La presentazione alla Casa della Cultura di Roma dell'ultimo libro di Alberto Burgio su Gramsci è l'occasione di un dibattito aperto su temi storici come egemonia, cesarismo, rivoluzione passiva e blocco storico
Bertinotti-Tronti: ma le primarie sono democratiche?
di Manuele Bonaccorsi (collaboratore di left)
Attualità e inattualità di Gramsci. Su questo tema, nel ricorrere dei settant'anni dalla morte del dirigente e intellettuale comunista, il presidente della Camera Fausto Bertinotti e il direttore del Centro per la riforma dello Stato Mario Tronti hanno discusso lunedì sera alla Casa della Cultura di Roma con Alberto Burgio, docente di Storia della Filosofia all'Università di Bologna, parlamentare del Prc e autore di Per Gramsci e autore di Crisi e potenza del moderno (Derive e Approdi, pp. 175, euro 14,00). L'analisi storica del pensiero di Gramsci, delle sue potenzialità e innovazioni, ha fatto da sfondo alla critica del presente, alla ricerca dei paradigmi capaci di spiegare la crisi storica della sinistra, e gli strumenti per il suo superamento. Al centro il bisogno di approfondire la riflessione teorico-politica, in un'epoca - come dice Fausto Bertinotti - «nella quale è difficile trovare luoghi per una ricerca di cultura politica, senza la quale non può svilupparsi una comunità capace di dar fiato alla nascita di un "socialismo del XXI secolo"».
L'incontro di lunedì è stato un primo esperimento nella ricerca di spazi dove realizzare uno "scavo teorico", reso ancor più prezioso dalla diversità di accenti tra i tre interlocutori, che si sono divisi e incontrati sull'uso delle categorie gramsciane (egemonia, cesarismo, rivoluzione passiva, blocco storico) sullo sfondo del grande tema della "crisi e potenza del moderno" posto dal testo di Alberto Burgio.
Mario Tronti non ha nascosto l'esistenza, nel pensiero di Gramsci, di «categorie inattuali», a partire dalla difficoltà di rintracciare in una società complessa un "blocco storico" dai confini delimitati. Ma ha definito «di stringente attualità» altri due paradigmi, che rendono Gramsci un autore "antieconomicista", secondo il quale la politica «non è riduzione meccanica dell'economia»: da un lato Tronti recupera il tema dell'egemonia (l'importanza della pedagogia politica e del potere come autorevolezza), definendo centrale nella strategia della sinistra «il rovesciamento del rapporto di egemonia», da raggiungere attraverso «una riorganizzazione delle forze in campo, senza cui non si può passare all'attacco». D'altronde, afferma Tronti citando Gramsci «in una crisi organica, in cui vittorie e sconfitte sono provvisorie, l'assedio è reciproco». Sul tema del cesarismo Tronti e Bertinotti si trovano in disaccordo: il primo mette l'accento sull'ambiguità dialettica del concetto, e utilizza la categoria del "cesarismo democratico", populista. E' il meccanismo delle primarie, che favorisce un «eccesso di importanza delle personalità politiche, rinvenibile, ad esempio, nell'ideale gollista della monarchia repubblicana». Il presidente della Camera, al contrario, distingue tra «il leaderismo debole del centrosinistra italiano», e quello forte, «impersonato da Sarkozy, che riclassifica la politica a partire dall'idea di nazione, e solo poi viene a patti coi poteri forti del capitale». Ma la vera "rivoluzione passiva", per Bertinotti, è la destrutturazione della sovranità subita dai cittadini, la dissoluzione della politica, in primis quella della sinistra, dinanzi al «potere totalizzante del capitalismo»: è il tema della crisi di civiltà. Dinanzi alla quale perde di importanza la distinzione tra destra e sinistra (intesa come espressione politica del movimento operaio) che ha caratterizzato il ‘900. Al loro posto subentrano la coppia alto/basso, dove «il basso non viene intercettato dalla sinistra e si oppone alle stesse regole di organizzazione della società»; e quella amico/nemico, che spinge verso la paura e la ricerca di capri espiatori. La conseguenza è uno «scompaginamento delle identità», che approfondisce la crisi della democrazia. Eppure, anche per Bertinotti che teorizza l'uscita dal ‘900, il pensiero di Gramsci rimane attuale: a partire dal concetto di egemonia, opposto ad ogni determinismo politico, che definisce la trasformazione come «un processo politico-culturale», anche se oggi «è impossibile ripensare l'egemonia sui concetti di blocco storico e partito». Dalla crisi delle categorie del secolo passato, per Bertinotti, si salva anche il tema del «lavoro vissuto, senza il quale è impossibile ricostruire l'alternativa».
Infine Alberto Burgio risponde agli stimoli dei due interlocutori e del pubblico che ha riempito la sala della Casa delle Culture. Burgio ritorna sui temi partito/operaio/destra e sinistra, e li definisce «nomi comuni, non nomi propri», denominatori che si tramutano con la trasformazione della società. «Il partito è organizzazione, coscienza, obiettivi condivisi che rendono operativo il conflitto. E' una categoria superata? Non credo. Sarebbe come dire che la politica può fare a meno di soggetti strutturati». Lo stesso vale per il concetto di moderno, che Burgio, fautore dell'attualità di Gramsci, ritiene per nulla superato. «Anche nella notte dei tempi c'erano germi di progresso». Oggi - nell'epoca in cui il capitalismo è egemone su gran parte del pianeta, nella fase della più profonda crisi della democrazia, come ieri, quando Gramsci si interrogava dinanzi alla venuta del fascismo su «vettori espansivi e risposte regressive» - la crisi custodisce un inarrestabile bisogno di trasformazione e giustizia sociale. In questa dialettica della modernità Gramsci - scrive Burgio - ci fornisce ancora «la partitura teorica della nostra epoca e della sua crisi».
Liberazione 14.11.07
La cultura civile di Genova contro ingiustizie e vendette
Siamo testardi, rifiutiamo l'odio e l'idea del nemico
di Raffaella Bolini
Prc: «Non saremo in piazza contro la polizia»
Genova, sabato 17. verità e giustizia e niente altro
Ci ostiniamo testardamente a credere che questo possa diventare un paese civile. Per questo, ancora una volta, sabato prossimo saremo a Genova. Era un paese decentemente civile quello in cui molti di noi credevano di vivere fino al 20 luglio del 2001, quando ci avviammo incontro alla mattanza con la serenità di chi possiede il privilegio immenso di fare conflitto sociale in una democrazia. Era innanzitutto cultura civile quella che praticammo nei giorni dopo Genova, quando tutta Italia scese in piazza senza che volasse un sasso perché non volevamo diventare come quelli che avevano ucciso, picchiato, torturato.
Ricostruire civiltà in questo paese è ciò che facciamo continuando a chiedere verità e giustizia, pretendendo che le autorità si assumano le proprie responsabilità per la più grave violazione dei diritti umani in occidente dal dopoguerra.
Difendiamo noi stessi, la memoria di Carlo Giuliani, il bisogno di risarcimento morale di tutte le vittime. E insieme, diamo ancora una volta occasione alle istituzioni e alle forze dell'ordine per recuperare a se stesse dignità. In un paese civile, le istituzioni sarebbero le prime a non voler convivere con macchie scure sulla propria coscienza. Dovrebbe essere evidente l'importanza, in una società non feudale, della credibilità che viene dalla trasparenza. Ma questo, evidentemente, non è un paese civile. E' un paese dove le istituzioni sono abituate a convivere con la mafia, con la corruzione. Siamo il paese delle stragi, dei depistaggi, delle connivenze. Il potere difende se stesso, la sua sopravvivenza, la sua intangibilità. E' normale in Italia che i colpevoli siano promossi.
Noi, con la caparbietà di chi continua a difendere l'Italia democratica nata dalla Resistenza, confidiamo che la magistratura impegnata nei processi di Genova e Cosenza voglia fare il suo lavoro in modo indipendente. Confidiamo che saprà giudicare con equità, guardando ai fatti. E che non si presti neppure per un attimo a utilizzare venticinque ragazzi come pesi sui piatti delle bilance giudiziarie a cui finora è affidato, in assenza di una Commissione di Inchiesta parlamentare che ricostruisca le responsabilità politiche di insieme, il compito di trarre le somme dei fatti di Genova. Venticinque ragazzi, molti dei quali colpevoli di aver osato opporre una qualche forma di resistenza alla terribile paura di morire ammazzati dai caroselli delle autoblindo e dai proiettili sparati ad altezza d'uomo.
In questi giorni, ancora, un proiettile sparato a altezza d'uomo da un essere umano in divisa ha ucciso un ragazzo. Dopo Genova, molti di noi hanno imparato a dare più attenzione a quello che accade nelle strade, nei commissariati, nelle carceri dove troppe volte i diritti umani vengono violati. E' lunga la lista delle persone picchiate, umiliate, e qualche volta uccise.
«Manifesteremo pacificamente per chiedere chiarezza sulle violenze di quei giorni, non saremo in piazza per unire coloro i quali sono contro le forze di polizia. Qualsiasi invito a partecipare alla manifestazione che prescinda da tale spirito non è accettabile». Rifondazione, con Michele de Palma, membro della segreteria nazionale e responsabile movimenti del partito, ribadisce perché la macchina organizzativa di associazioni, reti, partiti e forze sindacli si è messa in moto da tempo. Risponde, come fanno in diversi ieri, alla "proposta a mezzo stampa" di Luca Casarini dal Nord-Est, che aveva invitato dalle colonne del Corriere a trasformare la giornata per verità e giustizia sul G8 in una «grande manifestazione contro l'impunità della polizia». Risponde anche Vittorio Agnoletto, ex-portavoce del Gsf ricordanod a Casarini la pregiudiziale antifascista del movimento e la scleta di evitare la spirale repressione-violenza fatta insieme nel 2001 e ribadita nel comune appello per la manifestazione di sabato. Che, ieri, tra l'altro, è stat presentata a Genova, trovandosi la "bella sopresa" di Casarini sulla stampa.
