venerdì 23 novembre 2007

l’Unità 23.11.07
Polemiche. L’embrione dell’Avvenire
di Carlo Flamigni


Colpisce l’entusiamo con il quale l’Avvenire ha accolto i recenti risultati sulle staminali adulte
Ma quei risultati non sono forse stati ottenuti proprio grazie a ricerche sugli embrioni?

Non dico di essere commosso, ma certamente sono molto colpito dall’entusiasmo che alcuni commentatori cattolici dimostrano nel presentare, su Avvenire e su altri giornali, le ultime novità della ricerca sulle cellule staminali. Si è letteralmente messa in moto una gioiosa macchina da guerra (che importanza ha che si tratti solo di soldatini di latta? Importanti sono l’entusiasmo e la buona fede), e la fresca ingenuità degli articoli fa passare in secondo piano il fatto che questa stampa cerchi di ammannirci un numero incredibile di inesattezze, che ignori alcuni dei punti più importanti della questione, che citi solo quello che conviene, insomma, che rappresenti un esempio luminoso del giornalismo più indecoroso e insincero.
Un signore che non conosco, tale Luc Volonté, ha persino scritto che a questo punto dovrei chiedere scusa agli italiani (a tutti? anche agli embrioni?). Il signor Volontè, che immaginavo di origini francesi, è invece un italiano che sa poco di biologia e del quale si cita una iniziativa contro un fantomatico «Monte dei Maschi di Siena», la maggiore banca del seme italiana (ma secondo me è una calunnia). A mio avviso dovrebbe chiedere scusa lui all’italiano per aver usato la parola «occisivo» alludendo alla fecondazione assistita.
Riassumo per i meno attenti. Tutti ricorderanno la diatriba che riguarda le cellule staminali, i cattolici appassionatamente dedicati a sostenere la ricerca sulle staminali “adulte” e a ricordarci con tediosa insistenza che l’embrione è uno di noi, che la ricerca sulle staminali embrionali sacrifica migliaia di esseri umani, magari un po’ piccoli, ma sempre uguali a noi esseri umani adulti, gli altri a sostenere che le cellule staminali embrionali sono, tra tutte, le più dotate della potenza indispensabile per trasformarsi in cellule dei più diversi tessuti. Tra le molte critiche che i bioeticisti cattolici hanno avanzato nei confronti dell’impiego delle staminali embrionali, ne cito al momento solo una: si tratta di esperimenti pericolosi perché nella loro attività proliferativa le staminali embrionali comprendono anche un possibile sviluppo di tumori.
Ora, scienziati di due differenti équipes, una giapponese e una americana, hanno ottenuto cellule staminali molto simili a quelle embrionali partendo da linee cellulari adulte prelevate dalla pelle (quindi non da cellule staminali) sia umana che di animali da esperimento. Per ottenere questo risultato hanno inserito nelle cellule le copie di quattro geni (presenti nel corso dello sviluppo embrionale, ma inattivi nelle cellule differenziate adulte) affidati a un retrovirus che si è comportato da vettore. Una volta riattivati, i geni hanno ricostituito nelle cellule una condizione di pluripotenza indistinguibile da quella delle cellule staminali embrionali, consentendo loro di trasformarsi nelle cellule di qualsiasi tessuto umano. Nella sperimentazione fatta sul topo, queste cellule sono state trasferite all’interno di una blastocisti (un embrione giunto al quinto giorno di sviluppo) e hanno contribuito alla formazione di topi chimerici, essendo presenti persino nelle cellule germinali.
Leggere i titoli dei giornali cattolici è una vera esperienza di vita: «Scienza, uccidere non serve»; «Spazzato via l’alibi di chi distrugge embrioni»; «È ideologico perseverare sugli embrioni». La lettura degli articoli è ancora più appassionante: si va da un benevolo «Chi insiste su questa strada lo fa per interessi diversi da quelli scientifici» a un ingenuo «Bye Bye Dolly», apprezzabile perché supplisce alla scarsa cultura con un simpatico entusiasmo.
Poi uno va a leggere un po’ meglio i resoconti e le interviste, e scopre che sia il giapponese (Yamanaka) che l’americano (Thomson) hanno dichiarato che questi progressi della ricerca scientifica non tolgono nulla all’importanza delle ricerche sulle cellule staminali prelevate dagli embrioni, che continueranno; scopre che entrambi affermano che questi sono risultati preliminari e che bisogna avere molta pazienza prima di poter dare per dimostrato che esiste una applicazione pratica di queste scoperte; che queste cellule hanno la capacità di indurre la comparsa di tumori (ma non era il più straordinario degli ostacoli all’uso delle cellule staminali embrionali fino a ieri?); che bisogna ancora apprendere come poter distinguere con certezza le cellule staminali embrionali da quelle create grazie al nuovo metodo scientifico; che non è ancora sufficientemente chiaro se queste cellule siano analoghe a quelle prelevate dalla massa cellulare interna della blastocisti (in questo caso sarebbero pluripotenti) o piuttosto simili ai blastomeri delle morule (e in questo caso si tratterebbe di cellule totipotenti, cioè di embrioni, e allora che cavolo mi state a raccontare? siamo punto e a capo).
A me sembra che la cosa più interessante che risulta da queste ricerche è il riconoscimento della fondamentale importanza delle cellule staminali embrionali, comunque ottenute: la ricerca sulle cellule staminali embrionali è più importante di quella sulle staminali adulte. Quale sarà poi il miglior metodo per ottenerle, lasciamo che ce lo dica il tempo, i ricercatori si adegueranno alla sperimentazione più semplice e meno costosa, nessuno di loro è matto e anche i Frankestein, all’interno del loro sparuto gruppo, sembrano distratti da altre preoccupazioni (capire per esempio dove sono andati a nascondersi tutti quegli uomini politici e quegli scienziati che hanno sempre cercato di sostenere le loro - legittime - riserve etiche raccontando in giro che la ricerca sulle staminali embrionali non serviva a niente e che era più che sufficiente quella sulle staminali adulte).
Vorrei comunque alcuni chiarimenti, da questi simpatici festaioli (è generico, tra loro ci sono anche distinte signore). Anzitutto vorrei conoscere le ragioni di tanta sorpresa e di tanti elettrizzati peana di vittoria: se non ricordo male il professor Vescovi, aveva già superato tutti i motivi di questi contrasti etici quando (Science, 1999) aveva dichiarato di poter trasformare le cellule staminali adulte del cervello in sangue, avendo scoperto che le adulte erano altrettanto pluripotenti quanto le embrionali al punto da rendere queste ultime inutili. In ogni caso, se questa è la via da seguire, quella da chiudere con urgenza è la strada lastricata d’oro del trapianto di cellule staminali adulte prelevate da aborti spontanei, mai caratterizzate, mai validate, sulle quali i ricercatori cattolici e gli atei compunti sembrano insistere tanto. In terzo luogo, vorrei tanto sapere come mai non ha più nessuna importanza, per tanti bravi cattolici, la famosa cooperatio ad malum in nome della quale, fino a non molto tempo fa, venivo brutalmente zittito nei pubblici dibattiti. Capisco che la cosa può sembrare misteriosa, ma non è così, ve la spiego rapidamente. Questo concetto si basa sul principio della cosiddetta complicità indiretta: se qualcosa deriva da una catena di eventi che inizia con un atto moralmente eccepibile, tutti i suoi anelli sono macchiati dalla immoralità originaria, non importa quanto grandi siano i benefici e indipendentemente dal fatto che l'atto immorale iniziale sia stato o no condannato da chi ha potuto fruire di questi vantaggi, perché l’immoralità, il disvalore, si trasferisce dal primo atto eticamente condannabile a tutti gli atti successivi. È possibile che questo trasferimento di colpa implicita si arresti in un qualsiasi stadio della catena di indagini, così che da quel momento in avanti chi trae vantaggio dai risultati possa essere considerato esente da colpe morali? Non ne sono sicuro, ma immagino che la risposta dipenda da molte cose, come la gravità dell’atto, il carattere determinante della cooperazione, la natura dei benefici e il fatto che essi siano così importanti da incoraggiare la ripetizione dell’atto immorale iniziale. In ogni caso, ritengo che sarebbe immorale utilizzare una conquista scientifica che si fosse basata su ricerche eseguite dai criminali tedeschi nei campi di concentramento. In ogni caso, la Pontificia Accademia per la vita ha condannato non solo la possibilità di utilizzare le cellule staminali embrionali, ma anche la loro progenie cellulare e ciò perché esiste «cooperazione materiale prossima nella produzione e nella manipolazione degli embrioni umani da parte del produttore o fornitore»: è complicità indiretta, cooperatio ad malum.
Che nessuno per favore mi venga a raccontare che gran parte delle conoscenze che hanno consentito a Thomson e a Yamanaka di ottenere i risultati dei quali discutiamo non derivano da studi eseguiti sugli embrioni, studi dei quali Thomson è particolarmente esperto, studi che Yamanaka continuerà a condurre per accumulare ulteriori conoscenze. Quindi, come la mettiamo? Uccidere non serve (forse) più, abbiamo già dato? O la religione cattolica ha deciso di adeguarsi, di non prendere troppo di petto questo mondo inquieto e incerto e di inserire, tra i propri comandamenti, anche un bel “scurdammoce o’ passato”?
Leggo, tra le richieste dei bioeticisti cattolici, anche quella di sospendere i finanziamenti delle ricerche sulle staminali embrionali (ma non è un suicidio? Anche quelle di Yamanaka sono, adesso, staminali embrionali!), ma su questo punto ritornerò, ho bisogno di spazio. Per il momento mi limito a riproporre ai bravi cattolici la questione che ho già presentato loro in un precedente intervento su questo giornale: come mai i vescovi irlandesi si sono dichiarati tutti favorevoli a modificare la norma costituzionale che prevede la protezione dell’embrione a partire dal concepimento spostando l’inizio di questa tutela al momento in cui l’embrione si impianta? In altri termini, come mai i buoni vescovi irlandesi hanno scelto di privare di protezione l’embrione fuori dal grembo materno, autorizzando implicitamente la produzione di cellule staminali dalla blastocisti e altre consimili porcherie? Non ci saranno, in seno al Vaticano, eretici e miscredenti che si sono lasciati contagiare da queste o da altre teorie diaboliche? Non sarebbe poi così strano, tutte le dittature creano qualche forma di resistenza, perché la dittatura dell’embrione dovrebbe fare eccezione?

l’Unità 23.11.07
Anche i finanziamenti hanno un’etica: stabiliamo un metodo, oggettivo e rigoroso, per decidere chi ne può beneficiare
Staminali, quando una commissione sui fondi?
di Maurizio Mori *


Gentile ministro Turco,
la recente scoperta giapponese e americana suggerisce che le staminali embrionali sono meglio delle adulte. Altrimenti non si vede perché Yamanaka abbia trovato il modo di riportare le cellule adulte... alla fase embrionale. Quello scoperto non è altro che un metodo alternativo per ottenere cellule staminali embrionali o simili alle embrionali. Non equivale a dire che queste ultime sono incredibilmente interessanti? Eppure sono in molti, anche scienziati, ad avere giurato il contrario ancora prima che gli esperimenti venissero fatti.
Che il nuovo metodo funzioni è comunque da verificare. Siamo contenti che sembri essere eticamente più accettabile, ma la divergenza su questo piano non è decisiva: non si vede perché gli scrupoli di alcuni cattolici dovrebbero bloccare la ricerca. Il punto fondamentale è che, per far avanzare la scienza, si devono studiare le staminali embrionali.
Questo dato deve avere conseguenze circa l’enorme quantità di fondi che sono stati stanziati per le staminali adulte. Per ora, al di là di lanci di agenzia, di risultati non se ne sono visti. Lo scorso anno l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha sostenuto il laboratorio di Angelo Vescovi a Terni, il quale annunciava che a settembre di quest’anno avrebbe iniziato la sperimentazione sull’uomo. Non sembra che la promessa sia stata mantenuta. Anzi, il 19 settembre su Avvenire diceva che gli mancavano 200.000 euro ed apriva una sottoscrizione, affermando che senza il mecenatismo del vescovo Paglia non poteva avere neanche il rimborso delle spese di viaggio. Nello stesso intervento ha anche dichiarato di aspettare ben 300.000 euro dall’Iss per la sua ricerca sulle staminali. Da dove arrivano questi soldi? Ebbene, è giunto il tempo di fare chiarezza e che su questo aspetto si esca dall’ambiguità. Anche la ricerca e l’assegnazione dei finanziamenti deve avere un’etica.
Signora ministro, istituisca una Commissione apposita composta da persone di specchiata moralità che controlli la distribuzione dei fondi di ricerca avvenuta in passato dalla gestione Garaci, che Lei ha riconfermato alla guida dell’Iss. E per il futuro, che si instauri il sistema della “peer review”, che non è un mettersi della cipria per dare un po’ di tono e continuare a fare come prima, ma un sistema rigoroso, strutturato e organizzato di valutazione della scienza che, non dimentichiamolo, è un bene di tutti.
*Presidente della Consulta di Bioetica, Milano - Università di Torino

l’Unità 23.11.07
L’accordo sul protocollo è un campo di battaglia
La commissione vara il decreto, ma Rc chiede altre modifiche
Il governo potrebbe porre la fiducia: deciderà Prodi
di Bianca Di Giovanni


