lunedì 26 novembre 2007

l'Unità 26.11.07
Bertinotti: non temo inciuci ma non si dimentichi il Parlamento
L’iniziativa parlamentare è irrinviabile dunque si parta dal sistema tedesco


Da Praga, dov’è per il passaggio di testimone alla guida della Sinistra europea (che ora sarà diretta dalla Linke tedesca), il Presidente della Camera Fausto Bertinotti torna sulla legge elettorale. E, dopo la cerimonia formale e la deposizione sotto la neve di una rosa sul monumento che ricorda l’inizio della «Primavera di Praga», Bertinotti ricorda la necessità, anche, di un dibattito parlamentare: «Si prenda coscienza che l’iniziativa parlamentare è irrinviabile e che che la condizione di partenza è quella del sistema tedesco», sostiene. Precisando: «Non vedo, francamente, il pericolo di “inciuci”, né ritengo si debba temere il dialogo sul tema su canali privilegiati» come quello in corso tra Berlusconi e Veltroni.
Nessun inciucio. «Dal punto di vista del metodo - sostiene l’ex leader di Rifondazione - perché c’è una centralità parlamentare che basta far vivere. Da quello del merito in quanto non vedo in nessuno dei protagonisti di questa vicenda un interesse a determinare un’intesa alle spalle di qualcun altro. A meno - rileva - che non si ipotizzi l’interesse di qualcuno per il fallimento non della trattativa ma della stessa ipotesi di realizzare una nuova legge elettorale: il che mi sembrerebbe completamente incredibile visto che tutti considerano cattiva la normativa vigente e che anche gli ultimi fatti politici in entrambi gli schieramenti preludano a un protagonismo dei partiti».
E allora, ben venga il dialogo parallelo, ma comunque «il Parlamento ha tutte le condizioni per garantire la propria assoluta centralità». In ogni caso, «tutti gli incontri, i colloqui e le relazioni sono complementari a tutto ciò che concorre a determinare un largo schieramento che porti a una buona riforma della legge elettorale. In quanto tali, vanno incoraggiati». Ma attenzione: il «fatto che avvengano dei colloqui è bene, ma è bene solo in presenza di una iniziativa parlamentare: se non ci fosse, il deficit sarebbe grave. E allora il problema non sta nell’esistenza dei colloqui ma sull’attivare finalmente la discussione sulla legge elettorale nel luogo proprio che è il Parlamento. Partendo, come è stato deciso, dal Senato».

Corriere della Sera 26.11.07
Giordano Il segretario di Rifondazione: «Meglio un libero confronto in Parlamento»
«Niente fiducia, sì ai cambiamenti»
di Andrea Garibaldi


Il governo non è abbastanza autonomo da Confindustria. Noi al testo sul Welfare affiancheremmo altre misure

PRAGA — Franco Giordano, segretario di Rifondazione comunista, siamo all'ennesimo passo cruciale, il governo ri-rischia di cadere. Sul Welfare.
«E si va alla ricerca del colpevole».
Lei è qui al congresso della Sinistra Europea. In Italia, Dini afferma che voterà il testo sul Welfare solo se fedele alla stesura concordata con le parti sociali. Mastella parla di elezioni anticipate se ci sarà cambio di rotta. Montezemolo dice che l'accordo non si tocca.
«L'unica posizione coerente è quella di Confindustria, l'unica che entra nel merito, che parla di fatti: loro sono contro la lotta al precariato. Le altre sono posizioni politiche, è la ma-lattia italiana».
Dini o Mastella si muovono per conto dell'opposizione?
«Non voglio avere retropensieri. Stiamo al merito. Segnalo che Dini aveva chiesto modifiche che non incidessero sui costi e così è stato fatto».
Voi quindi come voterete?
«Per cominciare: siamo contrari alla fiducia sul Welfare».
Contrari, perché?
«Vogliamo un libero confronto in Parlamento sul tema della precarietà. Che emergano chiaramente le opzioni delle forze politiche».
E dopo questo dibattito?
«Che venga votato il testo del protocollo con le poche modifiche effettuate in Commissione Lavoro. Sui tempi massimi del lavoro a termine, sull'abolizione dello staff leasing, sulla trattativa da riaprire per definire il lavoro usurante».
Indietro non si torna...
«Questo testo è il minimo. Avremmo voluto molto di più. Un testo approvato da tutta la maggioranza. Compreso il Partito democratico».
Veltroni ha detto che se non c'è intesa si torna all'accordo iniziale.
«Con tanta retorica ho sentito più volte parlare di futuro delle giovani generazioni. Ora vorrei che tutti coloro che hanno lavorato in Commissione si battano in difesa delle modifiche ».
Ma se, alla fine, questa battaglia comune non ci sarà?
«Ripeto. Niente fiducia. Approvazione del testo modificato in Commissione.
Altrimenti, vedremo. Alla fine, faremo valere il senso di responsabilità. Anche se...».
Anche se...
«Non è accettabile che qualcuno possa sempre tenere le mani libere e qualcun altro debba avere sempre senso di responsabilità. Continua a girare quella favola...».
Quale favola?
«Che la maggioranza è prigioniera della sinistra. Magari fosse vero! Il governo avrebbe tenuto conto delle domande della manifestazione del 20 ottobre. In verità le nostre istanze sono ascoltate in dosi omeopatiche».
Chi è più ascoltato?
«Il governo non è abbastanza autonomo da Confindustria. E Confindustria porta la nostra economia in una logica di marginalità, poiché punta solo all'abbassamento dei costi del lavoro. Noi al testo sul Welfare affiancheremmo altre misure».
Quali?
«O un recupero del fiscal drag. O la detassazione degli aumenti salariali. Così si faciliterebbe la chiusura dei contratti».
Adesso vi sentite soli?
«Ma no, Verdi, Comunisti Italiani e Sinistra democratica sono con noi. Piuttosto, dopo il voto sul Welfare proporrò un confronto serrato fra noi e il Pd: deve esserci equilibrio fra le nostre e le loro priorità».

l'Unità 26.11.07
Quando i bambini chiedono aiuto
di Luigi Cancrini


Caro prof. Cancrini,
sono un insegnante della scuola dell’infanzia che ha sempre accudito i bambini nella fascia pomeridiana, fino alle 17.30, e negli ultimi tempi ho constatato che vi è un aumento di bambini che necessitano di attenzioni maggiori, con dei bisogni più specifici che noi a volte non riusciamo a soddisfare non per mancanza di volontà ma per mancanza di mezzi e strumenti adeguati. Situazioni con un disagio psichico, disarmonie tra lo sviluppo cognitivo, quello emotivo e soprattutto quello motorio che è per noi su tanti aspetti il punto più importante, visto che parliamo di bambini tra i tre e i sei anni. Di fronte a tutto ciò, perché vi è una reticenza a non vedere in questa tenera età delle situazioni bisognose di un’attenzione più specifica?
Libera Gabriele

Questa sua lettera mi è tornata in mente, cara Libera, mentre si discuteva alla Camera la legge finanziaria per il 2008. Una finanziaria positiva, di progresso se la si considera nel suo insieme. Una finanziaria che presenta, tuttavia, molti passaggi discutibili uno dei quali riguarda proprio il problema che lei qui propone.
L’idea sottesa all’inserimento dei bambini handicappati nella scuola normale era quella per cui il bambino in qualche modo diverso dagli altri può trovare, nella possibilità di crescere insieme con tutti gli altri, un aiuto importante per la sua crescita e per il suo avvicinamento progressivo ad una condizione di normalità. Battaglia fra le più importanti di quelle combattute negli anni 60 e 70 (il diritto alla salute per tutti ed il servizio sanitario nazionale, lo statuto dei lavoratori, il superamento degli ospedali psichiatrici e il diritto alle cure dei tossicodipendenti) questa fu considerata allora una grande battaglia di civiltà ed entrò rapidamente nella coscienza di una gran parte degli italiani. Con due conseguenze estremamente importanti.
La prima, la più semplice e la più ovvia, era quella legata alla necessità di tener conto delle esigenze proposte dai bambini diversi nella organizzazione delle attività didattiche. Nasce da qui, dalla necessità di aiutare l’insegnante a far fronte a queste esigenze, l’idea degli insegnanti di sostegno e quella dei servizi di psicologia scolastica. Dando luogo ad una serie di esperienze straordinarie che hanno reso la nostra scuola dell’obbligo famosa e ammirata in tutto il mondo ma che hanno offerto, soprattutto, occasioni di crescita e di benessere straordinarie ad un numero enorme di bambini e di famiglie colpite dalla sfortuna dell’handicap.
La seconda, culturalmente forse ancora più importante, è quella che riguarda la possibilità e la necessità di considerare le somiglianze fra i bambini con handicap evidente e dichiarato e quelli che presentano “solo” difficoltà più o meno importanti di inserimento e di rendimento scolastico. È una vera e propria rivoluzione culturale quella che ha trasformato sempre più chiaramente, nel corso degli anni, i Franti di De Amicis e i bambini meno dotati della didattica più tradizionale in problemi di cui gli insegnanti debbono farsi carico. In problemi, cioè, cui la scuola deve e può dare delle risposte. Con l’aiuto, ancora una volta, degli insegnanti di sostegno e dei servizi di psicologia scolastica. Occupandosi di dislessie e di disturbi dell’attenzione (intesi un tempo come ritardi dello sviluppo cognitivo), di disturbi del comportamento (i Franti di un tempo) o dell’umore (i bambini “depressi” di oggi o quelli “svogliati” di ieri) dall’interno di un convincimento per cui la scuola non deve più, come un tempo, selezionare facendo andare avanti quelli che non hanno nessuno di questi problemi ma dedicare una attenzione speciale a quelli che ce l’hanno.
Se tutto questo è vero e se difficoltà come quella che lei esprime nella sua lettera sono reali, quello che è davvero difficile capire è perché ormai da alcuni anni una delle scelte più gettonate dei ministri della Pubblica Istruzione, Moratti prima e Fioroni oggi, siano quelle basate sul tentativo di contenere la spesa tagliando sugli insegnanti di sostegno e continuando a trascurare lo sviluppo dei servizi di psicologia scolastica. Riproponendo oggi, nella finanziaria del 2008, la necessità di una riduzione («La dotazione organica di diritto relativa ai docenti di sostegno è progressivamente rideterminata, nel triennio 2008-2010, fino al raggiungimento, nell’anno scolastico 2010/2011, di una consistenza organica pari al 70 per cento del numero dei posti di sostegno complessivamente attivati nell'anno scolastico 2006/2007») ed escludendo la possibilità di assumere laddove ce n’è necessità. Per evitare la formazione di un “nuovo precariato” come dice un po’ ipocritamente la proposta ma senza accettare di fatto l’idea per cui l’handicap e le difficoltà si manifestano, purtroppo, anche al di fuori dei piani delle speranze e della volontà del ministero.
Vale la pena, credo, di insistere oggi sull’importanza di queste questioni. Stiamo discutendo il modo in cui lo Stato spenderà i suoi soldi nei prossimi tre anni e l’opinione pubblica perennemente concentrata sugli scandali e sulle grandi manovre dei partiti ha il diritto di essere informata su quelli che possono sembrare ma non sono problemi e decisioni minori di cui una legge come quella che si sta discutendo è, in realtà, ricchissima.
La vera riforma della politica, quella di cui abbiamo bisogno, non è in realtà, a mio avviso, quella che si basa sul numero e sul nome dei partiti e su quello dei senatori o dei deputati. Quella che dovremmo cambiare, per cambiare davvero le cose, è la procedura che dà luogo alla scrittura delle leggi più importanti.
Di finanziaria, a mio avviso, si dovrebbe cominciare a parlare a marzo o ad aprile, aprendo un processo largo di discussione, di consultazioni e di approfondimenti dei problemi reali. Con deputati e senatori riportati alla loro funzione naturale di tramite fra pensiero degli elettori (con cui debbono avere tempo e modo di dialogare) e scelte dei governanti (che devono dare loro il tempo di riflettere e di consultare). Superando, nel sogno di chi ci crede ancora e nelle aspettative dei più deboli, il teatrino di tanta politica di oggi.