La manifestazione scorrerà su «un percorso semplice, lineare, con strade larghe», ma anche lontano da luoghi simbolo o da obiettivi sensibili, hanno fatto sapere il cartello di promotori (tra cui Arci, Fiom, Lavoro e Società, Prc, Pdci, Comitato verità e giustizia per Genova, Legambiente, Comunità di San Benedetto; Sinistra Democratica e tanti altri). Concentramento alle 14.30 alla Stazione marittima, arrivo in Piazza De Ferrari dove parlerà Don Andrea Gallo e ci sarà un concerto al quale hanno già aderito, a titolo gratuito, Roy Paci, Zulu e gli Assalti frontali.
«La città sta reagendo molto positivamente - ha commentato Mirko Lombardi, responsabile della federazione di Genova del Prc - le prese di posizione della sindaca e del consiglio comunale hanno aiutato molto e ci aspettiamo una grande manifestazione di popolo per chiedere veriutà e giustizia e una commissione d'inchiesta. Dopo sei anni nulla è archiviato»,
Smorza i toni di rischi anche il Prefetto, Giuseppe Romano, «chiunque può venire a Genova a manifestare il proprio pensiero in modo civile e nel rispetto delle regole». «Genova è una città accogliente e chissà che sabato non possa iniziare un processo di "svelenamento" nei rapporti tra forze dell'ordine e parte della società civile». Lo schema, quindi, sarà quello di Firenze per intendersi, polizia ai lati e nessun schieramento militarizzato.
Liberazione 14.11.07
Il vero continente nero?
Parliamoci chiaro, sono gli uomini
di Pierangiolo Berrettoni
Uno studio dotto ma anche molto diretto su "Il maschio al bivio", di cui pubblichiamo uno stralcio dalla premessa.
Dalla costruzione delle identità nell'antica Grecia per arrivare all'oggi: perché una parte dell'umanità ha rinunciato al desiderio?
Il saggio "Il maschio al bivio" è edito da Bollati Borighieri (pp. 288, euro 25), dai prossimi giorni in libreria
Questo libro nasce come profonda revisione di un volume precedente, La logica del genere , in cui avevo cercato di tracciare una sorta di genealogia e archeologia della cultura di genere nel mondo occidentale a partire dal periodo greco antico, quando si sono costituite le griglie interpretative con cui continuiamo in larga misura a organizzare la realtà, compresa quella umana. Partivo da due ipotesi teoriche di fondo: la prima, di lontana origine nella logologia sofistica, vede nel linguaggio un costruttore pragmatico di realtà e un esercizio di potere simbolico, piuttosto che un semplice strumento di rappresentazione; la seconda, più forte, che le griglie categoriali con cui costruiamo la cultura di genere e gli stereotipi del maschile e del femminile siano le stesse con cui le scienze, anche quelle cosiddette neutre e avalutative come la logica, la matematica, la grammatica organizzano discorsivamente e in qualche modo costruiscono i loro oggetti: soggiacente a entrambi gli ambiti è soprattutto lo schema mentale del pensiero dicotomico binario, esclusivo e privativo, che nasce con la tavola pitagorica degli opposti, prosegue con la divisione logica platonica (la diaíresis) e trova, nel campo del discorso di genere, la sua sistematizzazione più completa nella visione freudiana e lacaniana dell'assenza, della privazione, del «buco nero», alla base, per esempio, della teoria della relazione d'oggetto e del desiderio come mancanza o di quella dell'invidia femminile del pene. Ne consegue la logica della non contraddizione e del terzo escluso che, nel campo del discorso di genere, si imbatte nel «perturbante» dell'omosessualità, questo terzo escluso, che sembra turbare la rasserenante di-visione del mondo umano nei due generi esclusivi del maschio e della femmina e che, a partire da un famoso Problema attribuito ad Aristotele, si è presentata al pensiero occidentale come un enigma, un «problema» necessario di una spiegazione eziologica, secondo quella prospettiva epistemologica inaugurata da Aristotele che vede nella meraviglia il motore primo dell'indagine scientifica e soprattutto nel desiderio di «spiegare» ciò che non ci è familiare o ciò che è inatteso, perché perda il suo carattere intrinseco di Unheimlich (perturbante perché non appartiene alla nostra Heimat esperienziale) e di minaccioso; spiegarlo come si «spiega» un foglio, un giornale, un lenzuolo perché non restino, almeno tendenzialmente, pieghe e zone nascoste: vorremmo che nel discorso tutto fosse chiaro ed esplicito per non essere costretti a leggere tra le sue «pieghe».
In quel libro individuavo anche le lontane origini di uno schema mentale ricco di conseguenze nella nostra visione e di-visione della realtà, compresa quella umana: quello «schema comparativo» che inquadra le opposizioni non secondo la semplice constatazione di una differenza (l'uomo è differente dalla donna, il bambino è differente dall'adulto), ma secondo l'attribuzione di tratti sulla base del più e del meno (l'uomo è più/meno x della donna, il bambino è più/meno y dell'adulto e così via). Schema importante e inculcato per due millenni dai detentori del potere simbolico, perché nella visione classica il punto di vista descrittivo e definitorio non è mai separato da quello assiologico e valutativo, sicché l'analisi delle differenze si è sempre impostata secondo una prospettiva gerarchica.
Così com'era, il libro era troppo ampio e conteneva troppe digressioni specialistiche di tipo logico e grammaticale, che potevano scoraggiare un pubblico più vasto. È nata, così, l'idea di una sua riduzione drastica e di una sua concentrazione intorno a una sola delle due polarità di genere: il maschile nelle sue due varianti meno conflittuali di quanto siamo portati a pensare, ma anzi in qualche modo «complici», come cercherò di mostrare, il maschio eterosessuale e quello omosessuale.
L'ho intitolato Il maschio al bivio , sia perché l'immagine del bivio si è costituita attraverso il mito di Ercole come una delle componenti più insistenti nella formazione di un'identità maschile fondata sulla scelta tra impegno/fatica (pónos) e impenetrabilità da una parte, piacere, desiderio, edonismo, paticità dall'altra, sia perché il maschio occidentale, nella sua millenaria dialettica con il femminile, si è gravato nella cultura moderna di un ulteriore «fardello», la scelta esclusiva e dicotomica tra omosessualità ed eterosessualità.
Non ho usato casualmente il termine «fardello», se uno dei miti più tenaci con cui il maschio ha costruito il proprio sistema di dominazione è stato proprio quello del white man's burden , che non si è configurato necessariamente come cattiva coscienza e mistificazione, ma come autoimposizione (al limite del masochismo) di una logica e di un'etica del sacrificio, della rinunzia e della frustrazione. Quando Freud costruiva la sua teoria della civiltà come rinunzia al soddisfacimento immediato dei bisogni da parte dei fratelli in seguito all'uccisione del padre, non si rendeva ben conto che questa rinunzia era più precisamente all'origine del potere androcentrico istituito con una serie di interdizioni, quella dell'incesto (con il conseguente scambio delle donne e la loro riduzione a segni), dell'equa distribuzione del lavoro sessuale, del desiderio omosessuale, in ultima analisi della liberazione del desiderio, di cui si è forcluso il carattere fluido ed «emanante» in favore di quello fondato sulla mancanza.
Per lungo tempo Freud si è posto il problema di rispondere alla domanda su che cosa voglia la donna: nella trentatreesima lezione introduttiva alla psicoanalisi tenuta nel 1933 sulla femminilità (Die Weiblichkeit), iniziava l'esposizione affermando che durante il corso della storia si era sempre presentato il rompicapo (Grübel) sull'enigma (Rätsel) relativo alla determinazione della natura femminile, e presumeva che anche i suoi ascoltatori maschi si ponessero il problema, diversamente dalle donne, perché proprio loro sono il problema («Von den Frauen unter Ihnen erwartet man es nicht, sie sind selbst dieses Rätsel», Freud 1932/1979, p. 220). Oggi sappiamo, naturalmente, che la domanda sul desiderio femminile era mal posta o, per meglio dire, apparteneva a quello strato del pensiero freudiano che era maggiormente datato e più affondava le proprie radici nella cultura del periodo in cui si era formato: non un'acquisizione definitiva e atemporale, dunque, ma piuttosto un frammento di discorso di cui si può fare storia; l'enigma femminile non appartiene tanto a un Ewig-Weibliches presunto pancronico, quanto al più ampio regime discorsivo sulla donna di un'epoca ben precisa, che si riverbera nelle figurazioni delle Giuditte klimtiane, nelle donne con le calze nere di Schiele, nella Salomè e nell'Elettra straussiane.
Così come oggi sappiamo che il senso profondo di quella domanda dello scopritore dell'inconscio riguardava in realtà il desiderio e, più ancora, le paure dell'uomo, e si sarebbe dovuto formulare piuttosto come domanda su che cosa voglia l'uomo, se non fosse che i regimi discorsivi interni alla cultura di quel periodo non avevano ancora preparato l'uomo a interrogarsi su sé stesso e i suoi desideri, per quanto proprio Freud stesse aprendo una radura nel terreno in cui si sarebbero potute porre più tardi queste domande.
Le rivoluzioni della modernità, soprattutto quella femminista e quella omosessuale, hanno posto il maschio di fronte alla necessità di ripensare la propria identità in termini diversi, quando non alternativi, a quelli ereditati da millenni di costruzione dei valori dell'androcentrismo.
A chi, come me, si sia posto il problema doloroso di ripensare in termini nuovi la propria identità di genere, la posizione freudiana appare ribaltabile e proprio il maschile si costituisce come il vero enigma.
In particolare sono due gli enigmi maschili che mi sembrano particolarmente difficili da comprendere.
Il primo è come mai il maschio, nell'imporre il proprio modello di dominazione sulla donna, ma anche sul bambino, il barbaro, il selvaggio, in altre parole nell'inventare una logica e un ethos imperiali e «civilizzatori», abbia accettato di sottoporsi a una serie di fardelli che vanno dalla fatica del corpo alla rimozione delle emozioni e dell'affettività: è il «paradosso della dóxa» di cui parla Pierre Bourdieu, in base al quale, per accettare e addirittura valorizzare stili di vita ai limiti dell'inaccettabilità, siamo addirittura costretti a inventare e costruire sistemi discorsivi di dominazione simbolica che puntano sulla naturalizzazione dell'arbitrario, ovvero sull'elaborazione di una retorica del discorso scientifico che riesca a inculcare e incorporare come «naturali» valori e di-visioni che hanno invece un'origine tutta culturale.