COMPROMESSO La lunga marcia del welfare finisce con un accordo raggiunto in nottata, che a metà pomeriggio sembra già un campo di battaglia. Rifondazione alza nuovamente il tiro e rinvia la battaglia in Aula, i socialisti (che si sono astenuti in commissione) annunciano un no al Senato, i diniani esprimono perplessità. Senza contare che su molte modifiche introdotte il governo ha dato parere negativo. Preoccupazioni anche in casa sindacale (soprattutto per la reintroduzione del job on call, contro il parere del governo), mentre Confindustria alza ancora la voce per le «concessioni» sui contratti a termine. Insomma, tutto sembra, meno che un accordo, anche se escono soddisfatti dalla commissione i democratici, i comunisti italiani e i centristi. «È il massimo che si poteva ottenere - dichiara il relatore Emilio Del Bono (Pd) - La maggioranza tiene salvando l’accordo con il sindacato. Garantiremo l’approvazione entro il 31 dicembre. Dini? Non ha alcuna ragione di lamentarsi perché il vincolo economico è stato rispettato». Sulla stessa linea Pagliarini. «Non ci sono alternative a questo testo - dichiara - visto che l’accordo è stato raggiunto dopo forti tensioni».
A questo punto molti pensano a una blindatura in Aula, presumibilmente sul testo varato. Lo stesso Vannino Chidi dice che «ora non si tocca una virgola». Il sottosegretario Antonio Montagnino non scioglie la riserva (bisognerà aspettare che Romano Prodi torni da Mosca), ma si impegna a recepire in Aula le richieste dei socialisti sull’indennità per i co.co.pro. Tutta la partita, già complicata di per sé, è stata appesantita da una forte concorrenzialità tra i diversi partiti della sinistra e all’interno degli stessi partiti. Dalla segretria di Rifondazione è subito arrivato il diktat di alzare il tiro: ma tutte le modifiche approvate hanno la firma di Pagliarini (pdci): la cosa ha aumentato la rincorsa, e oggi il partito di Giordano rilancia chiedendo quello che non è riuscito a far passare: il diritto di precedenza sulle assunzioni per chi ha già un contratto a termine. Ma su quel punto il no di Confindustria è netto. Stesse tensioni con i centristi sul job on call (votato da Ulivo e centrodestra): lo scambio con lo staff leasing è stato necessario per accontentare le pressioni del comparto del turismo e dello spettacolo, e per poter introdurre le modifiche sui contratti a termine. Ma quello scambio non piace affatto al sindacato, che considera il lavoro a chiamata più pericoloso dello staff leasing, un tipo di contratto poco utilizzato, che riguarda comunque il lavoro a tempo indeterminato e non i precari. Tanto più che Confcommercio già chiede di ampliare il caso anche al suo settore, proprio nel momento in cui è in atto un difficile rinnovo del contratto. Anche l’eliminazione del tetto ai lavori usuranti, apparentemente una vittoria per le sinistre, in realtà complica la situazione: il sindacato infatti chiedeva una norma, ma togliere semplicemente il tetto senza indicare un criterio selettivo inchioda il parlamento alla delega. Ecco le novità introdotte dalla commissione. per i contratti a termine è confermato il periodo di 36 mesi, ma si precisa che non devono essere cumulativi. Il periodo si calcola indipendentemente dalle interruzioni che intercorrono tra un contratto e l’altro. Dopo i 36 mesi è possibile una sola proroga (davanti agli uffici del lavoro con i rappresentanti sindacali) che non può durare più di otto mesi. È abrogato lo staff leasing. Per il lavoro a chiamata si conferma l’abrogazione, ma sono state inserite deroghe da definire con un decreto e dopo un confronto con le parti sociali. Per i lavori ususranti salta il tetto delle 80 notti all’anno. Resta la delega al governo a definire la platea, anche se in Aula potrebbe arrivare una norma. Insomma, al partita potrebbe riaprirsi: sicuramente poi in senato il duello si farà duro.

l’Unità 23.11.07
Bertinotti pensa all’egemonia, Diliberto ai sabotaggi
La Cosa rossa va avanti a tentoni. Tutti vogliono accelerare, ma non sanno bene come. Anche sulla legge elettorale


UNA LUNGA riunione sulla legge elettorale: dopo settimane di tensioni e di prese di posizione divergenti dei singoli partiti che dovrebbero dare vita alla fed di sinistra, Prc, Verdi, Pdci e Sinistra democratica si sono visti per la prima volta per discutere del tema più caldo. Tra i presenti, Giovanni Russo Spena e Franco Russo del Prc, Cesare Salvi e Carlo Leoni di Sd, Manuela Palermi e Orazio Licandro del Pdci, Loredana De Petris dei Verdi. Il risultato è che una posizione comune ancora non c’è, e nemmeno una prevalenza del sistema tedesco caro a Fausto Bertinotti. Le prossime tappe del confronto interno alla sinistra dell’Unione sono la stesura di una nota riassuntiva della riunione di oggi, e l’appuntamento per un prossimo approfondimento, forse addirittura seminariale, di una giornata, con esperti di tecnica della legge elettorale.
Se all’ordine del giorno c’è la questione dell’egemonia, posta con forza dall’irrompere sulla scena politica dai partiti a tendenza maggioritaria di Veltroni e Berlusconi, anche a sinistra «non può essere scartata la questione del soggetto politico», ha detto intanto il presidente della Camera, Fausto Bertinotti alla vigilia del secondo congresso della Sinistra europea di questo fine settimana a Praga. Sinistra europea, nata nel 2004 a Roma, e guidata sino ad oggi proprio da Bertinotti, che lascerà adesso il timone al presidente della Linke tedesca, Lothar Bisky, può essere il parametro di riferimento, anche per l’Italia, per la costruzione della sinistra del XXI secolo, «erede - afferma Bertinotti - della storia del movimento operaio. Non gendarme della tradizione, ma in grado di proporre una nuova idea della sinistra che raccolga questa eredità, cioè la ragione della nascita della sinistra, dell’ascesa del movimento operaio: il tema della liberazione».
Diliberto non la vede bene. «Vedo che vi è chi lavora a creare intoppi al processo unitario -dice-. Vedo che si vogliono aggiungere aggettivi: sia chiaro a tutti, ogni aggettivo tende a dividere, invece che ad unire e rischia di far saltare il banco». «Leggo con preoccupazione - sottolinea - e qualche sconcerto pubbliche dichiarazioni e ricostruzioni giornalistiche, non innocenti, relativamente al processo di formazione della confederazione della sinistra. Si parla di simboli, di veti, di impuntature. I Comunisti Italiani intendono procedere alla riunificazione federale della sinistra con la massima determinazione. Proprio per questo ritengono oggetto di biasimo qualunque fuga di notizie, peraltro destituite di ogni fondamento».

l’Unità 23.11.07
Patrick McGrath, il successo della follia
di Oreste Pivetta


INTERVISTA allo scrittore di origine inglese che vive a New York, molto amato in Italia, dove Bompiani pubblica in anteprima il suo nuovo romanzo, Trauma

Si chiama Patrick McGrath, inglese di nascita, irlandese di famiglia, per lavoro prima canadese e poi americano. A cinquantasette anni è uno scrittore di successo che deve ringraziare il padre psichiatra e la follia degli uomini. Follia è il titolo del libro che lo ha reso celebre in Italia e anche moderatamente ricco: cinquecentomila copie nel nostro paese per la casa editrice Adelphi. Ora Bompiani gli pubblica, proprio in Italia prima che altrove, un altro romanzo, Trauma, titolo che anticipa il «genere», come la copertina, decisamente bella, sensualissima: una donna in canotta che fissa il vuoto in una casa dominata dai verdi cupi o spenti (leggo sul risvolto: Sharon Lockhart, Untitled, 1986, chromogenic print). Per apprezzare questo romanzo bisogna amare le storie d’amore combattute e quelle aggrovigliate di sesso, tra i misteri della psiche, i padri bugiardi, malmessi e patetici, le madri ossessive dominatrici, i fratelli rivali. E naturalmente i ricordi, che sono incubi. Si dovrebbe aggiungere «a New York», perché della città se non c’è la materialità (malgrado qualche «tocco» di strade, case e ristoranti) è presente lo spirito, per lo meno quello di una media classe colta e benestante: il protagonista è psichiatra, il fratello pittore, la madre scrittrice, l’ultima fidanzata è pure scrittrice e critica d’arte... Il padre è il più malandato. Parlano e contano poco un pompiere e un venditore di commercio. Non parlano alcuni reduci dal Vietnam. Ma si sentono.
Perché, McGrath, si è scelto come protagonisti solo signori di buona cultura?
«La follia sta ovunque, ma solo persone colte possono dialogare per interrogarsi sulla propria psiche. E il dialogo è appunto la strada che mi consente di rappresentare i loro tormenti psicologici».
Suo padre era psichiatra. Nel manicomio criminale di Broadmoor. Ma lei non ne ha seguito la carriera...
«Mi ero laureato in storia della letteratura. Non trovavo lavoro e, quando avevo ventuno anni, giustamente mio padre mi spedì all’estero, in Canada, dove cominciai a lavorare in un ospedale psichiatrico. Dove peraltro sviluppavano terapie assai avanzate. Ma capii che non era quella la mia strada. Mi ritrovai senza lavoro, avevo ventisei anni. A quell’età non si può tornare indietro a caccia di un’altra laurea. Cominciai a scrivere e mi sentii a casa».
A parti inverse, le sta bene quanto lei stesso ha scritto in Trauma: «Tutti gli psichiatri sono scrittori mancati».
«Sta scritto così. Un azzardo. Non so se sia vero del tutto. Sono convinto che gli psichiatri siano come gli storici: cercano di comprendere la storia e la natura umana».
Il manicomio le ha offerto però materiale. Basterebbe «Follia», il titolo originale è «Asylum», luogo protetto e prigione...
«Sì, Asylum. Certo. Certo quell’esperienza difficile mi ha dato molto: esperienza di un dramma e di tanti drammi assieme. In Spider soprattutto c’è la traccia del mio primo “lavoro”».
In «Trauma», come in altri suoi romanzi, ai dolori di persone sfiorate, lambite o prese dalla follia si aggiungono le tragedie presenti o postume della guerra. Nel «Morbo di Haggard» era la seconda guerra mondiale. In questo caso si parla del Vietnam e uno dei personaggi, che inquieta assai lo psichiatra protagonista, è proprio un reduce, che con i vietcong s’era messo pure a fare il cannibale. Nel ricordo del Vietnam, pesa la sua storia personale? Pesa l’anagrafe?
«Certo, appartengo alla generazione del Sessantotto, ma la guerra del Vietnam l’ho vista dal Canada, lontano insomma dalle tensioni e dalle emozioni che poteva vivere un mio coetaneo statunitense. Comunque mi sarebbe stato difficile non comprendere anche allora la tragedia storica del Vietnam. Una guerra come oggi la guerra in Irak, che rappresenta sommandoli altissimi gradi di stupidità, inutilità, distruttività. Siamo allo stesso punto. L’America non ha imparato...».
Non ha provato la tentazione di misurarsi con un’altra guerra e con un’altra follia? Lei abita a due passi dalle Torri gemelle.
«E in qualche modo sono stato testimone di quell’orrore. Ho un ricordo indelebile: l’odore, dopo le esplosioni. Ho pensato di rappresentare il trauma subito da quella città. Ground Zero doveva concludere la storia del dottor Charlie Weir nel 2001. Intanto avevo scritto tre racconti dedicati a New York e in particolare a Manhattan. In uno di questi una donna perdeva l’amante nell’attacco terroristico dell’11 settembre. Ho pensato di poter chiudere così e la vicenda di Trauma si è realizzata in altro modo».
Dentro la famiglia...
«Che è la culla della follia. Bisognerebbe ragionare su follia e patrimonio genetico».
Lei è inglese. Shakespeare di follia ne ha descritto molta. Che cosa s’è tenuto della sua formazione anglosassone?
«Certi anglismi, che in un romanzo tutto americano come questo ho dovuto scovare e cancellare attentamente. Forse il ritmo celtico, cioè della vecchia Irlanda, della mia prosa. La definizione di scrittore gotico me l’hanno attribuita altri. Magari l’umorismo».
Mi consenta la domanda sciocca: scrive a penna o al computer?
«Scrivo a penna. A sera trascrivo al computer e stampo. Scrivo e butto via moltissimo. Le pagine finite nel cestino sono la strada che devo percorrere. Una strada di matti verso il romanzo...».
Pensando al cinema? Suoi libri («Spider» con Cronenberg) sono diventati film.
«La scrittura è esigente. Non consente di pensare ad altro».
Perché la follia diventa best seller? Siamo tutti matti?
«No, non tutti».

l’Unità Firenze 23.11.07
Ogni giorno undici donne subiscono violenza
La denuncia di Artemisia relativa a Firenze: la maggior parte degli abusi consumato al chiuso delle mura domestiche. Ma l’associazione riceve in media soltanto 250 richieste di aiuto all’anno
di Sonia Renzini


PREOCCUPANTI i dati toscani: il 26,4% delle donne tra i 16 e i 70 anni dichiara di aver subito una molestia sessuale. Domenica la giornata internazionale contro la violenza

