domenica 18 novembre 2007

l'Unità 18.11.07
Il grido di Genova: «Fuori la verità sul G8»
In città sfilata pacifica, sono in 100mila e nemmeno un vetro rotto. «Subito la commissione d’inchiesta»
di Enrico Fierro


GRANDE, grandissima Genova. Con le sue strade occupate da una moltitudine colorata e diversa per idee, età e collocazione sociale. Uomini e donne capaci di urlare la propria indignazione per quella verità sui fatti del luglio di sei anni fa che in troppi non voglio-
no, senza il più piccolo disordine. Non una vetrina rotta, neppure muri imbrattati, finanche la fila ordinata nei bar, tutti aperti a dispetto di chi voleva la città serrata, per una bevanda calda o per una pipì.
«La storia siamo noi», c’è scritto sullo striscione che apre il corteo dei centomila (per gli organizzatori), 30mila per la questura. Dispute numeriche a parte, in piazza c’è tantissima gente venuta da tutta Italia per chiedere verità e giustizia sulle sciagurate giornate del luglio 2001. Grandissima, pacifica Genova, che ieri - come dice don Andrea Gallo - l’ha scritta davvero una «bella pagine della storia democratica di questo Paese». Un’altra città, che sfila per le stesse strade che sei anni fa furono teatro di scontri durissimi, saccheggi e devastazione di black-bloc lasciati agire indisturbati, di pacifici manifestanti picchiati a sangue, della Diaz, della caserma Bolzaneto. Un’altra storia. In piazza i visi sono scoperti, i volti sereni. Intere famiglie, giovani, anziani, disoccupati, precari, gente che un lavoro ce l’ha, sinistra estrema e sinistra di governo: tutti insieme. Anche le parole d’ordine, gli slogan e i cartelli parlano linguaggi di pace. «Non vogliamo vendetta, ma giustizia». «Di nuovo a Genova per legittima difesa», si legge. In tanti ricordano i giorni del luglio 2001. E lo fanno ogni volta che una strada riapre la memoria. «Ti ricordi qui, quando ci caricarono? Ma sì era proprio la Marina. Ammazza che botte». La signora si rivolge al marito. In piazza oggi come sei anni fa. Un uomo anziano si è preparato un suo particolare cartello. «Scuola Diaz, arrestato numero 18, anni 62, nazionalità italiana. Colpito a manganellate alla testa, fratture al braccio sinistro… ». Firousi Omid è uno dei 25 imputati al processo per i disordini di sei anni fa. Per loro la giustizia ha chiesto 225 anni di carcere (una media di cinque-otto anni a testa) e 2,5 milioni di euro di risarcimento. «Non ero e non sono un black-bloc, ero e sono un uomo pacifico. Sei anni fa volevo solo essere protagonista di un movimento, volevo appropriarmi del mio destino». Il 2001 è lontano, Firousi si è laureato e ha vinto un dottorato di ricerca all’università di Urbino.
Si parte alle 3 di pomeriggio dalla stazione marittima, con la tramontana che non dà tregua. Ci sono sindacalisti (Cremaschi e Rinaldini della Fiom), uomini politici (da Giordano a Mascia a Migliore, di Rifondazione), ci sono Heidi e Giuliano Giuliani i genitori di Carlo. Heidi, minuta e infreddolita, trema di emozione ogni volta che i ragazzi gridano lo slogan «Carlo è vivo e lotta insieme a noi. Le nostre idee non moriranno mai». E ci sono soprattutto due preti, accolti e coccolati come leader. Don Andrea Gallo e don Vitaliano della Sala. Don Gallo sale sul camion con gli altoparlanti e abbraccia tutti. «I compagni e le compagne che sono qui, i fratelli e le sorelle». Poi, preso dall’entusiasmo, «carica» la folla. «Questa è una bella risposta pacifica, non accettate provocazioni da quei figli di puttana che sono qui per creare casini. Mandate affanculo i profeti di sventura. Questa è la democrazia, se non ci aiutiamo tra di noi non ci aiuta un cazzo di nessuno». Parole chiare!
Cosa vuole questa gente? «La verità sui fatti di Genova». «La Commissione di inchiesta che indaghi su tutto». «Non possono pagare solo i compagni con pene altissime e accuse vergognose mentre i capi della polizia sono stati tutti promossi». «L’onore della polizia - ha scritto su un cartello una ragazza - si difende solo con la verità». Gli slogan rabbiosi sono rari. Limitati ad un gruppo di romani che urla le solite frasi - quelle che senti anche allo stadio - contro i «carabinieri, mestiere di merda». Gli ultrà, invocati da Luca Casarini, non ci sono, per fortuna. In compenso ci sono tanti genovesi affacciati ai balconi che guardano e fotografano il corteo. E i negozi aperti, i bar che servono focacce e caffè. In Piazza De Ferrari - nel centro della città - la fine del corteo. Con musica e parole. Quelle di don Gallo che legge una lettera di un altro prete applauditissimo dal «movimento», Alex Zanotelli. «Soffro con voi per la verità negata sui fatti di Genova». Poi don Gallo cita il poeta genovese Fabrizio De André, la sua «Storia di un impiegato». «Per quanto voi vi sentiate assolti siete per sempre coinvolti». Preti e cantautori per il movimento 2007. Marx è lontano. E Lenin pure. Anche Heidi Giuliani, l’unico «politico» ammesso sul palco in quanto mamma di Carlo costruisce tutto il suo discorso sui sassi. E è poetica come il Paoli (Gino, grande genovese pure lui) che quarantasette anni fa scrisse di quei «sassi che il mare ha consumato». I sassi di Heidi sono «quella montagna che da sei anni mi porto addosso per affermare la verità su Genova. Quei sassi che erano nascosti nei cassonetti fin dalla mattina del 20 luglio e che la polizia non seppe rimuovere. Sassi sono quelli che spaccarono la testa di Carlo. Anche oggi per l’uccisione del ragazzo sull’autogrill di Arezzo si parla di sassi. Ma c’è un macigno pesantissimo che vogliono scagliare per cancellare la nostra storia e il vostro futuro, e questo non dobbiamo permetterlo».
Manifestazione finita. Nessun incidente. La gestione dell’ordine pubblico è stata impeccabile al punto che questore e prefetto si sono guadagnati i complimenti dal palco da parte di don Gallo. La polizia c’era ma non si è vista. Nelle sale operative c’erano solo i funzionari di polizia e nessun altro. La caserma di Bolzaneto era vuota. Dal palco un prete un po’ singolare ha lanciato parole come «amore, pace, libertà». Forse, sei anni fa la storia poteva avere un corso diverso.

l'Unità 18.11.07
SD. Via libera alla «Cosa rossa». Con distinguo


Fabio Mussi riunisce i suoi in un albergo della capitale per sottoporre loro il documento che dà il via libera alla costituzione della sinistra unita. Il coordinatore di Sinistra democratica ribadisce il suo giudizio negativo sul Pd e spiega che il processo unitario a sinistra ha bisogno di tempi di maturazione: «L’obiettivo resta quello del partito unico, ma nell’immediato è necessaria una fase transitoria che preveda una federazione di tutta la sinistra. Noi vi partecipiamo come forza che fa organicamente parte dell’Internazionale socialista e del Socialismo europeo». Deve nascere però, secondo Mussi, un processo irreversibile: l’8 e il 9 dicembre nomi e simbolo comuni, primarie sulle grandi scelte, formazione a tutti i livelli di gruppi comuni. Non manca però qualche critica. Quella di Famiano Crucianelli, per il quale «si è perso tempo, bisognava unirsi a maggio, ora non possiamo che rincorrere». E quella di Paolo Nerozzi, preoccupato per il rischio appiattimento di Sd su Rifondazione, anche per quanto riguarda il protocollo sul welfare. Mussi replica spiegando al sottosegretario agli Esteri che «non si è perso tempo» e che le condizioni politiche che ci sono ora, dopo sette mesi di convivenza al governo, non c’erano a maggio. Al segretario confederale della Cgil, il ministro dell’Università ricorda che la strada sulla via dell’unità è un processo fatto di reciproci avvicinamenti. Lo dimostra la manifestazione del 20 ottobre, che Sd ha contribuito a rendere non antigoverno e antisindacato. E lo dimostrerà, assicura Mussi, proprio il protocollo welfare.

l'Unità 18.11.07
CESARE SALVI«Il sistema elettorale migliore è quello tedesco. Il Pd sta cercando qualcosa che lo sovrarappresenti, ma così danneggia i partiti nazionali come Sd»
«Con il sistema ispano-tedesco noi scompariamo, non ci sto»
di Maria Zegarelli


Il mix tedesco-spagnolo che piace a Walter Veltroni o il tedesco semi-puro che piace da Rutelli a Mussi? È questo il busillibus dell’agenda politica di maggioranza e opposizione. Saranno, per l’Unione, due settimane di consultazioni e confronti sul tema, poi toccherà alla Cdl. Ma per Cesare Salvi, presidente della commissione Giustizia al Senato, illustre esponente di Sinistra Democratica, c’è poco da discutere. «Il sistema elettorale migliore è quello tedesco. Gli altri non sono che un vestito cucito addosso ai due maggiori partiti, Fi e Pd».
Mussi ieri mattina dopo un incontro con Veltroni ha detto che sulla legge elettorale restano le distanze. Salvi, lei cosa dice?
«Che è esattamente così. La proposta di cui si parla in questi giorni, il mix ispano-tedesco, è profondamente sbagliata, difficile da capire tecnicamente e da usare per gli elettori. Noi abbiamo bisogno di un sistema elettorale semplice e comprensibile. È evidente che è necessaria una riforma, con una quota di sbarramento consistente, noi come Sd non ci poniamo sulla stessa linea dei cosiddetti partiti “piccoli”. Ci siamo espressi per il sistema tedesco con sbarramento al 5%».
Veltroni è pronto a discutere anche ipotesi diverse ma resta convinto che il mix sia la formula migliore...
«Le dico perché non funzionerebbe: un partito con il 30% avrebbe il 40% dei seggi, un partito con il 15% avrebbe il 5% dei seggi. Un partito che in una sola regione ha l’8%, come l’Udeur in Campania, entrerebbe in Parlamento; uno con il 6% su base nazionale resterebbe fuori. È un sistema che altera la rappresentanza senza avere il vantaggio dei sistemi maggioritari puri di alterare la rappresentanza per assicurare la governabilità. È una proposta scritta su misura per partiti - delle presumibili dimensioni di Pd e Fi - che volessero ridurre a più miti consigli eventuali alleati».
Tradotto: teme che partiti minori, come il suo, non conterebbero più?
«Esattamente. Si altera il peso che i partiti hanno nella società a vantaggio di un solo partito. Per dirla con il professore Sartori, “è una furbata”».
Lei ha proposto il sistema tedesco. Ma lì oggi c’è una Grosse coalition...
«Il sistema tedesco prevede una soglia del 5%, superata la quale si entra in Parlamento rappresentati in proporzione dei voti avuti. Non dobbiamo confondere il bipolarismo con il tipo di maggioritario avuto in Italia. Il tedesco è anch’esso bipolare, tanto è vero che in sessant’anni ci sono state due sole ipotesi di grandi coalizioni, ed è basato sulla eliminazione della frammentazione. È del tutto chiaro che i micropartiti che addirittura si moltiplicano - come i Liberaldemocratici di Dini e l’unione democratica di Bordon - non esisterebbero più. Oggi siamo a una situazione dovuta ad un eccesso di maggioritario. Un bipolarismo sano, invece, si basa sulla selezione della rappresentanza a pochi partiti radicati nel paese e nel vincolo politico che si crea. In Italia c’è bisogno di un bipolarismo mite e di una democrazia parlamentare flessibile».
Russo Spena, di Rc, riconosce alla proposta di Veltroni di aver sbloccato il dibattito ma propone il tedesco modificato. O il tedesco o niente?
«Non mi sento di fare previsioni. Noi della sinistra ci vedremo e poi arriveremo con una proposta speriamo unitaria. Ma il primo problema da risolvere è il Pd: è disposto ad accettare un sistema per il quale sarà rappresentato in Parlamento per i i voti che prende o cerca un sistema che lo sovrarappresenti? In secondo luogo, il Pd vuole un sistema che gli lasci le mani libere per alleanze di nuovo conio o vuole una legge elettorale che permetta la prosecuzione dell’alleanza con la sinistra?».
An, Lega, Udc si dicono pronti al dialogo anche senza Berlusconi. Ci crede?
«Non penso che possano prescindere dalla volontà del Capo. È un’illusione pensare di andare al confronto senza Fi e se lo si facesse si dovrebbe pagare alla Lega un prezzo troppo elevato alla democrazia».

l'Unità 18.11.07
America e Israele la lobby dello scandalo
di Umberto De Giovannangeli


L’INTERVISTA Incontro con John Mearsheimer e Stephen Walt, due accademici americani autori di un libro che ha acceso un aspro dibattito negli Usa. Perché parla di una coalizione
pro-Stato ebraico che influenza la politica estera del loro paese

