martedì 20 novembre 2007

Corriere della Sera 20.11.07
Fausto Bertinotti: «Il sistema tedesco adesso è più forte»
intervista di Marco Cianca


Tornare subito al proporzionale, dice al Corriere Fausto Bertinotti. «Ora il sistema tedesco è più forte».
«Si torni subito al proporzionale Ora il sistema tedesco è più forte»
«Berlusconi rivela la sua forza. Per il Pd rischio di un populismo dolce»

ROMA — L'appuntamento con il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, era fissato per parlare del voto sulla Finanziaria, del precario equilibrio di governo e della legge elettorale. Ma ecco, a mandare all'aria le carte, Silvio Berlusconi, con l'annuncio del partito del popolo e la sentenza di morte del bipolarismo. Ancora una volta il Cavaliere riesce a spiazzare tutti?
«Ancora una volta rivela la sua forza trasformando una cocente sconfitta in un'opportunità. È la mossa di un surfista che sta sull'onda e compie un'acrobazia. Nella crisi della politica, Berlusconi capisce che abbiamo alle spalle la pars destruens, che è iniziata proprio con lui, e che ora comincia la pars costruens nella quale si definiscono nuovi soggetti. Capisce e si allinea.
Nello stesso tempo mantiene la sua cifra originale e la potenzia. Scioglie l'incertezza tra un solitario protagonismo, quello che durante la campagna elettorale gli ha consentito un'imprevedibile rimonta, e il vecchio impianto di alleanze. Ha scelto di fare il leader della gente. Ha scelto la via del populismo. Tutto è scavalcato in un rapporto assoluto tra il leader e il popolo, è l'unica alleanza riconosciuta».
Ma Berlusconi sancisce anche la fine del bipolarismo.
«È evidente che un sistema politico non si cancella con un decreto, neppure se ad emanarlo è uno dei principali inventori del sistema medesimo. Ma il fatto che proprio Berlusconi oggi ne sanzioni la fine è davvero il segno del fallimento più totale di questa lunga fase di transizione».
Saluta con soddisfazione questa ammissione?
«Constato che è così. Non vado oltre perché, come nell'Angelus Novus, mentre si può andare verso il futuro, non si può non vedere il cumulo di macerie che ci sta alle spalle. È franata l'idea del revisionismo della Costituzione, che si voleva mettere in discussione dalle fondamenta. Ed è fallita la concezione del sistema maggioritario e delle alleanze coatte. C'è stata al contrario una frammentazione delle forze in grado di alterare la dialettica politica. Il rischio è tornare al Parlamento di Giolitti e al trasformismo ».
Colloca Lamberto Dini in questo quadro?
«Il mio ruolo di presidente della Camera mi impedisce di dare giudizi specifici. Posso dire che nel tempo presente non c'è alternativa al far fuoco con la legna che si ha».
Il governo Prodi deve andare avanti?
«La maggioranza deve trovare la forza di proseguire. Bisogna accelerare lo sblocco del sistema e uscire dalla prigione delle alleanze coatte».
La via d'uscita è il sistema proporzionale?
«Sì. Bisogna restituire ai partiti l'onere e l'onore di essere i protagonisti della vita politica. È l'alfa e l'omega della partecipazione democratica. Questo è il punto dirimente senza il quale non c'è un'uscita virtuosa dalla crisi. Altrimenti si passa dalle alleanze coatte alla tentazione del fare da solo».
Di nuovo Berlusconi?
«Sì, ma non è l'unico».
Si riferisce anche al Pd e a Veltroni?
«Non vorrei attribuire una tentazione esplicita. Certo, il populismo non è unicamente di destra, non c'è solo il populismo hard di Berlusconi ma anche quello dolce di centrosinistra che si concentra sul fenomeno di opinione piuttosto che sul radicamento nella società e sulla individuazione dei soggetti di riferimento ».
Un rischio che intravede nel Pd?
«Non è obbligatorio ma c'è».
Lei invece vuole rimettere i partiti con i loro programmi e il sistema delle alleanze al centro delle scena.
«Sì. E se non ci riusciamo il rischio è quello di un logoramento simile alla quarta repubblica francese. Un impantanamento senza soluzione organica che dà luogo ad un aggravarsi della crisi in attesa del colpo di maglio».
In attesa di un De Gaulle italiano?
«No, perché non è nelle corde del Paese e perché non c'è De Gaulle. Se devo materializzare questa deriva non penso ad una soluzione autoritaria ma tecnocratica, dei poteri forti».
Paventa Draghi, Monti o Montezemolo a Palazzo Chigi?
«Lasciamo stare il governatore della Banca d'Italia. I nomi possono essere molti. Questa soluzione non è alle porte ma se la crisi continua e la politica declina, declina, declina, poi arriva qualcosa che la mette fuori anche senza bisogno di colpi di Stato ».
E la proposta di Veltroni di riforma del sistema elettorale?
«Tutto ciò che ci fa uscire da una condizione di impotenza va apprezzato. Rimarco con favore le dichiarazioni di Veltroni sul passaggio al proporzionale e sul no al premio di maggioranza. Da partigiano del modello tedesco, penso che si debba fare presto, con un doppio canale, quello parlamentare e quello del confronto tra le forze politiche ».
Ma anche Berlusconi si dice convertito al sistema tedesco. Può essere un compagno di strada?
«Nelle riforme istituzionali non valgono i confini tra maggioranza e opposizione. Ogni forza politica presente in Parlamento va considerata per le proposte che avanza e, con la dichiarazione di Berlusconi, l'opzione già prevalente per il sistema tedesco si rafforza notevolmente».
Veltroni deve trattare con Berlusconi?
«No, no, sarebbe un errore. La trattativa è una via sbagliata perché individua degli azionisti di maggioranza. E invece serve il concerto di tutte le forze, senza che nessuno abbia il diritto di veto e senza entrare in collisione con il percorso parlamentare».»
Berlusconi dice: facciamo la riforma purché sia chiaro che alla fine si vota.
«Bisogna separare la sorte del governo da quella delle riforme istituzionali, perché l'una riguarda la maggioranza e l'altra tutto il Parlamento».
Ma il percorso resta minato. Che succederà sul Welfare, con Dini che tira da una parte e Rifondazione dall'altra?
«Quello che è successo per la Finanziaria può valere anche per altri temi. Pensare di uscire da un quadro di incertezza con un sistema politico che l'incertezza l'ha introdotta è velleitario e pericoloso».
Me se l'incidente c'è e Prodi cade?
«La soluzione è un governo istituzionale che faccia la riforma elettorale. Noi abbiamo un presidente della Repubblica che svolge il suo ruolo in maniera eccellente e che è una garanzia per il Paese, possiamo contare sulla sua cultura democratica e sulla sua autorevolezza. Saranno sue scelte, ma ha già detto in più occasioni che non gli pare convincente andare a votare con questa sistema».
Governo di larghe intese?
«Nemmeno per sogno. Perché mai? Le larghe intese o anche un governo tecnico sono soluzioni politiche. Il governo istituzionale è un'altra cosa».
Però il presidente del Senato Franco Marini si è tirato fuori.
«Non voglio andare oltre in questa discussione. Diventa un'ulteriore destabilizzazione della politica. Abbiamo un governo in carica e penso che debba durare».
Ma è stato lei stesso a dire che il governo è malato».
«Nessuno può pensare che dopo un anno e mezzo di questa esperienza possa esserci un colpo d'ala fino a configurare una sorta di potente governo della grande riforma. Ciò potrebbe venire solo da un nuovo sistema politico e dalla rifondazione a sinistra di nuovi grandi soggetti. Questo governo deve affrontare i problemi quotidiani, pur con la capacità di interventi importanti».
Eppure Prodi nella sua intervista a «Repubblica » ha parlato proprio di grandi programmi.
«Se ce la fa, meglio. È giusto che il capo del governo abbia l'ottimismo della volontà. Io, per realismo, dico che una compagine così eterogenea determina un'esigenza di tessitura. Un compromesso dinamico che non deve essere considerato un'ipotesi minimalista. Certo, un miglioramento del rapporto tra il governo e il Paese è necessario, a partire dalla capacità di affrontare le grandi questioni sociali».
Ma se la deriva non si arresta, lei non avrebbe la tentazione di aprire la crisi da sinistra prima di una caduta da destra?
«Insisto, non sono protagonista di questa vicenda politica. Tuttavia questa ipotesi di una caduta da sinistra non la vedo e non l'ho mai vista».
Quindi andate avanti aiutando il malato con i brodini.
«Non è male. Se poi riusciamo a metterci anche qualche pezzo di carne, meglio».

l’Unità 20.11.07
La carta per i diritti dei bimbi ha 18 anni ma l’infanzia è ancora ferita
Oggi la giornata mondiale. Dall’Unicef le voci dei bambini che si sono salvati. Milioni però soffrono per guerre, fame e violenza
di Marina Mastroluca


«SONO ENTRATO nell’esercito quando avevo 15 anni. Non posso dire che sia stata veramente una scelta mia. Nell’esercito c’erano bambini di appena
10 anni e anche più piccoli. Mi spezza il cuore vedere quanti di noi sono morti, scomparsi o rimasti feriti». Maisha è stato un bambino soldato del Congo. E fortunato, anche: può parlare al passato della sua esperienza. Anche Wasila, dieci anni, nigeriana, ha un dolore di cui può parlare come una cosa superata. «I miei genitori volevano che lasciassi la scuola per lavorare e aiutarli. Non ero contenta, non mi andava, al punto che mi sentivo quasi come avessi la febbre». Maisha, Wasila e tutti gli altri. Sono bambini che hanno potuto recuperare un pezzetto della loro vita, grazie a progetti Unicef e alla «Convenzione sui diritti dell’infanzia» che compie oggi 18 anni. Ratificata da 193 paesi - non dagli Stati Uniti né dalla Somalia, singolarmente insieme in questo primato negativo - la Convenzione è stato il primo trattato universale a riconoscere i diritti specifici dei più piccoli, vincolando gli Stati a rispettarli. Diciotto anni da allora, costellati da piccole buone notizie per i tanti Maisha e Wasila del pianeta, ma oberati da numeri smisurati sulla sofferenza di milioni di bambini, a dispetto anche degli obiettivi del millennio.
Ancora oggi sono 9,7 milioni i bambini al di sotto dei cinque anni che muoiono ogni anno per cause evitabili e spesso banali: 26.575 ogni giorno, il 30% ha meno di un mese di vita. Muoiono soprattutto per scarsa igiene e cura al momento della nascita, vengono uccisi da infezioni, polmoniti, diarrea. Fame anche: la malnutrizione è corresponsabile di patologie mortali per il 53% di casi.
Muoiono, i bambini, di acqua sporca, di poco cibo, di mancanza di vaccini e zanzariere - l’Unicef ha messo a punto un «pacchetto salvavita» combinando insieme ricette per i diversi problemi: più se ne sommano, migliore è il risultato. Muoiono, i bambini, di povertà e di ingiustizia: il 94% delle vittime si concentra in 60 paesi. Il più a rischio, la Sierra Leone: ogni mille nati vivi, 282 non arriveranno mai a cinque anni. E muoiono anche di guerra: nell’ultimo decennio due milioni di bambini sono morti in conflitti armati, 6 milioni sono rimasti gravemente feriti, spesso su una mina pensata apposta per attirare la loro curiosità. Duecentocinquantamila hanno imbracciato un fucile, bambini soldato, due volte vittime: della guerra e dell’emarginazione del dopo. Le bambine di più: per loro essere arruolate spesso vuol dire anche subire abusi sessuali.
Numeri in negativo, troppo spesso, a dispetto degli impegni solenni. Settantasette milioni di bambini e bambine esclusi dalla scuola, perché troppo poveri o per mancanza di strutture e maestri, persino di quaderni e matite. Un milione e duecentomila i bambini vittime del traffico di esseri umani, 700mila quelli sfruttati sessualmente. Milioni le bambine costrette a matrimoni precoci. Vittime di pochi anni, non necessariamente in paesi lontani da noi. Anche l’Italia, ricorda l’Unicef, ha i suoi esclusi. I bambini rom più degli altri.

l’Unità 20.11.07
Il libro di Vespa
Quanti errori su mio nonno
di Antonio Gramsci jr.