Un fiocco bianco preparato da 50 studenti dell’Istituto d’arte sarà issato domenica alle 11 sul balcone di Palazzo Vecchio a Firenze per dire no ad ogni tipo di violenza sulle donne. Poco più sotto, in piazza Signoria, alcune volontarie distribuiranno migliaia di fiocchi bianchi. Sono solo alcune delle iniziative lanciate dalla campagna del fiocco bianco, in occasione della giornata internazionale contro la violenza alle donne del 25 novembre, dal centro antiviolenza Artemisia di Firenze in collaborazione con gli enti locali (informazioni e adesioni sul sito www.ilfioccobianco.it). Slogan di quest’anno «la forza è nel rispetto». Poche parole racchiuse in un piccolo fiocco di raso bianco da appuntare sul petto. Quello degli uomini innanzitutto, decisi a non tollerare né a rimanere in silenzio di fronte a un fenomeno che assume dimensioni sempre più inquetanti.
Perché, la violenza domestica è per le donne una delle principali cause di morte. Prima degli incidenti stradali, del cancro e della guerra. Anche in Toscana, dove la media delle donne che hanno subito violenza dal partner è secondo dati Istat del 2007 del 17%, contro la media nazionale del 14,3%. Non solo. La percentuale di coloro che hanno subito abusi nella nostra Regione negli ultimi 12 mesi è del 3.2%. Tradotto in numeri, in proiezione, significa che nella sola Firenze arrivano a 4.166. «Se si tiene conto che la nostra associazione riceve 250 richieste di aiuto da parte delle vittime della violenza in un anno - dice Alessandra Pauncz di Artemisia - si può avere un’idea di quanto sia grande il fenomeno». Per saperne di più basta scorrere i dati Istat: il sommerso raggiunge in Toscana il 95.3% delle violenze da un non partner e il 92.5% di quelle da partner. Non basta: solo il 20% delle donne che hanno subito violenza fisica o sessuale in famiglia la considera un reato, il 45% pensa sia qualcosa di sbagliato e il 33.5% solo qualcosa che è accaduto. Inoltre, più di un terzo delle intervistate sostiene di non averne mai parlato con nessuno.
Eppure, i dati non lasciano dubbi:il 26.4% delle donne toscane tra i 16 e i 70 anni dichiarano di avere subito una molestia sessual una volta nella vita, il 5.8% uno stupro. Per avere un’idea più concreta basta tradurre le percentuali in numeri e proiettarli sulla sola città di Firenze: 7.551 donne stuprate nel corso della vita, 22.133 hanno subito una violenza da un partner o da un ex e 34.371 sono state vittime di almeno una molestia sessuale. Una ragione di più per plaudere alla legge contro la violenza di genere approvata nelle scorse settimane trasversalmente dal Parlamento toscano e ricordata ieri in occasione della presentazione della campagna del fiocco bianco dalle consigliere regionali Anna Maria Celesti e Alessia Petraglia. Insieme, tra gli altri, all’assessore del Comune Daniela Lastri. C’erano anche il presidente della squadra di rugby Firenze 1931 e l’allenatore della squadra di nuoto Rari Nantes. Perché quest’anno,a essere coinvolti in prima persona saranno i protagonisti dello sport. Indosseranno la maglietta con il simbolo della campagna durante le partite e non solo. Il 26 novembre, i giocatori della Fiorentina e di altre squadre sportive consegneranno fiocchi bianchi ai partecipanti della serata organizzata al Viper Theater delle Piagge (ore 19), animata dalla comica Anna Meacci. Prevista anche un’asta di magliette autografate dalle varie squadre, mentre nello stesso giorno il Consiglio comunale cittadino sarà completamente dedicato al tema della violenza sulle donne.

Repubblica 23.11.07
Romolo e Remo. Perché una civiltà si fonda sul mito
Dopo il ritrovamento del lupercale
di Andrea Carandini


Spesso si ricorre alla leggenda per conservare nella memoria qualcosa di grande
Il repertorio delle nascite miracolose e dei gesti eroici si ritrovano in molte epoche

Quando penso a miti come quello di Roma riconosco l´infinita potenza della finzione creduta vera e della verità riplasmata, che nulla hanno che fare con la contraffazione, trattandosi di manipolazioni che partono da una realtà per conferirle stabilità, assolutezza e capacità di coinvolgimento.
Non è immaginabile il Cristianesimo fuori dalla credenza in un uomo anche dio, figlio di un padre divino e di una vergine. Per l´uomo secolarizzato e lo storico non è tanto importante che un seme sia stato trasferito, tramite uno spirito, dalla divinità nel seno di Maria, quanto che quella novella abbia trasformato una parte decisiva del mondo rifondandone i valori. Così anche Roma, una città-stato divenuta un impero, non è pensabile senza Romolo, semidivino e divinizzato in Quirino, figlio di Marte e della vergine Rea Silvia – principessa di Alba Longa – tanto che nel passaggio all´impero Augusto ha voluto assimilarsi al fondatore. Infatti "augusto" significa l´inaugurato, il benedetto da Giove, come lo era stato il primo re della città. E come Romolo è figlio di Marte, così Augusto si fa passare per figlio di Apollo. E Augusto costruisce il suo palazzo davanti alla capanna di Romolo e probabilmente sopra al Lupercale, dove il fondatore era stato salvato dall´esposizione, nutrito da antenati in forma di animali - il picchio e la lupa - perché potesse fondare Roma.
È come se per creare qualcosa di grande, duraturo e caro agli dei servisse un essere più che umano, un eroe. Un eroe è definito da una vita composta a patchwork di motivi mitici, come quelle di Teseo, pensando ad Atene, e di Romolo, pensando a Roma. I temi del repertorio eroico sono pochi ma conoscono infinite varianti, come gli schemi delle favole studiati da Propp. Ma il Propp dei miti classici deve ancora venire, anche se ha avuto un precursore in Angelo Brelich, uno dei nostri giganti dimenticati, perché accusato a suo tempo - un tempo stupido - di "irrazionalismo".
La leggenda di Remo e Romolo, che stiamo pubblicando e analizzando (Fondazione Valla, Mondadori 2006 e seguenti) è una stratigrafia plurisecolare, il cui livello più antico risale probabilmente alla seconda metà dell´VIII secolo a. C. o poco dopo. Si tratta di un insieme di motivi mitici e di imprese autentici, confermati da elementi esterni alla tradizione quali la storia delle religioni, la linguistica e l´archeologia. Gli annalisti, antiquari e poeti che hanno tramandato la leggenda sono vissuti tra il II secolo a. C. e Augusto, tardi rispetto alle origini che raccontano, ma i materiali di cui si avvalgono fanno parte della memoria culturale dei Romani, patrimonio di una aristocrazia che sprofonda nel tempo, che sovente non ha molto a che fare con l´epoca in cui quei letterati sono vissuti: più che creatori originali sono stati trasbordatori di ricordi codificati, salvo gli apporti tardi riconoscibili. Del nucleo autentico della leggenda fanno parte alcuni temi mitici - come la nascita e l´allattamento miracolosi, la fondazione della città dal nulla - che sono strutture mentali messe in opera da principio e che non hanno più smesso di operare, ma che non hanno riscontro nella realtà effettuale. Infatti aveva preceduto Roma il Septimontium (secondo gli antiquari) o il "centro proto-urbano" (secondo gli archeologi) e il primo re della città non era stato allattato da una lupa, ma gli era riuscito di farlo credere, che è quanto importa. Al contrario il ruolo di Alba Longa nella leggenda è reale e deve precedere il cuore del VII secolo a. C., quando quella metropoli annalisticamente e archeologicamente scompare e ha inizio la fortuna di Lavinio. Anche le imprese di Romolo sono terrene, realistiche e trovano riscontro nei monumenti. Ad esempio, dal 775-750 a. C. il Palatino - narrato come benedetto e protetto da un murus - appare circondato da mura, le cui porte sono state riproposte fino all´età di Nerone. Analogamente il Santuario principale del Foro, quello di Vesta - ospitante i culti regi e la dimora dei primi re - restituisce dal 750 a. C. circa attestazioni archeologiche clamorose (si veda il mio Roma. Il primo giorno, Laterza, 2007). Quindi è storicamente esistita una cittadella regia sul Palatino e un centro religioso e politico della città tra Foro e Campidoglio, che presuppongono un´autorità centrale potente: quella del rex-augur che nel corso di una vita ha creato la città, per cui si tratta della "fondazione" di uno stato e non di una lenta "formazione".
Per capire le origini delle civiltà bisogna conoscere i miti del giorno d´oggi - come quello dell´eternità della civiltà borghese, descritto da Barthes - e liberarsi dall´assolutismo razionalistico. È questione di entrare nella selva del vero, del finto e del falso, ricordandoci che prima viene il vero e il finto mentre il falso si aggiunge dopo, quando la coscienza mitica collettiva si affievolisce e prevalgono le contraffazioni di gruppo. Pochi sono gli storici che hanno fatto una tale esperienza. Ho voluto invece sottopormi all´iniziazione di una comunità che vive ancora nell´oceano dei miti, quella di Kitawa in Melanesia, studiata da Giancarlo Scoditti (Bollati Boringhieri, 2003).
Studiare Buddha - altra nascita miracolosa - e Romolo - anche lui riformatore di un politeismo più antico - serve a capire che nulla di duraturo e legante si può fondare se non interviene una logica altra rispetto a quella aristotelica, capace di piantare nella coscienza punti fermi in grado di eternizzare eventi fondamentali. Un unico mito divino i primi Romani non hanno potuto cancellare - la riforma romulea è consistita appunto nella "demitizzazione" -, quello di Marte fecondatore di Rea Silvia, perché se Romolo non fosse stato figlio di un dio non avrebbe potuto istituire la città-stato e il suo ordinamento. La Rivoluzione francese è il nostro mito fondatore: Luigi XVI doveva morire per arrivare a una monarchia costituzionale; come Remo è morto per la stessa ragione. E anche i valori della rivoluzione sono stati eternizzati, e infatti perdurano oltre la classe sociale che li ha voluti.
Roma è il luogo dove la memoria si è più conservata - è meglio conosciuta di Atene - per cui costituisce la palestra ideale per cimentarci nell´intendere opere e azioni umane, a partire da quelle sottratte all´usura del tempo, che si radicano nell´arcaismo tramontato e in quello ancora operante in noi. E mentre sopravvivono le lamentele degli studiosi ipercritici, che ripetono che nulla si può sapere della prima Roma, il sottosuolo restituisce flutti di nuove informazioni che risalgono all´età del Bronzo. Ricomporre distinguendo e raccordando questa immensa congerie è il compito di noi archeologi. Può esserci un mestiere più affascinante? Quando stanchi e frustrati dalla vita quotidiana ci soffermiamo sulla "mitistoria", che è poi una storia integralmente intesa, è come se ci rigenerassimo, riprendendo la vita nella sua ampiezza, fatta di libertà ma anche di identità. Se i giovani accorrono all´Auditorium o al Colosseo per ascoltare ricerche storiche in diretta non è forse per arricchire vite banali che vorrebbero la grandezza?

Repubblica 23.11.07
Un sistema giuridico avanzatissimo che ha ispirato e fondato l´Occidente
DalLa Roma dei pastori alla patria del diritto
di Aldo Schiavone


Alle origini
La Città eterna è quella che più di tutte ha conservato il maggior numero di informazioni sulle proprie origini. Il primato imperiale si nutriva anche di una continua sollecitazione e rielaborazione della memoria