L’uscita del libro è stata accompagnata da un mare di polemiche negli Usa e ha suscitato uno dei dibattiti più accesi degli ultimi decenni. La ragione è già lampante nel titolo: La Israel lobby e la politica estera americana, edito in Italia da Mondadori (pp. 442, euro 18,50). L’Unità ne ha discusso con i due autori: John J. Mearsheimer e Stephen M.Walt.
La prima domanda è d’obbligo: cos’è la Israel lobby e come riesce a condizionare così fortemente la politica estera dell’iper potenza mondiale?
Walt:«La Israel lobby è una coalizione estremamente ampia formata sia da persone che da organizzazioni, che opera apertamente influenzando in modo pregnante con la propria azione certune politiche che il governo americano ha messo in essere e sono ancora in essere pro-Israele. C’è da sottolineare che la Israel lobby non è una lobby ebraica, nonostante spinga per politiche pro-Israele, perché i suoi membri non sono necessariamente di religione ebraica, anzi molti esponenti di diversi gruppi ebraici non ne fanno parte in America. La Israel lobby è formata per una sua buona parte da gruppi cristiani ed evangelici, che sono poi quelli che esercitano più da vicino le pressioni sul governo americano».
Mearsheimer:«Negli Usa ci sono molti gruppi d’interesse che spesso esercitano questo loro potere per influenzare determinate linee politiche che vengono adottate dal governo. È importante rilevare che la Israel lobby ha una profonda influenza sulle politiche governative, in particolare mediorientali, del governo americano; una influenza che si esercita dando forma e contenuto a quello che poi verrà adottato dal governo. La Israel lobby è estremamente potente perché è molto ben organizzata, può contare su fondi notevoli, soprattutto è composta da una serie di individui che sono molto intelligenti e sanno molto bene come muoversi nei vari ambiti del potere politico, e poi la Israel lobby ha sempre mostrato un forte impegno nel far approvare dal governo americano politiche di sostegno a Israele. La Israel lobby è un gruppo d’interesse particolarmente potente perché non ha nessuna opposizione. Contrariamente a quanto molti credono non esistono lobby arabe che siano altrettanto potenti, neanche quella del petrolio».
Una delle tesi più forti che sostanziano il libro è che la Israel lobby danneggerebbe anche le relazioni degli Stati Uniti con i suoi più importanti alleati, accrescendo per tutti i Paesi occidentali i pericoli del terrorismo islamico globale.
Walt:«Da molto tempo a questa parte si è manifestata una differenza significativa fra ciò che è il pensiero europeo e quello statunitense nei confronti delle politiche che vengono messe in essere da Israele contro i palestinesi. C’è una divergenza di punti di vista, nel senso che quasi tutti i leader europei, e tra questi anche Tony Blair, hanno sempre cercato di esercitare delle pressioni sugli americani affinché, per fare un esempio, gli israeliani arrestassero la politica di costruzione degli insediamenti nei territori occupati, permettendo così di dare corpo alla possibilità di realizzare uno Stato palestinese vitale. Nonostante queste pressioni che continuano a giungere dall’Europa, nessun presidente degli Stati Uniti ha veramente messo a punto in modo fattivo una misura che riuscisse a bloccare la politica di colonizzazione israeliana dei Territori, e questo proprio a causa dell’influenza della Israel lobby. Si può anche affermare che questa situazione abbia poi creato delle divergenze, a volte anche molto significative, fra gli europei e gli americani. Tutti i leader europei si rendono perfettamente conto che il tipo di comportamento politico e pratico che Israele ha nei confronti dei palestinesi non fa altro che alimentare le frange terroriste arabe e rafforzare i gruppi radicali palestinesi, come Hamas. E con altrettanta chiarezza, i leader europei si rendono conto che c’è una altissima probabilità che poi gli attacchi terroristici dei gruppi jihadisti siano sofferti in prima persona dall’Europa e solo in seconda battuta dagli Stati Uniti».
Una delle accuse più pesanti che ha accompagnato negli Stati Uniti l’uscita del libro, è stata quella di antisemitismo.
Walt:«Praticamente chiunque si ritrovi nella condizione di accusare Israele per le politiche che Israele mette in essere, negli Usa viene tacciato immediatamente di antisemitismo. L’esempiò più eclatante riguarda l’ex presidente Jimmy Carter che è stato apertamente accusato di antisemitismo, se non addirittura di neonazismo, semplicemente perché si era permesso di criticare, in un libro che ha pubblicato, le azioni del governo israeliano nei confronti dei palestinesi. Questa è una tattica che viene comunemente usata proprio per mettere sotto accusa chiunque si permetta di criticare le politiche israeliane. Noi siamo stati molto attenti nel nostro libro a non dare adito a nessuna accusa di antisemitismo. Siamo stati critici nei confronti di determinate politiche che Israele ha messo in atto, ma certamente il nostro libro può essere tutto tranne che un libro antisemita. Anzi: noi abbiamo detto molto apertamente che sosteniamo il diritto di esistenza di Israele e abbiamo anche chiarito che la Israel lobby ha un suo status di normalità e quindi di legalità nell’ambito del sistema americano, e soprattutto che le azioni che la Israel lobby porta avanti sono tutte riconducibili nell’ambito del sistema democratico, e dunque non c’è nulla di illegale che la Israel lobby faccia. Tuttavia, solo per il fatto che ci siamo permessi di criticare alcune azioni condotte dal governo israeliano, siamo stati oggetto di accuse di antisemitismo e qualcuno ha anche tentato di dipingerci sia come degli estremisti che come dei bigotti».
In che modo la Israel lobby potrà influenzare la scelta del nuovo presiden-
te Usa? C’è chi sostiene, trascinando l’attuale amministrazione Bush in una nuova guerra: quella contro l’Iran.
Walt:«È assolutamente chiaro che indipendentemente dal candidato, democratico o repubblicano, che vincerà le elezioni,colui o colei che diverrà il nuovo Presidente, sarà assolutamente conscio dell’influenza che la Israel lobby ha esercitato sulle elezioni, ponendo così una seria ipoteca sulla politica che il nuovo inquilino della Casa Bianca metterà in atto. Lo si vede benissimo già oggi: tutti i candidati dei due partiti hanno già fatto passi notevoli per dimostrare comunque il loro supporto a Israele, prima ancora delle elezioni. Questo può ragionevolmente portare chiunque a dire che la politica americana non cambierà in modo significativo, indipendentemente dal vincitore delle presidenziali. Ritengo che ciò sia un peccato perché, a mio avviso, se si normalizzassero di più le relazioni tra Usa e Israele, se cioè si fosse più onesti nell’ammettere quelli che sono i pro e contro, e quindi anche gli errori che sono stati compiuti da Israele; se Israele accettasse di più le critiche che a volte, giustamente, le vengono mosse, si creerebbe una situazione decisamente migliore per quanto riguarda i rapporti internazionali. E poi io trovo che, se davvero uno Stato è amico di un altro Stato, come succede fra due amici, il dovere di un amico è quello di avvertire l’altro quando fa degli errori».
Mearsheimer:«Per quanto riguarda l’Iran, non c’è dubbio che sia Israele che la Israel lobby sono le forze principali che stanno esercitando pressioni notevoli affinché gli Stati Uniti sferrino l’attacco contro l’Iran. Credo però che la cosa sia decisamente improbabile, nel senso che resto convinto che nel futuro prossimo gli Usa non attaccheranno l’Iran. Con questo non voglio dire che non sia possibile, ma penso che sia improbabile. Per una serie di ragioni: l’America si trova già oggi di fronte a una serie di grossi problemi nel Medio Oriente, e non ha certamente bisogno di scatenare un’altra guerra che andrebbbe a complicare ancora di più la situazione. E poi se gli Stati Uniti dovessero sferrare l’attacco, Teheran per rappresaglia immediatamente agirrebbero su Paesi come l’Afghanistan e l’Iraq, dove già gli Usa sono impantanati e non riescono a delineare una onorevole via di uscita. A tutto ciò va aggiunto che comunque sferrare una guerra contro l’Iran non risolverebbe i problemi perché Teheran si sentirebbe incentivata a sviluppare, occultandola, la costruzione di armamenti nucleari. Va poi tenuto conto che negli Usa i neocons hanno ormai perso molta credibilità, come pure i leader della Israel lobby, perché in passato sono stati veementi sostenitori della guerra contro l’Iraq che si è rivelata essere un disastro strategico e un fallimento totale. Per tutti questi motivi, ritengo improbabile, anche se non impossibile, che il presidente Bush nel corso degli ultimi mesi del suo mandato possa davvero sferrare, peraltro contro le indicazioni dei vertici militari Usa, una guerra all’Iran».

l'Unità Firenze 18.11.07
Morandi in cammino tra schegge di vita
A Lucca la Fondazione Ragghianti ospita una bella mostra dedicata all’artista bolognese
di Valeria Giglioli


L’OGGETTO si fa alibi per l’arte, un pretesto per raccontare la realtà e rappresentarla nel tempo sospeso dell’opera. Un percorso di riscoperta che ha attraversato il Novecento, aperto dalla visione di Giorgio Morandi. È dal suo lavoro che prende le mosse
«L’alibi dell’oggetto - Morandi e gli sviluppi della natura morta in Italia», curata da Marilena Pasquali, sostenuta dalla Fondazaione Cassa di risparmio e ospitata dalla Fondazione Ragghianti di Lucca. Centoventi opere dagli anni 50 ad oggi, un percorso articolato in ’stanze’ per disegnare una mappa della natura morta italiana contemporanea. «Questa non è una mostra di genere - spiega Pasquali, che ha raccolto i lavori soprattutto da collezioni private e gallerie - a dominare è la ricerca sull’oggetto, per capire se e perché gli artisti continuano a confrontarsi con esso». L’incontro con la mostra è segnato da una sedia rossa e dal piccolo, rosato, Hommage à Morandi di Folon. Il cuore pulsante dell’esposizione batte subito, con le 33 opere dell’artista bolognese, acqueforti e dipinti. I colori lievi, cremosi, a tratti polverosi, di una pittura schiva e discreta che, come scrive Pasquali, è capace di «trasfigurare un elementare frammento di realtà in forma pura, bellezza assoluta». Dalle acqueforti degli anni 20 ai fiori e le nature morte dei primi 60, il lavoro di Morandi sembra lanciare chi guarda ben al di là dell’oggetto, proiettandolo in una considerazione su forma e spazio. Per poi aprire la porta delle ricerche più recenti: e allora si incontra la caducità della Natura morta con frutti sulla spiaggia di De Pisis, il brivido delicatissimo del Ramo di mandorlo di Guccione. Alle soglie dell’astratto, come titola la sezione, ci si imbatte nelle rigorose relazioni di forma e spazio del lavoro di Alberto Burri, mentre più in là ci aspetta Lucio Fontana, con quel nodo di luce che è il Crocefisso di ceramica scura e fiammeggiante. E ancora, la provocazione di Guttuso, colori e spigoli senza mezzi termini nello studio per La Vucciria, gli oggetti poveri e decontestualizzati di Piero Manzoni, gli archetipi spirituali di Jannis Kounellis. Da un altro mondo sembra arrivare la Donna nuda con girasoli di Pistoletto che emerge dalla superficie fredda dell’acciaio, proprio di fronte alla testa di gesso col cranio riempito di carte geografiche del Verso Bisanzio di Parmiggiani. E se il rigore di Pizzi Cannella e del suo Concerto per pianoforte strappano una sosta prolungata, non mancano di sorprendere le Converse di chewing gum rosa di Maurizio Savini e la familiarità calda del Cavallino di Silvia Cardini. Un cammino tra schegge di vita.
Lucca, San Micheletto, dal 16 novembre 2007 al 20 gennaio 2008. Ingresso gratuito

Repubblica 18.11.07
Giordano, leader Prc: l´inchiesta parlamentare è una priorità. A Prodi chiediamo una svolta: basta ascoltare Dini
"Inaccettabili gli slogan contro gli agenti ma la commissione fa bene anche a loro"
di Giovanna Casadio


Ci sono forze che cercano di cancellare i temi della sinistra. Governo istituzionale? Niente inciuci
Non voglio colpi di spugna per i manifestanti che hanno sbagliato, ma non possono pagare da soli

ROMA - «Non siamo in contrapposizione con la polizia», premette. Franco Giordano ha fatto una full immersion nel Movimento e dal corteo di Genova torna più che mai determinato a ottenere la commissione parlamentare d´inchiesta sul G8: «Basta dilazioni, Rifondazione non accetta mediazioni su questo punto. Non voglio colpi di spugna per quei manifestanti che sei anni fa hanno sbagliato, fatto violenze, prodotto danni però sarebbe paradossale se pagassero solo loro per le giornate del 2001 in cui ci fu una sospensione della democrazia. La cifra poi di 225 anni di carcere per i no global sotto accusa è esorbitante». Va a ruota libera il segretario del Prc non solo sul G8 ma anche su Dini, gli inciuci e annuncia l´offensiva della sinistra: «Porremo a Prodi le nostre priorità, non siamo più disposti a far scrivere l´agenda di governo dal Partito democratico».
Ci sono stati slogan pesanti contro la polizia a Genova, non li ha sentiti segretario Giordano?
«Io personalmente non li ho sentiti, ma certamente sono inaccettabili. Anche se erano marginali. La manifestazione è stata bella, grande, pacifica, giocosa, nel segno della non violenza nonostante le Ferrovie abbiano fatto di tutto per creare tensione, scoraggiare la partecipazione dei manifestanti e sabotare i patti sugli sconti per i biglietti. C´è un movimento che a distanza di sei anni dalla morte di Carlo Giuliani chiede giustizia sui fatti del G8. Gli dobbiamo una risposta e sarebbe drammatico se la politica e le istituzioni non lo facessero. Quindi, mettiamo mano subito a quella parte del programma di governo dell´Unione che prevede la commissione d´inchiesta altrimenti rischiamo di essere complici della sospensione di democrazia che allora avvenne. Fa bene anche alla polizia».
Dal G8 alla morte del tifoso Gabriele Sandri, polizia sotto accusa?
«Alla famiglia di Sandri la mia solidarietà, è inammissibile che una persona muoia in quella maniera. Per quanto riguarda la polizia, ripeto: non c´è una spirito di contrapposizione. Tutta la polizia ne uscirebbe meglio se venissero accertate le responsabilità e puniti i responsabili. Non è bello rinchiudersi in logiche di pura difesa e quanto accaduto alla Diaz o a Bolzaneto è indifendibile».
La commissione sul G8 è stata bocciata qualche settimana fa dallo stesso centrosinistra.
«Un grave errore e Di Pietro, tra quelli che avevano votato contro, l´ha riconosciuto. Ma non si può bluffare, la commissione G8 è scritta nel programma dell´Unione, è un punto inequivocabile. In aula alla Camera sarà possibile ridiscuterla, votarla. Per noi è una priorità».
Come pensa Rifondazione di conciliare le priorità della sinistra radicale con il diktat di Dini?
«C´è una precarietà e risicatezza nei rapporti di forza dell´Unione però ce l´abbiamo fatta sulla Finanziaria che non è compiutamente all´altezza della crisi sociale del paese tuttavia porta il segno della sinistra, dalla stabilizzazione dei precari alle politiche per la casa, a un po´ di risarcimento verso le classi meno abbienti fino al via libera alla class action contro cui si sta scatenando l´ingordigia di Confindustria».
Dini chiede un governo istituzionale e comunque una sterzata centrista del governo.
«Non c´è spazio per inciuci, oggi. Quelle di Lamberto Dini sono declamazioni. Rifondazione e la sinistra vogliono un salto di qualità nell´azione politica del governo. Gli stati generali della Sinistra l´8 e 9 dicembre a Roma individueranno le priorità e indicheranno il confronto nell´Unione su precarietà, diritti civili e tutele sociali. Non accettiamo di subire l´agenda politica proposta dal Pd perché è foriera di instabilità. Mentre sulle riforme ci sono convergenze».
Prodi durerà?
«Chiediamo al governo una svolta e a Prodi di intervenire sulla crisi sociale del paese, noi non siamo interni a logiche di potere. Adesso si apre una situazione politica nuova ma vedo che ci sono forze, poteri che cercano di cancellare i temi della sinistra. Non ci riusciranno. Se il governo vuole avere prospettive e consenso dopo il passaggio della Finanziaria al Senato, deve sentire le ragioni della crisi sociale e stare lontano dalle sirene dei Palazzi. Da una parte ci sono le ragioni di milioni di lavoratrici e di lavoratori, dei precari e dall´altra semplicemente le giravolte interne al Palazzo, a cominciare dai diniani».

