domenica 25 novembre 2007

l'Unità 25.11.07
«Senza unità la sinistra rischia di essere cancellata»
Bertinotti al congresso della sinistra europea a Praga passa il testimone al tedesco Bisky
Il presidente della Camera sarà l’8 e 9 dicembre agli Stati generali convocati da Rifondazione Pdci, Sd e Verdi


SOLO UNITA la sinistra può vincere, in Italia e in Europa. Fausto Bertinotti parla a Praga, dove oggi si chiude il congresso della Sinistra europea, la formazione politica di cui nel 2004 è stato tra i fondatori. E l’ultimo intervento che fa da presidente della formazione politica prima di passare i testimone al tedesco Lothar Bisky guarda allo scenario internazionale ma guarda molto anche all’interno dei confini di casa nostra. Il presidente della Camera lancia la sfida per il futuro della sinistra europea dalla città che quarant'anni fa ha vissuto la pagina esaltante e drammatica della “Primavera”. «Annunciò il crollo dei regimi dell'Est - dice di fronte ai delegati - ma anche il primo duro colpo ai lavoratori ed al movimento operaio. Da quella Primavera la sinistra europea deve ripartire, riaprendo la sfida al capitalismo totalizzante». Ripartire, dunque, dal ricordo di quella «stagione di speranza che metteva in discussione la organizzazione capitalista del lavoro e della democrazia riaprendo la sfida al capitalismo totalizzante». Oggi, sostiene Bertinotti, «dobbiamo riaprire la sfida per interpretare il disagio e la critica della popolazione europea, che se non incontra un soggetto capace di rispondere anche ai movimenti rischia la implosione», cioè di «essere cancellata dall'Europa del prossimo futuro». E allora, secondo Bertinotti, «serve una sinistra più larga e vitale, capace di vincere la sfida del socialismo del XXI secolo e di contrastare il capitalismo incoraggiando i movimenti».
Ma anche in Italia la sinistra rischia di essere cancellata, se non intraprende con serietà un processo unitario. A questo proposito, il presidente della Camera annuncia che parteciperà agli Stati generali convocati l'8 e 9 dicembre a Roma. «Sarò presente - fa sapere dopo l'elezione di Bisky alla presidenza e dell'italiana Graziella Mascia alla vicepresidenza della Sinistra europea - con la speranza molto forte che si avvii la fase costituente di aggregazione di una sinistra unitaria e plurale in grado di contribuire a dare risposte ai problemi drammatici del nostro tempo: risposte che possono trovarsi solo in una nuova organizzazione della società che questa sinistra plurale e unitaria deve proporre. Un processo di unità che subisce una accelerazione anche davanti al fatto che siamo alle soglie di una riorganizzazione più complessiva delle forze politiche italiane».

l'Unità 25.11.07
Martedì mattina su Raitre con «La storia siamo noi» la verità sulla fuga del grande scienziato a Mosca nel 1950
Bruno Pontecorvo non fu una spia e anche il Pci lo aiutò a fuggire
di Bruno Gravagnuolo


Si riapre il caso Pontecorvo. E lo fa con nuovi materiali d’archivio e inediti filmati La storia siamo noi, in onda martedì 27 novembre su Raitre, alle otto del mattino: Le campane del Cremlino (a cura di Giovanni Minoli e Amedeo Ricucci). Perché quelle «campane»? Lo spiega Gillo Pontecorvo, fratello del grande fisico fuggito improvvisamente il primo settembre 1950, dopo una vacanza al Circeo con la moglie svedese e i due figli. Le campane venivano da Radio Mosca che Bruno ascoltava, ed erano un segnale ideologico e sentimentale a cui il fisico affidò la scelta più importante della sua vita: la clamorosa scelta dell’Urss. Plateale e segreta, almeno fino al marzo del 1955, quando lo scienziato prima con un articolo sulla Pravda poi in una conferenza stampa decise di rivelare i motivi della fuga. E le domande di ieri sono quelle di oggi. Perchè la fuga? Fu una spia Pontecorvo? E che ruolo ebbe nelle ricerche atomiche sovietiche durante la guerra fredda? E ancora: come e chi lo aiutò? E finalmente arrivano le risposte, anche sulla base di un libro originale: Il caso Pontecorvo di Simone Turchetti (Sironi editore, Milano), uscito qualche mese fa ma ancora poco noto.
Turchetti è in trasmissione con molti testimoni e storici. Tra i quali Roy Mevdedev, lo storico della scienza Kiselov, Miriam Mafai biografa di Pontecorvo, i due figli dello scienziato, Adriano Guerra, il fratello scomparso Gillo, e Gianni Cervetti, uomo chiave del Pci, che ha raccontatto tutto sui famosi finanziamenti dell’Urss al Pci sino al 1979-80. Ne viene fuori intanto che il fisico, giovane di Via Panisperna e allievo di Fermi, non fu impiegato in ricerche militari. Bensì al grande acceleratore di particelle di Dubna. Che egli poteva girare in Russia abbastanza liberamente, e non era sottoposto a restrizioni, come gli altri scienziati «militari». Che lavorò forse indirettamente a certi progetti, magari con consulenze nel campo delle «prospezioni» uraniche e petrolifere, occupandosi dei suoi campi prediletti: trizio, neutrino e oscillazione del neutrino (campi decisivi da lui anticipati, ma che valsero ad altri il Nobel). Ancora: Pontecorvo era in contatto con alcuni scienziati «spie smascherate»: l’inglese Num May e il tedesco Hans Fuchs. Ma solo il primo aveva lavorato alla bomba a Los Alamos, mentre Bruno era stato escluso da quel progetto, perché comunista. Di qui il timore di finire incastrato dai «servizi» a Londra, dove lavorava e conobbe Fuchs. Anche in ragione di una causa intentata contro gli Usa dai fisici italiani, per i proventi del «brevetto» sul nucleare di allora. Questi i moventi che spinsero Pontecorvo a fuggire, assieme alla fede comunista e all’idea di lavorare per la roccaforte sovietica in nome della pace. Interrogato in Urss però, rivelò cose che i sovietici già sapevano, e in più quando Bruno giunse a Mosca l’Urss già disponeva di centinaia di bombe atomiche. Ultimo tassello, le modalità di fuga. Roma, Stoccolma e poi l’Urss. Biglietto pagato con banconote da cento dollari e dopo aver seminato «scientificamente» falsi indizi sulla partenza. Chi aiutò Pontecorvo? Verosimilmente l’ambasciata sovietica. E anche il Pci, attraverso l’autorevole Emilio Sereni, cugino di Pontecorvo e mentore culturale di tanti comunisti (tra cui Amendola). L’ipotesi è accreditata da Gianni Cervetti ed è plausibile. Ma è un dettaglio in una vicenda più vasta. Quella di un grande scienziato che in piena guerra fredda scelse da comunista l’Urss. Lacerando la sua vita tragicamente e senza pentimenti. Pur lasciando trapelare alla fine di aver commesso un errore.

l'Unità 25.11.07
Cos’è cambiato da Welby a oggi
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


È passato quasi un anno dalla morte di Piergiorgio Welby. In questi giorni, una serie di articoli e di iniziative ne ricordano la storia e la battaglia politica, il suo coraggio e la sua integrità. C'è da chiedersi: cosa è cambiato, in Italia, dopo la morte di quell'uomo? È un interrogativo lontano da ogni retorica, una domanda che risponde al senso profondo della vertenza aperta da Welby sulla libertà terapeutica, sul rapporto che la persona - nella sua declinazione giuridica di «cittadino» - intrattiene con la propria identità fisica e la propria corporeità.
Ebbene, qualcosa è cambiato. E quel qualcosa è moltissimo: perché sono assai importanti gli orientamenti che ci segnala la piena assoluzione di Mario Riccio, l'anestesista che assistette Welby negli ultimi giorni della sua malattia, dall'accusa di «omicidio di consenziente»; ed è altresì importante l'ultima sentenza della Cassazione sul caso di Eluana Englaro, che Vincenzo Carbone, primo presidente della suprema Corte, ha spiegato così: «La Corte di Cassazione ha escluso che l'idratazione e l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscano, in sé, oggettivamente, una forma di accanimento terapeutico, pur essendo indubbiamente un trattamento sanitario; ha deciso che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzarne l'interruzione soltanto, dovendo altrimenti prevalere il diritto alla vita, in presenza di due circostanze concorrenti: 1) la condizione di stato vegetativo del paziente sia apprezzata clinicamente come irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità, secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacità di percezione; 2) sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento».
Sono, quelli citati, elementi che evidenziano non solo il rilievo che le questioni «di vita e di morte» hanno assunto nel dibattito pubblico: essi testimoniano della nuova sensibilità dimostrata dalla giurisprudenza nel riconoscere i diritti della persona malata, incluso quello a una morte compassionevole e non dolorosa e quello a porre fine a un'esistenza mutilata dei suoi tratti più umani e intensi. La libertà terapeutica è uno di quei temi correntemente riconosciuti come «eticamente sensibili». Essa implica uno sforzo di individuazione della linea di demarcazione che salvaguardi la libertà dell'individuo di disporre della propria vita - quindi anche della propria salute e del proprio corpo - dai condizionamenti che ad essa possono venire da vuoti normativi, dal progresso della scienza medica, dalla tecnicalizzazione e dalla burocratizzazione del rapporto tra terapeuta e paziente. In termini più ampi, e per dirla tutta, le implicazioni etiche ed esistenziali cui rimandano questioni come quella del Testamento biologico, ad esempio, hanno a che fare con il rapporto dell'uomo con la modernità, la tecnologia, la scienza; e con l'elaborazione di miti (dal vaso di Pandora in poi) e di figure della cultura e della letteratura classica e popolare (dal Faust al Golem). L'intensità evocativa di quelle rappresentazioni, in riferimento ai casi prima richiamati (Englaro, Welby; ma anche a quelli di Terry Schiavo e di Giovanni Nuvoli), ben spiega di come il rapporto tra scienza e vita interpelli, sempre più, le menti e le coscienze di molti.
Le vicende che scandiscono la discussione sulla libertà terapeutica sono storie di corpi dolenti, fisiologie morenti tenute in vita senza possibilità di guarigione, in stati vegetativi irredimibili o incapaci (o scarsissimamente capaci) di relazione con il mondo e di espressione e rappresentazione del sé; condizioni umane in cui la vita non è più tale - non è più come l'abbiamo pensata ed esperita per secoli - e la morte, immanente ma non imminente, è una condizione sempre attuale, eppure sempre sospesa: procrastinata a data incerta.
La scienza medica è giunta a un punto di evoluzione tale da poter mantenere in vita i propri pazienti, prossimi alla morte, pur nell'assenza di qualsivoglia prospettiva di regressione della loro patologia: idratati e alimentati artificialmente, talvolta sostenuti nella funzione cardiaca e assistiti in quella respiratoria da macchine sofisticate, senza il cui ausilio morirebbero immediatamente o in breve tempo, essi esistono in uno «spazio intermedio» inedito, tra vita e morte, del quale poco sappiamo. E si trovano in quella condizione, nella quasi totalità dei casi, non per propria scelta, bensì per un concorso di prassi e tecniche mediche sinora sottratto al controllo di chi le subisce (il malato, appunto); e senza che vi sia possibilità di tutela giuridica dei suoi interessi, a causa di un vuoto normativo oramai insostenibile. Il Testamento biologico, uno strumento che si rivelerebbe decisivo nel dirimere molti casi come quelli richiamati e che contribuirebbe a una riduzione della domanda di eutanasia, non è ancora legge. L'attività parlamentare ha evidenziato, in questi anni, ampie possibilità di convergenza tra destra e sinistra, tra laici e cattolici, sui motivi ispiratori di questa materia. Ciononostante, la politica appare, nel suo complesso (fatte salve alcune iniziative individuali), in netto ritardo nell'affrontare la questione. Questo dato non può essere spiegato solamente alla luce di congiunturali difficoltà delle coalizioni; esso trova spiegazione, piuttosto, nei limiti che il legislatore incontra nel decidere su una condizione «umana, troppo umana».
Ma l'idea - propria di molti oppositori del Testamento biologico - che all'origine della volontà di riduzione del dolore risieda una cultura materialista ed edonistica rimanda, singolarmente, ad un vero e proprio rovesciamento di significati. Il «principio del piacere», evocato in queste circostanze, richiama, invece, il suo contrario: ovvero l'angoscia per la morte e per quella sua forma anticipata - quell'«annuncio» di essa - che è la sofferenza fisica. Un'angoscia che nessun processo di «secolarizzazione» può rimuovere, e nemmeno accantonare; e che risulta sempre più fattore di incertezza e di stress, nella vita contemporanea, perché il flusso di messaggi ricevuti e di aspettative alimentate sembra promettere, piuttosto, una crescente capacità di differimento e di controllo della morte stessa. Dunque, intorno alla categoria e all'esperienza della sofferenza - e alla conoscenza intima del dolore fisico, delle sue soglie e dei suoi abissi - si impongono oggi i più radicali dilemmi etici e le conseguenti «scelte tragiche», tra opzioni analogamente legittime e degne di tutela: e analogamente fondate su motivazioni morali. Piergiorgio Welby ci ha aiutati a guardare a quell'angoscia con più coscienza e intelligenza; e, paradossalmente e nonostante la sua morte, con più speranza.
Scrivere a abuondiritto@abuondiritto.it

il manifesto 24.11.07
Il saper fare che cancella il comando e l'obbedienza
Pubblicate le lezioni di Gilles Deleuze su Spinoza. Un piccolo capolavoro di insegnamento e di riflessione filosofica
di Augusto Illuminati