La lettura dell’ultimo libro di Bruno Vespa L’amore e il potere mi ha procurato un autentico piacere. Ho provato la sensazione che l’autore nutra la simpatia più sincera nei confronti di mio nonno e di tutta la nostra famiglia, e questo non è poco. Però devo constatare che il testo non è privo di errori di fatto e interpretativi di alcuni eventi dovuti, secondo me, al fatto che si basa in gran parte sulle affermazioni di Massimo Caprara, superficiali e molto lontane dalla verità storica. Per quanto riguarda i rapporti di Gramsci con il Partito e con Togliatti, i tentativi della sua liberazione ecc, non posso dire più di quanto sia scritto nei libri e saggi dei maggiori studiosi di Gramsci, soprattutto Giuseppe Vacca e Silvio Pons, a cui anche Vespa fa riferimento.
Però ho molto da dire sulla vita della nostra famiglia in Russia basandomi sulla mia esperienza personale, sui ricordi di mio padre e soprattutto su alcuni documenti del nostro archivio che non sono ancora conosciuti in Italia. Questi documenti, alcuni dei quali sono davvero sensazionali, faranno parte del libro sulla famiglia Schucht che sto scrivendo insieme a Silvio Pons e che sarà curato da Giuseppe Vacca.
Prima di tutto devo dire che non ho trovato nessuna testimonianza del "pugno di Stalin" che "colpisse" la famiglia di Gramsci in Russia. Dalla fine degli anni Venti, in sintonia con lo sviluppo generale del paese, gli Schucht cominciarono a vivere abbastanza bene. Apollo ricevette un appartamento spazioso vicino al centro di Mosca e ottenne una pensione personale. Su di lui gravavano tanti "peccati": tedesco di nobili origini, ex-emigrato, amico di Lenin e infine suocero del comunista italiano eterodosso. Nel 1933 questo perfetto "nemico del popolo" morì serenamente nell’ospedale più prestigioso dell’Unione sovietica, presso il Cremlino, assistito dai parenti e da personale premuroso. Tutti i membri della famiglia, compresi i bambini, Giuliano e Delio, andavano, anche più volte all’anno, nei migliori sanatori sul Mare Nero e in Caucaso. Negli anni Trenta, quando ormai nessuno in famiglia lavorava, Giulia, non ostacolata da nessuno, mandava regolarmente a Tatiana somme ingenti di denaro che servivano per l’assistenza a Gramsci. Da dove provenivano questi soldi? È poco probabile che si trattasse dei risparmi di famiglia, non potevano neanche essere soldi del PCI. Quindi l’unica ipotesi plausibile e’ che furono proprio le autorità sovietiche a prendersi cura di alleviare le sofferenze del "trozkista maledetto" prigioniero di Mussolini. In mancanza dei documenti è difficile affermare se lo fecero su suggerimento di Togliatti o di qualcun altro.
Ma è vero poi che Gramsci era cosi malvisto nell’Unione Sovietica? Nel 1926 Togliatti fece davvero arrivare a Stalin la famosa lettera di Gramsci? E se lo fece, perché durante la sua permanenza in Russia mostrò apertamente l’affetto e la massima premura verso Giulia ed i suoi figli come fecero anche tutti gli altri compagni italiani che stavano allora a Mosca? A me sembra che la verità stia in mezzo. Da una parte il dissenso di Gramsci con il Partito e con Togliatti, in particolare, non era cosi forte come lo presentano molti storici e, anche se c’era, fu in seguito almeno in parte "superato" (i conflitti di Gramsci con i compagni del carcere sono tutt’altra cosa). Fino alla fine degli anni quaranta e oltre, grazie anche all'abilità di Togliatti, nell’immaginario comunista Gramsci rimaneva cosi come lo ricordavano dagli anni venti, cioè un leninista, perfettamente in linea con il movimento comunista sia russo che italiano. Perciò ho molti dubbi sulla effettività della strana domanda che, secondo i ricordi di Caprara, mio zio Delio avrebbe fatto ai compagni italiani ("Perché mio padre vi ha traditi?").
D’altra parte, il panteon comunista aveva bisogno dei suoi santi. La santità presuppone impeccabilità e martirio. E Antonio Gramsci si prestava perfettamente a tale raffigurazione (Togliatti forse esagerò in quest’opera attribuendo a mio nonno anche origini umili). Con quell’immagine Gramsci passò anche nella storiografia sovietica: comunista-eroe che aveva sacrificato la sua vita per la lotta al fascismo. Solo una cerchia molto ristretta conosceva il suo pensiero. Si tratta di alcuni intellettuali sovietici che potevano leggere Gramsci nella lingua originale, soprattutto Grezkij (il primo traduttore di Gramsci), Irina Grigorieva e Ilya Levin. Perciò mi pare inconsistente l’affermazione di Gabriele Nissim, secondo cui "la madre dei ragazzi e la zia Eugenia educarono Delio e Giuliano a studiare il pensiero di Stalin piuttosto che quello del loro papà". I ragazzi non conoscevano l’italiano. Come potevano studiare il pensiero del papà se la prima pubblicazione nell’Unione Sovietica di alcuni scritti di Gramsci avvenne solo negli anni Cinquanta?
Non corrisponde poi a verità che le autorità sovietiche bloccassero la corrispondenza di Tatiana ai famigliari. Quest’ipotesi deriva forse dalla mancanza delle lettere di Tatiana ai famigliari degli anni 35-38. Con gli ultimi ritrovamenti nel nostro archivio sono riuscito a colmare questa lacuna e ormai tutto il carteggio di questa donna eccezionale si presenta nella sua integrità. Leggendo queste lettere non ho trovato nulla che comprovi un incarico segreto a Tatiana di "sorvegliare" il cognato detenuto. Le preoccupazioni di Tatiana erano diverse: badare alle condizioni di salute di Antonio, ottenere la sua liberazione, fare ricongiungere la famiglia e, dopo la morte di Gramsci, salvare le sue opere. Di tutti questi argomenti Tatiana scriveva liberamente e senza reticenza come se la doppia censura - quella fascista e quella sovietica - non esistesse. Ma esisteva davvero? O forse non era cosi rigida come si è soliti pensare? Nella stessa maniera, sciolta e sincera, sono scritte le lettere di tutti i famigliari di Tatiana - Giulia, Eugenia, Apollo e Giulia Grigorievna. Negli ultimi anni della vita di Antonio tutta la famiglia discuteva fervidamente del viaggio di Giulia in Italia. Da tutte le testimonianze risulta che le autorità sovietiche non avevano nessuna intenzione di ostacolare questa iniziativa. La prova più importante è la lettera di Eugenia, la sorella più rigida, la "più bolscevica" di tutti gli Schucht, inseparabile da Giulia e oltre tutto diffidente nei confronti di Gramsci. Neanche lei era contraria a questo viaggio, anzi, scriveva che "era utile per tutti e due". Scrisse addirittura che "qualcuno ha suggerito che le conviene (A GIULIA) di trasferirsi in Italia". Tatiana dal canto suo scriveva che l’ambasciata sovietica "era pronta ad aiutare Giulia nella sua sistemazione a Roma". Il vero ostacolo era rappresentato invece dalla malattia di Giulia. Lei soffriva di epilessia organica, complicazione dell’influenza spagnola contratta nel ’27 (e non di esaurimento nervoso, di cui parlano i biografi di Gramsci). Penso che Apollo intendesse proprio questa malattia e non la misteriosa pressione esercitata sulla famiglia, quando scriveva stizzosamente a Tatiana che "Giulia scrive raramente perché spesso non ha possibilità di scrivere" (Tatiana era ignara della malattia della sorella minore fino all’inizio del Trenta, non è ancora chiaro se abbia poi riferito questa notizia a Gramsci). Nonostante la malattia Giulia continuò a lavorare nei servizi segreti fino al trenta. Anche a proposito di questo suo lavoro sono state avanzate delle ipotesi fantasiose. La più assurda è quella dello storico russo Leontiev, citata da Caprara. Secondo questa ipotesi, Giulia fu mandata dall’NKVD a "sedurre" Gramsci per poi tenerlo sotto controllo costante. Ma la loro storia d’amore cominciò nel ’22, quando Giulia era una semplice insegnante di musica in una scuola provinciale di Ivanovo! È vero, aveva gia cominciato la sua carriera nella sezione locale del Partito bolscevico, ma questo non vuol dire che incontrasse Gramsci su mandato delle autorità sovietiche. E non c’è niente di strano e malvagio nel fatto che, quando la coppia si sposò e Giulia cominciò ad avere accesso alla vasta cerchia dei comunisti stranieri, fu ingaggiata dai servizi segreti che, con ogni probabilità, le affidarono l’incarico di controllare gli ambienti del Comintern (per esempio, fornire informazioni sulla infiltrazione di elementi sovversivi, tradurre documenti intercettati, etc).
Dopo la morte di Gramsci le autorità sovietiche continuarono a trattare mia nonna con il massimo rispetto. Dal 1968 fino alla morte, avvenuta nel 1980, lei visse con Eugenia nel sanatorio molto privilegiato dei vecchi bolscevichi a Peredelkino, visitata spesso dalle delegazioni dei comunisti italiani. Neanche i suoi figli, cioè Delio e Giuliano furono emarginati dal regime sovietico. Delio fece una brillante carriera militare-scientifica, Giuliano - quella musicale. Tutti e due (comprese mogli e figli) avevano accesso alle strutture sanitarie privilegiate del PCUS. Ogni estate il PCUS ci offriva gratis una bellissima dacia nei pressi di Mosca (prima del ’68 ci andavano Giulia e Eugenia). Quando nell’83 la famiglia di Giuliano cambiò casa, le autorità di Mosca donarono una stanza in più per "l’allestimento del museo degli oggetti personali e dei documenti di Antonio Gramsci" (in seguito donammo quasi tutto il materiale al Museo di Casa Gramsci a Ghilarza e alla Fondazione Istituto Gramsci). Quindi non si può parlare di povertà in cui "è sempre vissuta la famiglia", almeno per quanto riguarda il periodo sovietico. Alcuni problemi hanno cominciato a verificarsi nel ’90, durante l’ultima grave crisi economica dell’Unione Sovietica. Ma anche allora, grazie ad alcuni privilegi, la nostra famiglia aveva condizioni di vita alquanto migliori della media. L’anno più crudele è stato per noi il ’92, quando il nuovo regime di Eltsin favorì un’inflazione vertiginosa e la nostra famiglia, come molte altre, perse quasi tutti i risparmi accumulati negli anni precedenti. Però nessuno di noi si è lasciato prendere dal panico; semplicemente abbiamo cominciato a lavorare di più. Giuliano fino quasi ad ottant’anni insegnava contemporaneamente in due scuole musicali e al conservatorio di Mosca. La sua laboriosità, e non il fatto di essere figlio di Antonio Gramsci, gli ha permesso di mantenere un livello di vita dignitoso quando ormai anche molti professori universitari andavano ai mercatini a vendere jeans. Per quanto riguarda invece "l’abbandono" della nostra famiglia da parte del PCI e la travagliata storia dei diritti d’autore, temi che il signor Vespa affronta non del tutto correttamente, ne parlerò in un’altra sede trattandosi di argomenti di tutt’altra natura.

l’Unità 20.11.07
Comunicato sindacale
Il Cdr de l’Unità


Lettera inviata dal Comitato di redazione de l’Unità
alla presidente ed ai consiglieri di amministrazione della Nie
in occasione della riunione del CdA, che si terrà oggi.

Si riunisce il consiglio di amministrazione della Nie, la società editrice de l’Unità. In un momento nel quale pare prossimo un mutamento dell’assetto azionario del giornale fondato da Antonio Gramsci, il Comitato di redazione ribadisce agli azionisti tutta la preoccupazione della redazione, dei lettori e dell’opinione pubblica per l’incerto destino della testata, per la sua autonomia e per il suo rilancio come voce autorevole e radicata della sinistra democratica di questo Paese. Preoccupazione ancora più forte nel momento in cui si affaccia, concreta, la possibilità che l’azionista di riferimento de l’Unità possa essere lo stesso che edita il quotidiano Libero.
Il Cdr, quindi, a ulteriore tutela del radicamento e dell’autonomia della testata, torna ad avanzare come irrinunciabile la proposta di strumenti anche inediti come il comitato dei Garanti composto da personalità di alto profilo culturale e politico.
Facendosi espressione delle preoccupazioni della redazione per il destino de l’Unità il Cdr auspica, infine, soluzioni che ne consentano un forte rilancio grazie a una presenza plurale e autorevole nel suo assetto azionario e chiede che vengano esperite fino in fondo tutte le iniziative utili a raggiungere questo obiettivo.

l’Unità Roma 20.11.07
I tesori dell’imperatore Qianlong
I grandi capolavori della Città Proibita in mostra al Museo del Corso
di Flavia Matitti


COME FARE a rappresentare in una mostra il senso della Città Proibita che, con i suoi 720mila mq e le sue 9mila sale, è la reggia più grande del mondo? L’impresa ha dell’impossibile, eppure la Fondazione Roma è riuscita ad allestire negli ambienti, certo non grandi, del Museo del Corso una rassegna straordinaria, incentrata su un personaggio d’eccezione, Quianlong (1711-1799), uno dei più grandi imperatori della storia cinese al quale si deve, fra l’altro, anche l’aspetto attuale della Città Proibita, edificata dai Ming nel XV secolo, ma ampiamente trasformata sotto la sua dinastia, quella dei Qing che, originaria della Manciuria, aveva conquistato la Cina nel 1644. La mostra, curata da Gian Carlo Calza, massimo esperto italiano di arte dell’Asia Orientale e intitolata “Capolavori dalla Città Proibita. Quianlong e la sua Corte” (fino a marzo 2008), riunisce oltre trecento oggetti d’arte – tra dipinti, sculture, abiti, armi, armature, porcellane, giade, mobili, orologi, sigilli – divisi in quattro sezioni. L’atmosfera raffinata e rituale della Città Proibita è inoltre suggerita in mostra sia da un accompagnamento sonoro diffuso nelle sale, ideato per l’occasione dal maestro Michelangelo Lupone, sia dall’allestimento, firmato dall’architetto Adriano Caputo, il quale ricorre ai colori tradizionali cinesi (rosso lacca, nero, giallo oro e azzurro) per evocare il fasto della reggia.
All’inizio del percorso espositivo, oltrepassato un grande plastico della Città Proibita, si incontra la sezione dedicata alla rappresentazione del potere. Il visitatore viene ricevuto da otto armature da parata, che rappresentano le Otto Bandiere, ossia il nerbo dell’amministrazione politico militare della Manciuria, schierate ad accogliere l’imperatore. In fondo, in una vetrina, è esposto una parte di un rotolo orizzontale lungo oltre 20 metri, dove si vedono raffigurati i soldati schierati nella parata delle Otto Bandiere. Grazie alla gigantografia di questo dipinto, fatta in occasione della mostra per riprodurlo sulla parete, si è scoperto che tutti i soldati sono raffigurati sorridenti, e sorridono felici perché il loro imperatore li passerà in rassegna. Segue in una vetrina l’equipaggiamento militare dell’imperatore, composto dall’armatura in raso giallo con ricami in seta raffiguranti draghi azzurri, l’elmo in lacca nera, la sella e la gualdrappa. Lo stesso equipaggiamento col quale lo vediamo poi ritratto a cavallo in un dipinto del gesuita Giuseppe Castiglione (Milano 1688 – Pechino 1766), divenuto pittore di corte assai stimato dall’imperatore. Alla riscoperta di questo artista, che ha creato un nuovo stile pittorico fondendo influssi italo-spagnoli e cinesi, è dedicata un’altra importante sezione della mostra. Ricreati anche due ambienti: lo studiolo e la sala del trono. Infatti Quianlong, oltre che guerriero e amante della caccia era un letterato, un poeta, un calligrafo, suonava diversi strumenti musicali ed era pervaso da un profondo sentimento religioso. E l’ultima sezione della mostra documenta appunto la sua apertura verso le diverse fedi religiose, dal buddismo al cristianesimo all’Islam. Un messaggio di dialogo interculturale e interreligioso che, come ha sottolineato il presidente della Fondazione Roma, rappresenta un modello di tolleranza quanto mai attuale, in un mondo attraversato dalla paura e dalla diffidenza.
Museo del Corso, via del Corso, 320
Tel. 06.661345 - Orario: 10–20

l’Unità Roma 20.11.07
La musica di Rothko e Kubrick
entra nel Palazzo delle Esposizioni
di Giovanni Fratello


