giovedì 15 novembre 2007

Liberazione 14.11.07
La presentazione alla Casa della Cultura di Roma dell'ultimo libro di Alberto Burgio su Gramsci è l'occasione di un dibattito aperto su temi storici come egemonia, cesarismo, rivoluzione passiva e blocco storico
Bertinotti-Tronti: ma le primarie sono democratiche?
di Manuele Bonaccorsi
(collaboratore di left)


Attualità e inattualità di Gramsci. Su questo tema, nel ricorrere dei settant'anni dalla morte del dirigente e intellettuale comunista, il presidente della Camera Fausto Bertinotti e il direttore del Centro per la riforma dello Stato Mario Tronti hanno discusso lunedì sera alla Casa della Cultura di Roma con Alberto Burgio, docente di Storia della Filosofia all'Università di Bologna, parlamentare del Prc e autore di Per Gramsci e autore di Crisi e potenza del moderno (Derive e Approdi, pp. 175, euro 14,00). L'analisi storica del pensiero di Gramsci, delle sue potenzialità e innovazioni, ha fatto da sfondo alla critica del presente, alla ricerca dei paradigmi capaci di spiegare la crisi storica della sinistra, e gli strumenti per il suo superamento. Al centro il bisogno di approfondire la riflessione teorico-politica, in un'epoca - come dice Fausto Bertinotti - «nella quale è difficile trovare luoghi per una ricerca di cultura politica, senza la quale non può svilupparsi una comunità capace di dar fiato alla nascita di un "socialismo del XXI secolo"».
L'incontro di lunedì è stato un primo esperimento nella ricerca di spazi dove realizzare uno "scavo teorico", reso ancor più prezioso dalla diversità di accenti tra i tre interlocutori, che si sono divisi e incontrati sull'uso delle categorie gramsciane (egemonia, cesarismo, rivoluzione passiva, blocco storico) sullo sfondo del grande tema della "crisi e potenza del moderno" posto dal testo di Alberto Burgio.
Mario Tronti non ha nascosto l'esistenza, nel pensiero di Gramsci, di «categorie inattuali», a partire dalla difficoltà di rintracciare in una società complessa un "blocco storico" dai confini delimitati. Ma ha definito «di stringente attualità» altri due paradigmi, che rendono Gramsci un autore "antieconomicista", secondo il quale la politica «non è riduzione meccanica dell'economia»: da un lato Tronti recupera il tema dell'egemonia (l'importanza della pedagogia politica e del potere come autorevolezza), definendo centrale nella strategia della sinistra «il rovesciamento del rapporto di egemonia», da raggiungere attraverso «una riorganizzazione delle forze in campo, senza cui non si può passare all'attacco». D'altronde, afferma Tronti citando Gramsci «in una crisi organica, in cui vittorie e sconfitte sono provvisorie, l'assedio è reciproco». Sul tema del cesarismo Tronti e Bertinotti si trovano in disaccordo: il primo mette l'accento sull'ambiguità dialettica del concetto, e utilizza la categoria del "cesarismo democratico", populista. E' il meccanismo delle primarie, che favorisce un «eccesso di importanza delle personalità politiche, rinvenibile, ad esempio, nell'ideale gollista della monarchia repubblicana». Il presidente della Camera, al contrario, distingue tra «il leaderismo debole del centrosinistra italiano», e quello forte, «impersonato da Sarkozy, che riclassifica la politica a partire dall'idea di nazione, e solo poi viene a patti coi poteri forti del capitale». Ma la vera "rivoluzione passiva", per Bertinotti, è la destrutturazione della sovranità subita dai cittadini, la dissoluzione della politica, in primis quella della sinistra, dinanzi al «potere totalizzante del capitalismo»: è il tema della crisi di civiltà. Dinanzi alla quale perde di importanza la distinzione tra destra e sinistra (intesa come espressione politica del movimento operaio) che ha caratterizzato il ‘900. Al loro posto subentrano la coppia alto/basso, dove «il basso non viene intercettato dalla sinistra e si oppone alle stesse regole di organizzazione della società»; e quella amico/nemico, che spinge verso la paura e la ricerca di capri espiatori. La conseguenza è uno «scompaginamento delle identità», che approfondisce la crisi della democrazia. Eppure, anche per Bertinotti che teorizza l'uscita dal ‘900, il pensiero di Gramsci rimane attuale: a partire dal concetto di egemonia, opposto ad ogni determinismo politico, che definisce la trasformazione come «un processo politico-culturale», anche se oggi «è impossibile ripensare l'egemonia sui concetti di blocco storico e partito». Dalla crisi delle categorie del secolo passato, per Bertinotti, si salva anche il tema del «lavoro vissuto, senza il quale è impossibile ricostruire l'alternativa».
Infine Alberto Burgio risponde agli stimoli dei due interlocutori e del pubblico che ha riempito la sala della Casa delle Culture. Burgio ritorna sui temi partito/operaio/destra e sinistra, e li definisce «nomi comuni, non nomi propri», denominatori che si tramutano con la trasformazione della società. «Il partito è organizzazione, coscienza, obiettivi condivisi che rendono operativo il conflitto. E' una categoria superata? Non credo. Sarebbe come dire che la politica può fare a meno di soggetti strutturati». Lo stesso vale per il concetto di moderno, che Burgio, fautore dell'attualità di Gramsci, ritiene per nulla superato. «Anche nella notte dei tempi c'erano germi di progresso». Oggi - nell'epoca in cui il capitalismo è egemone su gran parte del pianeta, nella fase della più profonda crisi della democrazia, come ieri, quando Gramsci si interrogava dinanzi alla venuta del fascismo su «vettori espansivi e risposte regressive» - la crisi custodisce un inarrestabile bisogno di trasformazione e giustizia sociale. In questa dialettica della modernità Gramsci - scrive Burgio - ci fornisce ancora «la partitura teorica della nostra epoca e della sua crisi».

Liberazione 14.11.07
La cultura civile di Genova contro ingiustizie e vendette
Siamo testardi, rifiutiamo l'odio e l'idea del nemico
di Raffaella Bolini


Prc: «Non saremo in piazza contro la polizia»
Genova, sabato 17. verità e giustizia e niente altro

Ci ostiniamo testardamente a credere che questo possa diventare un paese civile. Per questo, ancora una volta, sabato prossimo saremo a Genova. Era un paese decentemente civile quello in cui molti di noi credevano di vivere fino al 20 luglio del 2001, quando ci avviammo incontro alla mattanza con la serenità di chi possiede il privilegio immenso di fare conflitto sociale in una democrazia. Era innanzitutto cultura civile quella che praticammo nei giorni dopo Genova, quando tutta Italia scese in piazza senza che volasse un sasso perché non volevamo diventare come quelli che avevano ucciso, picchiato, torturato.
Ricostruire civiltà in questo paese è ciò che facciamo continuando a chiedere verità e giustizia, pretendendo che le autorità si assumano le proprie responsabilità per la più grave violazione dei diritti umani in occidente dal dopoguerra.
Difendiamo noi stessi, la memoria di Carlo Giuliani, il bisogno di risarcimento morale di tutte le vittime. E insieme, diamo ancora una volta occasione alle istituzioni e alle forze dell'ordine per recuperare a se stesse dignità. In un paese civile, le istituzioni sarebbero le prime a non voler convivere con macchie scure sulla propria coscienza. Dovrebbe essere evidente l'importanza, in una società non feudale, della credibilità che viene dalla trasparenza. Ma questo, evidentemente, non è un paese civile. E' un paese dove le istituzioni sono abituate a convivere con la mafia, con la corruzione. Siamo il paese delle stragi, dei depistaggi, delle connivenze. Il potere difende se stesso, la sua sopravvivenza, la sua intangibilità. E' normale in Italia che i colpevoli siano promossi.
Noi, con la caparbietà di chi continua a difendere l'Italia democratica nata dalla Resistenza, confidiamo che la magistratura impegnata nei processi di Genova e Cosenza voglia fare il suo lavoro in modo indipendente. Confidiamo che saprà giudicare con equità, guardando ai fatti. E che non si presti neppure per un attimo a utilizzare venticinque ragazzi come pesi sui piatti delle bilance giudiziarie a cui finora è affidato, in assenza di una Commissione di Inchiesta parlamentare che ricostruisca le responsabilità politiche di insieme, il compito di trarre le somme dei fatti di Genova. Venticinque ragazzi, molti dei quali colpevoli di aver osato opporre una qualche forma di resistenza alla terribile paura di morire ammazzati dai caroselli delle autoblindo e dai proiettili sparati ad altezza d'uomo.
In questi giorni, ancora, un proiettile sparato a altezza d'uomo da un essere umano in divisa ha ucciso un ragazzo. Dopo Genova, molti di noi hanno imparato a dare più attenzione a quello che accade nelle strade, nei commissariati, nelle carceri dove troppe volte i diritti umani vengono violati. E' lunga la lista delle persone picchiate, umiliate, e qualche volta uccise.
«Manifesteremo pacificamente per chiedere chiarezza sulle violenze di quei giorni, non saremo in piazza per unire coloro i quali sono contro le forze di polizia. Qualsiasi invito a partecipare alla manifestazione che prescinda da tale spirito non è accettabile». Rifondazione, con Michele de Palma, membro della segreteria nazionale e responsabile movimenti del partito, ribadisce perché la macchina organizzativa di associazioni, reti, partiti e forze sindacli si è messa in moto da tempo. Risponde, come fanno in diversi ieri, alla "proposta a mezzo stampa" di Luca Casarini dal Nord-Est, che aveva invitato dalle colonne del Corriere a trasformare la giornata per verità e giustizia sul G8 in una «grande manifestazione contro l'impunità della polizia». Risponde anche Vittorio Agnoletto, ex-portavoce del Gsf ricordanod a Casarini la pregiudiziale antifascista del movimento e la scleta di evitare la spirale repressione-violenza fatta insieme nel 2001 e ribadita nel comune appello per la manifestazione di sabato. Che, ieri, tra l'altro, è stat presentata a Genova, trovandosi la "bella sopresa" di Casarini sulla stampa.
La manifestazione scorrerà su «un percorso semplice, lineare, con strade larghe», ma anche lontano da luoghi simbolo o da obiettivi sensibili, hanno fatto sapere il cartello di promotori (tra cui Arci, Fiom, Lavoro e Società, Prc, Pdci, Comitato verità e giustizia per Genova, Legambiente, Comunità di San Benedetto; Sinistra Democratica e tanti altri). Concentramento alle 14.30 alla Stazione marittima, arrivo in Piazza De Ferrari dove parlerà Don Andrea Gallo e ci sarà un concerto al quale hanno già aderito, a titolo gratuito, Roy Paci, Zulu e gli Assalti frontali.
«La città sta reagendo molto positivamente - ha commentato Mirko Lombardi, responsabile della federazione di Genova del Prc - le prese di posizione della sindaca e del consiglio comunale hanno aiutato molto e ci aspettiamo una grande manifestazione di popolo per chiedere veriutà e giustizia e una commissione d'inchiesta. Dopo sei anni nulla è archiviato»,
Smorza i toni di rischi anche il Prefetto, Giuseppe Romano, «chiunque può venire a Genova a manifestare il proprio pensiero in modo civile e nel rispetto delle regole». «Genova è una città accogliente e chissà che sabato non possa iniziare un processo di "svelenamento" nei rapporti tra forze dell'ordine e parte della società civile». Lo schema, quindi, sarà quello di Firenze per intendersi, polizia ai lati e nessun schieramento militarizzato.

Liberazione 14.11.07
Il vero continente nero?
Parliamoci chiaro, sono gli uomini

di Pierangiolo Berrettoni


Uno studio dotto ma anche molto diretto su "Il maschio al bivio", di cui pubblichiamo uno stralcio dalla premessa.
Dalla costruzione delle identità nell'antica Grecia per arrivare all'oggi: perché una parte dell'umanità ha rinunciato al desiderio?
Il saggio "Il maschio al bivio" è edito da Bollati Borighieri (pp. 288, euro 25), dai prossimi giorni in libreria

Questo libro nasce come profonda revisione di un volume precedente, La logica del genere , in cui avevo cercato di tracciare una sorta di genealogia e archeologia della cultura di genere nel mondo occidentale a partire dal periodo greco antico, quando si sono costituite le griglie interpretative con cui continuiamo in larga misura a organizzare la realtà, compresa quella umana. Partivo da due ipotesi teoriche di fondo: la prima, di lontana origine nella logologia sofistica, vede nel linguaggio un costruttore pragmatico di realtà e un esercizio di potere simbolico, piuttosto che un semplice strumento di rappresentazione; la seconda, più forte, che le griglie categoriali con cui costruiamo la cultura di genere e gli stereotipi del maschile e del femminile siano le stesse con cui le scienze, anche quelle cosiddette neutre e avalutative come la logica, la matematica, la grammatica organizzano discorsivamente e in qualche modo costruiscono i loro oggetti: soggiacente a entrambi gli ambiti è soprattutto lo schema mentale del pensiero dicotomico binario, esclusivo e privativo, che nasce con la tavola pitagorica degli opposti, prosegue con la divisione logica platonica (la diaíresis) e trova, nel campo del discorso di genere, la sua sistematizzazione più completa nella visione freudiana e lacaniana dell'assenza, della privazione, del «buco nero», alla base, per esempio, della teoria della relazione d'oggetto e del desiderio come mancanza o di quella dell'invidia femminile del pene. Ne consegue la logica della non contraddizione e del terzo escluso che, nel campo del discorso di genere, si imbatte nel «perturbante» dell'omosessualità, questo terzo escluso, che sembra turbare la rasserenante di-visione del mondo umano nei due generi esclusivi del maschio e della femmina e che, a partire da un famoso Problema attribuito ad Aristotele, si è presentata al pensiero occidentale come un enigma, un «problema» necessario di una spiegazione eziologica, secondo quella prospettiva epistemologica inaugurata da Aristotele che vede nella meraviglia il motore primo dell'indagine scientifica e soprattutto nel desiderio di «spiegare» ciò che non ci è familiare o ciò che è inatteso, perché perda il suo carattere intrinseco di Unheimlich (perturbante perché non appartiene alla nostra Heimat esperienziale) e di minaccioso; spiegarlo come si «spiega» un foglio, un giornale, un lenzuolo perché non restino, almeno tendenzialmente, pieghe e zone nascoste: vorremmo che nel discorso tutto fosse chiaro ed esplicito per non essere costretti a leggere tra le sue «pieghe».
In quel libro individuavo anche le lontane origini di uno schema mentale ricco di conseguenze nella nostra visione e di-visione della realtà, compresa quella umana: quello «schema comparativo» che inquadra le opposizioni non secondo la semplice constatazione di una differenza (l'uomo è differente dalla donna, il bambino è differente dall'adulto), ma secondo l'attribuzione di tratti sulla base del più e del meno (l'uomo è più/meno x della donna, il bambino è più/meno y dell'adulto e così via). Schema importante e inculcato per due millenni dai detentori del potere simbolico, perché nella visione classica il punto di vista descrittivo e definitorio non è mai separato da quello assiologico e valutativo, sicché l'analisi delle differenze si è sempre impostata secondo una prospettiva gerarchica.
Così com'era, il libro era troppo ampio e conteneva troppe digressioni specialistiche di tipo logico e grammaticale, che potevano scoraggiare un pubblico più vasto. È nata, così, l'idea di una sua riduzione drastica e di una sua concentrazione intorno a una sola delle due polarità di genere: il maschile nelle sue due varianti meno conflittuali di quanto siamo portati a pensare, ma anzi in qualche modo «complici», come cercherò di mostrare, il maschio eterosessuale e quello omosessuale.
L'ho intitolato Il maschio al bivio , sia perché l'immagine del bivio si è costituita attraverso il mito di Ercole come una delle componenti più insistenti nella formazione di un'identità maschile fondata sulla scelta tra impegno/fatica (pónos) e impenetrabilità da una parte, piacere, desiderio, edonismo, paticità dall'altra, sia perché il maschio occidentale, nella sua millenaria dialettica con il femminile, si è gravato nella cultura moderna di un ulteriore «fardello», la scelta esclusiva e dicotomica tra omosessualità ed eterosessualità.
Non ho usato casualmente il termine «fardello», se uno dei miti più tenaci con cui il maschio ha costruito il proprio sistema di dominazione è stato proprio quello del white man's burden , che non si è configurato necessariamente come cattiva coscienza e mistificazione, ma come autoimposizione (al limite del masochismo) di una logica e di un'etica del sacrificio, della rinunzia e della frustrazione. Quando Freud costruiva la sua teoria della civiltà come rinunzia al soddisfacimento immediato dei bisogni da parte dei fratelli in seguito all'uccisione del padre, non si rendeva ben conto che questa rinunzia era più precisamente all'origine del potere androcentrico istituito con una serie di interdizioni, quella dell'incesto (con il conseguente scambio delle donne e la loro riduzione a segni), dell'equa distribuzione del lavoro sessuale, del desiderio omosessuale, in ultima analisi della liberazione del desiderio, di cui si è forcluso il carattere fluido ed «emanante» in favore di quello fondato sulla mancanza.
Per lungo tempo Freud si è posto il problema di rispondere alla domanda su che cosa voglia la donna: nella trentatreesima lezione introduttiva alla psicoanalisi tenuta nel 1933 sulla femminilità (Die Weiblichkeit), iniziava l'esposizione affermando che durante il corso della storia si era sempre presentato il rompicapo (Grübel) sull'enigma (Rätsel) relativo alla determinazione della natura femminile, e presumeva che anche i suoi ascoltatori maschi si ponessero il problema, diversamente dalle donne, perché proprio loro sono il problema («Von den Frauen unter Ihnen erwartet man es nicht, sie sind selbst dieses Rätsel», Freud 1932/1979, p. 220). Oggi sappiamo, naturalmente, che la domanda sul desiderio femminile era mal posta o, per meglio dire, apparteneva a quello strato del pensiero freudiano che era maggiormente datato e più affondava le proprie radici nella cultura del periodo in cui si era formato: non un'acquisizione definitiva e atemporale, dunque, ma piuttosto un frammento di discorso di cui si può fare storia; l'enigma femminile non appartiene tanto a un Ewig-Weibliches presunto pancronico, quanto al più ampio regime discorsivo sulla donna di un'epoca ben precisa, che si riverbera nelle figurazioni delle Giuditte klimtiane, nelle donne con le calze nere di Schiele, nella Salomè e nell'Elettra straussiane.
Così come oggi sappiamo che il senso profondo di quella domanda dello scopritore dell'inconscio riguardava in realtà il desiderio e, più ancora, le paure dell'uomo, e si sarebbe dovuto formulare piuttosto come domanda su che cosa voglia l'uomo, se non fosse che i regimi discorsivi interni alla cultura di quel periodo non avevano ancora preparato l'uomo a interrogarsi su sé stesso e i suoi desideri, per quanto proprio Freud stesse aprendo una radura nel terreno in cui si sarebbero potute porre più tardi queste domande.
Le rivoluzioni della modernità, soprattutto quella femminista e quella omosessuale, hanno posto il maschio di fronte alla necessità di ripensare la propria identità in termini diversi, quando non alternativi, a quelli ereditati da millenni di costruzione dei valori dell'androcentrismo.
A chi, come me, si sia posto il problema doloroso di ripensare in termini nuovi la propria identità di genere, la posizione freudiana appare ribaltabile e proprio il maschile si costituisce come il vero enigma.
In particolare sono due gli enigmi maschili che mi sembrano particolarmente difficili da comprendere.
Il primo è come mai il maschio, nell'imporre il proprio modello di dominazione sulla donna, ma anche sul bambino, il barbaro, il selvaggio, in altre parole nell'inventare una logica e un ethos imperiali e «civilizzatori», abbia accettato di sottoporsi a una serie di fardelli che vanno dalla fatica del corpo alla rimozione delle emozioni e dell'affettività: è il «paradosso della dóxa» di cui parla Pierre Bourdieu, in base al quale, per accettare e addirittura valorizzare stili di vita ai limiti dell'inaccettabilità, siamo addirittura costretti a inventare e costruire sistemi discorsivi di dominazione simbolica che puntano sulla naturalizzazione dell'arbitrario, ovvero sull'elaborazione di una retorica del discorso scientifico che riesca a inculcare e incorporare come «naturali» valori e di-visioni che hanno invece un'origine tutta culturale.
Il secondo enigma che continuo a trovare senza risposta è come mai il maschio imperiale, temprato a ogni sorta di rinunzia e sacrificio, capace di affrontare deserti assolati e lande ghiacciate, nostalgie e pericoli, guerre e massacri per compiere la propria missione civilizzatrice, si mostri, poi, particolarmente «fragile» non solo nel campo delle emozioni, ma anche e soprattutto in quello dell'autoaccudimento quotidiano e bisognoso di delegare all'altro, perlopiù la donna o un suo sostituto (l'attendente), la propria stessa sopravvivenza emozionale e materiale: interrogativi forse impossibilitati a trovare una risposta, se non quelle parziali che ci danno la psicoanalisi e le archeologie dei saperi-poteri su cui si basano i vari sistemi di dominazione.