Dal punto di vista autoriale e proprietario incerto è lo statuto di questo Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza di Gilles Deleuze, curato e prefato da Aldo Pardi per Ombre Corte (pp. 202, euro 18,50) - versione italiana della sbobinatura, reperibile in rete (www.webdeleuze,com), delle lezioni dedicate a Spinoza (gennaio 1978; novembre 1980-marzo 1981) - ma che meraviglia di immediatezza filosofica e di efficacia didattica. Naturalmente viene spontaneo raffrontarla con i grandi testi consacrati negli anni '60 dallo stesso Deleuze all'Olandese nonché al complementare Nietzsche. Qui è più evidente per un verso il confronto con la tradizione accademica più innovativa (Martial Gueroult e Ferdinand Alquié), per l'altro un corpo a corpo con il testo che consente una trasmissione impagabile al pubblico, con un'esplicita traduzione esistenziale e politica dei luoghi più astratti dell'ontologia, anzi con l'assunzione tutta politica della dimensione ontologica.
I tre gradi di conoscenza
La lezione introduttiva del 24.1.1978 pone già tutti i termini del problema: il rapporto fra idea, affetto e affezione, l'impersonalità automatica della successione delle idee, l'incessante variazione della potenza del corpo e della mente, la composizione positiva e negativa dei corpi, l'essere il nostro corpo determinato dall'insieme dei rapporti che lo affettano e che è in grado di organizzare. Dunque, nulla conta se non la mappa degli affetti di cui un corpo è capace, risultandone saturato nelle due opposte direzioni del potenziamento o depotenziamento indefinito della propria potenza di agire. La felicità dell'incontro appagante, l'autodistruzione dell'overdose. Il passaggio dalla passione all'azione. L'Etica non è una morale precisamente perché Spinoza non chiede mai cosa «si deve» fare, ma cosa si è in grado di fare, tratta della potenza non del dovere. In altri termini (lezione 2) è un'etologia che non rinvia ad alcuna istanza superiore.
Nelle lezioni successive Deleuze affronta originalmente la partizione in tre gradi della conoscenza, accentuando la riduzione di quella immaginativa a errore, insistendo sul carattere singolare e non astrattivo delle nozioni comuni, il cui ruolo è soprattutto di intensificare la potenza di agire, definendo rigorosamente il terzo genere di conoscenza come connessione reciproca di intensità pure, di essenze singolari liberate dalle parti estese.
Con un percorso solo apparentemente a zig-zag si tocca poi il problema del diritto naturale fondato sulla potenza e dei rapporti con Hobbes (lezione 3), riprendendo il motivo della razionalizzazione come costruzione utilitario-cooperativa e non realizzazione dell'essenza dell'uomo; l'equipollenza e pari legittimità di ragione e follia dal punto di vista della potenza naturale e lo loro differenziazione solo negli affetti che ne conseguono sul piano sociale; il fondarsi della società sulla consensualità e non sulla superiore competenza del saggio (lezione 4). Su quest'ultimo punto si registra una convergenza sostanziale con Hobbes, mentre le strade si divaricano quanto alla persistenza del diritto naturale e soprattutto per le decise conseguenze anti-gerarchiche che Spinoza ne trae sia per rifiutare qualsiasi metafisica dell'«Unicità» sia per negare la riduzione dello Stato alle funzioni di comando e obbedienza.
La fine dello Stato è infatti la libertà, cioè il più ampio sviluppo della potenza, mentre l'obbedienza vale solo se funzionalizzata a ciò. Se non c'è un «Uno» superiore all'essere, allora bene e male sono nulla, non semplicemente relativi ma relativi alla differenza dei gradi intensivi di potenza che risultano da combinazioni aleatorie (lezioni 5-6). Non si nasce né liberi né razionali: come lo si diventa? Attraverso un complesso discorso sull'infinito, dove spicca l'illuminante contrapposizione, desunta dal critico d'arte Alois Riegl, fra l'universo ottico-tattile dei Greci e il binomio bizantino luce-colore che libera la figura dalla tirannia dello spazio (lezione 7), si perviene a una definizione dell'individuo non come sostanza ma come rapporto emancipato dal limite, gradiente di potenza nell'ambito di una continua composizione di rapporti fra le affezioni del singolo modo e fra i singoli modi.
Nella lezione 8 Deleuze è per un attimo affascinato dalla proposta di Gueroult che intende il rapporto fra movimento e riposo (i due modi infiniti immediati che costituiscono ogni modo finito nell'attributo Estensione) quale «vibrazione», ma preferisce definire l'individuo quale rapporto differenziale specifico dei sotto-individui infinitamente piccoli che lo costituiscono - forse ha torto, alcuni neuroscienziati leggono in modo vibrazionale le attività neuronali e addirittura hanno identificato la coscienza con una determinata frequenza.
Di qui, nelle due ultime lezioni, Deleuze ritorna sul tema della conoscenza. Gli uomini sono composti di parti estese connesse fra di loro e con l'esterno in modo del tutto contingente: puoi nutrirti piacevolmente o avvelenarti, fare un incontro piacevole o essere punto da una zanzara. Le idee inadeguate, proprie del primo genere di conoscenza, si limitano a constatare quella casualità e costituiscono il primo strato dell'individualità.
Il culmine della beatitudine
Per fortuna possiamo accedere, grazie al secondo genere di conoscenza, alla scoperta della norma che contiene il criterio di composizione e decomposizione dei vari rapporti, la comprensione delle cause e della ragion d'essere di cose ed eventi. Passiamo a controllare i rapporti, come chi nuota domina e sfrutta le onde che travolgono l'inesperto, chi passivamente dipende dall'immaginazione. Un saper fare, dunque, non solo una conoscenza geometrica e matematica, mentre ogni categoria conoscitiva è anche un modo di esistenza. Tanto più questo vale per il culmine della beatitudine, la conoscenza di terzo genere per cui sentiamo e sperimentiamo di essere eterni. Accesso alla verità eterna dei rapporti, al regime dell'esistenza delle parti intensive che rende minoritaria e irrilevante la parte estesa imprigionata nella durata e destinata alla morte per usura e attrito con il mondo esterno. Unione mistica delle essenze che continuano a distinguersi fra di loro pur essendo contemporaneamente tutte intrinseche le une alle altre.

Repubblica 25.11.07
"Non possiamo restare in eterno a Kabul"
Cosa rossa all'attacco: un vertice sul ritiro. Bertinotti: serve una riflessione
di Giovanna Casadio


Ma per Prodi "la missione non si discute". Veltroni: la pace non è ancora raggiunta
Diliberto: siamo visti come una forza occupante. Ferrero: ripensare la nostra strategia

ROMA - «Qualcuno mi spiega perché continuiamo a stare ancora in Afghanistan?». Oliviero Diliberto non si limita al dolore e al cordoglio; a Prodi, a Parisi e a D´Alema chiede di indicare una data per il ritiro delle truppe italiane da Kabul e di darsi da fare per una svolta internazionale: «Non possiamo restare in eterno, o no? Siamo visti come forza d´occupazione». Non è solo il segretario del Pdci a fare pressing sul governo. Anche Rifondazione insiste per «una nuova strategia». La sinistra radicale esprime solidarietà alla famiglia del maresciallo morto da eroe, usa toni diversi ma punta a un vertice dell´Unione dove si discuta del ritiro dei militari italiani e della Conferenza internazionale di pace al cui tavolo possano sedere anche alcuni rappresentanti dei talebani.
Dopo il lutto insomma, è tempo di rivedere la posizione dell´Italia. Benché le parole del premier Prodi siano inequivocabili - «La missione non si discute» - uno dei punti-chiave nella convention della "Cosa rossa" (Prci, Pdci, Sinistra democratica e Verdi), l´8 e il 9 dicembre sarà proprio la missione afgana e il pacifismo. Lo stesso presidente della Camera, Fausto Bertinotti pur non volendo affrontare la questione («Non partecipo a discussioni politiche nel giorno di una tragedia»), ammette che «una riflessione» è indispensabile. Rincara il capogruppo di Rifondazione al Senato, Giovanni Russo Spena: «Bisogna imboccare una strada diversa, è giusto che in questa giornata prevalgano il cordoglio e l´emozione ben sapendo però che il nostro eroico militare è rimasto vittima di un meccanismo di guerra. Il ministro degli Esteri, Massimo D´Alema chieda subito all´Onu un chiarimento. Il governo italiano è in ritardo». E il ministro Prc, Paolo Ferrero avverte: «Non possiamo non ripensare la modalità della nostra presenza in Afghanistan».
La "Cosa rossa" punta a una svolta strategica prima di febbraio, quando in Parlamento si dovrà votare sul rifinanziamento della missione afgana. Già le minoranze di Rifondazione annunciano un no "senza se e senza ma". Del resto, sono molti i parlamentari pacifisti i quali non sono più disposti a mediazioni: il numero dei "dissidenti" che nel febbraio scorso fecero scivolare il governo al Senato sulla politica estera, è aumentato. Paolo Cento, sottosegretario dei Verdi è perentorio: «Non si tratta di riaprire il tormentone sul ritiro, è che davvero non possiamo continuare a piangere i nostri soldati, là siamo in uno scenario di guerra». A ribadire che ci vuole un incontro di maggioranza sull´Afghanistan è anche Manuela Palermi, presidente dei senatori Pdci. L´Unione resta quindi divisa. Pd, Sdi-Radicali e Udeur non vogliono sentir parlare di ritorno a casa delle truppe italiane. «Gli eroi rafforzano la speranza in un traguardo di pace», ricorda Walter Veltroni. E il senatore a vita Cossiga provoca in un´interpellanza a Prodi: «Il governo ritiri il contingente».

Repubblica 25.11.07
La sinistra radicale, da Sansonetti alla Dominijanni
"Prese in giro dal Palazzo contestazioni sacrosante"
"Lo avevano detto: no a quelli del family day e del pacchetto sicurezza"
di Caterina Pasolini


ROMA - Hanno ragione. Si sono sentite usate, strumentalizzate, violate ancora una volta. E così hanno risposto con fischi e contestazioni. Lo avevano detto: «Non vogliamo i politici che hanno partecipato al family day, via i ministri che hanno votato il pacchetto sicurezza» e quando li hanno visti salire anche sui palchi televisivi, in piazza, hanno reagito.
Lo dicono con parole diverse il direttore di Liberazione, Sansonetti, il senatore di Rifondazione Russo Spena e le giornaliste e femministe storiche Fossati e Dominijanni, ma la linea è comune. Appoggio alle ragazze dei collettivi che hanno sfilato; comprensione se non giustificazione per i fischi di contestazione a ministri e politici; analisi della forte presenza di giovani, fortemente politicizzate e radicali.
«È stata una contestazione legittima, le donne si sono sentite usate ancora una volta per far passare provvedimenti forcaioli del pacchetto sicurezza. La violenza sulle donne, sempre ignorata, è stata ricordata e usata per una politica xenofoba e questa strumentalizzazione alle donne non è piaciuta», dice Piero Sansonettii. Il direttore di Liberazione giudica la politica italiana «maschilista» e spera che dal movimento delle donne, dalle nuove generazioni scese in piazza ieri, venga «una spinta rinnovatrice».
Che la manifestazione di ieri, la forte presenza dei collettivi, possa essere una spina nel fianco, un pungolo per il governo di centro-sinistra lo spera anche il senatore di rifondazione Giovanni Russo Spena. «Dovrebbe avere un effetto positivo, di spirito critico, ai troppi provvedimenti tolti dall´agenda del governo per divisioni interne, per la longa manu del Vaticano che preme attraverso i deputati e blocca il programma di governo: dalle unioni civili all´impegno contro la violenza. E comunque era una manifestazione dichiaratamente provocatoria, lo avevano detto, annunciato».
Ma molti non hanno ascoltato. «Avevano detto di non voler i politici che avevano partecipato al family day o quelli della sinistra che avevano approvato il pacchetto sicurezza. E quando hanno visto la Prestigiacomo e la Turco sul palco televisivo hanno reagito», spiega la giornalista del Manifesto e femminista storica Ida Dominijanni. «Senza contare che noi femministe siamo sempre state sensibili alla rappresentazione: per questo era stato deciso di non chiudere il corteo con un palco, con oratori. E i ministri avrebbero dovuto capirlo, nelle cose ci vuole garbo, davanti a questa decisione non ci si prende la scena mediatica».
Più dubbiosa Franca Fossati, giornalista, storica direttrice di Noi Donne: «Nelle contestazioni di ieri c´è del vero, del giusto, ma avrei preferito che puntassero sull´analisi del rapporto uomo-donna che invece è stato oscurato da un discorso antigovernativo». E racconta della presenza alla manifestazione di più giovani donne che in passato, di studentesse che hanno «espresso una carica antigovernativa radicale da sinistra». E che quando hanno visto sul palco le personalità politiche indesiderate «si sono sentite escluse, strumentalizzate». E hanno reagito.

Repubblica 25.11.07
Bertinotti: "Per la legge elettorale i tempi sono stretti, è in arrivo il giudizio della Consulta sul referendum"
"Non ci sarà inciucio tra Veltroni e il Cavaliere riforma entro gennaio"
di Umberto Rosso


Il referendum non conviene a nessuno. Ci sono punti condivisi: modello tedesco, sbarramento al 5%, niente premio di maggioranza

PRAGA - «L´inciucio? Tranquilli, non ci sarà. E spiego perché un asse fra Veltroni e Berlusconi non è nel novero delle cose possibili: nessuno dei due in realtà avrebbe da guadagnarci». Fausto Bertinotti tranquillizza gli scettici e rincuora partiti e partitini, Rifondazione compresa, che al tavolo della trattativa sulle riforme guardano con apprensione mista a speranza. E conferma perciò il disco verde al confronto, sistemando però un paio di paletti. Primo: «Naturalmente il capo del Pd e il capo dell´opposizione possono incontrarsi, parlare, ma la legge elettorale non è certo materia di trattativa privata: il confronto vero poi si fa in Parlamento, e al tavolo devono sedere tutti i partiti». Secondo, un avviso ai due naviganti: «In teoria potrebbero anche mettere a punto una riforma contro ciascuno degli altri partiti ma, attenzione, non contro tutti gli altri partiti. Non ne avrebbero i numeri». Ovvero, la tentazione di giocare una partita Pd-Pdl contro il resto del mondo sarebbe destinata a innescare una rivolta degli esclusi, che farebbe fallire l´operazione.
Bertinotti sbarca a Praga ancora nelle vesti di presidente della Sinistra europea ma, quando finisce di parlare ai delegati del congresso, ha solo l´abito di presidente della Camera. Lascia (per incompatibilità di ruoli) i vertici della Se con un omaggio ai 40 anni della primavera che proprio qui sbocciò, quella di Dubcek, una sconfitta che «annunciò il crollo del regimi dell´est ma anche il primo duro colpo ai lavoratori». E anche con un appello-autocritica consegnato nelle mani dell´erede Lothar Bisky (eletta vicepresidente Graziella Mascia, del Prc): serve «un´inversione di tendenza» perché Se non è riuscita a interpretare lotte e movimenti che fanno irruzione sulla scena europea. Il nuovo modello? La Die Linke tedesca e la Cosa rossa italiana.
Bertinotti, fuori dalla sala del Top Hotel immerso nella nebbia praghese, illustra lo scenario di casa nostra. «Non temo un asse fra Veltroni e Berlusconi, intanto perché un eventuale patto dovrebbe riguardare un terzo soggetto, distinto dai primi due, e che pertanto non è nella loro disponibilità». Si chiama governo, si chiama Prodi. Del quale Berlusconi chiede la testa per firmare un´intesa. Ma il Cavaliere, come si è visto finora, non ha la forza per sferrare la spallata e quindi per imporre diktat al tavolo della riforma, né - sembra di capire dalle parole di Bertinotti - riuscirà a farlo ballare sul welfare, Dini o non Dini. Tantomeno sarà Veltroni a mettere a rischio il governo. I sospetti, i dubbi che riafforano, specie a sinistra, sulle intenzioni «segrete» del leader del Pd? «Io - risponde il presidente della Camera - sono assolutamente convinto del suo sostegno al governo. Ragioniamo. Un inciucio a due, dei partiti più grandi, sulla riforma elettorale come dicevo scatenerebbe una reazione di tutti gli altri e verrebbe affossato. E che cosa resterebbe a quel punto a Veltroni, e anche a Berlusconi? Solo il referendum. Ed è esattamente quel che i due vogliono evitare, perché non serve loro: è proprio il contrario rispetto ai rispettivi progetti politici».
E´ il meccanismo che uscirebbe dal referendum, il superpremio di maggioranza al partito più forte, che secondo Bertinotti spegne ogni tentazione inciucista. Anche in questo caso la "lettura" del presidente della Camera contraddice, e rassicura, quanti temono invece che alla fine Silvio e Walter vogliano giocarsi proprio l´arma referendaria per regolare i conti con le ali. «Una strada impraticabile, e i due lo sanno bene. Per vincere, sulla base del meccanismo referendario, Veltroni non potrebbe presentarsi da solo, sotto il simbolo del Pd, ma sarebbe costretto a rimettere in pista tutti i partiti dell´Unione. A quel punto, todos caballeros. Tutti dentro. Il più possibile, fino - che so - a Marco Rizzo e a quel nostro amico ligure, Marco Ferrando. Risultato: alla prima consultazione elettorale dopo la nascita del Pd, il simbolo del Pd non ci sarebbe. E perché mai Walter Veltroni avrebbe allora varato la sua nuova creatura politica?». Visto allo specchio, lo stesso stallo di Berlusconi. «Anche lui dovrebbe tirare dentro tutti, Fini, Casini, Storace e Mussolini. Domanda, anche qui: ma allora perché Berlusconi avrebbe appena fondato il suo partito, come si chiama, della gente? Perché avrebbe mandato all´aria tutte le caselle, se deve ricominciare da capo?». Ma la vocazione maggioritaria, la voglia di autosufficienza del Pd? Veltroni non potrebbe affrontare da solo quelle elezioni? Risposta: «Per perdere? Non credo che Veltroni si candidi a una sconfitta, a 5 anni di opposizione. E non credo che nel Pd gli altri leader glielo permetterebbero». Morale della favola: non c´è altra strada che il confronto aperto per approvare la legge elettorale, e evitare il referendum. «La via è quella parlamentare. I tempi però sono stretti, diciamo entro la metà di gennaio, perché è in arrivo il pronunciamento della Corte sulla ammissibilità della consultazione. Sulla formula, mi pare ormai che siano stati raggiunti dei punti condivisi: modello tedesco, con sbarramento al cinque per cento e senza premio di maggioranza».

