giovedì 22 novembre 2007

l’Unità 22.11.07
Rifondazione e governo distanti sul protocollo
Accordo in alto mare, mentre Letta avverte:
margini stretti per le modifiche al provvedimento
di Bianca Di Giovanni


INTESA DIFFICILE Accordo ancora lontano sul protocollo sul Welfare. Dopo che Rifondazione ha strappato l’ok della Commissione al primo articolo, con una norma più elastica sui lavori usuranti, il governo ha gelato la commissione. «Non posso assicurare che quello che state facendo risponda agli impegni presi con le parti sociali, né che abbia il sostegno della maggioranza in Senato». Così Enrico Letta ha aperto la riunione della serata, quella convocata per sciogliere gli ultimi nodi e subito «sconvocata». Le parole del sottosegretario sono cadute come pietre: i margini sono stretti, e i tempi pure. Il governo spinge perché oggi il provvedimento esca dalla commissione, per arrivare in Aula lunedì. Se così non fosse, salterebbe tutto il calendario. E già c’è chi pensa alla fiducia. In questo caso «vorrà dire che faremo come Dini - dicono da Rifondazione - voteremo la fiducia per responsabilità ma un minuto dopo diremo che non c’è più la maggioranza». Come dire: con il welfare arrivano anche le maggioranze variabili.
Passano le ore, e l’intesa non si «acciuffa». Anzi, Rifondazione continua ad alzare il tiro e si smarca da tutti: parti sociali e alleati di maggioranza. Scendono in campo il segretario Franco Giordano, il ministro Paolo Ferrero, il responsabile Lavoro Maurizio Zipponi. In Transatlantico qualcuno commenta: «È il partito di Cremaschi che vuol farsi sentire. Soprattutto dopo il terremoto innescato da Berlusconi e dopo l’intervista di Fausto Bertinotti sulle larghe intese». Insomma, c’è molta politica nello stallo innescato in Parlamento. Ma non solo quella.
In giornata la commissione aveva detto sì all’articolo 1, quello su scalone e lavori usuranti. L’ emendamento approvato, presentato dal presidente Gianni Pagliarini, di fatto concede maggiore spazio alla commissione istituita al ministero di Lavoro con le parti sociali per la definizione della platea dei lavori usuranti (salta il riferimento normativo che individua in 80 notti il tetto per poter parlare di lavoro notturno). Via libera anche ad una proposta di modifica che estende i benefici previsti nel provvedimento per i lavoratori in mobilità del Sud ai lavoratori in mobilità di tutta Italia. Eliminato lo «scalone» della Maroni. Insomma, vengono recepite le richieste di Rifondazione.
Ma proprio mentre il partito di Giordano si preparava ad incassare altri due risultati sui contratti a termine (il diritto di precedenza per chi ha già lavorato 36 mesi per un ipotetico nuovo contratto, e l’inserimento nei 36 mesi anche dei periodi degli interinali), scendono in campo i sindacati. Guglielmo Epifani chiede esplicitamente che il parlamento non stravolga quello che le parti hanno concordato. Gli fa eco anche Foccillo della Uil.
Il fatto è che al sindacato non va giù l’intesa sugli usuranti per delega: fino a ieri il governo aveva assicurato che ci sarebbe stata una norma chiara sul computo dei lavoratori coinvolti. E non solo: le ipotetiche concessioni sui contratti a termine avrebbero potuto riaprire la strada al «lavoro a chiamata», un tipo di contratto eliminato dal Protocollo ma che una parte della maggioranza chiede di reintrodurre. Insomma, per trovare la quadra si potrebbe arretrare su altri punti. Rifondazione replica stizzita: non è la sinistra a fare accordi con Confindustria. La quale, naturalmente, fa presisng perché si modifichi il meno possibile su tutto. Zipponi e Giordano denunciano pressioni forti di Viale dell’Astronomia. Così tutto torna in salita, con buona pace di chi sperava in un accordo vicino.
Mentre scriviamo la Commissione riprende a votare. Passa l’emendamento che prevede per quanto riguarda i contratti a termine, la possibilità di sommare i tempi dei diversi contratti per arrivare a 36 mesi indipendentemente dal tempo che intercorre tra un contratto ed un altro. Il testo originario prevedeva invece 36 mesi continuativi. Sì anche alla proposta di pagliarini sulla deroga all’assunzione dopo i 36 mesi: il contratto a termine non potrà superare gli 8 mesi. Poi scatta l’assunzione.

l’Unità 22.11.07
Quei ragionieri della politica
di Mario Tronti


«A chiare lettere» - il libro di Goffredo Bettini di cui si è già parlato qui - è un bel titolo: allusivo, evocativo, un tantino autoironico. Questo carteggio con Ingrao risulta per Bettini un passaggio fondamentale della sua vita. Lo prende, lo riprende, lo rumina, lo riassapora sui tempi lunghi. Se l’articolo, da cui prende le mosse il carteggio è del gennaio 1992 e la prima lettera di Ingrao viene subito dopo, la risposta di Bettini è del marzo 2005 e il seguito del dialogo avviene nell’ottobre del 2007.
Bettini è uomo di sintesi. A un certo punto elenca i suoi maestri di politica: Berlinguer, Chiaromonte, Bufalini, Ingrao. Chi ha frequentato quegli ambienti, sa che non erano precisamente la stessa cosa. Ma questo mostra anche che ci troviamo di fronte a un politico di buona scuola. Quando sarà passata - perché dovrà pur passare - questa caccia alle streghe anticomunista, che a volte ci fa arrabbiare, il più delle volte ci fa sorridere per la sua ridicola improbabilità, allora forse si riscoprirà quella grande scuola, politica e umana, che fu il Pci. Quella presenza, radicata nel Paese ha, tra l’altro, costruito, quello che un partito serio, vero, deve costruire, classe dirigente, e classe dirigente in accordo, in sintonia, in reciproca fiducia con il proprio popolo. E qui interviene anche il Beruf weberiano, la politica come professione e vocazione. (...)
Bettini parla di “buona politica” e la definisce spesso come politica “sobria”. È di questo che voglio adesso parlare, perché «A chiare lettere» ci stimola a farlo.
Uno dei compiti della politica, oggi, è, secondo me, ordinare la dismisura tra il fatto e la rappresentazione mediatica del fatto. Perché qui è tutto fuori misura. Il consumo di massa dell’informazione arriva a stravolgere il senso della notizia. Si ingigantiscono i piccoli fatti inessenziali, si rimpiccioliscono quelli grandi che contano. L’eccezionalità dei fatti è spesso inventata. Perché la verità politica è che noi non viviamo uno stato d’eccezione, ma uno stato normale. Nel libro ritorna spesso questa eloquente espressione: “bonaccia politica”. Sì, perché questo è un tempo politicamente povero. Non è che i grandi contrasti non ci siano, è che vengono occultati dalle piccole emergenze che siamo costretti quotidianamente a inseguire. Compito della politica, allora, è un disvelamento della realtà: un rischiaramento di ciò che è in ombra, che faccia emergere i problemi veri.
Bettini dice del Novecento: c’era la grande politica, ma era una politica terribile. Bene, questo non è un problema, questo è il problema, che il Novecento ci ha lasciato. Come fare grande politica senza quella caduta nel tragico che maledettamente essa si porta dietro. Perché la risposta giusta non è quella che ha dato questo, non a caso, mediocre post-Novecento: siccome la grande politica ha questi esiti terribili, allora conviene limitarsi alla piccola politica. Ma la piccola politica è esattamente la crisi della politica. È questo tran tran quotidiano, con tutte le “passioni spente”. Guardate la condizione di quello che è il punto più alto dell’agire politico, il livello di governo, il luogo della direzione dei processi, della decisione politica. I governi non saranno più - come diceva Marx - comitati d’affari della borghesia. Ma solo perché sono diventati consigli d’amministrazione dell’azienda-paese. È molto labile ormai la differenza, di funzione, tra un capo di governo e un amministratore di condominio: soprattutto quando c'è da tenere insieme una coalizione. Tutto il giorno a fare i conti: quanto le entrate quanto le spese, quanto si accumula quanto si investe. Questo calculemus è la fine della politica. E l’Europa. Altro che potenza politica tra potenze politiche, oggi emergenti nel mondo. È in mano a ragionieri controllori dei conti: tu devi rientrare dal debito, tu sei uscito dai parametri.
Badate, non sto dicendo che la politica deve dare risposte di senso. Non è questa la sua funzione. Per questo ci sono le filosofie, ci sono le religioni, ora anche le scienze più avvertite, soprattutto quelle della psiche. Poi c’è l’etica. Etica e politica devono raccordarsi, ma in quanto due sfere autonome, come ci ha insegnato il pensiero moderno, da cui non è il caso di tornare indietro. C’è un punto di riflessione che ci riguarda tutti. Finché c’è stata dicotomia sociale, lotta di classe tra due forti aggregazioni, i sistemi politici erano sistemi di mediazione politica. Quando quella dicotomia sociale è caduta, siamo precipitati in un falso bipolarismo politico, dove il capitalismo come società divisa, su conflitti fondamentali, non si riconosce più, è nascosta da veli ideologici, come mai in passato.
Ora, io dico: assumendo pure la realtà dei poli contrapposti, vogliamo tornare a fare in modo che si confrontino sulle questioni essenziali?
Ne elenco alcune. Su progetti di società, cioè su modi diversi di convivenza umana, con una umanità in vorticoso movimento. Sull’idea non dell’interesse generale, perché l’interesse generale non esiste, esistono interessi parziali, che però devono ritrovarsi, anche per confliggere, dentro un comune spazio pubblico. E allora che cosa intendiamo per interesse pubblico? Come il bourgeois diventa citoyen? Immediatamente, trasferendo il suo interesse privato nella rappresentanza politica, o attraverso la mediazione delle forme della politica? Perché la politica è forma: è istituzioni e organizzazioni. Come si seleziona classe politica? Ci avevano insegnato che questo avveniva nei parlamenti e nei partiti. Ora, nel senso comune di massa, i parlamenti sono deleggitimati, i partiti vanno distrutti. Poi ci si lamenta che il livello attuale di ceto politico non è proprio quello che ci vorrebbe. E infine: nell'epoca della globalizzazione economica e finanziaria, che idea politica di mondo abbiamo, da mettere in campo su poli contrapposti?
Goffredo Bettini lascia il Senato, per dedicarsi all’impresa di costruzione del Partito democratico. Io gli auguro buon lavoro, con la raccomandazione di adoperarsi perché quello strumento si metta in grado di salire all’altezza di questi problemi.
Su questo, un’ultima considerazione. Di fondo. Bettini si è collocato, non da oggi, nel campo degli innovatori. E qui c’è, appunto, il nodo fondamentale - critico e strategico - dell’innovazione, sul terreno della politica, che non è la stessa cosa che l’innovazione sul campo delle tecnologia, o dell’economia. Politicamente, c’è un’innovazione “contro” la tradizione e c’è un’innovazione “sulla” tradizione. La prima è propria di una forza semplicemente politica, la seconda è propria di una forza politica che abbia l’ambizione di essere, o di diventare, una forza storica. Bisogna scegliere, decidere. La mia idea è che, in politica, non ci sono “nuovi inizi”. E quando ci sono, sono in perdita. Questo è stato empiricamente dimostrato, in anni recenti, in grande e in piccolo, con il crollo di sistemi e con il cambio di nomi. È la cosa più facile tirare una riga e dire: da oggi comincia una storia nuova. Oppure: io sono l’assolutamente nuovo. Chi dice così, dura lo spazio di un mattino. È con la lunga durata che devi cimentarti, con la potenza dell’eterno ritorno del sempre eguale. La grande politica è questo. La politica è una lotta del presente col passato, che non devi cancellare, che devi trasformare. Cambiare il proprio passato, mentre te lo porti dietro. La memoria storica è indispensabile alla politica.
Io leggo così il bisogno di Goffredo Bettini di dialogare con Pietro Ingrao. Da una parte una memoria vivente, dall’altra una politica dirigente. Qui, in questo luogo quasi sacro, può starci, nascosto, il tesoro della “buona causa”.
Il testo è tratto dall’intervento tenuto da Mario Tronti il 12 novembre durante la presentazione del libro di Goffredo Bettini al teatro Argentina di Roma

Repubblica 22.11.07
Dopo le rivelazioni di "Repubblica" sul patto segreto per favorire Berlusconi. Palazzo Chigi: è urgente fare chiarezza
Rai-Mediaset, è bufera
Inchiesta interna, giornalisti in rivolta.

Repubblica 22.11.07
Confalonieri: "Vogliono fermare Silvio e Walter"
di Dari Cresto-Dina


Mi sembra di essere tornato ai tempi della P2 C´è una strategia per affondare il nuovo progetto politico del Cavaliere