Repubblica 18.11.07
Psicoterapia addio, il fenomeno Prozac compie vent´anni
Ma è scontro sugli effetti nei bambini
di Marina Cavalieri


ROMA - Può curare la bulimia, gli attacchi di panico, le forme ossessive gravi e quelle lievi come mangiarsi nervosamente le unghie, toccarsi continuamente i capelli o farsi instancabilmente la doccia. Per questo chiamarlo antidepressivo è troppo riduttivo, definirlo «pillola della felicità» una tentazione inevitabile. Il Prozac compie vent´anni, è stato il farmaco che ha rivoluzionato la vita psichica di milioni di persone, il medicinale che come pochi ha avuto un successo planetario, consumato da 54 milioni di individui ha cambiato il mondo della depressione, il modo di viverla e quello di curarla. Era il dicembre del 1987 quando fu autorizzato per la prima volta negli Stati Uniti, l´anno dopo arrivò in Italia anche se il principio che utilizzava era già conosciuto e usato in psichiatria. Il Prozac è a base di fluoxetina, appartiene alla classe degli inibitori della serotonina, interviene sul meccanismo di uno dei neurotrasmettitori che regolano l´umore, la sua formulazione divenne presto l´alternativa più valida agli antidepressivi triciclici.
Efficacia, scarsi effetti collaterali, ottimo marketing. Non c´è niente di misterioso dietro il farmaco che liberò dalla depressione, la pillola del benessere fu piuttosto il riuscito incontro tra domanda e offerta, la terapia giusta nel momento in cui la depressione in tutte le sue sfumature veniva allo scoperto, non era più qualcosa da nascondere, di cui vergognarsi, non un fallimento esistenziale ma una patologia da curare. Con il Prozac molti dettero addio alle psicoterapie lunghe e costose, ai farmaci antidepressivi pesanti e debilitanti. Bastò una pillola. Arrivarono poi depressi famosi, dello spettacolo e non, a dargli un tocco di pericolosa mondanità, si diffuse un modo di parlarne disinvolto che alimentò eccessi consumistici. Rischi di un medicinale che ha tra i suoi effetti quello di un «benessere esagerato».
Non sono stati vent´anni senza ombre, la pillola della felicità per molti ha anche un suo devastante lato oscuro. Esiste infatti e dà battaglia anche un combattivo partito anti-Prozac che da sempre denuncia gli effetti collaterali che il farmaco provocherebbe come apatia, allucinazioni, idee paranoiche, isteria e soprattutto suicidio. Negli Stati Uniti alcuni hanno voluto collegare le sparatorie nelle scuole all´uso di antidepressivi e Prozac da bambini. E proprio la somministrazione della fluoxetina ai bambini dagli 8 anni in su ha scatenato recentemente un´ondata di polemiche. Infatti da un anno in Europa l´Agenzia comunitaria del farmaco ha permesso che i foglietti illustrativi contenessero le indicazioni per i più piccoli.
Tra bisogni del paziente e necessità del mercato, continua così la storia del Prozac anche se sono ormai in commercio farmaci di ultima generazione più mirati e sofisticati. Se ne continua a parlare come quando un paio di anni fa si trovarono tracce di Prozac nell´acqua del rubinetto di Londra. Residui di una pillola che resiste.

Repubblica 18.11.07
Lo psichiatra Giovanni Cassano: quel farmaco fu una rivoluzione
"Non dà grandi disturbi ed è efficace ma nessuna pillola cura l'infelicità"


ROMA - Professor Giovanni Cassano, psichiatra, perché il Prozac è stata una rivoluzione?
«È stata una rivoluzione perché il Prozac è un farmaco molto maneggevole».
Che vuol dire?
«Non ha grossi effetti collaterali, permette di continuare a lavorare, guidare, non dà disturbi del linguaggio come altri farmaci, può evitare il ricorso al ricovero e c´è un minor tasso di suicidio. È un farmaco che ha un buon rapporto costi-benefici, un buon equilibrio tra tollerabilità ed efficacia. È stata una novità anche se la fluoxetina noi la usavamo già negli anni 70 a livello sperimentale, premarketing».
Eppure ciclicamente saltano fuori rapporti che denunciano effetti pericolosi.
«È una cosa controversa, quella dei suicidi dei minori poi è stata smentita da altri studi. Comunque tutti i farmaci psicoattivi, inclusi il cortisone, gli antibiotici, i farmaci oncologici, possono produrre agitazione anche suicidio soprattutto se si fa abuso di alcol ma non si possono ridurre a questo i loro effetti».
Quando viene prescritto?
«Ha un largo spettro d´azione, definirlo antidepressivo è riduttivo, è una semplificazione dell´industria, si usa anche per stati ossessivi, panico, bulimia. Oggi il mondo della depressione è cambiato, il farmaco si può anche associare alle psicoterapie».
Chiamarlo pillola della felicità è stato pericoloso, un inganno?
«È stata un´invenzione, non c´è nessuna correlazione tra depressione e infelicità questo lo sa anche un buon studente di medicina. Non ci sono medici che curano l´infelicità».
(m.c.)

Repubblica 18.11.07
Il tramonto del dio Dollaro
di Vittorio Zucconi


I media Usa non lo dicono, l´opinione pubblica lo ignora, i guru tacciono, l´Amministrazione parla d´altro Ma la supremazia della valuta americana è alle corde
Ci fu un tempo, ormai lontano, in cui Hemingway si comprava Parigi con la sua piccola pensione di reduce E gli inviati speciali viaggiavano al riparo dai guai...

Dollaro. La parola tintinna alle orecchie del mondo con il suono di quei talleri d´argento boemo ai quali deve il nome. Evoca sogni di ricchezza, ma soprattutto di sicurezza, di forza e di egemonia, come un transatlantico inaffondabile tra la flotta di barchette e navigli monetari sballottati dalle onde delle periodiche "tempeste valutarie". Vederlo oggi imbarcare acqua speronato dall´euro, dalla sterlina, dal franco svizzero, persino dall´umile dollaro canadese, che gli statunitensi avevano sempre guardato come tagliando per il Monopoli, è molto più che un problema finanziario o una questione di commerci. È lo shock di scoprire che una supremazia apparentemente inattaccabile, espressione e strumento insieme della supremazia dell´America sul mondo, sta facendo acqua e rischia di essere un altro dei caduti sotto i colpi della presidenza Bush. Il dollaro è da settant´anni più di uno strumento valutario, di una moneta rifugio o di una riserva custodita nei forzieri delle nazioni, o nei conti numerati dei despoti e dei trafficanti: è la bandiera che i marines e i fanti sbarcati nelle isole del Pacifico e sulle spiagge di Normandia piantarono, anche acquistandola con le loro vite, sul mondo.
A noi passeggeri sul "dollaro Titanic", qui a bordo del transatlantico America che ignora la crisi dell´almighty dollar, la sola moneta che avesse meritato l´aggettivo riservato al Signore onnipotente, il sentimento di stupore del mondo arriva attutito, lontano. Tra la completa indifferenza del comandante e degli ufficiali in plancia, che guardano con benign neglect, con benevola negligenza la deriva della nave, ben contenti che i rapporti di cambio ostacolino le importazioni mentre favoriscono le esportazioni e ingrossano i profitti delle multinazionali che fatturano anche in euro, l´America dello shopping natalizio e dei saldi non avverte ancora le scosse. L´orchestra dei consumi, quella che fa ballare due terzi dell´economia americana, continua a suonare. La celebre frase di Richard Nixon che nel 1971, nel pieno di un altro uragano monetario, rispose al presidente della Fed, Arhur Burns, preoccupato anche per la lira italiana, «io me ne strafotto della lira», suona oggi autoironica. È la Casa Bianca che sembra "strafottersene del dollaro" ed è la barchetta lira, diventata la corazzata euro, a infischiarsene della moneta verde.
Agli elettori dell´America repubblicana, che guida Chevrolet e Ford, fa acquisti negli hangar commerciali della più grande catena di discount al mondo, la WalMart, mangia carne macellata in Nebraska, patate raccolte in Idaho e indossa camicie cucite in Cina pagate pochi centesimi all´ora, l´affondamento del dollaro ben poco interessa. È l´America della "costa blu" e della "riva di sinistra", la California, delle sponde oceaniche dove milioni di senza documenti sudano per mandare a casa dollari che comprano sempre meno, si calzano scarpe italiane, si guidano auto tedesche e si sogna la vacanza in Toscana-Italia, è questa l´America dove l´anemia della valuta americana pesa. E qualcuno insinua, come il finanziere James Cramer, conduttore di uno show di Borsa, che a Bush non dispiaccia troppo punire gli snob che comunque non voteranno mai repubblicano o le rimesse di quegli immigrati che in California votano democratico. Ma né a Manhattan né a Omaha, né a San Francisco o a Cincinnati, ci sono quei segnali di panico che avrebbero travolto l´Italia, se avesse visto la vecchia lira affondare.
Sono i centri studi, gli osservatori che cercano di guardare oltre l´orizzonte dello shopping e dei soliti cicli di boom and crash, come quelli che stanno squassando il mercato degli immobili e dei mutui, quelli che annusano il cambio epocale di clima. «Ormai il mondo ha due monete di riferimento, l´euro e il dollaro, non più soltanto una, il dollaro», avvertiva già nel 2003 il Cato Institute di Washington, e soltanto perché la Cina, che insieme con il Giappone ha la massima quantità di cambiali del Tesoro americano nelle proprie riserve, puntella ancora la valuta Usa, il "Signore onniponte" non tracolla. Ma l´universo statico dei cambi, costruito a Bretton Woods sopra l´egemonia politica, militare e culturale degli Stati Uniti dominanti, è divenuto una galassia fluida, un sistema a due soli, per ora. Almeno fino a quando la Cina dovesse decidere di calare la carta del proprio yuan e commerciare utilizzando la propria moneta.
Di questa rivoluzione, che sta portando alle conseguenze inevitabili quello che accadde nel 1971 quando Nixon fu costretto ad abbandonare la parità fra dollaro e oro per impedire il saccheggio dei lingotti di Fort Knox compiuto soprattutto dalla Banque de France, il pubblico che grida felice sugli ottovolanti di Disneyworld, che intinge patatine fritte nel ketchup di McDonald´s, che lotta contro le compagnie di assicurazione per le cure mediche, nulla sa. I grandi media popolari, e anche i giornali di qualità, ignorano il fatto che il dollaro americano si sia dimezzato di valore rispetto all´euro nell´arco di cinque anni, da quando bastavano 75 centesimi di dollaro per comperare un euro, al corso di questi giorni quando ne occorrono praticamente il doppio, 145 centesimi. L´universo di Internet, pronto a vibrare per ogni voce sulle possibili relazioni saffiche di Hillary Clinton o sulla biancheria mistica indossata dal mormone Mitt Romney, dorme di fronte al colossale debito americano, ai miliardi di buoni del Tesoro accatastati nelle casseforti di Cina e Giappone, al rischio di inflazione che sempre la svalutazione della propria moneta comporta.
È l´autismo valutario di una nazione abituata a considerare appunto "Dio" la propria moneta, che resiste anche alle voci terrificanti di un possibile passaggio in massa dei produttori di greggio dal dollaro all´euro. O alle non più tanto velate minacce - l´ultima è dell´agosto scorso - dei cinesi, che meditano di passare dal dollaro alla valuta europea come principale strumento di riserva. Nella autoreferenzialità di questa amministrazione Bush, ipnotizzata dalle sirene del "nuovo secolo americano", non si sente una voce autorevole, né alla Fed né al Tesoro, riflettere su quale fondamentale ruolo abbiano giocato il dollaro, la sua centralità assoluta, il suo essere il danaro del commercio, delle riserve, dell´ultimo rifugio, nel creare il secolo americano vero, il Ventesimo. La fissazione della forza militare ha fatto dimenticare che senza l´egemonia culturale e l´egemonia finanziaria, le armi da sole non sostengono un impero, neppure se si crede un impero del Bene.
Qualche pensionato che fino a ieri attraversava le frontiere con il Canada e il Messico per rifornirsi di medicinali a minor costo in quelle nazioni, sta scoprendo amaramente che il vantaggio di cambio è svanito e il dollaro non arriva più lontano come un tempo, né viene accolto come il messia. Gli immobiliaristi di New York si consolano al pensiero dei futuri acquirenti europei e asiatici che, come accadde già negli anni effimeri dello yen giapponese trionfante, sbarcheranno per accaparrarsi appartamenti e palazzi in saldo. Ma nel fondo della coscienza popolare, l´idea che quella moneta con la sua inconfondibile S barrata stia diventando soltanto una delle tante valute in un mondo che è costretto ancora a tenerla nelle riserve, senza più desiderarla, non è ancora penetrata. Soltanto chi ha speculato un anno fa, o ancora sei mesi or sono, sul grande ritorno del transatlantico verde, ha scoperto che quel pugno di dollari si è trasformato in un pugno di mosche.