Repubblica 25.11.07
G8, De Gennaro verso il rinvio a giudizio
Genova: l'ex capo della Polizia coinvolto nella vicenda della Diaz
di Marco Preve


In queste ore si consegnano a indagati e difensori gli atti di fine inchiesta

GENOVA - I suoi avvocati, il romano Franco Coppi e il genovese Carlo Biondi, negli ultimi mesi li si era visti frequentare con assiduità il nono piano di palazzo di giustizia. Ma nonostante incontri e discussioni con i capi della procura, sembra difficile che i due legali riescano ad impedire che su Gianni De Gennaro, ex capo della polizia italiana e oggi capo gabinetto del ministro dell´Interno Giuliano Amato, si abbatta l´onta di una richiesta di rinvio a giudizio. In queste ore sono, infatti, in fase di notifica i cosiddetti Acip, ovvero gli atti con cui si avvisano gli indagati e i loro difensori, che si sono concluse le indagini e possono prendere visioni degli atti.
Sembra inoltre che nella vicenda possa essere coinvolta una terza persona, forse un altro poliziotto, di cui fino ad oggi non si era ancora saputo nulla.
L´inchiesta che coinvolge De Gennaro nasce dal processo per l´irruzione alla Diaz, la scuola dormitorio del G8 del luglio 2001. Nel corso di un´udienza in cui venne chiamato come testimone l´ex questore del capoluogo ligure Francesco Colucci, rilasciò una serie di dichiarazioni per le quali, la procura, chiese l´iscrizione al registro degli indagati per falsa testimonianza. Per il reato di istigazione alla falsa testimonianza fu invece indagato De Gennaro. Nel corso di una conversazione tra Colucci ed un collega, intercettata durante altre indagini, l´ex questore si sarebbe compiaciuto per aver soddisfatto il "capo". Interrogato a luglio, De Gennaro ha spiegato che Colucci potrebbe aver equivocato quella che era solo una chiacchierata sulla vicenda Diaz. La spiegazione non avrebbe però convinto i pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini, e con loro il procuratore aggiunto Mario Morisani.
In realtà, si era profilata, ad un certo punto, una possibile via d´uscita. Se Colucci avesse chiesto di poter nuovamente testimoniare per ritrattare le dichiarazioni false, la legge gli avrebbe offerto l´automatica estinzione del reato. A quel punto, anche per De Gennaro sarebbe stato più semplice uscire di scena senza danni. Eventualità per altro non del tutto accantonata visto che il processo Diaz è ancora in corso. Colucci, ai primi di maggio, chiamato a deporre come teste contro 29 poliziotti accusati di falso, lesioni e calunnia, ribaltò una sua precedente ricostruzione dei fatti, raccontando che la notte dell´irruzione nella scuola dormitorio non fu De Gennaro a chiedere di allertare l´addetto stampa Roberto Sgalla, bensì fu una sua iniziativa spontanea.
Ma se De Gennaro vede avvicinarsi il rischio del processo, per tutti i suoi fedelissimi, il disastro del G8 e le imputazioni per la Diaz (entro la metà del 2008 la sentenza) non hanno comportato effetti collaterali. Anzi. E´ di due giorni fa la promozione di Giovanni Luperi, ex vicedirettore dell´Ucigos, a capo del Dipartimento analisi dell´Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna), l´ex Sisde. Francesco Gratteri, nel 2001 capo dello Sco, oggi è al vertice del Dipartimento Centrale Anticrimine. Nomine, tra le tante, che hanno sollevato dure critiche specie dall´estrema sinistra. Proprio nei confronti di Gratteri poi, ha annunciato un´interrogazione Graziella Mascia di Rifondazione Comunista. Il caso è quello di un´ispettrice in servizio allo Sco e in passato in forze alla questura di Bari, la cui presenza in aula durante diverse udienze del processo Diaz ha sollevato alcuni interrogativi in merito al suo possibile incarico.

Repubblica 25.11.07
Alla ricerca del Paradiso perduto
di Alberto Manguel


Da millenni gli uomini hanno pensato un luogo dove i giusti dopo la morte abbiano la loro ricompensa Ma non hanno mai smesso di immaginarne un altro, più sensuale e concreto, da dove i nostri progenitori furono cacciati Ora un libro raccoglie le carte che nei secoli hanno tracciato la possibile via del ritorno

Ogni desiderio ha la propria cartografia, ogni mappa i propri punti di partenza e di arrivo. Impegnati a trovare un senso nell´incessante abbinamento di molecole che ci compongono e ci scompongono, da lungo tempo immaginiamo che le nostre azioni rispondano a un significato e a una missione, e che quindi quel che realizziamo su questa terra possieda un valore morale o etico, sottoposto al giudizio di un Amministratore Supremo che a tutto offre ricompensa o castigo. E così le nostre anime, pensionate dopo la morte della carne, passeranno all´eternità in una sorta di residenza per anziani, decente o spaventosa, a seconda dell´inclinazione della bilancia. Come testimoniano le tombe troglodite, tale speranza è ben antica. Per i greci, le anime dei morti viaggiavano tutte assieme verso quel luogo comune denominato Ade, dove attendevano il loro destino sui grigi prati di asfodelo. Chi aveva offeso gli dei era condannato al Tartaro, dove veniva poi torturato; chi godeva del favore divino era trasportato alle isole benedette o Eliseo: l´Ade si trova sotto terra o al di là del mare; in alcuni casi eccezionali, può essere visitato da chi è ancora in vita. Odisseo, Orfeo ed Enea si annoverano tra i privilegiati.
Ho descritto una delle oltretombe: ce ne sono migliaia. Tutte le popolazioni del mondo hanno immaginato una versione dell´aldilà nella quale i buoni sono premiati e i cattivi puniti. C´è chi crede che tali promesse corrompano. Ivo, vescovo di Chartres, durante una missione voluta da San Luigi, re di Francia, raccontò al re che lungo la strada aveva incontrato una signora dall´aria malinconica, che aveva in una mano una torcia e nell´altra un´anfora. Il vescovo, incuriosito, volle sapere di più sul suo conto e le chiese cosa avrebbe fatto con quel fuoco e quell´acqua. «L´acqua è per spegnere l´Inferno», rispose la donna, «e il fuoco per incendiare il Paradiso. Voglio che gli uomini amino Dio per il solo amore di Dio». Per quanto ammirevole possa apparirci una simile impresa, la nozione di Paradiso (così come quella di Inferno) perdura con i suoi celestiali incanti: un luogo futuro, alla portata delle anime con la fedina penale pulita (è bene ricordare che l´unico a ricevere la promessa del Paradiso direttamente dalle labbra di Gesù, sia stato un ladro).
Esiste però un altro Paradiso, più solido, meglio immaginabile, forse più accessibile, un luogo nel quale un tempo abbiamo goduto del diritto di abitazione e dal quale siamo stati esiliati. Il primo Paradiso è intangibile, extraterrestre, spirituale, descritto con un linguaggio di metafore e allegorie. Il secondo (ci piace credere) è concreto, sensuale, nascosto seppur in questo mondo, e per tanto, vanta un´autentica cartografia.
Spesso si confonde un Paradiso con l´altro, il Paradiso celeste presuntamente promesso ai giusti e l´Eden terrestre presuntamente perduto. La confusione (e la distinzione) non è nuova. Tra le oltre 4.500 pagine che compongono lo Zibaldone, uno dei libri più singolari, personali e ambiziosi della biblioteca universale, ce ne sono alcune in cui Giacomo Leopardi, dopo dieci lunghi anni di riflessione su tutte le cose, s´interroga sul significato di questo Paradiso terreno. Secondo Leopardi, il Paradiso in cui Adamo ed Eva sono stati creati fu uno dei piaceri materiali e carnali, un "paradiso voluptatis" che doveva essere coltivato e protetto. A differenza del Paradiso celeste che i giusti si aspettano dopo la morte del corpo, il Paradiso terrestre (seppur perduto) ha qualcosa di verosimile, di materiale e persino di carnale, niente ingiustizie sul lavoro, imbrogli economici o tormenti filosofici: una sorta di Club Mediterranée, potremmo dire, avant la lettre. Dinanzi a tali incanti, l´ascetico Paradiso futuro diventa astratto fino all´inverosimile. «E la felicità promessa dal Cristianesimo non può al mortale parer mai desiderabile [...] Ed oso dire che la felicità promessa dal paganesimo (e così da altre religioni), così misera e scarsa com´ella è pure, doveva parere molto più desiderabile, massime a un uomo affatto infelice e sfortunato, e la speranza di essa doveva essere molto più atta a consolare e ad acquietare, perché felicità concepibile e materiale, e della natura di quella che necessariamente si desidera in terra».
L´altro, il Paradiso terrestre o Eden è, secondo la Genesi, un giardino nel quale persino Dio ama passeggiare. Etimologicamente lo si è voluto associare alla parola ebraica miquedem che possiede un significato spaziale ("in oriente") e temporale ("fine dell´inizio"). Il Dizionario Biblico editato da Paul J. Achtemeier lo fa derivare da edem che vuol dire "lusso, piacere, delizia"; Achtemeier sottolinea tuttavia che i filologi moderni lo associano a una voce sumera, edin, che si traduce con "pianura" o "prato". Attraverso i secoli, l´Eden ha trasmesso le sue incantevoli caratteristiche a un´immaginaria nostalgia: quella dell´Età dell´oro classica, nella quale il mondo intero è un giardino, «quand´era cibo il latte», dice Guarini, «del pargoletto mondo, e culla il bosco;/e i cari parti loro/godean le gregge intatte,/né temea il mondo ancor ferro né tosco!». È questa la caratteristica principale dell´Eden: si coniuga nel tempo passato, desiderio di ciò che è perduto, negato, di ciò che ora è proibito. È la terra come vorremmo che fosse, come sogniamo che sia. Per questo crediamo, con più o meno fede, di poterla ritrovare.
La ricerca del Paradiso terrestre conta su una vasta biblioteca cartografica. Centinaia di documenti manoscritti e stampati, e una bibliografia di svariate pagine che non disdegnano né le fonti secondarie né i siti web, hanno permesso ad Alessandro Scafi di dare corpo, un anno fa, a una straordinaria mostra presso il British Museum di Londra, il cui catalogo magistrale, Il paradiso in terra: Mappe del giardino dell´Eden, viene pubblicato da Bruno Mondadori in questi giorni. Le testimonianze sono numerose, e pochi tra gli autori studiati da Scafi hanno avuto, come Sir John Mandeville nel Quattordicesimo secolo, la scrupolosità di dichiarare: «Del Paradiso non posso dir nulla, non ci sono stato». Al contrario, senza atto di presenza, viaggiatori, storici, geografi, mistici e visionari, hanno dichiarato con imperturbabile convinzione che l´Eden si trovava (si trova) in Mesopotamia, in Inghilterra, a Gerusalemme, nel punto di coincidenza tra Asia, Europa e Africa, al nord dell´India, alla foce del Gange, nella Persia settentrionale, sui monti del Libano. Alcuni cronisti sono di una precisione esemplare: secondo Jean Mansel, per esempio, nel suo Fleur des histoires composto tra il 1460 e il 1470, l´acqua dei fiumi del Paradiso cade da una tale altezza che il suo fragore ha reso sordi tutti gli abitanti delle regioni limitrofe. Il libro di Scafi è istruttivo, rasserenante, erudito, e (agli occhi di questo lettore profano) assolutamente completo.
Nel suo lungo percorso, dal primo Medioevo ai nostri giorni, Scafi raccoglie una serie di versioni moderne di mappe paradisiache, disegnate da artisti così diversi come Hendrikje Kühne, Beat Klein, Ilya ed Emilia Kabakos, i quali hanno tentato di riscattare l´idea di un Paradiso terrestre per il nostro ormai inguaribile secolo Ventunesimo. Tuttavia, penso esista un´ulteriore versione di questa interminabile idea. Nel 1615, sei anni dopo la firma del decreto di espulsione degli ultimi mori di Spagna (quegli arabi costretti a convertirsi al cristianesimo dopo la prima espulsione del 1502) Cervantes pubblicò a Madrid la Seconda Parte del Don Chisciotte della Mancha. Nel capitolo 54, Sancho incontra un suo vecchio vicino, il moro Ricote, il quale esiliato dalla Spagna con i suoi consanguinei, è tornato nella sua terra natale travestito da pellegrino. «Fummo con giusta ragione puniti con la pena dell´esilio, lieve e blanda, secondo alcuni, ma per noi la più tremenda che ci si potesse infliggere. Dovunque stiamo, abbiamo nostalgia per la Spagna; poiché, infine, vi siamo nati ed è la nostra patria naturale; non c´è nessun paese dove ci si accolga come meriterebbe la nostra sventura; e in Berberia, e in tutte le parti dell´Africa dove speravamo d´esser ricevuti, accolti e trattati bene, proprio lì invece è dove più ci si tratta male e ci si offende».
Esilio e asilo: visioni entrambe, una di terra abbandonata e l´altra di terra promessa, che si fondono in quella Spagna che rifiuta Ricote e in quella di cui lui ha nostalgia, confondendosi in una cartografia illusoria e circolare. Per Ricote, quella Spagna da cui è stato esiliato è (a voler essere letterali) il Paradiso perduto, il luogo al quale vuole arrivare e il luogo che vorrebbe non aver mai abbandonato. Per lui, come per i suoi eredi, espulsione, deportazione, allontanamento, si fondono in un solo gesto di esilio che trasforma la terra di ognuno in terra estranea. Un altro Paradiso forse esisterà pure, al di là dei mari, ma Ricote e i suoi congeneri non lo hanno trovato. Ciò nonostante, continuano a sognare le mappe intime dei loro Eden perduti, che si chiamino al-Andalus, Palestina, Marocco, Albania, l´America Latina delle dittature militari, Iraq, Kurdistan, Cecenia, Darfur, Etiopia... Purtroppo, come è noto, la geografia del Paradiso è più vasta della Terra stessa.
Traduzione di Fiammetta Biancatelli (© 2007, Guillermo Schavelzon & Asocc., Literary Agency)


Repubblica 25.11.07
Un giardino di delizie cinto da mura di fuoco
di Agostino Paravicini Bagliani