Il secondo enigma che continuo a trovare senza risposta è come mai il maschio imperiale, temprato a ogni sorta di rinunzia e sacrificio, capace di affrontare deserti assolati e lande ghiacciate, nostalgie e pericoli, guerre e massacri per compiere la propria missione civilizzatrice, si mostri, poi, particolarmente «fragile» non solo nel campo delle emozioni, ma anche e soprattutto in quello dell'autoaccudimento quotidiano e bisognoso di delegare all'altro, perlopiù la donna o un suo sostituto (l'attendente), la propria stessa sopravvivenza emozionale e materiale: interrogativi forse impossibilitati a trovare una risposta, se non quelle parziali che ci danno la psicoanalisi e le archeologie dei saperi-poteri su cui si basano i vari sistemi di dominazione.
Liberazione 14.11.07
"Mein kampf", quel libro di Adolf Hitler venduto nella Libreria della Stazione
di Bianca Bracci Torsi*
Nell'atrio della Stazione Termini di Roma c'è la grande e modernissima Libreria della Stazione, tappa obbligata per chi parte e vuole qualcosa da leggere in treno, per chi deve rimediare in fretta un regalo intelligente, ma anche per ferrovieri, pendolari e passanti desiderosi di aggiornarsi sulle novità o cercare il libro di cui si parla.
Da qualche giorno tutti questi cittadini/lettori sono sottoposti ad uno shock brutale: in bella mostra nel settore Storia della libreria ci sono tre pacchi di un volume sulla cui copertina rossa spiccano in nero una svastica e una scritta in caratteri goticheggianti: "Mein kampf" di Adolf Hitler.
Si tratta della opera prima (e unica, per quanto se ne sa) che il futuro fuhrer tedesco scrisse nel 1924 con la collaborazione di Rudolph Hess durante la breve permanenza in carcere dove entrambi scontavano un tentativo di colpo di Stato.
Suddiviso in due ponderosi volumi il saggio comprende la storia del movimento nazionalsocialista e la sua ideologia, un misto di aberranti teorie eugenetiche sul diritto/dovere di uccidere i diversi e gli inferiori e gli attacchi alla democrazia parlamentare, oltre che al marxismo, direttamente ripresi dal fascismo italiano delle origini.
Il vero filo conduttore comunque è il concetto di "razza eletta" e il conseguente razzismo, base del nazionalsocialismo che sostituisce la lotta di razza alla lotta di classe, programma la distruzione fisica degli ebrei e lo sterminio dei bolscevichi con una "guerra di razza" che dovrebbe consentire ai puri ariani tedeschi di installarsi nei territori dell'Europa orientale riuniti in un unico Stato sotto l'indiscusso potere del superuomo descritto da Nietzsche, cioè Hitler stesso.
Alla sua uscita fra il ‘25 e il ‘26 "Mein kampf" ebbe scarso successo e scarsissima diffusione ma si rifece ampiamente negli anni 30 quando ridotto ad unico volume e con il titolo oggi noto fu stampato in milioni di copie ed entrò trionfalmente in tutte le scuole e in quasi tutte le case tedesche, acquistato per convinzione, per opportunismo, per paura.
Dopo la sconfitta del nazifascismo gran parte di quelle copie, invendute o gettate al macero dai loro proprietari, furono distrutte.
Il governo della Baviera, legittimo erede dei diritti d'autore, ne vieta la riproduzione e la vendita in Germania consentendo solo il possesso e l'acquisto di vecchie copie per cui i neo-nazisti tedeschi debbono accontentarsi di ristampe introdotte in modo semi clandestino in Germania ma provenienti da altri paesi, soprattutto dagli Usa.
Sembra che un nipote di Hitler, che potrebbe rivendicare i diritti d'autore, abbia dichiarato di "non volere aver nulla a che fare con quel libro".
In Olanda la vendita è illegale, in Francia è autorizzata solo per motivi di studio, con una premessa esplicativa, negli altri paesi, Italia compresa, stampa, vendita, propaganda sono libere.
Le copie in vendita alla Libreria della Stazione, edite da La Lucciola di Varese nel 1992 per un limitato giro di lettori, escono oggi dal sottobosco dei nostalgici vecchi e nuovi per proporsi al grande pubblico e non è necessaria una particolare malizia per collegare questo lancio al rigurgito di razzismo che nel nostro Paese è stimolato e diffuso dai gruppi neofascisti e neonazisti e dalle forze politiche della destra parlamentare. Quando il Presidente di An, Gianfranco Fini, definisce i Rom "una etnia, una cultura non assimilabili" al civile consorzio umano, non solo una piccola casa editrice di destra e una grande libreria possono ritenere legittimati e perfino interessanti i deliranti progetti per il dominio del mondo sognato dal caporale Adolf Hitler.
Un sogno che è già costato milioni di morti, distruzioni immani, coscienze irrimediabilmente svuotate dalla loro umanità.
E' troppo chiedere che l'ostracismo e la condanna del nazifascismo siano parte delle leggi fondative e del sentire comune almeno di quei Paesi che del nazismo subirono tutto l'orrore?
*Responsabile nazionale Prc dipartimento Antifascismo
l’Unità 15.11.07
Ogni 2 giorni viene uccisa una donna
di Maria Zegarelli
Bindi: le famiglie sono più fragili, più servizi e sostegno. Pollastrini: avanti con la legge antiviolenza
Dal 2000 al 2005 sono state uccise 1081 donne: 180 l’anno, una ogni due giorni. L’inquietante, tragico dato risulta da una ricerca curata dall’EU.R.E.S (ricerche economiche e sociali).
E anche se non finiscono ammazzate sono vittime di devastanti violenze: due milioni 938mila le donne che lo scorso anno hanno subito violenza fisica o sessuale; tra queste 336mila sono state vittime di stupri e 267mila di tentativi di stupro. Autori dei reati sono per lo più ex mariti ed ex conviventi (22,4%), ex fidanzati (13,7), mariti o conviventi (7,5%) e fidanzati (5,9).
FAMIGLIA OSCURA A volte violenta, luogo di abuso e sopruso. Donne sempre più vittime, ma che, se esasperate, si armano come gli uomini (molto meno spesso, dati alla mano) e colpiscono con la stessa ferocia. Il fenomeno della sopraffazione fisica, ses-
suale, psicologica ed anche economica, è più allarmante di quanto si possa immaginare, molto più diffuso di quanto gli stessi numeri dicono oggi con chiarezza ma non con adeguata certezza considerando che le donne vittime di violenza tra le mura domestiche non sempre denunciano. Due milioni 938mila, quelle tra i 15 e i 70 anni, che lo scorso anno hanno subito violenza fisica o sessuale; tra queste 336mila sono state vittime di stupri e 267mila di tentativi di stupro. Autori dei reati sono per lo più ex mariti ed ex conviventi (22,4%), ex fidanzati (13,7), mariti o conviventi (7,5%) e fidanzati (5,9). Il 18,2% delle vittime neanche considera reati quelli che ha dovuto subire: un dato questo che risulta altrettanto allarmante di quello relativo al numero delle violenze. Ci sono donne che percepiscono la sopraffazione come un fatto «lecito», altre invece che - come emerge dalla relazione della dottoressa Isabella Merzagora Betsos (dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Milano) restano in casa e non lasciano il marito violento perché sanno che la reazione all’abbandono potrebbe essere addirittura più feroce. In Italia ogni anno muoiono per mano del marito, del fidanzato o dell’ex 180 donne, una ogni due giorni. Per otto maschi uccisi da una donna, ci sono 37 donne vittime di violenza maschile. I dati sono stati presentati ieri nel corso di un convegno organizzato dai ministeri di Famiglia e Pari Opportunità, svoltosi a Roma. A vederli tutti insieme raccontano un’ecatombe: dal 2000 al 2005 gli omicidi volontari sono stati 4129, di cui ben 1190 consumati in famiglia, con 1081 donne vittime. Vero è che nell’arco di 15 anni anni (dal 1990 al 2005) gli omicidi volontari sono scesi da 1695 a 601, ma il numero di donne uccise volontariamente è diminuito molto meno passando da 184 a 132, mentre spesso l’accanimento dell’assassino sul corpo della compagna o dell’ex compagna ha assunto sempre maggiore ferocia. Un altro dato che si discosta dalla tipologia della vittima rispetto a qualche decennio fa (quando la violenza in famiglia trovava terreno fertile nell’ignoranza e nella povertà) riguarda anche il grado di istruzione ed economico delle donne che subiscono violenze di ogni tipo: oggi il maggior numero di quelle coinvolte sono laureate (il 46%) e affermate professionalmente (il 50,55% sono imprenditrici e dirigenti), mentre quelle più a rischio risultano essere quelle separate o divorziate (il 63%). La fascia di età più colpita è quella tra i 16 e i 54 anni.