ROMA - Presidente Fedele Confalonieri, le intercettazioni dell´inchiesta Hdc dimostrano che la Rai era una succursale di Mediaset. E che al centro del "palinsesto unico" stava il bene di Silvio Berlusconi. So già che lei mi dirà che non sapeva nulla. Non è così?
«Le potrei dire che è una tempesta in un bicchier d´acqua, ma in realtà credo ci sia di più. C´è qualcuno che manovra per farci tornare ai tempi della P2. Quelle carte non sono uscite per caso. E, per di più, in questo momento».
Sono documenti a disposizione di molti avvocati. Carte frutto di un lavoro giornalistico. Niente di misterioso, nulla di preordinato.
«E allora sono stupidaggini. Vada a vedere chi si parla in quelle intercettazioni. Mica sono i vertici delle aziende. Sono giornalisti. Sono manager, ma non del top management, che si confrontano per non buttare via soldi. Come se i direttori dei vostri giornali non si sentissero ogni giorno. E non mi faccia ridere dicendomi il contrario».
Invece le confermo proprio il contrario. E le aggiungo un particolare che forse le sfugge. Qui siamo di fronte a un "inciucio" tra una azienda privata, Mediaset, e una pubblica, la Rai, che invece di farsi concorrenza avevano messo in piedi un "cartello" per favorire sul piano politico il leader della Casa delle libertà nonché il padrone di una delle due televisioni.
«Guardi che noi con la Rai ci scanniamo su tutto. La storia del cartello è una fesseria, noi di Mediaset abbiamo mai impedito la concorrenza. Le faccio soltanto l´esempio di Bonolis. La Rai ce lo portò via dandogli un sacco di soldi e noi lo abbiamo ripreso facendo uno sforzo economico altrettanto importante. Altro che collusione. La verità è che in questo paese la stagione di "Mani pulite" non finisce mai. Le carte escono dalle procure perché qualcuno ha interesse che ciò avvenga. E i giornali fanno da cassa di risonanza. La pubblicazione di quelle intercettazioni, inoltre, è illegittima».
Su questo punto la correggo. Le carte Hdc sono state depositate a inchiesta chiusa, sono pubbliche e a disposizione delle parti. Chi avrebbe interesse a utilizzarle come arma politica?
«Coloro che non vogliono la modernizzazione di questo paese, che coltivano spirito di bottega e hanno la convenienza che l´Italia rimanga nel casino. Su, non facciamoci prendere in giro. Ci sono strategie e obiettivi precisi».
Quali?
«Colpire ancora una volta il Berlusconi imprenditore sulla "roba", cioè le sue aziende, dando una accelerata alla legge Gentiloni sulla riforma televisiva che ormai avevano capito tutti che era come un "dead man walking" per essere pregiudizialmente e inutilmente avversa al Cavaliere. E colpire il Berlusconi politico, bloccando un´iniziativa importante che potrebbe verificarsi».
Il nuovo partito di Berlusconi, il dialogo con il Pd di Veltroni e sulle riforme?
«Esatto. Quello del Cavaliere è stato un colpo di genio, non di teatro. Ed è una cosa seria. La strada sulla quale si è messo è lunga, ma credo si possa percorrere. Ma nello stesso tempo è partita l´offensiva per cercare di fermarlo».
Piace anche a lei la prospettiva di un governo di grande coalizione?
«Le definizioni politiche non sono importanti, e poi non me ne intendo neppure granchè. La verità è che non credo più al bipolarismo. Se a governare l´Italia non riescono né il centrodestra né il centrosinistra è necessario trovare un quadro politico nuovo che garantisca la stabilità e lo sviluppo. Ha visto che cosa sta succedendo in Francia? Sarkozy da quasi dieci giorni riesce a tenere testa alle proteste e agli scioperi. Non oso immaginare che cosa sarebbe accaduto al governo Prodi o anche al governo Berlusconi...La nostra unica possibilità è mettere insieme le forze che la pensano nello stesso modo su quattro o cinque punti fondamentali per la modernizzazione del paese e che raccolgano complessivamente il 60-70 per cento dei consensi».
E come definirebbe questa formula politica: il grande centro, il ritorno di una grande Dc, un governo dei moderati?
«Niente di tutto questo. E poi, scusi, ai tempi della Dc i comunisti non potevano mica andare al governo. È un progetto che può interessare a molta parte della sinistra, anche se non certamente a quella radicale, e a molta parte del centrodestra. Una strada in salita, senza dubbio, ma che può trovare nel nuovo partito di Berlusconi e nel Pd di Veltroni i protagonisti dietro ai quali si possono accodare gli attori della politica di buona volontà. Non credo, invece, all´ipotesi di un grande centro guidato da Montezemolo. Il problema è che il Cavaliere fa sul serio. Il problema è che cercheranno di stopparlo in tutti i modi. Mi creda, la guerra è appena agli inizi».

Repubblica 22.11.07
Parma, studiosi di neuroscienze
"Scritto nel cervello il senso della bellezza"


ROMA - Il senso del bello è "scritto" nel cervello: gli indizi delle basi biologiche dell´esperienza della bellezza sono emersi da uno studio italiano firmato dal papà dei neuroni dell´empatia (neuroni specchio), Giacomo Rizzolatti, che dirige il Dipartimento di Neuroscienze dell´Università di Parma e pubblicato sulla rivista PLoS ONE. I neurologi hanno scoperto che esistono due modi di percepire il bello: uno oggettivo, dettato da strutture intrinseche e biologiche che coinvolge nel cervello centri della corteccia e l´insula; uno soggettivo, condizionato da cultura, ambiente, mode, che sembra nascere invece dall´amigdala, il centro che si attiva su informazioni personali e stati emotivi legati all´esperienza individuale. Questo studio, ha spiegato Cinzia Di Dio tra gli autori, comincia a far breccia in un territorio, quello della neuroestetica, ancora praticamente inesplorato.

Repubblica 22.11.07
Due scrittori americani a confronto sul loro rapporto con Dio sulla letteratura, sulla storia e sulla morale laica


NEW YORK. Vi propongo una domanda da cui deriva tutto il resto: Dio come parla al vostro cuore? Che cosa vi dice? Lo capite?
Englander Mi sono sentito un po´ sul chi vive quando lei mi ha invitato a parlare di questo argomento. Penso che chiedermi se credo in Dio sia qualcosa che voglio tenere per me. Però è vero. In realtà tutti gli interrogativi derivano da questo. Penso che dal punto di vista sociale questa domanda è forzata.
Auster È una domanda importante per chi pensa che sia importante, ma ci sono molte persone per le quali non lo è. Io provo sensazioni alquanto miste in proposito. Anche per me è un argomento molto intimo e privato. Mi confonde un po´ l´idea di credere in Dio. Soprattutto se al tempo stesso si parla del fatto di sentirsi seguaci di una religione, di avere una fede religiosa. Per quanto ne so, si tratta di due cose completamente distinte. E poi, che cosa è Dio? Come possiamo definire Dio? Penso che una cosa sia certa: non l´abbiamo creato noi il mondo. Ed eccoci dunque davanti a una grande mistero: da dove è nata ogni cosa? Forse è questa la domanda principale che dovremmo porci. Ebbene, alcune persone rispondono con una sola parola: Dio. Per quanto mi riguarda non sono mai stato capace di credere in questa idea. Non riesco a immaginare che la forza - chiamatela come volete - che ha creato noi e l´universo sia umana. In tutti i testi giudeo-cristiani e persino islamici, Dio creò l´Uomo a sua immagine. Ecco, io non capisco che cosa significhi. Dio è inconoscibile, è qualcosa che va talmente al di là di ciò che è umano che è impossibile per me immaginare di poter dialogare con una forza simile.
Ma d´altra parte non pensate che ciò equivalga a dire quanto siamo meravigliosi? Siamo simili a Dio. E un modo per dire che siamo creature meravigliose.
Auster Sì, siamo creature meravigliose e penso sia un grande mistero essere parte dell´universo. Ma sono stati gli uomini ad avere questa idea. In termini teologici, per esempio, le persone che mi hanno sempre commosso sono coloro che dubitano. Mi riferisco a Pascal o a Kierkegaard, che non accettarono facilmente Dio, perché ebbero dubbi, capirono che la fede è proprio un atto di cecità: ti ci butti, non sai niente ma accetti le cose come stanno. I loro tormenti, le loro lotte con le loro stesse anime sono raccontati nei loro libri. Sono talmente umani e profondi. Non rispetto invece chiunque pensi di avere ragione, chiunque pensi di poter rispondere facilmente a queste domande perché nel momento in cui qualcuno dice di appartenere a una religione e sente di essere padrone della verità. Ed è proprio questo ad aver creato enormi devastazioni nella storia dell´umanità: la gente si è ammazzata per delle idee, la gente uccideva chi non credeva in ciò in cui credevano gli altri.
La religione è un vincolo (lo dice la parola latina) e o le si è legati o non lo si è.
Englander Io sono stato allevato nel rispetto della religione. Io credo che se si è stati allevati nella religione, è in quella direzione che le vostre sinapsi si accendono. Per cui sono pienamente d´accordo, non si tratta di prendere o lasciare. Ogni cosa è rigorosamente prescritta: «Quale calzino indossare per primo, quale scarpa calzare per prima, come si deve parlare, come si deve mangiare, come si deve dormire». Se si sceglie qualcosa non vuol dire che questo giustifichi tutto. Invece la religione organizzata giustifica qualsiasi cosa. I più grandi crimini della terra sono stati commessi nel nome della religione.
Auster Vorrei tornare un momento su una cosa ch e ha detto Nathan. E su una parola chiave: moralità. È possibile avere un codice morale senza credere in Dio. Mi ricordo il grande interrogativo di Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: «Se Dio non esiste allora tutto è permesso». Questa è la grande paura: è una paura legittima, comprensibile, ma non per quanto mi riguarda, perché io credo nel fatto che il genere umano possa crearsi una propria moralità senza alcuna legge trascendente: noi la inventiamo e noi ci adeguiamo ad essa. È l´approccio kantiano al mondo, l´imperativo categorico. Io credo che sia possibile. Le religioni organizzate? Credo ce ne siano per tutti i gusti, tutti i colori, tutte le forme, no? E ciascuna di esse soddisfa un bisogno differente. Io sono stato allevato da ebreo. Sono ebreo, il che non è la stessa cosa che essere un ebreo praticante. La differenza tra cristianesimo ed ebraismo direi che è questa. Il più importante insegnamento del cristianesimo è «Fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te», il che è come chiedere agli individui di diventare santi. È pressoché impossibile obbedirvi. Invece nell´ebraismo l´idea è negativa: «Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te», ed è molto, molto più facile da fare. Da una parte, dal lato dei cristiani, ogni cosa è centrata sull´individuo, mentre dal lato degli ebrei ogni cosa è incentrata sulla nostra comunità, sulla società, su come le persone vivono tra di loro e come cercano di lavorare sentendosi un gruppo. Poi, se osserviamo il buddismo, ci accorgiamo che un Dio non c´è, ma il buddismo è sicuramente considerata una religione, quindi più ne parlo, più ci rifletto sopra, più mi sento confuso.
Englander Mi chiedo sempre se la religione non possegga un modo per auto-correggersi, in modo da cavarsela sempre. Il mio esempio preferito, quello sul quale mi arrovello maggiormente e per il quale litigo con tanta gente, è la storia di Yigal Amir, l´assassino di Rabin. Hanno detto che ha agito al di fuori della religione. A lui invece un rabbino - so come è stato allevato, e io stesso avrei potuto essere al suo posto - gli ha detto che assassinare Rabin sarebbe stato un atto religioso, che doveva farlo per Dio. Ecco, questo rientrava nella sua educazione, era programmato per farlo.
Siete d´accordo sul fatto che non possiamo usare soltanto la logica per occuparci di questo mistero?
Auster Be´, i teologi di sicuro ci hanno provato per centinaia di anni. Se si leggono i testi dei più grandi pensatori della Chiesa Cattolica ci accorgiamo che hanno scritto di scienza, di scienza religiosa. Ma c´è sempre un momento in cui immagino che si arrivi al punto cruciale in cui ci si chiede: mi butto o non mi butto? Per alcune persone è qualcosa di talmente desiderabile, che dà conforto, fornisce loro un terreno sul quale camminare. Altri sono così persi, così confusi, così incapaci di stare al mondo senza una cosa simile. Come ha detto il grande poeta italiano Giuseppe Ungaretti: vogliamo certezze. È quello che ha scritto in una delle sue grandi poesie. Per molti altri di noi, invece, non so se è proprio necessario. Io cerco la verità e non temo la verità. Non sento di aver bisogno che una dottrina mi dica come pensare, come comportarmi.
C´è qualcosa che ancora vi piace della religione?
Englander Moltissime cose. Quell´idea di tempo sacro, di spazio sacro. Del resto anche lo scrivere funziona così.
Auster Ho conosciuto molti credenti in via mia e fintanto che quella persona si comporta in un certo modo io la rispetto, se non mi condanna per il fatto di non credere in ciò che lui crede, allora io non ho problema alcuno nei suoi confronti. So che la religione può arrecare grande conforto alle persone e può diventare la cosa più importante della propria vita, ma se lo fanno in modo tale da non danneggiare nessun altro, chi sono io per giudicarle? Chi sono io per non rispettare ciò che sentono e ciò in cui credono?.
Traduzione di Anna Bissanti

Corriere della Sera 22.11.07
Walter e Silvio, primo colloquio segreto
di Maria Teresa Meli


Ieri il contatto. Veltroni rassicura Prodi e annuncia il vertice con Fini

Il leader pd: col tedesco faremmo risorgere il centro. Ma i prodiani fanno filtrare la voce che il colloquio è andato male

Al premier Veltroni, in mattinata, dice e ridice: «Questo dibattito sulla riforma non avrà conseguenze sul governo, le due cose procedono su binari separati, non preoccuparti ». Il presidente del Consiglio a dire il vero tranquillo non era quando il sindaco arriva a palazzo Chigi. Anche perché martedì il leader del Pd gli aveva detto che il giorno dopo avrebbe incontrato il Cavaliere. Il colloquio con Berlusconi si è svolto in gran segreto, nel primo pomeriggio, tra una girandola e l'altra degli incontri del sindaco di Roma, il quale, troppo impegnato in questa nuova impresa, non ha presieduto la giunta comunale «per un impegno personale».
Del resto, come spiegava ieri ad alcuni compagni di partito il vicecapogruppo dell'Ulivo al Senato Nicola Latorre: «È inutile prendersi in giro, non si può fare la riforma elettorale senza passare dal confronto con il maggior partito dell'opposizione, a meno che non si voglia che Forza Italia conquisti il 45 per cento da sola». Né si può vedere Fini senza aver prima parlato con il Cavaliere. L'intento di Veltroni è chiaro. Il leader del Pd ritiene che il sistema tedesco non garantisca il simil bipartitismo che ha in testa. A Berlusconi lo ha spiegato con parole chiare, per fargli capire che la riforma Vassallo- Ceccanti, il cosiddetto Veltronellum, in fondo conviene a entrambi: con il sistema tedesco — è stato il ragionamento del sindaco di Roma — si ricostruisce quel centro che ormai non esiste più. E ognuno di noi dovrà fare i conti con le richieste di Mastella piuttosto che di Casini. Avremo almeno otto partiti. Con l'altro sistema, invece, si creeranno quattro o cinque partiti al massimo e le due forze maggiori decideranno le alleanze senza dove subire pressioni o ricatti dei piccoli o delle ale estreme. Per farla breve, è la riforma che crea quel «partito a vocazione maggioritaria» che Veltroni sogna e che converrebbe anche al Cavaliere. Al quale è stato spiegato che in questo modo Fini dovrebbe tornare all'ovile e Casini non avrebbe più parte in commedia. Per la verità Berlusconi non ha deciso che fare, medita ancora di poter dare la spallata al governo, ma da qui al 30, giorno fissato per il colloquio ufficiale con Veltroni, di tempo ce n'è. Senza contare il fatto che il suo fedele braccio destro Letta si è invece convinto del Veltronellum.
Ma è chiaro che la strada lungo la quale si muove il sindaco è assai stretta e piena di ostacoli. Se Berlusconi dice di no il rischio è quello di andare a un referendum che costringerebbe il Pd ad alleanze coatte. Se Berlusconi accetta la proposta, seppur portando qualche modifica di cui si sta già discutendo, il rischio è di far fibrillare sul serio la maggioranza e il governo perché Rifondazione difficilmente potrebbe accettare un sistema che, di fatto, la rende marginale. Su questo potrebbe cadere anche il governo. Ed è per questa ragione che il leader del Pd si muove con i piedi di piombo e che in realtà non ha ancora stabilito la strategia da intraprendere. Le stesse identiche difficoltà in cui versa il Cavaliere, che oscilla ancora tra il muro contro muro e il confronto. Ma di certo questo primo abboccamento tra i due è un primo passo. Non a caso dai prodiani, preoccupati per il destino del governo e del loro leader, è filtrata la voce che il colloquio sia andato malissimo.