Ma dove si trova il Paradiso terrestre? È una domanda antichissima e sempre attuale. Ancora recentemente, studiosi hanno tentato di scoprirlo nelle regioni più svariate, in Mesopotamia, in Arabia, in Armenia e persino in un´isola delle Seychelles… La credenza del Paradiso terrestre ha affascinato il cristianesimo fin dai primi secoli, come ricorda Alessandro Scafi ne Il Paradiso in terra. Mappe del giardino dell´Eden. La Genesi (2,8) raccontava che «il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l´uomo che aveva plasmato», e questo passo biblico fu presto interpretato in senso letterale. L´autorità di sant´Agostino fu decisiva, anche per quanto riguarda i quattro celebri fiumi che uscivano dall´Eden: Pison (sovente identificato con il Gange), Ghicon (con il Nilo), Tigri e Eufrate. «Sono veri fiumi e non espressioni figurate». Agostino aggiungeva: Adamo aveva un corpo materiale, aveva dunque vissuto in un Paradiso materiale.
Alla costruzione dell´immaginario paradisiaco contribuirono molto le antiche traduzioni dei testi biblici. Per definire il giardino, la versione ebraica usò le parole gan-be-Eden («un giardino in Eden»). Nella Vulgata, Girolamo aggiunse la qualifica «delizie». I traduttori della Settanta introdussero la parola Paradiso che significa in greco "giardino recintato".
La geografia del Paradiso si precisa intorno al Settimo secolo. Isidoro di Siviglia identifica l´oriente di cui parlava la Genesi con l´Asia: «Il Paradiso è un luogo che si trova nella parte orientale dell´Asia». E sottolinea il fatto che l´Eden sia un giardino delle «delizie»: vi abbondano «ogni genere di piante ed alberi da frutto, tra cui anche l´albero della vita». L´Eden è inoltre un luogo in cui «non fa né freddo né caldo, vi è sempre un clima temperato», ma è un giardino reso inaccessibile «da una spada ardente», è luogo «sbarrato da un muro di fuoco, che arriva quasi al cielo».
Situato in Asia da Isidoro, il Paradiso terrestre poteva ora figurare anche su una carta, e molte sono infatti le carte medievali, qui studiate pregevolmente da Alessandro Scafi, che lo presentano nelle sue varie forme, anche come isola o come castello accerchiato da mura. La sua inaccessibilità è rappresentata dall´altezza. Il Paradiso viene immaginato nel punto più orientale dell´Asia, ma verso l´alto «come situato in relazione al cielo» (Duns Scoto). Anche Dante pone il Paradiso sulla cima di una montagna eccezionalmente alta, la montagna del Purgatorio. Virgilio spiega a Dante che Gerusalemme e la montagna del Purgatorio sono esattamente agli antipodi. Nelle carte medievali, a partire dalla prima crociata (1096), Gerusalemme, luogo del sepolcro di Cristo, viene posta al centro del mondo. Ed ecco che il Paradiso terrestre situato in Asia diventa anticipazione dell´Incarnazione e del Paradiso celeste, tanto più che accanto al Paradiso terrestre figurano sovente Enoch e Elia, i due profeti che aspettano la fine del mondo.
Nella cartografia medievale vi è un secondo luogo recintato e inaccessibile, contrassegnato da una negatività che si contrappone all´Eden: è il luogo in cui secondo la leggenda Alessandro Magno racchiuse Gog e Magog, le temute tribù che a detta dell´Apocalisse verrebbero a distruggere il mondo il giorno del giudizio. Le carte medievali, sovrastate dal Paradiso terrestre, presentano dunque una visione cristiana della storia del mondo. Ma l´Eden è anche un Eldorado, regione sempre temperata e rigogliosa di vegetazioni e di frutti abbondanti, e che gode di un´aria sana e incontaminata.
All´uscita dal Medioevo quell´immaginario si sgretola. Fra Mauro, uno dei massimi geografi del Rinascimento, nel suo mappamondo (1459) relega il Paradiso terrestre in un medaglione posto al di fuori del mondo abitato. Un secolo dopo, un altro uomo di Chiesa, Agostino Seuco, prefetto della Biblioteca Vaticana, afferma che il Paradiso terrestre fu distrutto dal diluvio. Anche secondo Lutero scomparve per colpa del peccato. Per Calvino invece i quattro fiumi dell´Eden erano rimasti inalterati nonostante il diluvio per la benevolenza di Dio.
Questa nuova teoria religiosa tentava di risolvere l´equazione tra il dogma del diluvio e la scoperta del Nuovo Mondo. Ponendosi contro la tradizione, fu però dimenticata. Anzi proprio allora gli studiosi incominciarono a ricercare il luogo dove era vissuta la prima coppia umana proponendo i posti più svariati: il Terzo Cielo, Babilonia, l´Arabia, la Palestina, la Terra del Fuoco, e anche il Polo Artico. Il Paradiso terrestre perse così la sua originaria funzione, di rappresentare insieme il passato (la nostalgia per una purezza perduta), il presente (la vita dell´uomo come peregrinazione) e il futuro (il cammino verso il Paradiso celeste), oltre che una natura in perfetto equilibrio perché tutta orientata al volere di Dio. Tentando di scoprire dove si trovava su basi "scientifiche", la modernità situava il Paradiso terrestre soltanto nel passato, lasciando ai poeti (John Milton, 1667) il compito di piangere Il Paradiso perduto.

Corriere della Sera 25.11.07
Fronte pacifista. La senatrice di Rifondazione e la «exit strategy»
Menapace: annunciamo il ritiro ma per ora si resti
di Lorenzo Salvia


ROMA — «Subito il ritiro dall'Afghanistan. E credo che i nostri militari dovrebbero venir via da tutti quei Paesi dove il loro intervento non è stato richiesto dai governi e dalle popolazioni locali. L'unica missione per cui questa richiesta c'è stata è il Libano». Lidia Brisca Menapace (Rifondazione), presidente mancata della commissione Difesa del Senato, parla da pacifista convinta.
Non crede che un ritiro improvviso dall'Afghanistan possa lasciare campo libero alla violenza?
«Subito andrebbe presa la decisione politica. Poi le modalità del ritiro andrebbero concordate secondo un calendario che spetta ai tecnici. Non pretendo il domani tutti a casa».
Quella in Afghanistan è una missione Onu. I militari sono lì anche per ricostruire il Paese: il kamikaze ha colpito civili durante l'inaugurazione di un ponte. Non le sembrano buone ragioni per restare?
«Non più. La presenza dei militari, quando non sono le popolazioni e i governi locali a chiederla, viene sempre percepita come ostile. E la propaganda talebana ha gioco facile a far passare questa lettura».
Ma chi difenderà quei ponti, quelle scuole? Non crede che la situazione potrebbe peggiorare?
«È possibile. Ma bisogna considerare la situazione nella sua completezza: guerra e terrorismo non si elidono, mandare i militari in un contesto di guerra è come spegnere un incendio con la benzina. Le cose peggiorano invece di migliorare».
E quale sarebbe la soluzione?
«La diplomazia: organizzare una conferenza interna che metta allo stesso tavolo tutte le parti. Anche il Sud Africa era avvelenato da una guerra interminabile e invece così la soluzione è stata trovata».
E prima di arrivare alla conferenza che facciamo, lasciamo che proseguano le stragi?
«No. Dovremmo creare dei corpi civili Onu che, armati e non, potrebbero garantire la sicurezza. Ma solo se sono quei governi e quelle popolazioni a chiederlo».
Se voi non volete noi non interveniamo: ce ne laviamo le mani.
«Non si tratta di egoismo ma di prendere atto che la guerra contro il terrorismo non funziona. Dalla fine del Secondo conflitto mondiale in poi gli eserciti regolari non hanno mai sconfitto la guerriglia: Corea, Vietnam, Afghanistan con l'Urss...».
Diplomazia e corpi civili Onu: non è forse il libro dei sogni?
«No, è una soluzione realistica perché prende atto di un fallimento. Semmai è ambiziosa. Ma bisogna mirare alto per tirarci fuori dal fango in cui siamo finiti pensando che l'intervento militare riportasse la pace».

Corriere della Sera 25.11.07
Ritanna Armeni. «Il separatismo non ha più senso»
di G.Ca.


ROMA — Ritorna il femminismo duro anni '70, quello delle «streghe» che facevano tremare?
«Questa era una manifestazione modernissima. Io c'ero. Niente è più attuale della violenza sulle donne», spiega Ritanna Armeni che su La7 conduce «Otto e mezzo» con Giuliano Ferrara.
Ancora buoni certi slogan?
«Certo funzionava quello che ci ha portate in corteo. Ossia che la violenza contro le donne esiste, aumenta, ed è dentro la famiglia, tra le mura di casa».
Giusto cacciare i ministri Melandri e Turco e contestare la Pollastrini?
«Non mi è piaciuto per niente. La politicizzazione eccessiva del corteo, intendo. Ce l'avevano contro il pacchetto sicurezza, che contesto anch'io. Però non stavamo lì per quello».
Buttare fuori Prestigiacomo e Carfagna perché di destra?
«Grande errore. C'erano le rom con i bambini, poi loro con un passo un po' da indossatrici.
Bella una manifestazione dove siamo tutte insieme, ho pensato. E invece sono partite le contestazioni. Peccato. Per i collettivi femministi avere lì donne del centrodestra era una vittoria politica».
Gli uomini dovevano restarsene a casa?
«Il separatismo aveva senso 30 anni fa, quando le donne stavano prendendo coscienza di sé e il processo non andava contaminato. Oggi è bene che i maschi siano tra noi e di fronte alla proprie responsabilità. Non può che aiutarli a riflettere».

Corriere della Sera 25.11.07
Il primo scontro Franca Fossati: aggredite dal nostro servizio d'ordine. Erri De Luca: un attacco verso di loro? Per me non fu così
Quando Lc picchiò le ragazze che volevano sfilare sole
di Paolo Brogi


ROMA — Sei dicembre 1975, uno scontro durante un corteo nazionale di donne sull'aborto infiamma il dibattito della sinistra di allora, parlamentare e soprattutto non. Un nutrito gruppo del servizio d'ordine di Lotta continua cerca di far entrare lo striscione dell'organizzazione dentro il corteo. Con maniere spicce, con spintoni e tutto il resto. In via Cavour nasce un grosso tafferuglio, volano schiaffi. Nel parapiglia, insieme al servizio d'ordine del Pdup, pure presente, vengono coinvolte anche parecchie donne di Lotta continua, che più tardi invadono la riunione del comitato nazionale dell'organizzazione e lanciano pesanti accuse contro gli aggressori.
«Lotta continua di Cinecittà, una sezione, uomini e donne insieme, si era presentata al corteo femminista con lo striscione dell'organizzazione — ricorda Franca Fossati, tra le donne allora attaccate, ora giornalista a La 7 —. Volevano entrare nonostante che noi donne considerassimo una conquista, in quel momento, un corteo separato, senza uomini. Il conflitto fu prima di tutto politico, poi diventò materiale. Successe quando arrivò quel gruppo del servizio d'ordine. Bisogna anche dire che pochi giorni prima, durante una manifestazione era stato ucciso un ragazzo proprio del servizio d'ordine, Piero Bruno. Gli animi erano molto accesi in quel momento...».
Bruno, studente appena diciottenne, era morto per un colpo di pistola sparato da un carabiniere il 26 novembre durante un corteo per l'Angola. Il ragazzo, con un'altra decina di giovani, si era staccato dai manifestanti per raggiungere la vicina ambasciata dello Zaire presidiata. Furono lanciate due molotov, un carabiniere sparò, imitato da un agente di ps: per terra rimase Piero Bruno. Un anno dopo il giudice, compiangendo la giovane vita, archiviò l'inchiesta. Quel 6 dicembre la ferita era molto fresca.
«Eravamo in sede quando ci chiamarono per quello striscione — ricorda Erri De Luca, del servizio d'ordine di Lc —. Non lo volevano far entrare nella manifestazione.
Lì per lì ci sembrò un'enormità. Ci precipitammo in via Cavour, ricordo solo che trovammo uno sbarramento del Pdup. Sgomberammo quel servizio d'ordine laterale al corteo. Poi tutto questo è diventato un attacco alle femministe.
Forse fu anche questo, ma per me francamente non fu così...».
«Una di noi, di Torino, aveva preso un schiaffone — ricorda Luisa Guarneri, ora consulente alla Fao —. Lei, con le altre ragazze venute da Torino, fu molto decisa nel denunciare l'aggressione di fronte ai dirigenti di Lotta continua riuniti a San Lorenzo». Da quello scontro nacque una lacerazione, molto forte e profonda, tra donne e uomini che fino ad allora erano stati militanti insieme. A registrarla, subito dopo, fu un'assemblea, una riunione decisamente infuocata, convocata in un magazzino di periferia. Era iniziato un processo la cui conclusione, dentro Lotta continua, portò pochi mesi dopo, nell'autunno del 1976, allo scioglimento dell'organizzazione.

il manifesto 25.11.07
Intervista. La Sinistra europea e le donne. Parla la senatrice Maria Luisa Boccia del Prc
«Le violenze hanno una radice sessuata»


Praga. Tra le centomila e passa donne che sfilavano ieri pomeriggio a Roma contro le violenze maschili nei loro confronti mancava ieri un piccolo gruppo di femministe. Assenti giustificate perché impegnate al congresso della Sinistra europea in corso di svolgimento da due giorni a Praga. Dove hanno incontrato altre donne di sinistra provenienti da tutto il continente e dove hanno posto, nell'assemblea plenaria ma anche nei gruppi di lavoro, la questione che era al centro della manifestazione che in contemporanea sfilava per le strade della capitale italiana. Nella delegazione femminile di Rifondazione comunista c'era la senatrice Maria Luisa Boccia. L'abbiamo raggiunta nella capitale della Repubblica Ceca e le abbiamo rivolto qualche domanda.
Senatrice Boccia, ieri a Roma hanno sfilato migliaia di femministe. Una manifestazione che si è fatta sentire e ha scatenato anche polemiche. In Italia di recente non sono mancati i casi di cronaca che hanno visto finire vittime delle donne. Qual è la posizione della Sinistra europea su questo tema?
Abbiamo parlato della violenza sulle donne anche qui al congresso di Praga, e oggi (ieri, ndr), in concomitanza con la manifestazione di Roma, abbiamo preso la parola nell'assemblea generale. Ma ne abbiamo discusso anche in precedenza nei gruppi di lavoro, dove ci siamo confrontate con le altre donne provenienti dal resto d'Europa.
In che termini ne avete discusso?
Abbiamo parlato di tante cose. Ma noi italiane, a differenza delle altre donne europee, abbiamo voluto porre l'accento sulla radice sessuata di questo fenomeno.
Perché dice così? Le altre donne non erano d'accordo con la vostra analisi?
Generalmente nella Sinistra europea viene posta soprattutto la questione della mancanza di diritti di cui soffrono le donne, mentre invece noi pensiamo che all'origine della violenza ci sia in particolare una crisi del rapporto tra i sessi. E dunque in questo senso poniamo l'accento sulle violenze perpetrate dai maschi. Ma più in generale ci siamo trovate d'accordo un po' tutte sul fatto che in molte società europee ci sia una disgregazione sociale tale che sicuramente favorisce e accentua le violenze nei confronti delle donne.

