venerdì 16 novembre 2007

l’Unità 16.11.07
Rumeni, Strasburgo censura Frattini
Sbagliate le dichiarazioni del commissario Ue: i diritti
di movimento non si negano né ai poveri né ai rom
di Sergio Sergi


ALLA VIGILIA, forse su richiesta, era corso in suo aiuto il portavoce del presidente Barroso. Frattini? «Non fa politica di parte, agisce sulla base del diritto comunitario e delle politiche dell’Ue». Non è bastato. E così Franco Frattini, vice presidente e commissario per la Sicurezza e Giustizia, è «caduto» nell’aula del Parlamento europeo, a Strasburgo. Una caduta fastidiosa e imbarazzante, e proprio su quel diritto comunitario e quelle politiche Ue di cui gli si attribuisce la più stretta osservanza. Caduta fastidiosa perché avvenuta sul tema sensibilissimo, in Italia e nelle istituzioni comunitarie, della libera circolazione dei lavoratori e sull’onda delle vicende che hanno interessato Roma e il governo di Bucarest dopo l’omicidio Reggiani a Tor di Quinto. L’aula di Strasburgo ha, infatti, approvato una risoluzione (306 a favore, 186 contro e 37 astenuti) proposta da Pse (socialisti), Gue (sinistra unitaria e verde nordica), Verdi e Alde (liberal-democratici) che ribadisce la validità della famosa direttiva n° 38 del 2004 che disciplina la circolazione dei cittadini e dei lavoratori nel territorio del Paesi Ue e che precede la possibilità di un allontanamento a condizioni «ben precise». Insomma, senza espulsioni immotivate (salvo che per ragioni di ordine pubblico, di sicurezza o di sanità) o automatiche. È proprio su questo punto che la risoluzione - nonostante il disperato tentativo del forzista Tajani e del capogruppo Ppe, il francese Joseph Daul - ha individuato una falla nel comportamento del vicepresidente.
Il Parlamento ha stigmatizzato il contenuto di alcune interviste che Frattini ha rilasciato a quotidiani italiani nei giorni caldi dell’omicidio Reggiani. I commenti del commissario sono «contrari allo spirito e alla lettera direttiva 38/2004, direttiva che gli si chiede di rispettare pienamente». Questa parte della risoluzione è stata approvata con 290 sì, 220 no e 21 astenuti. Da segnalare il sì anche di Borghezio (l’esponente della Lega si è sbagliato o doveva togliersi un sassolino dalla scarpa?) e l’astensione di Cocilovo (Pd). Un giudizio pesante per un commissario che si occupa esattamente di queste materie. In effetti, i testi delle interviste – solo parzialmente rettificati – mostravano un commissario a testa bassa contro il governo e il centro-sinistra. Tutto proteso in difesa dell’operato del precedente governo di centro destra nel quale ricoprì l’incarico di ministro degli esteri. Frattini, in serata, ha affermato di aver «avuto confermata poche ore fa la fiducia e la solidarietà» da parte della Commissione. In verità, il Parlamento non ha votato alcuna richiesta di sfiducia al presidente Barroso per Frattini. Il quale la mette così: il Parlamento si è diviso, mentre la Commissione deve stare in equilibrio tra il rispetto di uno straordinario diritto alla libera circolazione e il diritto alla sicurezza, «altrimenti la gente non capirebbe». Frattini sostiene d’aver «continuamente sottolineato l’importanza e la rilevanza della direttiva» e annuncia un prossimo incontro con la comunità Rom.
Ma diceva Frattini (Il Messaggero): «Si va in un campo nomadi e a chi sta lì gli si chiede: tu di che vivi? Se quello risponde non lo so, lo si prende e lo si rimanda in Romania. Così funziona la direttiva europea». Invece non funziona così ma i provvedimenti di espulsione devono essere proporzionati e fondati esclusivamente sul comportamento personale dell’individuo, il quale deve essere informato, in modo circostanziato e completo, sui motivi del provvedimento, riportando l’indicazione dell’organo dinanzi al quale opporre eventuale ricorso. E anche la possibilità di espellere a causa di un onere eccessivo a carico dello Stato, deve essere subordinata ad un esame di ogni caso individuale, non può giustificare l’allontanamento automatico. Diceva Frattini (Il Sole 24 Ore): «Il governo Berlusconi decise una moratoria sugli ingressi per lavoro subordinato…il governo Prodi ha deciso di non reiterare quella moratoria per romeni e bulgari… paghiamo il prezzo di un’eccessiva tolleranza del passato… ci si è accorti tardi di una situazione sfuggita di mano…Veltroni ha capito che sono i cittadini più deboli i più esposti alla criminalità ed è un elettorato che vota a sinistra ma che potrebbe cambiare idea di fronte all’inerzia del governo». Sono dichiarazioni di un commissario «bipartizan»?

l’Unità 16.11.07
Nuova inchiesta per gli ss. La testimonianza del sottotenente Muhlhauser resa a Monaco di Baviera: «Gandin rifiutò la benda prima dell’esecuzione»
«Gli italiani a Cefalonia? Traditori, ecco perché li fucilammo»
di Franco Giustolisi


Freddo, misurato, impassibile, ma anche stupito. Così Otmar Muhlhauser, l’ex sottotenente dei Cacciatori delle Alpi. Fu lui a comandare il plotone di esecuzione che il 24 settembre del 1943 fucilò a morte, in quel di Cefalonia, il comandante della divisione Acqui, generale Antonio Gandin, ed altri ufficiali: «Sono un po’ sorpreso del fatto che dopo così tanto tempi si facciano ancora delle indagini». Stupore legittimo, perché la Germania del dopoguerra, paese degli assassini nazisti, ha condotto inchieste concludendole però con un nulla di fatto. Meglio, tuttavia, del paese degli assassinati, vale a dire, l’Italia, dove tutto finì nell’armadio della vergogna, sia i fascicoli delle stragi ai danni dei civili, come Sant’Anna di Stazzena, Marzabotto, Fivizzano, Capistrello ecc. con un numero imprecisato di vittime, forse 20mila, sia quelle che colpirono i nostri militari dopo che avevano alzato bandiera bianca, non solo a Cefalonia, ma anche a Rodi, Spalato, Coo, Lero, Korijza. Si, è vero, qualche processo è stato fatto. Stazzema, Marzabotto e altri conclusioni nel nulla perché nel frattempo imputati e testi erano deceduti. Ma niente per Cefalonia, «il più arbitrario e disonorevole delitto di tutte le guerre» come fu detto a Norimberga.
Riprendiamolo l’interrogatorio di Muhlhauser. L’ex ufficiale nazista che oggi ha 87 anni e fa ancora il pellicciaio, è stato interrogato tre volte dalla procura di Monaco di Baviera il 27 giugno del 1967, come lui stesso ha ricordato, e il 24 e il 30 marzo del 2004. «Dopo circa un quarto d’ora di viaggio, eravamo partiti dal capoluogo Argostoli, raggiungendo una zona, presumibilmente verso sud. Non ricordo su fummo noi ad arrivare lì per primi. Mi sembra che gli ufficiali italiani fatti prigionieri furono portati con dei veicoli in più riprese. Per primo fu condotto da solo davanti al maggiore Klebe (vicecomandante del distaccamento che assalì Cefalonia, ndr), il generale Gandin. Non so se lui fosse in divisa, sono passati tanti anni da allora... Il maggiore Klebe lesse una sentenza della corte marziale (non si sa quale fosse e se ci fosse stata, ndr) nel quale Gandin veniva condannato a morte tramite fucilazione».
Gli inquirenti chiedono a Muhlhauser di indicare le singole posizioni. «Il maggiore Klebe lesse la sentenza proprio vicino al generale. Il maresciallo Dehm presumibilmente era un po’ spostato in avanti. Come dalle borme previste, io mi trovavo sul lato sinistro del maggiore. Dopo la lettura della sentenza lui chiese al generale se volesse essere giustiziato con gli occhi bendati. Il generale rifiutò la benda. Allora il maggiore si rivolse direttamente a me dicendomi “attenda al suo ufficio”... Io sentii solo un altro ordine (probabilmente allude a quello del maresciallo Dehm, ndr) che diceva “alzate i fucili... puntate... fate fuoco”. Immediatamente prima dell’ordine di far fuoco, il generale disse a voce alta “Viva l’Italia, viva il re”. Subito dopo crollò a terra».
Aggiunge: «Ricordo di aver visto una volta personalmente l’ordine scritto da Hitler che esigeva la morte dei traditori. Ma può darsi che l’abbia visto quando, forse, lo tirò fuori dal risvolto della manica il maggiore Klebe». Probabilmente il momento più difficile per persone quasi normali, quello dei rimorsi di coscienza. Ma l’indagato risponde: «Se io nella trasmissione dell’ordine provi dei rimorsi? Sapevo che questi ordini dovevano essere eseguiti, io non feci obiezioni (...). In fondo Gandin era il comandante di unità che nei giorni precedenti avevano causato numerose perdiote tra i miei connazionali (che avevano preso d’assalto Cefalonia, va precisato, ndr)... Io, per esempio ero presente personalmente sulla spiaggia quando l’artiglieria italiana fece fuoco contro i nostri traghetti da trasporto, vidi anche dei compagni colpiti in pieno e fatti a pezzi o feriti gravemente. Vorrei dire ero adirato contro il generale e i suoi ufficiali. L’aria nei confronti degli italiani non era certamente di quelle buone. Comunque la disposizione data per l’esecuzione era per me un ordine superiore irrevocabile».
Va ancora oltre l’assassino: «Tra di noi ufficiali si parlava degli uomini della divisione italiana solo come traditori. Con l’ordine del furer era già chiaro che gli italiano andavano trattati completamente da traditori. E al tradimento vi era un’unica risposta: l’esecuzione».
Ecco perchè le conclusioni del procuratore generale August Stern, contro le quali Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri massacrato a Cefalonia, ha presentato ricorso, sono, al minimo, singolari. Premesso che a certi ordini, come quelli ricevuti da Muhlhauser, in stridente contrasto con le leggi di guerra, non si deve ubbidire sostiene: «L’accusato non è scusato per aver agito in seguito ad un ordine, la cieca obbedienza non viene riconosciuta come esimente». Ma aggiunge: «I militari italiani non erano normali prigionieri di guerra. Prima alleati dei tedeschi, si sono trasformati poi in nemici combattenti divenendo traditori, per usare il gergo militare». Allora niente paura per il mastropellicciaio: ha ubbidito certamente ad un ordine ingiusto, ma dato che non si ravvisano, secondo Stern, aggravanti, il delitto di omicidio viene prescritto visto che sono passati da allora ben più di vent’anni. Ma Stern - nella sua sentenza del 27 luglio 2006 che tanta indignazione sollevò - dimentica il vero e proprio eccidio che decimò i militari della Acqui; non c’era solo il generale Gandin e i cinque o sei ufficiali di cui minimizza Muhlhausen a Cefalonia; oltre duemila militari italiani morirono in combattimento, contrassegnando - come ha ricordato l’ex presidente Ciampi - il cammino della nuova Italia. Dai 4.500 ai 6mila furono massacrati dopo la resa. Altri tre mila circa moriranno da prigionieri sulle navi tedesche bombardate dagli alleati.
Ora, dopo lunghi anni di silenzio non si sa da cosa motivato, la procura militare di Roma - con a capo Intelisano - ha riaperto l’inchiesta sulla mattanza di Cefalonia. Lo ha fatto a seguito di una lettera aperta di Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri trucidato a Cefalonia, e mia, inviata al presidenti della Repubblica e al premier. A questa lettera ha fatto seguito un esposto alla procura militare di Roma. Gli inquisiti sono appunto Mulhauser, indagato e precritto a Monaco assieme ad altri 6 che hanno avuto stessa sorte processuale a Dortmund: il tenente Max Kurz, il capitano Alfred Schroppel, il tenente Helmut Vogtle, il sottotenente Karl Weisbacher, il sottotenente Anton Wimmer e il tenente Fritz Thoma.

l’Unità 16.11.07
Pena di morte, l’Onu dice sì alla moratoria
Via libera della terza Commissione alla proposta sponsorizzata dall’Italia: 99 i paesi a favore
52 i contrari, 33 gli astenuti. D’Alema: Italia in prima linea per la difesa dei diritti umani
di Umberto De Giovannangeli


UNA GRANDE BATTAGLIA di civiltà. Condotta voto su voto. Quattro «emendamenti-killer» bocciati. Manovre ostruzioniste sconfitte. Una tappa storica la cui importanza è data anche dall’accanita opposizione del «fronte del patibolo». È notte fonda
in Italia quando la Terza commissione delle Nazioni Unite approva la risoluzione per la moratoria universale della pena capitale. A favore si sono espressi 99 paesi, 52 quelli contrari, 33 gli astenuti. «L’Italia - ha commentato subito dopo lo storico voto il ministro degli Esteri Massimo D’Alema - è in prima linea nel mondo in materia di tutela dei diritti umani».
La maggioranza anti-boia di stato ha dimostrato la sua compattezza quando è chiamata a bocciare 14 emendamenti scritti e altri presentati in modo orale dai Paesi più oltranzisti del campo anti-moratoria: Egitto, Singapore, i Paesi caraibici. Gli emendamenti orali esortano al rispetto del diritto alla vita equiparando aborto e pena capitale. Nel corso della discussione intervengono pronunciandosi favorevolmente il rappresentante degli Stati Uniti e del Vaticano. La Santa Sede all’Onu non ha diritto di voto ma rango di osservatore. Ma anche questa volta il fronte pro-moratoria tiene e respinge gli emendamenti. Uno dei più insidiosi era quello che tendeva a richiamare all’interno della risoluzione l’articolo 2 comma sette della Carta dell’Onu in cui si fa riferimento alla «Domestic Jurisdiction», cioè alle prerogative in tema di sovranità degli Stati membri.
Sono ore di trepidazione al Palazzo di Vetro e a Roma. L’Italia ha giocato un ruolo, unanimamente riconosciuto, di primissimo piano nella presentazione della risoluzione prima e successivamente nel mettere in campo una strategia del consenso che ha fatto sì che i Paesi co-sponsor della risoluzione raggiungessero il numero di 87, la maggioranza dei Paesi membri dell’Onu. Il filo (telefonico) corre tra Roma e New York. L’«ultimo miglio» sta per compiersi. Nella giusta direzione. Non nasconde la sua soddisfazione l’ambasciatore italiano alle Nazioni Unite, Marcello Spatafora. ««Siamo soddisfatti per il grosso successo del Paese, del governo, del parlamento e della società civile», afferma Spatafora, osservando che questa «è anche una soddisfazione concettuale per aver individuato la strategia giusta in un gioco di squadra perfetto». Secondo il rappresentante permanente dell’Italia «tutto è andato come da copione. Siamo alle ultime battute di una strategia studiata a tavolino, di una sceneggiatura perfettamente recitata e osservata da tutti». A New York, per supportare l’azione della nostra rappresentanza diplomatica, c’è il sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti. «È stata premiata la coesione europea, perchè i Ventisette sono rimasti uniti. Ed è stata premiata la capacità dell’Italia e dell’Europa di costruire una vasta coalizione», osserva Vernetti. Secondo il sottosegretario Vernetti si tratta di «un grande successo per il governo italiano. Oggi (ieri, ndr.) l’Onu ha scritto una pagina importante per il diritto internazionale». Vernetti è convinto che il voto di ieri avrà effetti concreti nei Paesi dove la pena di morte è in vigore: «Penso agli Stati Uniti e alla Cina dove è in corso un dibattito proprio sulla moratoria». Un’aspettativa che trova subito una importante conferma: a poche ore dall’esecuzione, La Corte Suprema americana ha fermato il boia della Florida che ieri notte avrebbe dovuto mettere a morte Mark Dean Schwab, un killer condannato all’iniezione letale. per l’uccisione di un bambino di 11 anni.
Una giornata storica. Lo si percepisce dal clima di febbrile attesa che si respira al Palazzo di Vetro e nelle sedi di tutte le organizzazioni per i diritti umani che hanno supportato la diplomazia degli Stati. «È stato fatto un grande lavoro», rimarca Palazzo Chigi. Nella Terza commissione Onu, rimarca il ministro degli Esteri Massimo D’Alema, sono avvenuti «due cose molto importanti: innanzitutto la coalizione dei paesi sottoscrittori si è allargata fino a 87 e poi tutti gli emendamenti che sono stati presentati volti a svuotarne il significato ed indebolire la risoluzione sono stati respinti. Il che - riflette il titolare della Farnesina - dimostra che questa coalizione internazionale che si è formata a partire da una nostra iniziativa è davvero forte e unita». A far sperare per il definitivo via libera alla risoluzione da parte dell’Assemblea generale, c’è anche un altro dato. Che il vicepremier italiano mette in risalto: ««Nelle occasioni precedenti - dice D’Alema - gli emendamenti erano sempre passati. Stavolta non è accaduto, un segno di una coesione notevole».

l’Unità 16.11.07
Trentacinque milioni di americani fanno la fame
Secondo i dati del Ministero dell’Agricoltura sono circa il 20 per cento le famiglie nere o ispaniche costrette a digiunare
di Roberto Rezzo