Rapporto di lunga durata, e fecondo, quello fra arti visive e musica: dal tardo Medioevo, quando le proporzioni delle chiese venivano riprodotte dai ritmi di sontuosi mottetti polifonici eseguiti nei medesimi edifici, fino alla contemporaneità non pochi sono stati gli artisti come Vasilij Kandinskij affascinati dal rapporto tra forme, colori e suoni. In questo senso uno degli esiti più curiosi nel ‘900 è senz’altro la "Rothko Chapel" di Houston, costruita su commissione della famiglia de Menil su progetto di Philip Johnson, ornata da 14 dipinti di Rothko: un luogo di meditazione laica a pianta ottagonale per cui il compositore statunitense Morton Feldman scrisse appositamente un brano per soprano, coro, viola e percussioni. In occasione della mostra su Rothko al Palazzo delle Esposizioni questo brano sarà eseguito domani nella rotonda, in mezzo ai quadri di Rothko: l’appuntamento è alle 21, dunque fuori orario del PdE, ma i visitatori della mostra potranno accedervi previa prenotazione, e viceversa il pubblico del concerto avrà accesso all’esposizione di Rothko. «È un tipo di attività musicale a cui tengo particolarmente -ha voluto precisare Giorgio van Straten-, poiché da una parte ci vede collaborare con la Fondazione Scelsi, e dall’altra presenta un programma legato alla attività del PdE». Infatti il concerto prevede anche due brani di György Ligeti, "Lux Aeterna" e "Musica ricercata per pianoforte" I-V utilizzate per le colonne sonore di "2001 odissea nello spazio" e "Eyes wide shut" da Stanley Kubrick, regista cui in questi giorni è dedicata una mostra rassegna sempre al PdE. A fare da interpunzione tra la musica di Ligeti e Feldman, brevi composizioni vocali di Giacinto Scelsi, "Three latin prayers" e "Tre canti sacri". «Abbiamo voluto promuovere questo concerto -ha detto Nicola Sani presidente della Fondazione Scelsi-, perché in molte capitali europee i luoghi dell’arte sono anche luoghi per la musica, e Scelsi si inserisce bene in un programma di musiche orientate alla ricerca del timbro e dei colori sonori». Nel concerto, diretto da Roberto Gabbiani, tra gli esecutori spiccano Roberto Prosseda al pianoforte e le voci di Maria Tommaso e Patrizia Pupillo, nonché dell’Ensemble Vocale Scelsi al suo debutto ufficiale.
Info. 06 39967500

Repubblica 20.11.07
Una Carta dei diritti per l'universo di Internet
di Stefano Rodotà


Quasi nelle stesse ore in cui a New York una commissione dell´Onu approvava con uno storico voto la proposta di moratoria della pena di morte, a Rio de Janeiro il rappresentante delle stesse Nazioni Unite chiudeva il grande Internet Governance Forum affermando che i molti problemi che si pongono in rete richiedono un Internet Bill of Rights. Accosto questi avvenimenti, che possono apparire lontani e qualitativamente assai diversi, per tre ragioni. In entrambi i casi è balzata in primo piano l´importanza di una politica globale dei diritti. In entrambi i casi non siamo di fronte ad un definitivo punto d´arrivo, ma ad un processo che richiede intelligenza e determinazione politica. In entrambi i casi il risultato è stato reso possibile da una lungimirante iniziativa italiana.
Per la pena di morte si trattava di onorare una primogenitura culturale, quasi un dovere verso una storia che porta il nome di Cesare Beccaria e della Toscana, primo Stato al mondo ad abolire nel 1786 quella pena, "conveniente solo ai popoli barbari", come si espresse il Granduca Pietro Leopoldo. Tutta diversa la situazione riguardante Internet, visto che l´Italia non può certo essere considerata un paese di punta nel mondo dell´innovazione scientifica e tecnologica. E tuttavia proprio da qui è partito, negli ultimi due anni, un movimento che ha progressivamente coinvolto ovunque settori sempre più larghi, dimostrando così che la buona cultura è indispensabile per una buona politica. Quale politica, allora? Il risultato finale di Rio è stato possibile grazie anche al fatto che, un giorno prima, era venuta una dichiarazione congiunta dei governi brasiliano e italiano che indicava proprio nell´Internet Bill of Rights lo strumento per garantire libertà e diritti nel più grande spazio pubblico che l´umanità abbia mai conosciuto.
Ma questa svolta, assai significativa, esige ora una adeguata capacità di azione.Nelle discussioni che hanno preceduto la dichiarazione, il ministro brasiliano della cultura, Gilberto Gil, aveva esplicitamente evocato la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Siamo di fronte ad una situazione che sta diventando paradossale. Ancora sottovalutata e osteggiata da più d´uno in Europa, la Carta sta diventando un punto di riferimento costante per tutti quelli che, in giro per il mondo, sono impegnati nella costruzione di un nuovo sistema di garanzia dei diritti, tanto che studiosi statunitensi hanno parlato di un "sogno europeo" che prende il posto del loro "sogno americano". E´ tempo, dunque, che l´Unione europea abbia piena consapevolezza di questa sua forza e responsabilità verso l´intera "comunità umana", com´è detto esplicitamente nel Preambolo della Carta dei diritti. Proprio perché conosciamo bene i limiti dell´influenza dell´Europa, il suo futuro politico si lega sempre più nettamente alla capacità d´essere protagonista di questa planetaria "lotta per i diritti"
In questa prospettiva, l´Internet Bill of Rights fornisce una occasione preziosa. Proprio perché dall´Onu è venuta una insperata apertura, è indispensabile rafforzare e rendere concreto il processo così avviato. Indico le prime tappe di questo cammino. La dichiarazione italo-brasiliana è aperta all´adesione di altri Paesi. Non è una operazione facile. Ma il ministro degli Esteri ha dato prova di grande intelligenza politica nel guidare il processo verso il voto sulla moratoria della pena di morte, sì che si può pensare che non sarà indifferente rispetto a questa diversa opportunità.
Più agevole dovrebbe essere una azione volta a far sì che, proprio come è accaduto per la moratoria, l´iniziativa italiana si risolva in una più generale presa di posizione del Parlamento europeo. Qui, tuttavia, si apre una questione più generale. Mentre la Carta dei diritti fondamentali si avvia a diventare giuridicamente vincolante, e ad essa si guarda come ad un modello, la Commissione europea prende iniziative che, anche con discutibili espedienti procedurali, limitano grandemente la tutela di diritti fondamentali, ad esempio in materia di raccolta e conservazione dei dati personali. Si deve uscire da questa schizofrenia istituzionale, che vede le grandi proclamazioni sui diritti troppo spesso contraddette da concrete e forti limitazioni, democraticamente pericolose e tecnicamente non necessarie o sproporzionate.
Una terza via d´azione riguarda le stesse Nazioni Unite. Poco tempo fa Google, consapevole della necessità di prevedere più forti garanzie per i dati personali, ha proposto l´istituzione presso l´Onu di un "Global Privacy Counsel". L´indicazione va raccolta perché offre uno spunto concreto per cominciare a riflettere sulla futura presenza dell´Onu in questo settore. Ma, soprattutto, quella proposta pone un problema più generale. Nel corso di quest´anno abbiamo assistito ad un forte attivismo del mondo economico. Oltre alla proposta di Google, vi è stata una iniziativa congiunta di Microsoft, Google, Yahoo!, Vodafone, che hanno annunciato per la fine dell´anno la pubblicazione di una Carta per tutelare la libertà di espressione su Internet. In luglio Microsoft ha presentato i suoi Privacy Principles. Ma è possibile lasciare la tutela dei diritti fondamentali su Internet soltanto all´iniziativa di soggetti privati, che tendenzialmente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi e che, in assenza di altre iniziative, appariranno come le uniche "istituzioni" capaci di intervenire? Si può accettare una privatizzazione della governance di Internet o è indispensabile far sì che una pluralità di attori, ai livelli più diversi, possa dialogare e mettere a punto regole comuni, secondo un modello definito appunto multistakeholder e multilevel?
L´Internet Bill of Rights, infatti, non è concepito da chi lo ha immaginato e lo promuove come una trasposizione nella sfera di Internet delle tradizionali logiche delle convenzioni internazionali. La scelta dell´antica formula del Bill of Rights ha forza simbolica, mette in evidenza che non si vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere le condizioni perché possa continuare a fiorire. Per questo servono garanzie "costituzionali". Non dimentichiamo che Amnesty Internacional ha denunciato il moltiplicarsi dei casi di censura, "un virus che può cambiare la natura di Internet, rendendola irriconoscibile" se non saranno prese misure adeguate. Ma, conformemente alla natura di Internet, il riconoscimento di principi e diritti non può essere calato dall´alto. Deve essere il risultato di un processo, di una partecipazione larga di una molteplicità di soggetti che si sono già materializzati nella forma di "dynamic coalitions", gruppi di diversa natura, nati spontaneamente in rete e che proprio a Rio hanno trovato una prima occasione di confronto, di lavoro comune, di diretta influenza sulle decisioni. Nel corso di questo processo si potrà approdare a risultati parziali, all´integrazione tra codici di autoregolamentazione e altre forme di disciplina, a normative comuni per singole aree del mondo, come di nuovo dimostra l´Unione europea, la regione del mondo dove più intensa è la tutela dei diritti.
Le obiezioni tradizionali - chi è il legislatore? quale giudice renderà applicabili i diritti proclamati? - appartengono al passato, non si rendono conto che "la valanga dei diritti umani sta travolgendo le ultime trincee della sovranità statale", come ha scritto benissimo Antonio Cassese commentando il voto sulla pena di morte. Nel momento stesso in cui il cammino dell´Internet Bill of Rights diverrà più spedito, già vi sarà stato un cambiamento. Comincerà ad essere visibile un diverso modello culturale, nato proprio dalla consapevolezza che Internet è un mondo senza confini. Un modello che favorirà la circolazione delle idee e potrà subito costituire un riferimento per la "global community of courts", per quella folla di giudici che, nei più diversi sistemi, affrontano ormai gli stessi problemi posti dall´innovazione scientifica e tecnologica, dando voce a quei diritti fondamentali che rappresentano oggi l´unico potere opponibile alla forza degli interessi economici.
Né utopia, né fuga in avanti. Già oggi, all´indomani stesso della conferenza di Rio, molti sono all´opera e sono chiare le indicazioni per il lavoro dei prossimi mesi: inventario delle "dynamic coalitions" e creazione di una piattaforma che consenta il dialogo e la collaborazione; inventario dei molti documenti esistenti, per individuare quali possano essere i principi e i diritti alla base dell´Internet Bill of Rights (un elenco è nella dichiarazione italo-brasiliana); elaborazione di una prima bozza da discutere in rete. La semina è stata buona. Ma il raccolto verrà se saranno altrettanto fervidi gli spiriti che sosterranno le azioni future.

Repubblica 20.11.07
Usa, missionari pedofili anche tra gli eschimesi I gesuiti pagano i danni
La somma, 50 milioni di dollari, è la più alta mai pattuita da un ordine religioso
di Mario Calabresi


New York - La Compagnia di Gesù pagherà 50 milioni di dollari per risarcire 110 eschimesi che subirono abusi sessuali da religiosi gesuiti quando erano bambini o adolescenti, tra il 1961 e il 1987.
Gli scandali nella Chiesa americana continuano a rivelare nuove e inaspettate storie, cominciati nel 2002 a Boston, sembravano dover finire con il grande accordo di quest´estate tra la diocesi di Los Angeles e 508 persone che erano state molestate o stuprate negli ultimi settant´anni.
Ma ora dall´Alaska arriva la notizia che per tre decenni in 15 minuscoli villaggi, tra i più isolati e remoti al mondo, abitati dagli Yupik, che insieme agli Inuit formano il popolo eschimese, si sono ripetute violenze e abusi da parte di una decina di preti e da tre missionari della Compagnia fondata da Ignazio di Loyola.
Da quattro anni erano cominciate le denunce, ma prima del processo si è arrivati ad un´offerta di risarcimento che eviterà il dibattito in tribunale. Secondo l´avvocato degli eschimesi, Ken Roosa, si tratta di una cifra record per un ordine religioso, grazie all´accordo extragiudiziale ogni vittima riceverà oltre mezzo milione di dollari, in cambio nessuno dei gesuiti verrà incriminato e non è richiesta alcuna ammissione di colpevolezza.
La Compagnia di Gesù, attraverso il padre provinciale dell´Oregon, John Whitney, responsabile per l´Alaska, ha mostrato fastidio per la pubblicità data all´accordo, ha definito l´annuncio prematuro e ha negato che i gesuiti abbiano inviato per anni «in esilio» in Alaska sacerdoti di cui conoscevano le tendenze sessuali, come invece sostengono alcune delle vittime. Lo stato nel nord-ovest del continente americano viene invece definito dai gesuiti come «una delle terre di missione più difficile» e per questo la Compagnia sostiene di inviarvi i missionari più coraggiosi e preparati.
A St. Michael, un´isoletta lunga 15 chilometri che si trova nel Norton Sound, la baia del mare di Bering scoperta dal capitano James Cook nel 1778, il diacono Joseph Lundowski abusò di quasi tutti i bambini di Stebbins e St. Michael, i due minuscoli villaggi abitati da 150 famiglie. Accusato da 34 persone, che nelle testimonianze raccontano delle violenze avvenute in una minuscola chiesa, dopo il catechismo, durante i bui pomeriggi dell´inverno dell´Alaska, Lundowsky era un gigante con la testa pelata e gli occhi blu, lavorava come diacono per la diocesi anche se i gesuiti hanno negato alcun legame con il loro ordine e ufficialmente non sapevano chi fosse. Lasciò l´isola nel 1975 e ora si è scoperto che è morto una decina di anni fa a Chicago alla Pacific Garden Mission, un ricovero religioso con mensa e dormitorio. La maggior parte dei sacerdoti accusati sono ormai morti e le vittime, scelte nel tempo tra chi aveva tra i cinque e i quindici anni, oggi hanno tra i trenta e i sessant´anni.
In questa causa, come nel caso di Los Angeles, i gesuiti pagano per un mancato controllo e per aver tenuto nascosto per anni lo scandalo, nel 2004 si erano poi aggiunte accuse di aver bruciato e distrutto documenti che dimostravano il comportamento dei religiosi. Tra i sacerdoti sotto accusa il reverendo James Poole, fondatore della radio cattolica del Nord dell´Alaska, che oggi vive in una casa di riposo. Secondo l´accusa i gesuiti sapevano fin dal 1960 che teneva «comportamenti sessuali inappropriati» ma anche quando lo richiamarono a Portland lasciarono che continuasse ad insegnare ai bambini.
L´avvocato delle vittime, da Anchorage dove ha lo studio, racconta che nessuno aveva mai avuto il coraggio di denunciare finché non arrivò notizia dello scandalo che aveva investito la diocesi di Boston, allora a poco a poco emersero storie di disperazione, alcolismo e suicidi. «In alcuni villaggi eschimesi - sostiene Roosa - è difficile trovare un adulto che non sia stato sessualmente abusato. Ma nessuno ha ammesso che i preti problematici venivano confinati in Alaska. Ora per i nostri clienti questo accordo significa che le loro storie di abusi, sempre negate, sono finalmente riconosciute».

Repubblica 20.11.07
Il welfare a rischio nella società aperta
di Anthony Giddens


A parere di un autorevole politologo di Harvard, Robert Putnam, la risposta a quest´interrogativo, legato a uno dei problemi più esplosivi della vita politica di oggi, potrebbe essere senz´altro affermativa.

In una serie di studi recenti, Putnam ha approfondito le tesi contenute nella sua nota opera sul "capitale sociale". Per definirlo nel modo più semplice, questo capitale è costituito dalla rete dei rapporti sociali su cui si fa assegnamento per ogni atto della vita quotidiana. L´autore ha analizzato i dati emersi da un ampio studio sulla diversità etnica, svolto nel 2000 sull´intero territorio degli Stati Uniti. Ne risulta che nelle comunità suburbane più omogenee, abitate prevalentemente da bianchi, il grado di fiducia tra concittadini è elevato: e a questo atteggiamento corrisponde un alto grado di sviluppo del capitale sociale. Per converso, questi due dati presentano livelli molto bassi nelle aree a popolazione più eterogenea – ad esempio nei centri urbani con un più alto grado di commistione etnica.