Repubblica 18.11.07
"Vi racconto i film della mia vita"
di Wim Wenders


Una retrospettiva al Torino Film Festival celebra il regista tedesco. Che, per ciascuna delle sue opere, ha accettato di registrare un video in cui racconta la nascita della sceneggiatura, i retroscena del set, i vezzi degli attori Ne abbiamo trascritti e selezionati alcuni, ricavandone l´autoritratto di uno dei protagonisti più amati del cinema contemporaneo
L´opera "Nel corso del tempo" è molto particolare: non c´era traccia di sceneggiatura, c´era solo una strada

Alice nelle città. È un film a cui sono molto, molto affezionato. Quando lo girai, nell´estate del 1972, avevo ventisette anni. Non ero contento di ciò che avevo fatto fino ad allora. Non ero sicuro di voler continuare a fare il regista. Potevo rimettermi a fare il critico, o a dipingere. Quindi pensai che dovevo fare un film per dimostrare a me stesso che questo era ciò che avrei fatto per tutta la vita: fare film. Così decisi di fare un film molto personale. Scrissi la sceneggiatura di Alice nelle città da solo. In realtà, scrissi la sceneggiatura solo per chiedere i finanziamenti, ma appena iniziammo le riprese la lasciai perdere, e continuammo a scrivere mentre giravamo il film. Questo si rivelò un metodo che mi piaceva molto, con cui mi sentivo molto a mio agio. La troupe apprezzò molto questo modo di lavorazione on the road. Era una piccola troupe, eravamo in tutto otto persone. Non avevamo molti soldi, ma a volte quando non hai molti soldi hai tutto ciò che ti serve, e a volte quando hai un sacco di soldi non hai abbastanza. In Alice nelle città sentivo di avere abbastanza di tutto. Lo girammo molto velocemente, in quattro settimane, in 16mm, e mentre lo montavo con Peter Przygodda, mi resi conto che sì, avrei continuato a fare il regista.
Falso movimento. È il primo film di Nastassja Kinski. La conobbi in una discoteca, a Monaco. Stava ballando, era bellissima, e io cercavo una ragazza della sua età. Mandai la mia ragazza a chiederle se potevo parlare con sua madre, perché non volevo andare lì e dirle: "Salve, sono un regista, vuoi fare un film con me?". Andai a trovare sua madre il giorno dopo. Non volevano dirmi quanti anni avesse, perché per entrare in discoteca doveva avere sedici anni. All´inizio mi dissero che aveva quindici anni, ma alla fine lei confessò di avere quattordici anni, e quando le facemmo il contratto venne fuori che ne aveva tredici. Andava ancora a scuola e non era mai stata davanti ad una macchina da presa.
Nel corso del tempo. Fu girato nell´estate del 1975. È davvero il road movie per eccellenza, perché non c´era una sceneggiatura, c´era solo un itinerario. Avevo una grande cartina della Germania. Percorsi da nord a sud il confine tra le due Germanie, una strana terra di nessuno proprio nel mezzo del paese. I giovani se ne andavano da lì, era una regione abbandonata. Il Muro era una strana presenza, proprio in mezzo al paese. Io seguii il Muro e feci un film in bianco e nero. Con una troupe ridottissima, otto persone, ma girato in 35mm. Conoscevo bene l´itinerario, l´avevo già percorso due volte, e avevo visitato tutte le cittadine, i villaggi e le città più grandi lungo il confine tra le due Germanie - ovviamente, sul versante occidentale del confine - in cui ancora c´erano dei cinema. Il "Re della strada", il personaggio principale, va di cinema in cinema a riparare i proiettori. Ha un grande camion e fa sempre questa strada, da solo sul suo camion. Ma stavolta, nella nostra storia, ha qualcuno che gli fa compagnia. Incontra Kamikaze. Questa era l´unica cosa scritta che avevamo, la prima scena, la prima pagina di dialogo: come i due si incontrano. Kamikaze, che sta guidando la sua volkswagen, finisce dentro al fiume Elba, che segnava la linea di confine tra le due Germanie. Da quel punto in avanti, non c´era più sceneggiatura. La scrivevo sera dopo sera, fu un´esperienza fantastica.
L´amico americano. Girai questo film nell´autunno del 1976. Era tratto da un romanzo di Patricia Highsmith. I suoi libri mi piacciono molto, li ho letti tutti. Il mio preferito era The Cry of the Owl. Così scrissi al suo editore e gli chiesi se potevo trarne un film. Mi risposero di no, i diritti erano già stati acquistati da una casa di produzione americana. Quindi la mia seconda scelta fu The Tremor of Forgery. Scrissi un´altra lettera. Settimane dopo mi risposero: "No, i diritti sono già stati comprati". Allora passai in rassegna tutti i romanzi della Highsmith che amavo e il risultato era sempre lo stesso: non c´erano diritti disponibili. Alla fine ricevetti una lettera direttamente da Patricia Highsmith: "Ho saputo che vorrebbe acquistare i diritti dei miei romanzi. Venga a trovarmi". Lei viveva in Svizzera. Io andai là e la conobbi. Viveva da sola in una piccola casa, con tanti gatti. Fu molto gentile. Mi offrì tè e biscotti, e poi volle saperne di più su di me, chi ero e perché ero così affascinato dai suoi romanzi. Le dissi la verità. Fu un incontro piacevole. Alla fine lei andò alla sua scrivania e tirò fuori un manoscritto: "È vero, tutti i miei romanzi sono opzionati da produzioni americane, ma questo l´ho appena finito e nemmeno il mio editore ne sa nulla. Quindi posso assicurarle che i diritti di questo sono disponibili". Era il manoscritto di Ripley´s Game. Così Ripley´s Game divenne la base di The American Friend.
Dennis Hopper e Bruno Ganz erano due attori con metodi molto diversi, e quindi sul set di The American Friend si scontrarono. Bruno era molto coscienzioso. Era il suo primo film commerciale, e si era preparato meticolosamente. Bruno era sui trentacinque anni e aveva lavorato solo in teatro. Dennis, al contrario, non aveva mai fatto teatro, solo film, e arrivò senza nessuna preparazione. Ma a ogni ciac, Dennis era sempre pronto, preciso. Bruno era molto infastidito dal fatto che questo tizio, che non aveva nemmeno letto la sceneggiatura, fosse così bravo davanti alla macchina da presa. Così, uno dei primi giorni delle riprese, in mezzo a una scena, all´improvviso cominciarono a picchiarsi. E non era in sceneggiatura. Cominciarono a prendersi a pugni. Prima che ce ne accorgessimo, erano a terra con il naso rotto. Sembravano due gatti. Dovemmo interrompere la ripresa. Se ne andarono insieme e quel giorno non li vidi più. Il giorno dopo arrivarono. Erano ridotti uno straccio. Erano stati tutta la notte fuori. Non potei girare neanche quel giorno, ma da allora divennero grandi amici. E da quel giorno Dennis venne sempre a chiedermi la sceneggiatura, per leggerla insieme a me e prepararsi. Bruno Ganz, invece, quando volevo parlare con lui della scena, mi diceva: "No, la improvviso". Impararono molto l´uno dall´altro.
Nick´s film. Il progetto fu un´idea di Nicholas Ray. Un paio d´anni dopo L´amico americano, ero a Hollywood a lavorare su Hammett. Nick mi chiamò e mi disse: "Wim, non sto bene, sono appena uscito dall´ospedale". Era già la seconda volta che lo operavano. Aveva un cancro ai polmoni: "Mi è rimasto un solo desiderio. Mi piacerebbe fare un altro film. Per me da solo sarebbe difficile realizzarlo, ma insieme, forse possiamo farcela". Ci sedemmo ad un tavolo per parlarne e poco dopo cominciammo a girare, perché sapevamo che c´era poco tempo. Alla fine il film divenne un documentario, il cui argomento è, più o meno, la morte di Nick. Io e tutta la troupe eravamo pieni di dubbi. Ci chiedevamo se avevamo il diritto di filmare un uomo in quello stato, di fare un film così personale sulla morte di un uomo, su un uomo che muore. Parlai più volte con i suoi medici. Dicevo loro che era meglio fermarsi, che non si poteva continuare. Ma loro mi dissero che interrompere sarebbe stato peggio. Quindi andammo avanti fino all´ultimo, quando Nick passava ormai la maggior parte delle giornate in ospedale, dove lo riempivano di antidolorifici. E poi un giorno capimmo che non potevamo più andare avanti. Poche settimane dopo Nick morì. Nick restò lucidissimo fino all´ultimo. Facemmo una bella ripresa con lui, la scena più lunga del film, quando lui alla fine dice: "Stop".
Paris, Texas. Il film fu girato nell´estate del 1983 e tutto funzionò come per magia. Fu girato in America in modo clandestino. Avevo una troupe europea, erano tutti in America con visti turistici, giravamo senza nessuna autorizzazione, con un budget limitato. Alla fine il sindacato dei camionisti ci scoprì e dovemmo assumere dieci autisti. Questo ci costò una settimana di riprese. Alla fine dovemmo fare il film con metà del budget programmato, perché il dollaro quell´anno andò alle stelle. A volte, quando hai meno soldi di quanto vorresti, devi sostituirli con qualcos´altro, che è molto più prezioso dei soldi, cioè con l´immaginazione. Per Paris, Texas fummo costretti ad usare molta immaginazione.
Io e Sam Shepard avevamo scritto mezza sceneggiatura, perché Sam doveva venire con me durante le riprese, così avremmo scritto la seconda metà mentre giravamo. Ma quando cominciammo a girare, Sam non era più disponibile. Stava girando un film con Jessica Lange, perché si era innamorato follemente di lei. Il film si intitolava Country. E lo giravano nel nord degli Stati Uniti, mentre io stavo girando nel caldo rovente del Texas. Quindi ero senza sceneggiatore e dovetti più o meno inventarmi la seconda parte del film da solo. Mandai il mio schema a Sam, o forse gliene parlai al telefono, perché all´epoca il fax non esisteva. In una notte Sam, su nel Wisconsin, scrisse i dialoghi della seconda parte e me li dettò al telefono nel bel mezzo della notte. Io li scrissi a macchina per darli agli attori il giorno dopo, e così Sam riuscì a finire la sceneggiatura del film.
Buena Vista Social Club. Io e Ry Cooder stavamo lavorando insieme alla colonna sonora di The End of Violence. Vedevo che aveva qualcosa di strano. Se ne stava seduto lì, a guardare il vuoto. Allora gli chiesi: "Ry, che cos´hai? Dobbiamo lavorare. Dove sei?". E alla fine mi rispose: "Sono ancora all´Avana". "Che succede all´Avana?". E lui: "Ho registrato la migliore musica della mia vita, laggiù". A fine giornata, quando lasciammo lo studio, mi diede delle cassette e disse: "Questo è il pre-missaggio. Ma devi riportarmelo domani". Non avevo più un mangianastri a casa, ce l´avevo solo in macchina, così ascoltai la cassetta mentre guidavo verso casa e... era elettrizzante. Veramente roba da impazzire. Non avevo mai sentito una musica così trascinante in tutta la vita. Ascoltai quella cassetta tre volte. Continuai a guidare intorno a casa per ore, solo per ascoltarla. Il giorno dopo, riportai la cassetta a Ry e gli chiesi: "Chi sono i ragazzi con cui hai inciso questa musica incredibile?". Lui rise e mi disse: "Non sono esattamente dei ragazzi". E mi raccontò la storia di Compay Segundo, che aveva più di novant´anni, di Ruben Gonzalez, che ne aveva più di ottanta, anche Ibrahim Ferrer aveva quasi ottant´anni. E io non riuscivo a crederci. Qualche mese dopo mi chiamò e disse: "Wim, ci torno la prossima settimana". E io: "Dove?". E lui: "All´Avana". Mi diede cinque giorni per mettere insieme una troupe e trovare un po´ di soldi per andare all´Avana con lui. Cominciammo a girare appena scesi dall´aereo. Restammo lì a girare per tre settimane. Mai divertito tanto. Non sembrava nemmeno di lavorare. Era come ballare.

Corriere della Sera 18.11.07
L'intervento Il terrorismo e noi
«Il dialogo tra le religioni non argina l'odio»
il cammino per la pace esige l'eliminazione delle disuguaglianze
di Amartya Sen


l'Economia Il percorso
Nato 74 anni fa nello Stato del Bengala Occidentale in India, Amartya Sen ha studiato in patria e a Cambridge, in Gran Bretagna, arrivando poi a insegnare anche a Harvard, negli Usa
La teoria
Si deve a Sen l'elaborazione dell'Indice di Sviluppo Umano, con l'introduzione di nuovi parametri per valutare la reale ricchezza di un Paese: dall'aspettativa di vita, all'alfabetizzazione degli adulti
Scontro di civiltà
«L'incitamento allo scontro è sostenuto dall'Occidente quando classifica in base alla fede»

Il dilagare del terrorismo e della violenza politica nel mondo contemporaneo ha fatto nascere negli ultimi anni molte iniziative per arginare questi flagelli. Sono stati messi in campo interventi militari per assicurare la pace, con giustificazioni più plausibili in alcuni casi, meno in altri.
Eppure la violenza settaria attizzata attraverso l'istigazione sistematica non è esclusivamente, né prevalentemente, una sfida militare. Nel nostro mondo diviso essa viene alimentata con la seduzione.
Una seduzione esercitata dalle ideologie e dai nazionalismi, e sfrutta la collaborazione non solo degli adepti, ma anche di quanti sono forse solo parzialmente convinti. Alcune reclute si sentono «ispirate» ad aderire a movimenti che promuovono la violenza contro gruppi ben definiti, ma una parte della popolazione, assai più numerosa, non vi partecipa direttamente. Costoro, però, contribuiscono enormemente a instaurare un clima politico nel quale i popoli più pacifici arrivano a sopportare le azioni più sfrontate di intolleranza e brutalità per motivi vagamente percepiti come autodifesa, o rappresaglia, contro il «nemico» così identificato.
Il rapporto «Un cammino civile verso la pace», redatto dalla Commissione del Commonwealth e pubblicato il 9 novembre 2007, focalizza l'attenzione in particolare sulle cause del terrorismo e della violenza organizzata, che negli ultimi anni sono aumentati paurosamente e affliggono o minacciano la vita di miliardi di persone nei Paesi del Commonwealth, e non solo, come pure sulle modalità di prevenzione. Il rapporto non sostiene affatto che le iniziative militari sono illegittime, bensì ribadisce che quando sono motivate da informazioni errate o da tesi poco convincenti, oppure mal collegate alle strategie civili, esse rischiano di innescare ripercussioni controproducenti su vastissima scala. Tutte le iniziative sistematiche di natura civile, sia a livello nazionale che globale, sono invece essenziali per affrontare con successo la violenza organizzata e il terrorismo. Centrale all'approccio civile resta il riconoscimento dell'esigenza di superare una lettura confusa o infiammatoria dei rapporti umani, che rischia di fomentare odio e ostilità contro bersagli precisi. Anche se tutti gli esseri umani si riconoscono in fedi religiose o affiliazioni politiche, con molti modelli distinti di condivisione (tra cui l'appartenenza comune a una medesima identità umana), queste identità multiple vengono sistematicamente sminuite per coltivare la violenza settaria, che si afferma privilegiando appunto un'unica affiliazione come «identità reale» di quell'individuo. Gli esseri umani vengono pertanto percepiti come schierati gli uni contro gli altri in uno scontro immaginario, da un lato e dall'altro di un unico divario prioritario.
Persino l'immane violenza scatenata dalla Prima guerra mondiale, che costrinse tanti europei a partecipare da protagonisti consapevoli a una guerra inutile, si giustificava esaltando le identità nazionali, a scapito di tutto il resto. Oggi, l'effetto dirompente di una priorità così esasperata scaturisce sempre di più dall'affermazione di un'identità religiosa, anziché nazionale, ignorando tutte le altre eventuali appartenenze. L'esasperazione di questo incitamento allo scontro, spesso ai danni dell'Occidente, finisce col ricevere il sostegno implicito dell'Occidente stesso, in quanto sempre più propenso a classificare la popolazione mondiale quasi esclusivamente in termini di fede religiosa, o di appartenenza a distinte «civiltà», anche queste definite a priori in termini di religione (e sostenute dalla tesi che le diverse civiltà sono destinate a «scontrarsi» tra di loro).
Ma gli esseri umani, con il loro bagaglio di preoccupazioni e affiliazioni che condividono in modi tanto diversi quanto complessi, non devono necessariamente vivere sempre in contrapposizione. Se i cambiamenti istituzionali necessari per seguire un cammino civile verso la pace richiedono chiarezza di pensiero, essi esigono altresì, come sottolineato dal rapporto della Commissione, politiche organiche e iniziative istituzionali che abbiano la portata e la flessibilità indispensabili per incoraggiare, anziché ostacolare, la comprensione delle relazioni umane in tutta la loro meravigliosa ricchezza.
L'ampiezza del raggio d'azione è cruciale. Persino il voler instaurare un «dialogo tra le religioni», che per quanto animato da buone intenzioni resta sempre piuttosto angusto (benché molto in voga in questo momento), rischia di minare seriamente altri tentativi civili, che si ricollegano a lingua, letteratura, espressioni culturali, politiche nazionali e interazione sociale capaci di aiutare gli individui a sottrarsi allo sfruttamento delle differenze religiose, perché questo ben presto minaccia di scalzare tutte le altre affiliazioni. Il ventaglio degli interventi della società civile richiede sostegno per essere ampliato, non soppiantato.
Si può arginare l'odio e l'ostilità con vari mezzi, tra cui l'azione dei media, l'incoraggiamento alla partecipazione politica, l'espansione di attività culturali su una base molto estesa e capace di includere tutti i soggetti, e altri mezzi per stimolare il rispetto e la comprensione reciproca. Il cammino civile verso la pace esige inoltre di eliminare le più vistose disuguaglianze economiche, le umiliazioni sociali e la privazione dei diritti politici, che contribuiscono a generare risentimento e conflittualità. Tuttavia i parametri puramente economici delle disuguaglianze non fanno emergere la dimensione sociale della disuguaglianza stessa. Per esempio, quando le persone in fondo alla scala economica hanno diverse caratteristiche non economiche, in termini di razza (sono neri piuttosto che bianchi), o un diverso stato di immigrazione (gli arrivi più recenti per rapporto agli immigrati già stabiliti), allora la gravità della disuguaglianza economica viene sostanzialmente intensificata dall'«abbinamento » con altre divisioni, ricollegate a gruppi di identità che nulla hanno a che vedere con la condizione economica.
Il cammino civile verso la pace non ignora in nessun modo il fatto fondamentale che terrorismo e massacri, qualunque sia la loro matrice, restano gesti criminali che esigono l'applicazione di misure di sicurezza efficaci. Senza questo presupposto, non può esserci nessuna seria analisi della violenza settaria. Ma l'analisi non può fermarsi qui: è doveroso anzi intraprendere molte iniziative sociali, economiche e politiche per affrontare e sconfiggere le lusinghe cui ricorrono quanti fomentano violenza e terrorismo per attirare tra le loro fila militanti attivi e simpatizzanti passivi.
Il Commonwealth è sopravvissuto e continua a prosperare malgrado le ostilità scaturite dal passato coloniale del Regno Unito. Se non sono mancati i problemi, occorre ricordare peraltro anche i successi ottenuti, in particolar modo nell'aver rimpiazzato l'aspro scontro tra dominatori e ribelli con la cooperazione diffusa tra popoli indipendenti.
Quel successo è stato possibile grazie al ricorso a principi guida lungimiranti, incentrati in particolar modo su un approccio multilaterale. La Commissione sostiene che quei principi sono ancora validi e attuali ai nostri giorni per il futuro del Commonwealth, come per il mondo nel suo insieme. In questo senso, il cammino civile verso la pace rappresenta un piccolo tentativo, elaborato in base all'esperienza del Commonwealth, per comprendere quelle esigenze civili che appaiono determinanti per un futuro di pace sul pianeta.
Amartya Sen
© Guardian News & Media 2007 Traduzione di Rita Baldassarre Premio Nobel per