Basso livello di sicurezza alimentare non è una definizione per mettere in guardia contro coloranti e conservanti. Nel linguaggio pittoresco della burocrazia significa fame. Un problema che tocca trentacinque milioni di persone - di cui 12,6 milioni sono bambini - in America. Non l’intero continente, solo gli Usa. La prima potenza mondiale. Il rapporto annuale appena pubblicato dal dipartimento all’Agricoltura Usa dice che nel 2006 35,5 milioni di americani, principalmente a causa della disoccupazione - sono arrivati a patire la fame. In ribasso rispetto ai 35,1 milioni del 2005. Kate Houston, sottosegretario per la nutrizione e i servizi ai consumatori nell’amministrazione Bush, sostiene che è «un dato incoraggiante, anche se c’è ancora molto lavoro da fare. Perché nessuno in America dovrebbe essere affamato». E invece alla vigilia delle feste tocca leggere che il 12,1% della popolazione - per periodi più o meno lunghi - nell’arco dell’anno non ha abbastanza da mangiare. Se si prendono in considerazione i nuclei familiari anziché gli individui, risulta che ci sono 12,6 milioni di famiglie così povere da avere problemi a procurarsi persino il cibo. Il 10,9% di tutte le famiglie americane. E il 36,3% di quelle ufficialmente considerate povere e che quindi ricevono sussidi pubblici. È lo stesso governo ad ammettere che proprio non bastano.
Il problema della fame riguarda in modo sproporzionato le minoranze: il 21,8% delle famiglie afroamericane e il 19,5% di quelle ispaniche. Gli Stati più colpiti sono Mississippi (18,1%); New Mexico (16,1%); Texas (15,9%); e South Carolina (14,7%). Una categoria a parte sono le ragazze madri che rappresentano un anacronistico 30,4 per cento. Quando qualcuno in famiglia digiuna completamente per almeno un giorno, il governo parla di «livello di sicurezza alimentare molto basso». Sino al 2004 i tabulati del dipartimento all’Agricoltura completavano l’espressione «associato a fame», poi la dizione è misteriosamente cambiata, forse pareva poco elegante o per mancanza di spazio. In ogni caso nel 2006 ci sono passati 11,1 milioni di persone. Attenzione però che le statistiche sono basate sui dati del Census Bureau e che pertanto non includono chi è senza fissa dimora. Il numero dei senzatetto stabili nel 2005 era stimato dal governo federale in oltre 750mila persone. Da allora non l’hanno più aggiornato. Nel 2006 il dipartimento all’Agricoltura ha distribuito alle famiglie americane sussidi alimentari per 59 miliardi di dollari. America’s Second Harvest, The Nation’s Food Bank Network è la più grande organizzazione che si occupa di raccogliere eccedenze alimentari da produttori e commercianti per distribuirle ai bisognosi. Lo scorso anno ha fornito 90mila tonnellate di cibo a livello nazionale. E non riesce a tenere testa alle richieste. «Mentre aumentano i prezzi per gli alimentari, l’energia, la casa e i salari sono stagnanti o diminuiscono - spiega Jim Weill di Food Reasearch and Action Center - sempre più famiglie si trovano in serie difficoltà. E nel 2007 mi aspetto che andrà ancora peggio».

l’Unità Firenze 16.11.07
Gramsci? Una questione nazionale
di Tommaso Galgani


Firenze celebra i settant’anni dalla morte del fondatore de «l’Unità» con un convegno lungo tre giorni

Come mettersi sul lettino dello psicanalista: ogni qual volta gli intellettuali di sinistra parlano di Gramsci, non mancano le effervescenze. Figurarsi se il tema è “Gramsci e la questione dell’identità nazionale”: il convegno, organizzato dall’Istituto Gramsci in occasione del 70esimo anno dalla morte del fondatore del Pci, ha avuto il suo battesimo ieri a Firenze, in Palazzo Vecchio, mentre oggi e domani si sposta a palazzo Strozzi. Dopo l’apertura dei lavori del critico letterario Giulio Ferroni, che ha fatto luce sui rapporti tra Machiavelli e Gramsci («ispirato ad una lettura del “Principe” come organismo collettivo, fusione di individuo e popolo»), a dare pepe alla discussione di ieri, davanti a un centinaio di persone, è toccato a Federico Sanguineti, docente di linguistica all’università di Salerno. Che, assodata «la perdita dell’egemonia culturale», ha accusato la sinistra di oggi di inseguire i temi cari alla destra. Come l’ansia di sicurezza: «I delitti e i crimini sono in calo, ma i sindaci di sinistra sono ossessionati da lavavetri e rom». Piuttosto, ha aggiunto Sanguineti, servirebbe «quella che Gramsci avrebbe chiamato riforma intellettuale e morale», ovvero «una forte volontà popolare contro le mafie e la madre di tutte le discriminazioni, quella femminile». Di qui la proposta di quote rosa obbligatorie nelle antologie letterarie («almeno metà degli autori sia donna»), mentre Ferroni gli dava del «demagogo narcisista che va fuori tema dal convegno». L’importante, ha precisato Bartolo Anglani prima di parlare dei modelli letterari europei del giovane Gramsci, è «non strumentalizzare un classico per forzare sul presente». Piuttosto, va studiato in modo storicistico, ha ventilato Umberto Carpi, e magari così si scopre che «Gramsci non parla di identità nazionale, ma di formazione dello stato: e in Italia in tal senso i problemi maggiori sono sempre quelli che diceva lui, ovvero questione meridionale e riforme mancate». La giornata di ieri è stata chiusa dall’intervento di Gaspare Polizzi sulle affinità tra Gramsci e Leopardi, prima dello spettacolo “Buttar via il rospo dal cuore” che l’Istituto e il Teatrino dei fondi hanno inscenato al teatro l’Affratellamento. Tra oggi e domani arrivano invece a palazzo Strozzi Tullio De Mauro, Stefano Gensini, Michele Maggi ed Emma Fattorini.

Repubblica 16.11.07
Reduci, boom di suicidi il male oscuro uccide più della guerra in Iraq
Inchiesta choc di Cbs su tutti i veterani Usa


NEW YORK - Tornano dall´inferno iracheno con immagini indelebili di stragi e cecchini, di bombe e cadaveri. Molti di loro sono invalidi, tanti altri soffrono di turbe psichiche. Trovano un´America più pessimista, più povera, più avara, più contraria alle guerre di Bush. E in questa atmosfera un numero crescente di ex-combattenti si toglie la vita. «C´è una epidemia di suicidi», denuncia la rete televisiva Cbs che al termine di una inchiesta durata cinque mesi ha mandato in onda un servizio da brivido sul fenomeno.
Nel 2005, secondo gli ultimi dati, ci sono stati 6256 ex-militari che si sono uccisi: una media di 17 al giorno e, nel complesso, più (quasi il doppio) di quanti sono morti dal 2003 a oggi nelle strade irachene (il pallottoliere delle vittime americane è ora a 3863). Certo, le statistiche si riferiscono a tutti gli ex-combattenti (25 milioni), non solo a quelli mandati in Afghanistan e in Iraq (1,6 milioni). Ma si tratta pur sempre del doppio della incidenza dei suicidi sulla popolazione degli Usa e il fenomeno colpisce duramente la fascia d´età più giovane, che ha un tasso di suicidi di 22,9 su 100mila, quattro volte più della media dei coetanei.
«Non tutti tornano dall´Iraq feriti, ma la realtà è che nessuno torna come se nulla fosse successo», dice Paul Rieckhoff, un ex-marine che ha fondato un gruppo all´interno dell´associazione Veterans of America che si occupa specificamente dei reduci dall´Afghanistan e dall´Iraq. Tra i quali ce ne sono molti senza casa: non trovano lavoro e si riducono a dormire per strada. Un homeless su quattro è un ex-combattente della guerra al terrorismo.
(ar. zamp.)

Corriere della Sera 16.11.07
Tra i 498 beati spagnoli c'è anche un torturatore


MADRID — La denuncia arriva dai blog: uno dei 498 martiri della guerra civile spagnola, beatificati poco più di due settimane fa in piazza San Pietro, era stato un torturatore. Si tratta del sacerdote agostiniano di origine basca Gabino Olaso Zabala che nel 1896, missionario nelle Filippine, aveva partecipato all'interrogatorio di un confratello, prete filippino simpatizzante della rivolta contro il dominio spagnolo. È proprio il racconto della vittima, padre Mariano Dacanay, a rivelarlo. Dacanay riferisce che Olaso non solo aveva incitato i soldati a torturarlo, ma gli aveva anche sferrato un calcio alla testa, facendogli perdere coscienza. La testimonianza è ritenuta attendibile dalla Chiesa, ma non ha inficiato la beatificazione: anche un peccatore può diventare santo.

Corriere della Sera 16.11.07
L'excursus di Giorgio Cosmacini
Scienza e fede nella medicina
di Armando Torno


Le prime forme conosciute di terapia furono religiose. Anche gli antichi egizi, che avevano un medico per l'occhio destro e uno per quello sinistro, praticavano cure permeate di teologia. In Grecia è Asclepio, figlio di Apollo, il dio che guarisce: i suoi sacerdoti sono semplici emissari. I malati vengono ricevuti e trattati seguendo precisi riti, dei quali il serpente e il gallo sono i simboli. E anche oggi molti sperano più nei miracoli che non nei medici.
Giorgio Cosmacini ha ora affrontato l'argomento (e i suoi interessanti dintorni) in un accattivante saggio: La religiosità della medicina. Dall'antichità a oggi (Laterza, pp. 214, e 18). In esso cristianesimo, ebraismo, islamismo e anche l'atteggiamento agnostico e ateo si confrontano con i rimedi che l'uomo ha scoperto nei secoli. Il titolo del libro richiama alla mente una piccola opera dell'epicureo Thomas Browne, Religio medici, pubblicata a Londra nel 1642. In essa l'autore, che si era ritirato in uno sperduto paesello dello Yorkshire, anticipava di una ventina d'anni la pubblicistica inglese — che causò una rivoluzione paragonabile a quella in politica legata al nome di Cromwell — sull'anatomo- fisiologia del fegato, del cervello, del cuore, del trattamento delle febbri, nonché buona parte di quel che oggi consideriamo una condotta laica dinanzi alla malattia.
Cosmacini offre storie e profili che vanno dai curatori ebrei ai grandi trattati arabi, via via risalendo le epoche sino alla Bibbia: in ogni secolo la bontà di Dio e la sapienza del curatore sembrano dividersi il soccorso al malato. Del resto la parola «medico» compare nel libro del profeta Geremia (è rofè in 8,22), ma essa si può trovare già nella prima parte della cosiddetta rivelazione greca, di poco anteriore al testo profetico: l'Iliade. Il termine ietèr, riferito a Macàone, si legge nel IV libro (verso 194). Ma è altresì vero che la lingua greca confessa un rapporto che si perde nella notte dei tempi, mostrando l'intimo legame tra medicina e religione: isótheos, ovvero simile a Dio: è il medico guaritore. La dimensione religiosa e quella strettamente scientifica non riescono a distinguersi nemmeno con Paracelso, in pieno XVI secolo: egli brucia sulla pubblica piazza i testi di Ippocrate e Galeno, considerati obsoleti, ma le sue cure risentono sovente di concezioni alchemiche. Ci vorrà ancora qualche anno per consentire a William Harvey di scrivere il De motu cordis et sanguinis e dare inizio alla desacralizzazione del sangue.
Gli esempi si moltiplicano se si getta lo sguardo nei rapporti tra progresso delle cure e cristianesimo, dove gli scontri non mancano. Come provano, per esempio, i problemi sollevati dall'innesto del vaiolo nel XVIII secolo. Si parlò di imponderabile salto nel buio, di diavolerie barbare, di peccaminoso
vulnus. La pratica, prima di evolversi nella inoculazione di «pus vaccino» attuata nel 1798 dal naturalista inglese Edward Jenner, diventò un problema che, come sottolinea Cosmacini, «non solo richiedeva un netto pronunciamento tra scienza e religione ma che, soprattutto, costituiva un momento di confronto con le correnti più avanzate della cultura illuministica». Papa Benedetto XIV, al secolo Prospero Lambertini, aperto e tollerante, consultò medici e teologi e alla fine si persuase che «non era giunto ancora il tempo» di far «adottare un tal preservativo». La questione impose a tutti una scelta. Se l'imperatrice Maria Teresa d'Austria si convinse della liceità dell'innesto, che considerò un utile mezzo nelle mani del medico e una pratica voluta da Dio, nel 1763 la facoltà di teologia di Parigi si dichiarava contraria sentenziando: «È sufficiente che questa inoculazione sia una novità per essere reputata condannabile».
Oggi stiamo vivendo l'epoca nella quale la scienza sta compiendo miracoli, anche se — come nota Georges Conguilhem nel denso libretto Sulla medicina (appena uscito da Einaudi, pp. 120, e 12) — siamo circondati da guaritori che vivono e prosperano appena oltre la soglia degli istituti clinici più attrezzati. Ma sia la ricerca avanzata che la medicina selvaggia rimandano a problemi morali, gli stessi che interagiscono da secoli con competenze e speranze dell'uomo.

Corriere della Sera Roma 16.11.07
L'invito al Papa divide i professori della Sapienza
Lectio magistralis? Solo una gaffe
di Edoardo Sassi


17 gennaio: inaugurazione dell'anno accademico alla Sapienza. Benedetto XVI ci sarà, dopo la cerimonia ufficiale. Poi l'inaugurazione della cappella restaurata. Protesta dei laici

Marcello Cini, accademico di fama, fisico, professore emerito ha accusato il rettore Guarini di «incredibile violazione della tradizionale autonomia delle università»


«La Sapienza chiama il papa e lascia a casa Mussi». Così titolava mercoledì il quotidiano Il Manifesto, in testa a un'infuocata lettera aperta indirizzata al rettore del primo ateneo pubblico di Roma, Renato Guarini, e firmata da Marcello Cini: accademico di fama, fisico, laico, professore emerito della stessa università nonché membro del «comitato promotore nazionale» di Sd, Sinistra Democratica, raggruppamento di forze guidato dallo stesso ministro dell'università Fabio Mussi.
Il papa che inaugura ufficialmente l'anno accademico numero 705 di un'istituzione «simbolo del progresso scientifico»? L'idea ha fatto infuriare Cini e, con lui, parte del fronte laico degli accademici «sapientini». Ma una delle notizie, da ieri, è che in realtà Fabio Mussi all'inaugurazione ci sarà, e ci sarà, in qualche modo, anche il papa, che però arriverà dopo (e forse, non è ufficiale, ci sarà anche Veltroni).
Val la pena ricostruire la storia dall'inizio. Durante il Senato accademico del 23 ottobre il rettore comunica il programma dell'annuale inaugurazione ufficiale dell'anno accademico. Data prevista, 30 novembre (tutto è poi slittato al 17 gennaio). Come da consuetudine, il copione prevede l'intervento del rettore, del rappresentante degli studenti, del personale e una (vera) lectio magistralis di un docente (Mario Caravale) sul tema scelto quest'anno, contro la pena di morte. C'è anche, da prassi, l'invito a Mussi. Che però per il 30 novembre farà sapere di non poter partecipare per impegni precedenti. Non è stato «cacciato» dunque? Ieri, ospite della stessa Sapienza, Mussi ha comunicato che, considerato il cambio di data, lui ci sarà. Tutto chiarito? Insomma. Almeno un equivoco in realtà c'è stato, per la «distrazione» (così definita in ambienti vicini al rettorato) di Guarini, che al Senato effettivamente comunicò, a fine inaugurazione, un saluto di Benedetto XVI, definendolo però «lectio magistralis ». L'intervento viene verbalizzato e l'espressione, almeno formalmente impropria, resta. Solo un problema terminologico? Cini, dal punto di vista dello scienziato, si arrabbia e scrive la sua lunga lettera in cui cita anche i fatti di Ratisbona parlando di «incredibile violazione della tradizionale autonomia delle università». «Non posso non esprimere pubblicamente la mia indignazione per la sua Proposta — dice a Guarini — goffamente riparata successivamente con una toppa che cerca di nascondere il buco e al tempo stesso ne mantiene l'obiettivo politico e mediatico. Non commento il triste fatto che lei è stato eletto con il contributo determinante di un elettorato laico. Non riesco a capire le motivazioni che possono averla spinta a formulare una proposta tanto improvvida e lesiva dell'immagine della Sapienza nel mondo. Il risultato della sua iniziativa, anche nella forma edulcorata della visita ("un saluto alla comunità universitaria") subito dopo una inaugurazione inevitabilmente clandestina, sarà comunque che i giornali titoleranno "Il Papa inaugura l'Anno Accademico"».
Ieri, replica del rettorato: «Papa Ratzinger non inaugurerà l'anno accademico, né potrebbe in quanto l'inaugurazione è prerogativa del rettore, e non pronuncerà una lezione magistrale. Il programma della giornata non è cambiato in corso d'opera (...). La manifestazione si svolgerà regolarmente secondo tradizione». E il papa? Ci sarà, considerato l'argomento scelto (pena capitale): «Come è noto si tratta di un argomento sul quale anche la Chiesa ha posizioni molto nette. Benedetto XVI, che intendeva compiere una visita pastorale alla Sapienza, ha quindi espresso la volontà di incontrare la comunità universitaria in questa occasione». Il pontefice giungerà sì in aula magna, ma «interverrà dopo il termine dell'inaugurazione, rivolgendo un saluto ai presenti, senza influenzare lo svolgimento della cerimonia accademica. Con l'occasione visiterà la cappella universitaria da poco restaurata».