Il maschio italiano perde sicurezza e diventa più violento. «Ma forse questi dati ci indicano quanto la famiglia stessa sia diventata più fragile», osserva la ministra Rosy Bindi, ricordando come proprio la famiglia sia stata sempre più abbandonata a se stessa, senza più una rete di servizi in grado di supportarla nel lavoro di cura dei figli, degli anziani e spesso senza neanche la certezza di un lavoro sicuro. Servono politiche per la famiglia, una rete dei servizi efficace e una magistratura «preparata». «I consultori devono tornare a svolgere la funzione per la quale erano nati e che per anni hanno svolto egregiamente - sostiene Bindi -. In questi anni c’è stata una regressione dei consultori a una funzione di sanitarizzazione. Non voglio aprire un conflitto sugli strumenti, ma o i conservatori tornano a fare il loro mestiere, o si devono trovare altri strumenti». Come «i centri famiglia», ad esempio. Spetta anche alle Regioni scegliere. Al governo spetta, invece spingere affinché il ddl contro la violenza diventi legge in parlamento superando l’opposizione di «chi la considera contro la famiglia e di chi ne vede una interpretazione familistica della società». «Sono contenta dello stralcio sulle norme che riguardano lo stalking - aggiunge -, auspico anche io che vengano approvate, magari in sede legislativa in commissione, per il 24 novembre,ma non mi accontento. Non sono disposta ad immolare a queste due norme l’intero ddl che contiene misure rigorose ed efficaci». Stessa posizione la ministra Barbara Pollastrini: «È un testo che va subito trasformato in legge dello Stato, capace di rispondere alle aspettative di tante e tanti. D’altronde, nel dibattito alla Camera che ha votato lo stralcio, molti gruppi si sono dichiarati a favore della corsia preferenziale per la parte restante del disegno di legge».
l’Unità 15.11.07
La Cosa rossa accelera. E diventa «la Sinistra»
Emendamenti unitari e speaker unico in Senato. E nel simbolo il lavoro, non la falce e martello
di Simone Collini
I GRAFICI hanno iniziato a buttare giù alcuni bozzetti ed entro due, tre settimane al massimo Franco Giordano, Oliviero Diliberto, Fabio Mussi e Alfonso Pecoraro
Scanio sceglieranno il simbolo con cui la “Sinistra” si presenterà al voto amministrativo di primavera. La volontà comune è di presentarlo in apertura degli Stati generali convocati a Roma per l’8 e 9 dicembre, ma la strada non è tutta in discesa. L’unica cosa certa è che non sarà una sommatoria dei simboli esistenti e che non compariranno falce e martello, difesi in questo contesto soltanto dalle minoranze di Rifondazione comunista. Per il resto, il segretario del Pdci rimane convinto che vada inserito un chiaro riferimento al mondo del lavoro, quello del Prc che si debba tener conto delle battaglie portate avanti ultimi anni dalla cosiddetta sinistra di alternativa, il leader dei Verdi vuole far emergere che si tratta di un soggetto non solo di sinistra ma anche «degli ecologisti» e per Sd si deve dare il segno di una «sinistra italiana nuova e moderna». Rebus non facile, che finora non ha trovato soluzione nell’ipotesi minimalista di un campo rosso e verde solcato dalla scritta bianca “Sinistra” e neanche in quella di una semplice riproduzione della bandiera arcobaleno.
Ieri si è svolto a Montecitorio un incontro a cui hanno partecipato esponenti di tutte e quattro le forze coinvolte nel progetto, e dopo tre ore di discussione si è deciso di accelerare i tempi, istituendo un gruppo di lavoro per l’elaborazione del simbolo (in cui sono presenti non soltanto grafici) e uno per la campagna di comunicazione dell’assemblea di dicembre, nella quale questo dovrà essere presentato insieme a una carta dei valori e a una bozza di piattaforma programmatica.
La scelta di andare al voto insieme e di dar vita a quello che viene definito un soggetto «unitario, plurale e federato» non archivia comunque né i simboli né i partiti esistenti. Rimane infatti la divisione tra Pdci e Verdi da una parte, che vedono nella federazione l’obiettivo oltre cui non è possibile andare, e Rifondazione e Sinistra democratica dall’altra, per le quali questo non può che essere un passaggio intermedio in vista di un approdo unitario. Posizioni ribadite ieri da Angelo Bonelli e Paolo Cento per i Verdi, da Marco Fumagalli e Titti Di Salvo per Sd, Orazio Licandro e Jacopo Venier per il Pdci e da Walter De Cesaris, Michele De Palma, Roberta Fantozzi e Daniela Santroni per il Prc. «Sinistra democratica si è costituita in un movimento in attesa di dare vita ad un soggetto unitario», ha ribadito la capogruppo alla Camera Di Salvo, «una sinistra moderna e di governo». Anche il responsabile Organizzazione del Pdci ha spiegato che l’intenzione non è quella di dar vita a «una mera sommatoria» o a un «cartello elettorale», però ha fatto anche capire che il partito di Diliberto oltre la federazione non vuole andare: «Nessuno si scioglierà in questo percorso perché le identità e le storie sono elementi di ricchezza e non certo zavorra. Questo vale anche per il simbolo».
Ma non c’è solo il nodo dell’approdo finale e quello del simbolo da sciogliere. Se il primo può essere affrontato a più lunga scadenza, insieme al secondo ce n’è un altro da sciogliere entro l’8 dicembre: la legge elettorale. Perché come è stato riconosciuto da tutti al vertice di ieri, non si può aprire l’assemblea degli Stati generali, che di fatto dà il via alla fase costituente della sinistra unitaria, senza un accordo su questo fronte. E nei prossimi giorni il tema dovrà essere affrontato in una riunione ad hoc.
Passi avanti verso l’unità ieri sono stati compiuti anche su altri fronti. I gruppi al Senato di Prc, Verdi, Pdci e Sd, che hanno lavorato congiuntamente sugli emendamenti, si pronunceranno con un’unica dichiarazione in aula per il voto finale sulla Finanziaria, inaugurando così la formula dello speaker unico decisa al vertice dei leader dei giorni scorsi. Inoltre i quattro partiti hanno chiesto unitariamente un incontro con il ministro Amato in vista della manifestazione sul G8 del 17 novembre a Genova, per ottenere dal governo l’impegno a garantire «il regolare afflusso dei manifestanti».
l’Unità 15.11.07
Per «l’Unità», un comitato di garanti e una Carta dei valori
«Difendiamo l’autonomia e la storia del giornale»: ieri l’iniziativa del Cdr. Solidarietà da Scola, Ovadia, Ravera, Nicolini
Un comitato di garanti di peso e di alto profilo che, sulla base di una Carta dei valori che sia vincolante per proprietà e direzione, garantisca l’autonomia e l’indipendenza de l’Unità. Lo propone il comitato di redazione del giornale in vista del nuovo assetto proprietario, in corso di trattative, che farà capo alla famiglia Angelucci, già editore anche di un quotidiano dalla linea politica opposta a l’Unità qual è Libero. Una situazione inedita anche in un panorama difficile come quello italiano.
La proposta è stata resa pubblica ieri nella sede romana della Federazione nazionale della stampa. Il cui presidente Franco Siddi, in conferenza stampa insieme ai giornalisti del quotidiano, ha spiegato perché appoggia l’idea del comitato di garanti di fronte a nuovi proprietari: «L’Unità, giornale fondato da Gramsci, con una grande storia, che è patrimonio collettivo, non può mai dimenticare la sua natura non mercantile. Deve misurarsi con il mercato ma senza piegarsi. L’anima di un giornale non può essere messa in vendita come non sono in vendita i suoi giornalisti». E sull’autonomia politica della testata? «Non vorrei ci fosse un disegno normalizzatore». «È come se la famiglia Moratti - commenta Roberto Natale della Federazione - oltre all’Inter volesse comprare anche il Milan». Se accadesse succederebbe il finimondo.
Insieme ai tanti lettori che ci scrivono perché costernati dalla prospettiva di vedere la testata fondata da Antonio Gramsci avere il medesimo editore di un quotidiano schierato a destra, ieri hanno mandato messaggi di appoggio personalità come il regista Ettore Scola, come il parlamentare Ds Giuseppe Giulietti, oltre a intellettuali che collaborano con la nostra testata come Moni Ovadia, Lidia Ravera e Renato Nicolini. E il cantante del gruppo dei Têtes de bois è venuto di persona nella sede del sindacato dei giornalisti. «L’autonomia non può essere messa in discussione, è un valore per la democrazia e per il pluralismo», ha affermato la rappresentanza sindacale che ha annunciato di volere un incontro urgente con Marialina Marcucci, presidente della Nuova iniziativa editoriale che edita l’Unità.
Dunque due gli strumenti essenziali che il cdr propone: primo, una Carta dei valori a cui la testata, e la proprietà, debba attenersi e che sia vincolante; secondo, il comitato dei garanti formato da personalità d’alto profilo, e di cui prevede l’istituzione anche il contratto nazionale dei giornalisti, che avrà il compito di far rispettare quei valori. Intanto il cdr ricorda di avere a disposizione, su mandato dei giornalisti, un pacchetto di sette giorni di sciopero.
l’Unità 15.11.07
Rom, no al triangolo nero: nessun popolo è illegale
di Valeria Trigo
L’APPELLO Oltre trecento tra scrittori, artisti e intellettuali firmano un manifesto contro la criminalizzazione dei rumeni e il silenzio sulla violenza alle donne: i delitti individuali non giustificano castighi collettivi
«Il triangolo nero. Violenza, propaganda e deportazione. Un manifesto di scrittori, artisti e intellettuali contro la violenza su rom, rumeni e donne»: oltre trecento tra scrittori, artisti e intellettuali italiani hanno deciso di far sentire la loro voce, stanchi di assistere alla deriva razzista che attraversa il nostro paese, purtroppo aggravata dalla morte violenta di Giovanna Reggiani. Non potendo rimanere indifferenti alla guerra contro i poveri che si sta combattendo in Italia e rivendicando il diritto di critica di fronte alla dismissione dell’intelligenza e della ragione. Una specie di comunità, non solo virtuale, che smentisce le accuse ripetute dai cosiddetti opiniosti nei confronti della non partecipazione degli scrittori italiani alle questioni sociali.
Da giorni la rete era in fibrillazione, grazie alla mobilitazione di Alessandro Bertante, Gianni Biondillo, Girolamo De Michele, Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Monica Mazzitelli, Marco Philopat, Marco Rovelli, Stefania Scateni, Antonio Scurati, Beppe Sebaste, Lello Voce e il collettivo Wu Ming. Nasce così - da una partecipazione sempre più crescente, da arricchimenti reciproci e da un principio di base sacrosanto e imprenscindibile, riassumibile nella frase «Nessun popolo è illegale» - l’appello-manifesto al quale hanno aderito finora in più di trecento e che da oggi sarà in rete, su Carmillaonline, Wumingfoundation, Lipperatura, Nazione Indiana, beppesebaste.blogspot.com, Articolo 21 e francarame.it. Tra i nomi, quelli di Roberto Saviano, Sandro Veronesi, Franca Rame, Bernardo Bertolucci, Moni Ovadia, Simona Vinci, Botto&Bruno, Massimo Carlotto, Carlo Lucarelli, Nanni Balestrini, Mauro Covacich, Erri De Luca, Giuseppe Montesano, Valeria Parrella, Enrico Palandri e Ugo Riccarelli (del quale in questa pagina pubblichiamo un testo che lo scrittore romano ha affidato a un quotidiano svizzero).