l'Unità 26.11.07
Trecento capolavori al Museo del Corso di Roma dedicati al sovrano cinese
la grande avventura della corte di Qianlong


Il ritratto è imponente: il Grande Imperatore Qianlong, il Figlio del Cielo, in armatura da cerimonia, è in sella a un possente destriero. Veste riccamente alla cinese, il paesaggio che si profila lieve sullo sfondo replica i temi della pittura tradizionale, eppure c´è qualcosa di nuovo nell´insieme della composizione che celebra un primo incontro tra la civiltà figurativa orientale e quella occidentale: l´autore del dipinto è infatti un italiano, Giuseppe Castiglione, nome cinese Lang Shining.
Forse, tra i trecento capolavori della imponente mostra che il Museo del Corso di Roma dedica al museo della Città Proibita, a Qianlong e la sua corte, questo dipinto è il più intrigante: segna infatti l´inizio della grande avventura, quella della fusione tra modi e mondi diversi che, all´epoca di Qianlong e di Castiglione, si preannunciava possibile e prossima. Invece, non fu così. Guerre, incomprensioni, alterigia, ritardarono il dipanarsi di un percorso che Castiglione, gesuita milanese, aveva intrapreso lavorando a lungo con artisti cinesi e, mentre apprendeva le loro tecniche, creava uno stile nuovo affine al naturalismo occidentale grazie a un uso sottile delle ombreggiature. Troppo naturalismo, troppi chiaroscuri, troppa drammaticità, non sarebbero stati apprezzati alla corte di Qianlong il quale, a proposito di un altro famoso dipinto di Castiglione Messaggio di una primavera di pace, scrisse: «Nei ritratti Shining è grande maestro, mi ha dipinto quando ero giovane, l´uomo canuto che entra nella stanza ora, non riconosce davvero chi sia».
Ma Castiglione non era l´unico straniero che operava ed era apprezzato alla corte di Qianlong il quale aveva instaurato una politica di grande apertura culturale, filosofica, religiosa, accogliendo uomini di cultura di diversa origine e religione, dimostrando grande tolleranza e ponendosi come protagonista assoluto del suo tempo, spesso precorrendolo. Essendo lui stesso un sovrano non cinese, riuscì a essere più cinese dei cinesi, assumendo la tradizione confuciana come norma del suo regno: era infatti il quarto imperatore della dinastia mancese Qing, la Pura, fondata da usurpatori nordici nel 1644. La Qing è stata l´ultima dinastia della Cina, quella che ha portato l´Impero del Centro al suo massimo fulgore e lo ha accompagnato alla rovina. All´apice della parabola si situa lui, Qianlong. Sotto il suo lungo regno (1736-1796) la bellezza maestosa si impose in ogni espressione della vita pubblica - riti, cerimonie, banchetti - e permeò ogni aspetto della vita privata del sovrano che fu grande poeta, calligrafo, collezionista raffinato di preziose porcellane.
La Città Proibita, il Vecchio Palazzo costruito dal primo imperatore Ming agli inizi del XV secolo, fu da lui ampliata, ricostruita, modificata e tutto quello che ancora oggi se ne può vedere risale infatti alla sua epoca. Ma a Qianlong si deve anche l´edificazione del Yuanmingyuan nei dintorni di Pechino, il Giardino della Perfetta Luminosità, la grandiosa residenza imperiale estiva dove Qianlong volle dei padiglioni all´occidentale, capriccio di monarca assoluto, proprio come Luigi XIV aveva voluto il suo Trianon alla cinese. Erano però capricci che denotavano per lo meno curiosità verso il diverso, l´esotico, non la chiusura e l´arroganza che Qianlong dimostrò invece quando rispose con supremo sprezzo all´ambasceria di Lord Macartney che nel 1793 si era recato a Pechino per volere di Giorgio III d´Inghilterra.
La sua incoscienza politica costò in realtà assai cara alla Cina che di lì a pochi anni si trovò non più al centro ma ai margini di un mondo che aveva voluto ignorare. Comunque, per tutti i sessanta anni del suo regno, Qianlong riuscì a impersonificare l´impero più ricco ed esteso che mai si fosse visto in terra, promuovendo la sua immagine come modello di una concezione altamente umanistica e confuciana del potere. Avrebbe potuto dire «La Cina sono Io»: se non lo disse, di certo lo pensò e fece di tutto per essere lui la Cina, per riassumerla e presentarla come un modello ideale ecumenico.
La mostra che celebra Qianlong si prefigge proprio di illustrare questa emblematica concezione del sovrano universale, prima nell´ambito privato (e abbiamo i suoi dipinti, le sue preziose ceramiche, gli strumenti musicali, gli esotici, perché occidentali, orologi da tavolo). Viene poi una sezione dedicata alla rappresentazione pubblica del potere, grandi ritratti tra i quali si impone quello equestre di Castiglione, la ricostruzione della sala del trono con il trono in lacca dorata, gli incensieri e i sigilli imperiali. Infine due mandala con la figura dell´imperatore al centro, vesti e oggetti religiosi, l´esaltazione per immagini della devozione e della diplomazia che Qianlong seppe coniugare aderendo a un sincretismo religioso la cui cornice era il buddismo tibetano del quale si professò sostenitore ma con sommo rispetto di quella cultura, un rispetto che oggi i tibetani vorrebbero fosse loro tributato come ai tempi di Qianlong.

Corriere della Sera 26.11.07
Prostitute, identikit dei clienti
Giovani, quasi sempre single, a volte laureati «Meglio le ragazze dell'Est, danno più affetto»
di Luigi Corvi


