integrale, senza tagli, cosa che stupisce lo sguardo occidentale abituato a pensare i paesi arabi in termini di censura. E invece la scelta, coraggiosa, del festival, è stata quella di presentare tutto al pubblico locale, di offrire una panoramica sul cinema occidentale più controverso, innovativo e moderno. E pare che il pubblico abbia reagito bene, cosa che ha convinto la direzione del festival a trasformarlo in appuntamento annuale da evento biennale quale era in passato. Anche nel palmares dei premi è emerso uno sguardo attento su cinematografie raffinate, come quella iraniana di It's winter di Rafi Pitts (in lizza per l'Orso d'oro a Berlino 2006) che a Damasco ha portato a casa la medaglia d'oro; mentre il premio alla miglior regia è andato a Marco Bellocchio, con il suo Regista di matrimoni accolto in modo incuriosito e caloroso dal pubblico siriano. Insomma, un festival riuscito nello sforzo di presentare immagini stranianti ed estranee da altri mondi, immagini insolite rispetto al gusto dominante del blockbuster Usa. Purtroppo, per chi invece è in cerca di film di produzione araba non si può dire lo stesso. Certo, si è vista una preziosa retrospettiva del lavoro di Dureid Laham, comico e regista siriano di eccezionale popolarità in tutto il mondo arabo.
Laham, in tandem con Nihad Qalei, ha letteralmente inventato la comicità siriana, dando vita a una coppia di personaggi che riflettevano la società del tempo, una sorta di Stanlio e Onlio siriani. I personaggi creati da Dureid e Nihad riflettono una Siria che cerca di emanciparsi dagli strascichi dell'Impero Ottomano, e più tardi del mandato francese, per entrare nell'epoca moderna con le sue problematiche sociali, economiche e politiche. L'ascesa di un cinema come quello di Dureid e Niham racconta una Siria che si afferma sempre di più come paese che produce industria culturale di massa ma di qualità, combattendo il monopolio della cultura egiziana con l'uso del dialetto siriano e l'introduzione di temi sociali anche nella commedia. Dureid e Niham furono talmente capaci di restituire le problematiche del tempo in un tessuto comico universale, che negli anni sessanta la tv libanese cominciò a produrre uno show con i due comici e con la regia del siriano Khaldoun Al Maleh, più tardi distribuito a tutti gli altri canali arabi. Lo show successivo, Maqaleb Ghawar, sempre prodotto per la tv libanese, segnò il definitivo boom della comicità siriana nei paesi arabi. Più tardi, nel 1984, Dureid Laham, in coppia con il grande sceneggiatore teatrale Mohammad al Maghouti, diede vita a una delle più sferzanti satire che siano mai viste nel mondo arabo: Al hudud (la frontiera), pellicola dove il protagonista - lo stesso Laham - perde il passaporto al confine fra due paesi arabi immaginari, ed è costretto a vivere sulla frontiera, rifiutato da entrambi. Un film che, riproposto proprio dal festival di Damasco, non ha perso in attualità, ritraendo un mondo che si proclama senza frontiere e che si spreca in promesse democratiche ma che in realtà naviga da tutt'altra parte. Quello che stupisce di più, proprio di fronte alla contemporaneità di Laham, è l'assenza di temi rilevanti e attuali nei film arabi contemporanei, o almeno nella selezione presentata al festival. Con una produzione scarsissima (in media una o due pellicole all'anno) il cinema siriano presentato a Damasco - per esempio Out of coverage di Abdellatif Abdelhamid - sembra essersi ripiegato su se stesso piuttosto che voler riflettere sulla società contemporanea e le sue problematiche - cosa che invece fanno registi di soap opera tv, come Najdat Anzour, ormai capofila di un movimento di fiction siriane impegnate e di alta qualità. Pochissimi sono gli esempi che riescono felicemente a portare il close up da un gruppo ristretto di relazioni umane a un livello sociale più ampio regalando uno spaccato sociale contemporaneo: il libanese candidato all'Oscar Caramel di Nadine Labaki (a Damasco premio come migliore interpretazione femminile), che racconta le vicende di quattro giovani libanesi alle prese con relazioni extraconiugali, innamoramenti lesbici, e operazioni per recuperare la verginità perduta agli occhi di una società solo apparentemente di costumi liberali, è uno di questi. Così Driving to Zgizgiland di Nicole Ballivian, produzione Usa-Palestina, commedia black su un tassista palestinese che sogna la green card e per ottenerla deve fare i conti con una routine di razzismo, intolleranza, e soprattutto ignoranza.