il manifesto 25.11.07
A Praga «Cancellati velocemente se non ci uniamo e rinnoviamo» Bertinotti lascia la guida di Se a Bisky che indica l'esempio tedesco
E' l'Europa che avverte: «La sinistra può sparire»
di Matteo Bartocci


Inviato a Praga Oggi in Germania, domani in Italia e soprattutto in Europa. Fausto Bertinotti lascia come previsto la presidenza della Sinistra europea ma intervenendo dal palco al congresso di Praga non rinuncia a trarre un bilancio e a rilanciare l'esigenza di una svolta per tutta la sinistra continentale. «Dobbiamo costruire in ogni paese e in tutta Europa una sinistra ampia e plurale, in grado di vincere la sfida del socialismo del XXI secolo e contrastare un capitalismo totalizzante». Per l'ex segretario di Rifondazione la nascita della Linke in Germania (fusione tra socialisti, comunisti Pds e sindacati di base) e il miraggio della «sinistra arcobaleno» in Italia sono modelli da replicare ovunque. Perché rispondono alla crisi di una politica che rischia di ridurre ogni alternativa a semplice alternanza di governo.
Ripartire da Praga quarant'anni dopo i carrarmati sovietici, «che posero fine alla possibilità di autoriforma di quel sistema». Ripartire da Praga dopo «la sconfitta del '68 che ha annunciato il crollo del movimento operaio in Europa occidentale».
Una sinistra disunita rischia di scomparire. E i movimenti privi di risultati rischiano di implodere. «La sinistra erede di quelle esperienze rischia di essere cancellata in tempi brevi», ha avvisato Bertinotti, e senza una sinistra forte in tutta Europa anche i movimenti sociali, da Lisbona agli scioperi francesi al 20 ottobre a Roma, «rischiano di essere condannati a non costituirsi in alternativa». Da qui la sfida e la necessità del salto. Aggregarsi su orbite più grandi è l'unica salvezza.
L'intuizione della Sinistra europea però è giusta, precisa un Bertinotti in veste di fondatore più che rifondatore, perché sotto la carica di quella che Marx chiamava la «fanteria leggera» del capitalismo - i migranti di oggi, manodopera a basso costo su scala globale - anche le tesi laburiste classiche rischiano di soccombere.
Il nuovo presidente della Se (19 partiti membri e 10 osservatori, dal partito comunista francese alla britannica Respect) è il segretario della Linke tedesca Lothar Bisky. Un dirigente che ha voluto fortemente la nascita del suo partito, dando prova di una determinazione e un pragmatismo che sicuramente potranno aiutare un movimento europeo ancora mai decollato nonostante la lotta comune sulla Bolkestein e il no alla Costituzione europea vincente in Francia e Olanda. «Il tema della massa critica è la traccia anche di queste tesi congressuali - spiega Fabio Amato, responsabile esteri di Rifondazione e nuovo membro dell'esecutivo della Se - dobbiamo creare un'alternativa da sinistra alla grande coalizione socialisti-popolari che governa l'Europa da cinquant'anni». Più dubbioso invece Jacopo Venier, responsabile esteri del Pdci (qui in veste di osservatore), che respinge ogni ipotesi di partito unico puntando più sul modello del Forum di San Paolo latinoamericano, una confederazione aperta a tutte sinistre del continente da Cuba al Pt di Lula.
Addio anche per Gennaro Migliore. Il capogruppo di Rifondazione alla camera lascia la «sua» creatura con un bilancio positivo: «La creazione di uno spazio pubblico continentale è fondamentale per dare la giusta dimensione a una politica che o è europea o non è. Non si può essere post-qualcosa per tutta la vita. La Se è uno strumento utile per un processo di unificazione di tutta la sinistra, non possiamo più definirci guardando al passato». Qualche spunto per l'Italia c'è: da tre anni tutti gli organismi dirigenti osservano la parità di genere senza deroghe (la vice di Bisky sarà Graziella Mascia, del Prc). E un'organizzazione fatta sì da partiti diversi ma anche da nodi e reti orizzontali - quello ambientalista, del lavoro, Glbt o femminista - può dare prospettive interessanti al cantiere infinito della travagliata «Cosa rossa» all'italiana.

il manifesto 25.11.07
Italiani, fate presto la Cosa
di Matteo Bartocci


«Cari italiani, non lasciateci soli». Da segretario della Linke Lothar Bisky non può non auspicare un'unificazione della sinistra italiana. Ma come neopresidente della Sinistra europea non può sbilanciarsi sul percorso tormentato della «Cosa rossa» né tantomeno indicare a modello la sua esperienza, un'unificazione felice tra socialisti, comunisti e sindacati di base. «Di esempi ce ne sono tanti sia in Germania che in Italia - dice Bisky - ma una sinistra ampia e plurale non è solo un obiettivo realistico in tutta Europa: è ormai necessario».
Con lei si può dire che la presidenza della Sinistra europea passa dall'Ovest all'Est. C'è un significato politico?
Sicuramente. Io vengo dall'Est ma la Linke è ormai un partito nazionale occidentale a tutti gli effetti. La partecipazione dei cittadini dell'Europa orientale al processo di unificazione europea è fondamentale. Anche per il pluralismo culturale e sociale che da sempre è alla base del nostro continente. La scelta di fare il congresso a Praga non è casuale: abbiamo scelto il cuore della Mitteleuropa. Anche se Bertinotti ha disegnato un quadro molto critico delle nostre difficoltà sono sicuro che la Sinistra europea ha tutte le possibilità per crescere. Dobbiamo porci tre obiettivi realistici. Primo: difendere lo stato sociale europeo e contrastare il dumping sociale. Secondo: in Europa abbiamo bisogno di pace e non di riarmo. Per questo siamo contrari ai radar americani in Repubblica Ceca e Polonia. Terzo: serve più democrazia. La partecipazione dei cittadini alla scrittura della Costituzione europea è fondamentale. Il no di Francia e Olanda va accolto. I capi di governo non possono trattare l'Europa come una seconda casa dove fare quello che vogliono.
Bertinotti ha chiesto un salto di qualità: la creazione in ogni paese di una sinistra ampia e plurale. Lo giudica un obiettivo realistico?
Di più: è necessario. In Germania fior di politologi hanno detto che la nostra era un'illusione, che la Linke non sarebbe mai nata e che in ogni caso un'aggregazione a sinistra della Spd non sarebbe mai entrata al Bundestag. Sbagliavano. Ci siamo e ormai abbiamo una base stabile. Talvolta chiedere l'impossibile è realistico. Credo che un'opportunità del genere debba essere colta dalla sinistra di ogni paese.
Avrete un programma comune alle europee del 2009?
E' possibile e io lavorerò per questo. E' una richiesta però che deve partire da Roma, Berlino, Tallin, Varsavia, Parigi. Anche se ogni paese ha le sue specificità il gioco vale la candela. La politica ormai deve agire su un livello europeo.
Voi siete all'opposizione al Bundestag, Rifondazione invece è al governo. Non è una contraddizione tra di voi il fatto che votiate in maniera opposta sull'Afghanistan?
Assolutamente no. Con Rifondazione c'è un ottimo rapporto. Ne conosciamo le particolarità e cerchiamo il più possibile di fare iniziative comuni. Sappiamo che in Italia la minaccia Berlusconi è permanente, forse non avere Berlusconi è l'unico vantaggio che abbiamo in Germania rispetto a voi...
Come spiegherebbe la grande coalizione a un italiano?
E' un governo dove non si distingue più nulla, sulle cose fondamentali Spd e Cdu dicono le stesse cose. Al suo ultimo congresso l'Spd ha fatto un po' di propaganda elettorale verso la sinistra ma si comporta al governo come Angela Merkel. E' uno sbocco che nuoce a tutta la cultura politica.
Pensa sia possibile collaborare con il Partito del socialismo europeo?
Solo sulla base di contenuti. Il campo socialista è molto sfumato e in qualche caso abbiamo perfino posizioni coincidenti, come sul salario minimo. Con alcuni partiti, come il partito socialista olandese, siamo in contatto diretto. Certo, se penso ai socialisti francesi collaborare è molto difficile.
La sua Linke è un modello per la sinistra italiana?
No, di modelli ne avete abbastanza. Io le rigiro la domanda: cari italiani, non lasciateci soli.

Liberazione 25.11.07
Ripartire da Praga
di Stefano Bocconetti


Ripartire da Praga. Quarant'anni (o quasi) dopo i carri armati. La Sinistra europea si ritrova nella capitale della repubblica ceca per il suo secondo congresso. Se si volta indietro scopre di essere cresciuta: oggi i partiti aderenti sono diciannove e altri dieci hanno chiesto di farne parte. Compresi i giovani socialisti della Polonia. Quando nacque erano dodici. Se si guarda indietro, insomma, la Sinistra europea scopre di avere un bilancio in attivo. Diverso, molto diverso è il discorso se si guarda al domani. A quel che può accadere. Per dirla con Fausto Bertinotti - che col discorso di ieri ha lasciato a Lothar Bisky la presidenza dell'organizzazione, in un'assise che ha eletto Graziella Mascia alla vicepresidenza -, per dirla con Fausto Bertinotti, si diceva, il futuro di questa sinistra è tutt'altro che scontato. C'è il rischio, insomma, che questa Europa - di più: i vari paesi che compongono il vecchio continente - si ritrovi senza sinistra. Con la scomparsa della sinistra radicale.
L'intervento di Bertinotti arriva in un congresso che stava già provando ad affrontare questi argomenti. Magari ad un osservatore esterno poteva apparire come un'assemblea che non "marciava proprio alla stessa velocità". Per capire: c'è stata la relazione introduttiva di Graziella Mascia che ha ilustrato le tesi politiche, riflettendo sulla crisi della politica, sui rischi che corre l'Europa con lo spettro dell'antipolitica. Ma la neovicepresidente aveva anche avviato la riflessione sui limiti di questa stagione di iniziative, sul perché il tema del lavoro non era riuscito ad "invadere" l'agenda politica. Sul perché la nuova stagione dovrà essere segnata dalla battaglia contro la precarietà. Un'introduzione al quale era seguito un dibattito. Con molti spunti - l'avvio di una riflessione dei francesi sui limiti di una sinistra ultrafrazionata, per esempio, è sembrato molto significativo - ma anche, è inutile negarlo, molta routine.
Ed è in quest'assemblea che nel primo pomeriggio è intervenuto Bertinotti. E' partito proprio dalla drammatica repressione che spense la primavera di Praga, di cui sta per ricorrere il quarantennale. Lì, finì la speranza che i regimi dell'Est potessero riformarsi ma da lì partì anche la sconfitta del movimento operaio. Da lì partì "la rivoluzione capitalista", lì "la globalizzazione di cui oggi siamo in grado di vedere la natura profonda, ha iniziato il suo lavorare quotidiano per una regressione nella civiltà del lavoro''.
E si arriva all'oggi. Con un "capitalismo totalizzante, che dentro di sé vuole avere tutto: tutto ciò che riguarda la produzione ma anche ciò che riguarda la vita, la natura. Tutto. E davanti a tutto ciò ci vuole una sinistra all'altezza. E lo è? Vediamo. Per Bertinotti il vecchio continente è segnato, è percorso da mille conflitti. Ne cita alcuni: la battaglia dei lavoratori dei trasporti in Francia, il gigantesco corteo a Roma il 20 ottobre, le manifestazioni di Lisbona. Eppure - ecco la sua riflessione - non si sfugge alla sensazione che l'opposizione sociale diffusa in Europa non riesca ad incontrare la politica. Non riesca ad incontrare la sinistra.
E qui, per quattro volte, Bertinotti chiede che ci sia un "salto di qualità" nell'iniziativa. In più ci mette una metafora: "E' come si avessimo preso una lunghissima rincorsa e ora dobbiamo fare il salto". Il salto lo devono fare tutti. Lo stesso movimento che deve trovare la capacità di coordinarsi, di mettersi in relazione. E riscoprire una dimensione europea, come forse è avvenuto solo nella battaglia contro la direttiva Bolkestein. Ma il salto lo deve fare anche e soprattutto la sinistra. La sua analisi è che l'opposizione sociale, che pure è diffusa, non riesca ad incontrare la politica - in una fase di crisi della politica - perché è mancata la progettazione di un'alternativa. Di un'alternativa di sinistra.
Farla, disegnarla, costruirla è "un'opportunità", una chance. Ma non è detto che tutto vada in quella direzione. Anzi, le spinte vanno esattamente in direzione opposta, col vecchio continente governato, di fatto, da una grande coalizione, dove tutto si riduce ad una semplice alternanza. E dove comunque può continuare ad esercitare fascino la parola d'ordine del "voto utile". Come invertire questa rotta? Bertinotti cita spesso la Germania, la Die Linke, quando spiega che questo compito spetta ad una sinistra che deve essere "sempre più ampia, plurale", più unita. Una sinistra capace di ricostruire "egemonia" ( che era lo stesso termine utilizzato da Graziella Mascia). Intesa come proposta capace di parlare a tutti, capace di diventare senso comune.
Finisce così il passaggio di consegne alla guida della Sinistra europea. Con la platea di delegati in piedi ad applaudire mentre la presidente di turno, una spagnola, saluta il "compagno Bertinotti" e a nome, dell'assemblea gli regala due preziosi libri antichi: "La Gerusalemme liberata".
Finisce così, con Lothar Bisky, leader della Die Linke, che prende la parola subito dopo. Non usa le parole preoccupate di Bertinotti, ma sembra condividerne l'analisi. Perché insiste sulla necessità di costruire una sinistra che sia davvero plurale, unitaria, sempre più larga.. Intanto c'è l'elezione di Graziella Mascia a vicepresidente, c'è la nomina di Fabio Amato nell'esecutivo (che prende il posto di Gennaro Migliore, che lascia l'incarico "schiacciato" com'è dal lavoro parlamentare). C'è una discussione che dopo i due interventi clou è ripartita serrata nelle commissioni. I risultati? Si conosceranno oggi, al momento di votare i documenti politici.

sabato 24 novembre 2007

l’Unità 24.11.07
Violenza, donne in corteo: «Il nemico è dentro casa»


«La violenza degli uomini contro le donne comincia in famiglia e non ha confini»: questo striscione apre oggi la manifestazione nazionale a Roma (ore 14 da Piazza della Repubblica). Donne in corteo con il fiocco antiviolenza, simbolo della battaglia contro gli stupri, i maltrattamenti e gli atteggiamenti persecutori degli uomini. Un fenomeno da cifre drammatiche: circa 3 milioni di donne nell’arco della vita hanno subito violenze fisiche o sessuali; 57 le donne uccise dall’inizio dell’anno ad oggi per mano di partner o ex. Prodi: «Problema grave, reagire con forza». Pollastrini: «Corsia preferenziale per il Ddl sulla violenza di genere».