Hanno un'età compresa tra 35 e 40 anni, lavorano, sono single e con un livello di istruzione medio-alto. Preferiscono le ragazze dell'Est che incontrano in hotel, saune o appartamenti, con una frequenza media di una volta ogni due mesi. Ma, soprattutto, scelgono le donne dell'Europa orientale o le cinesi, non solo perché costano meno delle italiane, ma perché con loro soddisfano il «bisogno di affetto e di comprensione».
Eccolo per la prima volta il profilo del cliente delle prostitute straniere «trafficate » (cioè vittime della tratta), così come emerge dallo studio How much? condotto per la Commissione europea dalla Fondazione Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) con i ricercatori di Transcrime (Università di Trento e Cattolica di Milano) che verrà presentato giovedì a Milano.
I dati sono stati elaborati con lunghe analisi dei forum Internet e da un questionario pubblicato online. Ma un'altra parte della ricerca si è mossa direttamente sul campo e se il profilo del cliente risultato qui è diverso (età tra 23 e 50 anni, sposato, con un partner regolare e uno o più figli, livello di istruzione basso o molto basso, incontri ogni 15 giorni) le motivazioni sono le stesse e il fattore «bisogno di affetto/comprensione» resta ai primi posti. Dice un cliente: «Le ragazze dell'Est sono tutte bellissime, la maggior parte bionde, alte, fatte bene, disponibili. Non fanno le cose come una catena di montaggio un colpo e via, anzi ti portano a casa loro, ti fanno rilassare, ti danno un po' di accoglienza. Mentre le prostitute italiane tendono solo a fare i soldi e concludere alla svelta». Un'altra voce, su Internet: «Gli italiani vogliono sesso, il buon, caro, sano, vecchio sesso. E magari anche un briciolo di affetto, vero o immaginario, che non guasta mai». Stesso concetto ribadito da un intervistato: «Con il sesso molti cercano anche affetto e un rapporto con la donna in generale, spesso l'atto vero e proprio passa in secondo piano».
Numeri e affari
Secondo il Dipartimento per le pari opportunità della presidenza del Consiglio, in Italia sono 9 milioni i clienti delle prostitute (che sono stimate in 70 mila, di cui più della metà straniere) con un giro d'affari di 90 milioni di euro al mese.
Lo studio di Transcrime, il primo del genere in Italia, ha cercato di dare un volto al cliente delle prostitute «trafficate» (la maggior parte delle straniere) per capire cosa spinge gli uomini a cercare questo mercato del sesso che si è diffuso nell'Unione Europea a partire dalla caduta del muro di Berlino e ha ormai raggiunto dimensioni preoccupanti.
A questi clienti — così emerge dalla ricerca — non interessa la storia che è alle spalle della prostituta (per loro infatti «la tratta non esiste» o al massimo coinvolge poche persone e le «vittime» della prostituzione sono proprio i clienti «sfruttati a causa del naturale bisogno di sesso tipico del maschio»). Anzi, dicono di preferire le donne dell'Europa orientale o le cinesi proprio perché provengono da Paesi in cui vi è il «dovuto rispetto» per il maschio e quindi manifestano remissività anche nei confronti dei clienti italiani. Dietro questa motivazione, poi, ce ne sono altre due: il bisogno di dominio e il rifiuto dell'emancipazione femminile. E se le prostitute italiane sono sbrigative e pensano solo ai soldi, le mogli/compagne sono viste così: «Ti costringono ad andare in cerca di sesso a pagamento perché quando ti sposano ti promettono che farai sesso tutte le volte che ne avrai voglia (e sennò chi si sposerebbe?), poi usano il sesso come una risorsa, un'arma, uno strumento per ottenere quello che vogliono».
Case chiuse
Tutti gli uomini contattati si sono infine dichiarati, all'unanimità, per la riapertura delle case chiuse. La regolarizzazione, secondo gli intervistati, costituisce un vantaggio per tutti: per i clienti (garanzia di privacy, igiene e controllo medico), per lo Stato (che può tassare i guadagni) e per le prostitute perché si ridurrebbe lo sfruttamento da parte dei protettori.
L'ultima parte della ricerca riguarda la comparazione dei dati italiani con quelli di tre Paesi europei — Olanda, Svezia e Romania — che hanno una legislazione diversa dalla nostra. Questo aspetto, insieme agli altri, verrà illustrato nel seminario di giovedì a Milano (sala Vismara, via Copernico 1) dagli autori dello studio: per l'Ismu, Marco Lombardi, docente della Cattolica, e Paolo Ruspini; per Transcrime (il maggior centro universitario italiano sullo studio della criminalità transnazionale) Andrea Di Nicola e Andrea Cauduro. Le conclusioni di How much?, secondo Lombardi, «serviranno ora a sviluppare politiche innovative per combattere il traffico di esseri umani anche in un quadro normativo diverso da quello attuale». Perché, dice a questo proposito Di Nicola, «una cosa abbiamo capito: la politica dello struzzo in Italia non paga. Meglio intervenire piuttosto che non fare niente».

domenica 25 novembre 2007

l'Unità 25.11.07
«Senza unità la sinistra rischia di essere cancellata»
Bertinotti al congresso della sinistra europea a Praga passa il testimone al tedesco Bisky
Il presidente della Camera sarà l’8 e 9 dicembre agli Stati generali convocati da Rifondazione Pdci, Sd e Verdi


SOLO UNITA la sinistra può vincere, in Italia e in Europa. Fausto Bertinotti parla a Praga, dove oggi si chiude il congresso della Sinistra europea, la formazione politica di cui nel 2004 è stato tra i fondatori. E l’ultimo intervento che fa da presidente della formazione politica prima di passare i testimone al tedesco Lothar Bisky guarda allo scenario internazionale ma guarda molto anche all’interno dei confini di casa nostra. Il presidente della Camera lancia la sfida per il futuro della sinistra europea dalla città che quarant'anni fa ha vissuto la pagina esaltante e drammatica della “Primavera”. «Annunciò il crollo dei regimi dell'Est - dice di fronte ai delegati - ma anche il primo duro colpo ai lavoratori ed al movimento operaio. Da quella Primavera la sinistra europea deve ripartire, riaprendo la sfida al capitalismo totalizzante». Ripartire, dunque, dal ricordo di quella «stagione di speranza che metteva in discussione la organizzazione capitalista del lavoro e della democrazia riaprendo la sfida al capitalismo totalizzante». Oggi, sostiene Bertinotti, «dobbiamo riaprire la sfida per interpretare il disagio e la critica della popolazione europea, che se non incontra un soggetto capace di rispondere anche ai movimenti rischia la implosione», cioè di «essere cancellata dall'Europa del prossimo futuro». E allora, secondo Bertinotti, «serve una sinistra più larga e vitale, capace di vincere la sfida del socialismo del XXI secolo e di contrastare il capitalismo incoraggiando i movimenti».
Ma anche in Italia la sinistra rischia di essere cancellata, se non intraprende con serietà un processo unitario. A questo proposito, il presidente della Camera annuncia che parteciperà agli Stati generali convocati l'8 e 9 dicembre a Roma. «Sarò presente - fa sapere dopo l'elezione di Bisky alla presidenza e dell'italiana Graziella Mascia alla vicepresidenza della Sinistra europea - con la speranza molto forte che si avvii la fase costituente di aggregazione di una sinistra unitaria e plurale in grado di contribuire a dare risposte ai problemi drammatici del nostro tempo: risposte che possono trovarsi solo in una nuova organizzazione della società che questa sinistra plurale e unitaria deve proporre. Un processo di unità che subisce una accelerazione anche davanti al fatto che siamo alle soglie di una riorganizzazione più complessiva delle forze politiche italiane».

l'Unità 25.11.07
Martedì mattina su Raitre con «La storia siamo noi» la verità sulla fuga del grande scienziato a Mosca nel 1950
Bruno Pontecorvo non fu una spia e anche il Pci lo aiutò a fuggire
di Bruno Gravagnuolo


Si riapre il caso Pontecorvo. E lo fa con nuovi materiali d’archivio e inediti filmati La storia siamo noi, in onda martedì 27 novembre su Raitre, alle otto del mattino: Le campane del Cremlino (a cura di Giovanni Minoli e Amedeo Ricucci). Perché quelle «campane»? Lo spiega Gillo Pontecorvo, fratello del grande fisico fuggito improvvisamente il primo settembre 1950, dopo una vacanza al Circeo con la moglie svedese e i due figli. Le campane venivano da Radio Mosca che Bruno ascoltava, ed erano un segnale ideologico e sentimentale a cui il fisico affidò la scelta più importante della sua vita: la clamorosa scelta dell’Urss. Plateale e segreta, almeno fino al marzo del 1955, quando lo scienziato prima con un articolo sulla Pravda poi in una conferenza stampa decise di rivelare i motivi della fuga. E le domande di ieri sono quelle di oggi. Perchè la fuga? Fu una spia Pontecorvo? E che ruolo ebbe nelle ricerche atomiche sovietiche durante la guerra fredda? E ancora: come e chi lo aiutò? E finalmente arrivano le risposte, anche sulla base di un libro originale: Il caso Pontecorvo di Simone Turchetti (Sironi editore, Milano), uscito qualche mese fa ma ancora poco noto.
Turchetti è in trasmissione con molti testimoni e storici. Tra i quali Roy Mevdedev, lo storico della scienza Kiselov, Miriam Mafai biografa di Pontecorvo, i due figli dello scienziato, Adriano Guerra, il fratello scomparso Gillo, e Gianni Cervetti, uomo chiave del Pci, che ha raccontatto tutto sui famosi finanziamenti dell’Urss al Pci sino al 1979-80. Ne viene fuori intanto che il fisico, giovane di Via Panisperna e allievo di Fermi, non fu impiegato in ricerche militari. Bensì al grande acceleratore di particelle di Dubna. Che egli poteva girare in Russia abbastanza liberamente, e non era sottoposto a restrizioni, come gli altri scienziati «militari». Che lavorò forse indirettamente a certi progetti, magari con consulenze nel campo delle «prospezioni» uraniche e petrolifere, occupandosi dei suoi campi prediletti: trizio, neutrino e oscillazione del neutrino (campi decisivi da lui anticipati, ma che valsero ad altri il Nobel). Ancora: Pontecorvo era in contatto con alcuni scienziati «spie smascherate»: l’inglese Num May e il tedesco Hans Fuchs. Ma solo il primo aveva lavorato alla bomba a Los Alamos, mentre Bruno era stato escluso da quel progetto, perché comunista. Di qui il timore di finire incastrato dai «servizi» a Londra, dove lavorava e conobbe Fuchs. Anche in ragione di una causa intentata contro gli Usa dai fisici italiani, per i proventi del «brevetto» sul nucleare di allora. Questi i moventi che spinsero Pontecorvo a fuggire, assieme alla fede comunista e all’idea di lavorare per la roccaforte sovietica in nome della pace. Interrogato in Urss però, rivelò cose che i sovietici già sapevano, e in più quando Bruno giunse a Mosca l’Urss già disponeva di centinaia di bombe atomiche. Ultimo tassello, le modalità di fuga. Roma, Stoccolma e poi l’Urss. Biglietto pagato con banconote da cento dollari e dopo aver seminato «scientificamente» falsi indizi sulla partenza. Chi aiutò Pontecorvo? Verosimilmente l’ambasciata sovietica. E anche il Pci, attraverso l’autorevole Emilio Sereni, cugino di Pontecorvo e mentore culturale di tanti comunisti (tra cui Amendola). L’ipotesi è accreditata da Gianni Cervetti ed è plausibile. Ma è un dettaglio in una vicenda più vasta. Quella di un grande scienziato che in piena guerra fredda scelse da comunista l’Urss. Lacerando la sua vita tragicamente e senza pentimenti. Pur lasciando trapelare alla fine di aver commesso un errore.

l'Unità 25.11.07
Cos’è cambiato da Welby a oggi
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