sabato 17 novembre 2007

Agi 16.11.07
PENA DI MORTE: BERTINOTTI, LA MORATORIA E' UN RISULTATO STORICO


(AGI) - Roma, 16 nov. - "Indubbiamente e' giusto mettere l'accento su quello che resta da fare, pero' io credo che bisogna fissare questo momento cosi' importante. Il risultato e' davvero straordinario, troppe volte sciupiamo delle parole importanti, ma questo e' davvero un avvenimento storico". Cosi il presidente della Camera Fausto Bertinotti commenta, ai microfoni di Radio Radicale, il voto favorevole alla risoluzione sulla moratoria delle esecuzioni capitali espresso ieri dalla commissione diritti umani del'Onu.
"Conquistare una risoluzione sulla moratoria della pena di morte - spiega Bertinotti - vuol dire introdurre in un mondo attraversato dalla violenza, dalla guerra e dal terrorismo, una conquista di civilta' intanto nella cultura e nella volonta' di grandi organizzazioni come l'Onu che puo' lavorare nel fondo delle societa' per almeno far si' che gli stati non dispongano piu' della possibilita' di uccidere, e quindi in qualche modo costituisca un argine alla violenza. E' un risultato molto importante. Comincerei con il riconoscimento di una lunga azione, mossa da Marco Pannella e dai Radicali, che ha agito da fertilizzazione del terreno, e nel momento in cui si consegue un risultato cosi' emozionante e' giusto riconoscerlo. E' giusto riconoscerlo anche perche' e' una lezione per la politica, per come si puo' costruire un contagio positivo".
"Il secondo elemento - aggiunge il presidente della Camera - riguarda le istituzioni e le forze politiche che si sono lasciate contagiare, e che per quello che ci riguarda anche qui alla Camera dei deputati hanno costruito un impegno comune ,anche questo un po' straordinario in un periodo nel quale non ci si mette d'accordo su niente. Su una cosa come questa sin dall'inizio il Parlamento ha svolto una funzione di sollecitazione anche sul governo. Poi credo che vada riconosciuta al governo una capacita' di iniziativa politica intelligente - sottolinea Bertinotti - che ha guadagnato un consenso in Europa senza rinchiudere nell'Europa il protagonismo di una battaglia che e' stata vinta fin qui solo grazie al fatto che non si e' configurata come un'esclusiva europea e che invece ha saputo attivare tutte le forze disponibili nel mondo perche' si conseguisse questo risultato".
"Adesso - conclude - si tratta di portarlo a compimento, ma mi pare davvero che si possa dire che un risultato molto importante e' acquisito". (AGI)

l’Unità 17.11.07
La «Cosa rossa» si prepara alla battaglia del welfare
Mussi: il voto sul protocollo non è scontato. Giordano: indispensabili le modifiche. E si lavora all’unità
di Simone Colini


BENE l’approvazione della Finanziaria, ma ora con Prodi e con gli alleati vanno ridiscusse le priorità di questo governo. L’ala sinistra dell’Unione si prepara alle prossime battaglie, a cominciare da quella sul protocollo sul welfare. Rifondazione comunista, Sinistra democratica, Verdi e Comunisti italiani si sono dati appuntamento a Napoli, all’indomani del voto del Senato. I vertici della «Cosa rossa» cantano vittoria per il via libera al Senato di una manovra di bilancio che, per dirla con Fabio Mussi, «arriva al traguardo migliore di come era partita» e che, per dirla con Franco Giordano, «nonostante Dini ha portato alla stabilizzazione dei precari nel pubblico impiego». E questo, dicono sia il coordinatore di Sd che il segretario del Prc, grazie al fatto che le forze di sinistra hanno fatto fronte comune per tutta la battaglia parlamentare, dalla presentazione di emendamenti unitari fino alla dichiarazione di voto con lo speaker unico.
«Abbiamo sperimentato l’effetto benefico del primo passo di unità a sinistra», dice Mussi intervenendo all’iniziativa pubblica organizzata alla Città della scienza di Bagnoli. Ora però si apre una fase decisiva per il centrosinistra, avverte il ministro dell’Università. «Dobbiamo chiedere a Prodi e agli alleati di sedersi attorno a un tavolo per rimettere in ordine le priorità. E poi dobbiamo lavorare sodo per realizzarle. Il governo può anche cadere. Guai se cadesse per responsabilità della sinistra. Il nostro impegno è perché faccia bene e faccia meglio». Mussi cita tra le priorità il lavoro e il problema del precariato, per poi buttare lì una frase che lascia prefigurare scenari di diverso tipo: «Il voto sul protocollo non è scontato».
È questo il prossimo fronte sul quale giocherà le sue carte e verrà messa alla prova la sinistra unitaria. Come si è visto alla manifestazione del 20 ottobre, alla quale aderirono Prc e Pdci ma non Verdi e Sd, le posizioni sulle strategie non sono coincidenti. Non a caso, se Mussi oltre quella sibillina frase non va di fronte alla platea riunita a Napoli, Giordano invece calca la mano proprio sul protocollo, definendo «assolutamente necessarie» le modifiche al decreto nella conversione in disegno di legge. Come però, d’altro canto, non è un caso se il segretario del Prc sta attento a non creare lacerazioni all’interno del soggetto «unitario e plurale» che dovrà nascere: sa che Mussi e i suoi alla manifestazione di un mese fa non hanno partecipato proprio perché preoccupati di una piazza che potesse dar voce a posizioni antisindacato, e di fronte al ministro dell’Università e alla platea dice che alle modifiche ci si può arrivare «con il consenso del movimento sindacale»: «Nessuna contrapposizione», assicura anche a beneficio di Alfonso Pecoraro Scanio (per il Pdci c’è il capogruppo alla Camera Pino Sgobio).
L’asse tra Giordano e Mussi, i due più propensi a vedere nella nascente federazione un semplice passo intermedio verso un soggetto sì plurale ma veramente unitario, non dovrebbe insomma essere incrinato dalla battaglia sul protocollo. Anche perché se Giordano vuole «impedire che l’agenda politica sia dettata dal Pd», Mussi fa notare che, «non può continuare ad esistere un arcipelago a fare da corona al Pd» e che «solo una sinistra unita, a due cifre, può incidere». Sull’abolizione del «job on call» e sul fatto che i contratti a termine non possano superare i 36 mesi l’intesa c’è, e verrà presentata agli alleati in un vertice che si preannuncia tutt’altro che semplice. Se Dini fa sapere che se il protocollo viene «annacquato» è pronto anche a far cadere il governo, Mussi spera che l’ex premier rifletta: «Buttare tutto all’aria senza sapere dove si va non sarebbe un atto di ragionevolezza politica».

l’Unità 17.11.07
Berlinguer? Un solitario in mare
Il nuovo libro di Pietro Ingrao


Le passioni, le battaglie e le scelte degli ultimi anni

Il piacere e la pratica del dubbio, l’Occidente e l’Oriente, il Vietnam e l’Afghanistan, il carcere e la pena di morte, la militarizzazione della politica internazionale, gli Usa e il comunismo raccontati da Pietro Ingrao in un intenso dialogo con Claudio Carnieri. Questo, in sintesi, è La pratica del dubbio. Dialogo con Claudio Carnieri di Pietro Ingrao, di prossima uscita per i tipi della casa editrice Manni (pagine 88, euro 10,00), del quale pubblichiamo in anteprima, in questa pagina, un brano nel quale Ingrao racconta del suo rapporto con Enrico Berlinguer.
La vita politica di Pietro Ingrao (gran parte della quale lui stesso ha raccontato nel bellissimo Volevo la luna, Einaudi) coincide con i destini del comunismo e attraversa i grandi avvenimenti del Novecento: dalle due guerre mondiali, al Nazismo, allo Stalinismo, al crollo del muro di Berlino, fino ad oggi. Sulla sua pelle bruciano le passioni, le battaglie e le scelte di intere generazioni che, con i loro sogni hanno dovuto fare i conti con la storia, e la sua figura incarna le ragioni e le speranze che hanno tenuto insieme un popolo più che un partito. Il dialogo nel libro è la storia di un percorso di vita vissuto da protagonista, un libro «scomodo» in cui non si risparmiano critiche severe, analisi lucide e appassionate del secolo rifuggendo sia dalla retorica politica, sia da giudizi sommari.

UN LUNGO DIALOGO tra il leader politico e Claudio Carnieri «riempie il vuoto» lasciato dall’autobiografia Volevo la luna: comincia infatti là dove il racconto
termina, dagli anni Ottanta a oggi ed è raccolto nel libro La pratica del dubbio

Ricordandolo provo orgoglio per il suo legame alla causa di liberazione dell’umano, e simpatia per il suo essere stato vagabondo e silente

Aveva una capacità straordinaria di comunicare. Forse perché non era mai finto
Il suo limite, non abbandonarsi alla fantasia

Il piacere e la pratica del dubbio,
l’Occidente e l’Oriente, il Vietnam e
l’Afghanistan, il carcere e la pena di
morte, la militarizzazione della politica
internazionale, gli Usa e il comunismo
raccontati da Pietro Ingrao in un intenso
dialogo con Claudio Carnieri. Questo, in
sintesi, è La pratica del dubbio. Dialogo
con Claudio Carnieri di Pietro Ingrao, di
prossima uscita per i tipi della casa
editrice Manni (pagine 88, euro 10,00),
del quale pubblichiamo in anteprima, in
questa pagina, un brano nel quale Ingrao
racconta del suo rapporto con Enrico
Berlinguer.
La vita politica di Pietro Ingrao (gran
parte della quale lui stesso ha
raccontato nel bellissimo Volevo la luna,
Einaudi) coincide con i destini del
comunismo e attraversa i grandi
avvenimenti del Novecento: dalle due
guerre mondiali, al Nazismo, allo
Stalinismo, al crollo del muro di Berlino,
fino ad oggi. Sulla sua pelle bruciano le
passioni, le battaglie e le scelte di intere
generazioni che, con i loro sogni hanno
dovuto fare i conti con la storia, e la sua
figura incarna le ragioni e le speranze
che hanno tenuto insieme un popolo più
che un partito. Il dialogo nel libro è la
storia di un percorso di vita vissuto da
protagonista, un libro «scomodo» in cui
non si risparmiano critiche severe, analisi
lucide e appassionate del secolo
rifuggendo sia dalla retorica politica, sia
da giudizi sommari.