Liberazione 14.11.07
"Mein kampf", quel libro di Adolf Hitler venduto nella Libreria della Stazione
di Bianca Bracci Torsi
*


Nell'atrio della Stazione Termini di Roma c'è la grande e modernissima Libreria della Stazione, tappa obbligata per chi parte e vuole qualcosa da leggere in treno, per chi deve rimediare in fretta un regalo intelligente, ma anche per ferrovieri, pendolari e passanti desiderosi di aggiornarsi sulle novità o cercare il libro di cui si parla.
Da qualche giorno tutti questi cittadini/lettori sono sottoposti ad uno shock brutale: in bella mostra nel settore Storia della libreria ci sono tre pacchi di un volume sulla cui copertina rossa spiccano in nero una svastica e una scritta in caratteri goticheggianti: "Mein kampf" di Adolf Hitler.
Si tratta della opera prima (e unica, per quanto se ne sa) che il futuro fuhrer tedesco scrisse nel 1924 con la collaborazione di Rudolph Hess durante la breve permanenza in carcere dove entrambi scontavano un tentativo di colpo di Stato.
Suddiviso in due ponderosi volumi il saggio comprende la storia del movimento nazionalsocialista e la sua ideologia, un misto di aberranti teorie eugenetiche sul diritto/dovere di uccidere i diversi e gli inferiori e gli attacchi alla democrazia parlamentare, oltre che al marxismo, direttamente ripresi dal fascismo italiano delle origini.
Il vero filo conduttore comunque è il concetto di "razza eletta" e il conseguente razzismo, base del nazionalsocialismo che sostituisce la lotta di razza alla lotta di classe, programma la distruzione fisica degli ebrei e lo sterminio dei bolscevichi con una "guerra di razza" che dovrebbe consentire ai puri ariani tedeschi di installarsi nei territori dell'Europa orientale riuniti in un unico Stato sotto l'indiscusso potere del superuomo descritto da Nietzsche, cioè Hitler stesso.
Alla sua uscita fra il ‘25 e il ‘26 "Mein kampf" ebbe scarso successo e scarsissima diffusione ma si rifece ampiamente negli anni 30 quando ridotto ad unico volume e con il titolo oggi noto fu stampato in milioni di copie ed entrò trionfalmente in tutte le scuole e in quasi tutte le case tedesche, acquistato per convinzione, per opportunismo, per paura.
Dopo la sconfitta del nazifascismo gran parte di quelle copie, invendute o gettate al macero dai loro proprietari, furono distrutte.
Il governo della Baviera, legittimo erede dei diritti d'autore, ne vieta la riproduzione e la vendita in Germania consentendo solo il possesso e l'acquisto di vecchie copie per cui i neo-nazisti tedeschi debbono accontentarsi di ristampe introdotte in modo semi clandestino in Germania ma provenienti da altri paesi, soprattutto dagli Usa.
Sembra che un nipote di Hitler, che potrebbe rivendicare i diritti d'autore, abbia dichiarato di "non volere aver nulla a che fare con quel libro".
In Olanda la vendita è illegale, in Francia è autorizzata solo per motivi di studio, con una premessa esplicativa, negli altri paesi, Italia compresa, stampa, vendita, propaganda sono libere.
Le copie in vendita alla Libreria della Stazione, edite da La Lucciola di Varese nel 1992 per un limitato giro di lettori, escono oggi dal sottobosco dei nostalgici vecchi e nuovi per proporsi al grande pubblico e non è necessaria una particolare malizia per collegare questo lancio al rigurgito di razzismo che nel nostro Paese è stimolato e diffuso dai gruppi neofascisti e neonazisti e dalle forze politiche della destra parlamentare. Quando il Presidente di An, Gianfranco Fini, definisce i Rom "una etnia, una cultura non assimilabili" al civile consorzio umano, non solo una piccola casa editrice di destra e una grande libreria possono ritenere legittimati e perfino interessanti i deliranti progetti per il dominio del mondo sognato dal caporale Adolf Hitler.
Un sogno che è già costato milioni di morti, distruzioni immani, coscienze irrimediabilmente svuotate dalla loro umanità.
E' troppo chiedere che l'ostracismo e la condanna del nazifascismo siano parte delle leggi fondative e del sentire comune almeno di quei Paesi che del nazismo subirono tutto l'orrore?
*Responsabile nazionale Prc dipartimento Antifascismo


l’Unità 15.11.07
Ogni 2 giorni viene uccisa una donna
di Maria Zegarelli


Bindi: le famiglie sono più fragili, più servizi e sostegno. Pollastrini: avanti con la legge antiviolenza

Dal 2000 al 2005 sono state uccise 1081 donne: 180 l’anno, una ogni due giorni. L’inquietante, tragico dato risulta da una ricerca curata dall’EU.R.E.S (ricerche economiche e sociali).
E anche se non finiscono ammazzate sono vittime di devastanti violenze: due milioni 938mila le donne che lo scorso anno hanno subito violenza fisica o sessuale; tra queste 336mila sono state vittime di stupri e 267mila di tentativi di stupro. Autori dei reati sono per lo più ex mariti ed ex conviventi (22,4%), ex fidanzati (13,7), mariti o conviventi (7,5%) e fidanzati (5,9).

FAMIGLIA OSCURA A volte violenta, luogo di abuso e sopruso. Donne sempre più vittime, ma che, se esasperate, si armano come gli uomini (molto meno spesso, dati alla mano) e colpiscono con la stessa ferocia. Il fenomeno della sopraffazione fisica, ses-
suale, psicologica ed anche economica, è più allarmante di quanto si possa immaginare, molto più diffuso di quanto gli stessi numeri dicono oggi con chiarezza ma non con adeguata certezza considerando che le donne vittime di violenza tra le mura domestiche non sempre denunciano. Due milioni 938mila, quelle tra i 15 e i 70 anni, che lo scorso anno hanno subito violenza fisica o sessuale; tra queste 336mila sono state vittime di stupri e 267mila di tentativi di stupro. Autori dei reati sono per lo più ex mariti ed ex conviventi (22,4%), ex fidanzati (13,7), mariti o conviventi (7,5%) e fidanzati (5,9). Il 18,2% delle vittime neanche considera reati quelli che ha dovuto subire: un dato questo che risulta altrettanto allarmante di quello relativo al numero delle violenze. Ci sono donne che percepiscono la sopraffazione come un fatto «lecito», altre invece che - come emerge dalla relazione della dottoressa Isabella Merzagora Betsos (dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Milano) restano in casa e non lasciano il marito violento perché sanno che la reazione all’abbandono potrebbe essere addirittura più feroce. In Italia ogni anno muoiono per mano del marito, del fidanzato o dell’ex 180 donne, una ogni due giorni. Per otto maschi uccisi da una donna, ci sono 37 donne vittime di violenza maschile. I dati sono stati presentati ieri nel corso di un convegno organizzato dai ministeri di Famiglia e Pari Opportunità, svoltosi a Roma. A vederli tutti insieme raccontano un’ecatombe: dal 2000 al 2005 gli omicidi volontari sono stati 4129, di cui ben 1190 consumati in famiglia, con 1081 donne vittime. Vero è che nell’arco di 15 anni anni (dal 1990 al 2005) gli omicidi volontari sono scesi da 1695 a 601, ma il numero di donne uccise volontariamente è diminuito molto meno passando da 184 a 132, mentre spesso l’accanimento dell’assassino sul corpo della compagna o dell’ex compagna ha assunto sempre maggiore ferocia. Un altro dato che si discosta dalla tipologia della vittima rispetto a qualche decennio fa (quando la violenza in famiglia trovava terreno fertile nell’ignoranza e nella povertà) riguarda anche il grado di istruzione ed economico delle donne che subiscono violenze di ogni tipo: oggi il maggior numero di quelle coinvolte sono laureate (il 46%) e affermate professionalmente (il 50,55% sono imprenditrici e dirigenti), mentre quelle più a rischio risultano essere quelle separate o divorziate (il 63%). La fascia di età più colpita è quella tra i 16 e i 54 anni.
Il maschio italiano perde sicurezza e diventa più violento. «Ma forse questi dati ci indicano quanto la famiglia stessa sia diventata più fragile», osserva la ministra Rosy Bindi, ricordando come proprio la famiglia sia stata sempre più abbandonata a se stessa, senza più una rete di servizi in grado di supportarla nel lavoro di cura dei figli, degli anziani e spesso senza neanche la certezza di un lavoro sicuro. Servono politiche per la famiglia, una rete dei servizi efficace e una magistratura «preparata». «I consultori devono tornare a svolgere la funzione per la quale erano nati e che per anni hanno svolto egregiamente - sostiene Bindi -. In questi anni c’è stata una regressione dei consultori a una funzione di sanitarizzazione. Non voglio aprire un conflitto sugli strumenti, ma o i conservatori tornano a fare il loro mestiere, o si devono trovare altri strumenti». Come «i centri famiglia», ad esempio. Spetta anche alle Regioni scegliere. Al governo spetta, invece spingere affinché il ddl contro la violenza diventi legge in parlamento superando l’opposizione di «chi la considera contro la famiglia e di chi ne vede una interpretazione familistica della società». «Sono contenta dello stralcio sulle norme che riguardano lo stalking - aggiunge -, auspico anche io che vengano approvate, magari in sede legislativa in commissione, per il 24 novembre,ma non mi accontento. Non sono disposta ad immolare a queste due norme l’intero ddl che contiene misure rigorose ed efficaci». Stessa posizione la ministra Barbara Pollastrini: «È un testo che va subito trasformato in legge dello Stato, capace di rispondere alle aspettative di tante e tanti. D’altronde, nel dibattito alla Camera che ha votato lo stralcio, molti gruppi si sono dichiarati a favore della corsia preferenziale per la parte restante del disegno di legge».

l’Unità 15.11.07
La Cosa rossa accelera. E diventa «la Sinistra»
Emendamenti unitari e speaker unico in Senato. E nel simbolo il lavoro, non la falce e martello
di Simone Collini


I GRAFICI hanno iniziato a buttare giù alcuni bozzetti ed entro due, tre settimane al massimo Franco Giordano, Oliviero Diliberto, Fabio Mussi e Alfonso Pecoraro
Scanio sceglieranno il simbolo con cui la “Sinistra” si presenterà al voto amministrativo di primavera. La volontà comune è di presentarlo in apertura degli Stati generali convocati a Roma per l’8 e 9 dicembre, ma la strada non è tutta in discesa. L’unica cosa certa è che non sarà una sommatoria dei simboli esistenti e che non compariranno falce e martello, difesi in questo contesto soltanto dalle minoranze di Rifondazione comunista. Per il resto, il segretario del Pdci rimane convinto che vada inserito un chiaro riferimento al mondo del lavoro, quello del Prc che si debba tener conto delle battaglie portate avanti ultimi anni dalla cosiddetta sinistra di alternativa, il leader dei Verdi vuole far emergere che si tratta di un soggetto non solo di sinistra ma anche «degli ecologisti» e per Sd si deve dare il segno di una «sinistra italiana nuova e moderna». Rebus non facile, che finora non ha trovato soluzione nell’ipotesi minimalista di un campo rosso e verde solcato dalla scritta bianca “Sinistra” e neanche in quella di una semplice riproduzione della bandiera arcobaleno.
Ieri si è svolto a Montecitorio un incontro a cui hanno partecipato esponenti di tutte e quattro le forze coinvolte nel progetto, e dopo tre ore di discussione si è deciso di accelerare i tempi, istituendo un gruppo di lavoro per l’elaborazione del simbolo (in cui sono presenti non soltanto grafici) e uno per la campagna di comunicazione dell’assemblea di dicembre, nella quale questo dovrà essere presentato insieme a una carta dei valori e a una bozza di piattaforma programmatica.
La scelta di andare al voto insieme e di dar vita a quello che viene definito un soggetto «unitario, plurale e federato» non archivia comunque né i simboli né i partiti esistenti. Rimane infatti la divisione tra Pdci e Verdi da una parte, che vedono nella federazione l’obiettivo oltre cui non è possibile andare, e Rifondazione e Sinistra democratica dall’altra, per le quali questo non può che essere un passaggio intermedio in vista di un approdo unitario. Posizioni ribadite ieri da Angelo Bonelli e Paolo Cento per i Verdi, da Marco Fumagalli e Titti Di Salvo per Sd, Orazio Licandro e Jacopo Venier per il Pdci e da Walter De Cesaris, Michele De Palma, Roberta Fantozzi e Daniela Santroni per il Prc. «Sinistra democratica si è costituita in un movimento in attesa di dare vita ad un soggetto unitario», ha ribadito la capogruppo alla Camera Di Salvo, «una sinistra moderna e di governo». Anche il responsabile Organizzazione del Pdci ha spiegato che l’intenzione non è quella di dar vita a «una mera sommatoria» o a un «cartello elettorale», però ha fatto anche capire che il partito di Diliberto oltre la federazione non vuole andare: «Nessuno si scioglierà in questo percorso perché le identità e le storie sono elementi di ricchezza e non certo zavorra. Questo vale anche per il simbolo».
Ma non c’è solo il nodo dell’approdo finale e quello del simbolo da sciogliere. Se il primo può essere affrontato a più lunga scadenza, insieme al secondo ce n’è un altro da sciogliere entro l’8 dicembre: la legge elettorale. Perché come è stato riconosciuto da tutti al vertice di ieri, non si può aprire l’assemblea degli Stati generali, che di fatto dà il via alla fase costituente della sinistra unitaria, senza un accordo su questo fronte. E nei prossimi giorni il tema dovrà essere affrontato in una riunione ad hoc.
Passi avanti verso l’unità ieri sono stati compiuti anche su altri fronti. I gruppi al Senato di Prc, Verdi, Pdci e Sd, che hanno lavorato congiuntamente sugli emendamenti, si pronunceranno con un’unica dichiarazione in aula per il voto finale sulla Finanziaria, inaugurando così la formula dello speaker unico decisa al vertice dei leader dei giorni scorsi. Inoltre i quattro partiti hanno chiesto unitariamente un incontro con il ministro Amato in vista della manifestazione sul G8 del 17 novembre a Genova, per ottenere dal governo l’impegno a garantire «il regolare afflusso dei manifestanti».