È passato quasi un anno dalla morte di Piergiorgio Welby. In questi giorni, una serie di articoli e di iniziative ne ricordano la storia e la battaglia politica, il suo coraggio e la sua integrità. C'è da chiedersi: cosa è cambiato, in Italia, dopo la morte di quell'uomo? È un interrogativo lontano da ogni retorica, una domanda che risponde al senso profondo della vertenza aperta da Welby sulla libertà terapeutica, sul rapporto che la persona - nella sua declinazione giuridica di «cittadino» - intrattiene con la propria identità fisica e la propria corporeità.
Ebbene, qualcosa è cambiato. E quel qualcosa è moltissimo: perché sono assai importanti gli orientamenti che ci segnala la piena assoluzione di Mario Riccio, l'anestesista che assistette Welby negli ultimi giorni della sua malattia, dall'accusa di «omicidio di consenziente»; ed è altresì importante l'ultima sentenza della Cassazione sul caso di Eluana Englaro, che Vincenzo Carbone, primo presidente della suprema Corte, ha spiegato così: «La Corte di Cassazione ha escluso che l'idratazione e l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscano, in sé, oggettivamente, una forma di accanimento terapeutico, pur essendo indubbiamente un trattamento sanitario; ha deciso che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzarne l'interruzione soltanto, dovendo altrimenti prevalere il diritto alla vita, in presenza di due circostanze concorrenti: 1) la condizione di stato vegetativo del paziente sia apprezzata clinicamente come irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità, secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacità di percezione; 2) sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento».
Sono, quelli citati, elementi che evidenziano non solo il rilievo che le questioni «di vita e di morte» hanno assunto nel dibattito pubblico: essi testimoniano della nuova sensibilità dimostrata dalla giurisprudenza nel riconoscere i diritti della persona malata, incluso quello a una morte compassionevole e non dolorosa e quello a porre fine a un'esistenza mutilata dei suoi tratti più umani e intensi. La libertà terapeutica è uno di quei temi correntemente riconosciuti come «eticamente sensibili». Essa implica uno sforzo di individuazione della linea di demarcazione che salvaguardi la libertà dell'individuo di disporre della propria vita - quindi anche della propria salute e del proprio corpo - dai condizionamenti che ad essa possono venire da vuoti normativi, dal progresso della scienza medica, dalla tecnicalizzazione e dalla burocratizzazione del rapporto tra terapeuta e paziente. In termini più ampi, e per dirla tutta, le implicazioni etiche ed esistenziali cui rimandano questioni come quella del Testamento biologico, ad esempio, hanno a che fare con il rapporto dell'uomo con la modernità, la tecnologia, la scienza; e con l'elaborazione di miti (dal vaso di Pandora in poi) e di figure della cultura e della letteratura classica e popolare (dal Faust al Golem). L'intensità evocativa di quelle rappresentazioni, in riferimento ai casi prima richiamati (Englaro, Welby; ma anche a quelli di Terry Schiavo e di Giovanni Nuvoli), ben spiega di come il rapporto tra scienza e vita interpelli, sempre più, le menti e le coscienze di molti.
Le vicende che scandiscono la discussione sulla libertà terapeutica sono storie di corpi dolenti, fisiologie morenti tenute in vita senza possibilità di guarigione, in stati vegetativi irredimibili o incapaci (o scarsissimamente capaci) di relazione con il mondo e di espressione e rappresentazione del sé; condizioni umane in cui la vita non è più tale - non è più come l'abbiamo pensata ed esperita per secoli - e la morte, immanente ma non imminente, è una condizione sempre attuale, eppure sempre sospesa: procrastinata a data incerta.
La scienza medica è giunta a un punto di evoluzione tale da poter mantenere in vita i propri pazienti, prossimi alla morte, pur nell'assenza di qualsivoglia prospettiva di regressione della loro patologia: idratati e alimentati artificialmente, talvolta sostenuti nella funzione cardiaca e assistiti in quella respiratoria da macchine sofisticate, senza il cui ausilio morirebbero immediatamente o in breve tempo, essi esistono in uno «spazio intermedio» inedito, tra vita e morte, del quale poco sappiamo. E si trovano in quella condizione, nella quasi totalità dei casi, non per propria scelta, bensì per un concorso di prassi e tecniche mediche sinora sottratto al controllo di chi le subisce (il malato, appunto); e senza che vi sia possibilità di tutela giuridica dei suoi interessi, a causa di un vuoto normativo oramai insostenibile. Il Testamento biologico, uno strumento che si rivelerebbe decisivo nel dirimere molti casi come quelli richiamati e che contribuirebbe a una riduzione della domanda di eutanasia, non è ancora legge. L'attività parlamentare ha evidenziato, in questi anni, ampie possibilità di convergenza tra destra e sinistra, tra laici e cattolici, sui motivi ispiratori di questa materia. Ciononostante, la politica appare, nel suo complesso (fatte salve alcune iniziative individuali), in netto ritardo nell'affrontare la questione. Questo dato non può essere spiegato solamente alla luce di congiunturali difficoltà delle coalizioni; esso trova spiegazione, piuttosto, nei limiti che il legislatore incontra nel decidere su una condizione «umana, troppo umana».
Ma l'idea - propria di molti oppositori del Testamento biologico - che all'origine della volontà di riduzione del dolore risieda una cultura materialista ed edonistica rimanda, singolarmente, ad un vero e proprio rovesciamento di significati. Il «principio del piacere», evocato in queste circostanze, richiama, invece, il suo contrario: ovvero l'angoscia per la morte e per quella sua forma anticipata - quell'«annuncio» di essa - che è la sofferenza fisica. Un'angoscia che nessun processo di «secolarizzazione» può rimuovere, e nemmeno accantonare; e che risulta sempre più fattore di incertezza e di stress, nella vita contemporanea, perché il flusso di messaggi ricevuti e di aspettative alimentate sembra promettere, piuttosto, una crescente capacità di differimento e di controllo della morte stessa. Dunque, intorno alla categoria e all'esperienza della sofferenza - e alla conoscenza intima del dolore fisico, delle sue soglie e dei suoi abissi - si impongono oggi i più radicali dilemmi etici e le conseguenti «scelte tragiche», tra opzioni analogamente legittime e degne di tutela: e analogamente fondate su motivazioni morali. Piergiorgio Welby ci ha aiutati a guardare a quell'angoscia con più coscienza e intelligenza; e, paradossalmente e nonostante la sua morte, con più speranza.
Scrivere a abuondiritto@abuondiritto.it

il manifesto 24.11.07
Il saper fare che cancella il comando e l'obbedienza
Pubblicate le lezioni di Gilles Deleuze su Spinoza. Un piccolo capolavoro di insegnamento e di riflessione filosofica
di Augusto Illuminati


Dal punto di vista autoriale e proprietario incerto è lo statuto di questo Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza di Gilles Deleuze, curato e prefato da Aldo Pardi per Ombre Corte (pp. 202, euro 18,50) - versione italiana della sbobinatura, reperibile in rete (www.webdeleuze,com), delle lezioni dedicate a Spinoza (gennaio 1978; novembre 1980-marzo 1981) - ma che meraviglia di immediatezza filosofica e di efficacia didattica. Naturalmente viene spontaneo raffrontarla con i grandi testi consacrati negli anni '60 dallo stesso Deleuze all'Olandese nonché al complementare Nietzsche. Qui è più evidente per un verso il confronto con la tradizione accademica più innovativa (Martial Gueroult e Ferdinand Alquié), per l'altro un corpo a corpo con il testo che consente una trasmissione impagabile al pubblico, con un'esplicita traduzione esistenziale e politica dei luoghi più astratti dell'ontologia, anzi con l'assunzione tutta politica della dimensione ontologica.
I tre gradi di conoscenza
La lezione introduttiva del 24.1.1978 pone già tutti i termini del problema: il rapporto fra idea, affetto e affezione, l'impersonalità automatica della successione delle idee, l'incessante variazione della potenza del corpo e della mente, la composizione positiva e negativa dei corpi, l'essere il nostro corpo determinato dall'insieme dei rapporti che lo affettano e che è in grado di organizzare. Dunque, nulla conta se non la mappa degli affetti di cui un corpo è capace, risultandone saturato nelle due opposte direzioni del potenziamento o depotenziamento indefinito della propria potenza di agire. La felicità dell'incontro appagante, l'autodistruzione dell'overdose. Il passaggio dalla passione all'azione. L'Etica non è una morale precisamente perché Spinoza non chiede mai cosa «si deve» fare, ma cosa si è in grado di fare, tratta della potenza non del dovere. In altri termini (lezione 2) è un'etologia che non rinvia ad alcuna istanza superiore.
Nelle lezioni successive Deleuze affronta originalmente la partizione in tre gradi della conoscenza, accentuando la riduzione di quella immaginativa a errore, insistendo sul carattere singolare e non astrattivo delle nozioni comuni, il cui ruolo è soprattutto di intensificare la potenza di agire, definendo rigorosamente il terzo genere di conoscenza come connessione reciproca di intensità pure, di essenze singolari liberate dalle parti estese.
Con un percorso solo apparentemente a zig-zag si tocca poi il problema del diritto naturale fondato sulla potenza e dei rapporti con Hobbes (lezione 3), riprendendo il motivo della razionalizzazione come costruzione utilitario-cooperativa e non realizzazione dell'essenza dell'uomo; l'equipollenza e pari legittimità di ragione e follia dal punto di vista della potenza naturale e lo loro differenziazione solo negli affetti che ne conseguono sul piano sociale; il fondarsi della società sulla consensualità e non sulla superiore competenza del saggio (lezione 4). Su quest'ultimo punto si registra una convergenza sostanziale con Hobbes, mentre le strade si divaricano quanto alla persistenza del diritto naturale e soprattutto per le decise conseguenze anti-gerarchiche che Spinoza ne trae sia per rifiutare qualsiasi metafisica dell'«Unicità» sia per negare la riduzione dello Stato alle funzioni di comando e obbedienza.
La fine dello Stato è infatti la libertà, cioè il più ampio sviluppo della potenza, mentre l'obbedienza vale solo se funzionalizzata a ciò. Se non c'è un «Uno» superiore all'essere, allora bene e male sono nulla, non semplicemente relativi ma relativi alla differenza dei gradi intensivi di potenza che risultano da combinazioni aleatorie (lezioni 5-6). Non si nasce né liberi né razionali: come lo si diventa? Attraverso un complesso discorso sull'infinito, dove spicca l'illuminante contrapposizione, desunta dal critico d'arte Alois Riegl, fra l'universo ottico-tattile dei Greci e il binomio bizantino luce-colore che libera la figura dalla tirannia dello spazio (lezione 7), si perviene a una definizione dell'individuo non come sostanza ma come rapporto emancipato dal limite, gradiente di potenza nell'ambito di una continua composizione di rapporti fra le affezioni del singolo modo e fra i singoli modi.
Nella lezione 8 Deleuze è per un attimo affascinato dalla proposta di Gueroult che intende il rapporto fra movimento e riposo (i due modi infiniti immediati che costituiscono ogni modo finito nell'attributo Estensione) quale «vibrazione», ma preferisce definire l'individuo quale rapporto differenziale specifico dei sotto-individui infinitamente piccoli che lo costituiscono - forse ha torto, alcuni neuroscienziati leggono in modo vibrazionale le attività neuronali e addirittura hanno identificato la coscienza con una determinata frequenza.
Di qui, nelle due ultime lezioni, Deleuze ritorna sul tema della conoscenza. Gli uomini sono composti di parti estese connesse fra di loro e con l'esterno in modo del tutto contingente: puoi nutrirti piacevolmente o avvelenarti, fare un incontro piacevole o essere punto da una zanzara. Le idee inadeguate, proprie del primo genere di conoscenza, si limitano a constatare quella casualità e costituiscono il primo strato dell'individualità.
Il culmine della beatitudine
Per fortuna possiamo accedere, grazie al secondo genere di conoscenza, alla scoperta della norma che contiene il criterio di composizione e decomposizione dei vari rapporti, la comprensione delle cause e della ragion d'essere di cose ed eventi. Passiamo a controllare i rapporti, come chi nuota domina e sfrutta le onde che travolgono l'inesperto, chi passivamente dipende dall'immaginazione. Un saper fare, dunque, non solo una conoscenza geometrica e matematica, mentre ogni categoria conoscitiva è anche un modo di esistenza. Tanto più questo vale per il culmine della beatitudine, la conoscenza di terzo genere per cui sentiamo e sperimentiamo di essere eterni. Accesso alla verità eterna dei rapporti, al regime dell'esistenza delle parti intensive che rende minoritaria e irrilevante la parte estesa imprigionata nella durata e destinata alla morte per usura e attrito con il mondo esterno. Unione mistica delle essenze che continuano a distinguersi fra di loro pur essendo contemporaneamente tutte intrinseche le une alle altre.