Corriere della Sera Roma 16.11.07
All'Ara Pacis esposti 30 scatti del più grande fotografo turco vivente
Nebbia e neve sui minareti Güler, l'altro volto di Istanbul


La magia di Istanbul nell'obiettivo di Ara Güler. Trenta scatti in bianco e nero per raccontare la stratificata città turca negli anni '50 e '60 esposti nel moderno spazio del Museo dell'Ara Pacis. Trenta scatti del fotografo che ama definirsi un «cronista» e che partendo da questa impostazione congela volti, nebbie, strade e quartieri riuscendo a comunicarci un'immagine di Istanbul quasi bucolica, artigianale.
L'occhio sensibile ed esperto del grande maestro, che prima di dedicarsi completamente alla fotografia è stato giornalista in importanti quotidiani internazionali, supera gli stereotipi della Istanbul immaginata in Occidente e per la prima volta ce la presenta com'è. Fu l'incontro con Cartier-Bresson che lo spinse a mettere a fuoco le sue visioni attraverso l'obiettivo della Leica.
Guardando le foto di Güler si percepisce lo scorrere del tempo, si sentono i secoli che sulla città han lasciato incredibili tracce artistiche e culturali. Strati di storia si incontrano e convivono. Lingue diversissime si intrecciano e si contaminano.
Volti di ieri scavati dal vento e dalla fatica del duro lavoro a bordo delle barche da pesca o sui carretti carichi di mercanzie, si sovrappongono ai volti di oggi che osservano il futuro sapendo che è già arrivato. Struggenti attimi di vita quotidiana, così vicini al nostro passato.
Guardando gli scatti di Güler si percepisce chiaramente come la distanza fra le nostre radici e quelle dell'antica Costantinopoli non sia poi così ampia, e si intuisce il valore culturale del lavoro che in tanti stanno facendo per agevolare e sostenere l'inserimento della Turchia moderna nella Comunità Europea.
Ma Istanbul ha mille volti e andando avanti nel percorso espositivo si arriva a quello che è il contributo di altri quattro fotografi turchi: Ercan Arslan, Coskun Asar, Kutup Dalgakiran e Erdal Yazici. Ed ecco la Istanbul di oggi con i suoi colori accesi così come i profumi che investono il turista che si trova a passeggiare per quertieri come Ortaköy, che Güler ha fotografato quando era ancora zona non sviluppata, con le reti dei pescatori stese ad asciugare, mentre negli scatti di Ercan Arslan la si vede com'è oggi: un romantico luogo sul Bosforo ricco di caffè e ristorantini, dove si può passeggiare all'ombra di una moschea barocca.

alteredo.org 16.11.07
Giulio Giorello contro il settarismo del fondamentalismo religioso
un'intervista di Edoardo Semmola


L’intervista. Ragionando di massimi sistemi con il filosofo milanese: politica e religione, diritti civili, caso Welby, fede e ragione, family day: “Penso che la sinistra dovrebbe collocarsi nella grande tradizione dell’Illuminismo: nella rivendicazione dei diritti e in particolare di un diritto, quello della ragione umana di poter liberamente cercare la verità senza dovere chinare la testa di fronte a questa o quella autorità”

Professor Giorello, cominciamo da una premessa generale: l’anno 2007 si è caratterizzato più di ogni altro per i temi che hanno diviso laici e cattolici in politica: è l’anno del caso Welby e del caso Nuvoli, l’anno dei pacs che poi sono diventati dico e poi cus, e l’anno del family day e dello scandalo dei preti pedofili. Tra laici e cattolici abbiamo assistito ad una vera e propria guerra. Ma chi ha iniziato questa Guerra? Rocco Buttiglione, rispondendo a questa domanda, mi ha detto: “Perché i cosiddetti laici si erano abituati ad un tipo di cattolico che aveva paura della sua ombra, che non testimoniava con coraggio la sua fede, e che si guardava continuamente la punta delle scarpe invece di guardarli negli occhi. È cresciuto, con Giovanni Paolo II, un altro tipo di cattolico: un cattolico che rispetta gli altri però chiede rispetto per se stesso, che non ha paura, che è convinto della ragionevolezza della sua fede, e vuole discutere. È partito dal fatto che alcuni (e cita esplicitamente Gianni Vattimo) hanno preso male che questi cattolici vogliono sentirsi cittadini liberi, come tutti. Quelli che si erano abituati ad un cattolicesimo che non aveva il coraggio della propria identità, quelli che erano abituati a pensare che la fede fosse un residuo del tempo passato destinato a scomparire”.

Bene, innanzitutto cominciamo dal dire che ci sono diverse accezioni del termine laicità. Non ho mai creduto a quella che chiamo la favola della secolarizzazione. Le religioni tendono a riemergere anche all’improvviso, anche quando la maggior parte degli intellettuali si aspetta che la dimensione religiosa sia in qualche modo sfocata. E può riemergere non necessariamente con i tratti che aveva nel passato, ma può avere un aspetto nuovo e – come spesso capita – la novità è anche inquietante. Nel largo pubblico, prima della rivoluzione iraniana con Khomeyni, si dava abbastanza per scontato che l’Islam era una costellazione di idee, valori e pratiche arcaiche, destinata ad essere superata da altre modalità del politico e da altre forme di vita. Si pensi al nazionalismo arabo o alla rinascita di alcuni paesi del cosiddetto Terzo Mondo, orientati chi verso il modello capitalistico, chi verso quello socialista. E poi invece c’è stato appunto Khomeyni, la svolta fondamentalistica in Algeria, la rinascita di uno spirito combattivo anche nell’Islam sunnita e non soltanto in quello sciita, oltre a tutta un’altra serie di fenomeni che conosciamo molto bene. Anche in Israele, d’altra parte, se 30 o 40 anni fa lo consideravamo tutti un paese laico, si è scoperto poi che ruolo giochino i partiti religiosi, anche estremisti… Perché non pensare lo stesso anche del Cristianesimo? Perché il Cristianesimo non dovrebbe avere i suoi apparenti momenti di spegnimento e poi una scintilla che porta di nuovo a risplendere ciò che covava sotto la cenere, anche magari provocata da un vento piuttosto effimero? In questo senso le religioni non sono diverse da altre esperienze umane: quante volte abbiamo sentito parlare della morte della filosofia, della morte dell’arte, della fine della storia… Perché dovremmo dare così scontata la morte di Dio? E in questo senso Buttiglione secondo me ha profondamente ragione. Poi c’è da domandarsi se questa forma di risveglio di un cattolicesimo combattivo sia un bene o sia un male.
E ora veniamo all’accezione di laico. Prendiamo uno dei più grandi filosofi dell’Illuminismo e tra le più grandi figure della modernità – che però di solito non viene inserito nei nostri manuali di Storia della Filosofia – che risponde al nome di Thomas Jefferson, uno dei grandi estensori della Dichiarazione di Indipendenza americana. Jefferson, per tutta la sua vita, fin da quando rappresentava gli interessi della sua terra di origine, lo Stato/colonia della Virginia, fino a quando divenne terzo Presidente degli Stati Uniti, aveva ben chiaro un elemento molto significativo: il laico, per Jefferson, è colui che lascia dispiegarsi qualunque dimensione religiosa – sia nel privato ma anche nella sfera pubblica – purché i cittadini di una particolare confessione religiosa non sequestrino dei diritti che sono invece di tutti. Ed è proprio questo il rischio di certe rinascite religiose: di certo cattolicesimo integralista e certo fondamentalismo protestante, per non parlare della deriva estremistica dei paesi musulmani. Sono fenomeni in sé diversissimi ma che hanno una radice comune nel settarismo. E il laico è contro il settarismo, non è contro la religione in quanto tale. Dunque bisognerebbe che la frase di Buttiglione fosse riqualificata in questo modo: quando si ripresentano cattolici, protestanti, musulmani, wooduisti e quello che cavolo vuole, che vogliono sequestrare i diritti degli altri, è compito dei laici intervenire con tutti gli strumenti che hanno a loro disposizione.

Il 2007 è stato soprattutto l’anno dell’infinito dibattito sui Pacs. Cosa lo ha generato? Forse una sorta di effetto Europa, il confronto con gli altri paesi?

Il dibattito sulla natura del matrimonio, della famiglia, dei pari diritti di chi ha relazioni più o meno stabili con altre persone, è un dibattito che va visto all’interno di una cornice – come minimo – europea.
In Italia bisogna ben tener presente che chi si trova in una relazione stabile ma non è riconosciuto nella sfera della cosiddetta “famiglia naturale” (e ci metta un po’ di virgolette a quel naturale), può trovarsi svantaggiato economicamente e magari bloccato a livello giuridico. Dunque, il dibattito sui pacs non riguarda la religione in quanto tale ma è incentrato su un problema di garanzie economiche e giuridiche. È in questa ottica che andrebbe, secondo me, affrontata la questione: la religione non dovrebbe entrarci proprio. Infatti, nessuno impedisce a chi pensa che la famiglia abbia un’origine sacrale e che il matrimonio sia un sacramento, di vivere questa loro convinzione. Ma l’esperienza europea non è andata in questa direzione: ammette che la famiglia non sia perpetua e che il matrimonio non sia altro – dal punto di vista dello Stato – che un semplice contratto. La natura contrattuale del matrimonio è stata rivendicata in Inghilterra nel Seicento dal poeta, per altro puritano e cristianissimo, John Milton. Non da un ateo, dunque. E Milton teorizzava lo scioglimento del contratto – quello che noi chiamiamo tecnicamente divorzio – anche per ragioni di incompatibilità caratteriale. Non esistono contratti eterni, e anche il contratto politico è tutt’altro che eterno: non sarebbe nato Israele, e nemmeno gli Stati Uniti, se il contratto politico non potesse essere rescisso. E anche questo è un insegnamento jeffersoniano.
È dunque sul piano delle scelte di vita delle persone che si pone la discussione sui vari pacs e poi dico. E la religione secondo me non c’entra assolutamente nulla: sta su un altro piano. Anzi, se si traduce immediatamente un’esperienza religiosa su un piano politico, si finisce per asservire la spiritualità al mondano. E questo è – secondo me – quanto di più anti-cristiano ci sia.
Poi, quanto al fatto che qualcuno – anche a sinistra, se a sinistra si può dire: diciamo nel Partito Democratico – dica che i pacs non sono urgenti perché sono relativamente poche le persone che ne usufruirebbero, questo è un modo molto curioso di ragionare. Perché, se un domani un governo facesse delle leggi discriminatorie nei confronti di quelli che hanno i capelli rossi – per esempio escludesse dai pubblici uffici quelli che sono di pelo rosso o dicesse che due persone con i capelli rossi non si possono sposare – sarebbe una grave violazione alla libertà individuale anche se la comunità delle persone dotate di capelli rossi è piuttosto piccola rispetto agli altri colori di capigliatura di questo Paese. Quindi, attenzione: se anche si tratta della violazione dei diritti di pochi, non è che la violazione sia poco importante. Bisognerebbe infatti spiegare ai nostri politici che in una società liberale, democratica e aperta, non è che contano solo i numeri, ma conta come bene imprescindibile l’autonomia del singolo. Ed ecco che da questo punto di vista una lezione di sana laicità ci viene da filosofo Karl Popper quando diceva che i primi che devono essere salvaguardati sono proprio i diritti delle minoranze, e la prima minoranza con cui noi abbiamo a che fare è quella fatta da un individuo singolo. Ed è quindi sul piano del singolo che dobbiamo impostare la questione, più che in nome della tradizione sia essa religiosa sia etnica sia linguistica. Questo sì che sembrerebbe un modo tribale di porre la questione. La società aperta nasce proprio dalla dissoluzione del tribalismo. E una delle funzioni principali della democrazia è proprio quella di garanzia contro i ritorni di tribalismo.

Ma oltre a questi argomenti di natura generale abbiamo anche un problema ben più specifico che è l’acuirsi della questione omosessuale. Ho chiesto all’onorevole Franco Grillini quanto questo abbia inciso e lui mi ha dato due diverse letture: 1) esiste una contraddizione non risolvibile tra omosessualità e Chiesa Cattolica. Perché la Chiesa cattolica si basa sulla verità rivelata, si compone di dottrina-tradizione-scrittura, ed è ovvio che la questione omosessuale è contraddittoria con la dottrina con la tradizione e con la scrittura. Non ci possiamo fare niente. 2) Più cresce il ruolo della comunità omosessuale italiana, più esce allo scoperto, e più ovviamente diventa forte la reazione contraria. Perché il pregiudizio, il razzismo, la stupidaggine e l’ignoranza sono ancora molto forti. Quindi Grillini dà alla Chiesa un ruolo di risposta…

Cominciamo dalla prima questione: non so se ci sia una incompatibilità di fondo tra omosessualità e aderenza ai principi della Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Rispondano i cattolici su questo: guardino i testi base della loro tradizione e consultino le loro autorità. Non sta a me giudicare su questo punto. Mi pare però che ci siano dei fatti piuttosto curiosi: vorrei ricordare per esempio che nella Chiesa Cattolica Apostolica Romana le donne sono state curiosamente piuttosto emarginate. Va bene che tirano sempre fuori la figura di Maria Vergine, anche se non credo che la figura della donna possa esaurirsi né nell’essere madre né nell’essere vergine (e tra l’altro essere entrambe le cose è un po’ difficile). Vorrei poi ricordare che altre tradizioni del Cristianesimo, diverse dal Cattolicesimo, sono state molto più aperte per quanto riguarda la questione femminile: la Free Presibiterian Church ordinava donne sacerdote, nel senso funzionale e non solo sacramentale, come è tipico del Protestantesimo, già nel 1911. Mentre nel Cattolicesimo la questione femminile è ancora fortemente problematica. La struttura gerarchica cattolica è basata su una predominanza netta del maschile sul femminile e qualche critico cattivo potrebbe dire che è una struttura tipicamente omosessuale. E non so se questa struttura possa essere la più indicata nel censurare scelte sessuali diverse e prendersela con gli omosessuali. Molte tradizioni religiose – ma non tutte – hanno sempre colpevolizzato gli omosessuali vedendoli come peccatori: a mio avviso sono semplicemente delle persone che hanno dei gusti diversi da altri. E anche per quanto riguarda la questione della famiglia, tutto dipende da cosa si intende con questa nozione: se accettiamo che il concetto di famiglia sia legato alla finalità procreativa, è evidente che due omosessuali non possono formare una famiglia. Ma chi ci dice che una famiglia – intesa nel senso laico del contratto – debba essere per forza indirizzata alla procreazione? Questo non lo dice nessuno. Di nuovo, è una scelta. E come tale è rispettabilissima. Ma se si impone agli altri la propria scelta, questa diventa settarismo, e torniamo al discorso generale di prima.
Dopodiché, secondo me ha fatto benissimo il movimento gay a uscire fuori, a fare outing, e difendere le proprie scelte. E a mostrare che l’omosessualità non è affatto un peccato ma semplicemente una scelta di vita. E ritengo che non sia minimamente responsabile dell’inasprimento moralistico che una certa parte del mondo cattolico ha mostrato nel campo sessuale.

Il caso Welby ci ha fatto iniziare (in ritardo rispetto agli altri) a parlare di eutanasia e testamento biologico… Silvio Viale, medico, e presidente di Exit Italia ha commentato dicendo: “L’argomento è chiaramente tabù. E negli ultimi 10 anni è venuto alla ribalta grazie ai casi concreti. Perché parlare in astratto è difficile, nessuno pensa mai alla morte, alla sofferenza, a quello che potrà capitare. Coloro ai quali capita di affrontare questi argomenti, cercano poi di risolvere i problemi in qualche modo. Negli ultimi 10 anni i casi eclatanti hanno fatto sì che l’opinione pubblica si spostasse. Se negli anni ’80-’90 soltanto il 27-30% degli italiani si dichiarava favorevole – quindi una percentuale ideologica – oggi è il 70% degli italiani a dichiararsi favorevole e i contrari sono scesi al 27%”. C’è stata una rivoluzione, dunque. E anche in questo caso sia la Chiesa che la politica si trovano a rincorrere un fenomeno che avevano sempre ignorato… Lei cosa ne pensa?

Direi che soprattutto la politica si trova fortemente in ritardo rispetto a un cambiamento di sensibilità molto forte, che mi sembra ben colto dalle parole di Silvio Viale con la sua lettura che mi sembra seria e ben documentata.
Uno degli aspetti che forse si dimenticano è che questo è dovuto anche all’impatto della scienza e della tecnologia sulle nostre condizioni di vita, e di morte. L’accanimento terapeutico è frutto anche di una conquista della scienza che ci permette oggi di prolungare l’esistenza anche in condizioni estreme: e questa, di per sé, non è una cosa di cui dobbiamo aver paura. Si tratta poi di gestirla in modo responsabile, questa conquista. E non di lavarsene le mani. E anche qui gioca di nuovo la nozione di responsabilità individuale: quella di Welby è stata la scelta di un individuo coraggioso e responsabile. E da questo punto di vista mi pare un caso esemplare: né Dio né uno Stato deve impicciarsi nel modo in cui io decido di morire. Per quanto riguarda Dio, si tratta di un dialogo tra lui e la coscienza del singolo quello che conta, e non dell’intromissione di una struttura esterna, nemmeno di una burocrazia religiosa.
Sul piano pratico – capisco che questa visione individualista estrema possa sembrare troppo radicale – una buona garanzia potrebbe essere data a tutti da una ragionevole legge sul living will, cioè su quello che è stato mal tradotto in italiano come testamento biologico. Recentemente ho visto delle proposte estremamente condivisibili formulate da Umberto Veronesi ma non so se le nostre forze politiche hanno il coraggio di affrontare temi così difficili, perché questi sono tempi in cui è necessario trovare un equilibrio di ragioni contrapposte… anche tenendo conto della sensibilità dell’opinione pubblica cattolica, che tra l’altro su questo aspetto non è affatto compatta ma estremamente variegata.
Capisco sia un compito difficile ma penso che un politico vero dovrebbe occuparsi di questi problemi di vita civile seri e difficili, invece pare che si divertano di più a discutere del Partito Democratico o di Mastella, piuttosto che di Berlusconi… Però questo secondo tipo di politica, a me non interessa. Una politica che facesse i conti con il comitato scientifico del nostro Paese, invece, mi interesserebbe. Una politica che si occupasse di un rinnovamento vero della scuola di ogni ordine e grado, compresa l’Università, mi interesserebbe. Ma non è questo che leggo sui giornali o che vedo in televisione.

Lei giustamente ha citato il lungo dibattito sul Partito Democratico. Riguardo a questo c’è un aspetto tutto italiano che mi ha sempre incuriosito tantissimo: il fenomeno dei teodem e di Paola Binetti. Chi sono, politicamente, i teodem? Nel resto del mondo esistono i teocon, e stanno tutti a destra. Solo noi abbiamo la versione “di sinistra”, i teodem appunto… Sono andato a chiedere spiegazioni al principale interessato, che è appunto Paola Binetti, che mi ha risposto: “La nuova sinistra, senza più Marx, senza più materialismo, è la nostra del cattolicesimo sociale. Non c’è altro”.