Si tratta probabilmente di un risultato scontato: evidentemente, è più facile sentirsi a casa propria tra gente che ci assomiglia. Ma alcune delle rilevazioni hanno colto di sorpresa lo stesso autore della ricerca. E´ emerso che nelle comunità disomogenee, gli americani tendono a diffidare non solo dei diversi, ma anche dei concittadini più simili a loro: sembra quindi che l´eterogeneità dell´ambiente porti gli individui ad isolarsi comunque e senza distinzioni. Gli abitanti di queste aree denotano inoltre scarsa fiducia nelle autorità e nei media locali; non si mostrano molto disponibili a partecipare a gruppi di volontariato locali, tendono ad astenersi dal voto e raramente si esprimono con manifestazioni di gioia o allegria.

Questi comportamenti possono forse trovare spiegazioni diverse: ad esempio, molte comunità disomogenee sono al tempo stesso anche più povere, più popolose ed estese, e spesso presentano un tasso elevato di criminalità. E´ comunque un fatto che la corrispondenza tra il grado di disomogeneità e la minor fiducia nel prossimo si nota sia nelle aree più povere e ad alto tasso di criminalità, sia in quelle ricche e relativamente sicure. La perdita della fiducia e l´impoverimento del capitale sociale sono imputabili alla disomogeneità etnica in quanto tale. La conclusione di Robert Putnam è lapidaria: «Oggi per molti americani la diversità è motivo di disagio.»

Una conclusione quanto mai scomoda per i liberali. E´ il puro e semplice fallimento del multiculturalismo? Lo stesso Putnam respinge una conclusione tanto pessimistica. A suo parere, gli effetti negativi della disomogeneità sono superabili attraverso una politica pubblica illuminata, in convergenza con una serie di cambiamenti sociali. L´autore cita in questo senso diversi esempi incoraggianti. Come quello dell´esercito Usa, che fino alla scorsa generazione era articolato in base a criteri razziali; mentre oggi quest´istituzione è "color-blind" (cieca al colore); e tra i soldati Usa i rapporti di amicizia inter-razziale sono mediamente assi più frequenti che tra la popolazione americana in genere.
A tutt´oggi, il più delle volte la politica sociale si è posta l´obiettivo di contrastare la segregazione tra i gruppi etnici, concentrando i suoi sforzi soprattutto sulle minoranze. Ma i dati emersi dalla ricerca di Putnam pongono fortemente in rilievo l´importanza di rivolgersi a tutti i diversi gruppi etnici per indurli a identificarsi nella comunità. Per costruire un´identità comunitaria è necessario cercare di promuovere l´orgoglio dell´appartenenza e il coinvolgimento in qualche istituzione o realtà locale. Senza alcun dubbio, i cambiamenti registrati negli ambienti militari vanno ascritti soprattutto all´orgoglio della divisa e all´identificazione con gli obiettivi delle forze armate.

C´è da chiedersi fino a che punto le conclusioni di Putnam possano trovare applicazione altrove, e in particolare in Europa. Non possiamo avere certezze in questo senso, anche perché non esistono dati circostanziati come quelli utilizzati negli Usa da Robert Putnam per le diverse realtà europee, e ancor meno per l´Ue nel suo complesso. Tuttavia, oggi in Europa è in corso un vivace dibattito sui temi che sono stati oggetto delle indagini di Putnam, con particolare riguardo al rapporto tra diversità e welfare.

Tre anni fa David Goodhart, redattore capo della rivista britannica Prospect, suscitò un vespaio in numerosi paesi europei con la sua tesi, secondo la quale l´immigrazione crescente rischierebbe di minare le fondamenta stesse dello stato sociale. Di fatto – sostiene Goodhart – il welfare si fonda sulla condivisione, ma esiste un conflitto tra condivisione e diversità. Gli obblighi verso gli altri sono più sentiti nei confronti di chi è simile a noi. Ed è per questo, sempre secondo il ragionamento di Goodhart, che un Paese come gli Stati Uniti, multietnico da secoli (a differenza dell´Europa), ha uno stato sociale di bassissimo profilo. Esisterebbe dunque una contraddizione intrinseca tra il multiculturalismo e un welfare di tipo europeo. Se è vero che la tesi di Goodhart non ha il rigore dell´indagine di Putnam, indubbiamente i risultati di quest´ultima confortano in qualche misura le affermazioni del giornalista britannico.

Per quanto mi riguarda, al momento nessuno dei due riesce a convincermi pienamente. Secondo Putnam, la disomogeneità indebolisce il capitale sociale in seno alla comunità. Ma in effetti, che cos´è una comunità nella società di oggi? Nell´era dei network elettronici il concetto di comunità non va necessariamente identificato con la prossimità fisica. La tesi di Goodhart va presa sul serio, ma molte questioni rimangono aperte. Ad esempio, la Svezia è stata recentemente investita da una forte ondata di immigrazione: il 14% circa dei suoi abitanti sono nati in uno Stato estero. Eppure, nonostante molte tensioni e difficoltà, questo Paese è riuscito a tenere in piedi il suo sistema di welfare, notoriamente efficace e generoso.

Un´indagine come quella citata, riferita stavolta alla situazione europea, potrebbe gettare nuova luce sulle tesi di Robert Putnam, e dare un utile contributo all´attuale, importante dibattito sul futuro del welfare. E´ questo il tipo di ricerca che il Cehr dovrebbe commissionare. Se è vero che l´eterogeneità si contrappone alla solidarietà, ci troviamo di fronte a un problema che va discusso alla luce del sole, e non occultato in base a considerazioni ideologiche. Ciò renderebbe forse più difficile la realizzazione degli ideali multiculturali, ma come lo stesso Putnam ha dimostrato, non sarebbe una buona ragione per abbandonarli.

Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 20.11.07
"Demos" e "populus". Una parola magica
Il gene democratico e la deriva populista
di Yves Mény


Il significato cambia a seconda che si parli di "peuple" in senso francese, di "people" nell´accezione anglosassone o di "Volk" nella tradizione tedesca. Il termine piace ai demagoghi di strada e ai dittatori "popolari"
Dalla sovranità alla politica i differenti usi del concetto di popolo

Il popolo non esiste. Esistono degli individui. Esistono delle comunità come la famiglia o la città. Il popolo è un artefatto della politica moderna, il fondamento necessario, indispensabile alla legittimità dell´esercizio del potere quando le basi pre-moderne (la tradizione, la scelta divina) hanno lasciato il posto alle forme repubblicane di governo.
Dalle rivoluzioni americana e francese, il popolo diventa il centro e il perno del sistema politico, ma senza preoccuparsi troppo di mettere in armonia principi e fatti: la Costituzione americana inizia con il bellissimo "we the people..." dimenticando che essa è il frutto di un colpo di mano dei federalisti in violazione del mandato ricevuto. I rivoluzionari francesi portano il re sulla ghigliottina "in nome del popolo francese" ma dimenticano di invitarlo a votare.
Il "popolo" si caratterizza per una polisemia e una varietà di usi che ne fanno uno strumento retorico molto apprezzato. Come osserva Margaret Canovan, «il fascino potente della parola "popolo" per un uomo politico deriva dal fatto che questo termine riesce a essere al tempo stesso vuoto di ogni significato preciso e ricco di accenti retorici».
Si possono distinguere tre universi analiticamente isolabili ma che si confondono spesso nella pratica: il popolo-sovrano nell´ordine politico, il popolo-classe nell´accezione socioeconomica, il popolo-nazione in una prospettiva "culturale".
Il popolo-sovrano
In questo senso il popolo è la moltitudine che accede all´esistenza politica. Rousseau mette in evidenza il principio di sovranità nel suo legame consustanziale con il popolo. Come osserva Jacques Julliard, la sua opera è un vero e proprio «colpo di mano teorico». La filosofia politica di Rousseau è al tempo stesso una forma di tensione essenziale al centro di ogni pensiero democratico (la nozione della sovranità popolare si presenta come la forma più compiuta dell´utopia democratica) e, per alcuni, come la versione originale e/o la più "intellettualizzata" del populismo.
Lungi dall´accontentarsi di vedere nella democrazia il «governo del popolo, per il popolo», conformemente alla concezione rappresentativa tradizionale, il populismo persegue l´ideale del governo da parte del popolo, cioè l´esercizio concreto del potere da parte dell´unico attore sul quale si basa la legittimità. In questo senso il populismo alimenta un´insoddisfazione ricorrente o addirittura un´opposizione di principio, nei confronti delle élite al potere che, si ritiene, tradiscono il popolo.
Il popolo-classe
Nella sua accezione socioeconomica, il popolo è la plebs, la parte più umile della popolazione. La rivoluzione industriale e la costituzione progressiva di una classe operaia proletarizzata non fecero che rafforzare questa identificazione.
La nozione di popolo assume rapidamente un legame ambivalente con la nozione di proletariato che riguarda i lavoratori privi di capitale. Il proletariato, alla base del pensiero marxista, si distingue però dal popolo per due motivi concomitanti: la connotazione politica di "popolo", che spinge più in direzione delle "libertà formali" che verso le "libertà reali", per riprendere la dicotomia abituale; e il fatto che l´immagine unitaria del popolo rifiuta implicitamente la dinamica della lotta di classe, alla base del marxismo.
Invece di alimentare la dicotomia fondata sulla lotta di classe, il popolo in realtà si confonde più volentieri con la folla o con la plebe.
Il popolo-nazione
In questo senso il popolo è essenzialmente definito come un ethnos e non più (o non solo) come un dêmos e/o come quella massa informe composta dai "piccoli" della sfera socioeconomica. Definire il popolo come ethnos presuppone di passare da un artefatto, il popolo, a un altro e di condizionarne l´esistenza al possesso di certi attributi caratteristici di un´altra forma di "comunità immaginata" la cui forma concreta più comune si realizza nella figura della nazione.
Questa indeterminazione relativa dei significati deriva probabilmente dal fatto che, al di là delle circostanze storiche caratteristiche della formazione degli stati-nazione in Europa, la concezione "culturale" del popolo si presenta in modo variabile sulla base di alcune tradizioni filosofiche distinte, in particolare sulla base del rapporto dêmos/ethnos. Il "popolo" non dispone dello stesso contenuto a seconda che si parli di peuple in senso francese, di people nell´accezione anglosassone o di Volk nella tradizione tedesca. Nell´accezione francese, il popolo è concepito tradizionalmente come l´unione volontaria degli individui, atto fondatore della comunità politica per effetto della creazione di una volontà generale, che prenderà una forma istituzionale proprio nello stato. In questo caso il popolo-nazione si confonde con il popolo-sovrano, poiché la sovranità è la condizione e l´attributo fondamentale della comunità nazionale. Al contrario la nozione di people, definita come l´aggregazione degli individui, anche se si avvicina a quella francese nell´idea di associazione, non si confonde necessariamente con l´interesse generale. Così in modo significativo il principio di common law presuppone che la legislazione possa applicarsi sia allo Stato che agli individui. Il Volk infine, anche se nel senso tradizionalmente attribuito al termine tedesco si ritrova la nozione di trascendenza, non è un´associazione di individui ma un´entità a carattere organico preesistente, che supera e condiziona gli individui. In questo caso l´individuo non è l´elemento fondamentale, in quanto non esiste veramente senza un suo coinvolgimento nella comunità che lo sovrasta.
La democrazia non esiste senza il popolo. Ma l´esperienza democratica ci ha anche insegnato a diffidare dell´uso eccessivo di questa parola magica che piace tanto - e anche troppo - ai populisti di ogni tipo, ai demagoghi di strada e ai dittatori "popolari" di destra e di sinistra; una strana compagine unita soltanto dalla manipolazione politica per lo sfruttamento del potere "in nome del popolo".

Repubblica 20.11.07
Dio, popolo e Stato, le seduzioni del potere
di Carlo Galli


Sono solo una parte della città. Sono gli artigiani i contadini, i commercianti: i molti non ricchi, non nobili che si contrappongono ai pochi ricchi
Il mondo greco romano ne limitava l´importanza. Poi vennero le rivoluzioni...