Corriere della Sera 22.11.07
Bersani: nel partito ci vuole il congresso. Gli aderenti devono decidere qualcosa
di Monica Guerzoni


ROMA — Pierluigi Bersani ha rinunciato a sfidare Veltroni alle primarie, ma non rinuncia a dire quel che pensa. E dopo giorni di accorto silenzio sul Pd, il ministro dello Sviluppo cede alle pressioni dei nemici del partito «liquido» e si fa portavoce di quanti, sul territorio come al vertice dei partiti fondatori, chiedono a Veltroni un congresso e scelte condivise.
Adesso Berlusconi vuole le larghe intese, è l'ora del tutti a casa?
«Per quanto Berlusconi si agiti, ha reagito ai colpi che noi abbiamo assestato. E il primo è l'azione di governo, dall'accordo sul welfare alla Finanziaria. Non abbiamo sbagliato le previsioni. Come dimostrano il restyling del centrodestra, la cosa rossa e quella bianca, il Pd ha rimesso in moto il sistema».
Forse troppo, per Prodi... Lei non teme inciuci?
«Chi ha interesse a fare le riforme sa che un inciampo dell'esecutivo sarebbe inutile e anzi dannoso. E quindi la possibilità reale di un governo che governa e di forze politiche che cercano la chiave per le riforme è diventata improvvisamente credibile».
Fa bene Veltroni a dialogare con Berlusconi?
«I colloqui sono necessari, ma non è mai chiaro quali siano le reali intenzioni di Berlusconi. La cosa più intelligente per non generare sospetti è far cantare le carte al più presto, in Parlamento».
Il bipolarismo è a rischio?
«Non è che dopo vent'anni di discussione lo buttiamo via, come nel gioco dell'oca. Il bipolarismo è ormai radicato nella coscienza della gente ed è irrealistico immaginare scenari in cui le forze politiche si tengano le mani libere. Quindi non è impossibile, anche se non è scontato, che il bipolarismo possa essere interpretato per via proporzionale. Ma bisogna introdurre meccanismi costituzionali per evitare ribaltoni, come la sfiducia costruttiva».
Qualcuno ha rispolverato la bicamerale...
«Basta mettersi al lavoro nelle commissioni parlamentari. Poi a me interessa capire cosa succede nel profondo. Nel centrodestra la leadership dovrà esprimersi con una impronta di tipo populista e questa piegatura non può essere concepita da Pezzotta o Tabacci. È una contraddizione che emergerà».
Non c'è spazio per la «cosa bianca»?
«L'aspirazione a collocarsi al centro è legittima, ma un partito che si tenga le mani libere si candida a perdere le elezioni in un nanosecondo».
Già finita l'epoca delle alleanze di nuovo conio?
«Le alleanze si dichiarano prima del voto, non si può più andare alle elezioni senza dire da che parte si sta. A noi tocca lavorare per una alternativa al pulpito populista, il cui titolo è "riscossa civica"».
Il contrario del partito liquido, modello loft.
«È la rete dei cittadini. Sarebbe assurdo esserci messi in questa nuova avventura per fare cose vecchie. Le assemblee di base eleggeranno i loro organismi, il partito sarà reperibile tutti i giorni dell'anno in tutti i luoghi e ne sono soddisfatto. Ma il passaggio crucialissimo è lo statuto e io immagino che La riscossa civica
riuscirà a descrivere il ruolo degli aderenti, dei partecipanti e quello dei cittadini elettori».
E il congresso? Veltroni non li ama...
«Finita la fase costituente dovremo aprire un percorso congressuale in cui il ruolo degli aderenti sia dirimente. Un percorso che inneschi meccanismi di partecipazione dentro-fuori, tessere e non tessere. Un congresso non si fa mica per eleggere il segretario, ma per consentire agli aderenti di dire la loro e decidere qualcosa sulla politica».
Anche lei contro le «scelte solitarie»?
«Abbiamo bisogno di dispiegare il tempo della politica, di avere sedi e luoghi dove le diverse opinioni si discutono e si compongono secondo procedure democratiche. L'abbiamo chiamato Pd non perché siamo americani, ma perché siamo democratici ».

Corriere della Sera 22.11.07
Gli europei e la cocaina: un milione di consumatori in più
Sono diventati 4,5 milioni. In Italia sniffa oltre il 5 per cento dei giovani Ecstasy: sequestrate 16 milioni di pastiglie. Allarme oppiacei sintetici
di Luigi Offeddu



BRUXELLES — Un continente che «sniffa ». Cocaina, mai così tanta, quasi una bufera di «neve» dallo stretto di Gibilterra ai Balcani, da Edimburgo ad Atene. Un milione in più di uomini e donne, da 3,5 a 4,5 milioni, che ammettono di averla provata solo nel corso dell'ultimo anno. E mai tanta «neve» fra i giovani, i giovanissimi: con l'Italia ai primi posti proprio per i consumi giovanili. Ma anche le altre droghe, tutte le droghe in genere, a cominciare da quei 16,3 milioni di pastiglie di ecstasy sequestrate dalle varie polizie, o dalle colle e altre sostanze chimiche inalanti che ormai, almeno in certi Paesi, sembrano divenute le predilette dagli undici-dodicenni, subito dopo gli spinelli di cannabis: l'Europa non è mai stata così intossicata come oggi, lo dice il rapporto 2007 dell'Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Oedt) che verrà diffuso stamane a Bruxelles.
L'Oedt, il centro di informazione sulle droghe dell'Unione europea che ha la sua sede centrale a Lisbona, ha elaborato i dati raccolti nei 27 Paesi membri dell'Ue, compresi dunque i «nuovi arrivati» dell'Est, più la Norvegia e la Turchia.
Il confronto con l'America
L'indagine viene svolta ogni anno, e stavolta ciò che ne risulta è una fotografia in chiaroscuro, ma complessivamente inquietante: l'Europa sembra ancora «star meglio » del Nord America per quanto riguarda la diffusione di massa della cocaina, delle amfetamine e della cannabis, e questo— sostengono gli esperti dell'Oedt — può essere attribuito alle politiche di riduzione del danno (legalizzazione delle cosiddette «droghe leggere», ambulatori e nuclei mobili che distribuiscono siringhe sterili, terapie al metadone, ecc.), cioè a quelle politiche che negli Usa non vengono praticate. Ma per il resto, il panorama è cupo. A cominciare proprio dalla cocaina: circa 7,5 milioni di giovani europei ammettono di averla usata almeno una volta nella vita, e 5 Paesi — Germania, Italia, Danimarca, Spagna, Regno Unito — guidano la classifica perché fra i loro giovani di 15-34 anni le percentuali di consumatori di cocaina toccano o superano il 5% del totale.
Le morti nelle grandi città
Perfino i decessi collegati all'uso degli stupefacenti, da molti anni in calo, sembrano ora in ripresa: e in ogni caso, hanno rappresentato il 4 per cento di tutti i decessi fra gli europei di 15-39 anni nel periodo 2004-2005. In 9 Paesi, hanno toccato il 7 per cento. In alcune grandi città d'Europa, il 10-20 per cento delle morti fra i giovani adulti potrebbe essere addebitata direttamente (per overdose) o indirettamente (per l'Aids, o per atti di violenza) al consumo di sostanze oppiacee. L'eroina sembra confermare un «trend» stabile, con consumatori sempre più anziani, ma anche in questo caso ci sono tre brutte notizie: sono comparsi nuovi oppiacei sintetici che potrebbero sostituirsi alla stessa eroina; aumenta il consumo illegale di metadone, soprattutto in Belgio, mentre in Danimarca sono aumentate proprio le morti legate allo spaccio di metadone; e infine, gli esperti temono ora l'«onda lunga» della produzione che sarebbe tornata a crescere in Afghanistan, del 46 per cento solo nel 2006, portando la produzione mondiale a superare ormai le 600 tonnellate.
Il supermercato dell'ecstasy
La «pastiglia magica», che conserva i suoi maggiori centri di produzione e spaccio nei Paesi Bassi, sorprendentemente non tocca i suoi picchi di diffusione nelle stesse aree, ma nell'Est Europa, in Gran Bretagna, e nei Paesi baltici. È comunque la droga sintetica più usata in 17 Paesi europei, e l'Europa nel suo insieme consuma il 38 per cento di tutta l'ecstasy del mondo. L'Oedt cita anche una ricerca inglese, secondo cui nel 1999-2003 il consumo di pastiglie fra i ragazzi è più che raddoppiato. Per la verità, su questa ricerca — pubblicata da una rivista di musica giovanile — viene espresso qualche dubbio: ma ciò che ha raccontato la cronaca nera degli ultimi anni, dalle discoteche di mezza Europa, fa lo stesso paura.

Corriere della Sera 22.11.07
Le cifre nel rapporto sul 2007 dell'Osservatorio della Ue
«Riconoscerli è facile: sospettosi e instabili»
di Mario Pappagallo


MILANO — «Oggi, di solito, chi fa uso di droga non lo nasconde. È da fighi. Logica di mercato: la cocaina è da vip, è da vincenti, aumenta piacere e prestazioni sessuali, rende imbattibili nel lavoro e nei rapporti con gli altri... Tutto falso, tutto il contrario». Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento dipendenze patologiche della Asl città di Milano, di cocainomani ne vede tutti i giorni. Da anni. Manager, medici, docenti, oltre a tanta gente comune.
«E nessuno di loro si accorge di vedere il mondo con un paio di occhiali colorati. La droga agisce trasformando profondamente a livello cerebrale la percezione di sé e dell'ambiente circostante».
Chiaro, ma se il messaggio è lo stesso del Cynar (cocaina contro il logorio della vita moderna) come fa un cocainomane a non accorgersi che in realtà tutto peggiora?
«Perché mette gli occhiali colorati. Chi lo conosce comprende, chi gli vive accanto non ha dubbi, ma per lui sono gli altri che non capiscono nulla. Anzi, uno dei segnali è proprio sospettare di tutto e di tutti».
Qual è l'identikit?
«Instabilità emotiva, incapacità a controllare gli impulsi, tendenza alla paranoia, come il sentirsi perseguitati. Il sonno è disturbato (o nulla o troppo). Sessualmente, la caporetto è continua. Si prendono psicofarmaci per risolvere i problemi, convinti che la cocaina non c'entri».
Esempi?
«Si passa dal riso sfrenato al pianto, dalla simpatia all'apatia, dall'aggressività alla passività anche sul lavoro. In pochi minuti. Chi guida in modo prudente, diventa spericolato. Lo stesso capita a un manager negli investimenti e al chirurgo in sala operatoria. In amore e nell'amicizia il sospetto si insinua ("Tutti mi guardano... Ce l'hanno con me?... Perché quello mi è amico?"). E a livello sessuale: compulsione, desiderio non soddisfatto, sensazioni di erezioni che non si hanno. È leggenda urbana che la cocaina renda super. Sicuramente nelle défaillances».
E il cocainomane resta nell'illusione?
«Di più: recita per confermarla. Confonde la causa con il rimedio. È come il fumatore con l'affanno che dice che è colpa dell'età».
Fino al momento che vengono da lei per smettere...
«Allora tolgono gli occhiali colorati e si stupiscono. Tutto prima era piatto. La normalità è più bella. Il vero Cynar è tornare alla normalità».

Corriere della Sera 22.11.07
Istat Vittime (spesso dei partner) sette milioni di donne. In crescita le torture psicologiche
Stupri, una condanna su 100
Sono oltre un milione i casi di violenza nell'ultimo anno
di Mariolina Iossa


ROMA — Stupri e violenze fisiche sulle donne fanno più vittime degli incidenti stradali. Fanno più vittime anche del cancro. Nel corso della loro vita quasi 7 milioni di italiane, il 32 per cento, sono state violentate o prese a botte, calci, pugni. E non meno di 12 milioni hanno subito torture psicologiche e molestie, compreso lo stalking, quei comportamenti persecutori, telefonate, minacce, pedinamenti, che a volte durano anni. Eppure, soltanto l'1 per cento degli aguzzini viene alla fine condannato. Anche perché solo il 7 per cento delle donne denuncia le violenze subite.
«È un dramma sociale e culturale che va affrontato senza indugi», ha detto ieri la ministra per le Pari Opportunità Barbara Pollastrini in vista della giornata internazionale contro la violenza alle donne, il 25 novembre, che in Italia sarà preceduta sabato 24 da una manifestazione a Roma. Il ddl che inasprisce le pene, incoraggia le donne a denunciare, attua forme di prevenzione, estende la certezza della pena, presentato dal governo all'inizio del 2007, è ancora fermo in Parlamento. Ma la presenza di Romano Prodi ieri all'assemblea aperta, durante la quale Pollastrini ha firmato un decreto che istituisce il Forum permanente, fa ben sperare. «Per vincere la battaglia — ha osservato il presidente del Consiglio — serve una coscienza collettiva, altrimenti la si perde».
In Finanziaria ci sono 20 milioni di euro da spendere, anche per varare un Piano nazionale e istituire un Osservatorio. Negli ultimi 12 mesi ci sono stati un milione e 150 mila nuovi casi di violenze e 62 donne sono state uccise. Venti milioni in tre anni non sono molti ma la ministra spera di rafforzare i centri antiviolenza e convincere più donne a chiedere aiuto. Sono anche state stralciate le norme sullo stalking e, assicura il presidente della commissione Giustizia della Camera Pino Pisicchio, saranno approvate entro fine anno: «C'era un vuoto da colmare nel codice penale. I comportamenti persecutori non possono restare impuniti, spesso sono l'anticamera della violenza vera e propria».
Violenze e percosse avvengono quasi sempre dentro casa. Succede 7 volte su dieci. Sono mariti, conviventi, fidanzati, ex. Un 17 per cento è opera di conoscenti, amici, parenti. La violenza si ripete nel 67,4 per cento dei casi. Ma le donne ancora non reagiscono come dovrebbero. Solo 2 su dieci pensano che le botte prese dal marito o il rapporto sessuale forzato siano reato. Gli stupratori sconosciuti sono solo il 6 per cento. «Lo stereotipo dello straniero che assalta una donna per strada non corrisponde alla realtà», spiega la ricercatrice dell'Istat Linda Laura Sabbadini. Tant'è che le donne più a rischio sono quelle separate e divorziate.

Corriere della Sera 22.11.07
Camera Governo battuto su alcuni emendamenti
Welfare, primi sì a Rifondazione e Pdci Altolà dei sindacati
di Enrico Marro


Prodi: «L'accordo si troverà». Oggi il mandato al relatore in vista dell'approdo in aula lunedì.