Intanto, il mondo cristiano è un mondo estremamente variegato. E anche il sottoinsieme del Cattolicesimo è altrettanto diversificato e variegato. Penso a grandi prese di posizione politica contro l’oppressione, contro lo sfruttamento, contro l’imperialismo, che provengono da grandi figure di teologi e di vescovi della Chiesa Cattolica. In America latina, per esempio. E penso al teologo della liberazione Leonardo Boff in Brasile. Penso al vescovo Romero in Salvador, che ha pagato con la vita il suo coraggio. Come si fa a dire che un cattolicesimo di sinistra esiste sono in Italia? Però bisogna stare attenti a come usiamo le parole: penso che la Teologia della Liberazione e le posizioni coraggiose contro le dittature prese da rappresentanti di spicco della Chiesa Cattolica, siano stati un bellissimo esempio di impegno civile. Ma più che di sinistra lo chiamerei un cattolicesimo libertario, estremamente importante. E tra l’altro non sempre Roma, nel senso del Vaticano, lo ha guardato con simpatia.
Quanto ai cristiano-sociali italiani, il loro mi sembra un fenomeno piuttosto provinciale e non lo considero così importante a livello del dibattito internazionale e della dimensione europea. In Italia invece sono importanti perché da noi si sono unite – talvolta in modo curioso – due tradizioni per molti aspetti ostili alla tradizione liberale: un certo tipo di socialismo di certe aree del Partito Comunista, e un certo cattolicesimo che guarda, sì, alle questioni sociali, però con poco rispetto per l’autonomia individuale. Si tratta di un mix di culture che io non amo, e non nutro un eccessivo entusiasmo nemmeno per Don Milani, se devo essere sincero. Non amo l’enfasi cristiano-sociale sugli svantaggiati: non vedo perché gli svantaggiati debbano essere in assoluto privilegiati nella valutazione delle utilità dei vari individui coinvolti nell’interazione sociale. Quindi ritengo che sia meglio optare per un sano liberalismo piuttosto che per le posizioni cristiano-sociali.
Non so se questa è la sinistra… Se la vera sinistra è questa qui, beh, allora me ne vado: do le dimissioni dalla sinistra. Penso invece che la sinistra dovrebbe collocarsi nella grande tradizione dell’Illuminismo: nella rivendicazione dei diritti e in particolare di un diritto, quello della ragione umana di poter liberamente cercare la verità senza dovere chinare la testa di fronte a questa o quella autorità. Se vogliamo dirlo in un altro modo: il diritto di donne e uomini di perseguire la felicità a loro modo, senza doversi mettere in ginocchio di fronte a qualsiasi Dio. Come diceva il grande profeta protestante scozzese John Knox: “Possiamo anche prendere in piedi la cena del Signore”, e parlava ovviamente dell’eucarestia. Ciò vuol dire che si può coltivare la propria esperienza di fede e grazia anche rimanendo in piedi… senza inginocchiarsi.

Lei ha usato il termine “ragionevolezza”. Ed è un termine che, recentemente, così come è accaduto per la patola “laicità”, è stato anche preso dall’altra parte. Si parla di ragionevolezza della fede ed è a mio parere la nuova frontiera della confusione linguistica e intellettuale, e la punta di diamante della filosofia ratzingeriana. Paola Binetti cita per esempio la Fides et Ratio e Benedetto XVI che si appella alla razionalità laicale “che rende tutti noi molto più duttili nel dialogo e nella comprensione reciproca”. Che succede, la Chiesa perde colpi e cerca di rientrare dalla finestra (quella della “ragione”)?

Sinceramente, non riesco a trovare nella Fides et Ratio una grande valutazione della razionalità. Perché si tratta di una razionalità sempre vincolata alla necessità di trovare un fondamentum inconcussum, come recita il latino di quel testo. Io sono abituato ad un altro tipo di razionalità: quella scientifica, dove liberamente può dispiegarsi il conflitto delle opinioni, dove non ci sono altre autorità se non quelle dell’esperienza della buona matematica, dove le verità di oggi possono diventare le bugie di domani, andando quindi oltre il livello raggiunto, dove le fondamenta inconcussa non si raggiungono mai, e dove le soluzioni trovate portano anche delle utilità alle persone. Quando ci sono gli tsunami, sarà interessante che la gente si metta in ginocchio a pregare Dio o Allah o quello che vuole, ma la cosa migliore secondo me è cominciare a studiare la tettonica a zolle, la dinamica delle acque, ecc… in modo da predisporre degli apparati tecnologici che possano impedire il riprodursi di queste disgrazie.

Ultima domanda: come ha letto il fenomeno del Family Day?
Come un disperato bisogno di identità da parte di persone che si trovano un po’ spaventate dalla libertà richiesta da altre persone. Quindi come un fenomeno essenzialmente dettato dalla paura e dal bisogno di rivalsa. Non ho una grande simpatia per quelli del Family Day...
E se da questo viene fuori una politica settaria, sono dell’idea che sia necessario rispondere con tutti gli strumenti che sono a disposizione di donne e uomini che preferiscono invece essere liberi.

Comunicato stampa

Una mostra, un libro e uno spettacolo teatrale si incontrano in una proposta multimediale tra parola, videoarte e danza che sotto il titolo di "Arte senza memoria" si presenta con vari appuntamenti fino al 24 novembre a Firenze presso la Biblioteca Nazionale Centrale e il Cantiere Florida.

Il progetto ha preso il via con la mostra "Arte senza Memoria", allestimento di pittura, scultura e videoinstallazioni a cura dell'Associazione culturale Senza Ragione in collaborazione con la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e con il contributo di Domenico Fargnoli (uno degli artisti che collaborano a "Senza Ragione"), in programma fino a sabato 17 novembre 2007 presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. L'atrio monumentale e la sala di Distribuzione della BNCF ospitano sculture, trasparenze, opere pittoriche e digitali realizzate con varie tecniche e materiali: acrilici, pastelli ad olio, stampa su pvc trasparente oltre ad una serie di fotografie inedite derivate da video.

A chiusura della mostra, il libro "Arte senza memoria" di Domenico Fargnoli sarà al centro di un incontro in programma sabato 17 novembre alle ore 11,00 presso la Tribuna Galileiana della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

Si inizierà con un estratto della performance di danza dal titolo "Incanto". Coreografie di Keith Ferrone con i ballerini del Florence Dance Cultural Center. Sarà presentato il video "Dal dipinto all'immagine" di Domenico Fargnoli e un suo video inedito.

A seguire il dibattito sui temi del libro "Arte Senza Memoria - Psichiatria e Arte" di Domenico Fargnoli.
Interverranno, Antonia Ida Fontana, direttrice della Biblioteca Nazionale Centrale, Vittorio Caporioni, architetto, Simona Ghionzoli, presidente Associazione "Senza Ragione", Domenico Fargnoli, artista e psichiatra e Simona Maggiorelli, giornalista.
Presenti gli attori Daniela Morozzi e Bruno Cortini, interpreti dello spettacolo "La perla tra le labbra".

Il volume raccoglie, oltre al testo originale dello spettacolo "La perla tra le labbra", un dialogo sull'arte a cui ha collaborato la giornalista e critico d'arte e teatrale Simona Maggiorelli, ed infine
Gli interventi degli attori Daniela Morozzi e Bruno Cortini, nonché di Leonardo Ciardi che ha collaborato alla realizzazione della pièce teatrale oltre aver seguito il progetto fin dai suoi esordi.
Il testo, con la sua novità di immagini e di contenuto invita a una riflessione sui risultati raggiunti fin qui dalla videoarte e, soprattutto, spinge a interrogarsi sugli scenari futuri di questo tipo di arte che - nonostante il rapido sviluppo delle tecnologie - appaiono ancora creativamente poco esplorati. Ma il portato di novità di questa realizzazione artistica consiste nell'impostare una rilettura della storia dell'arte del secolo scorso, nonché di quello attuale. Un lavoro di rilettura e, forse, di riscrittura della storia ancora tutto da svolgere e che, lasciandosi alle spalle la retorica surrealista, quella freudiana e non solo, potrebbe cambiare di molto la statura e l'importanza data a certi artisti e movimenti nell'ambito della tradizionale scansione dei manuali.
Le iniziative che si svolgeranno tra la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e il Cantiere Florida, offrono un'occasione preziosa per cominciare ad avventurarsi su questa strada.

La rappresentazione teatrale "La perla tra le labbra" (in scena dal 23 al 24 novembre, ore 21.00, al Cantiere Florida di Firenze - testo di Domenico Fargnoli - interpreti Bruno Cortini e Daniela Morozzi - coreografie e danza Brunella Baldi), costituisce il secondo importante momento della proposta multimediale: lo spettacolo trae spunto dai problemi delle persone affette da deficit auditivo ma rifiuta esplicitamente di fare dell'handicap uno spettacolo.
La diversità del vissuto dei non udenti diventa occasione per porsi delle domande sulla mancanza di sensibilità da parte dei cosiddetti normali. Lo spettacolo teatrale nasce dalla collaborazione dell'associazione Senza Ragione con la Lega Italiana Improvvisazione Teatrale. Il testo è del drammaturgo e psichiatra Domenico Fargnoli, autore anche dei video. Gli interpreti sono Bruno Cortini e Daniela Morozzi che insieme a Fargnoli firmano anche la regia. Coreografie e danza sono di Brunella Baldi.

Lo spettacolo, in continua evoluzione, si presenta al Florida in una nuova versione, identica nei contenuti ma arricchita dalla presenza di sei percussionisti del gruppo "Sdeong" di Francesco Petreni, che offriranno il loro prezioso contributo in termini di energia e di ricerca sul suono e sul ritmo, in profonda sintonia con le musiche originali di Stefano Lentini.
"La perla tra le labbra" non è solo un evento dai forti contenuti sociali e culturali, ma esprime anche una nuova concezione della regia e delle arti visive. Il gruppo di artisti che ha collaborato alla messa in scena ha cercato di sviluppare la propria ricerca su un mondo interiore, in cui visione e suono si compenetrano in una sintesi assolutamente originale. Gli inserti di videoarte, realizzati in digitale, consentono una continua reinterpretazione delle immagini in sintonia con testi, danza e recitazione. Accurata, infine, la ricerca di ritmi, melodie e sonorità delle musiche originali scritte da Stefano Lentini.
Lo spettacolo sarà interamente sottotitolato.
Ingresso:10 euro; Ridotto studenti under 26: 7 euro; Ridotto Cral:5 euro
Biglietteria e prenotazioni Cantiere Florida: Lun-ven 10-13 e 14,30-17.
Tel 055.71.35.357 Fax. O55.71.31.781 - e-mail cantiere.florida@elsinor.net


Informazioni:
Senza Ragione: sito Web: www.senzaragione.it;
Lega Italiana Improvvisazione Teatrale: www.liit.it; Tel. 055.385.00.82
Biblioteca Nazionale Centrale: 055.24919322 - manifestazioniculturali@bncf.firenze.snb.it
La mostra è ad ingresso gratuito, come la performance e il dibattito del 17 novembre.
Orario mostra lun/ven 10-12.30 - 15-18 / sab.10-12,30
L'ingresso allo spettacolo "La perla tra le labbra" è 10 euro, Ridotto studenti under 26: 7 euro, Ridotto Cral: 5 euro
Biglietteria e prenotazioni Cantiere Florida: Lun-ven 10-13 e 14.30-17.
Tel 055.71.35.357; Fax. O55.71.31.781 - e-mail: cantiere.florida@elsinor.net

Ufficio Stampa: Fabrizio Calabrese - cell. 347 5119013 - e-mail: fabriziocalabrese@tiscali.it

giovedì 15 novembre 2007

Liberazione 14.11.07
La presentazione alla Casa della Cultura di Roma dell'ultimo libro di Alberto Burgio su Gramsci è l'occasione di un dibattito aperto su temi storici come egemonia, cesarismo, rivoluzione passiva e blocco storico
Bertinotti-Tronti: ma le primarie sono democratiche?
di Manuele Bonaccorsi
(collaboratore di left)


Attualità e inattualità di Gramsci. Su questo tema, nel ricorrere dei settant'anni dalla morte del dirigente e intellettuale comunista, il presidente della Camera Fausto Bertinotti e il direttore del Centro per la riforma dello Stato Mario Tronti hanno discusso lunedì sera alla Casa della Cultura di Roma con Alberto Burgio, docente di Storia della Filosofia all'Università di Bologna, parlamentare del Prc e autore di Per Gramsci e autore di Crisi e potenza del moderno (Derive e Approdi, pp. 175, euro 14,00). L'analisi storica del pensiero di Gramsci, delle sue potenzialità e innovazioni, ha fatto da sfondo alla critica del presente, alla ricerca dei paradigmi capaci di spiegare la crisi storica della sinistra, e gli strumenti per il suo superamento. Al centro il bisogno di approfondire la riflessione teorico-politica, in un'epoca - come dice Fausto Bertinotti - «nella quale è difficile trovare luoghi per una ricerca di cultura politica, senza la quale non può svilupparsi una comunità capace di dar fiato alla nascita di un "socialismo del XXI secolo"».
L'incontro di lunedì è stato un primo esperimento nella ricerca di spazi dove realizzare uno "scavo teorico", reso ancor più prezioso dalla diversità di accenti tra i tre interlocutori, che si sono divisi e incontrati sull'uso delle categorie gramsciane (egemonia, cesarismo, rivoluzione passiva, blocco storico) sullo sfondo del grande tema della "crisi e potenza del moderno" posto dal testo di Alberto Burgio.
Mario Tronti non ha nascosto l'esistenza, nel pensiero di Gramsci, di «categorie inattuali», a partire dalla difficoltà di rintracciare in una società complessa un "blocco storico" dai confini delimitati. Ma ha definito «di stringente attualità» altri due paradigmi, che rendono Gramsci un autore "antieconomicista", secondo il quale la politica «non è riduzione meccanica dell'economia»: da un lato Tronti recupera il tema dell'egemonia (l'importanza della pedagogia politica e del potere come autorevolezza), definendo centrale nella strategia della sinistra «il rovesciamento del rapporto di egemonia», da raggiungere attraverso «una riorganizzazione delle forze in campo, senza cui non si può passare all'attacco». D'altronde, afferma Tronti citando Gramsci «in una crisi organica, in cui vittorie e sconfitte sono provvisorie, l'assedio è reciproco». Sul tema del cesarismo Tronti e Bertinotti si trovano in disaccordo: il primo mette l'accento sull'ambiguità dialettica del concetto, e utilizza la categoria del "cesarismo democratico", populista. E' il meccanismo delle primarie, che favorisce un «eccesso di importanza delle personalità politiche, rinvenibile, ad esempio, nell'ideale gollista della monarchia repubblicana». Il presidente della Camera, al contrario, distingue tra «il leaderismo debole del centrosinistra italiano», e quello forte, «impersonato da Sarkozy, che riclassifica la politica a partire dall'idea di nazione, e solo poi viene a patti coi poteri forti del capitale». Ma la vera "rivoluzione passiva", per Bertinotti, è la destrutturazione della sovranità subita dai cittadini, la dissoluzione della politica, in primis quella della sinistra, dinanzi al «potere totalizzante del capitalismo»: è il tema della crisi di civiltà. Dinanzi alla quale perde di importanza la distinzione tra destra e sinistra (intesa come espressione politica del movimento operaio) che ha caratterizzato il ‘900. Al loro posto subentrano la coppia alto/basso, dove «il basso non viene intercettato dalla sinistra e si oppone alle stesse regole di organizzazione della società»; e quella amico/nemico, che spinge verso la paura e la ricerca di capri espiatori. La conseguenza è uno «scompaginamento delle identità», che approfondisce la crisi della democrazia. Eppure, anche per Bertinotti che teorizza l'uscita dal ‘900, il pensiero di Gramsci rimane attuale: a partire dal concetto di egemonia, opposto ad ogni determinismo politico, che definisce la trasformazione come «un processo politico-culturale», anche se oggi «è impossibile ripensare l'egemonia sui concetti di blocco storico e partito». Dalla crisi delle categorie del secolo passato, per Bertinotti, si salva anche il tema del «lavoro vissuto, senza il quale è impossibile ricostruire l'alternativa».
Infine Alberto Burgio risponde agli stimoli dei due interlocutori e del pubblico che ha riempito la sala della Casa delle Culture. Burgio ritorna sui temi partito/operaio/destra e sinistra, e li definisce «nomi comuni, non nomi propri», denominatori che si tramutano con la trasformazione della società. «Il partito è organizzazione, coscienza, obiettivi condivisi che rendono operativo il conflitto. E' una categoria superata? Non credo. Sarebbe come dire che la politica può fare a meno di soggetti strutturati». Lo stesso vale per il concetto di moderno, che Burgio, fautore dell'attualità di Gramsci, ritiene per nulla superato. «Anche nella notte dei tempi c'erano germi di progresso». Oggi - nell'epoca in cui il capitalismo è egemone su gran parte del pianeta, nella fase della più profonda crisi della democrazia, come ieri, quando Gramsci si interrogava dinanzi alla venuta del fascismo su «vettori espansivi e risposte regressive» - la crisi custodisce un inarrestabile bisogno di trasformazione e giustizia sociale. In questa dialettica della modernità Gramsci - scrive Burgio - ci fornisce ancora «la partitura teorica della nostra epoca e della sua crisi».