Nelle costituzioni il termine "popolo" serve a conferire il massimo pathos agli enunciati normativi e organizzativi. Basti pensare, tra i molti esempi possibili, all´attribuzione della sovranità al popolo nell´art. 1 della nostra Carta costituzionale. Popolo è infatti sinonimo di "tutti i cittadini", tutti i membri del gruppo che può sensatamente dire "noi"; quando il popolo parla - nel momento costituente, in cui gli ordinamenti vengono creati - la sua parola è l´ultima e decisiva; e in seguito quando un´autorità, un potere costituito, parla, lo fa in nome del popolo: è questa la formula tipica, ad esempio, dell´amministrazione della giustizia.
Eppure, questa coincidenza fra popolo e politica, è del tutto moderna, e, per di più, non è per nulla semplice e lineare. Nel mondo greco e romano "popolo" è una parola e una realtà ben presente; ma il demos e il populus, non sono, in quei contesti, il Tutto, l´insieme dei cittadini; sono anzi una parte della città, e nemmeno la più importante. Sono gli artigiani, i contadini, i commercianti: ossia i molti non-ricchi, non-nobili, che si contrappongono ai pochi ricchi e ben nati, alle élite di nascita e di censo che detengono il potere. La storia delle città antiche in Grecia e in Roma è la storia delle lotte per il potere politico fra aristocratici e democratici, fra patrizi e plebei; assai vario è stato l´esito di questi conflitti, e molteplici le forme di equilibrio raggiunte, nelle diverse esperienze di repubbliche oligarchiche e popolari. A Roma, ad esempio, al popolo è attribuita la potestas - il potere nella sua forma originaria - ma agli aristocratici, al Senato, l´auctoritas, le risorse simboliche e istituzionali della legittimità. A volte l´equilibrio fra popolo e nobili è stato garantito da un terzo, da un dittatore che, provenendo spesso da una famiglia aristocratica, ha abbracciato la parte popolare per ambizione di potere (il caso celeberrimo è Cesare); più frequentemente l´equilibrio, o almeno la convivenza fra patrizi e plebei, si è sviluppata sotto la protezione di un re o di un imperatore. Anche l´età medievale vede il popolo come una "parte" fra le molte che compongono un universo politico complesso, articolato attraverso distinzioni e sovrapposizioni fra poteri politici e militari (imperatori, re, feudatari) e religiosi (papi, vescovi, abbazie), e attraverso gerarchie di ogni tipo. Solo nelle città italiane - nei Comuni - si creano condizioni economiche tanto dinamiche che il popolo prende il potere, contro le tradizionali élite politiche e religiose: è un "popolo" di artigiani e commercianti, a tal punto articolato e sviluppato che non tarda a conoscere al proprio interno divisioni anche profonde (il popolo grasso e il popolo magro, a Firenze) e che tuttavia può giungere (con Marsilio da Padova) a presentarsi come l´insieme dei cittadini uguali tra loro, come un Tutto a cui spetta il sommo potere. Ma anche la libertà di questo popolo è sempre minacciata dalle élite che lo vogliono ridurre a "parte" della città, e per di più a una parte sottomessa: è questo il contesto conflittuale al cui interno riflette Machiavelli.
Nella prima età moderna il popolo è una parte subordinata dello Stato, è l´insieme dei sudditi del re. Ma se lo Stato moderno non nasce popolare, lo diventa grazie alle rivoluzioni a cui le parti più ricche, colte e dinamiche del popolo - i borghesi - sono costrette a ricorrere per superare le resistenze regie, nobiliari e religiose alla condivisione del potere. Nella rivoluzione inglese del 1688-´89 il popolo (rappresentato in parlamento) affianca il re, in quella francese di un secolo dopo il popolo - con il nome di battaglia di Nazione - lo sostituisce completamente quale fondamento dell´unità e della legittimità della vita politica. Particolarmente in quest´ultimo caso, e in modi differenti nel caso dell´indipendenza delle colonie americane dalla madrepatria inglese, il popolo nel farsi Tutto proclama con enfasi l´uguaglianza di tutti i suoi membri, di tutti i cittadini, con esclusione di ogni gerarchia celeste e terrena. Anzi, il popolo non solo scalza il Re nel vertice (e nel fondamento) del potere, ma si sovrappone quasi a Dio grazie alla grande cultura romantica europea, che ne fa un´entità storica pre-razionale, un serbatoio di ogni vitalità e di ogni energia politica, trasformandolo in comunità organica, in radici che sono anche un destino. Il popolo-nazione della rivoluzione diventa un idolo nazionalistico, un´unità di uguali al proprio interno, gelosa della propria differenza da altri popoli all´esterno.
Ma non è solo la divinizzazione romantica a determinare il permanente ruolo politico del popolo, che è ben evidente anche in contesti lontani dalla mistica del Volk; è infatti chiaro che a proclamarsi popolo, a pretendere il monopolio della legittimità e dell´esercizio della politica non fu, in seguito alle rivoluzioni borghesi, il popolo inteso come tutti i cittadini dello Stato, ma solo alcune parti, alcune élite più o meno esigue; e che anzi dalla cittadinanza la gran parte del popolo rimaneva esclusa di fatto, se non di diritto. Ecco allora che, nel corso dell´Ottocento, le correnti ideologiche antiborghesi e antiliberali, quelle cristiane, quelle democratiche e quelle socialiste - i cui eponimi sono Lamennais, Mazzini, Proudhon e Marx - si impadroniscono nuovamente della parola "popolo" e la usano nella lotta politica come un concetto "di parte", contrapponendola ai ricchi, ai capitalisti, alle élites. I partiti popolari, le Case del popolo, le università popolari, gli Arditi del popolo, i treni popolari, le repubbliche popolari: usi linguistici che nei contesti politici più svariati (cattolici, socialcomunisti, fascisti) testimoniano della permanente valenza polemica, e quindi tutt´altro che pacificata e universale, della parola "popolo". Lungo questa linea si può giungere - in determinati contesti, anche attuali - al populismo che contrappone il popolo ai politici di partito, alle élites, ai sapienti; la logica è sempre la stessa: alla parte che si è voluta proclamare Tutto si obietta che è in verità solo una parte, e le si contrappone una parte che pretende di essere veramente il Tutto. Al "popolo" sembra spettare insomma un destino di conflitto, più che di equilibrio e di armonia, il destino di esprimere più la divisione che l´unione.

Repubblica 20.11.07
Il grande fascino della follia
Esce domani "Trauma" in prima mondiale in italia
di Antonio Monda


Il protagonista è uno psichiatra solitario con una vita difficile alle spalle
"Anche lo scrittore fa un mestiere che lo isola dal resto del mondo e deve capire le persone"
"Non parlo dell´11 settembre, come in un primo tempo volevo fare, ma le Torri ci sono"

Il nuovo romanzo di Patrick McGrath, intitolato Trauma, ha ancora una volta per protagonisti dei personaggi caratterizzati da gravi patologie psicologiche, amori morbosi e mai del tutto realizzati, e fallimenti sentimentali ed esistenziali. Il libro, che uscirà domani in Italia presso Bompiani (pagg. 252, euro 17, traduzione di Alberto Cristofori), e solo in seguito negli Stati Uniti e nel resto del mondo, ha un´evoluzione narrativa molto coinvolgente, grazie all´uso efficace della prima persona: colui che narra la vicenda è lo stesso uomo che la soffre fino allo spasimo ed ai confini della follia.
Sin dall´incipit («La prima crisi depressiva di mia madre si verificò quando avevo sette anni, ed io sentii che era colpa mia») il tono è dolente, ma anche confidenziale («Come ormai avrete compreso, sono uno psichiatra») ed il lettore è portato ad interrogarsi costantemente sulle riflessioni del protagonista Charlie Weir, un uomo che in gioventù ha sofferto il fatto che la madre preferisse a lui il fratello Walter, un artista di successo dagli atteggiamenti bohemienne. Non è l´unico trauma della sua vita: il matrimonio è fallito dopo il suicidio del cognato, un reduce del Vietnam che lui non è riuscito a curare, ed il padre è un uomo a dir poco inquietante, che vive di espedienti ed ha avuto anche dei guai con la giustizia.
Charlie è una persona fragile, condannato alla solitudine e alla ricerca del proprio orgoglio: nelle prime pagine del libro spiega a proposito della sua professione «non abbiate troppa fretta nel concludere che non ci interessi il potere», e poi aggiunge «non è un lavoro scientifico. C´è molto di artistico in quello che faccio».
«E´ quello che succede quando lo psichiatra è di qualità», spiega McGrath nella sua casa stracolma di libri a pochi passi da Ground Zero. «Un buon analista deve seguire anche le intuizioni ed i sensi. Deve essere sottile e capire la personalità del proprio paziente: il suo non può essere mai un rapporto esclusivamente scientifico.
Il suo protagonista afferma: «Sono le madri che hanno spinto la maggior parte di noi verso la psichiatria: di solito perché le abbiamo deluse».
«E´ una battuta che ho proposto come provocazione a vari psichiatri, e si sono detti tutti d´accordo. Personalmente condivido il mio protagonista quando afferma che il senso di fallimento nei confronti del rapporto con il genitore, ed in particolare con la madre, può produrre il desiderio di curare gli altri, o almeno di alleviarne le sofferenze. In uno dei passaggi più dolorosi la madre dice a Charlie, paragonandolo al fratello: "chiunque può fare lo psichiatra. Per fare l´artista invece ci vuole talento". Beh, in questo caso non sono affatto d´accordo: si tratta solo di una battuta perfida del personaggio materno che genera dolore e frustrazione.
Un´altra battuta molto forte dice: "Tutti gli psichiatri sono scrittori mancati, esiliati dal loro regno per il bisogno di parlare".
«Questo invece è un discorso diverso, che merita un approfondimento. Innanzitutto vorrei riflettere sul dato della solitudine e dell´isolamento dello scrittore: un elemento che molti psichiatri non riescono a sopportare. Nello stesso tempo è necessario approfondire le somiglianze tra i due mestieri: entrambi si muovono nello stesso territorio e devono affrontare simili problemi. Devono capire cosa muove le azioni e la psicologia dell´uomo, perché soffre, cosa significa il dolore. Ovviamente gli obiettivi sono diversi: lo scrittore utilizza questi elementi per farne dell´arte, lo psichiatra ha l´imperativo di curare il proprio paziente».
L´impressione che si ricava dal libro è che non sia possibile guarire dai propri traumi.
«Preferisco dire che è molto difficile, e che ci vuole un enorme impegno sia da parte di chi ne è vittima, sia da parte di chi è chiamato a curare. C´è un momento in cui l´ex-moglie dice che "le persone non cambiano", e Charlie puntualizza "senza aiuto, non cambiano". Io sono convinto che si possa arrivare anche a risultati importanti. Nel mio libro ho trattato l´abuso sessuale infantile e l´orrore della guerra: in entrambi i casi si tratta di situazioni estreme: traumi terribili e profondissimi, che la mente tende a rimuovere. Ma ogni psichiatra sa che la speranza sopravvive sempre, anche perché altrimenti il loro lavoro non avrebbe senso».
Come mai ha deciso di ambientare la vicenda negli anni settanta?
«In un primo momento avevo intenzione di scrivere un romanzo che aveva come sottofondo i traumi provocati dalla tragedia dell´undici settembre. Ma poi la storia è evoluta, ed ho visto che mi appassionavo sempre di più alla vicenda di uno psichiatra con un terribile trauma alle spalle che si trovava ad assistere un reduce del Vietnam. La storia è andata indietro nel tempo, e avrà notato che ho voluto raccontare le Torri Gemelle nel momento in cui vennero costruite».
Charlie considera il padre un perdente, ma nel libro non ci sono veri vincitori.
«E´ proprio così: anche il fratello di Charlie è più una persona di successo che un uomo realmente realizzato. L´unica eccezione è forse la moglie Agnes, che almeno riesce a condurre una vita organizzata e tranquilla».
Il libro racconta di episodi di cannibalismo in Vietnam da parte dei soldati americani: le risulta che sia successo?
«Sono stati documentati degli episodi di soldati impazziti a seguito di terribili traumi, che hanno cominciato a compiere azioni atroci e selvagge, come mutilare i corpi dei nemici per poi cibarsi delle loro carni. Si tratta di una regressione primordiale di uomini che non attribuivano più alcun senso né alla propria vita né a quella altrui. Nel corso della preparazione del libro ho incontrato alcuni veterani che mi hanno riferito vicende atroci, e mi ha certamente influenzato Home from the War di Robert Jay Lifton».
Perché è così affascinato da storie di follia?
«Ho letto che Norman Mailer ha dichiarato che ha avuto tutte le sue idee quando aveva vent´anni, e poi per il resto della vita si è limitato ad approfondirle. E´ successo lo stesso anche nel mio caso: ho cominciato a scrivere di patologie psicologiche quasi per caso, e poi, dopo Spider e Follia ho capito di esserne intimamente affascinato. Si tratta di un modo per analizzare come una persona cerca di trovare un significato nell´esistenza. Ed il fatto che questa persona possa essere disturbata ci costringe a valutare quale sia la realtà, qual è il modo limpido e non patologico di vedere le cose». Charlie cita Freud: "la maggior parte di quello che definiamo amore incarna la nostra resistenza alla prospettiva di lasciare casa".
«La casa è intesa come la ripetizione del passato, e l´amore rappresenta la resistenza a quella condizione: quella di Freud è un´affermazione cupa, e forse anche cinica, nella quale tuttavia scorgo un fondo di verità».

Repubblica 20.11.07
Esce un nuovo libro, molto controcorrente, di Luciano Gallino
Sulla flesibilità si gioca la democrazia
di Massimo Riva


Il sociologo porta alla luce una realtà misconosciuta: secondo le sue stime, sono circa 11 milioni i lavoratori precari nel nostro Paese

Sono così rare di questi tempi le voci fuori del coro che allarga mente e spirito seguirne qualcuna, per giunta ben articolata per scrupolo di analisi, solidità degli argomenti, capacità di disvelamento di diffuse ma anche false credenze. Tanto più se l´originalità dell´approccio riguarda un tema - il mercato del lavoro - oggi cruciale per l´assetto sociale e la crescita economica del nostro paese e, in generale, di quel mondo occidentale nel quale appaiono più radicati che altrove i principi e le regole della democrazia politica. E´ questo il caso dell´ultimo libro di un´autorità in materia, Luciano Gallino: Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità (Laterza, pagg. 172, euro 14).
Come si vede, fin dal titolo l´autore afferma con chiarezza il suo proposito di collocarsi contro l´onda montante del pensiero unico prevalente nel dibattito culturale e nella gestione politica dei paesi occidentali, secondo il quale soltanto attraverso una più ampia diffusione di contratti di lavoro flessibili Europa e Stati Uniti potranno reggere nella competizione selvaggia ingaggiata dalle economie, soprattutto asiatiche, dove diritti e salari della manodopera sono ancora a livelli che da noi si definirebbero ottocenteschi. Ma va anche detto che un primo apprezzabile pregio del libro consiste nel fatto che Gallino evita ogni scivolata nella pura polemica ideologica e, anzi, si sforza in continuazione di poggiare le sue tesi su una disamina accurata di cifre, dati, studi spesso prodotti proprio da quelle fonti che più sostengono l´ineluttabilità del lavoro flessibile.
Cosicché la lettura del volume porta a fare una serie di scoperte su aspetti insospettati della realtà effettiva del mercato del lavoro, indicando come esso si sia già trasformato in profondità perfino in Italia, paese che secondo l´opinione dominante sarebbe un fanalino di coda nella corsa alla flessibilità. Ebbene, pur mettendo in guardia sulla difficoltà di fare stime precise per la strutturale inaffidabilità delle rilevazioni ufficiali e quindi soppesando con grande prudenza critica dati spesso contraddittori, Gallino arriva a quantificare in non meno di dieci-undici milioni i lavoratori che nel nostro paese già ora sono coinvolti nelle varie tipologie di impieghi flessibili, circa la metà dei quali attribuibili all´economia sommersa.
Non c´è qui spazio per riassumere i ragionati passaggi logici che portano lo studioso a questa valutazione. Ma lascia abbastanza attoniti il fatto che egli porta alla luce una realtà misconosciuta un po´ da tutti. Tanto dalle statistiche ufficiali, che ancora nel giugno scorso stimavano in appena 2,1 milioni i lavoratori dipendenti con contratti a termine. Quanto dalla gran parte delle pur autorevoli voci che non perdono occasione pubblica per reclamare maggiori dosi di flessibilità come unica via di salvezza per l´economia nazionale.
Ma ciò che Gallino denuncia non è soltanto una ben nascosta dimensione quantitativa del fenomeno. Più acuta riflessione egli chiama a fare sui costi, oggi individuali e domani sociali, di una precarizzazione così diffusa delle attività lavorative, avvertendo che i fautori della società flessibile su modello della nuova organizzazione del sistema delle imprese forse non si rendono conto di creare i presupposti non di una comunità di uomini liberi e autonomi ma di una società disarticolata e perciò pericolosamente esposta anche sul versante della tenuta delle istituzioni democratiche.
Certo, egli consente sul fatto che all´origine degli scossoni intervenuti sul mercato del lavoro c´è l´ingresso sulla scena economica mondiale di nuovi protagonisti (dalla Cina all´India fino ai paesi dell´ex-blocco sovietico) che hanno sconvolto il vecchio schema della divisione internazionale del lavoro. In modi per cui - come si sintetizza nel libro - «si sono posti in concorrenza fra loro un miliardo e mezzo di nuovi lavoratori globali aventi diritti e salari minimi con poco più di mezzo miliardo di lavoratori aventi diritti e salari elevati».
Ed ecco il punto: Gallino avverte che quelle condizioni di lavoro così fortemente competitive convivono con assetti politico-istituzionali in gran parte autoritari o comunque di fragile e malcerta democrazia. In altre parole, lancia un serio allarme sul rischio che, inseguendo modelli nazionali di basso costo del lavoro, anche le società dell´Occidente democratico possano regredire perfino sul terreno delle libertà politiche.
Una messa in guardia eccessiva? A prima vista, forse. Ma un´altra realtà inquietante su cui Gallino richiama l´attenzione riguarda il ruolo che le grandi imprese internazionalizzate giocano nel conflitto fra il miliardo e mezzo di lavoratori senza tutele e il mezzo miliardo di più protetti. Se si guarda al caso della Cina, per esempio, si scopre che oltre il 55 per cento delle merci esportate in Occidente non viene da autonome industrie cinesi, ma è prodotto in quel paese da imprese americane o europee. Sono, insomma, queste ultime a guidare e gestire la concorrenza ai lavoratori occidentali, le stesse che poi reclamano più flessibilità nelle rispettive patrie. Tanto che fra il 2006 e il 2007 è stata proprio la pressione delle grandi imprese occidentali a indurre il governo di Pechino ad emendare pesantemente al ribasso la nuova legge sui contratti per i lavoratori cinesi.
Come uscire da questa stretta? Gallino indica alcune soluzioni razionali per una graduale diminuzione degli squilibri esplosi con la globalizzazione dei mercati. Ma le accompagna anche con scarse speranze di praticabilità, constatando la sudditanza delle autorità politiche occidentali nei confronti dei veri gestori di questo conflitto su entrambi i fronti: le grandi imprese internazionalizzate. Chi non abbia ancora letto il suo precedente L´impresa irresponsabile potrà trovarvi le ragioni di tanto lucido pessimismo. Basterà ricordare, del resto, che l´espressione «irresponsible corporation» è di Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti un secolo fa. Cent´anni passati invano?