ROMA — Resta delicata la partita sul welfare nella maggioranza. Ieri le posizioni si sono irrigidite e il governo è stato battuto in commissione alla Camera per tre volte su altrettanti emendamenti al disegno di legge. Preoccupati i sindacati e la Confindustria, contrari a modifiche al testo che recepisce l'accordo col governo su pensioni e mercato del lavoro. La commissione Lavoro della Camera presieduta da Gianni Pagliarini (Pdci) ha votato a oltranza fino all'una di notte sui quattro articoli più delicati del disegno di legge (1-9-11-13), che sono stati lasciati per ultimi nel tentativo, fallito, di trovare un accordo sugli emendamenti delle sinistre radicali (Rifondazione, Pdci, Verdi, Sinistra democratica). Proposte di modifica rispetto alle quali il governo si è spesso opposto per tre motivi: non aggravare i costi, non venir meno all'impegno di non modificare il testo, il timore che eventuali cedimenti alle sinistre scatenino il voto contrario dei «diniani» in aula. Ieri qualche cedimento c'è stato. È passato un emendamento dello stesso Pagliarini che allarga le maglie per la definizione della platea dei lavoratori usurati, che potranno andare in pensione ancora a 57 anni. È stato infatti soppresso il riferimento al minimo di 80 notti lavorative all'anno per accedere al beneficio. «Un passo in avanti», ha commentato il ministro della Solidarietà, Paolo Ferrero (Rifondazione), che però ne ha subito chiesto un altro sul lavoro precario. Puntualmente arrivato quando sono stati approvati altri emendamenti: quello che stabilisce che il tetto dei 36 mesi sui contratti a termine si calcola indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l'altro, quello che dice che dopo 36 mesi ci può essere una sola proroga di massimo 8 mesi, quello che abolisce lo staff leasing,
questi ultimi due contro il parere del governo. Modifiche che hanno provocato dure reazioni dei leader sindacali e scateneranno le proteste della Confindustria. Bonanni (Cisl) tuona: «Un grave errore cancellare lo staff leasing ». Rifondazione è parzialmente soddisfatta. «Se si seguono le pressioni di Confindustria, si finisce in un vicolo cieco», aveva minacciato il capo di Rifondazione, Franco Giordano. Che però ha dovuto digerire il ripristino del job on call nel turismo e spettacolo (anche qui, parere contrario del governo). Soddisfatto pure il sottosegretario al Lavoro, Antonio Montagnino. Oggi la commissione voterà il mandato al relatore e da lunedì il provvedimento passerà all'aula.

Corriere della Sera 22.11.07
Estetica Tra Sant'Agostino, Diderot e Hindemith
Potente e irrazionale: la musica non è solo una divina armonia
di Gillo Dorfles


Il fatto che la musica sia stata, da sempre, considerata come la più «filosofica» delle arti, quella più legata alla matematica, dunque al calcolo numerico con tutte le sue distinzioni intervallari, le sue corrispondenze cosmiche («armonia delle sfere») non toglie che l'eterno quesito circa il peso da dare al «sentimento» o alla «ragione»; alla conoscenza o alla intuizione, abbia, e continuerà ad avere, una preponderanza in chi voglia sviscerare i problemi che sono alla base non solo del fattore compositivo, ma soprattutto di quello fruitivo.
Ma non è solo il contrasto tra fantasia e razionalità, tra sentimentalismo e razionalità, a entrare in gioco in ogni analisi rivolta a questa arte; giacché, quello che troppo spesso viene trascurato è proprio l'aspetto «percettologico » della nostra fruizione musicale. E, non solo le evidenti discrepanze individuali nel «godere» e valutare le opere musicali; ma il fatto della differenza epocale dell'elemento percettivo. Per cui — per non dare che un esempio macroscopico — l'intervallo di terza e in generale la triade maggiore da noi considerati come il non plus ultra della consonanza, presso gli antichi greci erano ritenuti come dissonanti. E non ho bisogno di risfoderare il problema del perché la musica pentatonale di popolazioni estremorientali o africane suoni all'orecchio occidentale come «ambigua»; e come l'avvento del «temperamento equabile » che ha reso artificiosamente equipollenti le diverse note della nostra scala «temperata», non abbia ancora giustificato il perché tante musiche folcloriche o di antiche culture, decisamente «modali » anziché «tonali», suonino all'orecchio non addestrato altrettanto «aliene» di un brano dodecafonico. Più che di simili questioni percettive, si occupa aggredendo veri e propri parametri filosofici, il recente volume di Silvia Vizzardelli che, da un punto di vista molto severo e storicamente aggiornato, analizza le vere e proprie costanti — o incostanti — filosofiche che attraverso le epoche hanno impegnato gli studiosi delle materia.
L'autrice, studiosa dell'Università della Calabria, si rifà ai grandi nomi di Boezio, di Sant'Agostino, e in seguito di Jankelevic di Bergson, di Hindemith, di Leibnitz, di Diderot, non trascurando i nostri estetologi Carchia e Piana (che, con la sua Filosofia della musica
ci ha dato un quadro molto illuminante sulla effettiva componente filosofica del pensiero musicale). La distinzione tra l'«effetto estetico» e l'«effetto patetico» studiato da Moritz Lazarus; e, ancor più, la fondamentale analisi delle valenza simbolica così ampiamente svolta da Susanne Langer non sono che due dei più tipici esempi di come la musica non possa non sottostare a una argomentazione filosofica, non accontentandosi di quella che è la sua spontanea «efficacia sentimentale».
«Era appunto il problema degli antichi, impegnati a stabilire se le differenze tre i suoni e le entità intervallari fossero da considerarsi attraverso una radicale riduzione aritmetica, calcolati secondo ratio logos proportio ; oppure andassero ricondotti alla flagranza dell'esperienza sensibile». Proprio in questi ultimi tempi è stato celebrato un importante convegno, svoltosi nel 1951 presso la Triennale di Milano , dedicato alla Divina Proporzione, nel quale, oltre alle molte analisi riservate soprattutto all'architettura e al design, si trattò anche di numericità pitagorica e dei rapporti tra musica e architettura (il noto adagio: «musica come architettura dei suoni» o architettura come «musica pietrificata »). Fu in quella occasione che io ebbi a svolgere un tema sopra la «Incommensurabilità della scala musicale», secondo il quale tendevo a sconfessare la possibilità di una ferrea legge imposta alla musica e ai suoi intervalli; insistendo appunto sulla presenza di numerose varianti percettive esistenti tra i diversi popoli e le diverse culture. Ebbene, se vogliamo giungere a una interpretazione davvero filosofica di questa arte, credo ancora che dobbiamo abbandonare ogni pretesa di razionalizzazione severa della stessa e arrenderci a una interpretazione essenzialmente simbolica e percettologica di questa straordinaria «entità estetica» che sfugge ad ogni metro razionalizzatore, ma la cui potenzialità immaginativa e patetica supera quella di ogni altra creazione umana.

Redattore Sociale 21.11.07
Giustizia: medicina penitenziaria... a marzo il "passaggio"?


Dopo 8 anni di attesa, sta per completarsi il sofferto transito di competenze dal ministero della Giustizia: un emendamento del governo alla finanziaria prevede la completa attuazione. Manconi: "Ma ci sono forze che si oppongono".
Il traguardo, finalmente, è vicino. Dopo otto anni di attesa, sta per completarsi infatti il sofferto transito della medicina carceraria dalle competenze del ministero della Giustizia a quelle della Salute. Se ne parla dagli anni novanta e nel 1999 si era perfino arrivati alla stesura di un testo di legge che andava nella direzione del passaggio di consegne da un ministero all’altro. Poi però c"è stato il vuoto legislativo. Ora, con un emendamento alla legge finanziaria per il 2008 presentato dal governo, si prevede la completa attuazione del decreto legislativo n.230 del 1999.
L’emendamento 47 bis prevede anche la relativa copertura finanziaria che per il 2008 si attesterà sui 157,8 milioni di euro. Dagli iniziali 70 milioni all’anno, si è riusciti a raddoppiare la cifra che si attesterà in media sui 146 milioni all’anno. Se la finanziaria sarà approvata, spetterà poi al governo chiudere il quadro con un provvedimento da varare entro 90 giorni, quindi a marzo. Sarà a quel punto un decreto del consiglio dei ministri a definire tutti i particolari di una riforma che non pochi cominciano a paragonare alla cosiddetta Gozzini.
Per fare il punto sulla situazione il Forum nazionale per il diritto alla salute dei detenuti ha organizzato questa mattina a Roma un convegno al quale ha partecipato anche il sottosegretario alla Giustizia, Luigi Manconi, all’assessore alla salute della Regione Lazio, Augusto Battaglia, un rappresentante del ministero della Salute in rappresentanza del ministro Livia Turco e naturalmente. moltissimi operatori che in questi anni hanno si sono impegnati con il Forum nazionale per far passare la riforma.
Lo hanno ricordato oggi sia Luigi Di Mauro, vicepresidente del Forum e presidente della Consulta penitenziaria del Comune di Roma, sia Leda Colombini, presidente del Forum. Di Mauro - che ha letto una lettera dall’assessore Rossi in rappresentanza delle Regioni - ha ricordato che si tratta di portare a compimento tutti i passaggi.
Quello che è rimasto scoperto ancora è il via libera al progetto di riforma (e alle relative linee guida) da parte dell’Assemblea Stato Regioni. Il testo base della riforma è stato già elaborato dalla commissione interministeriale. Sul progetto si sono impegnati direttamente i due sottosegretari dei due rispettivi ministeri, Gaglione per la Salute e Manconi per la Giustizia.
"Si sta per realizzare una grande riforma - ha detto oggi il sottosegretario Manconi - ma bisogna rimanere vigili perché ci sono ancora delle forze che si oppongono". Con la riforma completata tutte le funzioni sanitarie che oggi fanno capo al ministero della Giustizia passeranno al ministero della Salute e non sono state superate ancora tutte le resistenze.
"La riforma è un vero mutamento radicale - ha spiegato ancora Manconi che ha anche fatto l’elogio dell’attività e della perseveranza del Forum - il convegno di oggi è un fatto molto importante, ma non vorrei che passasse l’idea che abbiamo già raggiunto il risultato. Si deve fare in modo che le resistenze che ancora ci sono contro la riforma non diventino un ostacolo". Il sottosegretario Manconi ha detto anche che la salute in carcere non solo deve essere un diritto come per tutti i cittadini.
Da questo punto di vista, essendo il diritto alla salute universale, non si può tollerare un divisione tra cittadini inclusi e cittadini esclusi. Anzi, ha aggiunto Manconi, siccome chi sta in carcere sta peggio degli altri si deve fare in modo che la qualità della medicina offerta sia perfino superiore a quella che lo Stato mediamente riesce ad assicurare a tutti i cittadini. Un concetto che è stato poi ripreso nel dibattito facendo anche ricorso al pensiero di don Milani sugli ultimi.
Per quanto riguarda concretamente le risorse, l’emendamento all’articolo 47 della finanziaria dice espressamente che al fine di dare completa attuazione alla riforma, dall’entrata in vigore del decreto del Presidente del consiglio dei ministri, "sono trasferite al Fondo sanitario nazionale per il successivo riparto alle Regioni e Province autonome le risorse finanziarie valutate complessivamente in 157,8 milioni di euro per il 2008, in 161,8 milioni per l’anno 2009 e in 167,8 milioni per l’anno 2010, di cui quanto a 147,8 milioni a decorrere dal 2008 a carico del bilancio del Ministero della Giustizia e quanto a 10 milioni di euro per l’anno 2008, 15 milioni di euro per il 2009 e 20 milioni di euro per l’anno 2010 a carico del bilancio del Ministero della Salute.

mercoledì 21 novembre 2007

l’Unità 21.11.07
«Soldato scelto Timothy? Assente... per suicidio»
di Roberto Rezzo


LE CIFRE
6.256 REDUCI di tutte le guerre che si sono uccisi nel 2005
430 REDUCI dall’Afghanistan e dall’Iraq morti suicidi dall’inizio delle due guerre
20% VETERANI affetti da «Post Traumatic Stress Disorder»
800 NUMERO di Day Hospital per l’assistenza ai veterani
24-25 ANNI Fascia d’età maggiormente a rischio di suicidio

VENTITRÉ ANNI Timothy Bowman decide di farla finita. È sopravvissuto all’Iraq ma ha perso la battaglia con la sua coscienza. Lo hanno visitato ma non hanno capito quanto profonda fosse la sua depressione. E il Giorno del Ringraziamento si è sparato un colpo di pistola in bocca. La maledizione dei reduci

Thanksgiving due anni dopo. Per Michael e Kim Bowman, piccoli commercianti di materiale elettrico a Forreston in Illinois, il giorno del Ringraziamento è diventato un giorno maledetto. Il 25 novembre del 2005 hanno perso il loro unico figlio. È mattina di festa quando Tim va nel magazzino, chiude la porta, si punta una pistola alla testa e preme il grilletto.
La pallottola gli lascia solo uno sfregio alla fronte. Nessun ripensamento: s’infila la canna in bocca e preme il grilletto di nuovo. Aveva ventitré anni. La madre, quando le domandano cos’è successo, risponde che il suo ragazzo è morto in Iraq.
Timothy Noble Bowman era un soldato scelto della Guardia Nazionale, Bravo Troop, 106° reggimento di cavalleria, di stanza a Fort Dixon, Illinois. Un anno di servizio effettivo in Iraq. Quando si è tolto la vita era tornato a casa da otto mesi. Sembrava uno di quelli fortunati: era rientrato sano e salvo, neppure un graffio addosso. In realtà non era più lo stesso, praticamente irriconoscibile. «Mio figlio è sempre stato un ragazzo allegro e di compagnia, pieno di entusiasmo, con una gran voglia di vivere. Sino a quando lo hanno mandato in Iraq. È tornato che aveva come la morte negli occhi. Lo guardavo e non c’era più luce nel suo sguardo. Era sprofondato in un abisso. Io lo so che si tormentava per quello che gli avevano ordinato di fare in servizio. Per questo ha deciso di farla finita».
Baghdad. L’arrivo a Camp Victory nel marzo del 2004. Bowman per nove mesi è assegnato al pattugliamento e alla sicurezza nelle strade della capitale. Sei mesi passati avanti e indietro sulla Irish Road, la strada che collega la Green Zone all’aeroporto, sinistramente nota come la rotta più pericolosa del mondo. Il suo plotone non subisce una singola perdita durante l’intera durata della missione. Non era mai accaduto prima. E quindi il trasferimento a Tarmiya, sulle rive del Tigri, sessanta chilometri da Baghdad. È zona di guerriglia, da operazioni di combattimento in senso stretto. Bowman prende parte all’assalto di una stazione di polizia che era stata occupata dalle milizie armate sunnite. Ancora qualche settimana e poi è finalmente a casa. Di quello che ha passato, di quello che ha visto parla poco e mal volentieri. «È inutile, chi non c’è stato non può capire». Ogni tanto una frase smozzicata lascia intravedere i fantasmi d’una mente: la vista di un bambino morto, di una gamba maciullata, la paura costante delle esplosioni, quell’odore rivoltante del sangue.
Post Traumatic Stress Disorder, o semplicemente Ptsd, è il termine utilizzato dagli psichiatri per indicare una lunga serie di patologie mentali - quasi sempre associate a depressione - che colpisce i reduci di guerra. Le statistiche indicano che ne soffre almeno un veterano su cinque. Il professor Bentson McFarlan è considerato il massimo esperto in materia ed ha appena pubblicato uno studio sulla correlazione tra Ptsd e suicidio. «I reduci dall’Afghanistan e dall’Iraq sono maggiormente a rischio rispetto ai veterani di tutti i conflitti precedenti - spiega McFarlan - Naturalmente esiste una predisposizione soggettiva, ma tra i fattori scatenanti abbiamo individuato con una certa sicurezza i periodi d’impiego prolungati e lo stress costante della guerriglia urbana. Vorrei sbagliarmi, ma temo che adesso la situazione sia molto più grave che ai tempi del Vietnam. E ho detto tutto».
Il Department of Veteran Affair, l’agenzia federale da cui dipendono i veterani di guerra, non rende pubblico il contenuto delle cartelle cliniche dei militari cui presta assistenza diretta o indiretta. Nel caso di Timothy Bowman si sa solo che aveva superato l’esame psicofisico prima della partenza per l’Iraq, esame che in teoria comprende anche una visita psichiatrica. Ed è chiaro che al suo ritorno gli accertamenti di routine non hanno individuato correttamente il problema o lo hanno gravemente sottovalutato. «Non voglio che altri genitori debbano passare quello che è toccato a noi - ha dichiarato Michael Bowman - Perdere un figlio è una cosa atroce, perderlo a questo modo è inaccettabile. Tim è sopravvissuto alla guerra ma ha perso la battaglia con la sua coscienza. Questo vuol dire che se lui ha finito di lottare, io ho appena cominciato».