Repubblica 25.11.07
"Non possiamo restare in eterno a Kabul"
Cosa rossa all'attacco: un vertice sul ritiro. Bertinotti: serve una riflessione
di Giovanna Casadio


Ma per Prodi "la missione non si discute". Veltroni: la pace non è ancora raggiunta
Diliberto: siamo visti come una forza occupante. Ferrero: ripensare la nostra strategia

ROMA - «Qualcuno mi spiega perché continuiamo a stare ancora in Afghanistan?». Oliviero Diliberto non si limita al dolore e al cordoglio; a Prodi, a Parisi e a D´Alema chiede di indicare una data per il ritiro delle truppe italiane da Kabul e di darsi da fare per una svolta internazionale: «Non possiamo restare in eterno, o no? Siamo visti come forza d´occupazione». Non è solo il segretario del Pdci a fare pressing sul governo. Anche Rifondazione insiste per «una nuova strategia». La sinistra radicale esprime solidarietà alla famiglia del maresciallo morto da eroe, usa toni diversi ma punta a un vertice dell´Unione dove si discuta del ritiro dei militari italiani e della Conferenza internazionale di pace al cui tavolo possano sedere anche alcuni rappresentanti dei talebani.
Dopo il lutto insomma, è tempo di rivedere la posizione dell´Italia. Benché le parole del premier Prodi siano inequivocabili - «La missione non si discute» - uno dei punti-chiave nella convention della "Cosa rossa" (Prci, Pdci, Sinistra democratica e Verdi), l´8 e il 9 dicembre sarà proprio la missione afgana e il pacifismo. Lo stesso presidente della Camera, Fausto Bertinotti pur non volendo affrontare la questione («Non partecipo a discussioni politiche nel giorno di una tragedia»), ammette che «una riflessione» è indispensabile. Rincara il capogruppo di Rifondazione al Senato, Giovanni Russo Spena: «Bisogna imboccare una strada diversa, è giusto che in questa giornata prevalgano il cordoglio e l´emozione ben sapendo però che il nostro eroico militare è rimasto vittima di un meccanismo di guerra. Il ministro degli Esteri, Massimo D´Alema chieda subito all´Onu un chiarimento. Il governo italiano è in ritardo». E il ministro Prc, Paolo Ferrero avverte: «Non possiamo non ripensare la modalità della nostra presenza in Afghanistan».
La "Cosa rossa" punta a una svolta strategica prima di febbraio, quando in Parlamento si dovrà votare sul rifinanziamento della missione afgana. Già le minoranze di Rifondazione annunciano un no "senza se e senza ma". Del resto, sono molti i parlamentari pacifisti i quali non sono più disposti a mediazioni: il numero dei "dissidenti" che nel febbraio scorso fecero scivolare il governo al Senato sulla politica estera, è aumentato. Paolo Cento, sottosegretario dei Verdi è perentorio: «Non si tratta di riaprire il tormentone sul ritiro, è che davvero non possiamo continuare a piangere i nostri soldati, là siamo in uno scenario di guerra». A ribadire che ci vuole un incontro di maggioranza sull´Afghanistan è anche Manuela Palermi, presidente dei senatori Pdci. L´Unione resta quindi divisa. Pd, Sdi-Radicali e Udeur non vogliono sentir parlare di ritorno a casa delle truppe italiane. «Gli eroi rafforzano la speranza in un traguardo di pace», ricorda Walter Veltroni. E il senatore a vita Cossiga provoca in un´interpellanza a Prodi: «Il governo ritiri il contingente».

Repubblica 25.11.07
La sinistra radicale, da Sansonetti alla Dominijanni
"Prese in giro dal Palazzo contestazioni sacrosante"
"Lo avevano detto: no a quelli del family day e del pacchetto sicurezza"
di Caterina Pasolini


ROMA - Hanno ragione. Si sono sentite usate, strumentalizzate, violate ancora una volta. E così hanno risposto con fischi e contestazioni. Lo avevano detto: «Non vogliamo i politici che hanno partecipato al family day, via i ministri che hanno votato il pacchetto sicurezza» e quando li hanno visti salire anche sui palchi televisivi, in piazza, hanno reagito.
Lo dicono con parole diverse il direttore di Liberazione, Sansonetti, il senatore di Rifondazione Russo Spena e le giornaliste e femministe storiche Fossati e Dominijanni, ma la linea è comune. Appoggio alle ragazze dei collettivi che hanno sfilato; comprensione se non giustificazione per i fischi di contestazione a ministri e politici; analisi della forte presenza di giovani, fortemente politicizzate e radicali.
«È stata una contestazione legittima, le donne si sono sentite usate ancora una volta per far passare provvedimenti forcaioli del pacchetto sicurezza. La violenza sulle donne, sempre ignorata, è stata ricordata e usata per una politica xenofoba e questa strumentalizzazione alle donne non è piaciuta», dice Piero Sansonettii. Il direttore di Liberazione giudica la politica italiana «maschilista» e spera che dal movimento delle donne, dalle nuove generazioni scese in piazza ieri, venga «una spinta rinnovatrice».
Che la manifestazione di ieri, la forte presenza dei collettivi, possa essere una spina nel fianco, un pungolo per il governo di centro-sinistra lo spera anche il senatore di rifondazione Giovanni Russo Spena. «Dovrebbe avere un effetto positivo, di spirito critico, ai troppi provvedimenti tolti dall´agenda del governo per divisioni interne, per la longa manu del Vaticano che preme attraverso i deputati e blocca il programma di governo: dalle unioni civili all´impegno contro la violenza. E comunque era una manifestazione dichiaratamente provocatoria, lo avevano detto, annunciato».
Ma molti non hanno ascoltato. «Avevano detto di non voler i politici che avevano partecipato al family day o quelli della sinistra che avevano approvato il pacchetto sicurezza. E quando hanno visto la Prestigiacomo e la Turco sul palco televisivo hanno reagito», spiega la giornalista del Manifesto e femminista storica Ida Dominijanni. «Senza contare che noi femministe siamo sempre state sensibili alla rappresentazione: per questo era stato deciso di non chiudere il corteo con un palco, con oratori. E i ministri avrebbero dovuto capirlo, nelle cose ci vuole garbo, davanti a questa decisione non ci si prende la scena mediatica».
Più dubbiosa Franca Fossati, giornalista, storica direttrice di Noi Donne: «Nelle contestazioni di ieri c´è del vero, del giusto, ma avrei preferito che puntassero sull´analisi del rapporto uomo-donna che invece è stato oscurato da un discorso antigovernativo». E racconta della presenza alla manifestazione di più giovani donne che in passato, di studentesse che hanno «espresso una carica antigovernativa radicale da sinistra». E che quando hanno visto sul palco le personalità politiche indesiderate «si sono sentite escluse, strumentalizzate». E hanno reagito.