Repubblica Firenze 20.11.07
Gli studenti toscani mantengono il record italiano di rinunce: alle superiori sono il 60%
Laici, liberi o scansafatiche a religione la classe si svuota
di Maria Cristina Carratù


"Non si vuole esporre i figli piccoli a una scelta diversa dalla prevalente"
Ma materne elementari e medie sono in controtendenza: iscritti 70-80%

RELIGIONE e scuole non vanno d´accordo, in Toscana. Lo confermano anche quest´anno i dati, non certo sospettabili di parzialità, diffusi dalla Conferenza episcopale italiana: a fronte di una media nazionale di studenti delle scuole statali «non avvalentisi» dell´«Irc» (Insegnamento della Religione Cattolica, previsto dal Concordato) pari all´8,8%, e a una per il centro Italia del 9,7%, nell´anno 2006-7 la Toscana si è attestata su un 17,6% (16,9% nel 2005-6), che l´ha posta ancora una volta al primo posto nella classifica del paese, seguita dall´Emilia Romagna (16,3%), dal Piemonte e dalla Lombardia. Con la diocesi di Firenze a fare la parte del leone fra le toscane, con il suo 30,8% (30,4% nel 2005-6), vale a dire circa uno studente su tre che dice no all´ora di religione in classe. Seguita con notevole distacco da quella di Livorno (21,6%). Se poi, per il capoluogo, si isolano le scuole medie superiori, le percentuali schizzano ancora più su: 58,7% di studenti che non si avvalgono (il 15,4% in Italia). E tutto fa pensare che i dati dell´anno scolastico in corso, ancora in elaborazione, confermino il trend. Diverso il caso degli altri ordini di scuole, dalle materne alle medie inferiori, dove nel 2006-7 gli iscritti all´ora di religione sono rimasti stabili, se non aumentati: 81,27% alle materne (88,93 in provincia), 80,54% alle elementari, 69,76% alle medie, (pari rispettivamente a un -0,5%, un +0,8%, +2,16 rispetto all´anno 2005-6). Il che, come la stessa Cei riconosce, si deve, in parte, a un inconsapevole conformismo delle famiglie rispetto alla scelta ancora prevalente.
Ma il vero dato da analizzare, e su cui si stenta a mettere a fuoco una precisa diagnosi, è quello delle scuole superiori. Che, secondo qualcuno, fa pendant, nella stessa fascia di età (e sullo sfondo di una società sempre più «secolarizzata»), con il crollo di partecipazione alla vita della chiesa dopo la cresima, una volta adempiuti gli obblighi «di base». Ma perché, appena possono scegliere, i ragazzi fuggono dall´ora di religione? «Intanto, guardiamo anche ai dati positivi» è l´invito di monsignor Dante Carolla, responsabile dell´ufficio scuola della Curia di Firenze. «Medie, elementari e materne mostrano che le famiglie hanno ancora fiducia in un insegnamento che, nel vuoto di valori, trasmette sempre qualcosa». Quel che accade dopo, però, anche per la Curia è difficile da capire: «Forse dipende dal senso di libertà che i ragazzi credono di aver conquistato finite le medie» dice Carolla. O forse, immagina Lucia Benvenuti, insegnante di religione al liceo Machiavelli, «è solo l´effetto della tendenza generale a scansare tutto quello che si può scansare». E a maggior ragione una materia presentata come un optional, sebbene concorra come le altre alla determinazione del credito formativo finale. «In realtà, è una materia molto legata alla capacità dell´insegnante di stabilire relazioni umane con ragazzi, che ne hanno un grande bisogno» nota Maria Grazia Celli, docente al classico Dante. Quanto poi allo specifico disinteresse toscano, l´analisi si fa ancora più complessa. C´è chi suppone c´entri l´immigrazione, chi rinvia alla radicata tradizione locale di laicità, che contesta per principio il carattere pur sempre confessionale dell´«Irc». «Io ho l´impressione che molto dipenda dalla tendenza, tipica di questa regione, a interpretare il dato religioso con schemi politici, penalizzandone così la considerazione presso i ragazzi» sostiene la presidente dell´associazione genitori cattolici Age, Rita Manzani Digoro. E che dire poi dell´abitudine delle scuole di piazzare la religione alla prima o all´ultima ora, anziché proporre materie alternative (di cui peraltro si avvale il Toscana il 68% dei ragazzi, il 73% a Firenze, contro il 48% d´Italia)? «Un vero contributo al disimpegno» dice Digoro. Rispetto a cui cosa può un´ora di religione?

Corriere della Sera 20.11.07
Le ragazzine e il sesso: a 12 anni senza limiti
di Alessandra Arachi


ROMA — L'allarme è stato come un fascio di luce che acceca: ci sono baby squillo sulle strade. Ce l'hanno messe i loro coetanei, per pagare debiti del gioco d'azzardo. Giuliano Amato, ministro dell'Interno, ha lanciato un sasso, l'altro giorno. E adesso rischia di venire giù una montagna. Perché quella del titolare del Viminale è la punta dell'iceberg. Ma basta fermarsi un attimo e scoprire che l'infanzia più tradizionale, ormai, non riesce a superare le classi elementari.
Perché: c'erano una volta i bambini. E le bambine che giocavano con le bambole. Avevano dodici-tredici anni. E la Società italiana di pediatria (la Sip) li interrogava con domande tipo: che giornali girano in casa tua? Usi il computer? Qual è l'avvenimento che ti ha colpito di più quest'anno? L'ultima ricerca fatta così è datata 2003: non serviva più a niente. Non di certo a fotografare la realtà.
E adesso a leggere l'ultima ricerca della Società dei pediatri presieduta da Pasquale Di Pietro, quella del 2006, vengono i brividi. Proprio oggi che anche in Italia celebriamo la Giornata dell'Infanzia.
Il campione: 1.251 bambini tra i 12 e i 14 anni.
Una domanda. Una delle tante del questionario: «Hai mai visto un tuo amico ubriaco?». Sì, dice il 37,4% del campione. Non solo, l'8,4% aggiunge: spesso.
Un'altra domanda: conosci qualcuno tra i tuoi amici che ha fumato una canna? E questa volta è quasi uno su due (44,3%) a rispondere un tondo: sì. Un altro esempio? Tre ragazzini su quattro non esitano a confessare di fare cose che loro stessi definiscono rischiose, come ubriacarsi, appunto, bere liquori, prendere farmaci, uscire da soli la sera tardi, avere rapporti sessuali non protetti.
Già: hanno rapporti sessuali frequenti, i nostri ex bambini.
Modelli educativi
Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra dell'età evolutiva, non ha dubbi: «L'anticipazione delle tappe dello sviluppo è dovuta ai modelli educativi. Come dire? Sono stati mamma e papà che hanno voluto che succedesse, si sono dati da fare per diversificare il modello culturale che loro avevano ricevuto. Hanno accelerato le capacità di socializzazione dei loro figli. Hanno tolto loro il senso di colpa, il senso della paura. Basta provare, per credere. Basta entrare in una qualsiasi seconda media d'Italia e capire che è impossibile far sentire in colpa questi ragazzi o mettere loro in qualche modo paura».
Succede così anche nella seconda media statale di Gela, Sicilia? «I ragazzi sono molto decisi, è vero», garantisce Ela Aliosta, preside della scuola media alle soglie della pensione. Sono quarant'anni che la signora Aliosta ha a che fare con i ragazzi delle medie. Dice adesso: «Sono cambiati. E molto. Fisicamente, prima di tutto: un tempo le femmine arrivavano ragazzine in terza media. Oggi assomigliano a donne già quando entrano in prima. Soprattutto per come si vestono, si truccano, si pettinano i capelli. Con la complicità dei genitori, è ovvio».
«Faccio la velina»
Oppure la cubista, la show girl, la ballerina. Alla più tradizionale delle domande: «Cosa vuoi fare da grande?», le bambine intervistate dalla Società dei pediatri hanno infatti messo al primo posto: voglio fare il «personaggio famoso». E fino a qui non sarebbe una scoperta sensazionale. È che però, tolta questa prospettiva, rimane il vuoto: al secondo posto delle preferenze delle bambine c'è, infatti, un disarmante: «Non lo so».
«Ho dodici anni faccio la cubista mi chiamano principessa», è il titolo del libro di Marida Lombardo Pijola, una giornalista-mamma che non a caso ha gettato scompiglio tra mamme e papà. Ha scoperchiato il mondo delle discoteche pomeridiane, lasciando disorientati nugoli di genitori davanti a frasi di bambine come: «Se fai la cubista sei una donna. Non più una ragazzina. Con i clienti della disco treschi soltanto se ti va. E puoi farti pagare...». Non è fantasia.
È qualcosa che da noi è arrivato da pochissimi anni, probabilmente importato ancora una volta dagli Stati Uniti. Era del 2003 «Thirteen, 13 anni», il film-choc ambientato a Los Angeles con protagoniste due ragazzine (tredicenni, appunto) che vivono vite sempre più pericolose tra sesso promiscuo, droga, fumo, alcol, piccoli furti, accenni di lesbismo.
«Sono vent'anni che insegno nella scuola media di Centocelle, a Roma», dice Margherita D'Onofri, insegnante di scienze. E spiega: «Soltanto negli ultimi anni, però, ho visto cambiare gli atteggiamenti durante i campi scuola, ovvero quelle gite che consentono ai ragazzi di dormire fuori dalla propria città. Adesso anche nelle prime classi stanno svegli tutta la notte e si mescolano dentro le stanze. Fino a poco tempo fa non succedeva».

Corriere della Sera 20.11.07
Tra le ragazze «Mamma e papà cosa dicono? Mica lo sanno che veniamo qui. Altrimenti dove andiamo?»
E il sabato pomeriggio tutte a caccia in discoteca
Arrivano in jeans e maglioncino largo, appena dentro si (s)vestono da lolite e cubiste
di Andrea Galli