l’Unità 15.11.07
Per «l’Unità», un comitato di garanti e una Carta dei valori
«Difendiamo l’autonomia e la storia del giornale»: ieri l’iniziativa del Cdr. Solidarietà da Scola, Ovadia, Ravera, Nicolini


Un comitato di garanti di peso e di alto profilo che, sulla base di una Carta dei valori che sia vincolante per proprietà e direzione, garantisca l’autonomia e l’indipendenza de l’Unità. Lo propone il comitato di redazione del giornale in vista del nuovo assetto proprietario, in corso di trattative, che farà capo alla famiglia Angelucci, già editore anche di un quotidiano dalla linea politica opposta a l’Unità qual è Libero. Una situazione inedita anche in un panorama difficile come quello italiano.
La proposta è stata resa pubblica ieri nella sede romana della Federazione nazionale della stampa. Il cui presidente Franco Siddi, in conferenza stampa insieme ai giornalisti del quotidiano, ha spiegato perché appoggia l’idea del comitato di garanti di fronte a nuovi proprietari: «L’Unità, giornale fondato da Gramsci, con una grande storia, che è patrimonio collettivo, non può mai dimenticare la sua natura non mercantile. Deve misurarsi con il mercato ma senza piegarsi. L’anima di un giornale non può essere messa in vendita come non sono in vendita i suoi giornalisti». E sull’autonomia politica della testata? «Non vorrei ci fosse un disegno normalizzatore». «È come se la famiglia Moratti - commenta Roberto Natale della Federazione - oltre all’Inter volesse comprare anche il Milan». Se accadesse succederebbe il finimondo.
Insieme ai tanti lettori che ci scrivono perché costernati dalla prospettiva di vedere la testata fondata da Antonio Gramsci avere il medesimo editore di un quotidiano schierato a destra, ieri hanno mandato messaggi di appoggio personalità come il regista Ettore Scola, come il parlamentare Ds Giuseppe Giulietti, oltre a intellettuali che collaborano con la nostra testata come Moni Ovadia, Lidia Ravera e Renato Nicolini. E il cantante del gruppo dei Têtes de bois è venuto di persona nella sede del sindacato dei giornalisti. «L’autonomia non può essere messa in discussione, è un valore per la democrazia e per il pluralismo», ha affermato la rappresentanza sindacale che ha annunciato di volere un incontro urgente con Marialina Marcucci, presidente della Nuova iniziativa editoriale che edita l’Unità.
Dunque due gli strumenti essenziali che il cdr propone: primo, una Carta dei valori a cui la testata, e la proprietà, debba attenersi e che sia vincolante; secondo, il comitato dei garanti formato da personalità d’alto profilo, e di cui prevede l’istituzione anche il contratto nazionale dei giornalisti, che avrà il compito di far rispettare quei valori. Intanto il cdr ricorda di avere a disposizione, su mandato dei giornalisti, un pacchetto di sette giorni di sciopero.

l’Unità 15.11.07
Rom, no al triangolo nero: nessun popolo è illegale
di Valeria Trigo


L’APPELLO Oltre trecento tra scrittori, artisti e intellettuali firmano un manifesto contro la criminalizzazione dei rumeni e il silenzio sulla violenza alle donne: i delitti individuali non giustificano castighi collettivi

«Il triangolo nero. Violenza, propaganda e deportazione. Un manifesto di scrittori, artisti e intellettuali contro la violenza su rom, rumeni e donne»: oltre trecento tra scrittori, artisti e intellettuali italiani hanno deciso di far sentire la loro voce, stanchi di assistere alla deriva razzista che attraversa il nostro paese, purtroppo aggravata dalla morte violenta di Giovanna Reggiani. Non potendo rimanere indifferenti alla guerra contro i poveri che si sta combattendo in Italia e rivendicando il diritto di critica di fronte alla dismissione dell’intelligenza e della ragione. Una specie di comunità, non solo virtuale, che smentisce le accuse ripetute dai cosiddetti opiniosti nei confronti della non partecipazione degli scrittori italiani alle questioni sociali.
Da giorni la rete era in fibrillazione, grazie alla mobilitazione di Alessandro Bertante, Gianni Biondillo, Girolamo De Michele, Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Monica Mazzitelli, Marco Philopat, Marco Rovelli, Stefania Scateni, Antonio Scurati, Beppe Sebaste, Lello Voce e il collettivo Wu Ming. Nasce così - da una partecipazione sempre più crescente, da arricchimenti reciproci e da un principio di base sacrosanto e imprenscindibile, riassumibile nella frase «Nessun popolo è illegale» - l’appello-manifesto al quale hanno aderito finora in più di trecento e che da oggi sarà in rete, su Carmillaonline, Wumingfoundation, Lipperatura, Nazione Indiana, beppesebaste.blogspot.com, Articolo 21 e francarame.it. Tra i nomi, quelli di Roberto Saviano, Sandro Veronesi, Franca Rame, Bernardo Bertolucci, Moni Ovadia, Simona Vinci, Botto&Bruno, Massimo Carlotto, Carlo Lucarelli, Nanni Balestrini, Mauro Covacich, Erri De Luca, Giuseppe Montesano, Valeria Parrella, Enrico Palandri e Ugo Riccarelli (del quale in questa pagina pubblichiamo un testo che lo scrittore romano ha affidato a un quotidiano svizzero).
«Odio e sospetto alimentano generalizzazioni - si legge nel manifesto -: tutti i rumeni sono rom, tutti i rom sono ladri e assassini, tutti i ladri e gli assassini devono essere espulsi dall’Italia. Politici vecchi e nuovi, di destra e di sinistra, gareggiano a chi urla più forte, denunciando l’emergenza. Emergenza che, scorrendo i dati contenuti nel Rapporto sulla Criminalità (1993-2006), non esiste: omicidi e reati sono, oggi, ai livelli più bassi dell’ultimo ventennio, mentre sono in forte crescita i reati commessi tra le pareti domestiche o per ragioni passionali. Il rapporto Eures-Ansa 2005, L’omicidio volontario in Italia e l’indagine Istat 2007 dicono che un omicidio su quattro avviene in casa; sette volte su dieci la vittima è una donna; più di un terzo delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, e il responsabile di aggressione fisica o stupro è sette volte su dieci il marito o il compagno: la famiglia uccide più della mafia, le strade sono spesso molto meno a rischio-stupro delle camere da letto».
Ma, nonostante i fatti, nel nostro paese rimane il vizio dell’«emergenza continua». Dopo la morte di Gabriele Sandri, il ragazzo laziale ucciso da un poliziotto, tutti i quotidiani esteri hanno commentato: «l’Italia è il paese dei problemi che non si risolvono mai». Più «facile» agitare uno spauracchio collettivo piuttosto che affrontare seriamente e risolvere le vere cause dell’insicurezza sociale. O continuare a sfruttare le ragazze immigrate e la manodopera piuttosto che attuare le direttive europee (come la 43/2000) sul diritto all’assistenza sanitaria, al lavoro e all’alloggio dei migranti: nei cantieri ogni giorno un operaio rumeno è vittima di un omicidio bianco.
Il rischio è enorme: «Si sta sperimentando la costruzione del nemico assoluto, come con ebrei e rom sotto il nazi-fascismo, in nome di una politica che promette sicurezza in cambio della rinuncia ai principi di libertà, dignità e civiltà; che rende indistinguibili responsabilità individuali e collettive, effetti e cause, mali e rimedi. Manca solo che qualcuno rispolveri dalle soffitte dell’intolleranza il triangolo nero degli asociali, il marchio d’infamia che i nazisti applicavano agli abiti dei rom».

l’Unità 15.11.07
Il convegno. A Firenze
Gramsci e l’identità nazionale
di Renzo Cassigoli


«Quello di Antonio Gramsci è stato l’ultimo grande tentativo novecentesco di pensare in maniera organica l’identità dell’Italia come nazione. Quando con Gramsci parliamo di un’Italia che ritrovi la via dell’identità e rifletta sulle ragioni sociali, culturali, politiche che l’hanno bloccata affrontiamo un tema che era anche di Machiavelli».
Gaspare Polizzi, membro del comitato scientifico del convegno che si terrà da oggi a sabato a Firenze, nel Salone de’ Dugento in Palazzo Vecchio, ne richiama alcuni temi fondamentali.
Muoviamo dalla lingua che per Gramsci è la questione fondamentale per l’identità nazionale.
«Si può dire che Gramsci prima d’essere un pensatore politico fu uno studioso di linguistica, anzi fu un linguista, il tema quindi è strettamente connesso alla sua formazione ma anche al suo pensiero politico. Pensiamo, ad esempio, a come per Gramsci la lingua sia la forma attiva che identifica un popolo come nazione e quindi, come attraverso la lingua si costituisca l’identità nazionale. Un tema che al convegno sarà approfondito da Tullio De Mauro».
Cosa si intende, parlando di Gramsci, per «nazione mancata»?
«È il grande tema del Risorgimento come “rivoluzione incompiuta”, come rivoluzione “passiva” che attraversa tutta la fase risorgimentale per ritrovarsi poi nella grande crisi del fascismo. Nell’assetto di una egemonia che ha nel fascismo il carattere specifico di “rivoluzione passiva”. Un elemento che per Gramsci è centrale nella crisi del Novecento e che, per l’Italia, richiede una “guerra di posizione”, come Gramsci sosteneva. Cioè di una lotta per l’egemonia che deve trovare nella dimensione culturale, educativa, e poi nella politica una sua via per svilupparsi. Ecco, questa dimensione appartiene al rigore intellettuale di Gramsci e come tale va ampiamente valorizzata. Per Gramsci la questione culturale e linguistica sono alla radice dell’egemonia e dell’identità nazionale, del tutto in contro tendenza con lo stato della cultura e dell’educazione in Italia».
Un tema quanto mai attuale.
«La qualità di questa nostra riflessione sta proprio nell’utilizzo delle categorie gramsciane per riflettere sulla crisi dell’Italia oggi, la crisi di una nazione che sembra ancora essere alla ricerca di una sua identità. Per questo non abbiamo voluto fare del convegno un’assise di specialisti, ma intendiamo valorizzarne il carattere pluridisciplinare e la dimensione assolutamente attuale del pensiero gramsciano. Vogliamo chiederci, cioè, cosa può dirci oggi Gramsci sull’identità nazionale. Il tema è ancora molto caldo.

Repubblica 15.11.07
Il gip: dagli ultrà romani attacco allo Stato
Gli arrestati restano in cella. Il procuratore di Arezzo: imperdonabile l'agente che ha sparato
di Marino Bisso e Maurizio Bologni


ROMA - «Nulla giustifica il poliziotto che ha sparato ad altezza d´uomo. E´ stato un atto di follia imperdonabile». All´uscita dal tribunale il capo della procura di Arezzo, Ennio Di Cicco, è severo con Luigi Spaccarotella, l´agente che domenica ha ucciso Gabriele Sandri sparando da un´area di servizio all´altra dell´autosole. «Poteva andare peggio - aveva detto in precedenza il magistrato - Se il proiettile avesse centrato un veicolo di passaggio avrebbe potuto innescare una tragedia di grandi proporzioni». Il reato verrà rubricato come omicidio volontario. E´ questione di ore. «Ci sono due testimoni chiave nella vicenda ed entrambi escludono che l´agente sia inciampato» dice Di Cicco. I due testimoni, un rappresentante e uno dei quattro tifosi laziali che viaggiavano con Sandri, dicono di aver visto il poliziotto salire su un cumulo di terra e sparare con le braccia tese. Ieri si è presentato uno degli occupanti della Mercedes Classe A che avevano avuto uno scontro con i tifosi laziali, ma non avrebbe aggiunto elementi utile: la vettura era già ripartita quando il colpo ha raggiunto al collo Gabriele Sandri (si è saputo che il giovane, in occasione di Milan-Lazio del 10 gennaio 2002, fu fermato nei presi dello stadio assieme ad altri 24 laziali che avevano cacciaviti e taglierini).
Intanto i giudici confermano la matrice eversiva degli incidenti di domenica. Il Gip di Roma Enrico Imprudente convalida l´arresto di due tifosi e motiva: «Si è tentato di condizionare i pubblici poteri dello Stato. E´ dai tempi più bui della Repubblica che non si verificavano assalti alle caserme. Si denota l´esistenza di un´organizzazione che ha come fine quello di creare un clima di paura». In sintonia è il gip di Milano Guido Salvini che manda ai domiciliari due arrestati per scritte che inneggiavano alla morte dell´ispettore Raciti: «Negli ultimi tempi le organizzazioni oltranziste dei tifosi si sono sempre più frequentemente presentate come una nuova "area antagonista" violenta, impegnata ad attaccare i poteri pubblici, con manifestazioni e cortei analoghi a quelli dell´estremismo politico eversivo con il quale sono sovente in collegamento».
E´ stata giornata di processi in tutta Italia. Sempre a Milano tornano liberi altri otto arrestati. Convalide, sette, a Bergamo, e a Taranto (nove). Altri slogan contro la polizia sono comparsi in varie città, da Palermo a Viterbo, da Bologna a Treviso, e ieri mattina in via Le Petit a Roma un grosso petardo, che non è esploso, è stato lanciato sotto un´auto della polizia. A Fiesole, sopra Firenze, è successo di peggio. Otto giovani, redarguiti per aver posteggiato male, si sono scagliati contro i vigili urbani cercando di disarmarli e gridando «sparateci a tutti come avete fatto a quel ragazzo». Il ministro dell´Interno, Giuliano Amato, avverte da Alghero che non saranno tollerate nuove violenze: «Se dovessero avvenire altri disordini, la scelta non sarebbe quella di domenica sera, che era un giorno speciale per la morte di questo ragazzo, e le forze di polizia decisero di evitare lo scontro fisico e di limitarsi a difendere le sedi. Oggi la scelta non sarebbe questa». Il ministro dell´interno ha il sostegno di Romano Prodi: «La linea Amato è concordata e, soprattutto, condivisa dal governo».