Repubblica 25.11.07
Bertinotti: "Per la legge elettorale i tempi sono stretti, è in arrivo il giudizio della Consulta sul referendum"
"Non ci sarà inciucio tra Veltroni e il Cavaliere riforma entro gennaio"
di Umberto Rosso


Il referendum non conviene a nessuno. Ci sono punti condivisi: modello tedesco, sbarramento al 5%, niente premio di maggioranza

PRAGA - «L´inciucio? Tranquilli, non ci sarà. E spiego perché un asse fra Veltroni e Berlusconi non è nel novero delle cose possibili: nessuno dei due in realtà avrebbe da guadagnarci». Fausto Bertinotti tranquillizza gli scettici e rincuora partiti e partitini, Rifondazione compresa, che al tavolo della trattativa sulle riforme guardano con apprensione mista a speranza. E conferma perciò il disco verde al confronto, sistemando però un paio di paletti. Primo: «Naturalmente il capo del Pd e il capo dell´opposizione possono incontrarsi, parlare, ma la legge elettorale non è certo materia di trattativa privata: il confronto vero poi si fa in Parlamento, e al tavolo devono sedere tutti i partiti». Secondo, un avviso ai due naviganti: «In teoria potrebbero anche mettere a punto una riforma contro ciascuno degli altri partiti ma, attenzione, non contro tutti gli altri partiti. Non ne avrebbero i numeri». Ovvero, la tentazione di giocare una partita Pd-Pdl contro il resto del mondo sarebbe destinata a innescare una rivolta degli esclusi, che farebbe fallire l´operazione.
Bertinotti sbarca a Praga ancora nelle vesti di presidente della Sinistra europea ma, quando finisce di parlare ai delegati del congresso, ha solo l´abito di presidente della Camera. Lascia (per incompatibilità di ruoli) i vertici della Se con un omaggio ai 40 anni della primavera che proprio qui sbocciò, quella di Dubcek, una sconfitta che «annunciò il crollo del regimi dell´est ma anche il primo duro colpo ai lavoratori». E anche con un appello-autocritica consegnato nelle mani dell´erede Lothar Bisky (eletta vicepresidente Graziella Mascia, del Prc): serve «un´inversione di tendenza» perché Se non è riuscita a interpretare lotte e movimenti che fanno irruzione sulla scena europea. Il nuovo modello? La Die Linke tedesca e la Cosa rossa italiana.
Bertinotti, fuori dalla sala del Top Hotel immerso nella nebbia praghese, illustra lo scenario di casa nostra. «Non temo un asse fra Veltroni e Berlusconi, intanto perché un eventuale patto dovrebbe riguardare un terzo soggetto, distinto dai primi due, e che pertanto non è nella loro disponibilità». Si chiama governo, si chiama Prodi. Del quale Berlusconi chiede la testa per firmare un´intesa. Ma il Cavaliere, come si è visto finora, non ha la forza per sferrare la spallata e quindi per imporre diktat al tavolo della riforma, né - sembra di capire dalle parole di Bertinotti - riuscirà a farlo ballare sul welfare, Dini o non Dini. Tantomeno sarà Veltroni a mettere a rischio il governo. I sospetti, i dubbi che riafforano, specie a sinistra, sulle intenzioni «segrete» del leader del Pd? «Io - risponde il presidente della Camera - sono assolutamente convinto del suo sostegno al governo. Ragioniamo. Un inciucio a due, dei partiti più grandi, sulla riforma elettorale come dicevo scatenerebbe una reazione di tutti gli altri e verrebbe affossato. E che cosa resterebbe a quel punto a Veltroni, e anche a Berlusconi? Solo il referendum. Ed è esattamente quel che i due vogliono evitare, perché non serve loro: è proprio il contrario rispetto ai rispettivi progetti politici».
E´ il meccanismo che uscirebbe dal referendum, il superpremio di maggioranza al partito più forte, che secondo Bertinotti spegne ogni tentazione inciucista. Anche in questo caso la "lettura" del presidente della Camera contraddice, e rassicura, quanti temono invece che alla fine Silvio e Walter vogliano giocarsi proprio l´arma referendaria per regolare i conti con le ali. «Una strada impraticabile, e i due lo sanno bene. Per vincere, sulla base del meccanismo referendario, Veltroni non potrebbe presentarsi da solo, sotto il simbolo del Pd, ma sarebbe costretto a rimettere in pista tutti i partiti dell´Unione. A quel punto, todos caballeros. Tutti dentro. Il più possibile, fino - che so - a Marco Rizzo e a quel nostro amico ligure, Marco Ferrando. Risultato: alla prima consultazione elettorale dopo la nascita del Pd, il simbolo del Pd non ci sarebbe. E perché mai Walter Veltroni avrebbe allora varato la sua nuova creatura politica?». Visto allo specchio, lo stesso stallo di Berlusconi. «Anche lui dovrebbe tirare dentro tutti, Fini, Casini, Storace e Mussolini. Domanda, anche qui: ma allora perché Berlusconi avrebbe appena fondato il suo partito, come si chiama, della gente? Perché avrebbe mandato all´aria tutte le caselle, se deve ricominciare da capo?». Ma la vocazione maggioritaria, la voglia di autosufficienza del Pd? Veltroni non potrebbe affrontare da solo quelle elezioni? Risposta: «Per perdere? Non credo che Veltroni si candidi a una sconfitta, a 5 anni di opposizione. E non credo che nel Pd gli altri leader glielo permetterebbero». Morale della favola: non c´è altra strada che il confronto aperto per approvare la legge elettorale, e evitare il referendum. «La via è quella parlamentare. I tempi però sono stretti, diciamo entro la metà di gennaio, perché è in arrivo il pronunciamento della Corte sulla ammissibilità della consultazione. Sulla formula, mi pare ormai che siano stati raggiunti dei punti condivisi: modello tedesco, con sbarramento al cinque per cento e senza premio di maggioranza».

Repubblica 25.11.07
G8, De Gennaro verso il rinvio a giudizio
Genova: l'ex capo della Polizia coinvolto nella vicenda della Diaz
di Marco Preve


In queste ore si consegnano a indagati e difensori gli atti di fine inchiesta

GENOVA - I suoi avvocati, il romano Franco Coppi e il genovese Carlo Biondi, negli ultimi mesi li si era visti frequentare con assiduità il nono piano di palazzo di giustizia. Ma nonostante incontri e discussioni con i capi della procura, sembra difficile che i due legali riescano ad impedire che su Gianni De Gennaro, ex capo della polizia italiana e oggi capo gabinetto del ministro dell´Interno Giuliano Amato, si abbatta l´onta di una richiesta di rinvio a giudizio. In queste ore sono, infatti, in fase di notifica i cosiddetti Acip, ovvero gli atti con cui si avvisano gli indagati e i loro difensori, che si sono concluse le indagini e possono prendere visioni degli atti.
Sembra inoltre che nella vicenda possa essere coinvolta una terza persona, forse un altro poliziotto, di cui fino ad oggi non si era ancora saputo nulla.
L´inchiesta che coinvolge De Gennaro nasce dal processo per l´irruzione alla Diaz, la scuola dormitorio del G8 del luglio 2001. Nel corso di un´udienza in cui venne chiamato come testimone l´ex questore del capoluogo ligure Francesco Colucci, rilasciò una serie di dichiarazioni per le quali, la procura, chiese l´iscrizione al registro degli indagati per falsa testimonianza. Per il reato di istigazione alla falsa testimonianza fu invece indagato De Gennaro. Nel corso di una conversazione tra Colucci ed un collega, intercettata durante altre indagini, l´ex questore si sarebbe compiaciuto per aver soddisfatto il "capo". Interrogato a luglio, De Gennaro ha spiegato che Colucci potrebbe aver equivocato quella che era solo una chiacchierata sulla vicenda Diaz. La spiegazione non avrebbe però convinto i pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini, e con loro il procuratore aggiunto Mario Morisani.
In realtà, si era profilata, ad un certo punto, una possibile via d´uscita. Se Colucci avesse chiesto di poter nuovamente testimoniare per ritrattare le dichiarazioni false, la legge gli avrebbe offerto l´automatica estinzione del reato. A quel punto, anche per De Gennaro sarebbe stato più semplice uscire di scena senza danni. Eventualità per altro non del tutto accantonata visto che il processo Diaz è ancora in corso. Colucci, ai primi di maggio, chiamato a deporre come teste contro 29 poliziotti accusati di falso, lesioni e calunnia, ribaltò una sua precedente ricostruzione dei fatti, raccontando che la notte dell´irruzione nella scuola dormitorio non fu De Gennaro a chiedere di allertare l´addetto stampa Roberto Sgalla, bensì fu una sua iniziativa spontanea.
Ma se De Gennaro vede avvicinarsi il rischio del processo, per tutti i suoi fedelissimi, il disastro del G8 e le imputazioni per la Diaz (entro la metà del 2008 la sentenza) non hanno comportato effetti collaterali. Anzi. E´ di due giorni fa la promozione di Giovanni Luperi, ex vicedirettore dell´Ucigos, a capo del Dipartimento analisi dell´Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna), l´ex Sisde. Francesco Gratteri, nel 2001 capo dello Sco, oggi è al vertice del Dipartimento Centrale Anticrimine. Nomine, tra le tante, che hanno sollevato dure critiche specie dall´estrema sinistra. Proprio nei confronti di Gratteri poi, ha annunciato un´interrogazione Graziella Mascia di Rifondazione Comunista. Il caso è quello di un´ispettrice in servizio allo Sco e in passato in forze alla questura di Bari, la cui presenza in aula durante diverse udienze del processo Diaz ha sollevato alcuni interrogativi in merito al suo possibile incarico.