«Odio e sospetto alimentano generalizzazioni - si legge nel manifesto -: tutti i rumeni sono rom, tutti i rom sono ladri e assassini, tutti i ladri e gli assassini devono essere espulsi dall’Italia. Politici vecchi e nuovi, di destra e di sinistra, gareggiano a chi urla più forte, denunciando l’emergenza. Emergenza che, scorrendo i dati contenuti nel Rapporto sulla Criminalità (1993-2006), non esiste: omicidi e reati sono, oggi, ai livelli più bassi dell’ultimo ventennio, mentre sono in forte crescita i reati commessi tra le pareti domestiche o per ragioni passionali. Il rapporto Eures-Ansa 2005, L’omicidio volontario in Italia e l’indagine Istat 2007 dicono che un omicidio su quattro avviene in casa; sette volte su dieci la vittima è una donna; più di un terzo delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, e il responsabile di aggressione fisica o stupro è sette volte su dieci il marito o il compagno: la famiglia uccide più della mafia, le strade sono spesso molto meno a rischio-stupro delle camere da letto».
Ma, nonostante i fatti, nel nostro paese rimane il vizio dell’«emergenza continua». Dopo la morte di Gabriele Sandri, il ragazzo laziale ucciso da un poliziotto, tutti i quotidiani esteri hanno commentato: «l’Italia è il paese dei problemi che non si risolvono mai». Più «facile» agitare uno spauracchio collettivo piuttosto che affrontare seriamente e risolvere le vere cause dell’insicurezza sociale. O continuare a sfruttare le ragazze immigrate e la manodopera piuttosto che attuare le direttive europee (come la 43/2000) sul diritto all’assistenza sanitaria, al lavoro e all’alloggio dei migranti: nei cantieri ogni giorno un operaio rumeno è vittima di un omicidio bianco.
Il rischio è enorme: «Si sta sperimentando la costruzione del nemico assoluto, come con ebrei e rom sotto il nazi-fascismo, in nome di una politica che promette sicurezza in cambio della rinuncia ai principi di libertà, dignità e civiltà; che rende indistinguibili responsabilità individuali e collettive, effetti e cause, mali e rimedi. Manca solo che qualcuno rispolveri dalle soffitte dell’intolleranza il triangolo nero degli asociali, il marchio d’infamia che i nazisti applicavano agli abiti dei rom».
l’Unità 15.11.07
Il convegno. A Firenze
Gramsci e l’identità nazionale
di Renzo Cassigoli
«Quello di Antonio Gramsci è stato l’ultimo grande tentativo novecentesco di pensare in maniera organica l’identità dell’Italia come nazione. Quando con Gramsci parliamo di un’Italia che ritrovi la via dell’identità e rifletta sulle ragioni sociali, culturali, politiche che l’hanno bloccata affrontiamo un tema che era anche di Machiavelli».
Gaspare Polizzi, membro del comitato scientifico del convegno che si terrà da oggi a sabato a Firenze, nel Salone de’ Dugento in Palazzo Vecchio, ne richiama alcuni temi fondamentali.
Muoviamo dalla lingua che per Gramsci è la questione fondamentale per l’identità nazionale.
«Si può dire che Gramsci prima d’essere un pensatore politico fu uno studioso di linguistica, anzi fu un linguista, il tema quindi è strettamente connesso alla sua formazione ma anche al suo pensiero politico. Pensiamo, ad esempio, a come per Gramsci la lingua sia la forma attiva che identifica un popolo come nazione e quindi, come attraverso la lingua si costituisca l’identità nazionale. Un tema che al convegno sarà approfondito da Tullio De Mauro».
Cosa si intende, parlando di Gramsci, per «nazione mancata»?
«È il grande tema del Risorgimento come “rivoluzione incompiuta”, come rivoluzione “passiva” che attraversa tutta la fase risorgimentale per ritrovarsi poi nella grande crisi del fascismo. Nell’assetto di una egemonia che ha nel fascismo il carattere specifico di “rivoluzione passiva”. Un elemento che per Gramsci è centrale nella crisi del Novecento e che, per l’Italia, richiede una “guerra di posizione”, come Gramsci sosteneva. Cioè di una lotta per l’egemonia che deve trovare nella dimensione culturale, educativa, e poi nella politica una sua via per svilupparsi. Ecco, questa dimensione appartiene al rigore intellettuale di Gramsci e come tale va ampiamente valorizzata. Per Gramsci la questione culturale e linguistica sono alla radice dell’egemonia e dell’identità nazionale, del tutto in contro tendenza con lo stato della cultura e dell’educazione in Italia».
Un tema quanto mai attuale.
«La qualità di questa nostra riflessione sta proprio nell’utilizzo delle categorie gramsciane per riflettere sulla crisi dell’Italia oggi, la crisi di una nazione che sembra ancora essere alla ricerca di una sua identità. Per questo non abbiamo voluto fare del convegno un’assise di specialisti, ma intendiamo valorizzarne il carattere pluridisciplinare e la dimensione assolutamente attuale del pensiero gramsciano. Vogliamo chiederci, cioè, cosa può dirci oggi Gramsci sull’identità nazionale. Il tema è ancora molto caldo.
Repubblica 15.11.07
Il gip: dagli ultrà romani attacco allo Stato
Gli arrestati restano in cella. Il procuratore di Arezzo: imperdonabile l'agente che ha sparato
di Marino Bisso e Maurizio Bologni
ROMA - «Nulla giustifica il poliziotto che ha sparato ad altezza d´uomo. E´ stato un atto di follia imperdonabile». All´uscita dal tribunale il capo della procura di Arezzo, Ennio Di Cicco, è severo con Luigi Spaccarotella, l´agente che domenica ha ucciso Gabriele Sandri sparando da un´area di servizio all´altra dell´autosole. «Poteva andare peggio - aveva detto in precedenza il magistrato - Se il proiettile avesse centrato un veicolo di passaggio avrebbe potuto innescare una tragedia di grandi proporzioni». Il reato verrà rubricato come omicidio volontario. E´ questione di ore. «Ci sono due testimoni chiave nella vicenda ed entrambi escludono che l´agente sia inciampato» dice Di Cicco. I due testimoni, un rappresentante e uno dei quattro tifosi laziali che viaggiavano con Sandri, dicono di aver visto il poliziotto salire su un cumulo di terra e sparare con le braccia tese. Ieri si è presentato uno degli occupanti della Mercedes Classe A che avevano avuto uno scontro con i tifosi laziali, ma non avrebbe aggiunto elementi utile: la vettura era già ripartita quando il colpo ha raggiunto al collo Gabriele Sandri (si è saputo che il giovane, in occasione di Milan-Lazio del 10 gennaio 2002, fu fermato nei presi dello stadio assieme ad altri 24 laziali che avevano cacciaviti e taglierini).
Intanto i giudici confermano la matrice eversiva degli incidenti di domenica. Il Gip di Roma Enrico Imprudente convalida l´arresto di due tifosi e motiva: «Si è tentato di condizionare i pubblici poteri dello Stato. E´ dai tempi più bui della Repubblica che non si verificavano assalti alle caserme. Si denota l´esistenza di un´organizzazione che ha come fine quello di creare un clima di paura». In sintonia è il gip di Milano Guido Salvini che manda ai domiciliari due arrestati per scritte che inneggiavano alla morte dell´ispettore Raciti: «Negli ultimi tempi le organizzazioni oltranziste dei tifosi si sono sempre più frequentemente presentate come una nuova "area antagonista" violenta, impegnata ad attaccare i poteri pubblici, con manifestazioni e cortei analoghi a quelli dell´estremismo politico eversivo con il quale sono sovente in collegamento».
E´ stata giornata di processi in tutta Italia. Sempre a Milano tornano liberi altri otto arrestati. Convalide, sette, a Bergamo, e a Taranto (nove). Altri slogan contro la polizia sono comparsi in varie città, da Palermo a Viterbo, da Bologna a Treviso, e ieri mattina in via Le Petit a Roma un grosso petardo, che non è esploso, è stato lanciato sotto un´auto della polizia. A Fiesole, sopra Firenze, è successo di peggio. Otto giovani, redarguiti per aver posteggiato male, si sono scagliati contro i vigili urbani cercando di disarmarli e gridando «sparateci a tutti come avete fatto a quel ragazzo». Il ministro dell´Interno, Giuliano Amato, avverte da Alghero che non saranno tollerate nuove violenze: «Se dovessero avvenire altri disordini, la scelta non sarebbe quella di domenica sera, che era un giorno speciale per la morte di questo ragazzo, e le forze di polizia decisero di evitare lo scontro fisico e di limitarsi a difendere le sedi. Oggi la scelta non sarebbe questa». Il ministro dell´interno ha il sostegno di Romano Prodi: «La linea Amato è concordata e, soprattutto, condivisa dal governo».
Repubblica 15.11.07
Cefalonia. Gli ultimi sette fantasmi l´Italia riapre l´inchiesta
di Carlo Bonini
I giudici indagano su un gruppo di soldati tedeschi parteciparono al massacro di oltre 4mila militari
I conti con la barbarie nazista non sono chiusi. Gli almeno 4 mila morti italiani di Cefalonia non possono riposare in pace. Non ancora, almeno. Restano sette fantasmi. Sette vecchi. Sopravvissuti ai loro orrori di soldati del Reich. Tenente Max Kurz, comandante della 14esima compagnia del 98esimo reggimento alpino. Sottotenente Ottmar Muhlhauser, aiutante di campo della 15esima compagnia comando 98esimo reggimento alpino. Capitano Alfred Schroppel, comandante della prima compagnia 54esimo battaglione alpino. Tenente Helmut Vogtle, comandante della quinta compagnia comando 54esimo battaglione alpino. Sottotenente Karl Weisbacher, comandante di plotone nella prima compagnia 54esimo battaglione alpino. Sottotenente Anton Wimmer, 98esimo reggimento alpino. Tenente Fritz Thoma, comandante della settima batteria 79esimo reggimento artiglieria da montagna. Prosciolti nel marzo di quest´anno a Dortmund dal procuratore federale tedesco Ulrich Maas, conosceranno in Italia una nuova istruttoria. Forse, un nuovo processo. Il procuratore militare di Roma, Antonino Intelisano, li ha iscritti al registro degli indagati per omicidio plurimo aggravato, ritenendo di poter dimostrare, al contrario della magistratura tedesca, che la mattanza di Cefalonia non può conoscere prescrizione.