Intorno alle origini di Roma si è svolta una delle più appassionanti discussioni storiografiche dell´intera cultura moderna, in cui si sono riflesse le idee e le tendenze di intere epoche, molto al di là della sola ricerca storica. È da oltre due secoli che ci tormentiamo su quanto accadde esattamente fra decimo e settimo secolo a. C. in quella piccola zona del Lazio non lontana dal mare, individuata da una breve catena di colli sovrastanti un´ansa del Tevere, in mezzo a boschi, paludi, capanne e piccoli campi coltivati, dove la presenza di una minuscola isola rendeva il fiume più facilmente attraversabile, trasformandolo in uno snodo di incontri, di empori, di santuari.
Gli inizi di questo dibattito sono ormai lontani, ma non per questo meno importanti: già l´aspra polemica di Hegel con Niebhur, nei primi decenni dell´Ottocento, investiva in pieno l´arcaicità romana, e anticipava motivi e temi con i quali da allora in poi non abbiamo più smesso di misurarci. E sta di fatto che il Novecento, aperto nel segno di un radicale scetticismo di matrice positivista verso i racconti e le cronologie dalla tradizione antica, a cominciare da quello stesso su Romolo, giudicati come un accumulo di implausibili leggende, e che aveva giustificato una critica delle fonti – di Cicerone, di Livio, di Dionisio, di Plutarco – irrimediabilmente incredula nei confronti di qualunque immagine da loro proposta della nascita di Roma, si è concluso invece nella generale ammissione che quelle narrazioni non ci restituiscono sconclusionate messe in scena, ma sequenze di vicende e di figure da considerare con molta attenzione, se non proprio con tranquilla fiducia. Un capovolgimento che ha implicato un´autentica rivoluzione metodologica, e un cambiamento nell´idea stessa di cosi significhi scrivere storia.
Al centro di questo mutamento di paradigma è stata senza dubbio la nuova archeologia stratigrafica, e, accanto, le nuove ricerche di storia linguistica, religiosa, giuridica, audacemente sospese fra terra, parole e riti, che si sono sforzate di decifrare ogni più piccola traccia, ogni frammento di pietra o di lessico, in una tensione dove la tecnica di scavo e l´analisi indiziaria aspiravano a farsi, da sole, metafora completa del mestiere di storico, proiettate verso epoche sempre più remote, quasi ai confini del tempo profondo.
Roma è la città del Mediterraneo antico che ha conservato nell´età più matura il maggior numero di informazioni sulle proprie origini. E non a caso. Il primato imperiale si nutriva anche di una continua sollecitazione e rielaborazione della memoria; aveva bisogno di un adeguato retroterra mitico e storico per dare profondità di campo alla propria attuale grandezza.
Ma nel contesto culturale della prima Roma, nella sua archeologia mentale potremmo dire, al posto di quella imponente fantasia mitologica e cosmogonica da cui poi sarebbe nato, in Grecia e nella Ionia, il primo autentico sapere speculativo dell´Occidente, ci troviamo invece di fronte a qualcosa di assai diverso. A una trasfigurazione della realtà in cui l´invenzione teologica e l´immaginazione animistica erano totalmente dominate dall´ideazione e dalla messa in scena di una invasiva cascata di rituali, che, appena formulati, acquistavano un´oggettività alienata e irrevocabile, secondo una proiezione propria a molte culture, anche mediterranee: schiacciavano le menti stesse che li avevano elaborati. Il loro rispetto risultava però ampiamente remunerativo: era un´osservanza che dava fiducia ed equilibrio a una comunità circondata di pericoli e di nemici – Latini, Sabini, Etruschi – insieme minacciata e aperta, un crocevia precariamente multietnico, fragile e a rischio; una città nei cui abitanti si agitava un cupo fondo di terrori e di visioni notturne (ancora nelle XII Tavole le pene si inasprivano, se i crimini erano commessi di notte), alimentato non meno da ricordi di violenze, incantesimi, sangue, che da un presente obiettivamente incerto e difficile.
Questa specie di sbilanciamento ritualistico si avvicinava molto a una vera sindrome prescrittiva, del tutto assente nella Grecia arcaica. La realtà veniva sminuzzata con un´analiticità quasi febbrile – secoli dopo ancora ben chiara a Varrone – nel tentativo di proteggere ogni minima funzione della vita quotidiana di quei contadini quasi perennemente in armi, attraverso l´invenzione di un dio a essa preposta, e di un rituale in grado di chetarne la sempre imminente ira. Su questa base si sarebbe poi formata tutta una trama di abitudini cerimoniali, a metà strada fra il divino e l´umano, in cui consiste il primo "ius" – misterioso monosillabo, senza eguali in qualunque altra lingua antica, il cui significato più remoto non corrisponde se non per vaga e retrospettiva assimilazione a ciò che noi (e gli stessi Romani più tardi) avremmo inteso con "diritto": la mano che prende e che dà, il bastone che afferma il potere o il passo indietro che lo cede; la parola che pronuncia il giuramento (ius iurandum, "la formula da formulare"), o crea l´obbligo verso il proprio eguale.
Sul versante della religione, questa complessa armatura formulaica, dissociata sin dall´inizio dalla percezione di qualunque interiorità, avrebbe finito ben presto con il fossilizzarsi, trasformandosi in un corpo morto e freddo, staccato da qualunque forma di sensibilità popolare. Ma la presenza della stessa impronta avrebbe avuto un esito del tutto diverso nelle vicende del ius, come del resto l´avrebbe avuta, in un diverso contesto, nella religione dell´antico Israele, dove possiamo ritrovare una sindrome prescrittiva non lontana da quella romana. In questo senso, le due vicende sono in certo modo speculari. Nel caso di Israele, la forza evolutiva si sarebbe sviluppata tutta dal lato di una religiosità attraversata dalla morale, e una cultura giuridica autonoma non sarebbe mai nata, soffocata dall´invasività della teologia monoteista (il "non avrai altro Dio" di cui parla Jan Assmann), a Roma invece lo sviluppo si sarebbe concentrato per intero dalla parte di un disciplinamento sociale sempre più laico (e che ora possiamo definire propriamente "giuridico") – l´autentico logos della romanità – fino a determinare, nel primo secolo a. C., la svolta della nascita di una vera e propria scienza del diritto. Ma questa straordinaria invenzione, con tutta la potenza del suo formalismo concettuale – un carattere indelebile della nostra civiltà – porta scritto per mille segni sulla propria fronte i tratti della sua genesi più remota.

Repubblica 23.11.07
Molti miti d'origine fanno nascere il mondo da una lotta fratricida
Gemelli e coltelli un rituale violento
di Marino Niola


La figura chiave. Gli omozigoti hanno da sempre un ruolo da protagonisti nell'immaginario degli uomini. Si può dire che essi siano la personificazione stessa dell'enigma

Mettere al mondo dei gemelli è ovunque un fatto prodigioso. Tranne che in Egitto dove è normale che una donna partorisca sette figli alla volta a causa della fecondità del Nilo. Lo dice Plinio nella sua Storia Naturale. Nella favolosa terra dei Faraoni, dove si favoleggiava che ogni cosa avvenisse all´incontrario, le opere della natura, come quelle degli uomini non hanno nulla di ordinario. Tutto è portentoso, grande, smisurato. E quel che altrove farebbe gridare al prodigio diventa normale in quel paese delle meraviglie. Compresa quella doppia meraviglia che è la gemellarità.
Gli omozigoti hanno da sempre un ruolo da protagonisti nell´immaginario degli uomini. Quasi tutte le mitologie e le credenze tradizionali registrano il disagio e al tempo stesso la forte attrazione suscitati da queste immagini viventi dell´ambiguità, della doppiezza, della ambivalenza. I gemelli danno corpo a una contraddizione, evidentemente irrisolta, fra l´essere uno e l´essere due, tra singolarità e molteplicità. La loro differenza ne fa dei simboli in carne e ossa, delle allegorie viventi. Temuti come segno della collera della natura o adorati come presagio di fortuna. Incarnazioni di una eccezionalità che si manifesta per eccesso. Di una fecondità straordinaria, di un´eccedenza vitale.
Si può dire che essi siano la personificazione stessa dell´enigma. Di quella domanda senza risposta che è la figura chiave di ogni mitologia.
Romolo e Remo, Castore e Polluce, Anfione e Zeto, Apollo e Artemide, gli Orazi e i Curiazi, Giacobbe e Esaù, i santi Cosma e Damiano, hanno dato nel tempo volti diversi a una medesima perplessità interrogativa su tutto quel che rappresenta la negazione dell´individuo, che è per definizione singolo. Non è un caso che tanti miti d´origine facciano nascere il mondo, la società, le città da una lotta fratricida tra due gemelli. In questo senso Romolo e Remo sono la variante latina di un tema universale.
In molte culture africane si dava ai gemelli lo stesso nome degli uccelli che hanno un volo e un´andatura goffi, come la faraona, quasi a sottolinearne simbolicamente una irregolarità fisica, un´anomalia ontologica. E in alcune società indiane d´America in caso di parti gemellari i due nati venivano immediatamente separati perché l´uno non si confondesse con l´altro. Secondo Claude Lévi-Strauss questa necessità di distinguere i gemelli, diffusa in tutto il mondo, nascerebbe dalla difficoltà di ammettere che il doppio, il perfettamente uguale, esista in natura. È per questo che, a detta del grande antropologo francese, si cerca sempre di cogliere delle differenze nel fisico, nel carattere, nei gusti, nelle abilità degli omozigoti. Per riaffermare in qualche modo il primato e il valore dell´unicità.
Non per nulla i più grandi cervelli dell´Occidente antico e moderno si sono arrovellati intorno al mistero di una unità moltiplicata. Da Aristotele a Plinio, dai giuristi della Roma antica a Pico della Mirandola, fino a medici cinquecenteschi come Ambroise Paré e Fortunio Liceti, autore del celebre Libro intorno alla natura dei mostri.
Nel mondo di oggi, caratterizzato da un´ampia diffusione delle conoscenze scientifiche, il problema sembrerebbe aver perso d´importanza per il fatto che siamo perfettamente in grado di spiegare gli arcani della nascita gemellare. Apparentemente non abbiamo più bisogno di nessuna mitologia. Ma è solo un effetto di superficie. Nelle profondità del nostro immaginario i gemelli continuano a far parlare di sé. Basti pensare allo spazio occupato da creature come il doppio, il sosia, l´ombra nella letteratura, nel cinema, nei media. Dalle Kessler, radiose mascotte dell´Italia del miracolo economico, ai due Kaczynski, fino a pochi giorni fa autentici dioscuri della Polonia postcomunista.
Il mito è dunque alle nostre spalle ma anche al nostro orizzonte. È quel che ci mostra Peter Greenaway in un film come Lo zoo di Venere che ha per protagonisti due gemelli, entrambi scienziati, che partendo da una ricerca avanzatissima sulle metamorfosi del corpo, finiscono per rientrare nel mito identificandosi con i divini Castore e Polluce.
Ed è quel che si vede in quell´autentica Storia Naturale dell´immaginario globale che è You Tube. Dove si moltiplicano i video che permettono di osservare la vita quotidiana di numerosi gemelli siamesi. Persone riprese mentre vanno a scuola, fanno i compiti, mangiano alla mensa del college, vanno al supermercato, fanno sport. Nulla di più normale se non fosse per il fatto che hanno un sol corpo con due teste. O il contrario. Individui che sperimentano, e ci raccontano, come si possa essere al tempo stesso due e uno.
La rete ricostituisce così, con l´aiuto della scienza e della tecnologia, i termini di un enigma che il nostro immaginario non ha mai congedato una volta per tutte. Coniugando voyeristicamente meraviglia, curiosità, interesse. E spettacolo. Non diversamente da quanto facevano nella Roma antica dove la legge metteva i gemelli sullo stesso piano di professionisti della meraviglia come attori e musicisti. Perché la loro differenza rappresentava di per se stessa uno spettacolo, ma anche un motivo di profonda interrogazione sull´essere e sulla sua natura. Su un rapporto tra somiglianza e differenza che ora come allora talvolta fa cortocircuito.

Repubblica Firenze 23.11.07
Ninfe. Il simbolo neopagano del Rinascimento
Con Susanna Mati sulle tracce delle ninfe


Il fascino delle ninfe, bellezze in fuga: corteggiate da uomini e dei per la loro bellezza irresistibile, avevano il potere di fare impazzire e quello di ammaliare, la loro acqua era fonte di sublime ispirazione ma anche di morte. Al tema, già caro a studiosi di diversa formazione disciplinare, è dedicato il saggio Ninfa in un labirinto. Epifanie di una divinità in fuga (Moretti & Vitali) che l´autrice, Susanna Mati, docente di estetica filosofica a Venezia, presenta oggi alla Biblioteca delle Oblate (v. dell´Oriuolo 26, ore 17.30) nell´ambito di «Leggere per non dimenticare». Introduce Franco Rella.

Dal saggio ho scelto le righe che vedono la ricomparsa della ninfa, tornata alla ribalta dopo secoli di oblio, e diventata fiorentina. (pp. 97-98).

«Di ritorno dall´esilio medievale, le ninfe classiche irrompono nella cultura visiva fiorentina, in misura tale che nel Quattrocento s´indicano genericamente come nimphae alcuni tipi ricorrenti, analogamente a quanto accade in letteratura e nella parlata comune. Avvolte in drappi, le nimphae lasciano ondeggiare le chiome al vento; sono aurae in costume caratteristico, "soluta ac perlucida veste", con abito e capigliatura agitate, magari cacciatrici, sovente inseguite, legate come prede renitenti; oppure sono portatrici di frutta come Pomona, o spargono fiori come Flora, fanno corteo a Venere e le porgono il manto; corrono o danzano, incedono nei dipinti, nelle composizioni poetiche, sui carri delle feste; spuntano incongrue in scene bibliche, in ambienti domestici familiari, in contenute cerimonie cattoliche si insinuano fanciulle dal passo rapido, sotto forma di Ore vestite di sottilissimi veli. Icona privilegiata dell´influsso dell´antichità sulle immagini del moderno, la ninfa asseconda l´inclinazione "a rifarsi alle opere d´arte dell´antichità non appena si trattasse di cogliere in ciò che vive l´istante di un moto esterno". La ninfa dalle vesti in movimento, spesso portata da una brise imaginaire, è messa a sua volta in figura dalle accortezze di Botticelli, pittore ed erudito filologo neoplatonico, nonché "sofistica persona" (così il Vasari nelle Vite). La ninfa è figura di un´elementare volontà di vita, dice Warburg, fiore elegante strappato al cupo rigore dei fanatici domenicani; essa infatti, movimento fattosi donna, personifica anche il risorto paganesimo rinascimentale; enigmatico simbolo di gioia e sensualità pagana, di risorgente passione, è insieme la liberazione della bellezza in volo neoplatonico, ascendente a libere altezze. La farfalla classica è sgusciata fuori dal bozzolo borghese-borgognone, la farfalla fiorentina, la Nynfa, e la veste le ondeggia vittoriosa, sul capo porta un´acconciatura alata, le ali si spiegano al vento Zefiro».

giovedì 22 novembre 2007

l’Unità 22.11.07
Rifondazione e governo distanti sul protocollo
Accordo in alto mare, mentre Letta avverte:
margini stretti per le modifiche al provvedimento
di Bianca Di Giovanni