Liberazione 14.11.07
La cultura civile di Genova contro ingiustizie e vendette
Siamo testardi, rifiutiamo l'odio e l'idea del nemico
di Raffaella Bolini


Prc: «Non saremo in piazza contro la polizia»
Genova, sabato 17. verità e giustizia e niente altro

Ci ostiniamo testardamente a credere che questo possa diventare un paese civile. Per questo, ancora una volta, sabato prossimo saremo a Genova. Era un paese decentemente civile quello in cui molti di noi credevano di vivere fino al 20 luglio del 2001, quando ci avviammo incontro alla mattanza con la serenità di chi possiede il privilegio immenso di fare conflitto sociale in una democrazia. Era innanzitutto cultura civile quella che praticammo nei giorni dopo Genova, quando tutta Italia scese in piazza senza che volasse un sasso perché non volevamo diventare come quelli che avevano ucciso, picchiato, torturato.
Ricostruire civiltà in questo paese è ciò che facciamo continuando a chiedere verità e giustizia, pretendendo che le autorità si assumano le proprie responsabilità per la più grave violazione dei diritti umani in occidente dal dopoguerra.
Difendiamo noi stessi, la memoria di Carlo Giuliani, il bisogno di risarcimento morale di tutte le vittime. E insieme, diamo ancora una volta occasione alle istituzioni e alle forze dell'ordine per recuperare a se stesse dignità. In un paese civile, le istituzioni sarebbero le prime a non voler convivere con macchie scure sulla propria coscienza. Dovrebbe essere evidente l'importanza, in una società non feudale, della credibilità che viene dalla trasparenza. Ma questo, evidentemente, non è un paese civile. E' un paese dove le istituzioni sono abituate a convivere con la mafia, con la corruzione. Siamo il paese delle stragi, dei depistaggi, delle connivenze. Il potere difende se stesso, la sua sopravvivenza, la sua intangibilità. E' normale in Italia che i colpevoli siano promossi.
Noi, con la caparbietà di chi continua a difendere l'Italia democratica nata dalla Resistenza, confidiamo che la magistratura impegnata nei processi di Genova e Cosenza voglia fare il suo lavoro in modo indipendente. Confidiamo che saprà giudicare con equità, guardando ai fatti. E che non si presti neppure per un attimo a utilizzare venticinque ragazzi come pesi sui piatti delle bilance giudiziarie a cui finora è affidato, in assenza di una Commissione di Inchiesta parlamentare che ricostruisca le responsabilità politiche di insieme, il compito di trarre le somme dei fatti di Genova. Venticinque ragazzi, molti dei quali colpevoli di aver osato opporre una qualche forma di resistenza alla terribile paura di morire ammazzati dai caroselli delle autoblindo e dai proiettili sparati ad altezza d'uomo.
In questi giorni, ancora, un proiettile sparato a altezza d'uomo da un essere umano in divisa ha ucciso un ragazzo. Dopo Genova, molti di noi hanno imparato a dare più attenzione a quello che accade nelle strade, nei commissariati, nelle carceri dove troppe volte i diritti umani vengono violati. E' lunga la lista delle persone picchiate, umiliate, e qualche volta uccise.
«Manifesteremo pacificamente per chiedere chiarezza sulle violenze di quei giorni, non saremo in piazza per unire coloro i quali sono contro le forze di polizia. Qualsiasi invito a partecipare alla manifestazione che prescinda da tale spirito non è accettabile». Rifondazione, con Michele de Palma, membro della segreteria nazionale e responsabile movimenti del partito, ribadisce perché la macchina organizzativa di associazioni, reti, partiti e forze sindacli si è messa in moto da tempo. Risponde, come fanno in diversi ieri, alla "proposta a mezzo stampa" di Luca Casarini dal Nord-Est, che aveva invitato dalle colonne del Corriere a trasformare la giornata per verità e giustizia sul G8 in una «grande manifestazione contro l'impunità della polizia». Risponde anche Vittorio Agnoletto, ex-portavoce del Gsf ricordanod a Casarini la pregiudiziale antifascista del movimento e la scleta di evitare la spirale repressione-violenza fatta insieme nel 2001 e ribadita nel comune appello per la manifestazione di sabato. Che, ieri, tra l'altro, è stat presentata a Genova, trovandosi la "bella sopresa" di Casarini sulla stampa.
La manifestazione scorrerà su «un percorso semplice, lineare, con strade larghe», ma anche lontano da luoghi simbolo o da obiettivi sensibili, hanno fatto sapere il cartello di promotori (tra cui Arci, Fiom, Lavoro e Società, Prc, Pdci, Comitato verità e giustizia per Genova, Legambiente, Comunità di San Benedetto; Sinistra Democratica e tanti altri). Concentramento alle 14.30 alla Stazione marittima, arrivo in Piazza De Ferrari dove parlerà Don Andrea Gallo e ci sarà un concerto al quale hanno già aderito, a titolo gratuito, Roy Paci, Zulu e gli Assalti frontali.
«La città sta reagendo molto positivamente - ha commentato Mirko Lombardi, responsabile della federazione di Genova del Prc - le prese di posizione della sindaca e del consiglio comunale hanno aiutato molto e ci aspettiamo una grande manifestazione di popolo per chiedere veriutà e giustizia e una commissione d'inchiesta. Dopo sei anni nulla è archiviato»,
Smorza i toni di rischi anche il Prefetto, Giuseppe Romano, «chiunque può venire a Genova a manifestare il proprio pensiero in modo civile e nel rispetto delle regole». «Genova è una città accogliente e chissà che sabato non possa iniziare un processo di "svelenamento" nei rapporti tra forze dell'ordine e parte della società civile». Lo schema, quindi, sarà quello di Firenze per intendersi, polizia ai lati e nessun schieramento militarizzato.

Liberazione 14.11.07
Il vero continente nero?
Parliamoci chiaro, sono gli uomini

di Pierangiolo Berrettoni


Uno studio dotto ma anche molto diretto su "Il maschio al bivio", di cui pubblichiamo uno stralcio dalla premessa.
Dalla costruzione delle identità nell'antica Grecia per arrivare all'oggi: perché una parte dell'umanità ha rinunciato al desiderio?
Il saggio "Il maschio al bivio" è edito da Bollati Borighieri (pp. 288, euro 25), dai prossimi giorni in libreria

Questo libro nasce come profonda revisione di un volume precedente, La logica del genere , in cui avevo cercato di tracciare una sorta di genealogia e archeologia della cultura di genere nel mondo occidentale a partire dal periodo greco antico, quando si sono costituite le griglie interpretative con cui continuiamo in larga misura a organizzare la realtà, compresa quella umana. Partivo da due ipotesi teoriche di fondo: la prima, di lontana origine nella logologia sofistica, vede nel linguaggio un costruttore pragmatico di realtà e un esercizio di potere simbolico, piuttosto che un semplice strumento di rappresentazione; la seconda, più forte, che le griglie categoriali con cui costruiamo la cultura di genere e gli stereotipi del maschile e del femminile siano le stesse con cui le scienze, anche quelle cosiddette neutre e avalutative come la logica, la matematica, la grammatica organizzano discorsivamente e in qualche modo costruiscono i loro oggetti: soggiacente a entrambi gli ambiti è soprattutto lo schema mentale del pensiero dicotomico binario, esclusivo e privativo, che nasce con la tavola pitagorica degli opposti, prosegue con la divisione logica platonica (la diaíresis) e trova, nel campo del discorso di genere, la sua sistematizzazione più completa nella visione freudiana e lacaniana dell'assenza, della privazione, del «buco nero», alla base, per esempio, della teoria della relazione d'oggetto e del desiderio come mancanza o di quella dell'invidia femminile del pene. Ne consegue la logica della non contraddizione e del terzo escluso che, nel campo del discorso di genere, si imbatte nel «perturbante» dell'omosessualità, questo terzo escluso, che sembra turbare la rasserenante di-visione del mondo umano nei due generi esclusivi del maschio e della femmina e che, a partire da un famoso Problema attribuito ad Aristotele, si è presentata al pensiero occidentale come un enigma, un «problema» necessario di una spiegazione eziologica, secondo quella prospettiva epistemologica inaugurata da Aristotele che vede nella meraviglia il motore primo dell'indagine scientifica e soprattutto nel desiderio di «spiegare» ciò che non ci è familiare o ciò che è inatteso, perché perda il suo carattere intrinseco di Unheimlich (perturbante perché non appartiene alla nostra Heimat esperienziale) e di minaccioso; spiegarlo come si «spiega» un foglio, un giornale, un lenzuolo perché non restino, almeno tendenzialmente, pieghe e zone nascoste: vorremmo che nel discorso tutto fosse chiaro ed esplicito per non essere costretti a leggere tra le sue «pieghe».
In quel libro individuavo anche le lontane origini di uno schema mentale ricco di conseguenze nella nostra visione e di-visione della realtà, compresa quella umana: quello «schema comparativo» che inquadra le opposizioni non secondo la semplice constatazione di una differenza (l'uomo è differente dalla donna, il bambino è differente dall'adulto), ma secondo l'attribuzione di tratti sulla base del più e del meno (l'uomo è più/meno x della donna, il bambino è più/meno y dell'adulto e così via). Schema importante e inculcato per due millenni dai detentori del potere simbolico, perché nella visione classica il punto di vista descrittivo e definitorio non è mai separato da quello assiologico e valutativo, sicché l'analisi delle differenze si è sempre impostata secondo una prospettiva gerarchica.
Così com'era, il libro era troppo ampio e conteneva troppe digressioni specialistiche di tipo logico e grammaticale, che potevano scoraggiare un pubblico più vasto. È nata, così, l'idea di una sua riduzione drastica e di una sua concentrazione intorno a una sola delle due polarità di genere: il maschile nelle sue due varianti meno conflittuali di quanto siamo portati a pensare, ma anzi in qualche modo «complici», come cercherò di mostrare, il maschio eterosessuale e quello omosessuale.
L'ho intitolato Il maschio al bivio , sia perché l'immagine del bivio si è costituita attraverso il mito di Ercole come una delle componenti più insistenti nella formazione di un'identità maschile fondata sulla scelta tra impegno/fatica (pónos) e impenetrabilità da una parte, piacere, desiderio, edonismo, paticità dall'altra, sia perché il maschio occidentale, nella sua millenaria dialettica con il femminile, si è gravato nella cultura moderna di un ulteriore «fardello», la scelta esclusiva e dicotomica tra omosessualità ed eterosessualità.
Non ho usato casualmente il termine «fardello», se uno dei miti più tenaci con cui il maschio ha costruito il proprio sistema di dominazione è stato proprio quello del white man's burden , che non si è configurato necessariamente come cattiva coscienza e mistificazione, ma come autoimposizione (al limite del masochismo) di una logica e di un'etica del sacrificio, della rinunzia e della frustrazione. Quando Freud costruiva la sua teoria della civiltà come rinunzia al soddisfacimento immediato dei bisogni da parte dei fratelli in seguito all'uccisione del padre, non si rendeva ben conto che questa rinunzia era più precisamente all'origine del potere androcentrico istituito con una serie di interdizioni, quella dell'incesto (con il conseguente scambio delle donne e la loro riduzione a segni), dell'equa distribuzione del lavoro sessuale, del desiderio omosessuale, in ultima analisi della liberazione del desiderio, di cui si è forcluso il carattere fluido ed «emanante» in favore di quello fondato sulla mancanza.
Per lungo tempo Freud si è posto il problema di rispondere alla domanda su che cosa voglia la donna: nella trentatreesima lezione introduttiva alla psicoanalisi tenuta nel 1933 sulla femminilità (Die Weiblichkeit), iniziava l'esposizione affermando che durante il corso della storia si era sempre presentato il rompicapo (Grübel) sull'enigma (Rätsel) relativo alla determinazione della natura femminile, e presumeva che anche i suoi ascoltatori maschi si ponessero il problema, diversamente dalle donne, perché proprio loro sono il problema («Von den Frauen unter Ihnen erwartet man es nicht, sie sind selbst dieses Rätsel», Freud 1932/1979, p. 220). Oggi sappiamo, naturalmente, che la domanda sul desiderio femminile era mal posta o, per meglio dire, apparteneva a quello strato del pensiero freudiano che era maggiormente datato e più affondava le proprie radici nella cultura del periodo in cui si era formato: non un'acquisizione definitiva e atemporale, dunque, ma piuttosto un frammento di discorso di cui si può fare storia; l'enigma femminile non appartiene tanto a un Ewig-Weibliches presunto pancronico, quanto al più ampio regime discorsivo sulla donna di un'epoca ben precisa, che si riverbera nelle figurazioni delle Giuditte klimtiane, nelle donne con le calze nere di Schiele, nella Salomè e nell'Elettra straussiane.
Così come oggi sappiamo che il senso profondo di quella domanda dello scopritore dell'inconscio riguardava in realtà il desiderio e, più ancora, le paure dell'uomo, e si sarebbe dovuto formulare piuttosto come domanda su che cosa voglia l'uomo, se non fosse che i regimi discorsivi interni alla cultura di quel periodo non avevano ancora preparato l'uomo a interrogarsi su sé stesso e i suoi desideri, per quanto proprio Freud stesse aprendo una radura nel terreno in cui si sarebbero potute porre più tardi queste domande.
Le rivoluzioni della modernità, soprattutto quella femminista e quella omosessuale, hanno posto il maschio di fronte alla necessità di ripensare la propria identità in termini diversi, quando non alternativi, a quelli ereditati da millenni di costruzione dei valori dell'androcentrismo.
A chi, come me, si sia posto il problema doloroso di ripensare in termini nuovi la propria identità di genere, la posizione freudiana appare ribaltabile e proprio il maschile si costituisce come il vero enigma.
In particolare sono due gli enigmi maschili che mi sembrano particolarmente difficili da comprendere.
Il primo è come mai il maschio, nell'imporre il proprio modello di dominazione sulla donna, ma anche sul bambino, il barbaro, il selvaggio, in altre parole nell'inventare una logica e un ethos imperiali e «civilizzatori», abbia accettato di sottoporsi a una serie di fardelli che vanno dalla fatica del corpo alla rimozione delle emozioni e dell'affettività: è il «paradosso della dóxa» di cui parla Pierre Bourdieu, in base al quale, per accettare e addirittura valorizzare stili di vita ai limiti dell'inaccettabilità, siamo addirittura costretti a inventare e costruire sistemi discorsivi di dominazione simbolica che puntano sulla naturalizzazione dell'arbitrario, ovvero sull'elaborazione di una retorica del discorso scientifico che riesca a inculcare e incorporare come «naturali» valori e di-visioni che hanno invece un'origine tutta culturale.
Il secondo enigma che continuo a trovare senza risposta è come mai il maschio imperiale, temprato a ogni sorta di rinunzia e sacrificio, capace di affrontare deserti assolati e lande ghiacciate, nostalgie e pericoli, guerre e massacri per compiere la propria missione civilizzatrice, si mostri, poi, particolarmente «fragile» non solo nel campo delle emozioni, ma anche e soprattutto in quello dell'autoaccudimento quotidiano e bisognoso di delegare all'altro, perlopiù la donna o un suo sostituto (l'attendente), la propria stessa sopravvivenza emozionale e materiale: interrogativi forse impossibilitati a trovare una risposta, se non quelle parziali che ci danno la psicoanalisi e le archeologie dei saperi-poteri su cui si basano i vari sistemi di dominazione.

Liberazione 14.11.07
"Mein kampf", quel libro di Adolf Hitler venduto nella Libreria della Stazione
di Bianca Bracci Torsi
*


Nell'atrio della Stazione Termini di Roma c'è la grande e modernissima Libreria della Stazione, tappa obbligata per chi parte e vuole qualcosa da leggere in treno, per chi deve rimediare in fretta un regalo intelligente, ma anche per ferrovieri, pendolari e passanti desiderosi di aggiornarsi sulle novità o cercare il libro di cui si parla.
Da qualche giorno tutti questi cittadini/lettori sono sottoposti ad uno shock brutale: in bella mostra nel settore Storia della libreria ci sono tre pacchi di un volume sulla cui copertina rossa spiccano in nero una svastica e una scritta in caratteri goticheggianti: "Mein kampf" di Adolf Hitler.
Si tratta della opera prima (e unica, per quanto se ne sa) che il futuro fuhrer tedesco scrisse nel 1924 con la collaborazione di Rudolph Hess durante la breve permanenza in carcere dove entrambi scontavano un tentativo di colpo di Stato.
Suddiviso in due ponderosi volumi il saggio comprende la storia del movimento nazionalsocialista e la sua ideologia, un misto di aberranti teorie eugenetiche sul diritto/dovere di uccidere i diversi e gli inferiori e gli attacchi alla democrazia parlamentare, oltre che al marxismo, direttamente ripresi dal fascismo italiano delle origini.
Il vero filo conduttore comunque è il concetto di "razza eletta" e il conseguente razzismo, base del nazionalsocialismo che sostituisce la lotta di razza alla lotta di classe, programma la distruzione fisica degli ebrei e lo sterminio dei bolscevichi con una "guerra di razza" che dovrebbe consentire ai puri ariani tedeschi di installarsi nei territori dell'Europa orientale riuniti in un unico Stato sotto l'indiscusso potere del superuomo descritto da Nietzsche, cioè Hitler stesso.
Alla sua uscita fra il ‘25 e il ‘26 "Mein kampf" ebbe scarso successo e scarsissima diffusione ma si rifece ampiamente negli anni 30 quando ridotto ad unico volume e con il titolo oggi noto fu stampato in milioni di copie ed entrò trionfalmente in tutte le scuole e in quasi tutte le case tedesche, acquistato per convinzione, per opportunismo, per paura.
Dopo la sconfitta del nazifascismo gran parte di quelle copie, invendute o gettate al macero dai loro proprietari, furono distrutte.
Il governo della Baviera, legittimo erede dei diritti d'autore, ne vieta la riproduzione e la vendita in Germania consentendo solo il possesso e l'acquisto di vecchie copie per cui i neo-nazisti tedeschi debbono accontentarsi di ristampe introdotte in modo semi clandestino in Germania ma provenienti da altri paesi, soprattutto dagli Usa.
Sembra che un nipote di Hitler, che potrebbe rivendicare i diritti d'autore, abbia dichiarato di "non volere aver nulla a che fare con quel libro".
In Olanda la vendita è illegale, in Francia è autorizzata solo per motivi di studio, con una premessa esplicativa, negli altri paesi, Italia compresa, stampa, vendita, propaganda sono libere.
Le copie in vendita alla Libreria della Stazione, edite da La Lucciola di Varese nel 1992 per un limitato giro di lettori, escono oggi dal sottobosco dei nostalgici vecchi e nuovi per proporsi al grande pubblico e non è necessaria una particolare malizia per collegare questo lancio al rigurgito di razzismo che nel nostro Paese è stimolato e diffuso dai gruppi neofascisti e neonazisti e dalle forze politiche della destra parlamentare. Quando il Presidente di An, Gianfranco Fini, definisce i Rom "una etnia, una cultura non assimilabili" al civile consorzio umano, non solo una piccola casa editrice di destra e una grande libreria possono ritenere legittimati e perfino interessanti i deliranti progetti per il dominio del mondo sognato dal caporale Adolf Hitler.
Un sogno che è già costato milioni di morti, distruzioni immani, coscienze irrimediabilmente svuotate dalla loro umanità.
E' troppo chiedere che l'ostracismo e la condanna del nazifascismo siano parte delle leggi fondative e del sentire comune almeno di quei Paesi che del nazismo subirono tutto l'orrore?
*Responsabile nazionale Prc dipartimento Antifascismo


l’Unità 15.11.07
Ogni 2 giorni viene uccisa una donna
di Maria Zegarelli


Bindi: le famiglie sono più fragili, più servizi e sostegno. Pollastrini: avanti con la legge antiviolenza

Dal 2000 al 2005 sono state uccise 1081 donne: 180 l’anno, una ogni due giorni. L’inquietante, tragico dato risulta da una ricerca curata dall’EU.R.E.S (ricerche economiche e sociali).
E anche se non finiscono ammazzate sono vittime di devastanti violenze: due milioni 938mila le donne che lo scorso anno hanno subito violenza fisica o sessuale; tra queste 336mila sono state vittime di stupri e 267mila di tentativi di stupro. Autori dei reati sono per lo più ex mariti ed ex conviventi (22,4%), ex fidanzati (13,7), mariti o conviventi (7,5%) e fidanzati (5,9).