A 64 anni dai fatti, del resto, il lavoro di ricostruzione si può dire completo. La magistratura tedesca ha raccolto in 37 faldoni e 51 pagine di requisitoria, documenti, diari e oltre 500 testimonianze oculari: le voci di greci, di sopravvissuti italiani e, soprattutto, di soldati tedeschi. In quelle carte, in acquisizione dalla Procura militare di Roma, il resoconto della dimensione e della natura del massacro arriva lì dove non era ancora riuscita neppure l´eccellente ricerca storiografica. Ed è una lettura definitiva. Che individua fosse comuni di cui si ignorava l´esistenza, riscrive la geografia delle esecuzioni sommarie. Documenta l´orrore provato dagli stessi carnefici.
Il contesto storico è noto. L´armistizio dell´8 settembre 1943 sorprende i circa 9.000 uomini della nostra divisione Acqui, comandati dal generale Antonio Gandin, sull´isola ionica di Cefalonia, nodo di importanza strategica nel golfo di Patrasso. Il 12 settembre, la divisione «Acqui» rifiuta di deporre le armi all´ex alleato tedesco, cui oppone resistenza. Tra il 21 e il 22 settembre, la Wehrmacht ne annienta le difese. Migliaia di prigionieri italiani inermi vengono fucilati in esecuzioni di massa. La mattina del 24 settembre, il generale Gandin e i suoi ufficiali sono trucidati da un plotone di esecuzione a capo san Teodoro.
Si era a lungo ritenuto che a scatenare l´orrore fosse stato l´ultimo degli ordini diramati dal Fuehrer il 18 settembre: «A causa del loro comportamento subdolo e da traditori, a Cefalonia non devono essere fatti prigionieri». Che agli ufficiali della Wehrmacht non fosse stata data altra scelta. Non è esattamente così. «Gli omicidi di italiani disarmati - documenta il procuratore tedesco Maas - hanno inizio già nella giornata del 16 settembre e proseguiranno fino al giorno 24».
I tedeschi abbattono gli italiani come capi di bestiame. In una feroce babele di ordini estemporanei. Si uccide in ogni angolo dell´isola. Nei modi e nei tempi suggeriti dalla pietà o dal sadismo degli ufficiali che comandano i plotoni di esecuzione. Le testimonianze raccolte dalla magistratura tedesca tra i soldati della Wehrmacht ne sono il documento raggelante.
Richard Hamann, soldato semplice del 98esimo reggimento alpino: «A Divarata ci radunammo in una piazza, con italiani. Giunse l´ordine che quattro camerati del plotone mitraglieri dovevano essere distaccati per la fucilazione dei prigionieri. Ero a circa 200 metri di distanza. Morirono in 62. Noi ne rimanemmo tutti choccati».
Alfred Richter, caporale in servizio allo Stato Maggiore del 54esimo battaglione alpino, scrive nel suo diario di quei giorni: «Al passo Koutsouli vengono sparati solo pochi colpi. Poi, gli italiani sventolano dei fazzoletti bianchi e corrono giù a frotte dalle colline. Quando superiamo il passo, ci imbattiamo in cadaveri di italiani. Sono stati fucilati da quelli del 98esimo reggimento dopo essersi arresi (…) A Pharaklata, facciamo sosta in un giardino presso una postazione di batteria di artiglieria italiana che il 98esimo reggimento, che ci ha preceduto, ha annientato brutalmente. Gli italiani sono stati fucilati, massacrati e calpestati con gli scarponi da montagna. A Frankata, senza aver sparato un colpo, si arrendono due compagnie italiane, circa 400 soldati. A gruppi, vengono portati nelle cave di pietra e nei giardini recintati appena fuori il paese, dove vengono falcidiati dalle mitragliatrici del 98esimo. Ci tratteniamo sul posto per due ore, durante le quali i mitra non hanno mai smesso di martellare. Le grida arrivano nelle case dei greci. Non vengono risparmiati neanche infermieri e preti. Chi abbia ordinato questo annientamento non ci è noto, tuttavia ne siamo tutti indignati. Anche i plotoni d´esecuzione. Uno di questi cerca di ribellarsi, ma viene subito messo a tacere da un ufficiale con la minaccia di essere messi al muro anche loro…»
Hans Kappel, maresciallo di sanità dello Stato maggiore del terzo battaglione 98esimo reggimento alpino: «A Dilinata, sorprendemmo un´intera compagnia della divisione Acqui, che si arrese senza combattere. Gli italiani furono subito disarmati e condotti in un avvallamento dove furono fucilati con tre mitragliatrici».
La mattina del 22 settembre, 650 fanti italiani vengono fucilati a Troianata. Spiros Vangelatos, che vive oggi a Cefalonia, quel giorno aveva 16 anni. Osserva la scempio nascosto tra i rami di un mandorlo. Così ne riferisce ai magistrati tedeschi: «Intorno alle 9, gli italiani vennero portati in fila in un campo chiuso da un muro di pietra. In quel momento furono scaricate due mitragliatrici con casse di munizioni. Cominciarono a fare fuoco sugli italiani. (…) Dopo tre giorni cominciò a diffondersi un puzzo orrendo. Cercammo di bruciare i cadaveri con la benzina lasciata dagli italiani. Quando anche questo tentativo fallì, mettemmo gli italiani - circa 600 - in due cisterne inaridite».
Si scompare per sempre anche nelle cave di pietra. Al centro dell´isola, tra Frankata e Valsamata, e all´ingresso di Argostoli. Michael Scharl, maresciallo della quarta compagnia 54esimo battaglione alpino: «Stavo passando con il mio plotone di fronte a una cava di pietre nella quale, proprio in quel momento, dei prigionieri italiani venivano fucilati. Vidi nella cava un gran numero di cadaveri, mentre altri prigionieri venivano condotti all´interno e fucilati di fronte al mucchio di cadaveri».
Al cimitero di Drapanos, l´orrore è insostenibile anche per i carnefici. Helmut Muller, 13esima compagnia del 98esimo reggimento alpino: «Gli italiani si erano arresi sin dal primo giorno di combattimenti. I nostri prigionieri dovevano esser stati circa 500. Pernottarono con noi e il giorno successivo proseguirono la marcia con la nostra compagnia. Se ne aggiunsero altri, fino ad arrivare a 1000 la sera del secondo giorno di combattimenti, quando ci accampammo nei pressi del cimitero di Drapanos. Ai comandanti di plotone fu ordinato di far fucilare i prigionieri. Due mitraglieri per ciascuno dei tre plotoni dovevano presentarsi volontari con una mitragliatrice leggera per ciascuno. Poiché però nessuno si offriva volontario, i mitraglieri furono scelti dai comandanti di plotone. I prigionieri furono divisi in gruppi e fucilati con tre mitragliatrici. Dopo che furono fucilati circa 200 prigionieri, l´esecuzione fu sospesa. L´intera compagnia che aveva assistito all´esecuzione si era ribellata e non si trovava più nessuno disposto a portare i prigionieri sul luogo dell´esecuzione».
Non lontano dal chiostro di Agios Gerasimou, i prigionieri italiani si stringono in un´improvvisa processione. I soldati della Wehrmacht ne fanno brandelli. Martin Lohringer, seconda compagnia 54esimo battaglione alpino: «Ci venne incontro una processione cristiana. Erano soldati italiani nelle loro uniformi. Saranno stati cento, quindi una compagnia. Vedemmo che non erano armati e l´ordine fu di lasciarli passare, risparmiandoli. Ma dopo alcuni minuti che la processione italiana si fu allontanata 100-200 metri sentimmo dei colpi. Ho avuto l´impressione che il 98esimo reggimento che era rimasto dietro di noi dovesse aver passato per le armi questa processione».
Tra i soldati tedeschi qualcuno prova a sottrarsi alla mattanza. J. Schallahart, fante austriaco della 12esima compagnia 98esimo reggimento alpino: «Il nostro maresciallo ci portò l´ordine di fucilare un´unità di italiani. Era inutile rifiutarsi perché la sorte era caduta su di noi e noi avevamo l´arma adatta, una mitragliatrice pesante che, portata in posizione, dovette sparare su un gruppo di 35 uomini messi contro un vallo di pietre. Tutti chiudemmo gli occhi, forse anche il mitragliere. Per noi è rimasto il trauma della vita». A Kardakata, il sottufficiale Wilhelm Kunzel, 910° battaglione di fanteria, riesce a sfuggire all´assegnazione del plotone che deve eliminare 200 prigionieri. «Quando seppi che l´ufficiale era in strada per mettere insieme gli uomini del plotone, mi nascosi nel mio alloggio. Dopo poco, sentii il fuoco delle mitragliatrici. Ad esecuzione avvenuta, apparve il nostro furiere, il maresciallo Bruno Michel. Aveva dovuto assistere alla fucilazione. Ci disse che era stato orrendo.
Ancora oggi è impossibile calcolare il numero esatto degli italiani trucidati a Cefalonia. Mentre dei 3.500 soldati tedeschi che parteciparono alla mattanza ne sono sopravvissuti alla guerra e al tempo 417. La giustizia italiana ricomincerà da sette di loro. I sette fantasmi con cui chiudere il cerchio della memoria.
Corriere della Sera 15.11.07
Le ragazzine scelgono i rapporti non protetti
Aborti Il numero è in calo Ancora molti tra i 15 e i 17 anni
Le donne e la pillola del giorno dopo: mille ogni 24 ore
Vendite aumentate del 59 per cento in 7 anni La usano soprattutto le giovani: una su due
di Claudia Voltattorni
MILANO — La ragazzina crede nel loro amore. «Stiamo insieme da quasi tre mesi, ci conosciamo e ci amiamo », confida a internet. Di lui si fida. Nulla può succedere. Malattie, Aids, figli: solo parole. E per un grande amore così «il preservativo non è necessario », perché «se si usa un attimo il cervello, non serve». Tanto poi «per fortuna esiste la pillola del giorno dopo».