INTESA DIFFICILE Accordo ancora lontano sul protocollo sul Welfare. Dopo che Rifondazione ha strappato l’ok della Commissione al primo articolo, con una norma più elastica sui lavori usuranti, il governo ha gelato la commissione. «Non posso assicurare che quello che state facendo risponda agli impegni presi con le parti sociali, né che abbia il sostegno della maggioranza in Senato». Così Enrico Letta ha aperto la riunione della serata, quella convocata per sciogliere gli ultimi nodi e subito «sconvocata». Le parole del sottosegretario sono cadute come pietre: i margini sono stretti, e i tempi pure. Il governo spinge perché oggi il provvedimento esca dalla commissione, per arrivare in Aula lunedì. Se così non fosse, salterebbe tutto il calendario. E già c’è chi pensa alla fiducia. In questo caso «vorrà dire che faremo come Dini - dicono da Rifondazione - voteremo la fiducia per responsabilità ma un minuto dopo diremo che non c’è più la maggioranza». Come dire: con il welfare arrivano anche le maggioranze variabili.
Passano le ore, e l’intesa non si «acciuffa». Anzi, Rifondazione continua ad alzare il tiro e si smarca da tutti: parti sociali e alleati di maggioranza. Scendono in campo il segretario Franco Giordano, il ministro Paolo Ferrero, il responsabile Lavoro Maurizio Zipponi. In Transatlantico qualcuno commenta: «È il partito di Cremaschi che vuol farsi sentire. Soprattutto dopo il terremoto innescato da Berlusconi e dopo l’intervista di Fausto Bertinotti sulle larghe intese». Insomma, c’è molta politica nello stallo innescato in Parlamento. Ma non solo quella.
In giornata la commissione aveva detto sì all’articolo 1, quello su scalone e lavori usuranti. L’ emendamento approvato, presentato dal presidente Gianni Pagliarini, di fatto concede maggiore spazio alla commissione istituita al ministero di Lavoro con le parti sociali per la definizione della platea dei lavori usuranti (salta il riferimento normativo che individua in 80 notti il tetto per poter parlare di lavoro notturno). Via libera anche ad una proposta di modifica che estende i benefici previsti nel provvedimento per i lavoratori in mobilità del Sud ai lavoratori in mobilità di tutta Italia. Eliminato lo «scalone» della Maroni. Insomma, vengono recepite le richieste di Rifondazione.
Ma proprio mentre il partito di Giordano si preparava ad incassare altri due risultati sui contratti a termine (il diritto di precedenza per chi ha già lavorato 36 mesi per un ipotetico nuovo contratto, e l’inserimento nei 36 mesi anche dei periodi degli interinali), scendono in campo i sindacati. Guglielmo Epifani chiede esplicitamente che il parlamento non stravolga quello che le parti hanno concordato. Gli fa eco anche Foccillo della Uil.
Il fatto è che al sindacato non va giù l’intesa sugli usuranti per delega: fino a ieri il governo aveva assicurato che ci sarebbe stata una norma chiara sul computo dei lavoratori coinvolti. E non solo: le ipotetiche concessioni sui contratti a termine avrebbero potuto riaprire la strada al «lavoro a chiamata», un tipo di contratto eliminato dal Protocollo ma che una parte della maggioranza chiede di reintrodurre. Insomma, per trovare la quadra si potrebbe arretrare su altri punti. Rifondazione replica stizzita: non è la sinistra a fare accordi con Confindustria. La quale, naturalmente, fa presisng perché si modifichi il meno possibile su tutto. Zipponi e Giordano denunciano pressioni forti di Viale dell’Astronomia. Così tutto torna in salita, con buona pace di chi sperava in un accordo vicino.
Mentre scriviamo la Commissione riprende a votare. Passa l’emendamento che prevede per quanto riguarda i contratti a termine, la possibilità di sommare i tempi dei diversi contratti per arrivare a 36 mesi indipendentemente dal tempo che intercorre tra un contratto ed un altro. Il testo originario prevedeva invece 36 mesi continuativi. Sì anche alla proposta di pagliarini sulla deroga all’assunzione dopo i 36 mesi: il contratto a termine non potrà superare gli 8 mesi. Poi scatta l’assunzione.

l’Unità 22.11.07
Quei ragionieri della politica
di Mario Tronti


«A chiare lettere» - il libro di Goffredo Bettini di cui si è già parlato qui - è un bel titolo: allusivo, evocativo, un tantino autoironico. Questo carteggio con Ingrao risulta per Bettini un passaggio fondamentale della sua vita. Lo prende, lo riprende, lo rumina, lo riassapora sui tempi lunghi. Se l’articolo, da cui prende le mosse il carteggio è del gennaio 1992 e la prima lettera di Ingrao viene subito dopo, la risposta di Bettini è del marzo 2005 e il seguito del dialogo avviene nell’ottobre del 2007.
Bettini è uomo di sintesi. A un certo punto elenca i suoi maestri di politica: Berlinguer, Chiaromonte, Bufalini, Ingrao. Chi ha frequentato quegli ambienti, sa che non erano precisamente la stessa cosa. Ma questo mostra anche che ci troviamo di fronte a un politico di buona scuola. Quando sarà passata - perché dovrà pur passare - questa caccia alle streghe anticomunista, che a volte ci fa arrabbiare, il più delle volte ci fa sorridere per la sua ridicola improbabilità, allora forse si riscoprirà quella grande scuola, politica e umana, che fu il Pci. Quella presenza, radicata nel Paese ha, tra l’altro, costruito, quello che un partito serio, vero, deve costruire, classe dirigente, e classe dirigente in accordo, in sintonia, in reciproca fiducia con il proprio popolo. E qui interviene anche il Beruf weberiano, la politica come professione e vocazione. (...)
Bettini parla di “buona politica” e la definisce spesso come politica “sobria”. È di questo che voglio adesso parlare, perché «A chiare lettere» ci stimola a farlo.
Uno dei compiti della politica, oggi, è, secondo me, ordinare la dismisura tra il fatto e la rappresentazione mediatica del fatto. Perché qui è tutto fuori misura. Il consumo di massa dell’informazione arriva a stravolgere il senso della notizia. Si ingigantiscono i piccoli fatti inessenziali, si rimpiccioliscono quelli grandi che contano. L’eccezionalità dei fatti è spesso inventata. Perché la verità politica è che noi non viviamo uno stato d’eccezione, ma uno stato normale. Nel libro ritorna spesso questa eloquente espressione: “bonaccia politica”. Sì, perché questo è un tempo politicamente povero. Non è che i grandi contrasti non ci siano, è che vengono occultati dalle piccole emergenze che siamo costretti quotidianamente a inseguire. Compito della politica, allora, è un disvelamento della realtà: un rischiaramento di ciò che è in ombra, che faccia emergere i problemi veri.
Bettini dice del Novecento: c’era la grande politica, ma era una politica terribile. Bene, questo non è un problema, questo è il problema, che il Novecento ci ha lasciato. Come fare grande politica senza quella caduta nel tragico che maledettamente essa si porta dietro. Perché la risposta giusta non è quella che ha dato questo, non a caso, mediocre post-Novecento: siccome la grande politica ha questi esiti terribili, allora conviene limitarsi alla piccola politica. Ma la piccola politica è esattamente la crisi della politica. È questo tran tran quotidiano, con tutte le “passioni spente”. Guardate la condizione di quello che è il punto più alto dell’agire politico, il livello di governo, il luogo della direzione dei processi, della decisione politica. I governi non saranno più - come diceva Marx - comitati d’affari della borghesia. Ma solo perché sono diventati consigli d’amministrazione dell’azienda-paese. È molto labile ormai la differenza, di funzione, tra un capo di governo e un amministratore di condominio: soprattutto quando c'è da tenere insieme una coalizione. Tutto il giorno a fare i conti: quanto le entrate quanto le spese, quanto si accumula quanto si investe. Questo calculemus è la fine della politica. E l’Europa. Altro che potenza politica tra potenze politiche, oggi emergenti nel mondo. È in mano a ragionieri controllori dei conti: tu devi rientrare dal debito, tu sei uscito dai parametri.
Badate, non sto dicendo che la politica deve dare risposte di senso. Non è questa la sua funzione. Per questo ci sono le filosofie, ci sono le religioni, ora anche le scienze più avvertite, soprattutto quelle della psiche. Poi c’è l’etica. Etica e politica devono raccordarsi, ma in quanto due sfere autonome, come ci ha insegnato il pensiero moderno, da cui non è il caso di tornare indietro. C’è un punto di riflessione che ci riguarda tutti. Finché c’è stata dicotomia sociale, lotta di classe tra due forti aggregazioni, i sistemi politici erano sistemi di mediazione politica. Quando quella dicotomia sociale è caduta, siamo precipitati in un falso bipolarismo politico, dove il capitalismo come società divisa, su conflitti fondamentali, non si riconosce più, è nascosta da veli ideologici, come mai in passato.
Ora, io dico: assumendo pure la realtà dei poli contrapposti, vogliamo tornare a fare in modo che si confrontino sulle questioni essenziali?
Ne elenco alcune. Su progetti di società, cioè su modi diversi di convivenza umana, con una umanità in vorticoso movimento. Sull’idea non dell’interesse generale, perché l’interesse generale non esiste, esistono interessi parziali, che però devono ritrovarsi, anche per confliggere, dentro un comune spazio pubblico. E allora che cosa intendiamo per interesse pubblico? Come il bourgeois diventa citoyen? Immediatamente, trasferendo il suo interesse privato nella rappresentanza politica, o attraverso la mediazione delle forme della politica? Perché la politica è forma: è istituzioni e organizzazioni. Come si seleziona classe politica? Ci avevano insegnato che questo avveniva nei parlamenti e nei partiti. Ora, nel senso comune di massa, i parlamenti sono deleggitimati, i partiti vanno distrutti. Poi ci si lamenta che il livello attuale di ceto politico non è proprio quello che ci vorrebbe. E infine: nell'epoca della globalizzazione economica e finanziaria, che idea politica di mondo abbiamo, da mettere in campo su poli contrapposti?
Goffredo Bettini lascia il Senato, per dedicarsi all’impresa di costruzione del Partito democratico. Io gli auguro buon lavoro, con la raccomandazione di adoperarsi perché quello strumento si metta in grado di salire all’altezza di questi problemi.
Su questo, un’ultima considerazione. Di fondo. Bettini si è collocato, non da oggi, nel campo degli innovatori. E qui c’è, appunto, il nodo fondamentale - critico e strategico - dell’innovazione, sul terreno della politica, che non è la stessa cosa che l’innovazione sul campo delle tecnologia, o dell’economia. Politicamente, c’è un’innovazione “contro” la tradizione e c’è un’innovazione “sulla” tradizione. La prima è propria di una forza semplicemente politica, la seconda è propria di una forza politica che abbia l’ambizione di essere, o di diventare, una forza storica. Bisogna scegliere, decidere. La mia idea è che, in politica, non ci sono “nuovi inizi”. E quando ci sono, sono in perdita. Questo è stato empiricamente dimostrato, in anni recenti, in grande e in piccolo, con il crollo di sistemi e con il cambio di nomi. È la cosa più facile tirare una riga e dire: da oggi comincia una storia nuova. Oppure: io sono l’assolutamente nuovo. Chi dice così, dura lo spazio di un mattino. È con la lunga durata che devi cimentarti, con la potenza dell’eterno ritorno del sempre eguale. La grande politica è questo. La politica è una lotta del presente col passato, che non devi cancellare, che devi trasformare. Cambiare il proprio passato, mentre te lo porti dietro. La memoria storica è indispensabile alla politica.
Io leggo così il bisogno di Goffredo Bettini di dialogare con Pietro Ingrao. Da una parte una memoria vivente, dall’altra una politica dirigente. Qui, in questo luogo quasi sacro, può starci, nascosto, il tesoro della “buona causa”.
Il testo è tratto dall’intervento tenuto da Mario Tronti il 12 novembre durante la presentazione del libro di Goffredo Bettini al teatro Argentina di Roma

Repubblica 22.11.07
Dopo le rivelazioni di "Repubblica" sul patto segreto per favorire Berlusconi. Palazzo Chigi: è urgente fare chiarezza
Rai-Mediaset, è bufera
Inchiesta interna, giornalisti in rivolta.

Repubblica 22.11.07
Confalonieri: "Vogliono fermare Silvio e Walter"
di Dari Cresto-Dina


Mi sembra di essere tornato ai tempi della P2 C´è una strategia per affondare il nuovo progetto politico del Cavaliere