Roma con le donne. Contro la violenza
Manifestazione-denuncia alle 14. Prodi: problema grave, va contrastato con il massimo sforzo
di Maristella Iervasi

IN PIAZZA contro la violenza «maschile» alle donne. In piazza per alzare la voce, alla vigilia della giornata internazionale promossa dall’Onu. E in piazza per sollecitare un piano integrato di azione uomo-donna, «senza strumentalizzazioni di governo e dei par-
rtiti sull’onda del l’emergenza» è l’invito del comitato promotore controviolenzadonna.org; ma che metta in corsia preferenziale più servizi a rete diffusa e il Ddl contro le molestie di genere.
Roma oggi si sveglia così: con tantissime donne con indosso il fiocco bianco antiviolenza e lo slogan: «La violenza degli uomini contro le donne comincia in famiglia. E non ha confini». Oltre 400 le adesioni alla manifestazione nazionale - ore 14 da piazza della Repubblica a piazza Navona - e tre i ministri in corteo: Barbara Pollastrini (Pari opportunità), Alfonso Pecoraro Scanio (Ambiente) e Paolo Ferrero (Solidarietà sociale), adesione anche del ministro della Salute Livia Turco. Perché sono 2 milioni 938 mila le donne che nell’arco della vita hanno subito violenza fisica o sessuale dal partner o dall’ex partner. E ogni tre giorni una donna viene uccisa per mano di un uomo. Un’emergenza sociale che da gennaio ad oggi già conta 57 vittime, tutte ammazzate da uomini che conoscevano bene: mariti, conviventi, fratelli, padri... Un fenomeno dirompente, dalle cifre drammatiche, contro il quale occorre reagire. Così il premier Romano Prodi ha scritto al ministro Pollastrini: «Cara Barbara, la giornata internazionale contro la violenza alle donne ci obbliga a prendere coscienza di un problema grave, che il nostro paese deve contrastare con il massimo sforzo perché anche da qui passa il grado di civiltà di uno Stato». Da qui l’impegno a concludere al più presto l’iter della legge contro la violenza di genere presentato lo scorso anno al Parlamento e accelerare l’approvazione dello stralcio già votato alla Camera sullo stalking (atteggiamenti persecutori) e l’omofobia.
I dati e le cifre delle statistiche ufficiali descrivono un fenomeno concentrato soprattutto tra le mura domestiche. Maltrattamenti che non sono solo di tipo fisico: aumentano le violenze psicologiche (+22%), le offese critiche e i ricatti economici, soprattutto per le donne separate o le divorziate. Ogni giorno da Bolzano a Catania 7 donne subiscono abusi, 141 donne sono state oggetto di tentato omicidio; 1805 sono state abusate; 10.383 sono state vittime di pugni, botte, bruciature e ossa rotte. Le vittime hanno per lo più tra i 25 e i 40 anni e sono laureate o diplomate, dirigenti e imprenditrici. «Donne - sottolinea l’associazione Telefono Rosa - che hanno pagato con un sopruso la loro emancipazione culturale, economica, la loro autonomia e libertà». Ma un dato in particolare ha impressionato Prodi: l’altissima percentuale, oltre il 93%, delle violenze non denunciate. «Non possiamo non interrogarci sul motivo di questo silenzio - ha sottolineato il premier - Non possiamo non chiederci se le nostre istituzioni stanno facendo tutto il possibile per accogliere e sostenere le donne più in difficoltà».
Che fare dunque? «Contro la violenza sulle donne e in famiglia serve tolleranza zero», dice Rosy Bindi, ministro per la famiglia. E Pollastrini: «Serve un movimento di coscienze che reagisca e non si rassegni». Mentre Turco annuncia l’apertura di uno sportello antiviolenza in ogni ospedale.

l’Unità 24.11.07
Il governo costretto alla fiducia sul protocollo
di Marco Tedeschi


FIDUCIA Il Consiglio dei ministri ha autorizzato il governo, se ce ne fosse bisogno, a porre la fiducia sul disegno di legge sul welfare del 23 luglio scorso. L’annuncio è stato dato dal ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero (Prc), che non ha mancato di
esprimere «la sua riserva» e di sottolineare che non è nemmeno stato deciso su quale testo chiedere eventualmente il voto. Questa volta, però, il ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi (Pdci), e quello dell’Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio(Verdi), che si erano astenuti al momento del varo del ddl in consiglio, non hanno seguito Ferrero sulla sua posizione. Il ministro dell’Università, Fabio Mussi (Sd), non era invece presente alla riunione.
«Anche se il ministro Ferrero ha espresso delle riserve, la decisione sulla fiducia è stata presa: è un atto politicamente corretto», ha spiegato il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Vannino Chiti, al termine del Consiglio. «Quando un governo fa un’intesa con le parti sociali, quel governo si assume una responsabilità su cui poi si esprime il Parlamento». Quanto alla possibilità che la fiducia sia posta sul provvedimento originario, «questa - dice Chiti - è una valutazione che deve essere compiuta, perchè bisogna valutare con precisione cosa comporteranno i cambiamenti della commissione».
Per discutere la questione Welfare a Palazzo Chigi si sono recati in tarda mattinata anche il presidente e il direttore generale di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo e Maurizio Beretta. Oltre un’ora la durata del colloquio con il premier Romano Prodi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Letta. «Il governo è consapevole della portata del problema: aspettiamo risposte puntuali nei prossimi giorni», ha riferito Beretta.
Dal Senato intanto non arrivano segnali tranquillizzanti: Lamberto Dini ha preannunciato che non voterà il disegno di legge se resteranno le modifiche volute dalla sinistra radicale. Letta è però ottimista: «Quello sul welfare», dice, «è un buon protocollo, l’importante è stare più vicino allo spirito originario. Ci sono cento buone notizie per il nostro sistema imprenditoriale e per i lavoratori italiani, più si sta vicini a quel testo meglio è. Sono convinto che troveremo la soluzione migliore per cercare di essere più aderenti possibili allo spirito del protocollo». Si lavora, dunque, a un testo che sia di «sintesi» tra le posizioni di governo, sindacati, parti sociali e Parlamento. Forse dunque a un terzo testo. «Il riferimento - spiegano fonti di Palazzo Chigi - resta l’accordo con le parti sociali che ha avuto il voto favorevole di 5 milioni di lavoratori». Ma il governo sta lavorando a un terzo testo? «Il governo - è la risposta - lavora a una sintesi tra le posizioni delle parti sociali e quelle emerse dal dibattito parlamentare». «È una cosa normale. C’è stata una lunga discussione sul protocollo; c’è stata una discussione successiva quindi la fiducia conclude questo iter» ha detto il ministro del Welfare Cesare Damiano. Sull’ipotesi fiducia, critico il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi: «Ho visto che hanno messo la fiducia a prescindere. Non sanno qual è il testo, ma comunque c’è la fiducia».

l’Unità 24.11.07
«Cosa Rossa», la disputa adesso è sul nome
Si avvicinano gli stati generali, i Verdi non vogliono «un’aggregazione nostalgica»


FA DISCUTERE il simbolo, ma anche l’aggettivo da affiancare o meno alla parola “Sinistra”. Si avvicinano gli stati generali dell’8 e 9 dicembre e Prc, Pdci, Verdi e Sinistra democratica ancora cercano di sciogliere alcuni nodi: in primis, il nome e il simbolo con cui presentarsi uniti alle prossime elezioni e la legge elettorale da difendere quando ci si siederà al tavolo dell’Unione. Le posizioni di partenza sono distanti, ma i quattro partiti hanno messo a punto un calendario di incontri per trovare una soluzione alle due questioni. La prima, quella del simbolo, sembra al momento la più impellente visto che l’8 dovrà essere presentato alla nuova Fiera di Roma. Gli incontri dei tecnici si alternano quindi a riunioni più politiche. Oggi gli sherpa dei quattro partiti si sono visti per esaminare una trentina di bozzetti, ma per il momento una scelta non si è riusciti a farla. «Il simbolo - spiegano i responsabili del tavolo sul simbolo della Sinistra e degli Ecologisti - sta prendendo forma e stiamo lavorando a una proposta che rappresenti tutti». Per questo, l’unico dato certo è che non ci saranno simboli preesistenti, mentre potrebbe comparire l’unico elemento comune a tutti e quattro, l’arcobaleno simbolo della pace e della battaglia per i diritti civili.
Ma non mancano le incomprensioni e le polemiche, come dimostra lo scontro scoppiato ieri tra Verdi e Pdci sull’ipotesi che il simbolo contenga la falce e il martello. «Non vogliamo un’aggregazione nostalgica», avverte il capogruppo del Sole che ride alla Camera Angelo Bonelli. «Se vogliono la falce e il martello - attacca - noi non ci stiamo». E la replica dei Comunisti Italiani non si fa attendere. «Gradiremmo che si sgombrasse il campo - è il monito del capogruppo alla Camera Pino Sgobio - da pretestuosi, e questi sì nostalgici, “fattori K”, per concentrare piuttosto le nostre energie sul profilo politico di questa unità. A meno che qualcuno non punti a far saltare tutto...». Il partito di Pecoraro Scanio insiste poi sull’aggettivo «ecologista» da affiancare alla parola Sinistra, su cui sembrano convergere gli altri partiti. «Serve una sinistra senza aggettivi», dice Sgobio. Un’idea lanciata inizialmente da Fabio Mussi e Franco Giordano. Un invito alla sintesi e all’unità arriva dal presidente della Camera, Fausto Bertinotti. «Fuori dalla prospettiva unitaria - puntualizza - non c’è vita possibile per la sinistra». Da Bertinotti arriva anche un’accelerazione su riforme e legge elettorale («non c’è tempo da perdere», sollecita la terza carica dello Stato), altro terreno su cui la sinistra è tutt’altro che compatta.

l’Unità 24.11.07
Quando i laici parlano di bioetica
di Carlo Augusto Viano


Maurizio Mori, Giovanni Boniolo, Patrizia Borsellino, Gilberto Corbellini, Emilio D’Orazio, Aldo Fasolo, Carlo Flamigni, Eugenio Lecaldano, Claudia Mancina, Tullio Monti, Demetrio Neri, Alberto Piazza, Mario Riccio, Sergio Rostagno, Gianni Vattimo,
Riportiamo ampi stralci del nuovo «Manifesto di bioetica laica» che verrà presentato domenica a Torino durante un convegno organizzato dalla Consulta torinese per la Laicità delle Istituzioni (per informazioni: www.torinolaica.it)

Nella nostra società singoli cittadini e gruppi manifestano sempre più intensamente l’intento di sperimentare forme di vita nuove e si organizzano per ottenerne il riconoscimento, mentre la ricerca scientifica e le tecnologie mediche offrono nuove opzioni nei confronti di aspetti fondamentali dell’esistenza.
Profondamente coinvolta in questi processi, la bioetica suscita grande interesse nell’opinione pubblica e assume un rilevante peso politico. Talvolta essa è intesa come uno strumento di difesa dalle innovazioni scientifiche e tecniche, capace di riportare la medicina sotto il controllo di credenze consolidate da tradizioni.
Chi si muove in una prospettiva laica, intende invece promuovere le nuove libertà, proponendo, ovunque sia possibile, regole tali da permettere la coesistenza di persone che seguono orientamenti diversi senza danni o sopraffazioni reciproche.
Oggi sono in atto, da più versanti, pesanti tentativi di soffocare o di limitare gravemente gli sforzi innovativi in tal senso, in modo particolare da parte di quelle organizzazioni religiose che, oltre ad esprimersi ed operare liberamente e pubblicamente, lasciando ad altri la libertà di comportarsi secondo le proprie convinzioni profonde non dannose a terzi, per ottenere il consenso dei propri fedeli e dei singoli cittadini (come è perfettamente legittimo nel pieno rispetto del principio della libertà religiosa), pretendono di imporre i propri orientamenti a tutti i cittadini, credenti e non credenti, in forza di leggi dello Stato.
Il rispetto per la libertà altrui ci porta ad affermare che l’etica laica, pur assumendo forme assai variegate, costituisce un orientamento diffuso, cui informa i propri comportamenti un numero ampio e crescente di cittadini. Essa non rappresenta un corpus monolitico basato su un sistema di dogmi, bensì una linea di tendenza che riesce ad individuare un ampio fascio di sensibilità morali (comprese quelle di ispirazione religiosa che rispettino l'autonomia individuale), che pongono al centro dell'esistenza alcuni valori chiave, quali il rispetto della libertà individuale e dell'autodeterminazione, l'attenzione alla qualità della vita ed alla diminuzione delle sofferenze.
In questa prospettiva rifiutiamo l’imposizione alla ricerca biomedica di limiti e barriere che non siano motivati da possibili danni, realmente e chiaramente provati, arrecati direttamente o indirettamente ad altri. (...)
Convinti che ogni nuova scoperta conoscitiva o tecnica possa generare conseguenze tanto positive quanto negative, riteniamo che si debba vigilare per rilevare tempestivamente i danni che ne possono derivare, ma che sia ingiustificato porre alla ricerca scientifica limiti pregiudiziali in nome di un generico e difficilmente quantificabile principio di precauzione, o trattarla come un’attività puramente strumentale . Alla ricerca scientifica riconosciamo il valore intrinseco che deriva dal suo contributo al miglioramento delle condizioni della vita umana. (...)
Riteniamo che la procreazione debba essere intesa come un atto responsabile, nel quale i genitori debbano tenere conto del proprio patrimonio genetico per tutelare la salute del nascituro, che la gravidanza possa essere interrotta per tutelare la libertà riproduttiva della donna e la salute del nascituro, che sessualità e procreazione possano essere distinte e che alla procreazione possano provvedere singoli e coppie nei diversi modi messi a disposizione dalla pratica medica.
Riteniamo che ci debba essere il più largo accesso alle diverse forme di controllo delle nascite, a partire dalla contraccezione e sterilizzazione volontaria per arrivare alle nuove forme con le quali si riesce a bloccare il processo riproduttivo, dalla contraccezione d’emergenza alle nuove modalità di aborto. Indichiamo negli ostacoli frapposti alla contraccezione d’emergenza (“pillola del giorno dopo”), dei veri e propri attentati al diritto all’autodeterminazione delle donne e un danno per il Paese. Denunciamo una situazione analoga circa il ritardo applicativo delle nuove modalità di aborto terapeutico (pillola RU486).
Respingiamo il tentativo di imporre pubblicamente la protezione di materiali biologici, come sangue o cellule, con riferimento a regole etiche non condivise. Il divieto imposto alla ricerca sulle cellule staminali embrionali rischia di isolare il nostro paese dalla ricerca scientifica internazionale e di rendere più difficile o oneroso accedere alle risorse terapeutiche che ne possono derivare (ad esempio attraverso la cosiddetta “clonazione terapeutica” o quella finalizzata alla produzione di organi per i trapianti). Riteniamo che gli embrioni umani debbano essere trattati con grande attenzione, anche perché nella loro produzione sono sempre coinvolte le donne. Ma proprio per questo respingiamo le posizioni ideologiche o dogmatiche che vorrebbero considerarli intoccabili fin dalla concezione ed indipendentemente dal motivo, così come respingiamo la pretesa di imporre per legge l’equiparazione degli embrioni ai cittadini. Il tabù dell’embrione, protetto fin dalla concezione, incorporato nella legge 40/2004 sulla procreazione assistita, impedisce il libero accesso a questa pratica procreativa, costringendo chi ha possibilità economiche ad andare all'estero e vietando di salvaguardare la salute del nascituro con la diagnosi preimpianto.
Anche modi e tempi della morte sono diventati oggetti possibili di scelta. Rivendichiamo la possibilità di scegliere, per mezzo di strumenti come il testamento biologico, i modi nei quali morire, esercitando il diritto di accettare, di rifiutare o di interrompere le terapie anche se iniziate, il diritto di respingere tutti gli interventi medici non voluti, fossero anche il prolungamento di respirazione, idratazione e alimentazione artificiali, anche qualora non fossero futili. Respingiamo inoltre le sofferenze inflitte senza bisogno, la sublimazione del dolore come esperienza di per sé significativa, il prolungamento della mera vita biologica, quando sia venuta meno ogni prospettiva di guarigione o di ritorno alla vita cosciente. Ma rivendichiamo anche il diritto all’eutanasia volontaria, cioè alla richiesta che si ponga termine alla propria vita, per evitare forme di esistenza dolorose o ritenute per sé non dignitose.
Rifiutando un’idea sacrale della natura, ribadiamo l'impegno a riconoscere nuovi modi di intendere la sessualità e la famiglia. Le differenze di genere e l’evoluzione della loro percezione non sono più così rigide come in passato, e si deve prendere atto che l’orientamento sessuale può assumere varie direzioni. Riteniamo che l’orientamento sessuale, qualsivoglia esso sia, rappresenti un modo per realizzare la propria personalità e che esso possa essere liberamente vissuto, finché non reca danno a nessuno, anche perché una società libera e laica favorisce la sviluppo delle differenze tra i suoi membri.
La famiglia è per noi soprattutto il luogo degli affetti, che possono essere manifestati anche in forme diverse da quelle tradizionali, quali le unioni civili delle coppie di fatto etero ed omosessuali ed ulteriori possibili forme giuridiche di unione fra persone dello stesso sesso, che vanno a collocarsi accanto alla famiglia tradizionale basata sul matrimonio fra uomo e donna. La filiazione e l’adozione stanno assumendo una fisionomia nuova, perché la relazione parentale è connessa alla assunzione di responsabilità nei confronti del nuovo nato. Le responsabilità parentali, che impongono ai genitori l’obbligo di provvedere alla salute e al benessere dei figli, non devono dar loro il diritto di condizionarne rigidamente l’educazione: per questo auspichiamo una società che sappia offrire forme plurali di educazione, capaci di superare le chiusure rappresentate da certe tradizioni familiari e comunitarie.
La bioetica laica è parte di un impegno per una società in cui cresca lo spettro dei modi di vita possibili e diminuiscano le sofferenze dovute all’imposizione di un certo atteggiamento di pensiero, piuttosto che di un altro, soprattutto per una società in cui nessuno possa imporre divieti ed obblighi in nome di un’autorità priva del consenso delle persone sulle quali pretende di esercitarsi.