Repubblica 25.11.07
Alla ricerca del Paradiso perduto
di Alberto Manguel


Da millenni gli uomini hanno pensato un luogo dove i giusti dopo la morte abbiano la loro ricompensa Ma non hanno mai smesso di immaginarne un altro, più sensuale e concreto, da dove i nostri progenitori furono cacciati Ora un libro raccoglie le carte che nei secoli hanno tracciato la possibile via del ritorno

Ogni desiderio ha la propria cartografia, ogni mappa i propri punti di partenza e di arrivo. Impegnati a trovare un senso nell´incessante abbinamento di molecole che ci compongono e ci scompongono, da lungo tempo immaginiamo che le nostre azioni rispondano a un significato e a una missione, e che quindi quel che realizziamo su questa terra possieda un valore morale o etico, sottoposto al giudizio di un Amministratore Supremo che a tutto offre ricompensa o castigo. E così le nostre anime, pensionate dopo la morte della carne, passeranno all´eternità in una sorta di residenza per anziani, decente o spaventosa, a seconda dell´inclinazione della bilancia. Come testimoniano le tombe troglodite, tale speranza è ben antica. Per i greci, le anime dei morti viaggiavano tutte assieme verso quel luogo comune denominato Ade, dove attendevano il loro destino sui grigi prati di asfodelo. Chi aveva offeso gli dei era condannato al Tartaro, dove veniva poi torturato; chi godeva del favore divino era trasportato alle isole benedette o Eliseo: l´Ade si trova sotto terra o al di là del mare; in alcuni casi eccezionali, può essere visitato da chi è ancora in vita. Odisseo, Orfeo ed Enea si annoverano tra i privilegiati.
Ho descritto una delle oltretombe: ce ne sono migliaia. Tutte le popolazioni del mondo hanno immaginato una versione dell´aldilà nella quale i buoni sono premiati e i cattivi puniti. C´è chi crede che tali promesse corrompano. Ivo, vescovo di Chartres, durante una missione voluta da San Luigi, re di Francia, raccontò al re che lungo la strada aveva incontrato una signora dall´aria malinconica, che aveva in una mano una torcia e nell´altra un´anfora. Il vescovo, incuriosito, volle sapere di più sul suo conto e le chiese cosa avrebbe fatto con quel fuoco e quell´acqua. «L´acqua è per spegnere l´Inferno», rispose la donna, «e il fuoco per incendiare il Paradiso. Voglio che gli uomini amino Dio per il solo amore di Dio». Per quanto ammirevole possa apparirci una simile impresa, la nozione di Paradiso (così come quella di Inferno) perdura con i suoi celestiali incanti: un luogo futuro, alla portata delle anime con la fedina penale pulita (è bene ricordare che l´unico a ricevere la promessa del Paradiso direttamente dalle labbra di Gesù, sia stato un ladro).
Esiste però un altro Paradiso, più solido, meglio immaginabile, forse più accessibile, un luogo nel quale un tempo abbiamo goduto del diritto di abitazione e dal quale siamo stati esiliati. Il primo Paradiso è intangibile, extraterrestre, spirituale, descritto con un linguaggio di metafore e allegorie. Il secondo (ci piace credere) è concreto, sensuale, nascosto seppur in questo mondo, e per tanto, vanta un´autentica cartografia.
Spesso si confonde un Paradiso con l´altro, il Paradiso celeste presuntamente promesso ai giusti e l´Eden terrestre presuntamente perduto. La confusione (e la distinzione) non è nuova. Tra le oltre 4.500 pagine che compongono lo Zibaldone, uno dei libri più singolari, personali e ambiziosi della biblioteca universale, ce ne sono alcune in cui Giacomo Leopardi, dopo dieci lunghi anni di riflessione su tutte le cose, s´interroga sul significato di questo Paradiso terreno. Secondo Leopardi, il Paradiso in cui Adamo ed Eva sono stati creati fu uno dei piaceri materiali e carnali, un "paradiso voluptatis" che doveva essere coltivato e protetto. A differenza del Paradiso celeste che i giusti si aspettano dopo la morte del corpo, il Paradiso terrestre (seppur perduto) ha qualcosa di verosimile, di materiale e persino di carnale, niente ingiustizie sul lavoro, imbrogli economici o tormenti filosofici: una sorta di Club Mediterranée, potremmo dire, avant la lettre. Dinanzi a tali incanti, l´ascetico Paradiso futuro diventa astratto fino all´inverosimile. «E la felicità promessa dal Cristianesimo non può al mortale parer mai desiderabile [...] Ed oso dire che la felicità promessa dal paganesimo (e così da altre religioni), così misera e scarsa com´ella è pure, doveva parere molto più desiderabile, massime a un uomo affatto infelice e sfortunato, e la speranza di essa doveva essere molto più atta a consolare e ad acquietare, perché felicità concepibile e materiale, e della natura di quella che necessariamente si desidera in terra».
L´altro, il Paradiso terrestre o Eden è, secondo la Genesi, un giardino nel quale persino Dio ama passeggiare. Etimologicamente lo si è voluto associare alla parola ebraica miquedem che possiede un significato spaziale ("in oriente") e temporale ("fine dell´inizio"). Il Dizionario Biblico editato da Paul J. Achtemeier lo fa derivare da edem che vuol dire "lusso, piacere, delizia"; Achtemeier sottolinea tuttavia che i filologi moderni lo associano a una voce sumera, edin, che si traduce con "pianura" o "prato". Attraverso i secoli, l´Eden ha trasmesso le sue incantevoli caratteristiche a un´immaginaria nostalgia: quella dell´Età dell´oro classica, nella quale il mondo intero è un giardino, «quand´era cibo il latte», dice Guarini, «del pargoletto mondo, e culla il bosco;/e i cari parti loro/godean le gregge intatte,/né temea il mondo ancor ferro né tosco!». È questa la caratteristica principale dell´Eden: si coniuga nel tempo passato, desiderio di ciò che è perduto, negato, di ciò che ora è proibito. È la terra come vorremmo che fosse, come sogniamo che sia. Per questo crediamo, con più o meno fede, di poterla ritrovare.
La ricerca del Paradiso terrestre conta su una vasta biblioteca cartografica. Centinaia di documenti manoscritti e stampati, e una bibliografia di svariate pagine che non disdegnano né le fonti secondarie né i siti web, hanno permesso ad Alessandro Scafi di dare corpo, un anno fa, a una straordinaria mostra presso il British Museum di Londra, il cui catalogo magistrale, Il paradiso in terra: Mappe del giardino dell´Eden, viene pubblicato da Bruno Mondadori in questi giorni. Le testimonianze sono numerose, e pochi tra gli autori studiati da Scafi hanno avuto, come Sir John Mandeville nel Quattordicesimo secolo, la scrupolosità di dichiarare: «Del Paradiso non posso dir nulla, non ci sono stato». Al contrario, senza atto di presenza, viaggiatori, storici, geografi, mistici e visionari, hanno dichiarato con imperturbabile convinzione che l´Eden si trovava (si trova) in Mesopotamia, in Inghilterra, a Gerusalemme, nel punto di coincidenza tra Asia, Europa e Africa, al nord dell´India, alla foce del Gange, nella Persia settentrionale, sui monti del Libano. Alcuni cronisti sono di una precisione esemplare: secondo Jean Mansel, per esempio, nel suo Fleur des histoires composto tra il 1460 e il 1470, l´acqua dei fiumi del Paradiso cade da una tale altezza che il suo fragore ha reso sordi tutti gli abitanti delle regioni limitrofe. Il libro di Scafi è istruttivo, rasserenante, erudito, e (agli occhi di questo lettore profano) assolutamente completo.
Nel suo lungo percorso, dal primo Medioevo ai nostri giorni, Scafi raccoglie una serie di versioni moderne di mappe paradisiache, disegnate da artisti così diversi come Hendrikje Kühne, Beat Klein, Ilya ed Emilia Kabakos, i quali hanno tentato di riscattare l´idea di un Paradiso terrestre per il nostro ormai inguaribile secolo Ventunesimo. Tuttavia, penso esista un´ulteriore versione di questa interminabile idea. Nel 1615, sei anni dopo la firma del decreto di espulsione degli ultimi mori di Spagna (quegli arabi costretti a convertirsi al cristianesimo dopo la prima espulsione del 1502) Cervantes pubblicò a Madrid la Seconda Parte del Don Chisciotte della Mancha. Nel capitolo 54, Sancho incontra un suo vecchio vicino, il moro Ricote, il quale esiliato dalla Spagna con i suoi consanguinei, è tornato nella sua terra natale travestito da pellegrino. «Fummo con giusta ragione puniti con la pena dell´esilio, lieve e blanda, secondo alcuni, ma per noi la più tremenda che ci si potesse infliggere. Dovunque stiamo, abbiamo nostalgia per la Spagna; poiché, infine, vi siamo nati ed è la nostra patria naturale; non c´è nessun paese dove ci si accolga come meriterebbe la nostra sventura; e in Berberia, e in tutte le parti dell´Africa dove speravamo d´esser ricevuti, accolti e trattati bene, proprio lì invece è dove più ci si tratta male e ci si offende».
Esilio e asilo: visioni entrambe, una di terra abbandonata e l´altra di terra promessa, che si fondono in quella Spagna che rifiuta Ricote e in quella di cui lui ha nostalgia, confondendosi in una cartografia illusoria e circolare. Per Ricote, quella Spagna da cui è stato esiliato è (a voler essere letterali) il Paradiso perduto, il luogo al quale vuole arrivare e il luogo che vorrebbe non aver mai abbandonato. Per lui, come per i suoi eredi, espulsione, deportazione, allontanamento, si fondono in un solo gesto di esilio che trasforma la terra di ognuno in terra estranea. Un altro Paradiso forse esisterà pure, al di là dei mari, ma Ricote e i suoi congeneri non lo hanno trovato. Ciò nonostante, continuano a sognare le mappe intime dei loro Eden perduti, che si chiamino al-Andalus, Palestina, Marocco, Albania, l´America Latina delle dittature militari, Iraq, Kurdistan, Cecenia, Darfur, Etiopia... Purtroppo, come è noto, la geografia del Paradiso è più vasta della Terra stessa.
Traduzione di Fiammetta Biancatelli (© 2007, Guillermo Schavelzon & Asocc., Literary Agency)


Repubblica 25.11.07
Un giardino di delizie cinto da mura di fuoco
di Agostino Paravicini Bagliani