ROMA - Presidente Fedele Confalonieri, le intercettazioni dell´inchiesta Hdc dimostrano che la Rai era una succursale di Mediaset. E che al centro del "palinsesto unico" stava il bene di Silvio Berlusconi. So già che lei mi dirà che non sapeva nulla. Non è così?
«Le potrei dire che è una tempesta in un bicchier d´acqua, ma in realtà credo ci sia di più. C´è qualcuno che manovra per farci tornare ai tempi della P2. Quelle carte non sono uscite per caso. E, per di più, in questo momento».
Sono documenti a disposizione di molti avvocati. Carte frutto di un lavoro giornalistico. Niente di misterioso, nulla di preordinato.
«E allora sono stupidaggini. Vada a vedere chi si parla in quelle intercettazioni. Mica sono i vertici delle aziende. Sono giornalisti. Sono manager, ma non del top management, che si confrontano per non buttare via soldi. Come se i direttori dei vostri giornali non si sentissero ogni giorno. E non mi faccia ridere dicendomi il contrario».
Invece le confermo proprio il contrario. E le aggiungo un particolare che forse le sfugge. Qui siamo di fronte a un "inciucio" tra una azienda privata, Mediaset, e una pubblica, la Rai, che invece di farsi concorrenza avevano messo in piedi un "cartello" per favorire sul piano politico il leader della Casa delle libertà nonché il padrone di una delle due televisioni.
«Guardi che noi con la Rai ci scanniamo su tutto. La storia del cartello è una fesseria, noi di Mediaset abbiamo mai impedito la concorrenza. Le faccio soltanto l´esempio di Bonolis. La Rai ce lo portò via dandogli un sacco di soldi e noi lo abbiamo ripreso facendo uno sforzo economico altrettanto importante. Altro che collusione. La verità è che in questo paese la stagione di "Mani pulite" non finisce mai. Le carte escono dalle procure perché qualcuno ha interesse che ciò avvenga. E i giornali fanno da cassa di risonanza. La pubblicazione di quelle intercettazioni, inoltre, è illegittima».
Su questo punto la correggo. Le carte Hdc sono state depositate a inchiesta chiusa, sono pubbliche e a disposizione delle parti. Chi avrebbe interesse a utilizzarle come arma politica?
«Coloro che non vogliono la modernizzazione di questo paese, che coltivano spirito di bottega e hanno la convenienza che l´Italia rimanga nel casino. Su, non facciamoci prendere in giro. Ci sono strategie e obiettivi precisi».
Quali?
«Colpire ancora una volta il Berlusconi imprenditore sulla "roba", cioè le sue aziende, dando una accelerata alla legge Gentiloni sulla riforma televisiva che ormai avevano capito tutti che era come un "dead man walking" per essere pregiudizialmente e inutilmente avversa al Cavaliere. E colpire il Berlusconi politico, bloccando un´iniziativa importante che potrebbe verificarsi».
Il nuovo partito di Berlusconi, il dialogo con il Pd di Veltroni e sulle riforme?
«Esatto. Quello del Cavaliere è stato un colpo di genio, non di teatro. Ed è una cosa seria. La strada sulla quale si è messo è lunga, ma credo si possa percorrere. Ma nello stesso tempo è partita l´offensiva per cercare di fermarlo».
Piace anche a lei la prospettiva di un governo di grande coalizione?
«Le definizioni politiche non sono importanti, e poi non me ne intendo neppure granchè. La verità è che non credo più al bipolarismo. Se a governare l´Italia non riescono né il centrodestra né il centrosinistra è necessario trovare un quadro politico nuovo che garantisca la stabilità e lo sviluppo. Ha visto che cosa sta succedendo in Francia? Sarkozy da quasi dieci giorni riesce a tenere testa alle proteste e agli scioperi. Non oso immaginare che cosa sarebbe accaduto al governo Prodi o anche al governo Berlusconi...La nostra unica possibilità è mettere insieme le forze che la pensano nello stesso modo su quattro o cinque punti fondamentali per la modernizzazione del paese e che raccolgano complessivamente il 60-70 per cento dei consensi».
E come definirebbe questa formula politica: il grande centro, il ritorno di una grande Dc, un governo dei moderati?
«Niente di tutto questo. E poi, scusi, ai tempi della Dc i comunisti non potevano mica andare al governo. È un progetto che può interessare a molta parte della sinistra, anche se non certamente a quella radicale, e a molta parte del centrodestra. Una strada in salita, senza dubbio, ma che può trovare nel nuovo partito di Berlusconi e nel Pd di Veltroni i protagonisti dietro ai quali si possono accodare gli attori della politica di buona volontà. Non credo, invece, all´ipotesi di un grande centro guidato da Montezemolo. Il problema è che il Cavaliere fa sul serio. Il problema è che cercheranno di stopparlo in tutti i modi. Mi creda, la guerra è appena agli inizi».

Repubblica 22.11.07
Parma, studiosi di neuroscienze
"Scritto nel cervello il senso della bellezza"


ROMA - Il senso del bello è "scritto" nel cervello: gli indizi delle basi biologiche dell´esperienza della bellezza sono emersi da uno studio italiano firmato dal papà dei neuroni dell´empatia (neuroni specchio), Giacomo Rizzolatti, che dirige il Dipartimento di Neuroscienze dell´Università di Parma e pubblicato sulla rivista PLoS ONE. I neurologi hanno scoperto che esistono due modi di percepire il bello: uno oggettivo, dettato da strutture intrinseche e biologiche che coinvolge nel cervello centri della corteccia e l´insula; uno soggettivo, condizionato da cultura, ambiente, mode, che sembra nascere invece dall´amigdala, il centro che si attiva su informazioni personali e stati emotivi legati all´esperienza individuale. Questo studio, ha spiegato Cinzia Di Dio tra gli autori, comincia a far breccia in un territorio, quello della neuroestetica, ancora praticamente inesplorato.

Repubblica 22.11.07
Due scrittori americani a confronto sul loro rapporto con Dio sulla letteratura, sulla storia e sulla morale laica


NEW YORK. Vi propongo una domanda da cui deriva tutto il resto: Dio come parla al vostro cuore? Che cosa vi dice? Lo capite?
Englander Mi sono sentito un po´ sul chi vive quando lei mi ha invitato a parlare di questo argomento. Penso che chiedermi se credo in Dio sia qualcosa che voglio tenere per me. Però è vero. In realtà tutti gli interrogativi derivano da questo. Penso che dal punto di vista sociale questa domanda è forzata.
Auster È una domanda importante per chi pensa che sia importante, ma ci sono molte persone per le quali non lo è. Io provo sensazioni alquanto miste in proposito. Anche per me è un argomento molto intimo e privato. Mi confonde un po´ l´idea di credere in Dio. Soprattutto se al tempo stesso si parla del fatto di sentirsi seguaci di una religione, di avere una fede religiosa. Per quanto ne so, si tratta di due cose completamente distinte. E poi, che cosa è Dio? Come possiamo definire Dio? Penso che una cosa sia certa: non l´abbiamo creato noi il mondo. Ed eccoci dunque davanti a una grande mistero: da dove è nata ogni cosa? Forse è questa la domanda principale che dovremmo porci. Ebbene, alcune persone rispondono con una sola parola: Dio. Per quanto mi riguarda non sono mai stato capace di credere in questa idea. Non riesco a immaginare che la forza - chiamatela come volete - che ha creato noi e l´universo sia umana. In tutti i testi giudeo-cristiani e persino islamici, Dio creò l´Uomo a sua immagine. Ecco, io non capisco che cosa significhi. Dio è inconoscibile, è qualcosa che va talmente al di là di ciò che è umano che è impossibile per me immaginare di poter dialogare con una forza simile.
Ma d´altra parte non pensate che ciò equivalga a dire quanto siamo meravigliosi? Siamo simili a Dio. E un modo per dire che siamo creature meravigliose.
Auster Sì, siamo creature meravigliose e penso sia un grande mistero essere parte dell´universo. Ma sono stati gli uomini ad avere questa idea. In termini teologici, per esempio, le persone che mi hanno sempre commosso sono coloro che dubitano. Mi riferisco a Pascal o a Kierkegaard, che non accettarono facilmente Dio, perché ebbero dubbi, capirono che la fede è proprio un atto di cecità: ti ci butti, non sai niente ma accetti le cose come stanno. I loro tormenti, le loro lotte con le loro stesse anime sono raccontati nei loro libri. Sono talmente umani e profondi. Non rispetto invece chiunque pensi di avere ragione, chiunque pensi di poter rispondere facilmente a queste domande perché nel momento in cui qualcuno dice di appartenere a una religione e sente di essere padrone della verità. Ed è proprio questo ad aver creato enormi devastazioni nella storia dell´umanità: la gente si è ammazzata per delle idee, la gente uccideva chi non credeva in ciò in cui credevano gli altri.
La religione è un vincolo (lo dice la parola latina) e o le si è legati o non lo si è.
Englander Io sono stato allevato nel rispetto della religione. Io credo che se si è stati allevati nella religione, è in quella direzione che le vostre sinapsi si accendono. Per cui sono pienamente d´accordo, non si tratta di prendere o lasciare. Ogni cosa è rigorosamente prescritta: «Quale calzino indossare per primo, quale scarpa calzare per prima, come si deve parlare, come si deve mangiare, come si deve dormire». Se si sceglie qualcosa non vuol dire che questo giustifichi tutto. Invece la religione organizzata giustifica qualsiasi cosa. I più grandi crimini della terra sono stati commessi nel nome della religione.
Auster Vorrei tornare un momento su una cosa ch e ha detto Nathan. E su una parola chiave: moralità. È possibile avere un codice morale senza credere in Dio. Mi ricordo il grande interrogativo di Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: «Se Dio non esiste allora tutto è permesso». Questa è la grande paura: è una paura legittima, comprensibile, ma non per quanto mi riguarda, perché io credo nel fatto che il genere umano possa crearsi una propria moralità senza alcuna legge trascendente: noi la inventiamo e noi ci adeguiamo ad essa. È l´approccio kantiano al mondo, l´imperativo categorico. Io credo che sia possibile. Le religioni organizzate? Credo ce ne siano per tutti i gusti, tutti i colori, tutte le forme, no? E ciascuna di esse soddisfa un bisogno differente. Io sono stato allevato da ebreo. Sono ebreo, il che non è la stessa cosa che essere un ebreo praticante. La differenza tra cristianesimo ed ebraismo direi che è questa. Il più importante insegnamento del cristianesimo è «Fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te», il che è come chiedere agli individui di diventare santi. È pressoché impossibile obbedirvi. Invece nell´ebraismo l´idea è negativa: «Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te», ed è molto, molto più facile da fare. Da una parte, dal lato dei cristiani, ogni cosa è centrata sull´individuo, mentre dal lato degli ebrei ogni cosa è incentrata sulla nostra comunità, sulla società, su come le persone vivono tra di loro e come cercano di lavorare sentendosi un gruppo. Poi, se osserviamo il buddismo, ci accorgiamo che un Dio non c´è, ma il buddismo è sicuramente considerata una religione, quindi più ne parlo, più ci rifletto sopra, più mi sento confuso.
Englander Mi chiedo sempre se la religione non possegga un modo per auto-correggersi, in modo da cavarsela sempre. Il mio esempio preferito, quello sul quale mi arrovello maggiormente e per il quale litigo con tanta gente, è la storia di Yigal Amir, l´assassino di Rabin. Hanno detto che ha agito al di fuori della religione. A lui invece un rabbino - so come è stato allevato, e io stesso avrei potuto essere al suo posto - gli ha detto che assassinare Rabin sarebbe stato un atto religioso, che doveva farlo per Dio. Ecco, questo rientrava nella sua educazione, era programmato per farlo.
Siete d´accordo sul fatto che non possiamo usare soltanto la logica per occuparci di questo mistero?
Auster Be´, i teologi di sicuro ci hanno provato per centinaia di anni. Se si leggono i testi dei più grandi pensatori della Chiesa Cattolica ci accorgiamo che hanno scritto di scienza, di scienza religiosa. Ma c´è sempre un momento in cui immagino che si arrivi al punto cruciale in cui ci si chiede: mi butto o non mi butto? Per alcune persone è qualcosa di talmente desiderabile, che dà conforto, fornisce loro un terreno sul quale camminare. Altri sono così persi, così confusi, così incapaci di stare al mondo senza una cosa simile. Come ha detto il grande poeta italiano Giuseppe Ungaretti: vogliamo certezze. È quello che ha scritto in una delle sue grandi poesie. Per molti altri di noi, invece, non so se è proprio necessario. Io cerco la verità e non temo la verità. Non sento di aver bisogno che una dottrina mi dica come pensare, come comportarmi.
C´è qualcosa che ancora vi piace della religione?
Englander Moltissime cose. Quell´idea di tempo sacro, di spazio sacro. Del resto anche lo scrivere funziona così.
Auster Ho conosciuto molti credenti in via mia e fintanto che quella persona si comporta in un certo modo io la rispetto, se non mi condanna per il fatto di non credere in ciò che lui crede, allora io non ho problema alcuno nei suoi confronti. So che la religione può arrecare grande conforto alle persone e può diventare la cosa più importante della propria vita, ma se lo fanno in modo tale da non danneggiare nessun altro, chi sono io per giudicarle? Chi sono io per non rispettare ciò che sentono e ciò in cui credono?.
Traduzione di Anna Bissanti

Corriere della Sera 22.11.07
Walter e Silvio, primo colloquio segreto
di Maria Teresa Meli


Ieri il contatto. Veltroni rassicura Prodi e annuncia il vertice con Fini

Il leader pd: col tedesco faremmo risorgere il centro. Ma i prodiani fanno filtrare la voce che il colloquio è andato male

Al premier Veltroni, in mattinata, dice e ridice: «Questo dibattito sulla riforma non avrà conseguenze sul governo, le due cose procedono su binari separati, non preoccuparti ». Il presidente del Consiglio a dire il vero tranquillo non era quando il sindaco arriva a palazzo Chigi. Anche perché martedì il leader del Pd gli aveva detto che il giorno dopo avrebbe incontrato il Cavaliere. Il colloquio con Berlusconi si è svolto in gran segreto, nel primo pomeriggio, tra una girandola e l'altra degli incontri del sindaco di Roma, il quale, troppo impegnato in questa nuova impresa, non ha presieduto la giunta comunale «per un impegno personale».
Del resto, come spiegava ieri ad alcuni compagni di partito il vicecapogruppo dell'Ulivo al Senato Nicola Latorre: «È inutile prendersi in giro, non si può fare la riforma elettorale senza passare dal confronto con il maggior partito dell'opposizione, a meno che non si voglia che Forza Italia conquisti il 45 per cento da sola». Né si può vedere Fini senza aver prima parlato con il Cavaliere. L'intento di Veltroni è chiaro. Il leader del Pd ritiene che il sistema tedesco non garantisca il simil bipartitismo che ha in testa. A Berlusconi lo ha spiegato con parole chiare, per fargli capire che la riforma Vassallo- Ceccanti, il cosiddetto Veltronellum, in fondo conviene a entrambi: con il sistema tedesco — è stato il ragionamento del sindaco di Roma — si ricostruisce quel centro che ormai non esiste più. E ognuno di noi dovrà fare i conti con le richieste di Mastella piuttosto che di Casini. Avremo almeno otto partiti. Con l'altro sistema, invece, si creeranno quattro o cinque partiti al massimo e le due forze maggiori decideranno le alleanze senza dove subire pressioni o ricatti dei piccoli o delle ale estreme. Per farla breve, è la riforma che crea quel «partito a vocazione maggioritaria» che Veltroni sogna e che converrebbe anche al Cavaliere. Al quale è stato spiegato che in questo modo Fini dovrebbe tornare all'ovile e Casini non avrebbe più parte in commedia. Per la verità Berlusconi non ha deciso che fare, medita ancora di poter dare la spallata al governo, ma da qui al 30, giorno fissato per il colloquio ufficiale con Veltroni, di tempo ce n'è. Senza contare il fatto che il suo fedele braccio destro Letta si è invece convinto del Veltronellum.
Ma è chiaro che la strada lungo la quale si muove il sindaco è assai stretta e piena di ostacoli. Se Berlusconi dice di no il rischio è quello di andare a un referendum che costringerebbe il Pd ad alleanze coatte. Se Berlusconi accetta la proposta, seppur portando qualche modifica di cui si sta già discutendo, il rischio è di far fibrillare sul serio la maggioranza e il governo perché Rifondazione difficilmente potrebbe accettare un sistema che, di fatto, la rende marginale. Su questo potrebbe cadere anche il governo. Ed è per questa ragione che il leader del Pd si muove con i piedi di piombo e che in realtà non ha ancora stabilito la strategia da intraprendere. Le stesse identiche difficoltà in cui versa il Cavaliere, che oscilla ancora tra il muro contro muro e il confronto. Ma di certo questo primo abboccamento tra i due è un primo passo. Non a caso dai prodiani, preoccupati per il destino del governo e del loro leader, è filtrata la voce che il colloquio sia andato malissimo.