l’Unità 24.11.07
Le staminali e la trasparenza
di Livia Turco


Caro direttore,
su l’Unità di ieri il professor Maurizio Mori mi rivolgeva un appello per promuovere metodi oggettivi e rigorosi nelle procedure di assegnazione dei fondi pubblici per la ricerca sanitaria, con particolare riferimento alle staminali.
È un appello che accolgo volentieri anche perché la trasparenza nelle procedure e il merito quale unico elemento di valutazione, sono per me da sempre gli unici due criteri che devono regolare l’assegnazione di risorse pubbliche.
Non è un caso che tra i primi atti del Governo figuri proprio l’annullamento del decreto ministeriale del 23 febbraio 2006 con il quale il precedente ministro della Salute aveva stabilito di erogare i finanziamenti per la ricerca finalizzata del Ssn senza alcuna procedura di avviso pubblico ma con assegnazione diretta ad alcuni centri di ricerca.
Quel decreto è stato sostituito da un nuovo decreto del Ministro della Salute del 21 luglio 2006 che ha introdotto per la prima volta il criterio del bando pubblico, con commissione esterna di valutazione dei progetti.
Con questi criteri abbiamo assegnato i 100 milioni di euro per la ricerca finalizzata dello scorso anno.
Con lo stesso criterio l’8 novembre scorso abbiamo pubblicato sul sito del ministero della Salute il bando per la ricerca finalizzata 2007, per un totale di 76 milioni di euro.
Con la legge finanziaria dello scorso anno, inoltre, abbiamo deciso di riservare il 5% dei fondi per la ricerca sanitaria, pari a 15 milioni di euro, ai ricercatori italiani con età inferiore ai 40 anni che potranno concorrere ai finanziamenti sempre con bando pubblico e con selezione da parte di referee esterni.
Questo nuovo bando è stato pubblicato proprio ieri sul sito del ministero della Salute.
Lo stesso sarà fatto per i nuovi fondi a disposizione per la ricerca finalizzata sulle cellule staminali, che saranno oggetto di un apposito bando per un totale di 8 milioni di euro e per l’assegnazione dei quali sarà fatta ovviamente una valutazione indipendente da parte di referee esterni.
Le modalità di quest’ultimo bando saranno definite nella prossima riunione della Commissione nazionale ricerca il prossimo 5 dicembre. Una Commissione significativamente rinnovata e per la quale ho voluto come vice presidente il professor Alessandro Liberati, da anni alla guida del “Cochrane” italiano che è l’ente di valutazione delle ricerche cliniche e della medicina basata sull’evidenza tra i più quotati nel mondo anche per la sua assoluta indipendenza dall’industria farmaceutica
Da sottolineare infine che questi fondi rientrano tra quelli per la ricerca finalizzata che, in base all’art.12 bis del decreto legislativo 502 del 30 dicembre 1992 e successive modificazioni, sono riservati alle Regioni, all’Iss, all’Ispesl, all’Agenzia per i servizi sanitari regionali, agli Irccs e agli istituti zooprofilattici. Gli altri enti di ricerca, compresa l’Università e gli istituti privati, possono concorrere alla realizzazione di tali progetti ma solo sulla base di specifici accordi con i titolari primari di questi finanziamenti.
In conclusione, bando pubblico e commissione di referee esterni per la valutazione di tutti i progetti di ricerca concorrenti ai finanziamenti pubblici, secondo modalità e tempi stabiliti dalla Commissione nazionale della ricerca sanitaria. È questa la procedura che abbiamo seguito e che intendiamo seguire per tutti i finanziamenti per la ricerca sanitaria.

Repubblica 24.11.07
Il segretario del Prc, Giordano: deficit di autonomia del governo
"E Veltroni dov'è? Parla sempre di giovani ma sui precari tace"
Montezemolo è incontentabile e trova sponde nella maggioranza
di Umberto Rosso


PRAGA - «Un errore. Prodi non ponga la fiducia sul welfare, perché non è più possibile che vi sia qualcuno che si tiene sempre le mani libere e altri che devono invece portare sempre la croce dell´essere responsabili». Nel mirino di Franco Giordano c´è Dini, «vedrete che non si fermeranno qui, l´intenzione è di tornare indietro anche rispetto ai miglioramenti varati in commissione, che peraltro sono a costo zero», ma la battaglia del Prc sul protocollo diventa politica, e coinvolge governo e Partito democratico. «Veltroni, dov´è Veltroni? Parla tanto di giovani quando polemizza con noi che ci battiamo contro lo scalone ma ora che si tratta di difendere i precari e stabilizzarne il lavoro, il segretario del Pd stranamente tace». Come a dire che, a giudizio del leader del Prc, c´è proprio la mano del Pd dietro lo strappo di Palazzo Chigi sul protocollo. «Questo governo è malato ma il vero problema di cui soffre non è la mancanza dei numeri al Senato ma un deficit di autonomia: ci sono troppe orecchie sensibili al pressing della Confindustria». Anche se Montezemolo contesta il provvedimento? «Montezemolo è incontentabile. E trova sponde nella maggioranza». A Praga, dove ieri ha incontrato i segretari degli altri partiti della Sinistra europea, il segretario di Rifondazione si è attaccato al telefono con il ministro Ferrero, concordando l´astensione sulla richiesta di fiducia. Il pacchetto welfare, sul quale il Prc ha giocato la partita delle modifiche "di sinistra" dopo il sì al referendum, viene blindato. Prendere? Lasciare? «Io spero ancora che Prodi ci ripensi. E del resto non sappiamo ancora su quale testo il presidente del Consiglio intenda porre la fiducia, ante o post i miglioramenti che, sia pure parzialmente, abbiamo conquistato in commissione». Ma se la fiducia arriva, come tutto lascia pensare, Rifondazione che fa? Giordano non pensa alla crisi, «non vogliamo mettere in discussione il nostro rapporto con l´esecutivo», ma punta ad aprire una pagina nuova: «Insieme a tutte le altre forze di sinistra è arrivato il momento di riscrivere l´agenda delle priorità, senza subire quella del Pd. Precarietà. Aumenti salariali. Ricerca. Mezzogiorno. Ambiente». E gli altri ministri della Cosa rossa che però non hanno seguito l´esempio di Ferrero? Giordano mette le mani avanti, «Mussi non era presente in Consiglio dei ministri, degli altri due non so».
Segnali però di una difficoltà nell´operazione della casa comune di sinistra. Come nella vicenda dello scontro sul simbolo, sul quale i quattro segretari discuteranno in un vertice, probabilmente martedì prossimo. Perciò Giordano lancia una proposta: primarie sul programma del nuovo soggetto, «una consultazione di massa e aperta sulla carta degli intenti che uscirà dagli stati generali del 9-10 dicembre».

Repubblica 24.11.07
Gli appunti di Hanna Arendt


Sono 29 quaderni manoscritti di vario formato, per la maggior parte con la copertina rigida e rilegati a spirale, di cui 28 numerati forse dall'autrice stessa con numeri romani sulla prima pagina, ora raccolti nei Quaderni e diari 1950-1973 , di Hannah Arendt, edizione italiana a cura di Chantal Marazia, per Neri Pozza. Prevalentemente in lingua tedesca (anche se l'inglese, lingua di lavoro, si insinua insieme ad altre lingue da cui cita: il greco, il francese), qui la scrittrice annota, appunta, progetta, discute tra sé e sé i libri che legge, torna su certi temi che come un pensiero dominante l'assillano: la questione del male, e il bene, e la vita e l'amore e il perdono, la solitudine.
Riferendosi in inglese a questi suoi appunti, Arendt usa il termine notebooks , che è diverso da diary; del diario non hanno il ritmo quotidiano, né l'aspetto intimo, segreto. Ma in tedesco, secondo quanto riferisce Lotte Köhler, usò il termine Denktagebuch : a conferma che la traduzione è impossibile. La scelta di mantenere le due parole nel titolo accetta l'impossibilità.
Come che sia, sono quaderni in cui Hannah Arendt appunta i pensieri nel momento della loro insorgenza, pensieri che nella camera oscura di questo primo incontro con la carta e la penna la mente fissa, poi saranno le parole a sviluppare. Anche per chi conosca i libri in cui tali pensieri sono sfociati, la lettura dei frammenti è emozionante.
Sapevamo quanto contasse nello sviluppo del suo pensiero la lettura di Platone, di Kant, di Marx... Qui tornano e ritornano e ogni volta sono veri incontri. Incontri personali, profondi: Nietzsche la sollecita a certi pensieri. Montaigne ad altri. Lei risponde; non a caso, la responsabilità è il suo grande tema. E il suo grande dono. Ha quella abilità, o capacità: ne risponde - del dramma storico che nel cuore del secolo scorso paralizzò fior fiori di intellettuali e pensatori e scrittori, come della filosofia, della politica, delle teorie sociali che interpretano il mondo.
È una donna dotta, Hannah. Ha fatto buone scuole e ha avuto maestri importanti: Jaspers, Heidegger. Ma soprattutto ha l'indipendenza. In ogni citazione che trascrive si sente che non è una ripresa, è un rilancio. Il tono è di austera solitudine. Sì, ha degli amici con i quali dialoga: Mary McCarthy, il marito Heinrich Blücher. Sono presenze che affiorano, ma mai un accenno sentimentale, mai una caduta nel personale.
Non parla di sé. Solo due volte, se non ho contato male, affiorano con incantevole pudicizia i fantasmi della sua vita privata, il padre, ad esempio. Nel luglio 1970 annota: «mi ricordo ciò a cui pensavo a sette anni, il giorno in cui morì mio padre - cioè primo, non dobbiamo importunare Dio con le preghiere, secondo, non voglio dimenticare?» E conclude: «mi sento assolutamente identica a me stessa: sono sempre io». Così ribadisce come la sua propria esistenza sia per lei un esperimento, oltre che un'esperienza; il banco di prova del suo pensiero.
L'altro dato personale, intimo, che penetra queste pagine è un sogno del novembre 1968. Sogna Kurt Blumenfeld, dirigente dell'Organizzazione sionista, ormai morto, al quale la legavano l'amicizia e posizioni avverse, contrarie, rispetto al sionismo. Kurt si leva il sigaro di bocca e fa per baciarla. E lei ride. E si sveglia ridendo per la gioia di un incontro inatteso.
Quanto alla morte del marito, scomparso il 31 ottobre 1970, la trascrive rapidamente il 25 novembre. La prossima intestazione nel quaderno è all'inizio del 1971: «Senza Heinrich. Libera come una foglia al vento».

Repubblica 24.11.07
"Noi", il romanzo scritto da Evgenij Zamjatin nel 1922, per anni proibito nell'Unione Sovietica
La fantascienza odiata dall´Urss
di Franco Volpi


Zamjatin, ingegnere navale di professione e maestro di fantascienza a tempo perduto, immagina che in un remoto ma inevitabile futuro l'intera umanità cadrà sotto il governo totalitario dello Stato Mondiale Unico. Guidato da un Grande Benefattore e controllato da Guardiani che soffocano ogni dissidenza, esso trasforma gli individui in numeri e li priva dell'immaginazione per garantire l'«armonia quadrata», matematica, dell'insieme. La vita è scandita dal «Libro delle Ore» che impone a tutti lo stesso identico ritmo e dunque la perfetta coincidenza di tutti i movimenti e tutte le azioni. Formato da individui che vivono come cifre, secondo le armoniose leggi della tavola pitagorica, lo Stato Unico è un ingranaggio perfetto in cui regna la felicità.
Il protagonista, un matematico che si chiama D-503, progetta un gigantesco razzo di vetro e acciaio, l'Integrale, per diffondere nell'universo il modello politico dello Stato Unico. D-503 si lascia però infettare da un numero irrazionale, ovvero si invaghisce di I-330, giovane rivoluzionaria adepta di un gruppo segreto che cospira per impadronirsi dell'Integrale e sovvertire lo Stato. Grazie ai Guardiani, che neutralizzano il complotto, il Benefattore riafferma la sua sovranità ed escogita un modo per garantire definitivamente la stabilità dell'ordine: una Grande Operazione di lobotomia che recida in tutti gli individui la parte del cervello dove ha sede l'immaginazione. È infatti l'imprevedibilità di questa facoltà a produrre instabilità, disordine, disgregazione. Subita l'operazione, gli Uomini Nuovi sono finalmente adatti per inserirsi nell'ordine dello Stato Unico.
Questo fulminante e pionieristico romanzo anti-utopico, scritto tra il 1920 e il 1922, e proibito nell'Unione Sovietica fino al 1989, fu noto dapprima nella traduzione inglese (1924), poi in quella ceca (1927) e francese (1929), e solo nel 1952 fu pubblicato a New York il testo russo integrale. Su quest'ultimo è basata la versione italiana di Ettore Lo Gatto del 1955, ora rivista da Barbara Delfino e curata da Stefano Moriggi. Ispirato ai racconti fantastici di Herbert G. Wells, esso è stato a sua volta preso a modello da Aldous Huxley in Brave New World , da George Orwell in 1984, e soprattutto da Ferdinand Bordewijk nel racconto Blocchi , che sviluppa il motivo del «cubismo di Stato» in uno stile secco, ficcante, incisivo molto simile a quello di Noi.
Il romanzo fu subito letto come una corrosiva critica del sistema sovietico, allora appena sorto, e Zamjatin si salvò solo grazie alla protezione di Gorkij emigrando a Parigi. Fu anche accusato di trotzkismo perché accennava a «infinite rivoluzioni». In realtà, esse non hanno nulla a che fare con la «rivoluzione permanente» di Trotzkij, ma sono il risultato della dialettica di due principi, come Zamjatin spiega in un saggio coevo Su letteratura, rivoluzione, entropia e altre cose : «Due forze governano il cosmo: l'entropia e l'energia. La prima produce la quiete pacifica e l'equilibrio beato, l'altra conduce alla rottura dell'equilibrio, all'inesausto e doloroso movimento». E aggiunge: «L'unica (amara) medicina contro l'entropia dell'esistenza umana è l'eresia». Ma la vera speranza è il fatto che il Dio creatore di questo mondo è «il più grande degli scettici», e che perciò è ragionevole supporre che anche sullo Stato Unico - che in verità descrive una condizione che non è mai stata, e che mai sarà - incomba un destino di transitorietà in ragione del quale prima o poi esso imploderà. Alla fine si radica in noi un convincimento: l'immaginazione è l'unico luogo di questo mondo in cui vale la pena abitare.