Un numero verde per i veterani in crisi
1-800-273-8255 È il numero di hot line inaugurato dall’ agenzia federale che si occupa dell’assistenza ai reduci. L’iniziativa del governo è partita subito dopo la pubblicazione degli ultimi dati sui casi di suicidio tra i veterani. Un fenomeno in aumento che è arrivato a colpire gli ex militari in proporzione doppia rispetto al passato. Gli esperti temono si tratti di un’operazione di facciata e fanno notare che nel 1995 il budget del governo per le cure psichiatriche di ogni veterano era di 3.560 dollari. Oggi con due guerre in corso, senza contare l’inflazione, la spesa è scesa a 2.581 dollari.

l’Unità 21.11.07
Sinistra. Il simbolo divide, il Pdci per la falce e martello


Continua a creare tensioni la questione del simbolo comune con cui Rifondazione comunista, Verdi, Pdci e Sinistra democratica si presenteranno alle prossime elezioni. L’ultima decisione verrà presa dai leader dei quattro partiti in un incontro in programma nei prossimi giorni, visto che la presentazione dovrà avvenire agli Stati generali che si svolgeranno l’8 e 9 alla nuova Fiera di Roma. Ieri c’è stata una riunione di capigruppo e responsabili organizzazione, che si è però conclusa con un nulla di fatto. Il Pdci è convinto che nel simbolo debba essere presente una falce e martello stilizzata, ma gli altri alleati sostengono che a soggetto nuovo vada affiancato un simbolo nuovo.
«Ognuno farà la sua proposta e poi tutti insieme sceglieremo il simbolo. Noi abbiamo una nostra idea, vedremo gli altri, ci confronteremo», ha spiegato Jacopo Venier, deputato del Pdci. «Il nuovo simbolo deve unire tutti, se la loro intenzione è quella di riproporre la falce e il martello non ci siamo proprio, non c’è discussione», ha replicato il capogruppo alla Camera dei Verdi Angelo Bonelli. La prossima riunione del coordinamento per l’assemblea dell’8 e 9 è ufficialmente fissata per martedì, ma molto probabilmente i rappresentanti dei partiti torneranno a vedersi prima. Intanto, proprio in queste ore, sui tavoli dei dirigenti dei quattro partiti continuano a circolare le diverse bozze del simbolo. Nella maggior parte dei casi sono presenti i colori della bandiera arcobaleno, un piccolo tricolore e la scritta “La Sinistra”.

l’Unità 21.11.07
Welfare, l’intesa a un passo ma Rifondazione lascia il tavolo
Colpo di scena nella notte. Lavori usuranti, contratti a termine e staff leasing i punti più delicati
di b. di g.


QUANDO L’ACCORDO sembrava a un passo, alla ripresa notturna del confronto in Parlamento della maggioranza sul welfare, accade l’imprevisto. Rifondazione comunista lascia il tavolo, «se non ci sono elementi nuovi non ha senso restare, il governo non mi ha dato garanzie circa il nodo dei contratti a termine e dei lavori usuranti». Eppure, in tarda serata, l’intesa sembrava a portata di mano. Il vertice di ieri, convocato prima in mattinata e poi slittato alle 18, doveva sciogliere gli ultimi 4 nodi ancora irrisolti sul provvedimento più difficile rimasto sul tavolo del governo. «I nodi sono 4 e saranno affrontati tutti insieme - aveva dichiarato nel pomeriggio il relatore del testo Emilio Delbono - Non è possibile chiudere uno senza l’altro». Insomma, la strategia era complessiva, e includeva le richieste della sinistra (su identificazione degli usuranti e contratti a termine, eliminazione dello staff leasing) e quelle di centro e Rosa nel pugno (stralcio del lavoro a chiamata che si chiede sia mantenuto per casi eccezionali). Il presidente della Commissione Lavoro della Camera, Gianni Pagliarini, nutriva forti speranze: «Sul tavolo ci sono le soluzioni - spiegava - si tratta solo di fare qualche perfezionamento. Il ministro Damiano ha risposto punto su punto, si è misurato sui contenuti, nel merito delle questioni poste dalla maggioranza». Poi, dopo lo strappo di Rifondazione, cambia il tono delle sue frasi: «Ognuno si assuma le proprie responsabilità».
Quando i toni volgevano tutti all’ottimismo, il sottosegretario al Lavoro Antonio Montagnino confidava: «Mi sento di dire che questa notte l’intesa può essere raggiunta. Le risorse destinate al protocollo restano le stesse. Con una dote di 2,8 miliardi in 10 anni contiamo di poter rispondere alle esigenze dei lavoratori più usurati. Per ora sugli usuranti posso solo dire che le spese nel 2008 sono sostanzialmente pari a zero, e poi crescono via via fino al 2017». Eppure non è bastato per continuare il confronto.
In tarda serata sui lavori usuranti l’unica cosa certa era il ricorso ad una delega. Tutti avrebbero preferito una norma già chiara e vincolante, ma gli aspetti tecnici sono davvero troppi per essere inseriti in una sola norma.
Mentre da parte di molti già si vedeva il traguardo, Cesare Damiano non si sbilanciava più di tanto tenendosi molto lontano dal merito. Il passo di Rifondazione complica una partita che già si preannuncia delicatissima per la maggioranza. Tanto più che al Senato già si preparano nuove richieste. Non ci sono solo i diniani da accontentare. Anche i socialisti di Angius e Barbieri alzano il tiro e minacciano: non votiamo se non verranno accolte le nostre richieste sulla disoccupazione dei giovani. Richieste che erano già state presentate in Finanziaria ma che non avevano passato il vaglio dell’Aula.
La prima reazione di Verdi e Sd allo strappo di Prc è di «stupore». «Siamo molto sorpresi perché abbiamo lavorato con alacrità e serietà per migliorare il protocollo e abbiamo presentato emendamenti comuni - ha affermato Titti Di Salvo (Sd) - ci eravamo lasciati ore fa commentando i passi avanti fatti». Sulla stessa linea, Tommaso Pellegrino dei Verdi: «Sul tema dei contratti a tempo determinato avevamo ottenuto dei risultati, grazie anche alla posizione unitaria».

Repubblica 21.11.07
La donna violata. La strage delle innocenti
di Anna Bandettini


In dodici mesi un milione di donne ha subito violenze. Per le più giovani ancora oggi è questa la prima causa di morte. Sabato manifestano a Roma. Per denunciare un fenomeno cresciuto in un anno del ventidue per cento. E consumato nel silenzio delle nostre case
L´ultimo stupro ieri, a Pordenone, in pieno centro: lei ghanese, lui italiano

I loro nomi, le loro storie restano come memorie, la prova di una verità odiosa, crudele: Hina accoltellata a Brescia dal padre, Vjosa uccisa dal marito a Reggio Emilia, Paola violentata a Torre del Lago, Sara colpita a morte da un amico a Torino... L´ultima è stata resa nota ieri: una ventenne originaria del Ghana, costretta ad un rapporto sessuale in pieno centro a Pordenone.
In Italia, negli ultimi dodici mesi, un milione di donne ha subito violenza, fisica o sessuale. Solo nei primi sei mesi del 2007 ne sono state uccise 62, 141 sono state oggetto di tentato omicidio, 1805 sono state abusate, 10.383 sono state vittime di pugni, botte, bruciature, ossa rotte. Leggevamo che le donne subiscono violenza nei luoghi di guerra, nei paesi dove c´è odio razziale, dove c´è povertà, ignoranza, non da noi. Eccola la realtà: in Italia più di 6 milioni e mezzo di donne ha subito una volta nella vita una forma di violenza fisica o sessuale, ci dicono i dati Istat e del Viminale che riportano un altro dato avvilente.
Le vittime - soprattutto tra i 25 e i 40 anni - sono in numero maggiore donne laureate e diplomate, dirigenti e imprenditrici, donne che hanno pagato con un sopruso la loro emancipazione culturale, economica, la loro autonomia e libertà. Da noi la violenza è la prima causa di morte o invalidità permanente delle donne tra i 14 e i 50 anni. Più del cancro. Più degli incidenti stradali. Una piaga sociale, come le morti sul lavoro e la mafia. Ogni giorno, da Bolzano a Catania, sette donne sono prese a botte, oppure sono oggetto di ingiurie o subiscono abusi. Il 22% in più rispetto all´anno scorso, secondo l´allarme lanciato lo scorso giugno dal ministro per le Pari Opportunità, Barbara Pollastrini, firmataria di un disegno di legge, il primo in Italia specificatamente su questo reato ora all´esame in commissione Giustizia.
«È un femminicidio», accusano i movimenti femminili, «violenza maschile contro le donne»: così sarà anche scritto nello striscione d´apertura del corteo a Roma di sabato 24, vigilia della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne istituita dall´Onu, una manifestazione nazionale che ha trovato l´adesione di centinaia di associazioni impegnate da anni a denunciare una realtà spietata che getta un´ombra inquietante sul tessuto delle relazioni uomo-donna.
Sì, perché il pericolo per le donne è la strada, la notte, ma lo è molto di più, la normalità. Se nel consolante immaginario collettivo la violenza è quella del bruto appostato nella strada buia, le statistiche ci rimandano a una verità molto più brutale: che la violenza sta in casa, nella coppia, nella famiglia, solida o dissestata, borghese o povera, «si confonde con gli affetti, si annida là dove il potere maschile è sempre stato considerato naturale», come spiega Lea Melandri, saggista e femminista. L´indagine Istat del 2006, denuncia che il 62% delle donne è maltrattata dal partner o da persona conosciuta, che diventa il 68,3% nei casi di violenza sessuale, e il 69,7% per lo stupro. «Da anni ripetiamo che è la famiglia il luogo più pericoloso per le donne. È lì che subiscono violenza di ogni tipo fino a perdere la vita», denuncia "Nondasola", la Casa delle donne di Reggio Emilia a cui si era rivolta Vjosa uccisa dal marito da cui aveva deciso di separarsi. «Da noi partner e persone conosciute sono i colpevoli nel 90% delle violenze che vediamo. E purtroppo c´è un aumento», dice Marisa Guarnieri presidente della Casa delle donne maltrattate di Milano. «All´interno delle mura domestiche la violenza ha spesso le forme di autentici annientamenti - spiega Marina Pasqua, avvocato, impegnata nel centro antiviolenza di Cosenza, una media di 800 telefonate di denuncia l´anno - Si comincia isolando la donna dal contesto amicale, poi proibendo l´uso del telefono, poi si passa alle minacce e così via in una escalation che non ha fine».
In Italia, l´indagine Istat ha contato 2 milioni e 77mila casi di questi comportamenti persecutori, stalking come viene chiamato dal termine inglese, uno sfinimento quotidiano che finisce per corrodere resistenza, difesa, voglia di vivere. «Nella nostra esperienza si comincia con lo stalking e si finisce con un omicidio», accusa Marisa Guarnieri. Per questo le donne dei centri antiviolenza hanno visto positivamente l´approvazione, lo scorso 14 novembre in Commissione Giustizia, del testo base sui reati di stalking e omofobia.
Sanzionare penalmente lo stalking, significa, tanto per cominciare, riconoscerlo. «Molte donne vengono qui da noi malmenate o peggio e parlano di disavventura. Ragazze che dicono "me la sono cercata", donne sposate che si scusano: "lui è sempre stato nervoso"…», racconta Daniela Fantini, ginecologa del Soccorso Violenza Sessuale di Milano, nato undici anni fa per iniziativa di Alessandra Kusterman all´interno della clinica Mangiagalli di Milano. È in posti come questo, dove mediamente arrivano cinque casi a settimana, che diventa evidente un altro dato angoscioso: come intrappolate nel loro dolore, il 96% delle donne non denuncia la violenza subita, forse per paura. Forse perché non si denuncia chi si ha amato, forse perché non si hanno le parole per dirlo.
La manifestazione di sabato a Roma vuole spezzare proprio questo silenzio. «Una occasione per prendere parola nello spazio pubblico», come dice Monica Pepe del comitato "controviolenzadonne" che vorrebbe un corteo di sole donne. E Lea Melandri: «Manifestiamo per dire che la violenza non è un problema di pubblica sicurezza, né un crimine di altre culture da reprimere con rimpatri forzati, e che per vincerla va fatta un´azione a largo raggio». Va fatta una legge, concordano tutti. «Speriamo di arrivarci in tempi brevi - promette Alfonsina Rinaldi del ministero per le Pari Opportunità - Oggi abbiamo finalmente le risorse per lanciare l´osservatorio sulla violenza e in Finanziaria ci sono 20 milioni di euro per redarre il piano antiviolenza». «Serve una legge che non cerchi scorciatoie securitarie ma punti a snidare la cultura che produce la violenza - dice Assunta Sarlo tra le fondatrici del movimento "Usciamo dal silenzio" - Una legge come quella spagnola, la prima che il governo Zapatero ha voluto perché riguarda la più brutale delle diseguaglianze causata dal fatto che gli aggressori non riconoscono alle donne autonomia, responsabilità e capacità di scelta. Ecco il salto culturale. Chiediamo che anche da noi il tema della violenza sia assunto al primo punto nell´agenda politica dei governi. Chiediamo un provvedimento che dia risorse ai centri antiviolenza e sistemi di controllo della pubblicità e dei media, cattivi maestri nel perpetuare stereotipi che impongono sulle donne il modello "fedele e sexy". E chiediamo agli uomini di starci accanto, di fare battaglia con noi». Qualcuno si è già mosso. Gli uomini dell´associazione "Maschileplurale", per esempio, che aderiscono alla manifestazione romana. «Sì, gli uomini devono farsene carico. La violenza è un problema loro, non delle donne - dice Clara Jourdan, della "Libreria delle Donne" di Milano, storico luogo del femminismo italiano - Sarebbe ora che cominciassero a interrogarsi sulla sessualità e sul perché dei loro comportamenti violenti. E riconoscere l´altro, il maschile, potrebbe essere utile anche alle donne». Nel caso, a fuggire per tempo.