Corriere della Sera 22.11.07
Bersani: nel partito ci vuole il congresso. Gli aderenti devono decidere qualcosa
di Monica Guerzoni


ROMA — Pierluigi Bersani ha rinunciato a sfidare Veltroni alle primarie, ma non rinuncia a dire quel che pensa. E dopo giorni di accorto silenzio sul Pd, il ministro dello Sviluppo cede alle pressioni dei nemici del partito «liquido» e si fa portavoce di quanti, sul territorio come al vertice dei partiti fondatori, chiedono a Veltroni un congresso e scelte condivise.
Adesso Berlusconi vuole le larghe intese, è l'ora del tutti a casa?
«Per quanto Berlusconi si agiti, ha reagito ai colpi che noi abbiamo assestato. E il primo è l'azione di governo, dall'accordo sul welfare alla Finanziaria. Non abbiamo sbagliato le previsioni. Come dimostrano il restyling del centrodestra, la cosa rossa e quella bianca, il Pd ha rimesso in moto il sistema».
Forse troppo, per Prodi... Lei non teme inciuci?
«Chi ha interesse a fare le riforme sa che un inciampo dell'esecutivo sarebbe inutile e anzi dannoso. E quindi la possibilità reale di un governo che governa e di forze politiche che cercano la chiave per le riforme è diventata improvvisamente credibile».
Fa bene Veltroni a dialogare con Berlusconi?
«I colloqui sono necessari, ma non è mai chiaro quali siano le reali intenzioni di Berlusconi. La cosa più intelligente per non generare sospetti è far cantare le carte al più presto, in Parlamento».
Il bipolarismo è a rischio?
«Non è che dopo vent'anni di discussione lo buttiamo via, come nel gioco dell'oca. Il bipolarismo è ormai radicato nella coscienza della gente ed è irrealistico immaginare scenari in cui le forze politiche si tengano le mani libere. Quindi non è impossibile, anche se non è scontato, che il bipolarismo possa essere interpretato per via proporzionale. Ma bisogna introdurre meccanismi costituzionali per evitare ribaltoni, come la sfiducia costruttiva».
Qualcuno ha rispolverato la bicamerale...
«Basta mettersi al lavoro nelle commissioni parlamentari. Poi a me interessa capire cosa succede nel profondo. Nel centrodestra la leadership dovrà esprimersi con una impronta di tipo populista e questa piegatura non può essere concepita da Pezzotta o Tabacci. È una contraddizione che emergerà».
Non c'è spazio per la «cosa bianca»?
«L'aspirazione a collocarsi al centro è legittima, ma un partito che si tenga le mani libere si candida a perdere le elezioni in un nanosecondo».
Già finita l'epoca delle alleanze di nuovo conio?
«Le alleanze si dichiarano prima del voto, non si può più andare alle elezioni senza dire da che parte si sta. A noi tocca lavorare per una alternativa al pulpito populista, il cui titolo è "riscossa civica"».
Il contrario del partito liquido, modello loft.
«È la rete dei cittadini. Sarebbe assurdo esserci messi in questa nuova avventura per fare cose vecchie. Le assemblee di base eleggeranno i loro organismi, il partito sarà reperibile tutti i giorni dell'anno in tutti i luoghi e ne sono soddisfatto. Ma il passaggio crucialissimo è lo statuto e io immagino che La riscossa civica
riuscirà a descrivere il ruolo degli aderenti, dei partecipanti e quello dei cittadini elettori».
E il congresso? Veltroni non li ama...
«Finita la fase costituente dovremo aprire un percorso congressuale in cui il ruolo degli aderenti sia dirimente. Un percorso che inneschi meccanismi di partecipazione dentro-fuori, tessere e non tessere. Un congresso non si fa mica per eleggere il segretario, ma per consentire agli aderenti di dire la loro e decidere qualcosa sulla politica».
Anche lei contro le «scelte solitarie»?
«Abbiamo bisogno di dispiegare il tempo della politica, di avere sedi e luoghi dove le diverse opinioni si discutono e si compongono secondo procedure democratiche. L'abbiamo chiamato Pd non perché siamo americani, ma perché siamo democratici ».

Corriere della Sera 22.11.07
Gli europei e la cocaina: un milione di consumatori in più
Sono diventati 4,5 milioni. In Italia sniffa oltre il 5 per cento dei giovani Ecstasy: sequestrate 16 milioni di pastiglie. Allarme oppiacei sintetici
di Luigi Offeddu



BRUXELLES — Un continente che «sniffa ». Cocaina, mai così tanta, quasi una bufera di «neve» dallo stretto di Gibilterra ai Balcani, da Edimburgo ad Atene. Un milione in più di uomini e donne, da 3,5 a 4,5 milioni, che ammettono di averla provata solo nel corso dell'ultimo anno. E mai tanta «neve» fra i giovani, i giovanissimi: con l'Italia ai primi posti proprio per i consumi giovanili. Ma anche le altre droghe, tutte le droghe in genere, a cominciare da quei 16,3 milioni di pastiglie di ecstasy sequestrate dalle varie polizie, o dalle colle e altre sostanze chimiche inalanti che ormai, almeno in certi Paesi, sembrano divenute le predilette dagli undici-dodicenni, subito dopo gli spinelli di cannabis: l'Europa non è mai stata così intossicata come oggi, lo dice il rapporto 2007 dell'Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Oedt) che verrà diffuso stamane a Bruxelles.
L'Oedt, il centro di informazione sulle droghe dell'Unione europea che ha la sua sede centrale a Lisbona, ha elaborato i dati raccolti nei 27 Paesi membri dell'Ue, compresi dunque i «nuovi arrivati» dell'Est, più la Norvegia e la Turchia.
Il confronto con l'America
L'indagine viene svolta ogni anno, e stavolta ciò che ne risulta è una fotografia in chiaroscuro, ma complessivamente inquietante: l'Europa sembra ancora «star meglio » del Nord America per quanto riguarda la diffusione di massa della cocaina, delle amfetamine e della cannabis, e questo— sostengono gli esperti dell'Oedt — può essere attribuito alle politiche di riduzione del danno (legalizzazione delle cosiddette «droghe leggere», ambulatori e nuclei mobili che distribuiscono siringhe sterili, terapie al metadone, ecc.), cioè a quelle politiche che negli Usa non vengono praticate. Ma per il resto, il panorama è cupo. A cominciare proprio dalla cocaina: circa 7,5 milioni di giovani europei ammettono di averla usata almeno una volta nella vita, e 5 Paesi — Germania, Italia, Danimarca, Spagna, Regno Unito — guidano la classifica perché fra i loro giovani di 15-34 anni le percentuali di consumatori di cocaina toccano o superano il 5% del totale.
Le morti nelle grandi città
Perfino i decessi collegati all'uso degli stupefacenti, da molti anni in calo, sembrano ora in ripresa: e in ogni caso, hanno rappresentato il 4 per cento di tutti i decessi fra gli europei di 15-39 anni nel periodo 2004-2005. In 9 Paesi, hanno toccato il 7 per cento. In alcune grandi città d'Europa, il 10-20 per cento delle morti fra i giovani adulti potrebbe essere addebitata direttamente (per overdose) o indirettamente (per l'Aids, o per atti di violenza) al consumo di sostanze oppiacee. L'eroina sembra confermare un «trend» stabile, con consumatori sempre più anziani, ma anche in questo caso ci sono tre brutte notizie: sono comparsi nuovi oppiacei sintetici che potrebbero sostituirsi alla stessa eroina; aumenta il consumo illegale di metadone, soprattutto in Belgio, mentre in Danimarca sono aumentate proprio le morti legate allo spaccio di metadone; e infine, gli esperti temono ora l'«onda lunga» della produzione che sarebbe tornata a crescere in Afghanistan, del 46 per cento solo nel 2006, portando la produzione mondiale a superare ormai le 600 tonnellate.
Il supermercato dell'ecstasy
La «pastiglia magica», che conserva i suoi maggiori centri di produzione e spaccio nei Paesi Bassi, sorprendentemente non tocca i suoi picchi di diffusione nelle stesse aree, ma nell'Est Europa, in Gran Bretagna, e nei Paesi baltici. È comunque la droga sintetica più usata in 17 Paesi europei, e l'Europa nel suo insieme consuma il 38 per cento di tutta l'ecstasy del mondo. L'Oedt cita anche una ricerca inglese, secondo cui nel 1999-2003 il consumo di pastiglie fra i ragazzi è più che raddoppiato. Per la verità, su questa ricerca — pubblicata da una rivista di musica giovanile — viene espresso qualche dubbio: ma ciò che ha raccontato la cronaca nera degli ultimi anni, dalle discoteche di mezza Europa, fa lo stesso paura.

Corriere della Sera 22.11.07
Le cifre nel rapporto sul 2007 dell'Osservatorio della Ue
«Riconoscerli è facile: sospettosi e instabili»
di Mario Pappagallo


MILANO — «Oggi, di solito, chi fa uso di droga non lo nasconde. È da fighi. Logica di mercato: la cocaina è da vip, è da vincenti, aumenta piacere e prestazioni sessuali, rende imbattibili nel lavoro e nei rapporti con gli altri... Tutto falso, tutto il contrario». Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento dipendenze patologiche della Asl città di Milano, di cocainomani ne vede tutti i giorni. Da anni. Manager, medici, docenti, oltre a tanta gente comune.
«E nessuno di loro si accorge di vedere il mondo con un paio di occhiali colorati. La droga agisce trasformando profondamente a livello cerebrale la percezione di sé e dell'ambiente circostante».
Chiaro, ma se il messaggio è lo stesso del Cynar (cocaina contro il logorio della vita moderna) come fa un cocainomane a non accorgersi che in realtà tutto peggiora?
«Perché mette gli occhiali colorati. Chi lo conosce comprende, chi gli vive accanto non ha dubbi, ma per lui sono gli altri che non capiscono nulla. Anzi, uno dei segnali è proprio sospettare di tutto e di tutti».
Qual è l'identikit?
«Instabilità emotiva, incapacità a controllare gli impulsi, tendenza alla paranoia, come il sentirsi perseguitati. Il sonno è disturbato (o nulla o troppo). Sessualmente, la caporetto è continua. Si prendono psicofarmaci per risolvere i problemi, convinti che la cocaina non c'entri».
Esempi?
«Si passa dal riso sfrenato al pianto, dalla simpatia all'apatia, dall'aggressività alla passività anche sul lavoro. In pochi minuti. Chi guida in modo prudente, diventa spericolato. Lo stesso capita a un manager negli investimenti e al chirurgo in sala operatoria. In amore e nell'amicizia il sospetto si insinua ("Tutti mi guardano... Ce l'hanno con me?... Perché quello mi è amico?"). E a livello sessuale: compulsione, desiderio non soddisfatto, sensazioni di erezioni che non si hanno. È leggenda urbana che la cocaina renda super. Sicuramente nelle défaillances».
E il cocainomane resta nell'illusione?
«Di più: recita per confermarla. Confonde la causa con il rimedio. È come il fumatore con l'affanno che dice che è colpa dell'età».
Fino al momento che vengono da lei per smettere...
«Allora tolgono gli occhiali colorati e si stupiscono. Tutto prima era piatto. La normalità è più bella. Il vero Cynar è tornare alla normalità».