Repubblica 15.11.07
Cefalonia. Gli ultimi sette fantasmi l´Italia riapre l´inchiesta
di Carlo Bonini


I giudici indagano su un gruppo di soldati tedeschi parteciparono al massacro di oltre 4mila militari

I conti con la barbarie nazista non sono chiusi. Gli almeno 4 mila morti italiani di Cefalonia non possono riposare in pace. Non ancora, almeno. Restano sette fantasmi. Sette vecchi. Sopravvissuti ai loro orrori di soldati del Reich. Tenente Max Kurz, comandante della 14esima compagnia del 98esimo reggimento alpino. Sottotenente Ottmar Muhlhauser, aiutante di campo della 15esima compagnia comando 98esimo reggimento alpino. Capitano Alfred Schroppel, comandante della prima compagnia 54esimo battaglione alpino. Tenente Helmut Vogtle, comandante della quinta compagnia comando 54esimo battaglione alpino. Sottotenente Karl Weisbacher, comandante di plotone nella prima compagnia 54esimo battaglione alpino. Sottotenente Anton Wimmer, 98esimo reggimento alpino. Tenente Fritz Thoma, comandante della settima batteria 79esimo reggimento artiglieria da montagna. Prosciolti nel marzo di quest´anno a Dortmund dal procuratore federale tedesco Ulrich Maas, conosceranno in Italia una nuova istruttoria. Forse, un nuovo processo. Il procuratore militare di Roma, Antonino Intelisano, li ha iscritti al registro degli indagati per omicidio plurimo aggravato, ritenendo di poter dimostrare, al contrario della magistratura tedesca, che la mattanza di Cefalonia non può conoscere prescrizione.
A 64 anni dai fatti, del resto, il lavoro di ricostruzione si può dire completo. La magistratura tedesca ha raccolto in 37 faldoni e 51 pagine di requisitoria, documenti, diari e oltre 500 testimonianze oculari: le voci di greci, di sopravvissuti italiani e, soprattutto, di soldati tedeschi. In quelle carte, in acquisizione dalla Procura militare di Roma, il resoconto della dimensione e della natura del massacro arriva lì dove non era ancora riuscita neppure l´eccellente ricerca storiografica. Ed è una lettura definitiva. Che individua fosse comuni di cui si ignorava l´esistenza, riscrive la geografia delle esecuzioni sommarie. Documenta l´orrore provato dagli stessi carnefici.
Il contesto storico è noto. L´armistizio dell´8 settembre 1943 sorprende i circa 9.000 uomini della nostra divisione Acqui, comandati dal generale Antonio Gandin, sull´isola ionica di Cefalonia, nodo di importanza strategica nel golfo di Patrasso. Il 12 settembre, la divisione «Acqui» rifiuta di deporre le armi all´ex alleato tedesco, cui oppone resistenza. Tra il 21 e il 22 settembre, la Wehrmacht ne annienta le difese. Migliaia di prigionieri italiani inermi vengono fucilati in esecuzioni di massa. La mattina del 24 settembre, il generale Gandin e i suoi ufficiali sono trucidati da un plotone di esecuzione a capo san Teodoro.
Si era a lungo ritenuto che a scatenare l´orrore fosse stato l´ultimo degli ordini diramati dal Fuehrer il 18 settembre: «A causa del loro comportamento subdolo e da traditori, a Cefalonia non devono essere fatti prigionieri». Che agli ufficiali della Wehrmacht non fosse stata data altra scelta. Non è esattamente così. «Gli omicidi di italiani disarmati - documenta il procuratore tedesco Maas - hanno inizio già nella giornata del 16 settembre e proseguiranno fino al giorno 24».
I tedeschi abbattono gli italiani come capi di bestiame. In una feroce babele di ordini estemporanei. Si uccide in ogni angolo dell´isola. Nei modi e nei tempi suggeriti dalla pietà o dal sadismo degli ufficiali che comandano i plotoni di esecuzione. Le testimonianze raccolte dalla magistratura tedesca tra i soldati della Wehrmacht ne sono il documento raggelante.
Richard Hamann, soldato semplice del 98esimo reggimento alpino: «A Divarata ci radunammo in una piazza, con italiani. Giunse l´ordine che quattro camerati del plotone mitraglieri dovevano essere distaccati per la fucilazione dei prigionieri. Ero a circa 200 metri di distanza. Morirono in 62. Noi ne rimanemmo tutti choccati».
Alfred Richter, caporale in servizio allo Stato Maggiore del 54esimo battaglione alpino, scrive nel suo diario di quei giorni: «Al passo Koutsouli vengono sparati solo pochi colpi. Poi, gli italiani sventolano dei fazzoletti bianchi e corrono giù a frotte dalle colline. Quando superiamo il passo, ci imbattiamo in cadaveri di italiani. Sono stati fucilati da quelli del 98esimo reggimento dopo essersi arresi (…) A Pharaklata, facciamo sosta in un giardino presso una postazione di batteria di artiglieria italiana che il 98esimo reggimento, che ci ha preceduto, ha annientato brutalmente. Gli italiani sono stati fucilati, massacrati e calpestati con gli scarponi da montagna. A Frankata, senza aver sparato un colpo, si arrendono due compagnie italiane, circa 400 soldati. A gruppi, vengono portati nelle cave di pietra e nei giardini recintati appena fuori il paese, dove vengono falcidiati dalle mitragliatrici del 98esimo. Ci tratteniamo sul posto per due ore, durante le quali i mitra non hanno mai smesso di martellare. Le grida arrivano nelle case dei greci. Non vengono risparmiati neanche infermieri e preti. Chi abbia ordinato questo annientamento non ci è noto, tuttavia ne siamo tutti indignati. Anche i plotoni d´esecuzione. Uno di questi cerca di ribellarsi, ma viene subito messo a tacere da un ufficiale con la minaccia di essere messi al muro anche loro…»
Hans Kappel, maresciallo di sanità dello Stato maggiore del terzo battaglione 98esimo reggimento alpino: «A Dilinata, sorprendemmo un´intera compagnia della divisione Acqui, che si arrese senza combattere. Gli italiani furono subito disarmati e condotti in un avvallamento dove furono fucilati con tre mitragliatrici».
La mattina del 22 settembre, 650 fanti italiani vengono fucilati a Troianata. Spiros Vangelatos, che vive oggi a Cefalonia, quel giorno aveva 16 anni. Osserva la scempio nascosto tra i rami di un mandorlo. Così ne riferisce ai magistrati tedeschi: «Intorno alle 9, gli italiani vennero portati in fila in un campo chiuso da un muro di pietra. In quel momento furono scaricate due mitragliatrici con casse di munizioni. Cominciarono a fare fuoco sugli italiani. (…) Dopo tre giorni cominciò a diffondersi un puzzo orrendo. Cercammo di bruciare i cadaveri con la benzina lasciata dagli italiani. Quando anche questo tentativo fallì, mettemmo gli italiani - circa 600 - in due cisterne inaridite».
Si scompare per sempre anche nelle cave di pietra. Al centro dell´isola, tra Frankata e Valsamata, e all´ingresso di Argostoli. Michael Scharl, maresciallo della quarta compagnia 54esimo battaglione alpino: «Stavo passando con il mio plotone di fronte a una cava di pietre nella quale, proprio in quel momento, dei prigionieri italiani venivano fucilati. Vidi nella cava un gran numero di cadaveri, mentre altri prigionieri venivano condotti all´interno e fucilati di fronte al mucchio di cadaveri».
Al cimitero di Drapanos, l´orrore è insostenibile anche per i carnefici. Helmut Muller, 13esima compagnia del 98esimo reggimento alpino: «Gli italiani si erano arresi sin dal primo giorno di combattimenti. I nostri prigionieri dovevano esser stati circa 500. Pernottarono con noi e il giorno successivo proseguirono la marcia con la nostra compagnia. Se ne aggiunsero altri, fino ad arrivare a 1000 la sera del secondo giorno di combattimenti, quando ci accampammo nei pressi del cimitero di Drapanos. Ai comandanti di plotone fu ordinato di far fucilare i prigionieri. Due mitraglieri per ciascuno dei tre plotoni dovevano presentarsi volontari con una mitragliatrice leggera per ciascuno. Poiché però nessuno si offriva volontario, i mitraglieri furono scelti dai comandanti di plotone. I prigionieri furono divisi in gruppi e fucilati con tre mitragliatrici. Dopo che furono fucilati circa 200 prigionieri, l´esecuzione fu sospesa. L´intera compagnia che aveva assistito all´esecuzione si era ribellata e non si trovava più nessuno disposto a portare i prigionieri sul luogo dell´esecuzione».
Non lontano dal chiostro di Agios Gerasimou, i prigionieri italiani si stringono in un´improvvisa processione. I soldati della Wehrmacht ne fanno brandelli. Martin Lohringer, seconda compagnia 54esimo battaglione alpino: «Ci venne incontro una processione cristiana. Erano soldati italiani nelle loro uniformi. Saranno stati cento, quindi una compagnia. Vedemmo che non erano armati e l´ordine fu di lasciarli passare, risparmiandoli. Ma dopo alcuni minuti che la processione italiana si fu allontanata 100-200 metri sentimmo dei colpi. Ho avuto l´impressione che il 98esimo reggimento che era rimasto dietro di noi dovesse aver passato per le armi questa processione».
Tra i soldati tedeschi qualcuno prova a sottrarsi alla mattanza. J. Schallahart, fante austriaco della 12esima compagnia 98esimo reggimento alpino: «Il nostro maresciallo ci portò l´ordine di fucilare un´unità di italiani. Era inutile rifiutarsi perché la sorte era caduta su di noi e noi avevamo l´arma adatta, una mitragliatrice pesante che, portata in posizione, dovette sparare su un gruppo di 35 uomini messi contro un vallo di pietre. Tutti chiudemmo gli occhi, forse anche il mitragliere. Per noi è rimasto il trauma della vita». A Kardakata, il sottufficiale Wilhelm Kunzel, 910° battaglione di fanteria, riesce a sfuggire all´assegnazione del plotone che deve eliminare 200 prigionieri. «Quando seppi che l´ufficiale era in strada per mettere insieme gli uomini del plotone, mi nascosi nel mio alloggio. Dopo poco, sentii il fuoco delle mitragliatrici. Ad esecuzione avvenuta, apparve il nostro furiere, il maresciallo Bruno Michel. Aveva dovuto assistere alla fucilazione. Ci disse che era stato orrendo.
Ancora oggi è impossibile calcolare il numero esatto degli italiani trucidati a Cefalonia. Mentre dei 3.500 soldati tedeschi che parteciparono alla mattanza ne sono sopravvissuti alla guerra e al tempo 417. La giustizia italiana ricomincerà da sette di loro. I sette fantasmi con cui chiudere il cerchio della memoria.

Corriere della Sera 15.11.07
Le ragazzine scelgono i rapporti non protetti
Aborti Il numero è in calo Ancora molti tra i 15 e i 17 anni
Le donne e la pillola del giorno dopo: mille ogni 24 ore
Vendite aumentate del 59 per cento in 7 anni La usano soprattutto le giovani: una su due
di Claudia Voltattorni


MILANO — La ragazzina crede nel loro amore. «Stiamo insieme da quasi tre mesi, ci conosciamo e ci amiamo », confida a internet. Di lui si fida. Nulla può succedere. Malattie, Aids, figli: solo parole. E per un grande amore così «il preservativo non è necessario », perché «se si usa un attimo il cervello, non serve». Tanto poi «per fortuna esiste la pillola del giorno dopo».
Il boom
La pensano così in tante. Ragazzine e donne. Da giugno 2006 a luglio 2007 sono state vendute in Italia 356mila pillole del giorno dopo. Quasi mille al giorno. Oltre la metà delle acquirenti ha meno di vent'anni (55%), il resto delle pillole è andato alle signore dai 20 ai 50 anni (45%). Donne che hanno scelto di pensare dopo anziché prima, che alla prevenzione dei tradizionali metodi contraccettivi preferiscono la soluzione dell'ultimo minuto. Più facile. Ma anche più dolorosa. La pillola del giorno dopo non è un aborto. Però la quantità di ormoni che rilascia per impedire l'ovulazione e l'eventuale fecondazione non è una passeggiata. Invece per molte signore e signorine è diventata un contraccettivo. E non sono poche ad averla assunta più di una volta.
Eppure l'offerta di contraccettivi non è limitata. Pillola tradizionale, anelli, spirali, preservativi, cerotti sarebbero un buon aiuto a limitare o eliminare la trasmissione di malattie sessuali e a evitare gravidanze non programmate. Invece, pur essendo la pillola ancora il metodo più diffuso, non è più così scelta per proteggersi, in particolare dalle under 20. E il preservativo diventa «solo un oggetto fastidioso »: dal '95 al 2005 l'incremento di vendite è stato solo di duemila pezzi (da 98.200 a 100.200). E se il numero degli aborti tra le italiane nel 2005 è molto calato (132.790 casi, meno 60%) rispetto al picco dell'82 (234.801), di quelle quasi 133mila interruzioni volontarie di gravidanza, 4.040 sono state effettuate su ragazze tra i 15 e i 17 anni.
Contraccezione negli anni
«Questo dimostra il fallimento dell'educazione contraccettiva: negli ultimi dieci anni c'è stato un disinvestimento sulla contraccezione e un metodo d'emergenza come la pillola del giorno dopo diventa un metodo contraccettivo, soprattutto tra le giovanissime », riflette Alessandra Graziottin ( www.alessandragraziottin.it), ginecologa, direttrice del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica del San Raffaele di Milano. Spiega: «Negli anni '80, l'attenzione è stata altissima: c'era l'Aids». Si sono fatte un mucchio di campagne per l'uso del preservativo, anche tra gli adolescenti, «ricorda l'opuscolo con Lupo Alberto? ». Poi, dal '95, «l'Aids da malattia mortale è diventata malattia cronica e la guardia è stata abbassata, dimenticando che esistono altre malattie ». Ogni giorno la dottoressa si trova di fronte decine di madri e figlie: «Quando chiedo alle ragazze che contraccettivo usano e mi rispondono "nessuno", le mamme ridono. E io vorrei strozzarle! Ma come "nessuno"? Ed elenco le malattie che rischiano di contrarre proprio a causa di quel "nessuno"».
Le altre malattie
Già, perché la mancanza di contraccezione sta portando ad un aumento nella diffusione delle malattie veneree. Papillomavirus, chlamydia, herpes genitale, gonorrea, sifilide: «C'è stato un raddoppio di casi — sostiene la Graziottin —, per la chlamydia siamo a 6 volte di più». E infatti il ministero della Sanità la scorsa estate ha lanciato la campagna «Non solo Aids » (numero verde 800.861.061) per sottolineare che ci sono anche altre malattie trasmissibili sessualmente. E il prossimo primo dicembre, giornata mondiale contro l'Aids, uno spot della regista Francesca Archibugi ricorderà che anche l'Aids non è scomparsa: ogni anno in Italia vengono registrati quasi 4.000 nuovi casi.
L'educazione sessuale
«Ma sono tanti i ragazzi e le ragazze che nonostante tutto ancora non si decidono ad usare il preservativo, però non è tutta colpa loro». Perché, ragiona Camila Raznovich, «non c'è la minima educazione sessuale». La vj di Mtv conduce da anni «LoveLine », programma tv che parla di sesso. Ne ha sentite e ne ha lette parecchie sul forum, soprattutto di giovanissimi. Come Luana che scrive: «Io non uso nulla... in realtà non penso alle malattie, non credo che una persona sia così cattiva da non dirlo se avesse qualcosa...». O Anonima: «Io e il mio ragazzo qualche volta lo usiamo qualche volta no, ma senza è veramente meglio». Perciò la Raznovich chiede «l'ora di educazione sessuale obbligatoria nelle scuole, come l'inglese e l'informatica, ma subito, dalle medie: è fondamentale», insiste, perché «i ragazzini sanno tutto di tecnologie ma nessuno gli spiega che le malattie si prendono ancora e che ancora si resta incinta». È d'accordo anche la Graziottin, che in più suggerisce una responsabilizzazione dei maschi: «La contraccezione è sempre più solo un affare da donne, invece l'amore si fa in due, i ragazzi vanno coinvolti». Così come è necessario riscoprire i consultori. Un'inchiesta fatta tra gli adolescenti del Nord-Est rivela che il 64% delle ragazze e l'86% dei ragazzi non sa neanche dove siano. Da parte sua, il ministro della Sanità Livia Turco appoggia e promuove l'educazione sessuale, soprattutto a scuola, ma chiede anche di «investire sulla relazione, sull'apertura all'altro, su una vera educazione sentimentale per i giovani». Compiti non delegabili però solo a scuola e professori: «Dobbiamo assumerci collettivamente una responsabilità sociale più vasta, che coinvolga tutti, nessuno escluso, pubblicità, media, tv, cinema».

il manifesto 15.11.07
Le quotidiane razzie dei siti archeologici iracheni
Uscirà in dicembre un rapporto sulla devastazione del patrimonio mesopotamico. Furti su ordinazione e danni legati al conflitto hanno prodotto una situazione irreparabile
di Giuliana Sgrena