Repubblica 21.11.07
Sceicchi, modelle e grandi banche il mondo è in fuga dal dollaro
L'oro nero vuol divorziare dal biglietto verde. Cina, Angola & C. puntano sull'euro
di Ettore Livini


MILANO - Tradito da rapper e modelle, snobbato da Warren Buffett, sorpassato persino dal cugino "povero" – il suo omonimo canadese – il dollaro americano si prepara a riscrivere una nuova pagina dell´economia e della geopolitica mondiale. Questa volta, però, non nel ruolo di muscolare attore protagonista, come è successo finora, ma nei panni un po´ inconsueti di star (quasi) sul viale del tramonto. I segnali del declino – prezzi a parte – sono evidenti. La richiesta della supermodella Gisele Bundchen di essere pagata in euro e i videoclip di Jay-Z, il re dell´hi-pop a spasso per New York con valigie gonfie di banconote da 500 euro, sono solo la punta più colorata dell´iceberg. Sotto traccia, invece, si stanno mettendo le basi per una svolta finanziaria più epocale: l´addio al biglietto verde come unica stella polare dei mercati globali.
A dare l´allarme era stato qualche mese fa con la consueta lungimiranza Warren Buffett, annunciando di aver spostato i suoi investimenti a Wall Street verso aziende esposte su valute straniere. Nelle scorse settimane, però, dopo l´ennesimo crollo del dollaro, il fuggi-fuggi è diventato generale. La banca centrale cinese – nei cui forzieri ci sono riserve per 1.500 miliardi di dollari – ha già ventilato l´ipotesi di spostare parte di questo tesoro verso altre monete. Quella degli Emirati Arabi ha già deciso di "cambiare" il 10% delle sue ricchezze valutarie (43 miliardi di dollari) in euro. Progetti simili sono già stati messi in cantiere persino da Ucraina e Angola. Ma il colpo di grazia – una sorta di parricidio – è arrivato dall´Opec, dove gli sceicchi arricchiti dai petrodollari hanno per la prima volta parlato seriamente di slegare il prezzo del greggio dal giogo della moneta Usa. Qualcuno come Venezuela e Iran, l´ha fatto per pura propaganda politica («la fine del dollaro è la fine dell´impero americano», ha sintetizzato Hugo Chavez). Ma questa volta quasi tutti – salvo l´Arabia saudita – hanno ritenuto utile un approfondimento. E a inizio dicembre in un summit straordinario i paesi produttori discuteranno ufficialmente il possibile divorzio tra biglietto verde e oro nero.
L´impietosa legge dei mercati finanziari ha già tratto le sue conclusioni. In finanza le ipotesi attendibili sono spesso catalogate come "quasi certezze". E la sola idea che l´Opec dia l´addio al dollaro (sommata alle voci di nuovi tagli ai tassi Usa) ha messo ancor più sotto pressione la moneta a stelle e strisce in un circuito che si autoalimenta visto che pure i grandi fondi sovrani (quelli controllati dai Governi) potrebbero dirottare 500 miliardi di capitali nei prossimi tre anni dall´area dollaro ad altre valute.
Ma quali possono essere le conseguenze di questa massiccia migrazione valutaria? In America si tende a snobbare il problema. Il ruolo del dollaro – dicono gli economisti – non è in discussione – visto che nell´86% di tutte le transazioni valutarie a passare di mano è ancora il biglietto verde contro il 37% dell´euro e il 16% dello yen. Il mini-dollaro, anzi, per ora è quasi un toccasana: l´export delle aziende Usa è volato ad agosto al record di 138 milioni. E questo boom ha aggiunto al Pil – secondo la Fed – un bel 0,93%, pari quasi all´1,05% limato al prodotto interno dalla crisi dei subprime. Non solo. Il deficit commerciale e quello delle partite correnti – le due palle al piede del bilancio a stelle e strisce – hanno tutto da guadagnare dalla crisi del biglietto verde. E lo smacco del sorpasso da parte del dollaro canadese – salito oltre la parità – è stato compensato dal boom di visitatori da oltrefrontiera: i campioni di football americano dei Buffalo Bills ospitano ormai nel loro stadio oltre il 12% di tifosi canadesi per cui la trasferta di 100 km. da Toronto, grazie al cambio favorevole, è finanziariamente una passeggiata.
E l´Europa? La domanda di euro, la valuta rifugio per i delusi dal dollaro, rischia di far apprezzare ancora la moneta Ue. Mentre la ridenominazione del barile di petrolio rischia di scaricarci sulle spalle d´ora in poi tutti i rialzi del greggio, senza beneficiare – come successo finora – dell´ammortizzatore del biglietto verde. Qualche beneficio potrebbe invece arrivare sul fronte dei tassi. Buona parte delle riserve valutarie delle banche centrali sono investite in T-Bond americani. Solo gli Stati del Golfo, per dare un´idea, hanno in portafoglio 125 miliardi di titoli di stato a stelle e strisce. Fattore che – secondo McKinsey – abbassa di 21 centesimi i tassi di interesse Usa. Se solo un pezzo di questo tesoro traslocherà sul bond europei, i ruoli potrebbero invertirsi, abbassando i rendimenti nel Vecchio continente.

Corriere della Sera 21.11.07
Il bilancio Limiti e contraddizioni del testo entrato in vigore nel 2004
Fecondazione, meno figli
Il calo è di 1.041: effetto della legge 40 Ma aumentano gemelli e prematuri
di Margherita De Bac


Li ricorderemo come gli anni dei trigemini. Bambini nati in un solo colpo, da mamme che temevano di non poterne avere nemmeno uno a causa dell'infertilità. E si sono ritrovate all'improvviso la culla piena, forse più di quanto speravano.
Tra il 2004 e il 2005 i parti-tripletta sono aumentati del 2,7% in controtendenza rispetto al resto del mondo occidentale (1,1%) dove invece si sta cercando di ridurre al minimo gravidanze così rischiose per i protagonisti (mamma e bebè). Non è un caso che parallelamente i nostri nidi si siano affollati di prematuri, venuti alla luce in età gestazionale precoce, sottopeso. Il numero dei trigemini (18 in 6 parti) sarebbe stato ancora superiore se qualche donna non avesse dovuto ricorrere alla riduzione embrionaria, un aborto parziale che consiste nell'eliminazione in utero del feto troppo debole. La responsabilità del fenomeno è racchiusa nella legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita che, oltre a diminuire del 3,6 la percentuale di successo delle tecniche (sono nati circa 1.041 bambini in meno), ha evidenziato molti altri limiti. L'obbligo di impiantare e indirizzare verso la vita gli embrioni ottenuti con fertilizzazione artificiale, fino a un massimo di tre, ha moltiplicato la percentuale di gravidanze plurime, specialmente nelle giovani, sotto i 35 anni, come aveva già rimarcato il rapporto presentato a giugno dal ministro della Salute Livia Turco, bilancio a due anni dall'entrata in funzione della legge. Oltre ai 6 trigemini, ben 167 le coppie di gemelli ai quali si aggiunge un imprevisto lieto evento di quattro bambini, frutto non della violazione di un ginecologo ma di un gioco della natura che ha diviso in due una delle tre sacche gestazionali. Dietro l'analisi epidemiologica c'è dunque una realtà molto meno romantica.
Una donna fecondata con la tecnica Fivet a Salerno, dopo aver ricevuto la bella notizia di essere incinta, ha saputo che due dei tre feti erano portatori di talassemia e ha deciso di abortirli con la riduzione embrionaria. «Un intervento molto pericoloso — stigmatizza Nino Guglielmino, del centro Hera a Catania, una delle cinque cliniche italiane all'avanguardia per la cura della sterilità —. Consiste in un'iniezione di cloruro di potassio nel cuore del feto. La stima è che le interruzioni parziali di gravidanza siano aumentate del 100 per cento». Hera ha dati più aggiornati. Dal 2004 al primo semestre del 2007 solo le gravidanze trigemine sono state 22 contro le 18 contate nei sette anni precedenti. Sei gli aborti totali, dei nati sono sopravvissuti solo la metà. Percentuali più o meno simili al Tecnobios di Bologna. Su 154 fecondazioni con esito positivo in donne sotto i 35 anni, il 12% non sono arrivate a compimento: «Il risultato è opposto a quello che si riprometteva la legge, tutelare la salute di nascituro e della madre. Noi medici dobbiamo utilizzare lo stesso trattamento in modo indistinto per ogni paziente e questi obblighi conducono a vere e proprie forzature della natura. Tanto più che secondo la letteratura internazionale sono più efficaci i tentativi con un unico embrione, selezionato », commenta Andrea Borini. Le ultime speranze di cambiare sono affidate alla revisione delle linee guida della legge 40, su cui sta lavorando il ministro Turco. Ma la regola dei tre impianti contemporanei non può essere cambiata da un atto amministrativo.

Corriere della Sera 21.11.07
Le mete della maternità Crescono le presenze italiane nelle strutture private di Repubblica Ceca, Grecia e Ucraina
Addio Spagna, troppo cara: ora si punta a Est I viaggi delle coppie nelle cliniche low cost
di Monica Ricci Sargentini


MILANO — Il telefono squilla. «La sua donatrice è pronta» dice una voce. E per Patrizia (nome di fantasia) è un tuffo al cuore. Dopo sei tentativi falliti in Italia, una gravidanza extrauterina finita con l'asportazione di una tuba, a 43 anni la vita può ricominciare volando a Brno, nella Repubblica Ceca, per tentare di avere un figlio con gli ovociti donati da un'altra donna. Una tecnica che, a chi non è più giovanissima, dà possibilità di successo molto alte: circa il 60%. Tra mille dubbi e paure. «All'inizio, quando me l'hanno proposto — racconta lei —, ho pensato che era orribile, che non l'avrei mai fatto. Invece poi ero molto convinta ». La scelta del centro cade su un Paese low cost perché il reddito della famiglia è quello che è. Impiegata lei, operaio lui, guadagnano 2.200 euro al mese. Troppo poco per andare nella costosa Spagna dove, tra una cosa e l'altra, si spendono come minimo diecimila euro. A Brno, invece, ne bastano tremila. La metà della somma si paga al primo appuntamento, il resto a transfer avvenuto. Peccato che a Patrizia la prima donatrice salti all'ultimo momento. «Mi hanno detto che era andata in iperstimolo — dice —. Ci hanno voluto riprovare il mese dopo ma non ha prodotto nulla. Uno stress inaudito». Al terzo tentativo la donatrice si dimentica di prendere le medicine. Patrizia perde la pazienza. Rivuole indietro i suoi soldi. «Era successa la stessa cosa ad altre tre coppie. Ero furibonda. Soprattutto con lo Stato italiano che ci lascia soli a scegliere cliniche estere di cui non conosciamo l'affidabilità. È così che tutela la nostra salute? Devo dire grazie solo all'associazione di pazienti Sos Infertilità Onlus». Alla fine il transfer si fa. «Mi hanno mostrato due blastocisti (embrioni al quinto giorno, ndr) ma la biologa le ha portate nella stanza mentre io le vedevo ancora lì sul monitor. La cosa mi è parsa molto strana. Ovviamente non sono incinta».
Tante storie di successi e fallimenti. Ogni anno migliaia di coppie varcano la frontiera per sottoporsi a trattamenti di fecondazione assistita. Nel 2007 sono già state almeno seimila. Chi usa i propri gameti va soprattutto in Austria, in Svizzera o in Belgio. Per l'ovodonazione dipende dal budget. La Gran Bretagna è cara da sempre (e i donatori non sono più anonimi), la Spagna comincia ad esserlo. Sono sempre di più quelli che vengono tentati dai Paesi del-l'Est o dalla Grecia. Anche perché, dopo i primi tentativi in Italia, c'è chi insegue il suo sogno indebitandosi, consumando il Tfr e rinunciando per anni alle vacanze.
Un grosso problema, per quasi tutti, è la lingua. Per questo i centri più affollati sono quelli dove il medico è un connazionale. Al Sanatorium Helios di Brno alle email risponde Martina. All'Ivi di Barcellona tutti vanno pazzi per la dottoressa Cristina Pozzobon. A Bruxelles il dottor Peter Platteau, soprannominato dalle sue pazienti «il mago Platt», ha una moglie, anche lei medico, e una segretaria italianissime. «Spero che poi non mi facciano santo — dice al Corriere
ridendo sul suo nomignolo —. Scherzi a parte, nessun miracolo. Il 70% della mia clientela è italiano, voglio che si senta a casa. È gente spaesata, impaurita. Andare all'estero per loro è un grosso passo». Tale è il suo successo che per avere un primo appuntamento la lista d'attesa è di tre mesi. «È chiaro che i pazienti sono disorientati — spiega al Corriere
il dottor Francesco Fiorentino, direttore del centro diagnosi preimpianto del Memorial Hospital di Istanbul —. Io consiglio di scegliere un centro che abbia una credibilità scientifica internazionale e percentuali alte di successo. Qui a Istanbul si viene soprattutto per la diagnosi preimpianto. La Grecia ha un buon rapporto qualità/prezzo. Bruxelles è ottima. La Spagna, invece, è intollerabile: ha speculato sulla nostra disgrazia, raddoppiando i prezzi dal 2004». E i Paesi dell'Est? «Non mi fido — spiega Fiorentino che è anche direttore di Genoma, un rinomato laboratorio di analisi del Dna —. Ho sentito parlare di centri in Romania e nella Repubblica Ceca o a Kiev, ma il rischio è di buttare via i soldi, oltre allo stress psicologico».
Non è assolutamente d'accordo il professor Herbert Zech, direttore scientifico dei centri Eubios, sparsi in mezza Europa in modo da poter offrire ai pazienti qualsiasi tipo di trattamento a dispetto delle legislazioni restrittive di alcuni Paesi. «La Repubblica Ceca — dice indignato parlando italiano con un forte accento austriaco —, dove facciamo le ovodonazioni, è moderna quanto l'Italia. Basta con questi pregiudizi. Sono persone colte, preparate, organizzate. Voi, invece, avete una legge che è stata dettata dalla Chiesa. I nostri pazienti vengono nel centro di Merano oppure telefonano e poi noi li smistiamo a seconda delle loro esigenze ». Anche madri single e coppie gay? «Per loro abbiamo appena trovato una soluzione splendida — spiega soddisfatto —, una clinica in Belgio dove la pratica non è vietata». La domanda è in crescita esponenziale. «Quest'anno abbiamo avuto quasi 900 coppie — dice Zech —. Il prossimo, sono pronto a scommettere, saranno 1.500». Anche al Centro Procrea, in Svizzera, il flusso degli italiani sembra inarrestabile. Più difficile è stabilire quanti siano ad andare nei Paesi dell'Est perché le cliniche ucraine e ceche sono abbottonate sui dati.
Da Atene alza la voce il dottor Kostas Pantos, del Genesis Hospital: «Mi indigno perché a pagare sono le pazienti. Siamo in Europa. Le frontiere non esistono quasi più.
È stupido che un solo Paese si dia regole del genere ». Di sicuro la legge 40 non ha affatto attenuato il desiderio delle coppie infertili. Nessuno lo dice a voce alta ma l'Italia è sempre più piena di figli dell'eterologa. «Noi gettiamo il cuore oltre l'ostacolo — spiega Arianna, madre di una bimba avuta grazie all'ovodonazione —, il nostro è un gesto d'amore. Dovete accettarci ».
Il medico di Atene
«In Europa le frontiere non esistono più, è stupido che un solo Paese si dia regole diverse Così pagano solo le donne»