FAMIGLIA OSCURA A volte violenta, luogo di abuso e sopruso. Donne sempre più vittime, ma che, se esasperate, si armano come gli uomini (molto meno spesso, dati alla mano) e colpiscono con la stessa ferocia. Il fenomeno della sopraffazione fisica, ses-
suale, psicologica ed anche economica, è più allarmante di quanto si possa immaginare, molto più diffuso di quanto gli stessi numeri dicono oggi con chiarezza ma non con adeguata certezza considerando che le donne vittime di violenza tra le mura domestiche non sempre denunciano. Due milioni 938mila, quelle tra i 15 e i 70 anni, che lo scorso anno hanno subito violenza fisica o sessuale; tra queste 336mila sono state vittime di stupri e 267mila di tentativi di stupro. Autori dei reati sono per lo più ex mariti ed ex conviventi (22,4%), ex fidanzati (13,7), mariti o conviventi (7,5%) e fidanzati (5,9). Il 18,2% delle vittime neanche considera reati quelli che ha dovuto subire: un dato questo che risulta altrettanto allarmante di quello relativo al numero delle violenze. Ci sono donne che percepiscono la sopraffazione come un fatto «lecito», altre invece che - come emerge dalla relazione della dottoressa Isabella Merzagora Betsos (dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Milano) restano in casa e non lasciano il marito violento perché sanno che la reazione all’abbandono potrebbe essere addirittura più feroce. In Italia ogni anno muoiono per mano del marito, del fidanzato o dell’ex 180 donne, una ogni due giorni. Per otto maschi uccisi da una donna, ci sono 37 donne vittime di violenza maschile. I dati sono stati presentati ieri nel corso di un convegno organizzato dai ministeri di Famiglia e Pari Opportunità, svoltosi a Roma. A vederli tutti insieme raccontano un’ecatombe: dal 2000 al 2005 gli omicidi volontari sono stati 4129, di cui ben 1190 consumati in famiglia, con 1081 donne vittime. Vero è che nell’arco di 15 anni anni (dal 1990 al 2005) gli omicidi volontari sono scesi da 1695 a 601, ma il numero di donne uccise volontariamente è diminuito molto meno passando da 184 a 132, mentre spesso l’accanimento dell’assassino sul corpo della compagna o dell’ex compagna ha assunto sempre maggiore ferocia. Un altro dato che si discosta dalla tipologia della vittima rispetto a qualche decennio fa (quando la violenza in famiglia trovava terreno fertile nell’ignoranza e nella povertà) riguarda anche il grado di istruzione ed economico delle donne che subiscono violenze di ogni tipo: oggi il maggior numero di quelle coinvolte sono laureate (il 46%) e affermate professionalmente (il 50,55% sono imprenditrici e dirigenti), mentre quelle più a rischio risultano essere quelle separate o divorziate (il 63%). La fascia di età più colpita è quella tra i 16 e i 54 anni.
Il maschio italiano perde sicurezza e diventa più violento. «Ma forse questi dati ci indicano quanto la famiglia stessa sia diventata più fragile», osserva la ministra Rosy Bindi, ricordando come proprio la famiglia sia stata sempre più abbandonata a se stessa, senza più una rete di servizi in grado di supportarla nel lavoro di cura dei figli, degli anziani e spesso senza neanche la certezza di un lavoro sicuro. Servono politiche per la famiglia, una rete dei servizi efficace e una magistratura «preparata». «I consultori devono tornare a svolgere la funzione per la quale erano nati e che per anni hanno svolto egregiamente - sostiene Bindi -. In questi anni c’è stata una regressione dei consultori a una funzione di sanitarizzazione. Non voglio aprire un conflitto sugli strumenti, ma o i conservatori tornano a fare il loro mestiere, o si devono trovare altri strumenti». Come «i centri famiglia», ad esempio. Spetta anche alle Regioni scegliere. Al governo spetta, invece spingere affinché il ddl contro la violenza diventi legge in parlamento superando l’opposizione di «chi la considera contro la famiglia e di chi ne vede una interpretazione familistica della società». «Sono contenta dello stralcio sulle norme che riguardano lo stalking - aggiunge -, auspico anche io che vengano approvate, magari in sede legislativa in commissione, per il 24 novembre,ma non mi accontento. Non sono disposta ad immolare a queste due norme l’intero ddl che contiene misure rigorose ed efficaci». Stessa posizione la ministra Barbara Pollastrini: «È un testo che va subito trasformato in legge dello Stato, capace di rispondere alle aspettative di tante e tanti. D’altronde, nel dibattito alla Camera che ha votato lo stralcio, molti gruppi si sono dichiarati a favore della corsia preferenziale per la parte restante del disegno di legge».

l’Unità 15.11.07
La Cosa rossa accelera. E diventa «la Sinistra»
Emendamenti unitari e speaker unico in Senato. E nel simbolo il lavoro, non la falce e martello
di Simone Collini


I GRAFICI hanno iniziato a buttare giù alcuni bozzetti ed entro due, tre settimane al massimo Franco Giordano, Oliviero Diliberto, Fabio Mussi e Alfonso Pecoraro
Scanio sceglieranno il simbolo con cui la “Sinistra” si presenterà al voto amministrativo di primavera. La volontà comune è di presentarlo in apertura degli Stati generali convocati a Roma per l’8 e 9 dicembre, ma la strada non è tutta in discesa. L’unica cosa certa è che non sarà una sommatoria dei simboli esistenti e che non compariranno falce e martello, difesi in questo contesto soltanto dalle minoranze di Rifondazione comunista. Per il resto, il segretario del Pdci rimane convinto che vada inserito un chiaro riferimento al mondo del lavoro, quello del Prc che si debba tener conto delle battaglie portate avanti ultimi anni dalla cosiddetta sinistra di alternativa, il leader dei Verdi vuole far emergere che si tratta di un soggetto non solo di sinistra ma anche «degli ecologisti» e per Sd si deve dare il segno di una «sinistra italiana nuova e moderna». Rebus non facile, che finora non ha trovato soluzione nell’ipotesi minimalista di un campo rosso e verde solcato dalla scritta bianca “Sinistra” e neanche in quella di una semplice riproduzione della bandiera arcobaleno.
Ieri si è svolto a Montecitorio un incontro a cui hanno partecipato esponenti di tutte e quattro le forze coinvolte nel progetto, e dopo tre ore di discussione si è deciso di accelerare i tempi, istituendo un gruppo di lavoro per l’elaborazione del simbolo (in cui sono presenti non soltanto grafici) e uno per la campagna di comunicazione dell’assemblea di dicembre, nella quale questo dovrà essere presentato insieme a una carta dei valori e a una bozza di piattaforma programmatica.
La scelta di andare al voto insieme e di dar vita a quello che viene definito un soggetto «unitario, plurale e federato» non archivia comunque né i simboli né i partiti esistenti. Rimane infatti la divisione tra Pdci e Verdi da una parte, che vedono nella federazione l’obiettivo oltre cui non è possibile andare, e Rifondazione e Sinistra democratica dall’altra, per le quali questo non può che essere un passaggio intermedio in vista di un approdo unitario. Posizioni ribadite ieri da Angelo Bonelli e Paolo Cento per i Verdi, da Marco Fumagalli e Titti Di Salvo per Sd, Orazio Licandro e Jacopo Venier per il Pdci e da Walter De Cesaris, Michele De Palma, Roberta Fantozzi e Daniela Santroni per il Prc. «Sinistra democratica si è costituita in un movimento in attesa di dare vita ad un soggetto unitario», ha ribadito la capogruppo alla Camera Di Salvo, «una sinistra moderna e di governo». Anche il responsabile Organizzazione del Pdci ha spiegato che l’intenzione non è quella di dar vita a «una mera sommatoria» o a un «cartello elettorale», però ha fatto anche capire che il partito di Diliberto oltre la federazione non vuole andare: «Nessuno si scioglierà in questo percorso perché le identità e le storie sono elementi di ricchezza e non certo zavorra. Questo vale anche per il simbolo».
Ma non c’è solo il nodo dell’approdo finale e quello del simbolo da sciogliere. Se il primo può essere affrontato a più lunga scadenza, insieme al secondo ce n’è un altro da sciogliere entro l’8 dicembre: la legge elettorale. Perché come è stato riconosciuto da tutti al vertice di ieri, non si può aprire l’assemblea degli Stati generali, che di fatto dà il via alla fase costituente della sinistra unitaria, senza un accordo su questo fronte. E nei prossimi giorni il tema dovrà essere affrontato in una riunione ad hoc.
Passi avanti verso l’unità ieri sono stati compiuti anche su altri fronti. I gruppi al Senato di Prc, Verdi, Pdci e Sd, che hanno lavorato congiuntamente sugli emendamenti, si pronunceranno con un’unica dichiarazione in aula per il voto finale sulla Finanziaria, inaugurando così la formula dello speaker unico decisa al vertice dei leader dei giorni scorsi. Inoltre i quattro partiti hanno chiesto unitariamente un incontro con il ministro Amato in vista della manifestazione sul G8 del 17 novembre a Genova, per ottenere dal governo l’impegno a garantire «il regolare afflusso dei manifestanti».

l’Unità 15.11.07
Per «l’Unità», un comitato di garanti e una Carta dei valori
«Difendiamo l’autonomia e la storia del giornale»: ieri l’iniziativa del Cdr. Solidarietà da Scola, Ovadia, Ravera, Nicolini


Un comitato di garanti di peso e di alto profilo che, sulla base di una Carta dei valori che sia vincolante per proprietà e direzione, garantisca l’autonomia e l’indipendenza de l’Unità. Lo propone il comitato di redazione del giornale in vista del nuovo assetto proprietario, in corso di trattative, che farà capo alla famiglia Angelucci, già editore anche di un quotidiano dalla linea politica opposta a l’Unità qual è Libero. Una situazione inedita anche in un panorama difficile come quello italiano.
La proposta è stata resa pubblica ieri nella sede romana della Federazione nazionale della stampa. Il cui presidente Franco Siddi, in conferenza stampa insieme ai giornalisti del quotidiano, ha spiegato perché appoggia l’idea del comitato di garanti di fronte a nuovi proprietari: «L’Unità, giornale fondato da Gramsci, con una grande storia, che è patrimonio collettivo, non può mai dimenticare la sua natura non mercantile. Deve misurarsi con il mercato ma senza piegarsi. L’anima di un giornale non può essere messa in vendita come non sono in vendita i suoi giornalisti». E sull’autonomia politica della testata? «Non vorrei ci fosse un disegno normalizzatore». «È come se la famiglia Moratti - commenta Roberto Natale della Federazione - oltre all’Inter volesse comprare anche il Milan». Se accadesse succederebbe il finimondo.
Insieme ai tanti lettori che ci scrivono perché costernati dalla prospettiva di vedere la testata fondata da Antonio Gramsci avere il medesimo editore di un quotidiano schierato a destra, ieri hanno mandato messaggi di appoggio personalità come il regista Ettore Scola, come il parlamentare Ds Giuseppe Giulietti, oltre a intellettuali che collaborano con la nostra testata come Moni Ovadia, Lidia Ravera e Renato Nicolini. E il cantante del gruppo dei Têtes de bois è venuto di persona nella sede del sindacato dei giornalisti. «L’autonomia non può essere messa in discussione, è un valore per la democrazia e per il pluralismo», ha affermato la rappresentanza sindacale che ha annunciato di volere un incontro urgente con Marialina Marcucci, presidente della Nuova iniziativa editoriale che edita l’Unità.
Dunque due gli strumenti essenziali che il cdr propone: primo, una Carta dei valori a cui la testata, e la proprietà, debba attenersi e che sia vincolante; secondo, il comitato dei garanti formato da personalità d’alto profilo, e di cui prevede l’istituzione anche il contratto nazionale dei giornalisti, che avrà il compito di far rispettare quei valori. Intanto il cdr ricorda di avere a disposizione, su mandato dei giornalisti, un pacchetto di sette giorni di sciopero.

l’Unità 15.11.07
Rom, no al triangolo nero: nessun popolo è illegale
di Valeria Trigo


L’APPELLO Oltre trecento tra scrittori, artisti e intellettuali firmano un manifesto contro la criminalizzazione dei rumeni e il silenzio sulla violenza alle donne: i delitti individuali non giustificano castighi collettivi

«Il triangolo nero. Violenza, propaganda e deportazione. Un manifesto di scrittori, artisti e intellettuali contro la violenza su rom, rumeni e donne»: oltre trecento tra scrittori, artisti e intellettuali italiani hanno deciso di far sentire la loro voce, stanchi di assistere alla deriva razzista che attraversa il nostro paese, purtroppo aggravata dalla morte violenta di Giovanna Reggiani. Non potendo rimanere indifferenti alla guerra contro i poveri che si sta combattendo in Italia e rivendicando il diritto di critica di fronte alla dismissione dell’intelligenza e della ragione. Una specie di comunità, non solo virtuale, che smentisce le accuse ripetute dai cosiddetti opiniosti nei confronti della non partecipazione degli scrittori italiani alle questioni sociali.
Da giorni la rete era in fibrillazione, grazie alla mobilitazione di Alessandro Bertante, Gianni Biondillo, Girolamo De Michele, Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Monica Mazzitelli, Marco Philopat, Marco Rovelli, Stefania Scateni, Antonio Scurati, Beppe Sebaste, Lello Voce e il collettivo Wu Ming. Nasce così - da una partecipazione sempre più crescente, da arricchimenti reciproci e da un principio di base sacrosanto e imprenscindibile, riassumibile nella frase «Nessun popolo è illegale» - l’appello-manifesto al quale hanno aderito finora in più di trecento e che da oggi sarà in rete, su Carmillaonline, Wumingfoundation, Lipperatura, Nazione Indiana, beppesebaste.blogspot.com, Articolo 21 e francarame.it. Tra i nomi, quelli di Roberto Saviano, Sandro Veronesi, Franca Rame, Bernardo Bertolucci, Moni Ovadia, Simona Vinci, Botto&Bruno, Massimo Carlotto, Carlo Lucarelli, Nanni Balestrini, Mauro Covacich, Erri De Luca, Giuseppe Montesano, Valeria Parrella, Enrico Palandri e Ugo Riccarelli (del quale in questa pagina pubblichiamo un testo che lo scrittore romano ha affidato a un quotidiano svizzero).
«Odio e sospetto alimentano generalizzazioni - si legge nel manifesto -: tutti i rumeni sono rom, tutti i rom sono ladri e assassini, tutti i ladri e gli assassini devono essere espulsi dall’Italia. Politici vecchi e nuovi, di destra e di sinistra, gareggiano a chi urla più forte, denunciando l’emergenza. Emergenza che, scorrendo i dati contenuti nel Rapporto sulla Criminalità (1993-2006), non esiste: omicidi e reati sono, oggi, ai livelli più bassi dell’ultimo ventennio, mentre sono in forte crescita i reati commessi tra le pareti domestiche o per ragioni passionali. Il rapporto Eures-Ansa 2005, L’omicidio volontario in Italia e l’indagine Istat 2007 dicono che un omicidio su quattro avviene in casa; sette volte su dieci la vittima è una donna; più di un terzo delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, e il responsabile di aggressione fisica o stupro è sette volte su dieci il marito o il compagno: la famiglia uccide più della mafia, le strade sono spesso molto meno a rischio-stupro delle camere da letto».
Ma, nonostante i fatti, nel nostro paese rimane il vizio dell’«emergenza continua». Dopo la morte di Gabriele Sandri, il ragazzo laziale ucciso da un poliziotto, tutti i quotidiani esteri hanno commentato: «l’Italia è il paese dei problemi che non si risolvono mai». Più «facile» agitare uno spauracchio collettivo piuttosto che affrontare seriamente e risolvere le vere cause dell’insicurezza sociale. O continuare a sfruttare le ragazze immigrate e la manodopera piuttosto che attuare le direttive europee (come la 43/2000) sul diritto all’assistenza sanitaria, al lavoro e all’alloggio dei migranti: nei cantieri ogni giorno un operaio rumeno è vittima di un omicidio bianco.
Il rischio è enorme: «Si sta sperimentando la costruzione del nemico assoluto, come con ebrei e rom sotto il nazi-fascismo, in nome di una politica che promette sicurezza in cambio della rinuncia ai principi di libertà, dignità e civiltà; che rende indistinguibili responsabilità individuali e collettive, effetti e cause, mali e rimedi. Manca solo che qualcuno rispolveri dalle soffitte dell’intolleranza il triangolo nero degli asociali, il marchio d’infamia che i nazisti applicavano agli abiti dei rom».

l’Unità 15.11.07
Il convegno. A Firenze
Gramsci e l’identità nazionale
di Renzo Cassigoli


«Quello di Antonio Gramsci è stato l’ultimo grande tentativo novecentesco di pensare in maniera organica l’identità dell’Italia come nazione. Quando con Gramsci parliamo di un’Italia che ritrovi la via dell’identità e rifletta sulle ragioni sociali, culturali, politiche che l’hanno bloccata affrontiamo un tema che era anche di Machiavelli».
Gaspare Polizzi, membro del comitato scientifico del convegno che si terrà da oggi a sabato a Firenze, nel Salone de’ Dugento in Palazzo Vecchio, ne richiama alcuni temi fondamentali.
Muoviamo dalla lingua che per Gramsci è la questione fondamentale per l’identità nazionale.
«Si può dire che Gramsci prima d’essere un pensatore politico fu uno studioso di linguistica, anzi fu un linguista, il tema quindi è strettamente connesso alla sua formazione ma anche al suo pensiero politico. Pensiamo, ad esempio, a come per Gramsci la lingua sia la forma attiva che identifica un popolo come nazione e quindi, come attraverso la lingua si costituisca l’identità nazionale. Un tema che al convegno sarà approfondito da Tullio De Mauro».
Cosa si intende, parlando di Gramsci, per «nazione mancata»?
«È il grande tema del Risorgimento come “rivoluzione incompiuta”, come rivoluzione “passiva” che attraversa tutta la fase risorgimentale per ritrovarsi poi nella grande crisi del fascismo. Nell’assetto di una egemonia che ha nel fascismo il carattere specifico di “rivoluzione passiva”. Un elemento che per Gramsci è centrale nella crisi del Novecento e che, per l’Italia, richiede una “guerra di posizione”, come Gramsci sosteneva. Cioè di una lotta per l’egemonia che deve trovare nella dimensione culturale, educativa, e poi nella politica una sua via per svilupparsi. Ecco, questa dimensione appartiene al rigore intellettuale di Gramsci e come tale va ampiamente valorizzata. Per Gramsci la questione culturale e linguistica sono alla radice dell’egemonia e dell’identità nazionale, del tutto in contro tendenza con lo stato della cultura e dell’educazione in Italia».
Un tema quanto mai attuale.
«La qualità di questa nostra riflessione sta proprio nell’utilizzo delle categorie gramsciane per riflettere sulla crisi dell’Italia oggi, la crisi di una nazione che sembra ancora essere alla ricerca di una sua identità. Per questo non abbiamo voluto fare del convegno un’assise di specialisti, ma intendiamo valorizzarne il carattere pluridisciplinare e la dimensione assolutamente attuale del pensiero gramsciano. Vogliamo chiederci, cioè, cosa può dirci oggi Gramsci sull’identità nazionale. Il tema è ancora molto caldo.