A più di tre anni di distanza dal saccheggio del museo di Baghdad la distruzione del patrimonio archeologico della Mesopotamia continua ogni giorno nei diecimila siti dispersi in tutto l'Iraq, dove i predatori, del tutto indifferenti alla salvaguardia dei reperti recuperati, mirano a rivendere il loro bottino a trafficanti privi di scrupoli. Tavolette con scritte cuneiformi vengono cedute a cinquanta dollari, afferma Joanne Farchakh, archeologa libanese da anni impegnata in Iraq, che in dicembre pubblicherà un rapporto sulla devastazione del patrimonio archelogico iracheno.
Intorno a questa quotidiana razzia si è creata una vera e propria organizzazione, al punto che gli acquirenti - collezionisti privati disposti a pagare somme ingenti per arricchire le proprie preziose raccolte - forniscono indicazioni precise sui pezzi da recuperare. Quanto ai saccheggiatori, grazie a una esperienza ormai consolidata, sanno bene dove cercare, anche perché si dice che tra di loro ci siano esperti in scavi archeologici formati ai tempi di Saddam. Il raìs curava molto questi aspetti della cultura del paese e una volta (un fatto che non va comunque a suo favore) fece condannare a morte un uomo che aveva tagliato la testa a una statua. Paradossalmente, inoltre, i saccheggiatori sono protetti da gruppi armati nel corso degli scavi, mentre chi è incaricato della salvaguardia dei siti non ha i mezzi sufficienti per ricevere una adeguata protezione. Addirittura nel 2005 è accaduto che dei reperti trafugati, intercettati e diretti al museo di Baghdad, siano stati ripresi armi in pugno dai ladri che hanno preso d'assalto i camion dove i pezzi erano stati caricati uccidendone i conducenti.
Una delle zone più ricche di siti è la provincia di Dhi Qar dove si trova l'antichissima Ur, il centro più importante dei sumeri, citato anche nella Bibbia come il luogo dove avrebbe dimorato Abramo. Secondo Joanne Farchakh gli ottocentoquaranta siti sumeri che si trovano nella zona di Nassiriya, capoluogo della provincia, sono stati tutti saccheggiati, nonostante il fatto che uno dei compiti dei carabinieri italiani fosse proprio la formazione di personale per proteggere i siti. Questo impegno non ha impedito che militari italiani siano stati fermati sulla strada per il Kuwait in possesso di reperti. Nel nostro paese, del resto, sono stati individuati trecento pezzi rubati al museo di Baghdad.
Per pattugliare i siti di Nassiriya lo scorso anno sono stati reclutati sul posto duecento ufficiali di polizia ma, come ha dichiarato all'«Independent» Abdulamir Hamdani, direttore delle antichità della provincia, l'equipaggiamento resta largamente insufficiente. «Abbiamo solo otto macchine, alcuni fucili e poche radio trasmittenti per un'area che conta oltre ottocento siti» ha detto Hamdani, che oltre tutto è stato incarcerato per tre mesi per aver cercato di impedire l'acquisto di una zona archeologica da parte di un fabbricante intenzionato a utilizzare i vecchi mattoni sumeri per costruirne di nuovi da vendere sul mercato. Attualmente il progetto è congelato ma casi analoghi si registrano in altre zone.
A mettere a rischio quel che resta di una civiltà antichissima, però, sono anche le truppe di occupazione che, oltre a non proteggere adeguatamente gli scavi e ad avere permesso che il museo di Baghdad fosse saccheggiato (sono più di seicento i reperti trafugati rinvenuti negli Stati Uniti), usano i siti più preziosi come basi militari. Così succede a Ur, dove le ultramillenarie pareti si stanno crepando per il continuo passaggio dei carri armati. E quando Abbas Hussaini, responsabile del patrimonio artistico dell'Iraq, ha cercato di ispezionare il sito (al cui interno è in via di costruzione anche una casamatta), gli americani gli hanno rifiutato il permesso.
Nella leggendaria Babilonia, città di Nabucodonosor, invece, gli americani hanno costruito un accampamento per duemila soldati. La pavimentazione dell'entrata alla famosa porta di Ishtar (la stessa dove duemilacinquecento anni fa si svolgevano le processioni) è stata mandata in frantumi dai tanks e sulle macerie è stata costruita una pista per elicotteri, mentre nell'antico caravanserraglio di Khan al Raba gli americani facevano esplodere le armi sequestrate agli insorti.
Il danno prodotto a Babilonia è «irreparabile», sostiene l'archeologa Zainab Bahrani. «È come se i siti archeologici fossero continuamente scossi da un terremoto» le fa eco Joanne Farchakh. Ancora una volta l'operato delle truppe di occupazione è in aperta violazione della Convenzione di Ginevra, secondo cui l'esercito deve «utilizzare tutti i mezzi in suo potere» per proteggere il patrimonio culturale del paese occupato. Ma il diritto internazionale non è compatibile con la guerra preventiva.
Privi di mezzi, i millequattrocento funzionari iracheni addetti alla protezione dei diecimila siti sono anche senza stipendio, perché il bilancio dello Sbah (la Direzione per le antichità e il patrimonio) si è andato via via assottigliando, così come i finanziamenti stranieri ai progetti. La denuncia è stata compiuta da Donny George Youkhanna presidente dello Sbah, ex direttore generale dei musei e del museo di Baghdad, prima di abbandonare l'Iraq, il 6 agosto del 2006. Si è chiusa così la sua lunga carriera che, iniziata nel 1976, ha visto lo studioso partecipare a importanti ricerche archeologiche e più recentemente al recupero di pezzi rubati. Pare che Donny George abbia ricevuto minacce (sicuramente ne ha ricevute il figlio), ma il problema principale è legato ai suoi cattivi rapporti con il governo: non solo perché l'archeologo è cristiano e ex baathista, ma perché gli islamisti al potere non sono interessati all'arte preislamica, quella che maggiormente interessa gli studiosi. C'è chi insinua che i radicali islamici siano poco sensibili all'arte tout court, visto che nelle battaglie tra le fazioni irachene vengono distrutte moschee di notevole importanza storica e culturale oltre che religiosa.
Quando Donny George, un personaggio molto famoso, conosciuto dagli archeologi di tutto il mondo e da tutti coloro che passavano per Baghdad, ha lasciato il suo paese, il ministro del turismo e dell'archeologia era Liwa Sumaysim, del movimento di Muqtada al Sadr, di professione dentista. Prima di partire, comunque, Donny George ha murato le porte del museo di Baghdad proteggendole con sacchetti di sabbia: una precauzione necessaria, visto che il museo si trova in una zona, vicino ad Haifa street, spesso al centro di violenti scontri e dove hanno avuto luogo anche numerosi rapimenti. Il museo era stato temporaneamente riaperto per presentare il restauro del vaso di Warda, uno dei reperti sumeri più preziosi, in precedenza rubato e ridotto in pezzi.
Meno drammatica invece la situazione dell'arte islamica: i siti infatti non vengono presi di mira, non perché siano più protetti degli altri, ma perché sul mercato i reperti preislamici sono molto più ricercati.

Liberazione 15.11.07
Sinistra, nuovo simbolo (senza falce e martello)
Una riunione dei quattro partiti per decidere forme e modi della
nascita del nuovo soggetto politico. Costituente e voto popolare
di Stefano Bocconetti


Sinistra, la notizia di ieri è che comincia a prendere forma. E stavolta sembra proprio che si faccia sul serio. Date, impegni, scadenze. Ma c'è anche una notizia nella notizia. E riguarda il "come" si presenterà questo nuovo soggetto della sinistra, come si vestirà. Per capire: riguarda i suoi simboli. Una "notizia" alla quale ci si arriva per sottrazione, se così si può dire. Vediamo. Ieri, in una riunione un po' lontana dai riflettori tutti puntati su Palazzo Madama - e forse proprio per questo più produttiva - si sono incontrati i dirigenti delle quattro formazioni politiche interessati al nuovo soggetto. Hanno cominciato a discutere di tante cose, di più: si sono trovati d'accordo sulle tappe del percorso che porterà agli stati generali dell'8 e 9 dicembre. Una "strada" che li porterà ad incontrare e a discutere con tutto ciò che si muove al di fuori dei partiti e che, a sinistra, è la parte più grossa.
Le delegazioni hanno poi cominciato a discutere anche di quale dovrebbe essere il logo, l'immagine con cui quest'aggregazione dovrà presentarsi. S'è messa al lavoro una commissione, che valuterà proposte, bozzetti, idee. Colori. Però intanto c'è stata una prima discussione. E - nonostante tutte le previsioni - i dirigenti di Rifondazione, del Pdci, dei verdi, della Sinistra democratica si sono trovati d'accordo su un punto. Un punto dirimente: il simbolo del nuovo soggetto non dovrà contenere elementi, "riferimenti" ai loghi dei partiti esistenti. Partiti che naturalmente - l'hanno sottolineato tutti i protagonisti dell'incontro, da Walter De Cesaris di Rifondazione a Iacopo Venier del Pdci - continueranno ad esistere. Con le loro bandiere e le loro insegne. Almeno fino a che non si decida qualcosa di diverso. Ma tutto questo c'entra poco con l'incontro di ieri. Dove, tradotto, s'è deciso che nel simbolo della sinistra non ci sarà la falce e martello. Così come non ci sarà il Sole che ride o altro.
Sarà un "vestito" nuovo, insomma. Tutto da inventare. Sarà la rappresentazione grafica immediata di una sinistra che vuole unirsi ma anche e soprattutto rinnovarsi. Di una sinistra che vuole fare la sinistra ora, in questo millennio.
Naturalmente, non appena è uscita la notizia, s'è subito scatenata la corsa dei cronisti a cercare di avere anticipazioni su questo nuovo simbolo. Di bozzetti ne girano tanti ma c'è chi è pronto a scommettere che quelli che diventeranno di dominio pubblico in queste ore, sono esattamente quelli destinati ad essere cestinati. I primi ad apparire, insomma, saranno i primi ad essere "bruciati", come sempre avviene in queste occasioni.
Si va da un'ipotesi di arcobaleno - più vicino al vecchio simbolo dei progressisti del '94 che non a quello dell'Unione del 2006 - ad uno stemma che esplicitamente sembra voler citare il "quadrato rosso" della Cgil. La verità è che deciderà la commissione tenendo conto che su questo tema c'è stata la discussione più "vivace". Con molti che hanno chiesto di inserire elementi simbolici che richiamassero il lavoro, il movimento operaio e con altri che hanno fatto esplicito riferimento alle battaglie ambientaliste. «L'unica cosa certa - dice De Cesaris - è che comunque dovrà essere un simbolo nuovo, nel quale ci si riconoscano tutti».
L'attesa non sarà lunghissima, comunque. E da qui in poi si apre il capitolo delle altre decisioni prese all'incontro di ieri. L'attesa, si diceva, non sarà estenuante. Perchè s'è deciso che il logo sarà presentato dai segretari dei quattro partiti agli stati generali della sinistra. In quell'assemblea di tutta la sinistra - e della sinistra ecologista - già convocata per l'8 e il 9 dicembre.
Sarà presentato. Ma non adottato definitivamente. Perché - ed ecco un'altra notizia - la sinistra sottoporrà al vaglio dei suoi elettori, del suo "popolo", la scelta definitiva. Per farla breve: all'inizio del prossimo anno il nuovo soggetto darà vita a quella che un po' burocraticamente chiamano "un momento partecipativo". Le persone, chi vorrà contribuire alla costruzione di questo soggetto, sarà chiamato ad esprimersi. A votare.
Sul simbolo, s'è detto. Ma anche su molto altro. Innanzitutto su una "carta dei valori", su una sorte di manifesto costitutivo del raggruppamento. Anche questo è stato deciso nella riunione di ieri. Pure qui, si metterà al lavoro una commissione, il cui lavoro sarà presentato all'assemblea di inizio dicembre.
Ma forse d'ora in poi più che il calendario conterà il "metodo", il modo con cui si arriverà alle scadenze fissate. Sì, perché da ieri la "cosa rossa" - termine che tutti ieri rifiutavano quasi sdegnosamente, a cominciare, naturalmente, dai verdi - ha deciso che comincerà a costruirsi al di fuori delle stanze della politica ufficiale.
Si farà così: innanzitutto a giorni cominceranno gli incontri, le assemblee con quell'arcipelago di movimenti e associazioni che animano la sinistra sociale. Contemporaneamente, si darà vita ad un sito. Dove si potrà "scaricare" materiale, dove si potranno animare dibattiti. Ma dove, soprattutto, ci si potrà "segnare" per partecipare agli stati generali. Assemblea - ancora - che sembra proprio voler adottare il metodo dei social forum. Dove ciascuno, singolo o organizzazione, partecipa con pari diritti e pari dignità, senza rinunciare alla propria autonomia. Dove conteranno soprattutto le singole competenze, dove si cercherà sempre il consenso.
Sarà un'assemblea aperta, insomma, animata dai movimenti più che dai partiti. Il primo giorno ospiterà interventi, relazioni e seminari su alcuni grandi temi. Dall'ambiente, al lavoro, dalla pace alla differenza di genere. Il giorno dopo, la domenica, ci sarà l'assemblea generale. Dove chiunque si sia registrato potrà intervenire.
Lì, l'8 e il 9 dicembre, nascerà la sinistra. Unitaria e plurale. Diventerà una federazione, un partito, un aggregato o cos'altro? Questo lo deciderà la sinistra, una volta avviata la fase costituente. Che deciderà su tutto il resto: che struttura darsi, come scegliere il proprio portavoce, o leader o come si chiamerà. E lo stesso varrà anche per il simbolo. Diventerà il logo che gli elettori di sinistra si ritroveranno in tutte le tornate elettorali? E quando farà il suo esordio? Pure questo lo decideranno tutti insieme.
Stavolta, però, a differenza di altre volte, sembra che davvero si sia partiti. Perché tutto avverrà nel giro di un mese, anche meno. E soprattutto perché assieme alle cose decise ieri, tante altre stanno "marciando". Al Senato per esempio, s'è deciso di coordinare i quattro gruppi. Nel dibattito sulla finanziaria, per dirne una, parlerà solo un senatore, Natale Ripamonti, verde ma che prenderà la parola a nome di tutti. Di più: si studia come creare definitivamente la figura di un unico portavoce della sinistra a Palazzo Madama. Un incarico che, si pensa, potrebbe essere a rotazione. Ma sono dettagli, la sinistra è partita.

mercoledì 14 novembre 2007

l’Unità 14.11.07
Il libro di Bettini
Generazione senza Muro
di Sergio Zavoli


Il testo è tratto dal discorso che Sergio Zavoli ha tenuto lunedì sera al Teatro Argentina di Roma per la presentazione del libro «A chiare lettere» di Goffredo Bettini