Corriere della Sera 22.11.07
Istat Vittime (spesso dei partner) sette milioni di donne. In crescita le torture psicologiche
Stupri, una condanna su 100
Sono oltre un milione i casi di violenza nell'ultimo anno
di Mariolina Iossa


ROMA — Stupri e violenze fisiche sulle donne fanno più vittime degli incidenti stradali. Fanno più vittime anche del cancro. Nel corso della loro vita quasi 7 milioni di italiane, il 32 per cento, sono state violentate o prese a botte, calci, pugni. E non meno di 12 milioni hanno subito torture psicologiche e molestie, compreso lo stalking, quei comportamenti persecutori, telefonate, minacce, pedinamenti, che a volte durano anni. Eppure, soltanto l'1 per cento degli aguzzini viene alla fine condannato. Anche perché solo il 7 per cento delle donne denuncia le violenze subite.
«È un dramma sociale e culturale che va affrontato senza indugi», ha detto ieri la ministra per le Pari Opportunità Barbara Pollastrini in vista della giornata internazionale contro la violenza alle donne, il 25 novembre, che in Italia sarà preceduta sabato 24 da una manifestazione a Roma. Il ddl che inasprisce le pene, incoraggia le donne a denunciare, attua forme di prevenzione, estende la certezza della pena, presentato dal governo all'inizio del 2007, è ancora fermo in Parlamento. Ma la presenza di Romano Prodi ieri all'assemblea aperta, durante la quale Pollastrini ha firmato un decreto che istituisce il Forum permanente, fa ben sperare. «Per vincere la battaglia — ha osservato il presidente del Consiglio — serve una coscienza collettiva, altrimenti la si perde».
In Finanziaria ci sono 20 milioni di euro da spendere, anche per varare un Piano nazionale e istituire un Osservatorio. Negli ultimi 12 mesi ci sono stati un milione e 150 mila nuovi casi di violenze e 62 donne sono state uccise. Venti milioni in tre anni non sono molti ma la ministra spera di rafforzare i centri antiviolenza e convincere più donne a chiedere aiuto. Sono anche state stralciate le norme sullo stalking e, assicura il presidente della commissione Giustizia della Camera Pino Pisicchio, saranno approvate entro fine anno: «C'era un vuoto da colmare nel codice penale. I comportamenti persecutori non possono restare impuniti, spesso sono l'anticamera della violenza vera e propria».
Violenze e percosse avvengono quasi sempre dentro casa. Succede 7 volte su dieci. Sono mariti, conviventi, fidanzati, ex. Un 17 per cento è opera di conoscenti, amici, parenti. La violenza si ripete nel 67,4 per cento dei casi. Ma le donne ancora non reagiscono come dovrebbero. Solo 2 su dieci pensano che le botte prese dal marito o il rapporto sessuale forzato siano reato. Gli stupratori sconosciuti sono solo il 6 per cento. «Lo stereotipo dello straniero che assalta una donna per strada non corrisponde alla realtà», spiega la ricercatrice dell'Istat Linda Laura Sabbadini. Tant'è che le donne più a rischio sono quelle separate e divorziate.

Corriere della Sera 22.11.07
Camera Governo battuto su alcuni emendamenti
Welfare, primi sì a Rifondazione e Pdci Altolà dei sindacati
di Enrico Marro


Prodi: «L'accordo si troverà». Oggi il mandato al relatore in vista dell'approdo in aula lunedì.

ROMA — Resta delicata la partita sul welfare nella maggioranza. Ieri le posizioni si sono irrigidite e il governo è stato battuto in commissione alla Camera per tre volte su altrettanti emendamenti al disegno di legge. Preoccupati i sindacati e la Confindustria, contrari a modifiche al testo che recepisce l'accordo col governo su pensioni e mercato del lavoro. La commissione Lavoro della Camera presieduta da Gianni Pagliarini (Pdci) ha votato a oltranza fino all'una di notte sui quattro articoli più delicati del disegno di legge (1-9-11-13), che sono stati lasciati per ultimi nel tentativo, fallito, di trovare un accordo sugli emendamenti delle sinistre radicali (Rifondazione, Pdci, Verdi, Sinistra democratica). Proposte di modifica rispetto alle quali il governo si è spesso opposto per tre motivi: non aggravare i costi, non venir meno all'impegno di non modificare il testo, il timore che eventuali cedimenti alle sinistre scatenino il voto contrario dei «diniani» in aula. Ieri qualche cedimento c'è stato. È passato un emendamento dello stesso Pagliarini che allarga le maglie per la definizione della platea dei lavoratori usurati, che potranno andare in pensione ancora a 57 anni. È stato infatti soppresso il riferimento al minimo di 80 notti lavorative all'anno per accedere al beneficio. «Un passo in avanti», ha commentato il ministro della Solidarietà, Paolo Ferrero (Rifondazione), che però ne ha subito chiesto un altro sul lavoro precario. Puntualmente arrivato quando sono stati approvati altri emendamenti: quello che stabilisce che il tetto dei 36 mesi sui contratti a termine si calcola indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l'altro, quello che dice che dopo 36 mesi ci può essere una sola proroga di massimo 8 mesi, quello che abolisce lo staff leasing,
questi ultimi due contro il parere del governo. Modifiche che hanno provocato dure reazioni dei leader sindacali e scateneranno le proteste della Confindustria. Bonanni (Cisl) tuona: «Un grave errore cancellare lo staff leasing ». Rifondazione è parzialmente soddisfatta. «Se si seguono le pressioni di Confindustria, si finisce in un vicolo cieco», aveva minacciato il capo di Rifondazione, Franco Giordano. Che però ha dovuto digerire il ripristino del job on call nel turismo e spettacolo (anche qui, parere contrario del governo). Soddisfatto pure il sottosegretario al Lavoro, Antonio Montagnino. Oggi la commissione voterà il mandato al relatore e da lunedì il provvedimento passerà all'aula.

Corriere della Sera 22.11.07
Estetica Tra Sant'Agostino, Diderot e Hindemith
Potente e irrazionale: la musica non è solo una divina armonia
di Gillo Dorfles


Il fatto che la musica sia stata, da sempre, considerata come la più «filosofica» delle arti, quella più legata alla matematica, dunque al calcolo numerico con tutte le sue distinzioni intervallari, le sue corrispondenze cosmiche («armonia delle sfere») non toglie che l'eterno quesito circa il peso da dare al «sentimento» o alla «ragione»; alla conoscenza o alla intuizione, abbia, e continuerà ad avere, una preponderanza in chi voglia sviscerare i problemi che sono alla base non solo del fattore compositivo, ma soprattutto di quello fruitivo.
Ma non è solo il contrasto tra fantasia e razionalità, tra sentimentalismo e razionalità, a entrare in gioco in ogni analisi rivolta a questa arte; giacché, quello che troppo spesso viene trascurato è proprio l'aspetto «percettologico » della nostra fruizione musicale. E, non solo le evidenti discrepanze individuali nel «godere» e valutare le opere musicali; ma il fatto della differenza epocale dell'elemento percettivo. Per cui — per non dare che un esempio macroscopico — l'intervallo di terza e in generale la triade maggiore da noi considerati come il non plus ultra della consonanza, presso gli antichi greci erano ritenuti come dissonanti. E non ho bisogno di risfoderare il problema del perché la musica pentatonale di popolazioni estremorientali o africane suoni all'orecchio occidentale come «ambigua»; e come l'avvento del «temperamento equabile » che ha reso artificiosamente equipollenti le diverse note della nostra scala «temperata», non abbia ancora giustificato il perché tante musiche folcloriche o di antiche culture, decisamente «modali » anziché «tonali», suonino all'orecchio non addestrato altrettanto «aliene» di un brano dodecafonico. Più che di simili questioni percettive, si occupa aggredendo veri e propri parametri filosofici, il recente volume di Silvia Vizzardelli che, da un punto di vista molto severo e storicamente aggiornato, analizza le vere e proprie costanti — o incostanti — filosofiche che attraverso le epoche hanno impegnato gli studiosi delle materia.
L'autrice, studiosa dell'Università della Calabria, si rifà ai grandi nomi di Boezio, di Sant'Agostino, e in seguito di Jankelevic di Bergson, di Hindemith, di Leibnitz, di Diderot, non trascurando i nostri estetologi Carchia e Piana (che, con la sua Filosofia della musica
ci ha dato un quadro molto illuminante sulla effettiva componente filosofica del pensiero musicale). La distinzione tra l'«effetto estetico» e l'«effetto patetico» studiato da Moritz Lazarus; e, ancor più, la fondamentale analisi delle valenza simbolica così ampiamente svolta da Susanne Langer non sono che due dei più tipici esempi di come la musica non possa non sottostare a una argomentazione filosofica, non accontentandosi di quella che è la sua spontanea «efficacia sentimentale».
«Era appunto il problema degli antichi, impegnati a stabilire se le differenze tre i suoni e le entità intervallari fossero da considerarsi attraverso una radicale riduzione aritmetica, calcolati secondo ratio logos proportio ; oppure andassero ricondotti alla flagranza dell'esperienza sensibile». Proprio in questi ultimi tempi è stato celebrato un importante convegno, svoltosi nel 1951 presso la Triennale di Milano , dedicato alla Divina Proporzione, nel quale, oltre alle molte analisi riservate soprattutto all'architettura e al design, si trattò anche di numericità pitagorica e dei rapporti tra musica e architettura (il noto adagio: «musica come architettura dei suoni» o architettura come «musica pietrificata »). Fu in quella occasione che io ebbi a svolgere un tema sopra la «Incommensurabilità della scala musicale», secondo il quale tendevo a sconfessare la possibilità di una ferrea legge imposta alla musica e ai suoi intervalli; insistendo appunto sulla presenza di numerose varianti percettive esistenti tra i diversi popoli e le diverse culture. Ebbene, se vogliamo giungere a una interpretazione davvero filosofica di questa arte, credo ancora che dobbiamo abbandonare ogni pretesa di razionalizzazione severa della stessa e arrenderci a una interpretazione essenzialmente simbolica e percettologica di questa straordinaria «entità estetica» che sfugge ad ogni metro razionalizzatore, ma la cui potenzialità immaginativa e patetica supera quella di ogni altra creazione umana.

Redattore Sociale 21.11.07
Giustizia: medicina penitenziaria... a marzo il "passaggio"?


Dopo 8 anni di attesa, sta per completarsi il sofferto transito di competenze dal ministero della Giustizia: un emendamento del governo alla finanziaria prevede la completa attuazione. Manconi: "Ma ci sono forze che si oppongono".
Il traguardo, finalmente, è vicino. Dopo otto anni di attesa, sta per completarsi infatti il sofferto transito della medicina carceraria dalle competenze del ministero della Giustizia a quelle della Salute. Se ne parla dagli anni novanta e nel 1999 si era perfino arrivati alla stesura di un testo di legge che andava nella direzione del passaggio di consegne da un ministero all’altro. Poi però c"è stato il vuoto legislativo. Ora, con un emendamento alla legge finanziaria per il 2008 presentato dal governo, si prevede la completa attuazione del decreto legislativo n.230 del 1999.
L’emendamento 47 bis prevede anche la relativa copertura finanziaria che per il 2008 si attesterà sui 157,8 milioni di euro. Dagli iniziali 70 milioni all’anno, si è riusciti a raddoppiare la cifra che si attesterà in media sui 146 milioni all’anno. Se la finanziaria sarà approvata, spetterà poi al governo chiudere il quadro con un provvedimento da varare entro 90 giorni, quindi a marzo. Sarà a quel punto un decreto del consiglio dei ministri a definire tutti i particolari di una riforma che non pochi cominciano a paragonare alla cosiddetta Gozzini.
Per fare il punto sulla situazione il Forum nazionale per il diritto alla salute dei detenuti ha organizzato questa mattina a Roma un convegno al quale ha partecipato anche il sottosegretario alla Giustizia, Luigi Manconi, all’assessore alla salute della Regione Lazio, Augusto Battaglia, un rappresentante del ministero della Salute in rappresentanza del ministro Livia Turco e naturalmente. moltissimi operatori che in questi anni hanno si sono impegnati con il Forum nazionale per far passare la riforma.
Lo hanno ricordato oggi sia Luigi Di Mauro, vicepresidente del Forum e presidente della Consulta penitenziaria del Comune di Roma, sia Leda Colombini, presidente del Forum. Di Mauro - che ha letto una lettera dall’assessore Rossi in rappresentanza delle Regioni - ha ricordato che si tratta di portare a compimento tutti i passaggi.
Quello che è rimasto scoperto ancora è il via libera al progetto di riforma (e alle relative linee guida) da parte dell’Assemblea Stato Regioni. Il testo base della riforma è stato già elaborato dalla commissione interministeriale. Sul progetto si sono impegnati direttamente i due sottosegretari dei due rispettivi ministeri, Gaglione per la Salute e Manconi per la Giustizia.
"Si sta per realizzare una grande riforma - ha detto oggi il sottosegretario Manconi - ma bisogna rimanere vigili perché ci sono ancora delle forze che si oppongono". Con la riforma completata tutte le funzioni sanitarie che oggi fanno capo al ministero della Giustizia passeranno al ministero della Salute e non sono state superate ancora tutte le resistenze.
"La riforma è un vero mutamento radicale - ha spiegato ancora Manconi che ha anche fatto l’elogio dell’attività e della perseveranza del Forum - il convegno di oggi è un fatto molto importante, ma non vorrei che passasse l’idea che abbiamo già raggiunto il risultato. Si deve fare in modo che le resistenze che ancora ci sono contro la riforma non diventino un ostacolo". Il sottosegretario Manconi ha detto anche che la salute in carcere non solo deve essere un diritto come per tutti i cittadini.
Da questo punto di vista, essendo il diritto alla salute universale, non si può tollerare un divisione tra cittadini inclusi e cittadini esclusi. Anzi, ha aggiunto Manconi, siccome chi sta in carcere sta peggio degli altri si deve fare in modo che la qualità della medicina offerta sia perfino superiore a quella che lo Stato mediamente riesce ad assicurare a tutti i cittadini. Un concetto che è stato poi ripreso nel dibattito facendo anche ricorso al pensiero di don Milani sugli ultimi.
Per quanto riguarda concretamente le risorse, l’emendamento all’articolo 47 della finanziaria dice espressamente che al fine di dare completa attuazione alla riforma, dall’entrata in vigore del decreto del Presidente del consiglio dei ministri, "sono trasferite al Fondo sanitario nazionale per il successivo riparto alle Regioni e Province autonome le risorse finanziarie valutate complessivamente in 157,8 milioni di euro per il 2008, in 161,8 milioni per l’anno 2009 e in 167,8 milioni per l’anno 2010, di cui quanto a 147,8 milioni a decorrere dal 2008 a carico del bilancio del Ministero della Giustizia e quanto a 10 milioni di euro per l’anno 2008, 15 milioni di euro per il 2009 e 20 milioni di euro per l’anno 2010 a carico del bilancio del Ministero della Salute.