L’autobiografia di Pietro Ingrao, Volevo la luna, si fermaa
una fase cruciale della sua vita, lamorte di Moro
e il rifiuto di fare il presidente della della Camera
per la seconda volta.Da qui, dalla fine degli anni 70,
parte la conversazione tra ClaudioCarnieri e il leader
politico raccolta nel libro La pratica del dubbio, della
quale proponiamo qui di seguito uno stralcio.
E tu che pensavi? Quali erano a tuo avviso i
limiti della linea berlingueriana?
«Lo direi con una parola: l’Europa. Le carenze del
Pci su questo nodo erano antiche. Persino con i
compagni francesi la nostra intesa era spesso turbata
da quella loro ostinata gelosia, emersa già -
loavevovissuto di persona - in alcuni degli incontri
fra i partiti comunisti avvenuti a Mosca. Con
quei compagnifrancesi da anni ci giuravamo fratellanza;
poi scattava la loro gelosia irrefrenabile.
Già a metà degli anni ’70 Berlinguer aveva cercato
di allargare lo schieramento comunista inOccidente,
dando vita a una alleanza tripolare con i
«rossi» di Francia e di Spagna, e i loro leader (Carrillo,
Marchais): sotto la formula dell’euro comunismo.
L’intesa a tre fracomunisti italiani, francesi
e spagnoli, s’era compiuta soprattutto per l’impulso,
e l’autoritàdiEnrico,moltoappoggiato innanzituttodai
compagnispagnoli,daCarrillo prima
di ogni altro. La durata di quella stagione fu
breve, fino al 1977, quando si aprirono contrasti
soprattutto con i francesi e con Marchais.Il tema
più importante che avevamo dinanzi era però
l’intesa con i socialdemocratici e con le correnti
cattoliche avanzate, che erano di nuovo fortemente
presenti sulla scena d’Europa. Berlinguer
stesso cominciò a lavorare in quella direzione,
manon senza qualche esitazione che venne meno
solo nei primi anni ’80. Poi venne la tragedia
che ci sconvolse e commosse tutti. Berlinguer lavorava
freneticamente in quegli anni: nel suo
sforzo di collegamento con i comunisti d’Europa,
e con le correnti innovatrici del Paese, dove
non s’era affatto consumato il veleno del terrorismoe
poiperseguendoquelle suenuoveattenzioni
verso la sinistra europea e il Terzo mondo.
Quel leader stava in piazza. Entrava nella lotta
quotidiana. Girava l’Europa. Quando fulminea
precipitò la sventura. Stava tenendo un comizio
a Padova.Mentreparlavadaunatribunetta di fortuna,
nel vivo diunafrase, fu coltodaunictus fulminante.
Crollò di schianto a terra. Tra lagrime e
sgomento fu trasportato di corsa in ospedale. E
là, a Padova, visse giorni disperatidi lotta tra la vita
e la morte: senza mai riuscire a pronunciare
una sola parola.Mi precipitai in quell’ospedale, e
vissi quella sua agonia ora per ora. Venne anche
Pertini, e si fermò giorni accanto a quel malato
muto,chesembrava fermo a scrutareunorizzonte
lontano e indicibile. Poi venne la fine. E i pianti
dirotti deicompagniprostrati sulla salma, le invocazioni
senza speranza, con un dolore che era
pari all’amore per lui che era grande. Infine quella
salma coperta da manti e da fiori cominciò il
suo dolente viaggio per la penisola: con soste in
decine di stazioni, gremite da un popolo in lacrime:
e infinenelle strade di quella capitale dove lo
accompagnò fino a piazza San Giovanni un fiumedi
folla mai visto, impietrito in un incredibile
silenzio.Vennero a salutare quella salma persino
avversaridisempre:GuidoCarli, conservatoredichiarato…»
E oggi, da così lontano, come ti appare quel
leader? Come lo leggi? Che senti?
«Prima di tutto provo un senso di orgoglio umano.
Orgoglio per quel suo legame ad una causa:
quella causa storica di liberazione dell’umano. E
poi simpatia per le sue passioni singolari: come
vagava solitario nel mare, quasi a interrogare
l’orizzonte. Vagabondo e silente. Vederlo crollaredaquelpodiodoveparlava
del futurodel continente,
mi parve una violenza crudele».
Tu però non sei mai stato «berlingueriano».
Non avesti mai un rapporto confidenziale
con lui. Perché?
«È difficile dire. La memoria di quella persona è
troppo vicina. L’immagine stampata nella mia
mente è quella di lui in una barca, che avanza
scrutando l’orizzonte. Un solitario in mare… E
come mischiate nella sua vita, nel profondo del
suo sentire, una sete di solitudine e al tempostesso
una capacità di comunicazione straordinaria
con la gente. Forse perché non era mai finto.
Con un limite forse: pesava ossessivamente tutto.
Non si abbandonava mai (almeno così mi
sembrava) alla fantasia. Fra noi due ci furono stimagrande
e rispetto reciproci. Confidenzano. In
fondo, i nostri vocabolari erano diversi».
Torniamo agli inizi degli anni ’80, quando vai
a lavorare al Crs. Che facevi? Che cercavate?
Prima di tutto dove eravate allocati?
«Ricordi quella strada circolare che a Roma dalla
fine di via Nazionale porta a Piazza Venezia? In
una rientranza c’era un breve spiazzo, dov’era sita
una fontanella, a cui spesso ci abbeveravamo.
La sede del nuovo Crs stava proprio di fronte a
quella fontanella e al palazzo in cui fino al ’56 era
stata la sede dell’Unità: là - in quel gomito di strada
- io avevo lavorato furiosamente per circa dieci
anni: prima come capo cronista e poi come direttore
dell’Unità. In quello stesso edifizio c’era
unpiccolo eprelibatonegozioche amavamotanto:
la libreria Tombolini. La rividiquandoda BottegheOscurepassai
a lavorarealCrs. Era gradevolissimo
scendere dalle nostre stanze e - dopo aver
preso l’agognato caffè - andare a frugare fra i banchi
di quel libraio intelligente, sperando sempre
di metteremanosu qualchenuovapista interpretativa
di quell’ardente Novecento».
Era insomma il ritorno ad una
frequentazione più antica. Ecco. In quei
viaggi fra gli scaffali, nei tuoi anni giovanili,
che ti incuriosiva? Che cercavi?
«Prima di tutto cercavo testi che riguardavano le
mie passioni di sempre: cinema, poesia. Ma anche
classici della politica, o testi eretici per i quali
il fascismo stranamente aveva lasciato qualche
pertugio, se mai da case editrici impensate come
Corbaccio, per esempio. Quanto alla letteratura
cercavo non tanto autori italiani che da tempo
stavanonegli scaffali di casamia (Ungaretti,Montale,
Quasimodoe tutto il gruppo di quella rivista
di poesia Circoli impiantata in Liguria e diretta da
AdrianoGrande).Ora mi avvincevano autori del
Novecentoeuropeo odella letteraturaamericana
roosveltiana: Faulkner soprattutto e Steinbech, i
suoi testi più giovani: Uomini e topi per esempio,
quel libro singolare e ambiguo. In cima a tutti
c’erano però perme i grandi autori che avevano
mutato, insieme con il vocabolario e il catalogo
delle parole, la lettura dell’umano: Joyce innanzi
a tutti, e Kafka che ci parlava da quella città indimenticabile
che era Praga. Impallidiva il piacere
del fraseggio letterario a cuimi aveva trascinato il
cenacolo fiorentino. Agivaunanuovalingua che
si interrogava sul senso della vicenda dell’uomo».

l’Unità 17.11.07
Spagna, boom di divorzi lampo. La Chiesa contro Zapatero
A due anni dalla nuova legge aumentati del 74%. Separazioni
in calo. La Conferenza episcopale: così si distrugge la famiglia
di Franco Mimmi


AUMENTO del 74,3 per cento di divorzi, l’anno scorso in Spagna, dopo la legge del cosiddetto «divorzio express» varata nel 2005 dal governo socialista. Per questi dati statistici la chiesa spagnola ha subito alzato le grida al cielo: «Il governo – ha dichiarato padre Leopoldo Vives, della Conferenza episcopale – si è proposto di distruggere le basi della società spagnola per impiantare un nuovo modello a misura dei suoi interessi, per questo bisogna distruggere la famiglia e in questo si sta impegnando». Ma in realtà il divorzio express sembra avere soprattutto un risvolto positivo: infatti i coniugi che hanno deciso di rompere la loro unione lo fanno sempre più in modo consensuale. E un’analisi meno superficiale mostra che l’aumento è quasi inesistente, perché la nuova legge rende facile divorziare quanto lo era prima separarsi e infatti le separazioni sono diminuite del 70%. Altri dati statistici: in media, la rottura del vincolo avviene dopo circa 15 anni, e i coniugi - il 55% dei quali con figli - hanno tra 40 e 50 anni. Il divorzio è stato introdotto in Spagna nel 1981, pochi anni dopo il ritorno alla democrazia, e da allora il numero di casi mostra una curva ascendente. Fino a due anni or sono, però, esso richiedeva che prima vi fosse stata una separazione legale, che per questa fosse stata addotta una causa (come «l’infedeltà coniugale, la condotta ingiuriosa o vessatoria o qualsiasi altra violazione grave o reiterata dei doveri coniugali»), e che dal matrimonio fosse trascorso più di un anno. Insomma: le solite clausole dissuasive per cercar di evitare la rottura definitiva del vincolo. Ma tutto ciò serviva solo a perpetuare situazioni generatrici di grandi sofferenze e ad aumentare il costo del divorzio, sicché la legge del 2005 ha eliminato tutte quelle barriere: il divorzio può essere chiesto senza separazione previa e senza identificazione della causa, con una richiesta unilaterale e dopo soli tre mesi dal matrimonio (il che ha portato alla nascita del matrimonio express, tanto che nel 2006 c’é stato un migliaio di unioni (330%) che è durato meno di un anno). Come conseguenza, oggi il 70 per cento delle pratiche di divorzio arriva alla meta in meno di sei mesi, e vi sono compagnie che in internet offrono assistenza per tutta la procedura per meno di 500 euro Iva inclusa.
La legge fu introdotta assieme a quella che consentiva il matrimonio di coppie omosessuali, e sollevò la fiera opposizione sia della Conferenza episcopale sia della destra rappresentata dal Partido popular (quest’ultimo, timoroso di perdere i voti degli omosessuali, in una vertigine di ipocrisia sosteneva di non essere contrario a simili unioni ma solo a che si chiamassero matrimonio). I vertici della chiesa spagnola accusarono il governo socialista di Zapatero di praticare «misure antifamiliari», e invitarono i cattolici a usare tutti i mezzi legittimi «in difesa del matrimonio, della famiglia e dei bambini». Si poté così assistere allo spettacolo di vescovi manifestando nella pubblica via insieme con i vertici del Pp sebbene si fossero ben guardati dal fare altrettanto nei quarant’anni della dittatura franchista, non per nulla definita «nazional-cattolicesimo». Per i vescovi, il cosiddetto divorzio express introduceva «la figura del ripudio nella nostra legislazione», e il matrimonio gay voleva «annullare il significato antropologico della differenza sessuale e imporre la «teoria del genere», contraria alle vera natura dell’uomo».
Il Vaticano stesso entrò nella polemica, e non ha perso occasione per rinnovare lo scontro con il governo Zapatero. La protesta ecclesiastica, ormai trasformata in pretesto per fare campagna politica contro il governo socialista, è andata dalle leggi di cui si è detto all’insegnamento della religione nelle scuole, che i vescovi vorrebbero obbligatorio, fino alla recentissima beatificazione di 498 sacerdoti «martiri» della guerra civile spagnola uccisi dai repubblicani. Dimenticando beatamente i molti sacerdoti e monache uccisi dalle truppe franchiste con l’aiuto dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani.

Repubblica 17.11.07
1968. Quel giorno in cui tutto cominciò
di Guido Crainz


La protesta studentesca dilagò poi in tutto il paese, mentre molti elementi facevano sì che i conflitti fossero sempre più radicali
Il 17 novembre di quarant´anni fa veniva occupata la Cattolica a Milano. Poi sarebbe stata la volta di Palazzo Campana a Torino