Goffredo Bettini è un intellettuale formatosi con una generazione che porta in se stessa una grande ferita della storia: di fronte ai muri che cadono, per confrontarsi con un’autentica sofferenza sceglie quella di una personalità complessa, di grande ricchezza umana e civile, Pietro Ingrao, un politico di rango, incapace di uscirne con l’abiura, e perciò testimone esemplare di quella ferita. Il dialogo tra Bettini e Ingrao, in cui i conti non si fanno più sul «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» di Montale, è un documento di rara, persino spietata trasparenza. L’epistolario, dunque, è la chiave interpretativa di cose che hanno ancora le radici dentro un’ormai remota, sconfessata passione.
Alla storia politica di entrambi, cioè di Ingrao e di Bettini, sebbene li divida un certo numero d’anni, sono stati tagliati tre rami (Pci, Pds, Ds) e da quelle privazioni è nato, ogni volta, un liberante fattore di conciliazione rispetto alla propria vicenda anche personale. A chiare lettere, in questo senso, ha qualche non casuale assonanza con un altro libro, Memorie di una ragazza del secolo scorso, di Rossana Rossanda. Certo, queste ultime sono pagine più vicine alla temperie vissuta da Ingrao, rispetto a quelle di Bettini, anagraficamente più lontane, ma vi si trovano atmosfere e sentimenti che attraversano esperienze comuni e, al tempo stesso, diverse. Non si tratta, nell’un caso e nell’altro, di ripescare temi annegati nel «mare dell’oggettività», ma di non arrendersi, per dirla con Calvino, al «corso del mondo». È quello che fa Bettini, vivendo una storia cui è toccato, per la velocità del cambiamento, di essere sempre più contemporanea di se stessa.(...)
A chiare lettere affronta il tema scabroso della conversione da uno sbugiardato bigottismo ideologico a un laicismo che chiama in causa il rischio personale, con la sola garanzia della propria non barattabile libertà. È uno dei versanti fondamentali del libro: il mio amico Piero Coda, presidente dei teologi italiani, provocato sul tema delle scelte cruciali della vita, ha scritto: «Il senso tragico dell’esistenza umana sta nella coscienza per noi insuperabile della nostra responsabilità nel realizzare quella forma che la vita ci affida fino al limite della morte». Bettini, qui, a mio avviso tocca un punto alto di condivisione e di responsabilità: non sfugge infatti a una domanda concreta, politica: se cioè tutto ciò che è possibile è per ciò stesso anche lecito. Chiunque di noi sa che proprio nella politica Bettini sta esercitando la sua più intima e razionale compromissione con questo nuovo snodo postogli da una storia non solo sua, ma anche dei cattolici, o di una gran parte di essi. E sono proprio questi i giorni in cui è impegnato a creare una inedita, intelligente condivisione tra persone e cittadini diversi, rispetto al tema proprio della laicità.
Bisognerà disporsi, insomma, a una lettura nuova del rapporto tra Storia e Dio, vale a dire, a chiare lettere, tra questa e un’altra vita. Con una rivisitazione rispettosa e intelligente di regole, deleghe e deroghe che la laicità dovrà affrontare perché Dio non si identifichi solo nelle riserve, nei pregiudizi e nei dinieghi, ma anche nell’accoglienza del nuovo e del buono che permeano l’ecclesia, ma attraversano anche la comunità civile. Non andranno incoraggiate, di conseguenza, le intromettenze della politica, e meno ancora dell’ideologia, nelle questioni generate dal positivismo sperimentale della scienza, con le tecnologie sempre all’erta per cavarne cose, per la verità, non sempre nobili: qui la politica dovrà essere moderatrice e strumento ordinatore di materie che vanno sottoposte a giudizi di valore, con spirito di libertà e di ricerca, ma anche filtrati da codici interiori: a cominciare dalle norme di carattere etico. L’incontro, nel Pd, di due grandi culture, e di altre ancora, tutte fondate sulle rispettive diversità, non saranno, postula Bettini, un problema angustamente identitario, ma l’occasione di un’esperienza condivisa in nome di un progetto aperto, lealmente, a una comune, reciproca e riconosciuta diversità.
Bisognerà inoltre chiedersi se possa o no essere lecito pensare che anche un’etica razionale sia generatrice e portatrice di principi a loro volta ispiratori di altri sistemi valoriali, cioè di altre etiche nelle quali riconoscere - in ragione della pari dignità - diritti e doveri corrispondenti a un delicatissimo interesse di carattere generale; reclamando con ciò un’attenzione più realistica ed equa alle novità straordinarie introdotte dalle conoscenze teoriche, dalle tecnologie sperimentali e, come valore riassuntivo, dalla storia stessa. Bettini non ha, in materia, una duttilità opportunistica: al contrario è per la compromissione più profonda e dialetticamente più creativa. Una novità che, in altri tempi, sarebbe stata una ferma risposta ai dileggi in voga sul cosiddetto catto-comunismo.
Penso a quando, con la sua giovinezza, Goffredo fu in una posizione di singolare rilievo che implicava responsabilità intellettuali e morali riconducibili alla qualità della politica: già nell’80 era membro della direzione del Pci, quella delle grandi icone, e segretario della Federazione romana del partito. Viveva un momento di straordinarie accelerazioni della sua carriera politica, si facevano per lui ipotesi di valorizzazione che andavano al di là dell’osservanza di una tradizione attendista, fondata sulle cosiddette, magari un po’ bigotte, «prudenze illuminate». Già allora Bettini dovette misurarsi, fino a sacrificarne una gran parte, con «il patrimonio accumulato dalla parte dei sentimenti», per citare una bella espressione di Norberto Bobbio. Oggi è qui, con questo libro, approdato a una ricchezza di pensiero, di volontà, di utopia che si affida alla capacità della politica di liberare, non solo di redimere, la sua storia.
Ricordo quando la caduta del muro di Berlino mise in campo la responsabilità, non solo ideologica e politica, del dover prendere atto che un’epoca vista attraverso la Tv non avrebbe potuto, prima o poi, non rivelare un mondo attardato, e poi sconfitto, nelle sue illusioni e dalle sue colpe.
Penso al prezzo che uomini come Bettini, quando lo strappo venne a scadenza, pagarono al dover saldare il conto non solo politico, ma anche civile, culturale, etico delle loro scelte; senza rivalse o rinnegamenti, perché quel che contava non era rivendicare attestati di veggenza o certificare pentimenti, ma condividere la scoperta proprio dell’errore. Spesso, in quegli anni, ci si comportò come se non potesse che succedere quanto stava accadendo, e fossimo condotti per mano dalla televisione a vedere i risultati di una storia che esisteva, per i più, in quanto veniva mostrata; diventando oggetto di curiosità e di sorpresa, anziché essere letta come il frutto dell’agire e della decisione di produrla. Fra tante inquietudini - è detto nelle pagine di Bettini - ci solleva l’idea che non sia andata completamente perduta l’antica saggezza secondo cui c’è da allarmarsi quando la vita ha bisogno di promesse e di impegni straordinari, non quando ci si educa alla normalità, cioè a quella condizione favorevole all’intelligenza che, come nella storia di Ingrao, salva persino la sua lieve malinconia di poeta. (...)
Leggendo queste righe, che appartengono al corpo di riflessioni più inedite, inquiete e coraggiose dell’autore, confesso di avere avuto la sensazione di vivere un mistero, se così posso dire, religioso: quello di una generazione che si è mossa dentro il suo travaglio come i «ladri nella notte», al tempo in cui «il silenzio dei comunisti» era tutt’uno con le meditazioni notturne sul «Dio che è fallito», quando Reichlin, la Mafai e Foa s’interrogavano nel silenzio, rispondendosi con un altro silenzio - ma assordante, pauroso, ultimativo - che prima o poi avrebbe preteso di portare tutto alla luce.
Per parlare «a chiare lettere», come fa Bettini, non più disposti a essere come i cappotti della metafora pirandelliana, quella del maestro che crede di parlare ai suoi scolari, i quali non gli rispondono semplicemente perché sono i loro cappotti: in fila, ordinati e, appunto, silenziosi. Questo libro, in tempi di gravi cecità e strabismi, ha sullo sfondo lo scenario di un’apertura risoluta e incoraggiante, coglie aspetti di netto e forte rilievo umano e politico, civile e culturale. Essere qui a parlarne è segno di qualcosa che va cercando il suo momento; ciascuno lo veda come sa e vuole. Il libro è qui per riportare una grande e tragica storia al grado più alto di consapevolezza e responsabilità, coraggio e passione, perché il titolo dato a queste pagine non si limiti a richiamarle alla nostra attenzione. Per non dover dire, come fu umano tanti anni fa, che volevamo la luna.
Dimenticavo: la dedica del libro è a Walter. A chiare lettere, più che mai.

l’Unità 14.11.07
Hollywood, confessa: sei comunista?
di Alberto Crespi


DOCUMENTARI Sky lo programma in questi giorni: in 25 minuti ecco la storia di come il maccartismo abbia seminato odio e disperazione nella fabbrica del cinema cercando comunisti. «Hollywood 10», perché dieci sono i cineasti sotto accusa...

Il 6 dicembre 1938 Hallie Flanagan, direttrice del Federal Theatre Project (un’istituzione teatrale creata da Roosevelt nel 1935, nella quale lavorarono anche Orson Welles e Joseph Losey), venne chiamata a testimoniare davanti alla commissione per le attività anti-americane. La interrogò Joseph Starnes, deputato democratico dell’Alabama. Dal verbale:
Starnes: «Leggo qui in un suo articolo che lei, parlando degli operai che parteciparono al Federal Theatre Project, fa riferimento a, cito, “una certa follia marlowesca”. Chi è questo Marlowe, un comunista?» (il pubblico che assiste all’udienza scoppia a ridere).
Flanagan: «Ma… citavo Christopher Marlowe, ovviamente».
Starnes: «Bene, ci dica chi è questo Marlowe, cosicché possiamo comprendere la giusta relazione».
Flanagan: «Sia messo a verbale che Marlowe è stato il più grande drammaturgo del periodo antecedente la venuta di Shakespeare».
Starnes: «Sì, sia messo a verbale, perché l’accusa nei suoi confronti è che il suo articolo trasuda comunismo da tutti i pori».
Questo dialogo degno di Ionesco è tratto dal libro Fuori i rossi da Hollywood! Il maccartismo e il cinema americano, di Sciltian Gastaldi, edizioni Lindau. Ed è storicamente vero. Il pericolo, quando si parla del maccartismo e della caccia alle streghe degli anni ’40 e ’50, è di scambiare tutto per una gigantesca barzelletta. I numerosi verbali delle udienze tenute davanti all’Hcua (l’acronimo per «House Committee for the Un-American Activities», la suddetta commissione) sono spesso surrealismo allo stato puro. Eppure, dietro quel profluvio di idiozia burocratica si nasconde un vulnus molto grave inflitto alla democrazia americana, una spirale di nevrosi anti-comunista che non può essere semplicemente giustificata con le necessità politiche e propagandistiche della guerra fredda. Anche perché, come abbiamo visto, il vulnus comincia già negli anni ’30 - l’udienza testé citata è del ’38 - e la cosa non deve stupire, se si pensa a quanti americani erano convinti che gli Usa dovessero allearsi con la Germania di Hitler, e non certo con l’Urss di Stalin. La Hcua viene istituita dalla Camera degli Stati Uniti il 26 maggio 1938 e viene abolita ufficialmente solo nel 1975, anche se dagli anni ’60 è praticamente inattiva. Il maccartismo - nome con cui si identifica quel periodo, dal senatore repubblicano Joseph McCarthy - inizia ben prima dell’ascesa politica dello stesso McCarthy e prosegue oltre la sua morte, avvenuta il 2 maggio 1957.
In questi giorni viene programmato su Studio Universal il documentario - realizzato dallo stesso canale - Hollywood 10. Se siete abbonati a Sky, cercate di vederlo: è breve (circa 25 minuti) ma ben fatto, e assai istruttivo. Parte dal 1947, quando la Hcua ha già 9 anni di vita: ma è l’anno - esattamente 60 anni fa - in cui la sua attività investigativa «punta» Hollywood in modo violento. Molti registi, attori e produttori testimoniarono con grande solerzia, denunciando le infiltrazioni comuniste nell’industria cinematografica. Nella seconda parte il documentario si concentra sui cosiddetti «10 di Hollywood», un gruppo di cineasti che divennero il simbolo della resistenza alle intrusioni della commissione. Vale la pena di ricordare i loro nomi: Ring Lardner Jr., Dalton Trumbo, Edward Dmytryk, John Howard Lawson, Adrian Scott, Samuel Ornitz, Alvah Bessie, Lester Cole, Albert Maltz, Herbert Biberman. Dmytryk e Biberman erano anche registi, gli altri erano scrittori. Non tutti erano famosi. I più bravi erano Lardner (autore anche di magnifici racconti, 2 Oscar a distanza di quasi 30 anni con La donna del giorno, del ’42, e M.A.S.H., del ’70) e Dalton Trumbo (lo sceneggiatore di Spartacus, anch’egli 2 Oscar… ma sotto pseudonimo: come Robert Rich per La più grande corrida, 1957, e come Ian McLellan Hunter per Vacanze romane, 1953). Dmytryk, il regista di I giovani leoni e di Ultima notte a Warlock, è quello che tradì: messo sotto pressione, denunciò numerosi compagni, come Elia Kazan che però - nonostante la memoria spinga a identificarlo con loro - non era uno dei «10».
Anni fa incontrammo Dmytryk al festival di San Sebastiano, in Spagna. Gli chiedemmo un’intervista, gli dicemmo che eravamo dell’«Unità» - sapeva benissimo cos’era - e gli buttammo là, con grande cortesia (era pur sempre un signore di quasi 90 anni!), una domanda sul suo «tradimento». Non si tirò indietro. Parlò a lungo dei suoi sogni giovanili, del comunismo come utopia, e della sua denuncia che ancora difendeva, «perché era necessario rivelare i metodi stalinisti interni al partito». Probabile fosse vero. Negli anni 30 e 40 tutti i partiti comunisti del mondo erano «stalinisti», anche se non tutti fucilavano i propri iscritti o li mandavano nei gulag. Ciò che ci sembra interessante dire, oggi, è che nell’America degli anni 40 e 50 il vero stalinismo era quello della commissione, che interrogava i sospetti in modo arbitrario e puntava solo ad ottenere ulteriori delazioni, per allargare il campo del nemico e dimostrare che i «rossi», in America, erano milioni. Poi, certo: il maccartismo non ha ucciso (quasi) nessuno, ha «solo» rovinato la vita di centinaia di cittadini. Ma è stato un momento in cui la democrazia americana si è trovata in pericolo. Questo, ai tempi di Bush, è bene non dimenticarlo.

Libri e film
per capire il maccartismo
Ci sono 3 possibili approcci al periodo del maccartismo attraverso i film, e sono tutti buoni. Studio Universal, in questi giorni, propone - oltre al documentario Hollywood 10 del quale parliamo qui accanto - alcuni film scritti dai 10 prima di essere costretti all'inattività o alla clandestinità: e rivedere titoli come L'ombra del passato, Sahara, La donna del giorno o Anime sporche fa sempre bene, agli occhi e al cuore. Un altro approccio, più indiretto ma forse addirittura più interessante, sarebbe rivedere (e ripensare) alcuni film dei «traditori» Kazan e Dmytryk: entrambi hanno passato anni ad espiare, attraverso i film, il proprio senso di colpa, e la cosa è molto evidente anche in capolavori come Fronte del porto (di Kazan) o Ultima notte a Warlock (di Dmytryk). Il terzo approccio riguarda i film che, in anni successivi, hanno ricostruito quel periodo storico. Il più importante rimane Il prestanome, diretto da Martin Ritt, interpretato da Woody Allen e scritto da Walter Bernstein, uno sceneggiatore a suo tempo finito sulla lista nera. Altri film sul tema: Come eravamo, splendido melodramma di Sydney Pollack con Robert Redford e Barbra Streisand; Indiziato di reato di Irwin Winkler, con Robert De Niro; e il recente Good Night and Good Luck di e con George Clooney, sugli effetti del maccartismo nella tv e nell'informazione. Per saperne di più: Fuori i rossi da Hollywood! di Sciltian Gastaldi, Lindau; Lillian Hellman, Pentimento e L'età dei furfanti, entrambi Adelphi; Giuliana Muscio, Hollywood-Washington. L'industria cinematografica americana nella guerra fredda, Cleup, Padova, e Lista nera a Hollywood, Feltrinelli; Larry Ceplair e Steven Englund, Inquisizione a Hollywood, Editori Riuniti; e l'autobiografia di Elia Kazan (A Life), libro straordinario qualunque sia il giudizio morale sul suo autore. al.c.