Corriere della Sera 24.11.07
Le origini della specie secondo il premio Nobel
L'uomo di Edelman. In principio fu il cervello
La coscienza, la memoria e il linguaggio sono alla base di tutto ciò che siamo
di Sandro Mondeo


Secondo una diffusa convinzione, ogni tentativo di far interagire le scienze dure e le scienze umane (l'oggettività dei dati fisico-biologici e la soggettività dell'esperienza) non può che risolversi in un black-out di reciproche preclusioni.
Ma da sempre, l'immunologo e neuroscienziato Gerald Edelman (Nobel 1972 per la medicina) ha contrastato questa convinzione, tanto che nel nuovo libro arriva a trattare frontalmente la «seconda natura» della nostra specie, cioè proprio quelle funzioni psicologiche e mentali irriducibili ai livelli opachi della biochimica.
In una prima parte in cui condensa l'avvicinamento concentrico dei libri precedenti, Edelman ribadisce come alla base di tutto si situi la sua teoria del cervello e della coscienza come prodotti della «selezione naturale», teoria in grado di sequenziare due svolte evolutive capitali: quella che ha portato (circa 250 milioni di anni fa, con la transizione dai rettili agli uccelli e ai mammiferi, in linee separate) alla «coscienza primaria» di certi animali, simile a un «presente ricordato»; e quella che ha portato — in tempi più recenti e rapidi — alla «coscienza di essere coscienti » (la nostra), emersa dall'integrazione tra coscienza primaria, memoria simbolica e linguaggio. Centrale, in questa emersione, è il meccanismo del «rientro», l'incessante brusìo neuronale con cui il sistema talamo-corticale tesse la «diffusa sincronizzazione» tra mappe cerebrali differenti: esemplare il caso della visione, con 33 aree specializzate (V1 per l'orientamento degli oggetti, V4 per il colore, V5 per il movimento…) che vengono così armonizzate in un quadro unitario.
Poi — con la cautela e il rigore consueti— Edelman prova ad avvicinare altre «funzioni superiori» complesse, arrivando a risultati spesso controintuitivi. Sottraendo il linguaggio a ogni prospettiva platonica o «mentalista », lo inquadra come approdo di un processo passato per la stazione eretta dello scheletro, l'evoluzione del tratto sopralaringeo, l'espansione della corteccia e culminato nel formarsi di schemi cerebrali pre-sintattici a partire da quelli sulla regolazione delle azioni senso-motorie. Pur riconoscendo la potente capacità di astrazione delle facoltà logico- matematiche, ne scorge l'origine in dinamiche evolutive inseparabili per lungo tratto da quelle emotive, e ne coglie l'antefatto generale nel «riconoscimento delle configurazioni » utile al cervello per orientarsi nello spazio circostante. E restituendo alla creatività un'accezione trasversale, scientifica e umanistica, ne dimostra la dipendenza da una «ridondanza funzionale» del cervello — da un ventaglio infinito di variazioni scremate per la loro efficacia adattativa solo a posteriori — che ritroviamo già ai livelli più «bassi» della selezione, come nel caso dei cento miliardi di anticorpi attivi per neutralizzare e poi riconoscere virus e batteri.
Particolarmente notevoli le pagine su psico e neuropatologia. L'analisi originale di molti disagi mentali anche gravi riconduce per esempio la schizofrenia non solo a precise componenti genetiche, ma anche (per quanto riguarda le allucinazioni visivo-uditive e il quadro dissociativo) a una possibile alterazione della sincronizzazione del «rientro » tra certe aree. Mentre la rilettura critica di Freud (una delle più pacatamente provocatorie del libro) ne rivaluta da un lato — a differenza di altri neuroscienziati — molte intuizioni descrittive (dall'inconscio alla struttura tripartita in Io, Es, Super-io) e ne evidenzia, dall'altro, tutti i limiti (la vaghezza di molte metafore, l'applicazione troppo invasiva e indifferenziata delle alterazioni psicosessuali come cause di disagio e, fatalmente, l'approssimazione neurobiologica, di cui del resto Freud stesso era consapevole).
Ricordando quasi a ogni pagina la dinamica sottostante alla sua teoria (il costante scambio di segnali tra cervello, corpo e ambiente, e del cervello con se stesso), Edelman approda a una posizione tesa a scontentare tutti. Si distanzia da ogni forma di dualismo più o meno cartesiano tra spirito e materia o di «funzionalismo» (alla base dell'impropria analogia cervello-computer) e più in generale stigmatizza l'«umanesimo altezzoso» che vede ancora la scienza come il regno inerte della quantità; ma disapprova anche la ruvidezza di certa biologia all'ingrosso (l'ultimo Dawkins) e di certa psicologia evoluzionistica ingenua, e più in generale ogni forma di vetero e neopositivismo.
In questa prospettiva, un libro come Seconda natura potrebbe servire a «sanare le fratture». Chi volesse uscire dal black-out dei pregiudizi incrociati, infatti, vi troverebbe, se non la piena luce, almeno il chiarore di una nuova, promettente teoria della conoscenza.
Il libro: Gerald M. Edelman, «Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana», traduzione di Simonetta Frediani, Cortina editore, pagine 172, euro 18. In libreria in questi giorni

Corriere della Sera 24.11.07
La metafora viene prima della logica
di Gerald Edelman


Il cervello, essendo un sistema selettivo, funziona prima facie in base non alla logica, ma piuttosto al riconoscimento di configurazioni. Non è un processo preciso, come nella logica e nella matematica. È invece un processo che può rinunciare alla specificità e all'esattezza, se necessario, in cambio di un ampliamento della varietà.
È probabile, per fare un esempio, che il pensiero dei primi esseri umani procedesse per metafora, la quale, anche dopo l'acquisizione di strumenti precisi quali la logica e il pensiero matematico, continua a essere una fonte importante per l'immaginazione e la creatività nella vita adulta. La capacità metaforica di collegare entità disparate deriva dalle proprietà associative di un sistema rientrante. Le metafore hanno una forza allusiva di notevole ricchezza; tuttavia, a differenza di altri tropi quali la similitudine, non si possono dimostrare né confutare. Ciò nonostante, sono un potente punto di partenza per pensieri da perfezionare con altri mezzi, come la logica. Le loro proprietà sono senz'altro coerenti con il funzionamento di un cervello selettivo che forma configurazioni. È vero non solo che un tale cervello è unico, ma anche che lo stimolo sensoriale offerto dall'ambiente e la risposta motoria dell'animale non sono mai identici da una volta all'altra. Questo esclude i modelli del cervello e della mente considerati come macchine, rendendo invece necessario che la memoria sia una proprietà dinamica di sistema basata sulla ricategorizzazione, non un archivio fisso di tutte le varianti di una scena, per esempio di una stanza familiare in cui ci si è trovati in molte occasioni.

Corriere della Sera 24.11.07
Antica Grecia, un mito da antropologi
di Eva Cantarella


La «nostra» storia è cominciata in Grecia, o in tempo molto più lontani, in quell'Oriente nei confronti del quale l'Occidente ha debiti per troppo tempo negati? Perché, superata finalmente la fase della loro mitizzazione, continuiamo a tornare ai greci ogni volta che riprendiamo a ragionare su temi, ad esempio e in primo luogo, come la democrazia? Il più recente intervento su Noi e i Greci (titolo del suo ultimo libro), è di Marcel Detienne, ed è una proposta di metodo: scrivere «un'antropologia con i greci». Studiare i greci da storici, ma anche da antropologi.
La scienza storica, quando si istallò nelle Università, in concomitanza con la comparsa delle prime grandi nazioni, si diede come oggetto privilegiato una storia «nazionale », superiore e dunque incomparabile con ogni altra. L'antropologia, che è comparazione, cominciò allora a essere guardata con sufficienza: non era «scientifica », e ancora oggi sono pochi gli storici che praticano i vastissimi territori della comparazione. Ma cosa significa, esattamente, «antropologia con i greci»? Un esempio: «È opinione largamente condivisa negli Stati Uniti d'Europa e d'America che la democrazia sia caduta dal cielo, una volta per tutte, in Grecia, anzi in una sola città greca, l'Atene di Pericle».
Ma la democrazia ha esordi «multipli»: per esempio, gli storici dell'Ucraina e del mondo russo hanno riscoperto i modi così stranamente «democratici» dei cosacchi dal XV al XVII secolo, e gli antropologi, nell'Etiopia meridionale, hanno rilevato la presenza di riunioni assembleari pari a veri e propri «luoghi del politico». Uno fra i tanti esempi con i quali Detienne mostra che «no, la nostra storia non comincia con i greci»: è infinitamente più ampia. Senza diminuire la quantità e la grandezza dei nostri debiti verso la Grecia, è bene che qualcuno ce lo ricordi.

MARCEL DETIENNE, Noi e i Greci RAFFAELLO CORTINA EDITORE PAGINE 166 e 18,50

Liberazione 24.11.07
Giordano: questo governo non ha autonomia da Confindustria
intervista di Stefano Bocconetti


Il segretario del Prc (da Praga, dove si apre il congresso della sinistra europea) parla del decreto sul welfare e della prova di forza dei partiti moderati
Dice che il governo si fa condizionare da Montezemolo e le conseguenze rischiano di essere «bruttissime»

Praga. C'è poco da fare, ci si può allontanare quanto si vuole ma tante cose ti riportano lì. A quel che accade nella politica italiana. Franco Giordano è a Praga, per partecipare al secondo congresso della Sinistra europea. E' qui per discutere come entrare in sintonia coi movimenti sociali che attraversano il vecchio continente, quali obiettivi disegnare per la sinistra. Un'agenzia arrivata sul telefonino segnala però quel che sta avvenendo a Roma, il consiglio dei ministri che dà via libera alla fiducia. E si ritorna a parlare di cose italiane. Anche se la distanza, stavolta, consente di parlarne senza stare attenti alle virgole. Senza diplomatismi. E le parole di Giordano, qui a Praga, sono dure, nette. Per lui i problemi di questo governo non dipendono dall'«esiguità dei numeri». Non è vero insomma che l'esecutivo di Prodi sia nei "guai" solo perché al Senato può contare su due, tre voti di maggioranza, che poi - tante volte - si riducono ad uno. Non c'è solo questo, c'è un problema più "politico". Questo: «La precarietà del governo non deriva dalla risicatezza dei numeri. Viene invece dal deficit di autonomia che rivela nei confronti della Confindustria». Di più. In una chiacchierata coi giornalisti italiani che sono qui a Praga, Giordano si spinge più in là. Fino a definire questo governo «non completamente libero».
Non può decidere da solo, in libertà, insomma. Montezemolo lo fa per lui.
Ed è probabilmente ancora alla Confindustria che bisogna risalire se si vuole trovare un "ispiratore" del voto di fiducia. «Fiducia alla quale siamo assoltamente contrari - continua Giordano, mentre ci si prova a scaldare in una Praga davvero gelida - C'è il rischio di vanificare tutto il lavoro svolto per migliorare il testo sul welfare». E l'ipotesi che sia messa la fiducia sul primo testo, su quel primo, brutto testo uscito dal confronto coi sindacati? «E' un'ipotesi che non voglio neanche prendere in considerazione. Perché in quel caso le conseguenze sarebbero davvero brutte». Anzi, il segretario di Rifondazione usa proprio il superlativo: «Bruttissime».
Rifondazione è contraria. Vuole un dibattito parlamentare. E lo vorrebbe libero. «Com'è giusto che sia quando si toccano argomenti così rilevanti». E la precarietà lo è. Già, la precarietà. «Io mi ricordo, ed è questione di poche settimane fa, quando Veltroni attaccando chi voleva eliminare lo scalone, ripetava ossessivamente che la sinistra e i sindacati erano conservatori. Che bisognava occuparsi dei giovani, della loro condizione lavorativa. Noi, con mille difficoltà, lo abbiamo fatto, portando a casa anche qualche risultato. Mi piacerebbe, però, sapere dov'era finito Veltroni durante questa difficile trattativa . Semplicemente non c'era». Scomparso. A discutere, a trattare, a negoziare c'è rimasta però la sinistra. Tutta la sinistra. Che unitariamente rivendica ora il diritto a discuterne in aula. «Non fosse altro che per fare emergere i condizionamenti della Confindustria su tanta parte delle forze politiche».
Sinistra che parla con un solo linguaggio su questi temi. Sinistra che già immagina un "percorso" - lo chiamano così - per il dopo welfare. Che insomma ha già chiaro su cosa darà battaglia all'indomani dell'approvazione della finanziaria e delle misure sulle pensioni e stato sociale. Anche in questo caso, la lontananza dai Palazzi della politica permette a Giordano di parlare più direttamente ai suoi interlocutori. E dice così: «Francamente non se ne può più del fatto che sia il partito democratico a dettare l'agenda del dibattito politico". La sinistra, insomma, ha in mente altre priorità. Ben diverse da quelle di Veltroni e Montezemolo. Riguardano il lavoro, i suoi diritti, la sua tutela. La sua retribuzione. "E su questo apriamo una vera e propria campagna. Le possibilità sono due. O si reintroducono elementi di fiscal drag o si detassano i prossimi aumenti contrattuali. In ogni caso, sul tema occorre intervenire. E subito».
Questi sono gli obiettivi. Sono gli obiettivi della sinistra. Che, contemporaneamente, però ha un altro "lavoro" da fare: deve avviare una profonda riorganizzazione, di più: deve ripensarsi da cima a fondo. Ed eccoci a parlare della "cosa rossa". Quel che Giordano pensa l'ha spiegato pochi giorni fa: anche lui, come la Rossanda, chiede un'accelerazione nella costruzione del nuovo soggetto unitario e plurale. Tempo non ce n'è molto. «Qui davvero si richia. Si rischia di venire stritolati, stretti fra la sortita di Berlusconi - che gioca anche con "l'antipolitica e che può arrivare a toccare pezzi della nostra gente" - e la passività dei democratici. Si rischia il declino». Bisogna fare in fretta, insomma. Anche se - come dicono le cronache - sembra che ogni giorno la "cosa rossa" abbia la sua polemica. L'ultima riguarda l'"indisponibilità" di qualcuno ad accettare una riforma alla tedesca del sistema elettorale. Anche in questo caso Giordano è diretto: «Diciamoci la verità: ragionevolmente ci sono solo due possibilità. O il referendum o il sistema tedesco. Non si scappa. E allora pensare ancora in termini di nicchia, di consenso di nicchia, rischia di farci impantanare tutti». La sinistra non se lo può permettere.