Il boom
La pensano così in tante. Ragazzine e donne. Da giugno 2006 a luglio 2007 sono state vendute in Italia 356mila pillole del giorno dopo. Quasi mille al giorno. Oltre la metà delle acquirenti ha meno di vent'anni (55%), il resto delle pillole è andato alle signore dai 20 ai 50 anni (45%). Donne che hanno scelto di pensare dopo anziché prima, che alla prevenzione dei tradizionali metodi contraccettivi preferiscono la soluzione dell'ultimo minuto. Più facile. Ma anche più dolorosa. La pillola del giorno dopo non è un aborto. Però la quantità di ormoni che rilascia per impedire l'ovulazione e l'eventuale fecondazione non è una passeggiata. Invece per molte signore e signorine è diventata un contraccettivo. E non sono poche ad averla assunta più di una volta.
Eppure l'offerta di contraccettivi non è limitata. Pillola tradizionale, anelli, spirali, preservativi, cerotti sarebbero un buon aiuto a limitare o eliminare la trasmissione di malattie sessuali e a evitare gravidanze non programmate. Invece, pur essendo la pillola ancora il metodo più diffuso, non è più così scelta per proteggersi, in particolare dalle under 20. E il preservativo diventa «solo un oggetto fastidioso »: dal '95 al 2005 l'incremento di vendite è stato solo di duemila pezzi (da 98.200 a 100.200). E se il numero degli aborti tra le italiane nel 2005 è molto calato (132.790 casi, meno 60%) rispetto al picco dell'82 (234.801), di quelle quasi 133mila interruzioni volontarie di gravidanza, 4.040 sono state effettuate su ragazze tra i 15 e i 17 anni.
Contraccezione negli anni
«Questo dimostra il fallimento dell'educazione contraccettiva: negli ultimi dieci anni c'è stato un disinvestimento sulla contraccezione e un metodo d'emergenza come la pillola del giorno dopo diventa un metodo contraccettivo, soprattutto tra le giovanissime », riflette Alessandra Graziottin ( www.alessandragraziottin.it), ginecologa, direttrice del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica del San Raffaele di Milano. Spiega: «Negli anni '80, l'attenzione è stata altissima: c'era l'Aids». Si sono fatte un mucchio di campagne per l'uso del preservativo, anche tra gli adolescenti, «ricorda l'opuscolo con Lupo Alberto? ». Poi, dal '95, «l'Aids da malattia mortale è diventata malattia cronica e la guardia è stata abbassata, dimenticando che esistono altre malattie ». Ogni giorno la dottoressa si trova di fronte decine di madri e figlie: «Quando chiedo alle ragazze che contraccettivo usano e mi rispondono "nessuno", le mamme ridono. E io vorrei strozzarle! Ma come "nessuno"? Ed elenco le malattie che rischiano di contrarre proprio a causa di quel "nessuno"».
Le altre malattie
Già, perché la mancanza di contraccezione sta portando ad un aumento nella diffusione delle malattie veneree. Papillomavirus, chlamydia, herpes genitale, gonorrea, sifilide: «C'è stato un raddoppio di casi — sostiene la Graziottin —, per la chlamydia siamo a 6 volte di più». E infatti il ministero della Sanità la scorsa estate ha lanciato la campagna «Non solo Aids » (numero verde 800.861.061) per sottolineare che ci sono anche altre malattie trasmissibili sessualmente. E il prossimo primo dicembre, giornata mondiale contro l'Aids, uno spot della regista Francesca Archibugi ricorderà che anche l'Aids non è scomparsa: ogni anno in Italia vengono registrati quasi 4.000 nuovi casi.
L'educazione sessuale
«Ma sono tanti i ragazzi e le ragazze che nonostante tutto ancora non si decidono ad usare il preservativo, però non è tutta colpa loro». Perché, ragiona Camila Raznovich, «non c'è la minima educazione sessuale». La vj di Mtv conduce da anni «LoveLine », programma tv che parla di sesso. Ne ha sentite e ne ha lette parecchie sul forum, soprattutto di giovanissimi. Come Luana che scrive: «Io non uso nulla... in realtà non penso alle malattie, non credo che una persona sia così cattiva da non dirlo se avesse qualcosa...». O Anonima: «Io e il mio ragazzo qualche volta lo usiamo qualche volta no, ma senza è veramente meglio». Perciò la Raznovich chiede «l'ora di educazione sessuale obbligatoria nelle scuole, come l'inglese e l'informatica, ma subito, dalle medie: è fondamentale», insiste, perché «i ragazzini sanno tutto di tecnologie ma nessuno gli spiega che le malattie si prendono ancora e che ancora si resta incinta». È d'accordo anche la Graziottin, che in più suggerisce una responsabilizzazione dei maschi: «La contraccezione è sempre più solo un affare da donne, invece l'amore si fa in due, i ragazzi vanno coinvolti». Così come è necessario riscoprire i consultori. Un'inchiesta fatta tra gli adolescenti del Nord-Est rivela che il 64% delle ragazze e l'86% dei ragazzi non sa neanche dove siano. Da parte sua, il ministro della Sanità Livia Turco appoggia e promuove l'educazione sessuale, soprattutto a scuola, ma chiede anche di «investire sulla relazione, sull'apertura all'altro, su una vera educazione sentimentale per i giovani». Compiti non delegabili però solo a scuola e professori: «Dobbiamo assumerci collettivamente una responsabilità sociale più vasta, che coinvolga tutti, nessuno escluso, pubblicità, media, tv, cinema».
il manifesto 15.11.07
Le quotidiane razzie dei siti archeologici iracheni
Uscirà in dicembre un rapporto sulla devastazione del patrimonio mesopotamico. Furti su ordinazione e danni legati al conflitto hanno prodotto una situazione irreparabile
di Giuliana Sgrena
A più di tre anni di distanza dal saccheggio del museo di Baghdad la distruzione del patrimonio archeologico della Mesopotamia continua ogni giorno nei diecimila siti dispersi in tutto l'Iraq, dove i predatori, del tutto indifferenti alla salvaguardia dei reperti recuperati, mirano a rivendere il loro bottino a trafficanti privi di scrupoli. Tavolette con scritte cuneiformi vengono cedute a cinquanta dollari, afferma Joanne Farchakh, archeologa libanese da anni impegnata in Iraq, che in dicembre pubblicherà un rapporto sulla devastazione del patrimonio archelogico iracheno.
Intorno a questa quotidiana razzia si è creata una vera e propria organizzazione, al punto che gli acquirenti - collezionisti privati disposti a pagare somme ingenti per arricchire le proprie preziose raccolte - forniscono indicazioni precise sui pezzi da recuperare. Quanto ai saccheggiatori, grazie a una esperienza ormai consolidata, sanno bene dove cercare, anche perché si dice che tra di loro ci siano esperti in scavi archeologici formati ai tempi di Saddam. Il raìs curava molto questi aspetti della cultura del paese e una volta (un fatto che non va comunque a suo favore) fece condannare a morte un uomo che aveva tagliato la testa a una statua. Paradossalmente, inoltre, i saccheggiatori sono protetti da gruppi armati nel corso degli scavi, mentre chi è incaricato della salvaguardia dei siti non ha i mezzi sufficienti per ricevere una adeguata protezione. Addirittura nel 2005 è accaduto che dei reperti trafugati, intercettati e diretti al museo di Baghdad, siano stati ripresi armi in pugno dai ladri che hanno preso d'assalto i camion dove i pezzi erano stati caricati uccidendone i conducenti.
Una delle zone più ricche di siti è la provincia di Dhi Qar dove si trova l'antichissima Ur, il centro più importante dei sumeri, citato anche nella Bibbia come il luogo dove avrebbe dimorato Abramo. Secondo Joanne Farchakh gli ottocentoquaranta siti sumeri che si trovano nella zona di Nassiriya, capoluogo della provincia, sono stati tutti saccheggiati, nonostante il fatto che uno dei compiti dei carabinieri italiani fosse proprio la formazione di personale per proteggere i siti. Questo impegno non ha impedito che militari italiani siano stati fermati sulla strada per il Kuwait in possesso di reperti. Nel nostro paese, del resto, sono stati individuati trecento pezzi rubati al museo di Baghdad.
Per pattugliare i siti di Nassiriya lo scorso anno sono stati reclutati sul posto duecento ufficiali di polizia ma, come ha dichiarato all'«Independent» Abdulamir Hamdani, direttore delle antichità della provincia, l'equipaggiamento resta largamente insufficiente. «Abbiamo solo otto macchine, alcuni fucili e poche radio trasmittenti per un'area che conta oltre ottocento siti» ha detto Hamdani, che oltre tutto è stato incarcerato per tre mesi per aver cercato di impedire l'acquisto di una zona archeologica da parte di un fabbricante intenzionato a utilizzare i vecchi mattoni sumeri per costruirne di nuovi da vendere sul mercato. Attualmente il progetto è congelato ma casi analoghi si registrano in altre zone.
A mettere a rischio quel che resta di una civiltà antichissima, però, sono anche le truppe di occupazione che, oltre a non proteggere adeguatamente gli scavi e ad avere permesso che il museo di Baghdad fosse saccheggiato (sono più di seicento i reperti trafugati rinvenuti negli Stati Uniti), usano i siti più preziosi come basi militari. Così succede a Ur, dove le ultramillenarie pareti si stanno crepando per il continuo passaggio dei carri armati. E quando Abbas Hussaini, responsabile del patrimonio artistico dell'Iraq, ha cercato di ispezionare il sito (al cui interno è in via di costruzione anche una casamatta), gli americani gli hanno rifiutato il permesso.
Nella leggendaria Babilonia, città di Nabucodonosor, invece, gli americani hanno costruito un accampamento per duemila soldati. La pavimentazione dell'entrata alla famosa porta di Ishtar (la stessa dove duemilacinquecento anni fa si svolgevano le processioni) è stata mandata in frantumi dai tanks e sulle macerie è stata costruita una pista per elicotteri, mentre nell'antico caravanserraglio di Khan al Raba gli americani facevano esplodere le armi sequestrate agli insorti.