Repubblica 15.11.07
Il gip: dagli ultrà romani attacco allo Stato
Gli arrestati restano in cella. Il procuratore di Arezzo: imperdonabile l'agente che ha sparato
di Marino Bisso e Maurizio Bologni


ROMA - «Nulla giustifica il poliziotto che ha sparato ad altezza d´uomo. E´ stato un atto di follia imperdonabile». All´uscita dal tribunale il capo della procura di Arezzo, Ennio Di Cicco, è severo con Luigi Spaccarotella, l´agente che domenica ha ucciso Gabriele Sandri sparando da un´area di servizio all´altra dell´autosole. «Poteva andare peggio - aveva detto in precedenza il magistrato - Se il proiettile avesse centrato un veicolo di passaggio avrebbe potuto innescare una tragedia di grandi proporzioni». Il reato verrà rubricato come omicidio volontario. E´ questione di ore. «Ci sono due testimoni chiave nella vicenda ed entrambi escludono che l´agente sia inciampato» dice Di Cicco. I due testimoni, un rappresentante e uno dei quattro tifosi laziali che viaggiavano con Sandri, dicono di aver visto il poliziotto salire su un cumulo di terra e sparare con le braccia tese. Ieri si è presentato uno degli occupanti della Mercedes Classe A che avevano avuto uno scontro con i tifosi laziali, ma non avrebbe aggiunto elementi utile: la vettura era già ripartita quando il colpo ha raggiunto al collo Gabriele Sandri (si è saputo che il giovane, in occasione di Milan-Lazio del 10 gennaio 2002, fu fermato nei presi dello stadio assieme ad altri 24 laziali che avevano cacciaviti e taglierini).
Intanto i giudici confermano la matrice eversiva degli incidenti di domenica. Il Gip di Roma Enrico Imprudente convalida l´arresto di due tifosi e motiva: «Si è tentato di condizionare i pubblici poteri dello Stato. E´ dai tempi più bui della Repubblica che non si verificavano assalti alle caserme. Si denota l´esistenza di un´organizzazione che ha come fine quello di creare un clima di paura». In sintonia è il gip di Milano Guido Salvini che manda ai domiciliari due arrestati per scritte che inneggiavano alla morte dell´ispettore Raciti: «Negli ultimi tempi le organizzazioni oltranziste dei tifosi si sono sempre più frequentemente presentate come una nuova "area antagonista" violenta, impegnata ad attaccare i poteri pubblici, con manifestazioni e cortei analoghi a quelli dell´estremismo politico eversivo con il quale sono sovente in collegamento».
E´ stata giornata di processi in tutta Italia. Sempre a Milano tornano liberi altri otto arrestati. Convalide, sette, a Bergamo, e a Taranto (nove). Altri slogan contro la polizia sono comparsi in varie città, da Palermo a Viterbo, da Bologna a Treviso, e ieri mattina in via Le Petit a Roma un grosso petardo, che non è esploso, è stato lanciato sotto un´auto della polizia. A Fiesole, sopra Firenze, è successo di peggio. Otto giovani, redarguiti per aver posteggiato male, si sono scagliati contro i vigili urbani cercando di disarmarli e gridando «sparateci a tutti come avete fatto a quel ragazzo». Il ministro dell´Interno, Giuliano Amato, avverte da Alghero che non saranno tollerate nuove violenze: «Se dovessero avvenire altri disordini, la scelta non sarebbe quella di domenica sera, che era un giorno speciale per la morte di questo ragazzo, e le forze di polizia decisero di evitare lo scontro fisico e di limitarsi a difendere le sedi. Oggi la scelta non sarebbe questa». Il ministro dell´interno ha il sostegno di Romano Prodi: «La linea Amato è concordata e, soprattutto, condivisa dal governo».

Repubblica 15.11.07
Cefalonia. Gli ultimi sette fantasmi l´Italia riapre l´inchiesta
di Carlo Bonini


I giudici indagano su un gruppo di soldati tedeschi parteciparono al massacro di oltre 4mila militari

I conti con la barbarie nazista non sono chiusi. Gli almeno 4 mila morti italiani di Cefalonia non possono riposare in pace. Non ancora, almeno. Restano sette fantasmi. Sette vecchi. Sopravvissuti ai loro orrori di soldati del Reich. Tenente Max Kurz, comandante della 14esima compagnia del 98esimo reggimento alpino. Sottotenente Ottmar Muhlhauser, aiutante di campo della 15esima compagnia comando 98esimo reggimento alpino. Capitano Alfred Schroppel, comandante della prima compagnia 54esimo battaglione alpino. Tenente Helmut Vogtle, comandante della quinta compagnia comando 54esimo battaglione alpino. Sottotenente Karl Weisbacher, comandante di plotone nella prima compagnia 54esimo battaglione alpino. Sottotenente Anton Wimmer, 98esimo reggimento alpino. Tenente Fritz Thoma, comandante della settima batteria 79esimo reggimento artiglieria da montagna. Prosciolti nel marzo di quest´anno a Dortmund dal procuratore federale tedesco Ulrich Maas, conosceranno in Italia una nuova istruttoria. Forse, un nuovo processo. Il procuratore militare di Roma, Antonino Intelisano, li ha iscritti al registro degli indagati per omicidio plurimo aggravato, ritenendo di poter dimostrare, al contrario della magistratura tedesca, che la mattanza di Cefalonia non può conoscere prescrizione.
A 64 anni dai fatti, del resto, il lavoro di ricostruzione si può dire completo. La magistratura tedesca ha raccolto in 37 faldoni e 51 pagine di requisitoria, documenti, diari e oltre 500 testimonianze oculari: le voci di greci, di sopravvissuti italiani e, soprattutto, di soldati tedeschi. In quelle carte, in acquisizione dalla Procura militare di Roma, il resoconto della dimensione e della natura del massacro arriva lì dove non era ancora riuscita neppure l´eccellente ricerca storiografica. Ed è una lettura definitiva. Che individua fosse comuni di cui si ignorava l´esistenza, riscrive la geografia delle esecuzioni sommarie. Documenta l´orrore provato dagli stessi carnefici.
Il contesto storico è noto. L´armistizio dell´8 settembre 1943 sorprende i circa 9.000 uomini della nostra divisione Acqui, comandati dal generale Antonio Gandin, sull´isola ionica di Cefalonia, nodo di importanza strategica nel golfo di Patrasso. Il 12 settembre, la divisione «Acqui» rifiuta di deporre le armi all´ex alleato tedesco, cui oppone resistenza. Tra il 21 e il 22 settembre, la Wehrmacht ne annienta le difese. Migliaia di prigionieri italiani inermi vengono fucilati in esecuzioni di massa. La mattina del 24 settembre, il generale Gandin e i suoi ufficiali sono trucidati da un plotone di esecuzione a capo san Teodoro.
Si era a lungo ritenuto che a scatenare l´orrore fosse stato l´ultimo degli ordini diramati dal Fuehrer il 18 settembre: «A causa del loro comportamento subdolo e da traditori, a Cefalonia non devono essere fatti prigionieri». Che agli ufficiali della Wehrmacht non fosse stata data altra scelta. Non è esattamente così. «Gli omicidi di italiani disarmati - documenta il procuratore tedesco Maas - hanno inizio già nella giornata del 16 settembre e proseguiranno fino al giorno 24».
I tedeschi abbattono gli italiani come capi di bestiame. In una feroce babele di ordini estemporanei. Si uccide in ogni angolo dell´isola. Nei modi e nei tempi suggeriti dalla pietà o dal sadismo degli ufficiali che comandano i plotoni di esecuzione. Le testimonianze raccolte dalla magistratura tedesca tra i soldati della Wehrmacht ne sono il documento raggelante.
Richard Hamann, soldato semplice del 98esimo reggimento alpino: «A Divarata ci radunammo in una piazza, con italiani. Giunse l´ordine che quattro camerati del plotone mitraglieri dovevano essere distaccati per la fucilazione dei prigionieri. Ero a circa 200 metri di distanza. Morirono in 62. Noi ne rimanemmo tutti choccati».
Alfred Richter, caporale in servizio allo Stato Maggiore del 54esimo battaglione alpino, scrive nel suo diario di quei giorni: «Al passo Koutsouli vengono sparati solo pochi colpi. Poi, gli italiani sventolano dei fazzoletti bianchi e corrono giù a frotte dalle colline. Quando superiamo il passo, ci imbattiamo in cadaveri di italiani. Sono stati fucilati da quelli del 98esimo reggimento dopo essersi arresi (…) A Pharaklata, facciamo sosta in un giardino presso una postazione di batteria di artiglieria italiana che il 98esimo reggimento, che ci ha preceduto, ha annientato brutalmente. Gli italiani sono stati fucilati, massacrati e calpestati con gli scarponi da montagna. A Frankata, senza aver sparato un colpo, si arrendono due compagnie italiane, circa 400 soldati. A gruppi, vengono portati nelle cave di pietra e nei giardini recintati appena fuori il paese, dove vengono falcidiati dalle mitragliatrici del 98esimo. Ci tratteniamo sul posto per due ore, durante le quali i mitra non hanno mai smesso di martellare. Le grida arrivano nelle case dei greci. Non vengono risparmiati neanche infermieri e preti. Chi abbia ordinato questo annientamento non ci è noto, tuttavia ne siamo tutti indignati. Anche i plotoni d´esecuzione. Uno di questi cerca di ribellarsi, ma viene subito messo a tacere da un ufficiale con la minaccia di essere messi al muro anche loro…»
Hans Kappel, maresciallo di sanità dello Stato maggiore del terzo battaglione 98esimo reggimento alpino: «A Dilinata, sorprendemmo un´intera compagnia della divisione Acqui, che si arrese senza combattere. Gli italiani furono subito disarmati e condotti in un avvallamento dove furono fucilati con tre mitragliatrici».
La mattina del 22 settembre, 650 fanti italiani vengono fucilati a Troianata. Spiros Vangelatos, che vive oggi a Cefalonia, quel giorno aveva 16 anni. Osserva la scempio nascosto tra i rami di un mandorlo. Così ne riferisce ai magistrati tedeschi: «Intorno alle 9, gli italiani vennero portati in fila in un campo chiuso da un muro di pietra. In quel momento furono scaricate due mitragliatrici con casse di munizioni. Cominciarono a fare fuoco sugli italiani. (…) Dopo tre giorni cominciò a diffondersi un puzzo orrendo. Cercammo di bruciare i cadaveri con la benzina lasciata dagli italiani. Quando anche questo tentativo fallì, mettemmo gli italiani - circa 600 - in due cisterne inaridite».
Si scompare per sempre anche nelle cave di pietra. Al centro dell´isola, tra Frankata e Valsamata, e all´ingresso di Argostoli. Michael Scharl, maresciallo della quarta compagnia 54esimo battaglione alpino: «Stavo passando con il mio plotone di fronte a una cava di pietre nella quale, proprio in quel momento, dei prigionieri italiani venivano fucilati. Vidi nella cava un gran numero di cadaveri, mentre altri prigionieri venivano condotti all´interno e fucilati di fronte al mucchio di cadaveri».
Al cimitero di Drapanos, l´orrore è insostenibile anche per i carnefici. Helmut Muller, 13esima compagnia del 98esimo reggimento alpino: «Gli italiani si erano arresi sin dal primo giorno di combattimenti. I nostri prigionieri dovevano esser stati circa 500. Pernottarono con noi e il giorno successivo proseguirono la marcia con la nostra compagnia. Se ne aggiunsero altri, fino ad arrivare a 1000 la sera del secondo giorno di combattimenti, quando ci accampammo nei pressi del cimitero di Drapanos. Ai comandanti di plotone fu ordinato di far fucilare i prigionieri. Due mitraglieri per ciascuno dei tre plotoni dovevano presentarsi volontari con una mitragliatrice leggera per ciascuno. Poiché però nessuno si offriva volontario, i mitraglieri furono scelti dai comandanti di plotone. I prigionieri furono divisi in gruppi e fucilati con tre mitragliatrici. Dopo che furono fucilati circa 200 prigionieri, l´esecuzione fu sospesa. L´intera compagnia che aveva assistito all´esecuzione si era ribellata e non si trovava più nessuno disposto a portare i prigionieri sul luogo dell´esecuzione».
Non lontano dal chiostro di Agios Gerasimou, i prigionieri italiani si stringono in un´improvvisa processione. I soldati della Wehrmacht ne fanno brandelli. Martin Lohringer, seconda compagnia 54esimo battaglione alpino: «Ci venne incontro una processione cristiana. Erano soldati italiani nelle loro uniformi. Saranno stati cento, quindi una compagnia. Vedemmo che non erano armati e l´ordine fu di lasciarli passare, risparmiandoli. Ma dopo alcuni minuti che la processione italiana si fu allontanata 100-200 metri sentimmo dei colpi. Ho avuto l´impressione che il 98esimo reggimento che era rimasto dietro di noi dovesse aver passato per le armi questa processione».
Tra i soldati tedeschi qualcuno prova a sottrarsi alla mattanza. J. Schallahart, fante austriaco della 12esima compagnia 98esimo reggimento alpino: «Il nostro maresciallo ci portò l´ordine di fucilare un´unità di italiani. Era inutile rifiutarsi perché la sorte era caduta su di noi e noi avevamo l´arma adatta, una mitragliatrice pesante che, portata in posizione, dovette sparare su un gruppo di 35 uomini messi contro un vallo di pietre. Tutti chiudemmo gli occhi, forse anche il mitragliere. Per noi è rimasto il trauma della vita». A Kardakata, il sottufficiale Wilhelm Kunzel, 910° battaglione di fanteria, riesce a sfuggire all´assegnazione del plotone che deve eliminare 200 prigionieri. «Quando seppi che l´ufficiale era in strada per mettere insieme gli uomini del plotone, mi nascosi nel mio alloggio. Dopo poco, sentii il fuoco delle mitragliatrici. Ad esecuzione avvenuta, apparve il nostro furiere, il maresciallo Bruno Michel. Aveva dovuto assistere alla fucilazione. Ci disse che era stato orrendo.
Ancora oggi è impossibile calcolare il numero esatto degli italiani trucidati a Cefalonia. Mentre dei 3.500 soldati tedeschi che parteciparono alla mattanza ne sono sopravvissuti alla guerra e al tempo 417. La giustizia italiana ricomincerà da sette di loro. I sette fantasmi con cui chiudere il cerchio della memoria.