Corriere della Sera 21.11.07
Storia Robin Lane Fox e l'attualità del pensiero greco e latino
Se il mondo classico spiega la democrazia e la Guerra Fredda
di Eva Cantarella


Non è facile leggere un saggio di storia con il piacere con cui si legge un bel romanzo: anzi, è molto difficile. Ma è quel che capita a chi inizia a leggere il nuovo libro di Robin Lane Fox, docente di storia antica a Oxford e già noto al pubblico italiano per il saggio su Alessandro Magno, pubblicato da Einaudi, su cui si basa il film del 2004 di Oliver Stone. Il titolo del libro è Il mondo classico. Storia epica di Grecia e di Roma. Nella prefazione, Fox ricorda che, per i romani, i classici erano i cittadini iscritti nella prima classe del censo: e ancora oggi, commenta, l'arte e la letteratura, il pensiero, la filosofia e la vita politica dei greci e dei romani sono «di prima classe». Vien da pensare, leggendolo, che la miglior definizione di classico la diede Tucidide, quando definì la sua opera ktéma es aéi, una ricchezza, un bene destinato a durare per sempre.
Il mondo classico è quello al quale continuiamo a rivolgerci perché, ponendo domande sul presente, aiuta a leggerlo (anche se ovviamente in prospettiva diversa a seconda dei punti di vista dell'interprete). Un esempio, forse il migliore: la guerra del Peloponneso. Durante la Guerra Fredda, la contrapposizione Atene-Sparta era la lente abituale per esaminare la situazione politica. Di recente, è stata usata per giustificare la guerra preventiva e discutere la possibilità di esportare la democrazia. Ma torniamo a Fox: una storia del mondo classico non è impresa da poco, e spesso è di lettura non facilmente digeribile.
La storia di Fox invece appassiona: a scriverla è un grande narratore, e a rendere la sua lettura un vero romanzo (senza nulla togliere alla scientificità della ricerca) contribuisce la scelta del metodo. Dopo aver individuato tre temi cari agli antichi — libertà, giustizia e lusso — Fox segue la loro evoluzione da Omero in avanti, concentrando l'attenzione su Atene del V e IV secolo a.C. e Roma al tempo di Giulio Cesare e Augusto. A legare il tutto, il rapporto tra il mondo classico e l'imperatore più classicheggiante, Adriano.
La libertà, dunque: cominciamo da questa. In Omero significava non essere vinti e asserviti dai nemici; nelle costituzioni cittadine diventa, all'interno della comunità, lo status privilegiato di alcuni, per questo diversi dagli schiavi. Ma cosa voleva dire essere liberi? Avere libertà di parola, o di religione, o di vivere come si voleva? In questo caso, entro quali limiti? Ai tempi di Adriano si discuteva questo tema, controverso non meno di quello della giustizia. Cosa fosse «giusto» fu tema ampiamente dibattuto dai filosofi, così come il sistema che poteva farsene garante: la democrazia ateniese, che la affidava a giurie di cittadini scelti a sorte, o un governante, magari imperatore, come Adriano? E il lusso?
Nonostante le leggi che cercarono di limitarlo, il lusso crebbe nel corso dei secoli: con l'aiuto dell'archeologia, dice Fox, a partire dal lusso si potrebbe scrivere un'intera storia dei cambiamenti culturali. E a proposito di lusso si diverte chiedendosi cosa sarebbe successo se invece del pio, morigerato (e noiosissimo) Augusto, avesse vinto Marcantonio: Orazio non sarebbe stato costretto a scrivere le sue poesie moraleggianti, Ovidio non sarebbe morto in esilio… Fox può permettersi anche di divertirsi con la storia fatta con i «se». Ma attenzione, non scrive solo di lusso e delle
élite. I mondi presi in esame sono analizzati da molti punti di vista. Del mondo arcaico, ad esempio, non illustra solo pratiche aristocratiche come il simposio o la pederastia.
Descrive la nascita delle colonie greche, soffermandosi sulla cultura e la mentalità di chi le abitava, sui loro culti. Parla dei tiranni e delle prime leggi.
Ultima osservazione: a differenza dalle storie che, in misura diversa, presentano il mondo classico in una sorta di vuoto, che cancella i molti debiti verso le altre civiltà, quella di Fox inizia ricordando che «i greci e i romani presero molte cose in prestito da altre culture, l'iraniana, la fenicia, l'egizia e l'ebraica, per citarne alcune». Piace particolarmente, una simile posizione, in un momento in cui una parte sia pur minoritaria della storiografia sul mondo antico è passata dal rifiuto (finalmente!) di ammettere i debiti verso l'Oriente, all'eccesso opposto di diminuire (nei casi estremi negare) la grandezza delle conquiste intellettuali della Grecia e di Roma.

il manifesto 21.11.07
«Hanno usato i nostri figli come cavie umane»
Giornata mondiale dell'infanzia Nigeria, sperimentazione killer. I bimbi africani vittime di Big Pharma
di Stefano Liberti


Nel 1996, la casa farmaceutica Pfizer è andata nel nord della Nigeria per testare un nuovo farmaco su 200 bambini malati di meningite. Undici sono morti, molti altri hanno subito danni permanenti. Dopo undici anni, il governo di Abuja ha fatto causa all'azienda Usa. Che si difende: «Siamo andati lì solo per fare del bene»

Kano (Nigeria). «Lo hanno preso e chiuso in una stanza. Gli hanno dato quel farmaco e me lo hanno ridotto in queste condizioni». Mustapha Mohammed ancora si infervora quando pensa a quei giorni terribili di undici anni fa. La sua città era in preda a una spaventosa epidemia di meningite. Uomini, donne e bambini si ammalavano e morivano come mosche. Una mattina suo figlio Anas, che all'epoca aveva tre anni, ha accusato i sintomi della malattia. Lui lo ha portato immediatamente all'ospedale. «Lì, c'erano quei medici bianchi», ricorda furente Mohammed. «Mi hanno detto che lo avrebbero curato e lo hanno chiuso in una stanza. Da allora, è così: ha mantenuto lo sviluppo mentale di un bambino».
Siamo a Kano, nel nord della Nigeria, in un quartiere anonimo incuneato tra strade polverose al centro delle quali scorre a cielo aperto lo scolo delle fogne. Accanto al padre, Anas annuisce ma non sembra molto padrone dei suoi pensieri. Ha il volto esile, lo sguardo sperduto, i movimenti rallentati. Parla per monosillabi. Il ragazzo, che ora ha quattordici anni, ha il non invidiabile record di essere stato il primo ad essere stato arruolato per il test sperimentale di un farmaco - il Trovafloxacin, più comunemente detto Trovan - per il quale la casa farmaceutica statunitense Pfizer cercava l'autorizzazione da parte della Food and Drug Administration (Fda). Un test che, secondo i parenti dei bambini coinvolti, è stato condotto con l'inganno, senza fornire la minima informazione e senza ottenere quindi il necessario consenso informato.
Un farmaco da un miliardo di dollari
È il 1996. L'epidemia di meningite infuria a Kano, trascinando panico e morte. Gli ospedali sono presi d'assalto. I morti sono più di 10mila; le persone infettate circa 100mila. Questa ecatombe non trova grande spazio sulla stampa occidentale. Ma la notizia raccoglie un qualche interesse negli uffici della Pfizer. La situazione rappresenta un'occasione d'oro per sperimentare il Trovan, un farmaco il cui potenziale valore di mercato è stimato intorno al miliardo di dollari. I responsabili dell'azienda decidono di cogliere la palla al balzo: tra i possibili usi terapeutici del medicinale c'è anche la cura della meningite. Viene organizzato in fretta e furia un team: un aereo charter è spedito a Kano e, pochi giorni dopo, la sperimentazione ha inizio. I medici della Pfizer isolano un reparto dell'Infectious Disease Hospital (Idh) della cittadina nigeriana, l'ospedale in cui si concentrano i pazienti e vengono fornite le cure da medici statali e da un'équipe di Medici senza frontiere. Selezionano duecento bambini per il test. A cento danno il Trovan, agli altri un antibiotico approvato a livello internazionale.
Alla fine del test, 11 bambini muoiono; molti altri subiscono malformazioni permanenti. Difficile dire se il nuovo farmaco - o la mancata somministrazione di un antibiotico di tipo classico - abbia avuto un ruolo attivo in questo disastro. Ma sta di fatto che, dopo la sperimentazione, la Fda consente la somministrazione del Trovan solo agli adulti, prima di restringerne pesantemente l'uso. In Europa il Trovan non riceverà mai l'autorizzazione di vendita. Alla fine, la Pfizer lo ritirerà dal mercato mondiale.
«Finalità umanitarie»
La vicenda rimane sepolta per alcuni anni, ignorata sia all'opinione pubblica nigeriana che dai pazienti coinvolti. Finché, nel 2001, grazie alla ricostruzione di un giornalista del Washington Post, diventa di dominio pubblico. L'articolo del quotidiano statunitense suscita un polverone a Kano: i parenti dei bimbi morti o rimasti deformi protestano. Accusano la casa farmaceutica di averli ingannati. Intentano una causa contro la Pfizer. Quest'ultima ribatte che i suoi ricercatori sono andati in Nigeria solo con finalità umanitarie «per combattere l'epidemia». Sotto la pressione dell'opinione pubblica, il governo nigeriano affida un'inchiesta a un gruppo di esperti medici. Il team produce un rapporto, che punta l'indice contro l'azienda. Gli esperti affermano che la casa farmaceutica non ha mai ottenuto l'autorizzazione dal governo nigeriano per condurre le sperimentazioni. Il test - sostiene il documento - «è stato un chiaro caso di sfruttamento dell'ignoranza». La commissione conclude dicendo che la Pfizer ha violato la legge nigeriana, la dichiarazione di Helsinki sui principi etici nella ricerca medica e la convenzione delle Nazioni unite per i diritti del bambino. Gli esperti raccomandano che la Pfizer venga «adeguatamente sanzionata».
Ma nulla accade. Il rapporto è insabbiato. La causa intentata dai parenti delle vittime contro la Pfizer non ha seguito. «Troppa gente potente era coinvolta in quella storia. Probabilmente dalle alte sfere si è deciso di non intervenire», sostiene Ismayl Zubairi, un politico di Kano che nel 1996 lavorava all'Idh come infermiere. «La Nigeria è un paese estremamente corrotto. E poi all'epoca c'era una dittatura militare. È possibile che la Pfizer abbia ottenuto le autorizzazioni dal governo. Ma io ero là e di una cosa sono sicuro: non hanno mai informato i pazienti».
Zubairi, che ha anche perso un fratello nel test della Pfizer, non ha alcun dubbio. A distanza di undici anni, non ha dimenticato quei giorni. «Mio fratello ha preso quel farmaco. Poi ha perso l'uso delle gambe. Infine, dopo tre giorni, è morto. Tutti i bambini coinvolti nel test della Pfizer hanno accusato effetti collaterali simili». Il suo racconto riecheggia quello di decine di altri genitori che hanno visto i propri figli morire, diventare storpi o sordomuti. O più semplicemente trasformarsi in vegetali, come Firdausi Madaki. La ragazza - un volto inerme dietro un paio di occhi privi di espressione - ha dodici anni. Ne aveva appena uno quando si è ammalata di meningite e la madre l'ha portata all'Idh, dove è stata presa in cura da «quei medici bianchi». Incapace di muoversi, di parlare, persino di bere o mangiare da sola, oggi trascorre le sue giornate nel cortile della misera casa dei genitori, sbattuta su una stuoia. Non riesce neanche a coordinare i movimenti delle mani per scacciare i nugoli di mosche che le si ammassano sul volto. La madre Abu ha lo sguardo tenace, ma quando pensa a questa figlia senza futuro non riesce a trattenere le lacrime. «Che posso fare? Anche i miei parenti mi hanno abbandonato. Spendo tutto quello che ho per il mantenimento di mia figlia. E poi, che ne sarà di lei? Che vita potrà mai avere?», dice tra i singhiozzi.
Il processo ha inizio
Dopo undici anni, nel maggio scorso il governo federale nigeriano e il governo dello stato di Kano hanno deciso di passare all'azione. Hanno citato in giudizio la Pfizer in quattro procedimenti distinti per aver condotto il test senza permesso, chiedendo un risarcimento complessivo di otto miliardi di dollari e mezzo. Ora il processo va avanti, con i tempi della giustizia nigeriana. E i parenti dei bambini morti o malati sperano di ottenere qualche indennizzo.
Ma alla causa farmaceutica ostentano tranquillità. «Abbiamo fatto tutto secondo le regole. Abbiamo almeno dodici lettere di autorizzazione da parte delle autorità nigeriane», si giustifica il dottor Jack Watters, responsabile dei test clinici condotti all'estero. Quanto al consenso informato, il dottore è perentorio: «I genitori sono stati debitamente informati delle caratteristiche del test e hanno dato la loro approvazione. Posso solo immaginarmi che non lo ricordano perché, in una situazione come quella, in cui i loro figli gli stavano morendo tra le braccia, erano probabilmente sottoposti a uno stress gigantesco».

il manifesto 21.11.07
24 novembre, in piazza senza uomini
di Eleonora Martini


A Roma per la manifestazione nazionale contro la violenza maschile e il patriarcato torna il separatismo, sia pure per un giorno. Ma la storia, assicurano, non si ripete mai