Iniziava quarant´anni fa l´anno accademico 1967-68 e il movimento studentesco si annunciava già a novembre, occupando il 17 l´Università Cattolica di Milano, e il 27 Palazzo Campana a Torino. Era il primo sbocco di una incubazione precedente e ad essa occorre guardare per comprendere il largo coinvolgimento di una generazione. Nella radicalizzazione successiva esso sembra dilatarsi al massimo ma si avvia poi al declino lasciando il campo a esperienze più ristrette, condizionate in modo crescente dai gruppi extraparlamentari sviluppatisi sull´onda e sulle ceneri di quel movimento.
Nella scuola era cresciuta più che altrove la tensione fra le trasformazioni della società italiana e istituzioni rimaste chiuse e arcaiche. Fra il 1962 e il 1968 gli studenti universitari erano raddoppiati, mentre gli istituti superiori erano frequentati allora dal 40 per cento dei giovani di quell´età: erano il 10 nel 1951, poco più del 20 nel 1961. La scuola, invece, era rimasta uguale a se stessa. «Lo studente è un sacco vuoto da riempire, dall´alto di una cattedra, di nozioni già confezionate»: non lo dice un volantino del ´68 ma Gioventù, periodico dei giovani di Azione Cattolica, all´inizio del 1966. Quel 1966 in cui è processato il giornale degli studenti del Liceo Parini, La Zanzara, per una inchiesta su "cosa pensano le ragazze d´oggi". Si diffondono in modo informale nuovi fermenti culturali, e Michele Serra ha evocato bene quel clima ricordando Fabrizio De Andrè: «Era il compagno di banco a imprestarti i suoi dischi, lo stesso che ti aveva fatto leggere Masters o Majakovskij». Nel 1967 i Nomadi portano al successo Dio è morto di Guccini, una denuncia dei miti di una "stanca società" e una speranza: «nel mondo che faremo dio è risorto».
È un annuncio di ´68, in qualche modo, come quelli che avvertiamo nelle critiche crescenti al permanere della miseria nell´Italia del "miracolo" o alle contraddizioni della modernità. Non a caso i due libri centrali del ´68 italiano sono la Lettera a una professoressa di don Milani, una denuncia delle molte forme di emarginazione dei poveri, e l´Uomo a una dimensione di Marcuse, che ha un avvio fulminante: «Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata». Entrambi escono da noi nel 1967, e nel settembre di quell´anno Giorgio Bocca parlava così di una figlia di amici: «Mi sforzo di capire i caratteri distintivi della sua generazione. Ebbene direi, per cominciare, un rinnovato, prepotente bisogno di ideologia. Il nostro agnosticismo diretto all´utile e al comodo, il nostro tirare a campare non li soddisfa. A Roberta piace il Fidel che dice "voglio dare alla gioventù il disgusto per il denaro", e le piace Guevara che combatte in Bolivia, si interessa ai neri in rivolta, ai vietnamiti in guerra e a ciò che si muove nell´India e nel sud Africa. Ed è questo l´altro carattere che distingue lei e quelli della sua età: l´interesse ai problemi del mondo e ai poveri del mondo». Nello stesso anno Umberto Eco descriveva nuove forme di impegno dei giovani: eppure, osservava, sono cresciuti a televisione e fumetti, «immersi in un bagno di comunicazione indistinta che – a detta degli esperti - doveva renderli insensibili ai valori».
Gli articoli comparivano rispettivamente su Il Giorno e su L´Espresso, e questi stessi giornali fanno cogliere bene quel che si sta muovendo nelle Università. «Sono stanchi di copiare il Partenone», scriveva nel 1965 Camilla Cederna soffermandosi sulle Facoltà di Architettura, ove si avvertiva precocemente il contrasto fra una realtà in tumultuosa trasformazione e insegnamenti inadeguati. Un evento a sé apparve nel 1966 l´occupazione dell´Ateneo romano, mossa dall´indignazione per l´assassinio del giovane Paolo Rossi da parte di gruppi neofascisti, ma all´inizio del 1967 le agitazioni si diffondevano in molte altre città. «Non vogliono diplomi, vogliono una scuola», scriveva Il Giorno, e riferiva poi le ragioni degli studenti pisani di Fisica: «"Noi non vogliamo diventare degli scienziati che inventano l´atomica e poi si pentono". La frase è drammatica ma assolutamente concreta. Sottoposti all´autorità del professore di ruolo gli studenti si applicano a una certa ricerca scientifica, ma non sanno a cosa serve. E vogliono saperlo». A Trento l´occupazione ha al centro il piano di studi della nuova Facoltà di Sociologia, e la discussione si allarga al ruolo del sociologo: "re-filosofo", "consigliere del re" o ricercatore indipendente e critico? Spigolando fra i volantini del 1966/67: «Cittadini, lottiamo perché l´Università vi dia medici migliori»; «Imparare e insegnare argomenti vivi e attuali»; «Partecipazione degli studenti alla ricerca».
Si delinea una inedita politicizzazione che si orienta a sinistra soprattutto perché la destra si identifica con la chiusura culturale, e che rifiuta le organizzazioni universitarie esistenti. Vi contrappone l´assemblea, il rifiuto della delega e un´ansia di partecipazione destinata a diffondersi. In questo processo si delineano però anche nuove, potenziali élites politiche: spesso con una formazione precedente, variamente segnata dal marxismo o dai fermenti che attraversano il mondo cattolico post-conciliare.
All´aprirsi dell´anno accademico 1967/68 ci sono tutte le premesse per l´esplodere del movimento, e sin le sue parole d´ordine: «Contro l´autoritarismo accademico potere agli studenti», proclama il manifesto dell´occupazione di Palazzo Campana a Torino. I germi di involuzioni successive rimangono per ora in ombra ed emergono invece comunità studentesche che ridisegnano modelli e relazioni interpersonali, con modalità che appariranno anche altrove: una generazione «caratterizzata da una sorprendente volontà di agire e da una non meno sorprendente fiducia nella possibilità di cambiamento», per dirla con Hannah Arendt. Nel dilagare del movimento si dissolvono le organizzazioni precedenti, si svuotano le federazioni giovanili dei partiti, si delineano linguaggi inediti.
Molti elementi contribuiscono alla radicalizzazione. In primo luogo l´incapacità dei docenti di rispondere alle domande degli studenti, il susseguirsi di irrigidimenti autoritari, balbettii e arbitrii che provocano la dissacrante e allegra ironia del movimento. «In pochi mesi – annotava ancora Bocca - si è scoperto in modo clamoroso che la didattica di quasi tutte le facoltà umanistiche e di molte facoltà scientifiche è inadeguata». Si aggiungano i limiti della riforma universitaria allora in discussione, che oltretutto veniva affossata non tanto dalle proteste studentesche quanto dalla resistenza conservatrice dei "baroni", ben rappresentati in Parlamento. Si opponevano ad alcuni degli aspetti innovativi della "legge Gui": l´introduzione del tempo pieno e il divieto «a fare altri dieci mestieri oltre a quello per cui sono regolarmente pagati», come annotava L´Espresso.
A far precipitare la situazione contribuiva l´irrigidimento repressivo predisposto da una circolare del ministro degli Interni Taviani, che disponeva: «Non appena si ha notizia di una occupazione – o della decisione in tal senso - da parte di organismi o gruppi di studenti, il Prefetto deve subito prendere l´iniziativa di mettersi in contatto con il Magnifico Rettore e comunicargli che la Polizia procederà all´impedimento dell´occupazione o allo sgombero, qualora essa sia già avvenuta». Con questa circolare l´unica forma efficace di agitazione negli Atenei veniva messa di fatto fuori legge: e, in reazione, la mobilitazione studentesca si estendeva e inaspriva. Più elementi contribuivano dunque alla radicalizzazione ed essa toglieva progressivamente spazio alle aspirazioni a migliorare l´Università, vista sempre più come mero luogo di organizzazione del consenso. L´Italia d´allora offriva poi molti argomenti ai gruppi più politicizzati, che vedevano nella scuola solo lo specchio di più generali autoritarismi e ingiustizie sociali e su questi aspetti spostavano l´attenzione: con estremizzazioni ideologiche e semplificazioni ma contribuendo anche a innovazioni feconde, e più in generale a nuove sensibilità e a una più ampia concezione dei diritti. Su questi versanti l´Italia sarebbe cambiata in meglio.
L´inasprirsi dei conflitti, con il susseguirsi degli interventi di polizia e i primi scontri di piazza, si inseriva nel tumultuoso diffondersi del movimento in molti altri paesi, in un panorama internazionale segnato - per fare qualche esempio - dall´attentato al leader studentesco tedesco Rudi Dutschke, dagli assassinii di Martin Luther King e Bob Kennedy, dal maggio francese, dall´invasione di Praga, dai massacri di studenti in Messico. «Se non nei fatti, almeno nelle intenzioni, è l´ora della violenza», scriveva Pier Paolo Pasolini dopo la condanna a morte del giovane Panagulis nella Grecia dei colonnelli. Cresceva al tempo stesso la denuncia della violenza quotidiana, esplicita o occulta, della società occidentale, e il tema era al centro del convegno su La violenza dei cristiani che faceva affluire centinaia di giovani alla Cittadella di Assisi. La discussione era alimentata sin da un passo della Populorum progressio (1967) che condannava fermamente l´insurrezione rivoluzionaria «salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata, che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona»: e così indubbiamente era in larga parte dell´America Latina. In quel clima sembravano trovare qualche parvenza di legittimità riflessioni sulla violenza malamente desunte dalla tradizione marxista e leninista o da testi maturati in tutt´altri scenari: da I dannati della terra di Franz Fanon agli scritti di Guevara, e ad altro ancora. Parole, o poco più, ma di lì a non molto, nel rifluire del movimento, avrebbero trovato continuazione in gruppi molto più ristretti e sempre più rinserrati nell´ideologia, in un quadro drasticamente mutato: segnato da forti tensioni sociali, e reso torbido dall´intensificarsi dello squadrismo neofascista e da una stagione di stragi e trame eversive annunciata da Piazza Fontana. Quelle parole avrebbero assunto allora un altro significato, e portato ad altro. Avrebbero contribuito anch´esse a condurre in un cupo tunnel.

Corriere della Sera 17.11.07
Paziente killer, psichiatra colpevole
di Francesco Battistini


Condannato il medico: sbagliò cure. Lui: un attacco alla legge Basaglia
Imola La categoria protesta. Ma i familiari della vittima: «Ci fu negligenza nel suo comportamento»
Quattro mesi di carcere per omicidio colposo, mentre il suo cliente è stato ritenuto non imputabile

MILANO — Condannate me? No, signori della corte: senza volerlo, voi condannate la legge 180, la riforma Basaglia, un'intera stagione della psichiatria italiana. «Di più: si sta condannando la libertà del medico di curare un paziente come meglio ritiene». Quattro mesi di carcere che cancellano quarant'anni di certezze. Una pena per omicidio colposo che gli sembra un ergastolo a quel che ha studiato, creduto, vissuto. Euro Pozzi è uno psichiatra noto, ambulatorio a Bologna. Giovedì, la Cassazione l'ha definitivamente giudicato un killer. Anche se lui, con le sue mani, non ha mai ammazzato nessuno. Il 24 maggio 2000, a Imola, fu un suo paziente schizofrenico grave (Giovanni Musiani, morto qualche anno fa) a uccidere con due coltellate Ateo Cardelli, un assistente della comunità Albatros per ex degenti psichiatrici. Tre lunghi processi, tre sentenze uguali. Per stabilire — caso unico in Italia — che quando l'assassino è un pazzo non imputabile, in galera al suo posto ci va lo psichiatra che l'ha curato male. Cioé Pozzi: «Il mio giornalaio stamattina m'ha chiesto: è possibile che lei debba rispondere d'un reato doloso commesso da terzi? Già. Dopo questa sentenza, per tutti gli psichiatri sarà meglio non esporsi più a inutili rischi. Meglio tornare alla "psichiatria difensiva", a quando il malato di mente era solo un individuo pericoloso. A quando non c'era la legge 180. Meglio riempirlo di farmaci e lavarsi la coscienza».
Processo chiuso, dibattito aperto. Secondo i giudici, la colpa di Pozzi fu d'avere pasticciato col trattamento farmacologico, prima diminuendo il Moditen, poi sopprimendolo, quindi risomministrandolo. Un'altalena di dosaggi «non improntata a criteri di prudenza, diligenza e perizia». Pericolosa in un soggetto come Musiani. «Non è una sentenza contro la Basaglia — contesta Massimo Iasonni, avvocato della famiglia di Cardelli —. È contro chi, la Basaglia, l'applica male. Dimostra lo stato drammatico in cui oggi sono abbandonati questi malati. Musiani era già stato quattro anni in due manicomi criminali, altri medici l'avevano giudicato pericolosissimo. Eppure Pozzi lo visitava di rado, ogni quattro mesi, senza verificare puntualmente gli effetti dei diversi dosaggi. All'Albatros, tutti dicevano che andava disposto il trattamento obbligatorio. Il povero Cardelli scrisse perfino a Piero Marrazzo, Mi manda Raitre, per denunciare i rischi che gli assistenti come lui correvano lì dentro. Tutto inutile. Fu un omicidio annunciato».
Cose da pazzi, va da sè. Ma la domanda resta: fin dove arriva il giudice a valutare una cura? Ordine dei medici e Società di psichiatria protestano. «Il rischio è togliere al malato ogni speranza di riabilitazione — dice Pozzi —. Farmaci, ricoveri prolungati. E addio percorsi riabilitativi, che passano anche per una maggiore responsabilità e autonomia del paziente. Addio articolo 32 della Costituzione, che sancisce diritto alla salute e volontarietà delle cure. Per lo psichiatra, è preferibile non esporsi più». Ma non sarebbe ora di rivedere anche la 180? «Per me, è e resta una conquista di civiltà. Dopo trent'anni, forse serviva qualche ritocco. Ma questa sentenza è definitiva anche per un altro aspetto: chiude una stagione della psichiatria italiana. Una volta per tutte ».

Corriere della Sera 17.11.07
L'intervista «Basta con lo scontro sulla 180»
Andreoli: sentenza giusta la pericolosità va fermata
di Giusi Fasano


MILANO — Quattro mesi per omicidio colposo allo psichiatra che non curò in modo adeguato un suo paziente schizofrenico diventato poi omicida proprio perché, dicono i giudici, il medico non usò con lui «criteri di prudenza e diligenza».
Professor Vittorino Andreoli, questa sentenza apre la strada alla responsabilità degli psichiatri, chiamata in causa raramente.
«È una sentenza anomala perché in materia psichiatrica ci sono sempre una serie di possibilità giustificative. La rarità di questi addebiti è perché la nostra è una scienza infelice, vaga. È difficile trovare criteri che si possono dimostrare. Con questo non è che noi psichiatri siamo privi di responsabilità, anche gravi».
Può uno psichiatra essere responsabile di un'azione di un suo paziente?
«La psichiatria può mancare ai propri compiti istituzionali e quindi anche curativi. In quel caso deve pagare».
Quindi i giudici hanno fissato un principio condivisibile?
«Io cerco di capire, non di condannare. Direi che in questo caso riemerge il concetto della pericolosità, abbandonato con la legge Basaglia che impose la chiusura dei manicomi. Prima il folle era uno pericoloso, poi con la 180 di Basaglia si ritenne che di fatto non era più pericoloso. Ora questa sentenza dice che la pericolosità va prevista».
Hanno ragione i giudici? Si può prevede?
«Esistono delle patologie, in particolare quella delirante, e fra queste la schizofrenia paranoidea, in cui la pericolosità fa parte del quadro. Bisogna che lo psichiatra prenda consapevolezza che fra i sintomi di alcune patologie esiste la pericolosità e che va curata».
C'è il rischio che questa sentenza spaventi gli psichiatri e diventi un incentivo per l'uso dei farmaci?
«Nei casi gravi non è che si possa decidere se usare o no i farmaci. Il vero problema è usarli bene o male. Un paziente in stato delirante bisogna per forza controllarlo con i farmaci. È un errore toglierli, perché torna la forma di delirio. In quanto agli psichiatri, il 15 % dei medici ha una qualche grana giudiziaria nella sua vita professionale e la psichiatria è all'ultimo posto della lista. Quindi non credo che ci sia da preoccuparsi».
Lo psichiatra condannato dice che la decisione dei giudici è contro lo spirito della legge 180.
«Sono passati 30 anni. Finiamola di parlare sempre in termini di pro o contro la 180. Cogliamo una buona volta l'occasione per parlare di psichiatria scientifica o non scientifica».

Corriere della Sera 17.11.07
Un errore l'intervento dei giudici
di Dino Messina


Il caso Saranno in molti ad applaudire alla sentenza con cui la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per omicidio colposo contro il dottor Euro Pozzi.
Finalmente, si dirà, è stata raggiunta una certezza: sappiamo chi è il responsabile ultimo della morte di Ateo Cardelli, l'operatore sociale ucciso a Imola da un paziente schizofrenico. Lo psichiatra ha commesso un grave errore tecnico, diminuendo la dose di psicofarmaci al paziente che credeva parzialmente recuperabile e che invece era un killer potenziale. Naturale che paghi. Noi non siamo d'accordo con questa impostazione. Lo diciamo con tutto il rispetto per la vittima e per il dolore dei suoi famigliari, dalla madre al figlio che si è ritrovato orfano a dieci anni, e anche con la massima considerazione per il lavoro rigoroso svolto dai giudici.
Non vogliamo negare infatti l'evidenza, come spesso avviene in Italia, per un pregiudizio ideologico.
Sì, l'errore c'è stato, ma siamo sicuri che il problema della malattia mentale si risolva passando dal «modello Basaglia», culminato nella legge 180, che alla fine degli anni Settanta aprì i cancelli dei manicomi, al «modello Imola» che prefigura in ultima analisi le manette per il medico? Alzi la mano lo psichiatra che anche con pazienti seguiti a lungo, come sembra in questo caso, non abbia mai sbagliato diagnosi. Non abbia forzato l'equilibrio su quel filo del rasoio in cui si svolge il rapporto psichiatra-malato mentale. Certi errori si commettono non per negligenza ma per eccesso di ottimismo. Di solito si diminuisce la dose di psicofarmaci a un paziente anche grave per dare dignità a una vita che non è tale se non ha un briciolo di autonomia e libertà. Il rischio che si corre è di sottovalutare la pericolosità del paziente verso se stesso e verso gli altri. Come si vede, è un problema clinico ed etico di grande complessità.
Non crediamo che la via giudiziaria partita dall'Emilia Romagna, regione d'eccellenza anche nel campo dell'assistenza psichiatrica, sia quella giusta per risolverlo.