Se dovessimo descrivere la natura del Creatore partendo dallo studio della creazione, diremmo che Dio ha una passione sfrenata per le stellee per i coleotteri
J.B.S. Haldane

l’Unità 14.11.07
«Kriminalfilm», il noir di Arthur Schnitzler
di Luigi Reitani


INEDITI Una sceneggiatura dello scrittore e drammaturgo viennese per un film poliziesco. Fu tra i primi a capire l’importanza del cinema ed è uno degli autori più «filmati»: da Ophuls a Kubrick

Quando, nell’ottobre del 1931, Arthur Schnitzler muore a Vienna all’età di sessantanove anni, ha sul suo tavolo il progetto di una sceneggiatura originale per un «film poliziesco» di cui ha già abbozzato le prime scene: una donna è stata assassinata in un albergo, una coppia di amanti che occupa la stanza accanto viene interrogata dagli investigatori, le ragioni dell’omicidio sembrano inesplicabili. Un ottimo inizio per un noir d’autore. Non si trattava di un interesse tardivo verso un genere alla moda, da parte di uno scrittore ormai giunto al termine della carriera. Schnitzler aveva scoperto le potenzialità espressive del nuovo mezzo estetico già molti anni prima, quando la nascente industria cinematografica, che allora aveva il suo centro in Danimarca, aveva a sua volta intuito che le opere dello scrittore si prestavano molto bene a essere trasportate sul grande schermo, sia per i loro contenuti che per il loro stesso statuto formale. Uomo di lettere e di teatro, Schnitzler non opporrà resistenze estetiche alla nuova arte, ma cercherà di indirizzare al meglio la versione filmica delle proprie opere, collaborando quando possibile alle sceneggiature e intervenendo con suggerimenti e consigli. Così invano l’autore si opporrà all’inserimento delle didascalie, allora d’obbligo, nel primo film muto tratto dal suo dramma Amoretto, giudicandole superflue per una storia che si sarebbe dovuta reggere sulla forza delle immagini, quasi che il film fosse la traduzione visiva del linguaggio verbale. E tra i primi capirà l’importanza della musica d’accompagnamento, che allora variava a seconda delle città e delle sale, e che egli voleva almeno uniformata ovunque.
Non stupisce così vedere Schnitzler impegnato negli anni Venti come consulente di una casa di produzione cinematografica viennese. E non stupisce che tra i suoi abbozzi inediti vi siano progetti per film. Su sollecitazione del regista Georg Wilhelm Pabst, interessato a una sua possibile realizzazione, poi naufragata, Schnitzler trae una prima sceneggiatura per lo schermo anche di Doppio sogno - la novella che ispirerà l’ultimo film di Kubrick Eyes Wide Shut - abbozzando 54 quadri e arrestandosi prima della festa mascherata e del parallelo sogno di Albertine. E mentre l’autore registra puntualmente nel Diario (monumentale cronaca dell’intera vita) i film che ha visto, i diritti delle sue opere sono contesi dalle maggiori case di produzione. Sono così in tutto sette i film ispirati ai libri dello scrittore quand’egli è ancora in vita. Ma la vera fortuna cinematografica di Schnitzler si sviluppa solo nel secondo dopoguerra. Dall’indimenticabile La Ronde (1950) di Max Ophuls agli esperimenti del cinema di avanguardia, dalle produzioni televisive austriache e tedesche alle interpretazioni italiane di Pasquale Festa Campanile o Roberto Faenza, da scadenti produzioni commerciali alla potenza visionaria di Kubrick non c’è genere e paese che non abbia contribuito a questa «seconda vita» dell’autore, che conta oltre settanta pellicole.
A questo avvincente rapporto è dedicato un convegno internazionale di studi che si apre oggi all’Università di Udine (fino a sabato, programma dettagliato in www.abaudine.org), accompagnato da una mostra documentaria e da una ricca rassegna cinematografica che sarà poi variata e iterata a Pordenone e a Trieste, in cui si potranno vedere alcuni tra i film più rari ispirati all’opera dello scrittore, come Der junge Medardus di Michael Kertész (il regista di Casablanca).
In questa pagina proponiamo, per la prima volta in Italia, gli ultimi quadri della sceneggiatura per un «film poliziesco» (Kriminalfilm) a cui Schnitzler stava lavorando prima della morte. Le prime 25 scene sono state tradotte e pubblicate da Leonardo Quaresima in Sogno Viennese (La casa Usher, 1984). Il manoscritto si interrompe dopo le ultime battute.

Perché mia figlia avrebbe dovuto uccidersi?
di Arthur Schnitzler
Traduzione di Luigi Reitani
26
Nella stanza accanto Hilde e Franz. Si accingono ad andarsene.
Bussano alla porta. Hilde spaventata a morte.
Il commissario entra, saluta in tono molto cortese, nota il turbamento di Hilde.
Il commissario Devo solo farvi qualche domanda. Non c’è ragione di agitarsi. Non vuole accomodarsi, signora?
Hilde si siede. Franz resta in piedi.
Commissario Si tratta di questo: nella stanza accanto c’è stato un incidente.
Hilde Per l’amor del cielo, che cosa è successo?
Commissario Nulla che la possa riguardare direttamente. Volevo solo chiedervi se avete notato qualcosa, se per caso avete sentito parlare ad alta voce o se avete percepito dei rumori.
Hilde Niente, niente, assolutamente niente, signor commissario.
27.
Stazione. Atrio degli arrivi. Normale trambusto. Passeggeri in arrivo, tra loro anche Weber, un uomo giovane con una valigetta. Dall’atrio si reca al buffet, ordina una colazione.
28.
Il commissario. Hilde e Franz nella stanza dell’hotel.
Commissario Non avrete alcuna noia. È una pura formalità. Probabilmente il giudice istruttore non vorrà neppure ascoltarvi.
Hilde Ma io non ho sentito nulla, non ho visto nulla.
Commissario Si calmi, signora.
Franz (guardando l’orologio) Possiamo andare, adesso?
Commissario Senz’altro.
Hilde e Franz vanno via.
29.
Il commissario di nuovo nella stanza numero 7.
Commissario (rivolto al proprietario dell’hotel) E l’altra stanza non era -
Proprietario dell’hotel No - nessuno.
30.
Hilde e Franz scendono le scale.
Franz Perché hai detto il tuo nome?
Hilde Non potevo fare diversamente. Anche tu, del resto.
Quando stanno per varcare la porta dell’albergo arriva una autoambulanza.
Hilde Per l’amor del cielo - ma questa -
Franz Vieni, vieni!
Attraversano rapidamente la strada; si fermano a un angolo.
Hilde Telefonami a mezzogiorno. Si allontana rapidamente.
Franz in direzione opposta.
31.
La signora Dolein aspetta ancora la figlia a colazione.
32.
Weber in stazione paga il conto, esce per strada.
Sigaretta. Prende un taxi, si allontana.
33.
Nella casa dei Weber, pianerottolo.
Hilde arriva, suona il campanello. La cameriera apre.
Hilde Il signore è già a casa?
Cameriera Non ancora, signora. Non sono ancora le dodici. Il treno non è ancora arrivato.
34.
Aula dell’università. Studenti. Entra Franz, saluta i colleghi.
35.
Abitazione della signora Dolein. La figlia non è ancora tornata. Visita di un’amica a cui comunica la propria inquietudine. Non riesco proprio a capacitarmi. Non è mai accaduto. Tutta la notte fuori di casa. È quasi mezzogiorno.
36.
Redazione di un giornale. Consueta attività. Un giovane intento a correggere. L’impaginatore porta le bozze fresche di stampa. Titolo leggibile, a grandi caratteri. «Omicidio o suicidio?» La sconosciuta. - Poi si vedono altri titoli: «Incidente automobilistico» - «Inondazione» ecc.
37.
Casa di Weber.
Weber con la valigetta, sale le scale.
Davanti alla porta, suona.
Targhetta sulla porta: Anton Weber (artista umoristico di varietà, correttore di bozze, agente)
Mentre il campanello suona, rapida inquadratura: Hilde in sala da pranzo, ha appena apparecchiato la tavola, ha un sobbalzo improvviso.
La cameriera apre la porta. Weber, molto allegro, entra nella stanza dov’è Hilde, scambio un po’ esagerato di effusioni e saluti da entrambe le parti. Viene servito il pranzo.
Hilde Com’è andato il viaggio?
Weber Sono contento di essere a casa. La prossima volta devi venire con me.
38.
Di nuovo la redazione del giornale. Prosecuzione della notizia. La sconosciuta aveva un abito rosso a maglia, calze di seta marroni, scarpe basse marroni.
39.
Dalla signora Dolein. L’amica.
L’amica Devi sporgere denuncia.
Il giornale. Lo ha mandato a prendere la signora o lo porta la cameriera.
La signora Dolein legge la notizia: «Omicidio o suicidio di una sconosciuta … con un abito rosso a maglia, calze di seta marrone, scarpe basse, collana d’ambra». - Mortalmente spaventata. Va via precipitosamente. L’amica legge il giornale: collana d’ambra - Obitorio…
40.
Abitazione di Weber.
Viene portato il caffè. Lui fuma un sigaro, lei si accende una sigaretta. Lui si siede al pianoforte e suona (eventualmente). Questo pezzo ha avuto ieri l’applauso più lungo. La prossima volta devi venire con me. Senza di te non mi metto più in viaggio. La cameriera porta il giornale.
Mentre Weber suona il pianoforte, Hilde scorre il giornale.
«Omicidio o suicidio». In un hotel che non gode della miglior fama… Le indagini sono in corso.
Weber smette di suonare, si siede accanto a Hilde. Ora leggono entrambi la notizia. Poi Weber guarda l’orologio, ha da fare, la saluta, va via.
41.
La signora Dolein diretta al riconoscimento della salma. Per le strade. In commissariato. In ospedale, ecc,
La signora Dolein e il commissario, nel corridoio davanti all’obitorio oppure in un ufficio.
La signora Dolein È lei. È mia figlia. Chi l’ha uccisa?
42.
Un professore detta il referto o meglio la denuncia di morte. Una dose in grado di procurare la morte nel giro di qualche minuto. Nessun segno di violenza subita, nessuna ferita, nessuna traccia, neppure la più piccola, che il veleno sia stato somministrato perfidamente. Con ogni probabilità è da ipotizzare un suicidio.
43.
Commissario dalla signora Dolein.
La signora Dolein perché avrebbe dovuto uccidersi? In un simile hotel? La ragazza più a modo sulla faccia della terra!
44.
Hilde nella sua stanza. Suona il telefono. Si affretta a rispondere.
Hilde Sia ringraziato il cielo che sei tu. È già andato via. Hai letto? Nella stanza accanto alla nostra. Ma conoscono i nostri nomi. Speriamo. Domani. Mi vuoi ancora bene?
45.
Dalla signora Dolein. Il commissario e la signora Dolein.
Commissario Ha lasciato qualcosa di scritto? Dobbiamo cercare. Lettere? Diari?
La signora Dolein apre la scrivania e l’armadio della figlia.
Il commissario fruga.
È insieme a un funzionario della polizia criminale.
Commissario Con chi aveva contatti negli ultimi tempi?
Frau Dolein Era fidanzata.
Commissario Questo naturalmente è interessante.
Frau Dolein Non vive a Vienna. In primavera si sarebbero dovuti sposare.
Commissario È del suo fidanzato questa lettera? (fa un nome) -
La signora Dolein No.
Commissario Neppure questa? - e quest’altra? Una corrispondenza vivace.
Nessuna firma. - Karl
….

l’Unità 14.11.07
Mussolini «generoso» con Gramsci? E quando mai?
di Giuseppe Tamburrano


Nell’articolo di Giuseppe Tamburrano (l’Unità 08/11/2007) a commento della lettera inviata da Gramsci a Novelli (responsabile nel 1933 delle case di pena) sulle condizioni insopportabili cui era costretto, su violazioni del regolamento carcerario e su violenze psicologiche e fisiche subite, vi sono imprecisioni ed inesattezze. La più grave - ed è la prima volta che viene avanzata da un socialista - è certamente l’affermazione gratuita e infondata, secondo la quale Mussolini, fu tutto sommato, «generoso» con Gramsci. Questa affermazione, finora sostenuta da personaggi come Veneziani ed i suoi amici fascisti, e smentita dai fatti. La «generosità» sarebbe consistita nel aver permesso che un medico di fiducia (Prof. Arcangeli) lo visitasse in carcere. Questo era un diritto previsto da regolamento carcerario. La libertà vigilata non fu una concessione di Mussolini, ma perché Gramsci era nelle condizioni giudiziarie per poterne usufruire. In un incontro tra Mussolini e l’ambasciatore sovietico Potëmkin (dicembre 1934) alle richieste di quest’ultimo di procedere ad uno «scambio di prigionieri politici», il duce risponde: «Gramsci non è un prigioniero politico... ma un delinquente comune che tramava una congiura contro il Regno».
La destinazione di una casa di cura di Gramsci è decisa personalmente da Mussolini (a Formia) per il timore che si organizzasse una sua fuga. Pur in stato di libertà condizionale la situazione del prigioniero non cambia come scrive Tania alla sorella Julka. Fino al giorno della sua morte la clinica Quisisana di Roma (ove Gramsci aveva chiesto di essere trasferito) è circondata da poliziotti e carabinieri. La verità è che Mussolini fu costretto ad alcune concessioni al prigioniero, in primo luogo perché non voleva che morisse in carcere, ma soprattutto perché, come ha annotato Gaetano Salvemini «era molto sensibile alla campagna di solidarietà che si svolgeva soprattutto in Francia a favore della liberazione di Gramsci, Terracini, Pertini, Ravera ed altri detenuti».
Tutta la parte (i due terzi) dell’articolo di Tamburrano dedicata alla solita polemica anticomunista, non è una novità. Nessun comunista lanciò pietre contro Gramsci. La testimonianza che ci ha più volte ricordato Pertini, presente all’episodio, è che due anarchici gettarono contro Gramsci una palla di neve. Gramsci non fu escluso dal collettivo dei 16 comunisti detenuti a Turi (vi erano anche due socialisti, tra i quali Pertini, e due anarchici), ma fu lui a decidere, per non aggravare la situazione nel collettivo, di interrompere il ciclo di lezioni che aveva iniziato. I colpevoli dei contrasti e delle critiche a Gramsci (in particolare Tulli, Scucchia e Lisa) furono colpiti da misure disciplinari dal centro estero del Pci, fino all’espulsione di due dei tre. Ma ci furono altri detenuti comunisti come Trombetti, Laj, Tosin, Ceresa, Piacentini che continuarono ad aiutare e a sostenere Gramsci. Trombetti, comunista, condivise la stessa cella di Gramsci molti mesi, per poterlo assistere ed aiutare nei momenti più difficili. Su altri episodi la polemica con Tamburrano va avanti da molto tempo, nel silenzio di chi sa e non dovrebbe tacere. Continuo a condividere il giudizio espresso da Carlo Rosselli in un articolo apparso su Giustizia e Libertà il 30 aprile 1937: Mussolini aveva operato contro Gramsci e attuato «un lento assassinio». Carlo Rosselli e il fratello saranno pochi mesi dopo assassinati a loro volta dai fascisti francesi, finanziati e sostenuti da quelli italiani, complice il duce. Per concludere questa nota suggerisco a Tamburrano di rileggere l’articolo di Gramsci dal titolo «Capo» (L’Ordine Nuovo, 01-03-1924) per comprendere, in una certa misura, l’accanimento di Mussolini contro di lui.
Michele Pistillo

La nota di Pistillo è scritta nel «vecchio stile» del partito di Lenin e Stalin, fino all’accusa implicita quasi di «socialfascismo». Io ho scritto che Mussolini voleva Gramsci a lungo nel carcere e che fosse sottoposto a strettissima vigilanza. «Per il resto Mussolini fu ’generoso’ con Gramsci» (le virgolette danno un sapore ironico all’aggettivo). Pistillo afferma che le generosità erano diritti di Gramsci in base alle leggi dimenticando, forse, che il fascismo non era un regime fondato sulla legalità. E Mussolini era il padrone e faceva quello che voleva: e se non voleva accogliere le richieste di Gramsci (come pure ha fatto) diceva «no» e basta.
Pistillo scrive che Mussolini fu costretto ad alcune concessioni (allora ci furono delle concessioni?!) soprattutto per la campagna di solidarietà a favore di Gramsci. Figurarsi! Mussolini sensibile alla «campagna di solidarietà»! Tra l’altro è vero il contrario: il padre di Piero Sraffa, l’amico fedele di Gramsci, ha scritto che la pubblicazione della diagnosi del prof. Arcangeli sulle gravi condizioni di salute di Gramsci, la quale suscitò la campagna di solidarietà, «è stata un ’patatrac’ sui passi compiuti, e con prospettive favorevoli, per la liberazione vigilata di Gramsci». (Questa lettera è riportata da Paolo Spriano in Gramsci in carcere e il Partito, l’Unità, p. 156). Le «pietre contro Gramsci»? Non è una mia invenzione: lo riferisce il comunista Athos Lisa nelle Memorie, Feltrinelli, 1973, con prefazione di Terracini, p. 75).
«Gramsci non fu escluso dal collettivo» del carcere: afferma Pistillo. A me lo ha detto Leonetti che lo ha saputo da un comunista di Turi, Enrico Tulli. E Terracini ha confermato: «È senz’altro così», usando la parola «emarginato».
Mi pare che sia tutto.
P.S. Nel mio articolo in questione ho scritto «carcere di Formia»: per l’esattezza era una clinica privata e da qui le misure severe di vigilanza.