Una manifestazione «di donne per le donne». Torna il separatismo, sia pure per un solo giorno e senza ismi, assicurano le giovani promotrici del corteo nazionale di Roma fissato per sabato 24 novembre contro la violenza maschile. Lo scopo è quello di «affermare un nuovo protagonismo delle donne», che da «vittime si fanno soggetto in lotta», relegando gli uomini per un giorno ai margini e non al centro. «Nemici», in quanto portatori di una cultura di violenza, patriarcale e maschilista. Soggetti non da educare ma con i quali va aperto un «conflitto» simbolico. Ai quali è lecito quindi «togliere per un giorno la parola» lasciandoli a guardare e ad ascoltare quel che le donne hanno da dire. Per «riconoscere il valore del protagonismo delle donne». Un modo «anche questo per comunicare», dicono. Non una scelta definitiva, però: perché dal giorno dopo la comunciazione può riprendere il doppio binario.
Di primo acchito l'impostazione scelta dalle tante promotrici - singole, associazioni, collettivi - del corteo nazionale del 24 novembre ha un sapore un po' retrò. Eppure la storia di solito non si ripete ed è quindi tutto da scoprire il percorso di queste donne (predominante è la generazione delle trentenni) che hanno convocato l'appuntamento durante un paio di assemblee aperte e spontanee organizzate in un periodo in cui la cronaca quotidiana «di vite femminili spezzate per "amore" di padri, fidanzati o ex mariti» veniva trattata dai media come eventi «ineluttabili» in quanto attribuibili alla devianza dei singoli. E la politica rispondeva come al solito con un approccio securitario e repressivo. Mentre ovviamente per le promotrici della manifestazione «stiamo ormai assistendo impotenti ad un grave arretramento culturale, rafforzato da una mercificazione senza precedenti del corpo delle donne».
Il dibattito «uomini sì/uomini no» è stato fin da subito molto acceso anche se poi è andato via via placandosi lasciando il posto ad un «rispettoso confronto» tra posizioni diverse. Tra le più critiche alla scelta separatista senza dubbio la Rete delle donne di Bologna e il movimento Usciamo dal silenzio di Milano. Su posizioni più possibiliste o addirittura sostenitrici, tutte le altre: i collettivi femministi delle aree radicali, dei centri sociali, quelli universitari, i comitati di lesbiche, i centri antiviolenza. Ma anche le donne del forum di Rifondazione, di Sinistra critica e del sindacato. Nell'appello di convocazione si auspica «una grande manifestazione dove tutte le donne possano scendere di nuovo in piazza a fianco delle donne vittime di violenza e per i diritti delle donne» e che deve «riportare il tema al centro del dibattito culturale e politico» italiano.
Tra le moltissime adesioni pervenute(controviolenzadonne.org) in tanti esprimono, sia pure in punta di penna, qualche perplessità. Un esempio è l'Arcigay che pur non condividendo la scelta porterà in piazza soltanto le donne omosessuali associate che chiedono però di non dimenticare nella piattaforma «lo specifico delle violenze perpetrate con radici e modalità simili, ma non per questo identiche, nei confronti delle lesbiche».
Per le donne di Sinistra critica la scelta separatista è da condividere «non per il gusto di escludere gli uomini su una tematica che li coinvolge direttamente, ma per affermare una soggettività autonoma e libera delle donne, che rifiuti il ruolo di vittime da proteggere e parli in prima persona, senza deleghe», come scrivono in un appello. Un percorso questo, dicono convinte, che non è una riedizione del passato ma una storia tutta da scrivere.

Liberazione 20.11.07
Terremoto Berlusconi
di Rina Gagliardi


Di primo acchito (di "pelle"), il Berlusconi che in mezzo a una folla delirante, in una piazza come quella di San Babila, domenica sera, annunciava la nascita di un "Partito del popolo delle libertà" e mimava, a decenni di distanza, Juan Domingo Peròn, poteva apparire ridicolo. Così come poteva apparire un po' ridicolo e sorpa le righe il Berlusconi che ieri, in conferenza stampa, ha annunciato la fine del bipolarismo e l'apertura di una nuova stagione politica con la messa in soffitta della seconda Repubblica. Come, più o meno tredici anni fa, apparve ridicolo quando nacque Forza Italia nella forma di una fiction televisiva di cattivo gusto promettendo un "nuovo miracolo italiano", e quando l'Italia democratica, progressista, illuminista pensò che sarebbe durato lo spazio di un mattino, giacché i partiti politici non si inventano come una marca di merendine e nemmeno come un business di edilizia speculativa. Ma, come allora ci sbagliammo di grosso, anche oggi faremmo un errore colossale a sottovalutare l'ultima sceneggiata del Cavaliere. Dobbiamo sapere, invece, che siamo di fronte a un vero e proprio terremoto politico: della destra, in primo luogo, come è ovvio, ma forse dell'intera politica italiana.
Che cosa si propone di fare, Silvio Berlusconi? Al fondo, nulla di diverso da quello che si proponeva di fare, tredici anni fa, con Forza Italia: un partito populista, costruito sul rapporto diretto tra il capo assoluto (lui) e larghe masse scontente, deluse dalla politica, dai politici e forse dalla democrazia tout court, abbacinate dal fascino del potere e della ricchezza. Solo che tredici anni anni non passano invano.
Ora Berlusconi lancia con maggior determinazione un partito che non è un partito, nel senso che non contempla e non prevede quasi nessuna delle modalità che caratterizzano una formazione politica: apparati, regole, statuti, congressi, classe dirigente intermedia, burocrazia. Da questo punto di vista, la sua è una risposta furba, furbissima, dal suo punto di vista molto "appropriata", alla furiosa ondata "antipolitica" che è in corso da mesi e che il Cavaliere punta a cavalcare interamente - tornando, appunto, allo spirito originario del '94, quando la prima Repubblica vacillò sotto i colpi congiunti dell'ottantanove e di Tangentopoli e vacillò lo stesso tessuto della democrazia repubblicana. Ora, però, ci torna con un approccio ben più aggressivo, ultimativo, totalizzante - "berlusconicentrico". E con un "ecumenismo programmatico" più accentuato - in questo, ma non solo in questo, Berlusconi ha imparato rapidamente la lezione di Walter Veltroni, anche se naturalmente la volge nella sua direzione e la piega alla sua cultura, che resta liberista, conservatrice, insomma padronale.
Di nuovo, certo, c'è anche dell'altro: la mossa di queste ore, che era sicuramente meditata da tempo e preparata accuratamente, è anche e soprattutto la risposta ad una sconfitta politica grave e al rischio di una dèbacle definitiva. Per anni, come non ci siamo stancati di scrivere, il Cavaliere ha oscillato tra populismo e liberismo, tra le sue spontanee pulsioni plebiscitarie (e talora francamente eversive) e il ricettario neoliberista e monetarista, dettatogli dai poteri forti, riuscendo a vincere, e a durare, tutte le volte che è riuscito a realizzare una miscela equilibrata tra queste due componenti: la Casa delle libertà è stata in realtà la costruzione necessaria per questo obiettivo, e non a caso ha messo insieme un bel pezzo di politici di professione (dalla Dc, dal Msi sdoganato e riciclato, dal craxismo) e di homines novi (la Lega e non solo). Ora, come del resto avevano già fatto capire alcuni segnali corposi (come quello dei circoli della libertà affidati alla signora Brambilla), è proprio questa costruzione ad essere, se così si può dire, mandata in liquidazione. Non è solo questione di contrasti e differenze macroscopiche evidenti, consumate da un pezzo sia con l'Udc che con Alleanza nazionale. Non è solo il fatto che Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini sono (ambedue) arrivati ad un'età nella quale non si possono più consentire di fare gli eterni secondi o terzi della coalizione. C'è che l'era dei colonnelli e dei boiardi è finita per sempre, così come è finita l'era delle coalizioni, delle mediazioni, delle coabitazioni forzate: il mutamento di dimensione strategica è esplicito, il passaggio (soltanto promesso?) è quello di un repulisti radicale del personale politico e parlamentare della Cdl, nel frattempo invecchiato, imbolsito, "professionalizzato" in tutto e per tutto. E già, in queste ore, il vecchio centrodestra si spacca, si scompone, si smarrisce - Berlusconi ha già inghiottito la Destra di Storace, dopo averla aiutata a nascere, e inghiottirà rapidamente tutti i "piccoli".
Poi, certo, c'è la difficoltà della partita tattica. Finita, consumata, sconfitta l'idea della "spallata", comunque dell'opposizione totale al governo Prodi, comunque della caduta entro l'anno del governo stesso con elezioni anticipate alla prossima primavera, si apre adesso, quasi giocoforza, una fase di "dialogo" istituzionale incentrata sulla riforma elettorale. Dopo la conferenza stampa di ieri sera, alcune cose sono chiare e forse inaspettate. La prima è la fine del bipolarismo, evento da alcuni mesi ormai chiaro, ma che nessuno aveva proclamato in modo così netto e definitivo; la seconda è l'accettazione del dialogo con la maggioranza e persino della "conservazione" del governo Prodi; la terza è il rilancio del proporzionale senza premio di maggioranza, e dunque la riapertura dei giochi parlamentari e il ritorno, prepotente, del centrismno e di ipotesi di accordi di governo trasversali tra forze del centrosinistra e del centrodestra. Si prefigura comunque uno scenario molto aperto e, ovviamente, molto confuso - ma assolutamente diverso anche da quello recente. Per orientarci, dobbiamo aspettare di vedere, in Parlamento e segnatamente al Senato, la concreta fisionomia che assumerà la ormai ex-Casa delle libertà,
Restano un paio di questioni da chiarire: che cosa sarà, davvero, la nuova creatura berlusconiana, di quali idee (si fa per dire) si farà portatrice, quali consensi effettivi riuscirà a conquistare. E, domanda capitale: a quali interessi forti farà riferimento, con quale concreta dialettica con i medesimi. Tutti interrogativi che il corso delle cose dovrebbe chiarire. Presto.

Liberazione 21.11.07
Sul tappeto, adesso, c'è la questione della grande coalizione
di Piero Sansonetti


Sul tappeto, adesso, c'è la questione della grande coalizione. Silvio Berlusconi l'ha imposta, e sembra avere in mano le carte per gestirla, da una posizione di forza. Secondo voi la svolta del 18 novembre è stata pura manovra politica e avrà conseguenze esclusivamente sul teatro politico? Credo di no. L'impressione è che la svolta del 18 novembre nasca subito dopo la sconfitta elettorale della primavera del 2006, o forse prima ancora, quando Berlusconi si batteva nell'impresa impossibile di recuperare, in campagna elettorale, quei dieci punti di distacco dal centrosinistra che i sondaggi gli attribuivano e che alla fine, praticamente, svanirono. E' da allora che Berlusconi si pone un problema fondamentale: quello di riunificare la borghesia italiana - uscita sbandata e divisa dagli anni di Tangentopoli e dalla fine del binomio Dc-Craxi - e di ridarle una guida che smonti la costruzione precedente, quella Fiat-centrica. Berlusconi è impegnato in questa impresa da molto tempo, e una tappa del suo cammino - ve la ricorderete - fu la famosa assemblea degli industriali a Vicenza (alla vigilia delle elezioni del 2006) quando mandò a quel paese Montezemolo e Della Valle. Lo scontro tra la borghesia che fa capo a Berlusconi e quella che fa capo alla Fiat (oggi di Montezemolo) ha avuto molte fasi negli anni scorsi, è stato in alcuni momenti molto duro, e ha visto la borghesia "montezemolina" ondeggiare indecisa, e di volta in volta schierarsi col centrosinistra, pentirsene, chiedere la cacciata dalla coalizione della sinistra, puntare - attraverso la scesa in campo di grandi personalità indipendenti, come Mario Monti, o Mario Draghi, o altri ancora - alla gestione diretta della politica eccetera eccetera. E alla fine - questo si intuiva dalle pagine del Corriere della Sera - sembrava essere giunta alla conclusione che l'unica via d'uscita potesse essere una soluzione centrista, e dunque di grande coalizione, che prevedeva un armistizio coi berlusconiani.
Il cavaliere però non ama entrare a far parte di complessi giochi politici altrui. Ama guidarli. E così ha sorpreso tutti ed è stato lui ad assumere la guida di una vasta operazione neocentrista e di grande coalizione. Questo è il senso della svolta di novembre. Che non è affatto una svolta di plastica.
E' piuttosto un'operazione che mira a una stabilizzazione dell'Italia e dei suoi gruppi dirigenti, e all'affermazione di una politica forte e di lungo respiro sia sul piano economico, che su quello sociale e della organizzazione civile. La grande coalizione che ha in mente il cavaliere non è una formula politica, è una ipotesi di governo. Che vuole unificare la parte più moderna e spregiudicata della destra italiana, e i settori più avvertiti del liberismo (che Berlusconi ritiene di poter rappresentare) con un pezzo del vecchio schieramento riformista, che dopo la nascita del Pd si è spostato su posizioni fortemente moderate, sia in politica economica, sia nell'organizzazione dei diritti, sia dal punto di vista dell'ordine pubblico e del contenimento delle libertà collettive e individuali. Berlusconi è convinto di potere essere lui il garante di questo patto, e di poterlo fare anche attraverso la mediazione di un partito forte, populista e moderato, e di poter mettere a frutto - è lì la sua grande capacità di stratega - tutto il lavoro compiuto in questi anni dagli avversari, e cioè dalle forze di centrosinistra che hanno dato vita al Pd.
A molti è sfuggito un articolo importantissimo scritto sul Corriere della Sera , qualche giorno fa, da Pietro Ichino. Il quale spiegava che in questo frangente della crisi italiana, né i liberisti né i cosiddetti riformisti hanno la possibilità di farcela da soli. Ichino proponeva un modello politico-sociale che prevede la piena libertà del mercato, la sua centralità, e dunque una società interamente (e anche ferocemente) liberista sul piano economico (e di questo dovrebbe essere granate e tutrice la destra politica), ma che al tempo stesso si doti di una organizzazione dello Stato che imponga ordine e gerarchia e poi consenta il "salvataggio" degli ultimi, degli emarginati. Attraverso l'assistenza. Pietro Ichino suppone che questo secondo compito spetti alla cultura riformista e sottintende che fa parte del programma del Pd.
Ecco, il neo-berlusconismo - credo - è qualcosa del genere. E il progetto di grande coalizione ha questa sostanza e questa ambizione.
Berlusconi ha in mano molte carte per realizzare il suo disegno. Credo però che questo disegno possa essere contrastato - o comunque limitato, condizionato, indebolito, modificato - solo se a contrapporsi all'alleanza tra le forze politiche immaginata dal cavaliere, ci sarà una forza consistente di sinistra. Minoritaria ma robusta, e con delle idee. Che metta al centro della battaglia politica un suo progetto diverso di società, concreto, realizzabile, che indichi come un paese possa organizzarsi e crescere non solo attraverso la competizione, il mercato, la meritocrazia (cioè il liberismo), ma anche - alternativamente - con una idea di collaborazione, di solidarietà, di socialità, di uso dello Stato per governare l'economia, per distribuire il benessere, per realizzare i beni comuni. Non è che questa ipotesi di sinistra la si possa mettere in cantiere per i futuri anni venti o trenta: servirebbe da domani mattina. Se la sinistra non capirà la portata del colpo di scena berlusconiano, e non saprà misurarsi a questo livello nel campo della battaglia politica, subirà una sconfitta storica inimmaginabile. E l'Italia prenderà una china prima moderata e poi, sicuramente, reazionaria. Di fronte a noi ci sono due scelte: quella di restare a trastullarsi con le diatribe tra i piccoli partiti, sulle tattiche, sui tempi, sulle insegne; oppure quella di capire che tutte le grande questioni (da quelle del lavoro, del salario, a quelle del sesso, a quelle dei diritti civili, dei diritti legali, del razzismo) sono all'ultima chiamata. E pretendono una risposta forte e unitaria, e non solo lamenti. Se non ce la facciamo adesso non ce la facciamo più.