Corriere della Sera 17.11.07
Con i poveri della terra rinasce il comunismo
di Stéphane Courtois


I no global scoprono le ideologie «prima di Marx»
Caduto il leninismo, l'estrema sinistra adotta forme primordiali: tutto il male sta nel denaro e nel profitto

Il crollo, tra il 1989 e il 1991, del sistema comunista mondiale dominato dall'Urss ha consentito il riaffiorare di correnti comuniste soppiantate, dopo il 1917, da un'unica visione leninista. È dunque fiorito un "neocomunismo", una nuova forma di pensiero e di azione per avvicinarsi alla realtà "mondializzata". I fautori dell'anticapitalismo hanno dovuto imprimere una variazione al loro linguaggio, optando in qualche caso per l'"antiglobalismo" o "altermondialismo". Si è verificato uno slittamento delle aspirazioni comuniste verso la nebulosa "alter".
Composta da una moltitudine di gruppi — di cui l'organizzazione Attac è uno dei più rappresentativi —, e coltivando una visione pessimistica dell'evoluzione economica ed ecologica del mondo, tale nebulosa designa un nemico comune, il "neoliberalismo", e manifesta la volontà di staccarsi dai partiti tradizionali con un comportamento militante innovativo. Per estendere la propria sfera d'azione — dai sans papier ai senza terra, passando per i disoccupati, gli omosessuali, le donne, eccetera — i neocomunisti hanno deciso nel 2000 di indire regolarmente un forum sociale mondiale dichiaratamente anti-Davos. Il primo è stato ospitato nel 2001 a Porto Alegre, in Brasile.
La morte del comunismo industriale e l'indebolimento della sua dottrina — marxismo e poi marxismo-leninismo — hanno favorito questo slittamento, alimentato dalle pratiche del capitalismo finanziario anni '90. Occorre, inoltre, tenere conto dell'ideologia dominante dell'altermondialismo, che coincide con le forme primordiali del comunismo — quella premarxista e prebolscevica — ossia la designazione del profitto, o addirittura del denaro, come fonte di ingiustizie e dei mali della società. Tale ritorno alle origini ha favorito una rilettura del corpus marxista-leninista, il riposizionamento della logica rivoluzionaria sugli esclusi o i discriminati — i "senza" — e una designazione del "nemico" che ha le sembianze del ricco, incarnato da organizzazioni e multinazionali occidentali. Il povero si vede concedere le prerogative virtuose del proletario, al contempo forza distruttrice e araldo di una buona società. L'idea di una necessaria redistribuzione egualitaria delle ricchezze mondiali tra Nord e Sud ha riavvicinato — con l'eccezione di qualche fautore dell'ortodossia leninista — istanze a prima vista inconciliabili — marxiste, neomarxiste, libertarie e anche cristiane — disperse sotto i molteplici stendardi del multiculturalismo, della decrescita, del terzomondismo, trotzkismo, neozapatismo nonché di alcune frange dell'islamismo radicale.
Quanti vengono identificati come marxisti ancora leninisti, in particolare, si riuniscono attorno alla Lega comunista rivoluzionaria, ai Rinnovatori del Partito comunista francese, al Partito dei lavoratori brasiliani, al Socialist Workers' Party in Gran Bretagna o a Rifondazione comunista in Italia. Essi ripongono le proprie speranze nei movimenti sociali, a livello nazionale e mondiale, percepiti come espressione di una medesima sofferenza, e dunque come attore collettivo radicale. Se è vero che hanno esteso la propria sfera d'azione ai poveri e agli esclusi, nondimeno essi salvaguardano le tesi escatologiche di una rivoluzione redentrice che deve necessariamente passare per la presa di potere. La loro adesione al movimento "alter" mira anzitutto a trasformare quest'ultimo in internazionalismo, o addirittura in una Quinta Internazionale che possa radunare sotto l'epiteto di "lavoratori" tutti i "diseredati".
I neomarxisti reinterpretano il corpus marxista alla luce di Michel Foucault, Gilles Deleuze, Rosa Luxemburg, Walter Benjamin o Pierre-Joseph Proudhon. Per federare i gruppi, ieri nemici, senza rompere con il retaggio comunista, essi privilegiano nella famiglia marxista i partigiani del materialismo storico che hanno rifiutato l'ideologia del progresso e il terrore. Ma l'unico innovatore sotto il profilo teorico è stato Antonio Negri, con la consacrazione della "moltitudine" — i "senza", gli esclusi, i disperati, gli errabondi — quale nuovo soggetto rivoluzionario, garante di una buona società.
Gli adepti della spartizione comprendono una frangia del neocomunismo più diversificata, perché collocata al crocevia di solidarismo, anarchismo e comunismo. È il caso del francese José Bové, ex portavoce della Confederazione contadina, che avvicina i neozapatisti messicani ai contadini del Larzac e al loro progetto di patrimonio collettivo. Non si parla, in questo caso, di riappropriazione diretta dei mezzi di produzione, ma di spartizione e di rinuncia a determinati privilegi per correggere lo squilibrio tra Nord e Sud e proteggere l'ambiente. Vicino alle posizioni di Bové, l'inglese John Holloway si ispira alla guerriglia neozapatista del subcomandante Marcos per rifiutare le rivoluzioni e le sperimentazioni del XX secolo, imperniate sulla conquista dello Stato, e per promuovere la dissoluzione di tutte le strutture di oppressione. Diversi esperimenti realizzati in America Latina fungono, infatti, da riferimento per l'invenzione di una società egualitaria ed emancipata; in particolare la «rivoluzione bolivariana» guidata da Hugo Chavez, presidente del Venezuela dal '98, che simboleggia per i neocomunisti il «socialismo del XXI secolo». Alcuni gruppi anarchici cavalcano l'onda "alter" per accelerare la decostruzione di un sistema odiato, sulla scia dei Black bloc o di alcuni «obiettori di crescita».
Il movimento "neo" comprende anche seguaci del cristianesimo, alfieri di una dottrina sociale che ha come priorità la pace e il riflusso della povertà. Se è vero che sono piuttosto inclini ad avvicinarsi alla linea solidarista favorevole alla cancellazione del debito dei Paesi poveri e alla tassazione delle rendite a vantaggio dei diseredati, alcuni di essi si identificano tuttavia con i poli di radicalità sulla questione della spartizione delle ricchezze del pianeta. I più attivi sono alcuni gruppi cristiani del Sudamerica, che si fanno portavoce di una teologia della liberazione, nuova utopia veicolata dalla figura cristica di chi nulla possiede.
Sebbene i riferimenti ideologici del neocomunismo appaiano estremamente eterogenei, essi convergono per fare della sofferenza e della rabbia del povero le leve di una redenzione della società, dinanzi a un mondo occidentale chiamato al pentimento e alla condivisione.
(Traduzione di Enrico Del Sero)

Liberazione 17.11.07
Buona finanziaria. Montez furioso
Destra divisa. E ora si riapre tutto
I due poli non esistono più: Ipotesi sul futuro
di Rina Gagliardi


Giovedì sera, in Senato, alla quattordicesima ora (e al quindicesimo giorno) di permanenza nell'aula, abbiamo tutti tirato un grande sospiro di sollievo: la Finanziaria era passata, il centrodestra - e anzi Silvio Berlusconi - aveva perso, la maggioranza, nonostante tutto (e nonostante Lamberto Dini) aveva tenuto,come si usa dire. Non solo: era passato un provvedimento tutto sommato dignitoso e perfino con qualche punto innovativo. Certo, non è detto che si tratti della "migliore Finanziaria possibile" a questo mondo e non è detto che, alla fine del suo percorso parlamentare, essa non subisca qualche arretramento. Ma sarebbe sciocco sottovalutare quello che per ora c'è e che è stato ottenuto grazie alla indefessa battaglia politica della sinistra: sulla salute (l'abolizione dei ticket), sull'ambiente (Cip 6 e moratoria della privatizzazione dell'acqua) la stabilizzazione dei precari nella pubblica amministrazione), sui nuovi diritti (la Class Action), sulla lotta ai privilegi (il tetto sui salari dei manager di Stato). Alcune di queste conquiste valgono soprattutto come affermazione di un principio, o come avvio (magari imperfetto) di un nuovo istituto di difesa collettiva dallo strapotere (e dall'impunità) di banche e imprese - ma neanche questo è da considerare un risultato di poco conto. Basti, sulla Class Action, la reazione scomposta e rabbiosa di Confindustria (e dei parlamentari che stanno sul libro-paga dei poteri forti), per capire che si è davvero disturbato il manovratore, là dove (i soldi) il manovratore stesso manifesta per solito la sua massima sensibilità. Insomma, ci sono - ci sarebbero - alcune ragioni forti per rispondere positivamente alla domanda che Piero Sansonetti ha posto su queste colonne, poco tempo fa: che cosa ci sta a fare la sinistra al governo? Ci sta non solo per difendere quel (non molto) che resta del quadro democratico (dal berlusconismo, dal sicuritarismo, dall'emergenzialismo), ma per ottenere quel (non molto) di redistribuzione sociale e tutela dei diritti che però, altrimenti, si ridurrebbe a zero. Ci sta, insomma, per arginare l'egemonia dei valori della destra - quella eversiva e quella, ancor più pericolosa, confindustriale e vaticana - che avanza con forza non solo nella politica, ma nella società civile. Tuttavia, questa risposta, pur concretamente fondata, è a sua volta insoddisfacente. Non solo è parziale, ma è datata: appartiene ad un ciclo che, se non si è già concluso, è comunque alle nostre spalle. La verità è che si è già aperta una nuova fase politica, ancora più instabile di quella che l'ha preceduta: essa
pone a noi - alla sinistra - domande e compiti di tipo nuovo. Proviamo intanto a cercar di capire quel che è già successo e quel può succedere.
***
Primo: il governo Prodi, e la maggioranza che lo sostiene, hanno ottenuto un considerevole successo politico, ma, paradossalmente, questo successo non consolida il quadro attuale, già destabilizzato dalla nascita del Pd e dall'ascesa di un leader politico, Walter Veltroni, che svolge una funzione di fatto di "contropremier". L'annuncio di Lamberto Dini è chiarissimo: la piccola pattuglia moderata che sta per nascere al Senato è perfettamente in grado di far venir meno all'Unione la (faticatissima) maggioranza numerica di cui dispone. E sembra evidente che lo farà non appena avrà valutato che è arrivato il momento opportuno o l'occasione propizia - o prima della fine dell'anno, sul collegato Welfare, ove il provvedimento nel frattempo fosse stato seriamente migliorato (dal nostro punto di vista) o peggiorato (dal punto di vista di Dini stesso e di Confindustria), o subito dopo, a gennaio, magari sulla prima mozione di sfiducia che capita. In questa luce, si capisce perchè Dini, alla fine, pur dopo tanti annunci apocalittici, pur obtorto collo, la Finanziaria l'ha votata: perchè non aveva alcun interesse a far cadere Prodi in una fase in cui, ancora, era molto forte la spada di Damocle delle elezioni anticipate a primavera, l'obiettivo su cui il solo Berlusconi ha puntato tutte le sue carte. Mentre a tutt'oggi, Lambertow, come lo chiamano, gode di un altissimo potere di condizionamento (sembra incredibile, ma un uomo solo, o poco più, può contare più di un partito e di una coalizione: ecco in soldoni la crisi della politica), sul piano elettorale lo stesso Lambertow vale molto poco.
Il suo interesse primario, perciò, come ha onestamente dichiarato giovedì sera in aula, è quello di "superare l'attuale quadro politico", non necessariamente favorire le sbruffonate del Cavaliere. Traduzione: concorrere alla nascita di un altro governo, fondato su altre formule politiche, e su altri equilibri, fondato cioè sull'esclusione della sinistra: Quel che chiedono, da mesi, poteri forti, "Corriere della sera" e così via.
Secondo: la coalizione di centrodestra si va scomponendo e, dopo due anni di opposizione inconcludente, matura al proprio interno la prospettiva di rientrare nel gioco politico. La lettera di Gianfranco Fini, pubblicata ieri sulla prima pagina del "Corriere" ha del clamoroso: una tale dissociazione da Berlusconi, il leader di An non l'aveva ancora compiuta, a nostra memoria. La Lega, a sua volta, scalpita. L'Udc, da molti mesi, persegue il proprio autonomo disegno neocentrista. In buona sostanza: Berlusconi appare isolato, perfino dai suoi alleati più fidi e tradizionali, la Cdl appare oggi come una ex-Casa. Se le cose stanno, all'incirca, così, c'è una novità di cui bisogna pur prendere atto: i due Poli, i due schieramenti che si sono fronteggiati il 9 aprile 2006, non esistono più . Non esistono più nella forma e negli equilibri interni che li hanno fin qui contraddistinti. L'instabilità politica, perciò, è destinata ad accrescersi. In tale instabilità, si riaffaccia con forza il disegno neocentrista da molti accarezzato. Ma riprende fiato, soprattutto, l'ipotesi di un governo di transizione con il compito di realizzare la riforma elettorale, e qualche altra "riforma" costituzionale, in termini tali da consentire il ritorno alle urne nel 2009. Naturalmente, non essendo nelle nostre prerogative l'arte divinatoria, non facciamo previsioni: gli scenari o le soluzioni possibili sono molte, e non tutte certo equivalenti. Non si può escludere, per esempio, che sia lo stesso Prodi a succedere a se stesso, se trovasse la forza di ricomporre il governo in modo innovativo e di rilanciare davvero lo spirito originario, e la metodologia, che ha retto l'alleanza di centrosinistra - anche se le difficoltà di un'operazione che non sia un semplice "rimpasto" sono evidenti e rinviano quasi tutte ai problemi strategici (e numerici) dell'Unione. Non si può non sapere che vi sarà il tentativo di varare un vero e proprio governo dei poteri forti, travestito da governo tecnico e gradito a Montez. Non si può, infine, sottovalutare il fatto che la formula più "gettonata" - quella di un governo istituzionale - non ha alcun precedente concreto, nella storia repubblicana, e non è per nulla chiaro, allo stato, la sua possibile articolazione. Comunque vadano le cose, questo è il refrain che dominerà la vicenda politica, da qui ai prossimi mesi. Dentro di essa, la sinistra ha già, e sempre di più non potrà che avere, una priorità: la capacità di far nascere davvero una nuova soggettività unitaria, e una proposta più forte e credibile di quella che ha finora guidato le sue diverse componenti. Tra i meriti della Finanziaria, last but not least, c'è stato quello di aver fatto crescere l'azione comune della sinistra alternativa, anche in termini visibili e "simbolici": giovedì sera, quando il verde Natale Ripamonti ha pronunciato la dichiarazione di voto a nome dei senatori di tutta la sinistra (Rifondazione comunista, Verdi-Pdci, Sinistra Democratica), ha corso sui banchi un piccolo brivido di commozione. Quel drappello di donne e di uomini, credetemi, ha lavorato - da tre mesi a questa parte - quasi fino allo sfinimento fisico, e no, non è stato "per niente". Purtroppo, se ne sono accorti anche gli altri, anche i nostri avversari - e non è l'ultima delle ragioni che determinano il paradosso del "puzzle Prodi". Ma su questo sarà bene tornare a riflettere.