Corriere della Sera 14.11.07
Amore&Guerra
Picasso e la giovane ispiratrice Dora: così nacque Guernica Eros, arte e politica per celebrare l'antifascismo spagnolo
di Sergio Luzzatto


Non era quella la prima volta che si incontravano, lì ai «Deux Magots», nel più leggendario tra i cafés della Rive Gauche. Si erano visti già in altre occasioni dopo che Paul Éluard, il poeta comunista, aveva presentato al celebre pittore spagnolo l'intrigante fotografa mezzo francese e mezzo croata, cresciuta in Argentina e nota a Parigi come artista engagée. Ma fu quel giorno d'autunno del 1935 che Dora Maar conquistò Pablo Picasso, con un gioco di crudele intensità erotica.
Portava guanti neri ricamati con fiorellini rosa. Se li era tolti, aveva impugnato un coltello nella mano destra e aveva preso a piantarlo dentro il legno del tavolo, sempre più velocemente, fra le dita aperte della mano sinistra. Ogni tanto — questione di millimetri — sbagliava il colpo, e il sangue sgorgava copiosamente dalle sue ferite. Pablo era rimasto incantato da quel numero, forse un lascito delle stramberie sadomaso apprese da Dora negli anni della liaison con Georges Bataille e delle frequentazioni surrealiste. Fuori, sul marciapiede, Picasso aveva chiesto alla donna di offrirgli in dono i guanti neri, e li aveva solennemente riposti nella vetrina dove conservava questo genere di reliquie. La loro storia d'amore era incominciata così, dentro una cornice quasi improbabile di spagnolesco esibizionismo. Lui aveva 54 anni, lei 28.
Nel decennio successivo, Dora avrebbe sostenuto come una musa la creazione artistica di Picasso, servendo da inesauribile soggetto della sua pittura. «Donna seduta in poltrona», «Donna seduta in giardino», «Donna col cappello a piume », «Donna col gatto », «Donna che piange »: un po' tutto il catalogo di Picasso dal 1935 al '45 risulta occupato dalla presenza di Dora, tenebrosa almeno altrettanto che sensuale, drammatica almeno altrettanto che impudica.
E tuttavia, Dora Maar non è entrata nella storia dell'arte soltanto come l'amante e la musa del Picasso maturo. Grazie a uno straordinario rovesciamento di ruoli, ci è entrata anche per avere fatto di Picasso il soggetto della sua propria creazione d'artista. Successe nell'estate del '37, quando nel nuovo studio che Dora stessa gli aveva trovato in rue des Grands Augustins (a due passi dai galeotti «Deux Magots») Picasso lavorò alla più gigantesca delle sue tele, gli oltre venti metri quadrati di un dipinto unico nel suo genere, «Guernica». E Dora era là, con la macchina fotografica in mano, a immortalare giorno per giorno la nascita del quadro forse più famoso del Novecento.
Settant'anni più tardi, la riproduzione di una di quelle foto figura sulla copertina di Guernica, 1937 (Donzelli): il libro che Angelo d'Orsi ha dedicato non tanto alla storia del dipinto di Picasso, né alla storia della cittadina basca che al dipinto diede il titolo, ma alla storia del mondo nuovo inaugurato nel pomeriggio del 26 aprile 1937, quando — si era nel pieno della guerra civile spagnola — l'aviazione tedesca si accanì contro un paesone alle porte di Bilbao, seminando ovunque il terrore e la morte. Primo bombardamento aereo a tappeto, in un secolo che ne avrebbe conosciuti fin troppi. Superamento di una soglia, poiché fino ad allora, colpendo dall'alto, si erano risparmiati gli obiettivi civili (almeno in Europa: non nell'Etiopia del '36, straziata dall'aviazione italiana). Prova generale di Coventry e di Dresda, se non proprio di Hiroshima.
Della guerra civile spagnola, d'Orsi coltiva un'idea diversa da quella oggi prevalente nella migliore storiografia. Secondo lo studioso torinese, quanto lacerò la Spagna dal 1936 al '39 fu un conflitto internazionale piuttosto che un conflitto intestino: la penisola iberica come l'insanguinata palestra dove si affrontarono i totalitarismi di destra e di sinistra, a fronte della colpevole inazione delle maggiori democrazie occidentali. «Non fu una guerra civile», arriva a scrivere d'Orsi: fu una «aggressione combinata alla Repubblica spagnola », dall'interno attraverso l'alzamiento di Francisco Franco, dall'esterno attraverso la mobilitazione delle potenze fasciste.
«Uno scontro fra l'antidemocrazia e la democrazia »: semplicemente questo, per d'Orsi, la guerra di Spagna. Ed è un'interpretazione manichea, tutto bianco o tutto nero, laddove storici avvertiti ci hanno insegnato a riconoscere nella tragedia spagnola numerose tonalità di grigio. Il che non toglie a d'Orsi il merito di avere preso le mosse da un'intuizione culturalmente felice, che regge bene alla verifica della scrittura. Appunto, l'intuizione secondo cui il bombardamento di Guernica rappresenta un buco nero della storia contemporanea, dove si concentrano e dove implodono un po' tutto il bene e po' tutto il male del XX secolo.
La Germania nazista, risoluta a testare sul campo le meraviglie della Luftwaffe di Göring. L'Urss comunista, decisa a eliminare anche fuori casa i trotzkisti, gli anarchici, e tutti gli altri traditori del proletariato sfuggiti alle purghe di Stalin. L'Italia fascista, intenzionata a mostrare sui campi di battaglia d'Europa la muscolatura sfoggiata per pochi intimi sugli altipiani d'Abissinia. Le Brigate internazionali, variopinta armata di volenterosi divisi su tante cose, ma uniti nella convinzione che difendere la Repubblica da Franco equivalesse a difendere l'umanità dalla barbarie. I personaggi collettivi del libro di d'Orsi hanno poco di originale, sono i medesimi che ritornano in quasi tutte le ricostruzioni della guerra di Spagna come vicenda internazionale. Ma il racconto si impenna (e l'analisi storica si fa stringente) quando i nomi collettivi lasciano il posto ai nomi individuali: ai singoli, uomini o donne, che da vicino o da lontano fecero i conti con l'inaudito, Guernica.
Questi conti non ebbe il tempo di fare Antonio Gramsci, che in una clinica di Roma consumò il proprio martirio entro ventiquatt'ore dal martirio della cittadina basca. Ma li fece, dalla Francia, Pablo Picasso, che scelse di dipingere Guernica per onorare il padiglione della Repubblica spagnola all'Esposizione internazionale dell'estate 1937. Una tela — dichiarò l'autore senza mezzi termini — dipinta per «odio» della «casta militare» che aveva sprofondato la Spagna «in un oceano di dolore e di morte». Un'opera programmaticamente politica, esposta al pubblico parigino durante l'estate stessa in cui nella Berlino hitleriana si esponevano i mostri della cosiddetta «arte degenerata », e si additava Picasso (ariano, ma in odore di comunismo) come l'artista più degenerato di tutti.
A suo modo, anche il Guernica di d'Orsi può valere come antidoto a certe odierne liquidazioni dell'arte impegnata e, in generale, della politicità della cultura.

Ma la tela fu dedicata a un torero
Fu soprattutto la celebre tela di Pablo Picasso a trasformare la città basca di Guernica, bombardata da aerei tedeschi e italiani alleati di Franco durante la guerra civile spagnola, nel simbolo di un uso spietato dell'aviazione contro popolazioni inermi. In realtà l'incursione fece meno vittime rispetto ad altri raid aerei compiuti in quel conflitto. E anche sulle reali origini del quadro sono stati avanzati dubbi. Alcuni sostengono che si trattasse di un dipinto dedicato alla morte del torero Joselito e che Picasso lo abbia poi modificato su commissione del governo repubblicano spagnolo.

Corriere della Sera 14.11.07
Al Palladium di Roma «Settanta». Gli interpreti: cattivo maestro? No, è contro la violenza
Negri, autobiografia a teatro
Un'educazione sentimentale tra scontri e dibattito politico
Ultrasinistra Pièce scritta dal teorico dell'ultrasinistra sul rapporto tra un intellettuale e una femminista
di Emilia Costantini


ROMA — Andrea e Margherita: lui è un intellettuale; lei, molto più giovane, una femminista. Sono stati militanti insieme e si sono amati. Nel bene e nel male, hanno creduto in un mondo migliore. Lui, però, accusato di essere un ideologo del terrorismo, ha passato in galera un bel po' di tempo, poi in esilio all'estero. Si incontrano dopo trent'anni, nella stessa città dove tutto è cominciato: è l'occasione di un bilancio, politico e soprattutto sentimentale.
Settanta è la prima e unica pièce scritta da Toni Negri, teorico dell'ultrasinistra, insieme alla drammaturga Raffaella Battaglini: legati ora in palcoscenico e legati trent'anni fa anche nella realtà. Un testo autobiografico, che domani sera al Teatro Palladium sarà prima presentato dallo stesso Negri e poi letto dagli attori Nello Mascia e Alvia Reale. Dice Mascia: «Nella mia gioventù, Negri era un mito, un eroe». Dunque, non un «cattivo maestro»? Ribatte: «Neanche per sogno. Era una personalità al di fuori della mischia, un fine intellettuale che credeva in una rivoluzione non cruenta. Il suo è stato un caso emblematico di ingiustizia da parte della classe politica dell'epoca: un capro espiatorio».
Andrea e Margherita, nella pièce, ripercorrono la loro avventura, attraverso le tappe della loro educazione sentimentale, ma anche attraverso il ricordo degli scontri di piazza, del dibattito interno al movimento, in un gioco di flashback che mettono a confronto le illusioni di un tempo con le conseguenze nel tempo attuale. Dice la Reale: «Negli Anni '70 loro credevano nel movimento operaio come modello rivoluzionario, che avesse come unico scopo una vita diversa. Un progetto fallito». Anche lei difende Negri: «Non è mai stato un cattivo maestro. Era assolutamente contrario alla lotta armata e infatti, nel testo, spunta un personaggio simbolico: l"intruso" (interpretato da Nuccio Siano,
ndr). È lui il compagno che mette Andrea nei guai, facendolo deragliare nella lotta armata. Ed è duro lo scontro tra Andrea, puro idealista, e il terrorista».
Aggiunge Mascia: «Che è poi ciò che è successo nella realtà: Toni Negri si è sempre dissociato dalla cosiddetta "ala romana" del movimento, quella per intenderci responsabile del sequestro Moro. Non ha mai teorizzato l'affermazione violenta dell'ideologia. Nonostante ciò, fu sbattuto in galera e fu solo grazie a Pannella che, facendolo diventare deputato, uscì fuori da quella situazione» Un testo revisionista, dunque? Risponde la Reale: «È solo un modo per confrontarci con un pezzo della nostra storia, per ragionare, riflettere sugli errori commessi e, perché no?, aprire un dibattito oggi: se ci sarà qualcuno, tra il pubblico, che si alza e dice "non sono d'accordo", ben venga. Meglio la discussione, che dimenticare o, peggio, rimuovere».
A parte alcuni spettacoli sul «caso Moro», il teatro si è aperto poche volte al dibattito sui bui anni di piombo: «Rimozione bella e buona— ribadisce Mascia — C'è una battuta nel testo che dice più o meno così: quegli anni sono stati duri, difficili, magari sbagliati, ma non si può ignorarli, perché ci hanno cambiato la vita a tutti».
Un teatro che vuole interrogarsi? Conclude l'attore napoletano, già più volte impegnato nel teatro civile: «Serve a fare chiarezza. In fondo, è la testimonianza di una sconfitta. Come Toni Negri, noi di quella generazione abbiamo perso».

il manifesto 14.11.07
Al festival di Damasco il cinema è tutto da scoprire
Immagini stranianti e estranee da altri mondi, da Antonioni a David Lynch, una retrospettiva sull'attore, comico e regista Dureid Laham, «Caramel» di Nadine Labaki: nelle sale siriane si accendono i riflettori
di Donatella Della Ratta


Damasco. Un omaggio a Michelangelo Antonioni e a Ingmar Bergman, una panoramica sui film di Marlene Dietrich, un focus su Luis Malle, oltre alle migliori pellicole internazionali di ultima produzione, fra cui spiccano il Rivette di Ne touchez pas la hache e l'ultimo Lynch di Inland Empire poi il Tarantino di Death Proof in coppia con Planet Terror di Rodriguez. Niente di trascendentale, se non fosse che siamo a Damasco, al festival internazionale del cinema appena conclusosi nella capitale siriana, e questi sono titoli che difficilmente arrivano nelle sale del paese, scarse in numero e dominate dalla produzione di massa egiziana e americana, i due «imperialisti» del cinema in tutto il mondo arabo. E a giudicare dalla folla che si è accalcata nelle poche sale damascene per seguire il festival, c'è richiesta di un certo cinema anche al di là del Mediterraneo, dove arriva ancora più difficilmente che sulle nostre sponde.
Sale sempre piene, ressa per acquistare i biglietti, e soprattutto un pubblico incuriosito, anche di fronte a cinematografie - come quella lynchiana - completamente estranee e mai distribuite nel paese. Pellicole presentate in versione integrale, senza tagli, cosa che stupisce lo sguardo occidentale abituato a pensare i paesi arabi in termini di censura. E invece la scelta, coraggiosa, del festival, è stata quella di presentare tutto al pubblico locale, di offrire una panoramica sul cinema occidentale più controverso, innovativo e moderno. E pare che il pubblico abbia reagito bene, cosa che ha convinto la direzione del festival a trasformarlo in appuntamento annuale da evento biennale quale era in passato. Anche nel palmares dei premi è emerso uno sguardo attento su cinematografie raffinate, come quella iraniana di It's winter di Rafi Pitts (in lizza per l'Orso d'oro a Berlino 2006) che a Damasco ha portato a casa la medaglia d'oro; mentre il premio alla miglior regia è andato a Marco Bellocchio, con il suo Regista di matrimoni accolto in modo incuriosito e caloroso dal pubblico siriano. Insomma, un festival riuscito nello sforzo di presentare immagini stranianti ed estranee da altri mondi, immagini insolite rispetto al gusto dominante del blockbuster Usa. Purtroppo, per chi invece è in cerca di film di produzione araba non si può dire lo stesso. Certo, si è vista una preziosa retrospettiva del lavoro di Dureid Laham, comico e regista siriano di eccezionale popolarità in tutto il mondo arabo.
Laham, in tandem con Nihad Qalei, ha letteralmente inventato la comicità siriana, dando vita a una coppia di personaggi che riflettevano la società del tempo, una sorta di Stanlio e Onlio siriani. I personaggi creati da Dureid e Nihad riflettono una Siria che cerca di emanciparsi dagli strascichi dell'Impero Ottomano, e più tardi del mandato francese, per entrare nell'epoca moderna con le sue problematiche sociali, economiche e politiche. L'ascesa di un cinema come quello di Dureid e Niham racconta una Siria che si afferma sempre di più come paese che produce industria culturale di massa ma di qualità, combattendo il monopolio della cultura egiziana con l'uso del dialetto siriano e l'introduzione di temi sociali anche nella commedia. Dureid e Niham furono talmente capaci di restituire le problematiche del tempo in un tessuto comico universale, che negli anni sessanta la tv libanese cominciò a produrre uno show con i due comici e con la regia del siriano Khaldoun Al Maleh, più tardi distribuito a tutti gli altri canali arabi. Lo show successivo, Maqaleb Ghawar, sempre prodotto per la tv libanese, segnò il definitivo boom della comicità siriana nei paesi arabi. Più tardi, nel 1984, Dureid Laham, in coppia con il grande sceneggiatore teatrale Mohammad al Maghouti, diede vita a una delle più sferzanti satire che siano mai viste nel mondo arabo: Al hudud (la frontiera), pellicola dove il protagonista - lo stesso Laham - perde il passaporto al confine fra due paesi arabi immaginari, ed è costretto a vivere sulla frontiera, rifiutato da entrambi. Un film che, riproposto proprio dal festival di Damasco, non ha perso in attualità, ritraendo un mondo che si proclama senza frontiere e che si spreca in promesse democratiche ma che in realtà naviga da tutt'altra parte. Quello che stupisce di più, proprio di fronte alla contemporaneità di Laham, è l'assenza di temi rilevanti e attuali nei film arabi contemporanei, o almeno nella selezione presentata al festival. Con una produzione scarsissima (in media una o due pellicole all'anno) il cinema siriano presentato a Damasco - per esempio Out of coverage di Abdellatif Abdelhamid - sembra essersi ripiegato su se stesso piuttosto che voler riflettere sulla società contemporanea e le sue problematiche - cosa che invece fanno registi di soap opera tv, come Najdat Anzour, ormai capofila di un movimento di fiction siriane impegnate e di alta qualità. Pochissimi sono gli esempi che riescono felicemente a portare il close up da un gruppo ristretto di relazioni umane a un livello sociale più ampio regalando uno spaccato sociale contemporaneo: il libanese candidato all'Oscar Caramel di Nadine Labaki (a Damasco premio come migliore interpretazione femminile), che racconta le vicende di quattro giovani libanesi alle prese con relazioni extraconiugali, innamoramenti lesbici, e operazioni per recuperare la verginità perduta agli occhi di una società solo apparentemente di costumi liberali, è uno di questi. Così Driving to Zgizgiland di Nicole Ballivian, produzione Usa-Palestina, commedia black su un tassista palestinese che sogna la green card e per ottenerla deve fare i conti con una routine di razzismo, intolleranza, e soprattutto ignoranza.