MILANO — «E l'età?». Tanta: almeno almeno il doppio tuo. «Che importa, se c'è l'amooore...». Dalla febbre del sabato sera al probabile febbrone — tanto son mezze nude — del sabato pomeriggio, quando la discoteca Shocking apre dalle 15 alle 18 solo ai minorenni, c'è un conto anagrafico alla rovescia, dai 15 agli 11 anni, che conta e riconta l'attesa: «Ancora un'ora e quindici, e si entra».
Che choc, allo Shocking. Arrivano prima, prima tanto, per prendere posto in coda, star davanti, essere sicure d'entrare, con l'attesa fumata via tra una sigaretta, uno sputo (sì, uno sputo), una tirata in su del tanga che scende e del reggiseno push-up che traballa, e un posizionamento tattico della frangetta per occultare il brufoletto. Quando son dentro, corrono come centometriste alla conquista del cubo, potessero segnerebbero il terreno attorno con le bandierine, lo occupano e non lo mollano nemmeno a pagarle. E da lì in avanti, via con le danze. Musica elettronica a manetta, incessante, martellante. Mezzoretta iniziale di balli, per scaldarsi. Quindi, le grandi manovre dell'«amore», ché questa discoteca, e così è il vicino Tocqueville, sempre in zona corso Como, sempre in zona movida, il sabato pomeriggio a una cosa sola serve: prendersi. Per lasciarsi, certo, appena il dj spegne la consolle e le luci se ne vanno. Ma chissenefrega: per intanto, godiamocela.
Un popolo di lolite (s)vestite da donna, con l'abbigliamento da urlo — parola d'ordine la trasparenza, meglio se assoluta — e nascosto dentro uno zainetto. Escono di casa, salutano mamma e papà con jeans, maglioncino largo, giubbotto, un normal look tra la secchiona e la brava figliola, e appena valicato il controllo agli ingressi partono per il bagno, aprono lo zainetto, e oplà. In un amen, trasformazione estetica, jeans, maglioncino e giubbotto appallottolati dentro il suddetto zainetto, consegnato, previo pagamento di euro 9, alla cassa. A proposito di soldi: ai 9, si aggiungano i 10 euro dell'ingresso, e gli almeno 5 della seconda consumazione (la prima è gratis). Morale: escono non meno di 24 euro. Spesi bene? «E certo. In ogni modo, altrimenti, dove vado il sabato pomeriggio?».
E dove potrebbero andare, inseguite, affascinate, sedotte come sono per tutta la settimana dai coetanei — la specialità qui è maschile — addetti alle pubbliche relazioni? I baby pr presidiano i corridoi delle scuole, i mezzanini del metrò, piazza Duomo, gli oratori, con in mano un plico di depliant che consegnano con il sorrisone e la promessa: «Vieni da noi, siamo il massimo dei massimi». A fine giornata, i gestori prendono i depliant — lasciapassare per l'ingresso in discoteca —, che sopra hanno riportato un piccolo codice, corrispondente al nome di chi li ha piazzati, e contano. Se tal dei tali ha portato un bel numero di persone, in premio bevande gratis, biglietti gratis per le discoteche, tessere gratis per esclusivi privé di locali super-vip. Insomma, se uno s'impegna, è bravo, si sbatte, gli si aprono le porte dell'olimpo del divertimento, e allora ecco perché la ricerca di possibili clienti è una caccia estenuante, sfiancante, finanche stoica, addirittura eroica.
Dicono: e i genitori? In questo sabato pomeriggio, di genitori manco l'ombra. Zero. Lo sanno i tuoi che andate in discoteca? «Cosaaaa?». Lo sanno i tuoi che andate in discoteca? «No. Cambia qualcosa?». Boh, forse sì, forse no. «Guarda che mica rubiamo o ammazziamo...». E, a dire il vero, manco si ubriacano: al bancone del bar, gli alcolici non ci sono. E, a ridir il vero, manco si drogano: qualche nuvoletta di canne, d'accordo, e però pasticche o cocaina non se ne vedono. Le nasconderanno? Forse sì, forse no. E comunque sia: l'imperativo è lo stesso. L'amore.
Certi appostamenti, certi movimenti, certi affondi restano nella memoria. Con il maschietto piantato lì, come un baccalà e la faccia da finto duro, al centro dell'arena, e le ragazzine attorno che lo osservano, scrutano, bocciano o promuovono con un bacio, e dopo il bacio una chiacchierata e dopo la chiacchierata mani che frugano. Con le femminucce che svettano sui cubi e, sotto ai cubi, i ragazzi che sfilano in processione, uno dopo l'altro, e speranzosi s'affidano agli sguardi delle miss. Se parte l'occhiata, lei scende e si finisce su un divanetto a raccontarsela. Se l'occhiata manco è accennata, avanti il prossimo. E così per cinque ore, in un vortice di telefonini che scattano fotografie e mandano sms, senza sosta, senza interruzione, senza pause. Una frenesia di sudore arginata dal consumo in quantità industriale della bevanda che nella pubblicità ti mette le ali. Litri e litri di energia, sia mai faccia capolino la fatica o, peggio, la stanchezza, o, peggio del peggio, la voglia d'andarsene.
Cinque, sei, settecento ingressi, ogni volta, allo Shocking. Altrettanti al Tocqueville. Generalizzando: lo Shocking ambito dai pischelli della Milano bene; il Tocqueville, amato da quelli delle periferie e dell'hinterland. Volgarizzando: «Al Tocqueville ci vanno i tamarri»; «Lo Shocking è il posto dei fighetti». Alla fine, beata gioventù. Toglietegli tutto, tranne che la baby discoteca. Sabato, i gestori del Tocqueville l'han tenuto chiuso perché, la settimana prima, c'era stato un rissone tra adolescenti agitati. E che rabbia, che indignazione, che dolore, tra le abituali clienti che ugualmente si sono messe in fila, sperando che i titolari ci ripensassero. Macché. E ora? «Ora è davvero un grandissimo casino». Scusate, c'è lo Shocking... «Mmmmm». E vabbé, fate uno sforzo, no? Si radunano in gruppo, sigaretta e uno sputo, uno sputo e una sigaretta: vuol dire che ci stanno pensando su, chissà, magari, per stavolta, si può fare un'eccezione. In nome dell'amore, s'intende.

Corriere della Sera 20.11.07
In Spagna Memoria e riconciliazione
La Chiesa si scusa: «errori» nella Guerra civile
di Elisabetta Rosaspina


MADRID — Tre settimane dopo la beatificazione di quasi 500 religiosi massacrati, per lo più dagli anarchici, prima e durante la guerra civile in Spagna, la Chiesa ammette: «Dobbiamo anche noi chiedere perdono per gli errori commessi in quel decennio». Il discorso del vescovo Ricardo Blázquez, presidente della Conferenza Episcopale Spagnola, ha lasciato ieri sbalordita una buona parte del clero locale. Nessuno, o forse soltanto pochi si aspettavano che all'assemblea plenaria dei vescovi potesse essere affrontata così la questione della memoria storica.
Il momento è delicato. Si sono appena sopite le polemiche sul criterio con cui il Vaticano ha scelto il nuovo contingente di martiri per la fede, tutti a debito del bando repubblicano; e stanno per riaccendersi le discussioni al Senato sulla legge che cancellerà i simboli franchisti dagli edifici pubblici, riaprirà molte fosse comuni e ricordi dolorosi; e smuoverà inevitabilmente sentimenti e risentimenti, solamente accantonati negli ultimi trent'anni.
Il «mea culpa» della gerarchia ecclesiastica, accompagnato però dall'esortazione a «non riaprire ferite né riattizzare rancori», marca comunque un drastico cambio di rotta nell'atteggiamento della Chiesa spagnola che si era considerata finora soltanto una vittima, prima delle persecuzioni durante la seconda Repubblica e, poi, delle barbarie del conflitto fratricida negli anni dal 1936 al 1939. Alle accuse di aver appoggiato il golpe del generale Franco, lo schieramento nazionalista e poi la dittatura, i vescovi avevano opposto un elenco di almeno settemila, fra preti, suore e fedeli, torturati e uccisi spesso soltanto per la loro veste o il loro credo: «La Chiesa nella guerra civile fu soggetto paziente e vittima», proclamava nel 2000 l'allora portavoce della conferenza episcopale, Juan José Asenjo.
Mai, prima del vescovo Blázquez ieri, un prelato aveva alluso a eventuali «azioni concrete» che potessero aver generato odio e vendette nei confronti dei sacerdoti. Alla fine del suo mandato al vertice della Conferenza episcopale, Blázquez ha deciso, a sorpresa, di fare qualche concessione alle critiche. Il presidente dei vescovi spagnoli ha la sua diocesi a Bilbao, e proprio nel Paese basco morirono trucidati, questa volta per mano franchista, altri preti non ancora inclusi nella lista dei martiri.
Che non sia stata ancora fatta luce su tutta la ferocia di quel periodo è innegabile, e Blázquez ritiene sia arrivato il momento per gli storici di andare a fondo: «In molti casi avremo motivo di ringraziare Dio per ciò che fu fatto e per le persone che agirono; e probabilmente in altri momenti, di fronte ai fatti, senza elevarci orgogliosamente a giudici degli altri, dobbiamo chiedere perdono e ritrovare l'orientamento». Secondo l'insegnamento di Papa Giovanni Paolo II, ha ricordato ancora Blázquez, e il suo invito alla «purificazione della memoria »: che «implica tanto il riconoscimento di limiti e peccati quanto il cambio di comportamento e il proposito di emendarsi ».

Corriere della Sera Roma 20.11.07
Minori Crescono gli assistiti: nel 2001 erano 20.588, 36.699 nel 2006
Abusi sui più piccoli? Questione di famiglia
di Ilaria Sacchettoni


In 10 anni 516 bimbi in cura al Centro comunale
Da dieci anni il Centro comunale d'aiuto ai bambini maltrattati ha preso in carico 516 bambini. Storie e casistica

Storia numero uno: i medici di un noto ospedale romano dopo aver visitato P, un anno, ricoverata per perdite di sangue dal naso e dalla bocca, segnalano probabili fratture alle costole. È un banale caso di maltrattamento in famiglia, di quelli che non fanno quasi più notizia. La bambina viene affidata ai servizi sociali con divieto di prelievo da parte dei genitori. Storia numero due: M., 17 anni, presenta tracce di alcolismo e consumo (abituale) di stupefacenti. Denunciata anche per vagabondaggio e partecipazione a risse, la sua incolumità appare in pericolo. Il fatto è che la madre continua a tacerle fondamentali trascorsi affettivi. Ad esempio la morte del padre che, per l'adolescente M., è semplicemente svanito nel nulla (in realtà è morto suicida quando aveva pochi anni e lei continua a chiedere di lui). Storia numero tre: S., L., J., rispettivamente di 5, 10 e 11 anni, vengono presi in carico dai servizi sociali dopo che, per circa quattro anni, hanno subito violenze fisiche e psichiche dal padre. Si scoprirà, che i tre bambini, erano l'«ostaggio» anche psicologico, di genitori in via di separazione.
In concomitanza con la Giornata mondiale per la prevenzione dell'abuso all'infanzia, il comune di Roma presenta il bilancio dei dieci anni di attività del centro d'aiuto al bambino maltrattato e alla famiglia, nel quale la sola fondazione Vodafone ha investit o 444 mila euro tra 2006-2007 (ma anche gli Istituti di Santa Maria in Aquiro sono sponsor).
L'assessore alle Politiche sociali Raffaela Milano spiega che il carico dei minori assistiti dal Comune di Roma è aumentato: «nel 2001 erano 20.558, nel 2005 36.339 e nel 2006 36.699» e che, tra le ragioni che determinano tale presa in carico, c'è «lo stato di povertà» di molte famiglie.
Per il resto l'analisi della casistica fornita dal centro d'aiuto conferma i dati di Osservatori e rilevazioni nazionali. Il 96% per cento dei casi di maltrattamento fisico e psicologico avviene in famiglia. Anzi, il 50% dei casi di maltrattamento minorile (comprese percosse, malnutrizione, degrado) si verifica nel nucleo d'origine e solo il 20% dei casi riguarda famiglie separate. Quanto agli abusi sessuali la percentuale a carico di estranei è del 19%. Ma le violenze restano un delitto tipico della famiglia d'origine nell'81% dei casi.
L'illustrazione di tali statistiche, presente anche il procuratore Simonetta Matone e il professor Luigi Cancrini (il centro d'aiuto comunale è diretto dalla consorte: la dottoressa Francesca Cancrini) stupisce il pubblico che, forse ipnotizzato da recenti battage mediatici (Rignano Flaminio) trasale al pensiero di padri-padroni e madri matrigne che abusano dei propri figli. Eppure il dramma, dicono gli addetti ai lavori, viene dall'interno. Come testimoniano anche i dati sulle fonti che segnalano il disagio dei bambini. Nel 13% dei casi la denuncia viene dalla scuola, nel 10% dai servizi sociali, nell'11% dall'altro genitore ma c'è anche un 8,36 % di casi in cui è la stessa madre -padre del bambino (che abusa o maltratta) a denunciare e denunciarsi. Ad ogni modo non sarà lui a pagare il prezzo più alto.

Corriere della Sera Roma 20.11.07
Qianlong. I trecento capolavori usciti dalla Città Proibita
di Lauretta Colonnelli


Due anni fa in Cina gli hanno dedicato addirittura una serie televisiva intitolata «Artista di Palazzo» e interpretata dall'attore canadese Mark Rowswell. In Italia pochi sanno chi è Giuseppe Castiglione, l'uomo su cui i cinesi hanno imperniato la storia dello sceneggiato. Ora nella mostra che racconta la vita di corte e il fasto della Cina sotto il regno dell'imperatore Qianlong (1711-1799), si può vedere anche qualche opera di Castiglione, come il grandioso ritratto a cavallo dell'imperatore, realizzato con inchiostro e colore sopra un rotolo di seta, come da tradizione cinese, ma con l'uso della prospettiva e dell'anatomia umana, come insegnava la pittura europea.
Un sincretismo che costò a Castiglione una gran fatica, ma che alla fine gli valse onori riservati dalla corte a pochi eletti. Nato a Milano nel 1688, aveva studiato pittura con Carlo Cornara della famosa bottega degli stampatori, poi prese i voti e arrivò in Cina nel 1715 come missionario, assumendo il nome cinese di Lang Shining.
Apprezzato per il suo talento di pittore, divenne artista di corte e progettò i palazzi in stile occidentale all'interno dei giardini del vecchio palazzo estivo dell'imperatore Qianlong, che alla morte, nel 1766, compose personalmente l'epitaffio da far incidere sulla tomba.
Le opere di Castiglione arrivano dal museo del Palazzo Imperiale di Pechino, insieme con oltre trecento capolavori mai visti prima in Italia, che offrono una suggestiva panoramica sul regno della «Grandiosità cosmica», considerato l'apogeo politico e culturale dell'ultima dinastia regnante sul Paese di Mezzo (16441911). La stirpe dell'imperatore Qianlong dall'originaria Manciuria aveva conquistato la Cina nel 1644. Occupando Pechino e assumendo il nome dinastico di Qing «purezza», si era insediata nella celebre Città Proibita edificata dai Ming nel XV secolo. Con le campagne militari di Qianlong l'impero si estese a tal punto da superare perfino i confini territoriali dell'attuale Repubblica popolare. E anche la Città Proibita divenne la più ampia reggia della terra, con i suoi novemila tra saloni e stanze.
Un'epoca che si può rivivere in parte seguendo l'itinerario della mostra, dove si incontrano opere che rappresentano riti, cerimonie, ritratti ma anche scene di vita privata e che rimandano l'eco di una avvincente realtà storica e filosofico religiosa. Si possomo ammirare dipinti di dimensioni imponenti, lunghi fino a venti metri, come i «Tributari dell'impero Qing» o la «Parata delle otto missioni mancesi».
E accanto ai dipinti, che ieri hanno affascinato anche il ministro Rutelli e il presidente di Confindustria Montezemolo, sono esposti armi, armature e utensili appartenuti all'imperatore, oltre a ceramiche, abiti di corte, interi servizi in cloisonné, sigilli imperiali, una collezione di orologi da tavolo, giade e monili, oggetti e paramenti di culto: pezzi che in molti casi non hanno mai oltrepassato il confine cinese. Tra gli oggetti legati alla personalità di Qianlong ci sono il tavolo con arredi per la celebrazione del suo ottantesimo compleanno e il grande trono dorato.

Capolavori dalla Città Proibita. Qianlong e la sua Corte. Museo del Corso, via del Corso 320, tel.06.661345. Dal 20 novembre al 20 marzo

l’Unità Firenze 20.11.07
A Firenze. Marco Bellocchio è al Festival dei Popoli
di Edoardo Semmola


(...) a fare la parte del leone questa settimana resta il Festival dei Popoli, che con le sue 5 sale in contemporanea nella sua quinta giornata continua a proporre appuntamenti di grande interesse: il regista Marco Bellocchio sarà all’Istituto Stensen. Si parte alle 16.30 con la tavola rotonda Un decennio di passioni – Femminismo e si prosegue con Il popolo calabrese ha rialzato la testa, dello stesso Bellocchio. Alle 21 c’è l’incontro con il registe e infine, alle 22.30, verrà proiettato un altro film di Bellocchio: Nel nome del padre: anno scolastico 1958-59, ambientato in un collegio religioso. (...)