Il danno prodotto a Babilonia è «irreparabile», sostiene l'archeologa Zainab Bahrani. «È come se i siti archeologici fossero continuamente scossi da un terremoto» le fa eco Joanne Farchakh. Ancora una volta l'operato delle truppe di occupazione è in aperta violazione della Convenzione di Ginevra, secondo cui l'esercito deve «utilizzare tutti i mezzi in suo potere» per proteggere il patrimonio culturale del paese occupato. Ma il diritto internazionale non è compatibile con la guerra preventiva.
Privi di mezzi, i millequattrocento funzionari iracheni addetti alla protezione dei diecimila siti sono anche senza stipendio, perché il bilancio dello Sbah (la Direzione per le antichità e il patrimonio) si è andato via via assottigliando, così come i finanziamenti stranieri ai progetti. La denuncia è stata compiuta da Donny George Youkhanna presidente dello Sbah, ex direttore generale dei musei e del museo di Baghdad, prima di abbandonare l'Iraq, il 6 agosto del 2006. Si è chiusa così la sua lunga carriera che, iniziata nel 1976, ha visto lo studioso partecipare a importanti ricerche archeologiche e più recentemente al recupero di pezzi rubati. Pare che Donny George abbia ricevuto minacce (sicuramente ne ha ricevute il figlio), ma il problema principale è legato ai suoi cattivi rapporti con il governo: non solo perché l'archeologo è cristiano e ex baathista, ma perché gli islamisti al potere non sono interessati all'arte preislamica, quella che maggiormente interessa gli studiosi. C'è chi insinua che i radicali islamici siano poco sensibili all'arte tout court, visto che nelle battaglie tra le fazioni irachene vengono distrutte moschee di notevole importanza storica e culturale oltre che religiosa.
Quando Donny George, un personaggio molto famoso, conosciuto dagli archeologi di tutto il mondo e da tutti coloro che passavano per Baghdad, ha lasciato il suo paese, il ministro del turismo e dell'archeologia era Liwa Sumaysim, del movimento di Muqtada al Sadr, di professione dentista. Prima di partire, comunque, Donny George ha murato le porte del museo di Baghdad proteggendole con sacchetti di sabbia: una precauzione necessaria, visto che il museo si trova in una zona, vicino ad Haifa street, spesso al centro di violenti scontri e dove hanno avuto luogo anche numerosi rapimenti. Il museo era stato temporaneamente riaperto per presentare il restauro del vaso di Warda, uno dei reperti sumeri più preziosi, in precedenza rubato e ridotto in pezzi.
Meno drammatica invece la situazione dell'arte islamica: i siti infatti non vengono presi di mira, non perché siano più protetti degli altri, ma perché sul mercato i reperti preislamici sono molto più ricercati.
Liberazione 15.11.07
Sinistra, nuovo simbolo (senza falce e martello)
Una riunione dei quattro partiti per decidere forme e modi della
nascita del nuovo soggetto politico. Costituente e voto popolare
di Stefano Bocconetti
Sinistra, la notizia di ieri è che comincia a prendere forma. E stavolta sembra proprio che si faccia sul serio. Date, impegni, scadenze. Ma c'è anche una notizia nella notizia. E riguarda il "come" si presenterà questo nuovo soggetto della sinistra, come si vestirà. Per capire: riguarda i suoi simboli. Una "notizia" alla quale ci si arriva per sottrazione, se così si può dire. Vediamo. Ieri, in una riunione un po' lontana dai riflettori tutti puntati su Palazzo Madama - e forse proprio per questo più produttiva - si sono incontrati i dirigenti delle quattro formazioni politiche interessati al nuovo soggetto. Hanno cominciato a discutere di tante cose, di più: si sono trovati d'accordo sulle tappe del percorso che porterà agli stati generali dell'8 e 9 dicembre. Una "strada" che li porterà ad incontrare e a discutere con tutto ciò che si muove al di fuori dei partiti e che, a sinistra, è la parte più grossa.
Le delegazioni hanno poi cominciato a discutere anche di quale dovrebbe essere il logo, l'immagine con cui quest'aggregazione dovrà presentarsi. S'è messa al lavoro una commissione, che valuterà proposte, bozzetti, idee. Colori. Però intanto c'è stata una prima discussione. E - nonostante tutte le previsioni - i dirigenti di Rifondazione, del Pdci, dei verdi, della Sinistra democratica si sono trovati d'accordo su un punto. Un punto dirimente: il simbolo del nuovo soggetto non dovrà contenere elementi, "riferimenti" ai loghi dei partiti esistenti. Partiti che naturalmente - l'hanno sottolineato tutti i protagonisti dell'incontro, da Walter De Cesaris di Rifondazione a Iacopo Venier del Pdci - continueranno ad esistere. Con le loro bandiere e le loro insegne. Almeno fino a che non si decida qualcosa di diverso. Ma tutto questo c'entra poco con l'incontro di ieri. Dove, tradotto, s'è deciso che nel simbolo della sinistra non ci sarà la falce e martello. Così come non ci sarà il Sole che ride o altro.
Sarà un "vestito" nuovo, insomma. Tutto da inventare. Sarà la rappresentazione grafica immediata di una sinistra che vuole unirsi ma anche e soprattutto rinnovarsi. Di una sinistra che vuole fare la sinistra ora, in questo millennio.
Naturalmente, non appena è uscita la notizia, s'è subito scatenata la corsa dei cronisti a cercare di avere anticipazioni su questo nuovo simbolo. Di bozzetti ne girano tanti ma c'è chi è pronto a scommettere che quelli che diventeranno di dominio pubblico in queste ore, sono esattamente quelli destinati ad essere cestinati. I primi ad apparire, insomma, saranno i primi ad essere "bruciati", come sempre avviene in queste occasioni.
Si va da un'ipotesi di arcobaleno - più vicino al vecchio simbolo dei progressisti del '94 che non a quello dell'Unione del 2006 - ad uno stemma che esplicitamente sembra voler citare il "quadrato rosso" della Cgil. La verità è che deciderà la commissione tenendo conto che su questo tema c'è stata la discussione più "vivace". Con molti che hanno chiesto di inserire elementi simbolici che richiamassero il lavoro, il movimento operaio e con altri che hanno fatto esplicito riferimento alle battaglie ambientaliste. «L'unica cosa certa - dice De Cesaris - è che comunque dovrà essere un simbolo nuovo, nel quale ci si riconoscano tutti».
L'attesa non sarà lunghissima, comunque. E da qui in poi si apre il capitolo delle altre decisioni prese all'incontro di ieri. L'attesa, si diceva, non sarà estenuante. Perchè s'è deciso che il logo sarà presentato dai segretari dei quattro partiti agli stati generali della sinistra. In quell'assemblea di tutta la sinistra - e della sinistra ecologista - già convocata per l'8 e il 9 dicembre.
Sarà presentato. Ma non adottato definitivamente. Perché - ed ecco un'altra notizia - la sinistra sottoporrà al vaglio dei suoi elettori, del suo "popolo", la scelta definitiva. Per farla breve: all'inizio del prossimo anno il nuovo soggetto darà vita a quella che un po' burocraticamente chiamano "un momento partecipativo". Le persone, chi vorrà contribuire alla costruzione di questo soggetto, sarà chiamato ad esprimersi. A votare.
Sul simbolo, s'è detto. Ma anche su molto altro. Innanzitutto su una "carta dei valori", su una sorte di manifesto costitutivo del raggruppamento. Anche questo è stato deciso nella riunione di ieri. Pure qui, si metterà al lavoro una commissione, il cui lavoro sarà presentato all'assemblea di inizio dicembre.
Ma forse d'ora in poi più che il calendario conterà il "metodo", il modo con cui si arriverà alle scadenze fissate. Sì, perché da ieri la "cosa rossa" - termine che tutti ieri rifiutavano quasi sdegnosamente, a cominciare, naturalmente, dai verdi - ha deciso che comincerà a costruirsi al di fuori delle stanze della politica ufficiale.
Si farà così: innanzitutto a giorni cominceranno gli incontri, le assemblee con quell'arcipelago di movimenti e associazioni che animano la sinistra sociale. Contemporaneamente, si darà vita ad un sito. Dove si potrà "scaricare" materiale, dove si potranno animare dibattiti. Ma dove, soprattutto, ci si potrà "segnare" per partecipare agli stati generali. Assemblea - ancora - che sembra proprio voler adottare il metodo dei social forum. Dove ciascuno, singolo o organizzazione, partecipa con pari diritti e pari dignità, senza rinunciare alla propria autonomia. Dove conteranno soprattutto le singole competenze, dove si cercherà sempre il consenso.
Sarà un'assemblea aperta, insomma, animata dai movimenti più che dai partiti. Il primo giorno ospiterà interventi, relazioni e seminari su alcuni grandi temi. Dall'ambiente, al lavoro, dalla pace alla differenza di genere. Il giorno dopo, la domenica, ci sarà l'assemblea generale. Dove chiunque si sia registrato potrà intervenire.
Lì, l'8 e il 9 dicembre, nascerà la sinistra. Unitaria e plurale. Diventerà una federazione, un partito, un aggregato o cos'altro? Questo lo deciderà la sinistra, una volta avviata la fase costituente. Che deciderà su tutto il resto: che struttura darsi, come scegliere il proprio portavoce, o leader o come si chiamerà. E lo stesso varrà anche per il simbolo. Diventerà il logo che gli elettori di sinistra si ritroveranno in tutte le tornate elettorali? E quando farà il suo esordio? Pure questo lo decideranno tutti insieme.
Stavolta, però, a differenza di altre volte, sembra che davvero si sia partiti. Perché tutto avverrà nel giro di un mese, anche meno. E soprattutto perché assieme alle cose decise ieri, tante altre stanno "marciando". Al Senato per esempio, s'è deciso di coordinare i quattro gruppi. Nel dibattito sulla finanziaria, per dirne una, parlerà solo un senatore, Natale Ripamonti, verde ma che prenderà la parola a nome di tutti. Di più: si studia come creare definitivamente la figura di un unico portavoce della sinistra a Palazzo Madama. Un incarico che, si pensa, potrebbe essere a rotazione. Ma sono dettagli, la sinistra è partita.