Corriere della Sera 15.11.07
Le ragazzine scelgono i rapporti non protetti
Aborti Il numero è in calo Ancora molti tra i 15 e i 17 anni
Le donne e la pillola del giorno dopo: mille ogni 24 ore
Vendite aumentate del 59 per cento in 7 anni La usano soprattutto le giovani: una su due
di Claudia Voltattorni


MILANO — La ragazzina crede nel loro amore. «Stiamo insieme da quasi tre mesi, ci conosciamo e ci amiamo », confida a internet. Di lui si fida. Nulla può succedere. Malattie, Aids, figli: solo parole. E per un grande amore così «il preservativo non è necessario », perché «se si usa un attimo il cervello, non serve». Tanto poi «per fortuna esiste la pillola del giorno dopo».
Il boom
La pensano così in tante. Ragazzine e donne. Da giugno 2006 a luglio 2007 sono state vendute in Italia 356mila pillole del giorno dopo. Quasi mille al giorno. Oltre la metà delle acquirenti ha meno di vent'anni (55%), il resto delle pillole è andato alle signore dai 20 ai 50 anni (45%). Donne che hanno scelto di pensare dopo anziché prima, che alla prevenzione dei tradizionali metodi contraccettivi preferiscono la soluzione dell'ultimo minuto. Più facile. Ma anche più dolorosa. La pillola del giorno dopo non è un aborto. Però la quantità di ormoni che rilascia per impedire l'ovulazione e l'eventuale fecondazione non è una passeggiata. Invece per molte signore e signorine è diventata un contraccettivo. E non sono poche ad averla assunta più di una volta.
Eppure l'offerta di contraccettivi non è limitata. Pillola tradizionale, anelli, spirali, preservativi, cerotti sarebbero un buon aiuto a limitare o eliminare la trasmissione di malattie sessuali e a evitare gravidanze non programmate. Invece, pur essendo la pillola ancora il metodo più diffuso, non è più così scelta per proteggersi, in particolare dalle under 20. E il preservativo diventa «solo un oggetto fastidioso »: dal '95 al 2005 l'incremento di vendite è stato solo di duemila pezzi (da 98.200 a 100.200). E se il numero degli aborti tra le italiane nel 2005 è molto calato (132.790 casi, meno 60%) rispetto al picco dell'82 (234.801), di quelle quasi 133mila interruzioni volontarie di gravidanza, 4.040 sono state effettuate su ragazze tra i 15 e i 17 anni.
Contraccezione negli anni
«Questo dimostra il fallimento dell'educazione contraccettiva: negli ultimi dieci anni c'è stato un disinvestimento sulla contraccezione e un metodo d'emergenza come la pillola del giorno dopo diventa un metodo contraccettivo, soprattutto tra le giovanissime », riflette Alessandra Graziottin ( www.alessandragraziottin.it), ginecologa, direttrice del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica del San Raffaele di Milano. Spiega: «Negli anni '80, l'attenzione è stata altissima: c'era l'Aids». Si sono fatte un mucchio di campagne per l'uso del preservativo, anche tra gli adolescenti, «ricorda l'opuscolo con Lupo Alberto? ». Poi, dal '95, «l'Aids da malattia mortale è diventata malattia cronica e la guardia è stata abbassata, dimenticando che esistono altre malattie ». Ogni giorno la dottoressa si trova di fronte decine di madri e figlie: «Quando chiedo alle ragazze che contraccettivo usano e mi rispondono "nessuno", le mamme ridono. E io vorrei strozzarle! Ma come "nessuno"? Ed elenco le malattie che rischiano di contrarre proprio a causa di quel "nessuno"».
Le altre malattie
Già, perché la mancanza di contraccezione sta portando ad un aumento nella diffusione delle malattie veneree. Papillomavirus, chlamydia, herpes genitale, gonorrea, sifilide: «C'è stato un raddoppio di casi — sostiene la Graziottin —, per la chlamydia siamo a 6 volte di più». E infatti il ministero della Sanità la scorsa estate ha lanciato la campagna «Non solo Aids » (numero verde 800.861.061) per sottolineare che ci sono anche altre malattie trasmissibili sessualmente. E il prossimo primo dicembre, giornata mondiale contro l'Aids, uno spot della regista Francesca Archibugi ricorderà che anche l'Aids non è scomparsa: ogni anno in Italia vengono registrati quasi 4.000 nuovi casi.
L'educazione sessuale
«Ma sono tanti i ragazzi e le ragazze che nonostante tutto ancora non si decidono ad usare il preservativo, però non è tutta colpa loro». Perché, ragiona Camila Raznovich, «non c'è la minima educazione sessuale». La vj di Mtv conduce da anni «LoveLine », programma tv che parla di sesso. Ne ha sentite e ne ha lette parecchie sul forum, soprattutto di giovanissimi. Come Luana che scrive: «Io non uso nulla... in realtà non penso alle malattie, non credo che una persona sia così cattiva da non dirlo se avesse qualcosa...». O Anonima: «Io e il mio ragazzo qualche volta lo usiamo qualche volta no, ma senza è veramente meglio». Perciò la Raznovich chiede «l'ora di educazione sessuale obbligatoria nelle scuole, come l'inglese e l'informatica, ma subito, dalle medie: è fondamentale», insiste, perché «i ragazzini sanno tutto di tecnologie ma nessuno gli spiega che le malattie si prendono ancora e che ancora si resta incinta». È d'accordo anche la Graziottin, che in più suggerisce una responsabilizzazione dei maschi: «La contraccezione è sempre più solo un affare da donne, invece l'amore si fa in due, i ragazzi vanno coinvolti». Così come è necessario riscoprire i consultori. Un'inchiesta fatta tra gli adolescenti del Nord-Est rivela che il 64% delle ragazze e l'86% dei ragazzi non sa neanche dove siano. Da parte sua, il ministro della Sanità Livia Turco appoggia e promuove l'educazione sessuale, soprattutto a scuola, ma chiede anche di «investire sulla relazione, sull'apertura all'altro, su una vera educazione sentimentale per i giovani». Compiti non delegabili però solo a scuola e professori: «Dobbiamo assumerci collettivamente una responsabilità sociale più vasta, che coinvolga tutti, nessuno escluso, pubblicità, media, tv, cinema».

il manifesto 15.11.07
Le quotidiane razzie dei siti archeologici iracheni
Uscirà in dicembre un rapporto sulla devastazione del patrimonio mesopotamico. Furti su ordinazione e danni legati al conflitto hanno prodotto una situazione irreparabile
di Giuliana Sgrena


A più di tre anni di distanza dal saccheggio del museo di Baghdad la distruzione del patrimonio archeologico della Mesopotamia continua ogni giorno nei diecimila siti dispersi in tutto l'Iraq, dove i predatori, del tutto indifferenti alla salvaguardia dei reperti recuperati, mirano a rivendere il loro bottino a trafficanti privi di scrupoli. Tavolette con scritte cuneiformi vengono cedute a cinquanta dollari, afferma Joanne Farchakh, archeologa libanese da anni impegnata in Iraq, che in dicembre pubblicherà un rapporto sulla devastazione del patrimonio archelogico iracheno.
Intorno a questa quotidiana razzia si è creata una vera e propria organizzazione, al punto che gli acquirenti - collezionisti privati disposti a pagare somme ingenti per arricchire le proprie preziose raccolte - forniscono indicazioni precise sui pezzi da recuperare. Quanto ai saccheggiatori, grazie a una esperienza ormai consolidata, sanno bene dove cercare, anche perché si dice che tra di loro ci siano esperti in scavi archeologici formati ai tempi di Saddam. Il raìs curava molto questi aspetti della cultura del paese e una volta (un fatto che non va comunque a suo favore) fece condannare a morte un uomo che aveva tagliato la testa a una statua. Paradossalmente, inoltre, i saccheggiatori sono protetti da gruppi armati nel corso degli scavi, mentre chi è incaricato della salvaguardia dei siti non ha i mezzi sufficienti per ricevere una adeguata protezione. Addirittura nel 2005 è accaduto che dei reperti trafugati, intercettati e diretti al museo di Baghdad, siano stati ripresi armi in pugno dai ladri che hanno preso d'assalto i camion dove i pezzi erano stati caricati uccidendone i conducenti.
Una delle zone più ricche di siti è la provincia di Dhi Qar dove si trova l'antichissima Ur, il centro più importante dei sumeri, citato anche nella Bibbia come il luogo dove avrebbe dimorato Abramo. Secondo Joanne Farchakh gli ottocentoquaranta siti sumeri che si trovano nella zona di Nassiriya, capoluogo della provincia, sono stati tutti saccheggiati, nonostante il fatto che uno dei compiti dei carabinieri italiani fosse proprio la formazione di personale per proteggere i siti. Questo impegno non ha impedito che militari italiani siano stati fermati sulla strada per il Kuwait in possesso di reperti. Nel nostro paese, del resto, sono stati individuati trecento pezzi rubati al museo di Baghdad.
Per pattugliare i siti di Nassiriya lo scorso anno sono stati reclutati sul posto duecento ufficiali di polizia ma, come ha dichiarato all'«Independent» Abdulamir Hamdani, direttore delle antichità della provincia, l'equipaggiamento resta largamente insufficiente. «Abbiamo solo otto macchine, alcuni fucili e poche radio trasmittenti per un'area che conta oltre ottocento siti» ha detto Hamdani, che oltre tutto è stato incarcerato per tre mesi per aver cercato di impedire l'acquisto di una zona archeologica da parte di un fabbricante intenzionato a utilizzare i vecchi mattoni sumeri per costruirne di nuovi da vendere sul mercato. Attualmente il progetto è congelato ma casi analoghi si registrano in altre zone.
A mettere a rischio quel che resta di una civiltà antichissima, però, sono anche le truppe di occupazione che, oltre a non proteggere adeguatamente gli scavi e ad avere permesso che il museo di Baghdad fosse saccheggiato (sono più di seicento i reperti trafugati rinvenuti negli Stati Uniti), usano i siti più preziosi come basi militari. Così succede a Ur, dove le ultramillenarie pareti si stanno crepando per il continuo passaggio dei carri armati. E quando Abbas Hussaini, responsabile del patrimonio artistico dell'Iraq, ha cercato di ispezionare il sito (al cui interno è in via di costruzione anche una casamatta), gli americani gli hanno rifiutato il permesso.
Nella leggendaria Babilonia, città di Nabucodonosor, invece, gli americani hanno costruito un accampamento per duemila soldati. La pavimentazione dell'entrata alla famosa porta di Ishtar (la stessa dove duemilacinquecento anni fa si svolgevano le processioni) è stata mandata in frantumi dai tanks e sulle macerie è stata costruita una pista per elicotteri, mentre nell'antico caravanserraglio di Khan al Raba gli americani facevano esplodere le armi sequestrate agli insorti.
Il danno prodotto a Babilonia è «irreparabile», sostiene l'archeologa Zainab Bahrani. «È come se i siti archeologici fossero continuamente scossi da un terremoto» le fa eco Joanne Farchakh. Ancora una volta l'operato delle truppe di occupazione è in aperta violazione della Convenzione di Ginevra, secondo cui l'esercito deve «utilizzare tutti i mezzi in suo potere» per proteggere il patrimonio culturale del paese occupato. Ma il diritto internazionale non è compatibile con la guerra preventiva.
Privi di mezzi, i millequattrocento funzionari iracheni addetti alla protezione dei diecimila siti sono anche senza stipendio, perché il bilancio dello Sbah (la Direzione per le antichità e il patrimonio) si è andato via via assottigliando, così come i finanziamenti stranieri ai progetti. La denuncia è stata compiuta da Donny George Youkhanna presidente dello Sbah, ex direttore generale dei musei e del museo di Baghdad, prima di abbandonare l'Iraq, il 6 agosto del 2006. Si è chiusa così la sua lunga carriera che, iniziata nel 1976, ha visto lo studioso partecipare a importanti ricerche archeologiche e più recentemente al recupero di pezzi rubati. Pare che Donny George abbia ricevuto minacce (sicuramente ne ha ricevute il figlio), ma il problema principale è legato ai suoi cattivi rapporti con il governo: non solo perché l'archeologo è cristiano e ex baathista, ma perché gli islamisti al potere non sono interessati all'arte preislamica, quella che maggiormente interessa gli studiosi. C'è chi insinua che i radicali islamici siano poco sensibili all'arte tout court, visto che nelle battaglie tra le fazioni irachene vengono distrutte moschee di notevole importanza storica e culturale oltre che religiosa.
Quando Donny George, un personaggio molto famoso, conosciuto dagli archeologi di tutto il mondo e da tutti coloro che passavano per Baghdad, ha lasciato il suo paese, il ministro del turismo e dell'archeologia era Liwa Sumaysim, del movimento di Muqtada al Sadr, di professione dentista. Prima di partire, comunque, Donny George ha murato le porte del museo di Baghdad proteggendole con sacchetti di sabbia: una precauzione necessaria, visto che il museo si trova in una zona, vicino ad Haifa street, spesso al centro di violenti scontri e dove hanno avuto luogo anche numerosi rapimenti. Il museo era stato temporaneamente riaperto per presentare il restauro del vaso di Warda, uno dei reperti sumeri più preziosi, in precedenza rubato e ridotto in pezzi.
Meno drammatica invece la situazione dell'arte islamica: i siti infatti non vengono presi di mira, non perché siano più protetti degli altri, ma perché sul mercato i reperti preislamici sono molto più ricercati.

Liberazione 15.11.07
Sinistra, nuovo simbolo (senza falce e martello)
Una riunione dei quattro partiti per decidere forme e modi della
nascita del nuovo soggetto politico. Costituente e voto popolare
di Stefano Bocconetti


Sinistra, la notizia di ieri è che comincia a prendere forma. E stavolta sembra proprio che si faccia sul serio. Date, impegni, scadenze. Ma c'è anche una notizia nella notizia. E riguarda il "come" si presenterà questo nuovo soggetto della sinistra, come si vestirà. Per capire: riguarda i suoi simboli. Una "notizia" alla quale ci si arriva per sottrazione, se così si può dire. Vediamo. Ieri, in una riunione un po' lontana dai riflettori tutti puntati su Palazzo Madama - e forse proprio per questo più produttiva - si sono incontrati i dirigenti delle quattro formazioni politiche interessati al nuovo soggetto. Hanno cominciato a discutere di tante cose, di più: si sono trovati d'accordo sulle tappe del percorso che porterà agli stati generali dell'8 e 9 dicembre. Una "strada" che li porterà ad incontrare e a discutere con tutto ciò che si muove al di fuori dei partiti e che, a sinistra, è la parte più grossa.
Le delegazioni hanno poi cominciato a discutere anche di quale dovrebbe essere il logo, l'immagine con cui quest'aggregazione dovrà presentarsi. S'è messa al lavoro una commissione, che valuterà proposte, bozzetti, idee. Colori. Però intanto c'è stata una prima discussione. E - nonostante tutte le previsioni - i dirigenti di Rifondazione, del Pdci, dei verdi, della Sinistra democratica si sono trovati d'accordo su un punto. Un punto dirimente: il simbolo del nuovo soggetto non dovrà contenere elementi, "riferimenti" ai loghi dei partiti esistenti. Partiti che naturalmente - l'hanno sottolineato tutti i protagonisti dell'incontro, da Walter De Cesaris di Rifondazione a Iacopo Venier del Pdci - continueranno ad esistere. Con le loro bandiere e le loro insegne. Almeno fino a che non si decida qualcosa di diverso. Ma tutto questo c'entra poco con l'incontro di ieri. Dove, tradotto, s'è deciso che nel simbolo della sinistra non ci sarà la falce e martello. Così come non ci sarà il Sole che ride o altro.
Sarà un "vestito" nuovo, insomma. Tutto da inventare. Sarà la rappresentazione grafica immediata di una sinistra che vuole unirsi ma anche e soprattutto rinnovarsi. Di una sinistra che vuole fare la sinistra ora, in questo millennio.
Naturalmente, non appena è uscita la notizia, s'è subito scatenata la corsa dei cronisti a cercare di avere anticipazioni su questo nuovo simbolo. Di bozzetti ne girano tanti ma c'è chi è pronto a scommettere che quelli che diventeranno di dominio pubblico in queste ore, sono esattamente quelli destinati ad essere cestinati. I primi ad apparire, insomma, saranno i primi ad essere "bruciati", come sempre avviene in queste occasioni.
Si va da un'ipotesi di arcobaleno - più vicino al vecchio simbolo dei progressisti del '94 che non a quello dell'Unione del 2006 - ad uno stemma che esplicitamente sembra voler citare il "quadrato rosso" della Cgil. La verità è che deciderà la commissione tenendo conto che su questo tema c'è stata la discussione più "vivace". Con molti che hanno chiesto di inserire elementi simbolici che richiamassero il lavoro, il movimento operaio e con altri che hanno fatto esplicito riferimento alle battaglie ambientaliste. «L'unica cosa certa - dice De Cesaris - è che comunque dovrà essere un simbolo nuovo, nel quale ci si riconoscano tutti».
L'attesa non sarà lunghissima, comunque. E da qui in poi si apre il capitolo delle altre decisioni prese all'incontro di ieri. L'attesa, si diceva, non sarà estenuante. Perchè s'è deciso che il logo sarà presentato dai segretari dei quattro partiti agli stati generali della sinistra. In quell'assemblea di tutta la sinistra - e della sinistra ecologista - già convocata per l'8 e il 9 dicembre.
Sarà presentato. Ma non adottato definitivamente. Perché - ed ecco un'altra notizia - la sinistra sottoporrà al vaglio dei suoi elettori, del suo "popolo", la scelta definitiva. Per farla breve: all'inizio del prossimo anno il nuovo soggetto darà vita a quella che un po' burocraticamente chiamano "un momento partecipativo". Le persone, chi vorrà contribuire alla costruzione di questo soggetto, sarà chiamato ad esprimersi. A votare.
Sul simbolo, s'è detto. Ma anche su molto altro. Innanzitutto su una "carta dei valori", su una sorte di manifesto costitutivo del raggruppamento. Anche questo è stato deciso nella riunione di ieri. Pure qui, si metterà al lavoro una commissione, il cui lavoro sarà presentato all'assemblea di inizio dicembre.
Ma forse d'ora in poi più che il calendario conterà il "metodo", il modo con cui si arriverà alle scadenze fissate. Sì, perché da ieri la "cosa rossa" - termine che tutti ieri rifiutavano quasi sdegnosamente, a cominciare, naturalmente, dai verdi - ha deciso che comincerà a costruirsi al di fuori delle stanze della politica ufficiale.
Si farà così: innanzitutto a giorni cominceranno gli incontri, le assemblee con quell'arcipelago di movimenti e associazioni che animano la sinistra sociale. Contemporaneamente, si darà vita ad un sito. Dove si potrà "scaricare" materiale, dove si potranno animare dibattiti. Ma dove, soprattutto, ci si potrà "segnare" per partecipare agli stati generali. Assemblea - ancora - che sembra proprio voler adottare il metodo dei social forum. Dove ciascuno, singolo o organizzazione, partecipa con pari diritti e pari dignità, senza rinunciare alla propria autonomia. Dove conteranno soprattutto le singole competenze, dove si cercherà sempre il consenso.
Sarà un'assemblea aperta, insomma, animata dai movimenti più che dai partiti. Il primo giorno ospiterà interventi, relazioni e seminari su alcuni grandi temi. Dall'ambiente, al lavoro, dalla pace alla differenza di genere. Il giorno dopo, la domenica, ci sarà l'assemblea generale. Dove chiunque si sia registrato potrà intervenire.
Lì, l'8 e il 9 dicembre, nascerà la sinistra. Unitaria e plurale. Diventerà una federazione, un partito, un aggregato o cos'altro? Questo lo deciderà la sinistra, una volta avviata la fase costituente. Che deciderà su tutto il resto: che struttura darsi, come scegliere il proprio portavoce, o leader o come si chiamerà. E lo stesso varrà anche per il simbolo. Diventerà il logo che gli elettori di sinistra si ritroveranno in tutte le tornate elettorali? E quando farà il suo esordio? Pure questo lo decideranno tutti insieme.
Stavolta, però, a differenza di altre volte, sembra che davvero si sia partiti. Perché tutto avverrà nel giro di un mese, anche meno. E soprattutto perché assieme alle cose decise ieri, tante altre stanno "marciando". Al Senato per esempio, s'è deciso di coordinare i quattro gruppi. Nel dibattito sulla finanziaria, per dirne una, parlerà solo un senatore, Natale Ripamonti, verde ma che prenderà la parola a nome di tutti. Di più: si studia come creare definitivamente la figura di un unico portavoce della sinistra a Palazzo Madama. Un incarico che, si pensa, potrebbe essere a rotazione. Ma sono dettagli, la sinistra è partita.