Repubblica Firenze 20.11.07
Festival dei popoli. Bellocchio allo Stensen
Il regista e la suoa opera di propaganda "rossa"
di Paolo Russo


IL documentario politico non è certo una novità (Pudovkin, Riefensthal, Ford etc.). La novità, nei dintorni del ´68, fu semmai la committenza: non più solo regimi o potentati ma voci antagoniste dal basso della società. Fra controinformazione, rivendicazioni identitarie e propaganda il cinema debuttò in un ruolo rilevante che sarà nel tempo prolifico. Se ne appropriano, senza grosse cognizioni tecnico-estetiche ma con urgenza bruciante, gruppi (il Movimento Studentesco di Capanna), collettivi (quelli femministi, l´Unione donne italiane) e individualità. Su queste fonti scritte in diretta fra scontri di piazza, assemblee e occupazioni - e sulla memoria che rappresentano per chi non c´era e per chi quella storia la studia - il Festival dei Popoli ha aperto un´ampia sezione che oggi (dalle 9,30) allo Stensen culmina in una galleria di documenti brevi e brevissimi, sia dell´epoca che nati in archivio, e due tavole rotonde con storici, scrittori e registi (10,30 e 16,30). Il clou (18,30) è una rarità di Marco Bellocchio: Il popolo calabrese ha rialzato la testa, girato a Paola in Calabria nel ´69, quattro anni dopo lo sconvolgente esordio de I pugni in tasca. «Dall´autunno del ‘68 all´estate del ‘69 - racconta il regista, che alle 21 dialoga con Peppino Ortoleva, un´autorità sui rapporti storia-media, e lo storico del cinema Sandro Bernardi, prima di Nel nome del padre (22,30) - lasciai la regia per militare a tempo pieno nell´Unione dei marxisti-leninisti, attiva in nome di un radicalismo legalitario ma altrettanto anti istituzionale e anti revisionista che aveva nel Pci il suo nemico numero uno. In Calabria era una presenza politica importante fra diseredati e contadini: mi fu chiesto un film di propaganda che diffondesse i principi del maoismo in una situazione prerivoluzionaria come quella. Il testo fu scritto dalla dirigenza. Partii per la Calabria, dove non ero mai stato, con fonico e operatore e girai».

Aprile on line 16.11.07
Enrico Geraci. Il 'Signor Nessuno' ancora alla guida dell'Iss
di Carlo Patrignani


Enrico Garaci confermato per la terza volta alla presidenza dell'Istituto Superiore di Sanità. Una decisione che suscita polemiche e approda sulle pagine di Nature: il presidente, scrive la prestigiosa rivista, dovrebbe essere scelto sulla base di una rosa di candidati proposti dalla comunità scientifica, non con una scelta politica e unilaterale

Ce l'ha fatta ancora, e per la terza volta consecutiva: il ministro della Salute, Livia Turco ha disposto - per il suo "curriculum di certa significatività, sia per gli aspetti scientifici che per quelli connessi alla capacità di gestire e promuovere l'innovazione" - la nomina di Enrico Garaci alla guida dell'Istituto Superiore di Sanità, e il Consiglio dei Ministri l'ha approvata. "La sua - parola di Ministro - è stata una gestione efficiente, apprezzata dalla comunità scientifica e all'interno dell'Istituto ed in particolare da parte di tutti i capi dipartimento".
Se ciò è vero per un gruppo di ricercatori, direttori di Dipartimento e di Centro dell'Istituto che hanno chiesto per iscritto al ministro la riconferma del ‘Signor Nessuno', come lo definì Gianpaolo Pansa nel 1989, non altrettanto si può dire per la Comunità Scientifica, a cominciare da tre tra i maggiori ricercatori italiani di fama internazionale (Elena Cattaneo, Paolo Bianco e Ranieri Cancedda), ma anche da forze politiche che in commissione Sanità del Senato hanno espresso parere negativo alla riconferma di Garaci.
"Avevo sperato in una riflessione del Ministro dopo il voto contrario della Commissione Sanità del Senato, ma non c'è stata e francamente non comprendo a quali motivazioni la Turco si è ispirata: è stato, per me, un errore", dice il senatore di Sd, Nuccio Iovene, membro della commissione Sanità del Senato.
"Decisione incomprensibile: invece di dare un segno di discontinuità dai precedenti governi in fatto di laicità, ecco per un altro triennio il professor Garaci di ‘Scienza e Vita', ovviamente", nota Donatella Poretti della Rnp, che ha predisposto l'ennesima interrogazione alla Turco sulla gestione dell'Iss. Ed i ricercatori che si erano rivolti al Ministro per una maggiore attenzione al livello di arretratezza culturale e scientifica in cui il Paese è sprofondato? "Ha molta più considerazione per la scienza e per la tecnologia la Confindustria che non il Governo: ho partecipato oggi ad un bellissimo convegno della Confindustria su giovani, scienza e tecnologia, dove sono stati invitati gli scienziati ai quali è stata data la parola e sono stati ascoltati: lo stesso non si può dire del Governo", precisa Elena Cattaneo, brillante ricercatrice e studiosa delle malattie neurodegenerative.
Dunque, Garaci resta per altri tre anni in sella all'Iss dove è arrivato nel 2001 nominato da Giuliano Amato, confermato nel 2004 da Berlusconi e riconfermato da Prodi nel 2007, come era nei desiderata di ricercatori, direttori di Dipartimento e di Centro dell'Istituto, nella lettera al Ministro della Salute, "in relazione all'editoriale" della prestigiosa e qualificatissima rivista internazionale Nature.
"Durante il periodo di presidenza Garaci, l'Istituto ha raggiunto risultati di grande rilievo - scrivono i ricercatori dell'Iss - per quanto riguarda ricerche pubblicate sulle riviste più prestigiose, per ciò che concerne le importanti attività di sorveglianza, coordinamento ed intervento sanitario". Pertanto, "la conferma del Presidente" è "importante per il nostro Istituto che ha bisogno di stabilità, continuità per continuare a svolgere con competenza ed impegno i delicati compiti di ricerca, sperimentazione, formazione". A costoro si sono aggiunti i sindacati di base, le Rdb, che valutano positivamente la gestione del personale da parte di Garaci sia per dipendenti a tempo indeterminato che per i precari: merito di Garaci, poi, l'assunzione di 180 precari delle 800 concordate nelle Pubblica Amministrazione ed approvate dal Consiglio dei Ministri.
Di ben altri toni l'editoriale, "una ricetta per cambiare", di Nature, secondo cui la Turco "è stata spinta da interessi di ordine politico a nominare Garaci presidente dell'Iss, un importante istituto di ricerca finanziato con fondi pubblici". Dove 1500 scienziati lavorano per l'allestimento di vaccini e in aree nuove come quelle delle cellule staminali e la genomica: il suo budget è di 100 milioni di euro l'anno ma è assorbito principalmente dagli stipendi. Per Nature la nomina di Garaci, "è vista da molti come problematica" perché lo stesso "non avrebbe abbracciato pienamente l'unico metodo da usare nella ricerca considerato scientificamente trasparente e competitivo e che la ricerca italiana dovrebbe adottare, il peer review". Come hanno richiesto i tre ricercatori, dato che in ballo ci sono 3 milioni di euro destinati alla ricerca sulle malattie rare e sulle cellule staminali.
"La presidenza di Garaci tutto è stata meno che trasparente: a sei anni di distanza - rileva la Poretti - ancora non è chiaro che fine hanno fatto i 7,5 milioni di euro alla ricerca con le cellule staminali adulte e il modo in cui sono stati assegnati i finanziamenti: la spartizione di denaro pubblico avvenne grazie a un regolamento che prevedeva che chi chiedeva i finanziamenti era anche chi decideva a chi destinarli ed una volta venuta alla luce la vicenda ad opera di ricercatori finanziati da quel bando, per tutta risposta dal sito Internet dell'Iss venne cancellato qualsiasi riferimento". Poi, il 13 novembre "Garaci ha spiegato che gli altri bandi sono stati assegnati ma attendiamo che arrivino i finanziamenti stanziati dalle precedenti finanziarie: risposta incredibile - conclude la Poretti - se si pensa che alle interrogazioni mi e' stato sempre risposto che i finanziamenti sono stati chiusi per esaurimento dei fondi".
Tutto bene, quel che finisce bene? "Che dire ancora - conclude Iovene - se non che per il futuro si provveda con un metodo nuovo, con un bando pubblico, con più curricula e non con proposte secche: prendere o lasciare". E, soprattutto, non con pistole puntate alla tempia.

La Stampa 20.11.07
«Il lungo intrigo» sessant’anni di misteri d’Italia
E Scelba ordinò: lasciate stare il Pci
Usare le prove del finanziamento sovietico significava metterlo fuori legge: con il rischio di una guerra civile
di Alfio Caruso


Queste sono le foto e questi sono i nastri». La figura minuta, imbacuccata dentro cappotto, sciarpa, cappello, depositò sulla scrivania le due buste.
Stravaccato nella poltrona il direttore conservò un'espressione ironica. Era occorso tutto il suo intuito di napoletano colto e snob per cogliere la capacità mimetica del professorino piombato a Roma dieci anni prima in fuga dai partigiani. Insegnante di lettere alla luce del giorno, responsabile della «squadretta» quando le ombre della sera avvolgevano le strade e i palazzi.
«Professore, roba che scotta?».
«Non capisco perché ce la siamo dovuta sciroppare noi e non gli americani. Sono buoni solo a comandare?». Al direttore venne da sorridere: il vecchio livore contro i cow boy tornava sempre a galla.
Le foto raccontavano di due uomini con due valigie a testa scesi da un'auto e infilatisi nel portone di un imponente palazzo. «Allora, vediamo la sua preziosa mercanzia...».
«Nelle valigie ci sono i dollari», precisò il professore con un moto di stizza, alzò la tesa del cappello e sciolse il nodo della sciarpa. «Che al cambio facciano due miliardi lo dicono quelli dell'appartamento. Lo può ascoltare anche lei nei nastri».
«Esclude che possano aver preparato una trappola per quelli troppo curiosi, tipo lei?».
«Le valigie hanno viaggiato da Mosca con il bagaglio diplomatico. Le abbiamo seguite fino all'ambasciata e dall'ambasciata alla casa sicura in via Ripetta. Lì sono arrivati gli uomini di Secchia a prelevarle».
«Mai avevano spedito due miliardi…».
«Avranno voluto coprire i 500 milioni portati via l'estate scorsa dal segretario di Secchia, Seniga, assieme ai documenti».
«Può essere, può essere…» il direttore assaporò le parole in bocca alla stregua di uno dei suoi vini d'annata. «Quanto tempo abbiamo per intervenire?».
«Fino a un'ora addietro i soldi erano a Monteverde».
Il direttore annuì. «Professore, continui a tenere sotto osservazione l'appartamento e le valigie. Le farò sapere».
Due ore dopo il direttore attendeva in un salottino del ministero della Difesa. Le due buste erano posate su un basso e lungo tavolo liberty dai doppi vetri, impreziosito dai piedi d'argento. All'ingresso dell'ospite il direttore scattò in piedi con i tempi dettati dalla sua pinguedine. «È il materiale di cui mi ha parlato?».
«Esattamente. Dentro troverà le foto, l'identità degli uomini ritratti, l'ora del trasbordo, i nastri e le relative trascrizioni».
«Dobbiamo conoscere qualche altro particolare? Il ministro sta per informarne il presidente del Consiglio…».
«A che cosa si riferisce?».
«A queste», il funzionario picchettò nervosamente con la mano destra sulle due buste. «Non vi saranno piovute dal cielo. È opera dei suoi amici della Cia?».
«Nossignori. È tutta farina del nostro sacco. Quando il ministro lo riterrà opportuno informeremo l'ambasciata statunitense».
All'una del giorno seguente il direttore scorse il professore salire lentamente le scale di Trinità dei Monti. Malgrado il tepore primaverile era sempre avvolto in sciarpa, cappotto e cappello. Sotto entrambe le braccia portava registri e libri.
«Ci tiene a far sapere di essere un insegnante? Teme che possa essere scambiato per una spia?».
Il professore replicò con una smorfia di sopportazione. «La vecchia borsa ha reso l'anima a Dio e per i motivi a lei noti non ho ancora avuto il tempo di acquistarne un'altra».
«Adesso avrà tutto il tempo che desidera».
«Ci pensate voi?».
«Non ci pensa nessuno».
«Che cosa significa?».
«Che il capo del governo ha deciso d'ignorare il nostro lavoro».
«Per quale benedettissimo motivo? Non dice a ogni intervista di voler regolare i conti con i rossi? Vatti a fidare di questi segaioli di sagrestia».
«Mi è stato detto che quando Taviani gli ha messo sotto il naso la produzione della sua squadretta dapprima è impallidito, poi ha mormorato che non poteva essere impiegata».
«Anche Scelba se la fa sotto di fronte ai comunisti?».
«Del siciliano tutto si può dire, tranne che abbia paura. Dal 1950 ci martella sulla struttura militare segreta del Pci, sul suo coinvolgimento nei delitti della Volante Rossa e del triangolo della morte in Emilia, sui rifugi offerti a molti assassini in Cecoslovacchia. Escludo che lo muova la paura».
«Ne è sicuro?».
«L'uomo è orgoglioso. Ed è anche più permaloso di una scimmia. Ne sa qualcosa la signora Luce, l'ambasciatrice americana. Non la sopporta innanzi tutto perché è donna, poi perché la ritiene troppo amica di Pacciardi, che lui vede come un nemico. Mi hanno raccontato che dinanzi alle insistenze della Luce per usare il pugno di ferro contro i comunisti le abbia risposto a brutto muso: cara signora noi siamo una democrazia, non una repubblica delle banane; certe porcherie fatele chiedere dai fratelli Dulles ai Paesi sudamericani, non a noi».
«E questo sarebbe l'anticomunista?».
«Si fidi, caro professore. Non solo è il meglio che abbiamo contro il comunismo, ma è anche uno dei pochi che non teme di affrontarli a viso aperto».
«Allora perché non sfrutta le prove che gli abbiamo fornito?».
«Ritiene che rendere pubbliche quelle prove obbligherebbe a mettere fuori legge il partito comunista e la conseguenza finale sarebbe la guerra civile».
«Con quali armi? Non ne hanno più». Il professore poggiò sul muretto libri e registi, dalla tasca interna del cappotto estrasse un foglietto. «Ecco i numeri delle armi sequestrate ai comunisti fino all'anno scorso: 173 cannoni, 719 mortai, 35 mila fucili mitragliatori, 37 mila pistole, 25 mila bombe a mano, 309 radio trasmittenti».
Si intitola Il lungo intrigo, sottotitolo Dal 1943 a oggi: per una storia segreta dell’Italia, il nuovo libro di Alfio Caruso in uscita da Longanesi (pp. 353, e16,60). Nato da una serie di articoli pubblicati sulla Stampa, racconta in forma sceneggiata i grandi misteri degli ultimi 60 anni, dalla prima strage politica (Gela 1946) al delitto Pasolini, dal caso Mattei all’uccisione di Dalla Chiesa, dal rapimento Moro alla morte di papa Luciani. Pubblichiamo uno stralcio del capitolo «Due miliardi al Pci», in cui si ricostruisce una vicenda relativa al finanziamento del partito comunista da parte dell’Urss, nel 1955, attraverso il dialogo immaginario tra il direttore di un apparato istituzionale e un professore che lavora per una struttura segreta al suo servizio.