Ma dove si trova il Paradiso terrestre? È una domanda antichissima e sempre attuale. Ancora recentemente, studiosi hanno tentato di scoprirlo nelle regioni più svariate, in Mesopotamia, in Arabia, in Armenia e persino in un´isola delle Seychelles… La credenza del Paradiso terrestre ha affascinato il cristianesimo fin dai primi secoli, come ricorda Alessandro Scafi ne Il Paradiso in terra. Mappe del giardino dell´Eden. La Genesi (2,8) raccontava che «il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l´uomo che aveva plasmato», e questo passo biblico fu presto interpretato in senso letterale. L´autorità di sant´Agostino fu decisiva, anche per quanto riguarda i quattro celebri fiumi che uscivano dall´Eden: Pison (sovente identificato con il Gange), Ghicon (con il Nilo), Tigri e Eufrate. «Sono veri fiumi e non espressioni figurate». Agostino aggiungeva: Adamo aveva un corpo materiale, aveva dunque vissuto in un Paradiso materiale.
Alla costruzione dell´immaginario paradisiaco contribuirono molto le antiche traduzioni dei testi biblici. Per definire il giardino, la versione ebraica usò le parole gan-be-Eden («un giardino in Eden»). Nella Vulgata, Girolamo aggiunse la qualifica «delizie». I traduttori della Settanta introdussero la parola Paradiso che significa in greco "giardino recintato".
La geografia del Paradiso si precisa intorno al Settimo secolo. Isidoro di Siviglia identifica l´oriente di cui parlava la Genesi con l´Asia: «Il Paradiso è un luogo che si trova nella parte orientale dell´Asia». E sottolinea il fatto che l´Eden sia un giardino delle «delizie»: vi abbondano «ogni genere di piante ed alberi da frutto, tra cui anche l´albero della vita». L´Eden è inoltre un luogo in cui «non fa né freddo né caldo, vi è sempre un clima temperato», ma è un giardino reso inaccessibile «da una spada ardente», è luogo «sbarrato da un muro di fuoco, che arriva quasi al cielo».
Situato in Asia da Isidoro, il Paradiso terrestre poteva ora figurare anche su una carta, e molte sono infatti le carte medievali, qui studiate pregevolmente da Alessandro Scafi, che lo presentano nelle sue varie forme, anche come isola o come castello accerchiato da mura. La sua inaccessibilità è rappresentata dall´altezza. Il Paradiso viene immaginato nel punto più orientale dell´Asia, ma verso l´alto «come situato in relazione al cielo» (Duns Scoto). Anche Dante pone il Paradiso sulla cima di una montagna eccezionalmente alta, la montagna del Purgatorio. Virgilio spiega a Dante che Gerusalemme e la montagna del Purgatorio sono esattamente agli antipodi. Nelle carte medievali, a partire dalla prima crociata (1096), Gerusalemme, luogo del sepolcro di Cristo, viene posta al centro del mondo. Ed ecco che il Paradiso terrestre situato in Asia diventa anticipazione dell´Incarnazione e del Paradiso celeste, tanto più che accanto al Paradiso terrestre figurano sovente Enoch e Elia, i due profeti che aspettano la fine del mondo.
Nella cartografia medievale vi è un secondo luogo recintato e inaccessibile, contrassegnato da una negatività che si contrappone all´Eden: è il luogo in cui secondo la leggenda Alessandro Magno racchiuse Gog e Magog, le temute tribù che a detta dell´Apocalisse verrebbero a distruggere il mondo il giorno del giudizio. Le carte medievali, sovrastate dal Paradiso terrestre, presentano dunque una visione cristiana della storia del mondo. Ma l´Eden è anche un Eldorado, regione sempre temperata e rigogliosa di vegetazioni e di frutti abbondanti, e che gode di un´aria sana e incontaminata.
All´uscita dal Medioevo quell´immaginario si sgretola. Fra Mauro, uno dei massimi geografi del Rinascimento, nel suo mappamondo (1459) relega il Paradiso terrestre in un medaglione posto al di fuori del mondo abitato. Un secolo dopo, un altro uomo di Chiesa, Agostino Seuco, prefetto della Biblioteca Vaticana, afferma che il Paradiso terrestre fu distrutto dal diluvio. Anche secondo Lutero scomparve per colpa del peccato. Per Calvino invece i quattro fiumi dell´Eden erano rimasti inalterati nonostante il diluvio per la benevolenza di Dio.
Questa nuova teoria religiosa tentava di risolvere l´equazione tra il dogma del diluvio e la scoperta del Nuovo Mondo. Ponendosi contro la tradizione, fu però dimenticata. Anzi proprio allora gli studiosi incominciarono a ricercare il luogo dove era vissuta la prima coppia umana proponendo i posti più svariati: il Terzo Cielo, Babilonia, l´Arabia, la Palestina, la Terra del Fuoco, e anche il Polo Artico. Il Paradiso terrestre perse così la sua originaria funzione, di rappresentare insieme il passato (la nostalgia per una purezza perduta), il presente (la vita dell´uomo come peregrinazione) e il futuro (il cammino verso il Paradiso celeste), oltre che una natura in perfetto equilibrio perché tutta orientata al volere di Dio. Tentando di scoprire dove si trovava su basi "scientifiche", la modernità situava il Paradiso terrestre soltanto nel passato, lasciando ai poeti (John Milton, 1667) il compito di piangere Il Paradiso perduto.

Corriere della Sera 25.11.07
Fronte pacifista. La senatrice di Rifondazione e la «exit strategy»
Menapace: annunciamo il ritiro ma per ora si resti
di Lorenzo Salvia


ROMA — «Subito il ritiro dall'Afghanistan. E credo che i nostri militari dovrebbero venir via da tutti quei Paesi dove il loro intervento non è stato richiesto dai governi e dalle popolazioni locali. L'unica missione per cui questa richiesta c'è stata è il Libano». Lidia Brisca Menapace (Rifondazione), presidente mancata della commissione Difesa del Senato, parla da pacifista convinta.
Non crede che un ritiro improvviso dall'Afghanistan possa lasciare campo libero alla violenza?
«Subito andrebbe presa la decisione politica. Poi le modalità del ritiro andrebbero concordate secondo un calendario che spetta ai tecnici. Non pretendo il domani tutti a casa».
Quella in Afghanistan è una missione Onu. I militari sono lì anche per ricostruire il Paese: il kamikaze ha colpito civili durante l'inaugurazione di un ponte. Non le sembrano buone ragioni per restare?
«Non più. La presenza dei militari, quando non sono le popolazioni e i governi locali a chiederla, viene sempre percepita come ostile. E la propaganda talebana ha gioco facile a far passare questa lettura».
Ma chi difenderà quei ponti, quelle scuole? Non crede che la situazione potrebbe peggiorare?
«È possibile. Ma bisogna considerare la situazione nella sua completezza: guerra e terrorismo non si elidono, mandare i militari in un contesto di guerra è come spegnere un incendio con la benzina. Le cose peggiorano invece di migliorare».
E quale sarebbe la soluzione?
«La diplomazia: organizzare una conferenza interna che metta allo stesso tavolo tutte le parti. Anche il Sud Africa era avvelenato da una guerra interminabile e invece così la soluzione è stata trovata».
E prima di arrivare alla conferenza che facciamo, lasciamo che proseguano le stragi?
«No. Dovremmo creare dei corpi civili Onu che, armati e non, potrebbero garantire la sicurezza. Ma solo se sono quei governi e quelle popolazioni a chiederlo».
Se voi non volete noi non interveniamo: ce ne laviamo le mani.
«Non si tratta di egoismo ma di prendere atto che la guerra contro il terrorismo non funziona. Dalla fine del Secondo conflitto mondiale in poi gli eserciti regolari non hanno mai sconfitto la guerriglia: Corea, Vietnam, Afghanistan con l'Urss...».
Diplomazia e corpi civili Onu: non è forse il libro dei sogni?
«No, è una soluzione realistica perché prende atto di un fallimento. Semmai è ambiziosa. Ma bisogna mirare alto per tirarci fuori dal fango in cui siamo finiti pensando che l'intervento militare riportasse la pace».

Corriere della Sera 25.11.07
Ritanna Armeni. «Il separatismo non ha più senso»
di G.Ca.


ROMA — Ritorna il femminismo duro anni '70, quello delle «streghe» che facevano tremare?
«Questa era una manifestazione modernissima. Io c'ero. Niente è più attuale della violenza sulle donne», spiega Ritanna Armeni che su La7 conduce «Otto e mezzo» con Giuliano Ferrara.
Ancora buoni certi slogan?
«Certo funzionava quello che ci ha portate in corteo. Ossia che la violenza contro le donne esiste, aumenta, ed è dentro la famiglia, tra le mura di casa».
Giusto cacciare i ministri Melandri e Turco e contestare la Pollastrini?
«Non mi è piaciuto per niente. La politicizzazione eccessiva del corteo, intendo. Ce l'avevano contro il pacchetto sicurezza, che contesto anch'io. Però non stavamo lì per quello».
Buttare fuori Prestigiacomo e Carfagna perché di destra?
«Grande errore. C'erano le rom con i bambini, poi loro con un passo un po' da indossatrici.
Bella una manifestazione dove siamo tutte insieme, ho pensato. E invece sono partite le contestazioni. Peccato. Per i collettivi femministi avere lì donne del centrodestra era una vittoria politica».
Gli uomini dovevano restarsene a casa?
«Il separatismo aveva senso 30 anni fa, quando le donne stavano prendendo coscienza di sé e il processo non andava contaminato. Oggi è bene che i maschi siano tra noi e di fronte alla proprie responsabilità. Non può che aiutarli a riflettere».

Corriere della Sera 25.11.07
Il primo scontro Franca Fossati: aggredite dal nostro servizio d'ordine. Erri De Luca: un attacco verso di loro? Per me non fu così
Quando Lc picchiò le ragazze che volevano sfilare sole
di Paolo Brogi


ROMA — Sei dicembre 1975, uno scontro durante un corteo nazionale di donne sull'aborto infiamma il dibattito della sinistra di allora, parlamentare e soprattutto non. Un nutrito gruppo del servizio d'ordine di Lotta continua cerca di far entrare lo striscione dell'organizzazione dentro il corteo. Con maniere spicce, con spintoni e tutto il resto. In via Cavour nasce un grosso tafferuglio, volano schiaffi. Nel parapiglia, insieme al servizio d'ordine del Pdup, pure presente, vengono coinvolte anche parecchie donne di Lotta continua, che più tardi invadono la riunione del comitato nazionale dell'organizzazione e lanciano pesanti accuse contro gli aggressori.
«Lotta continua di Cinecittà, una sezione, uomini e donne insieme, si era presentata al corteo femminista con lo striscione dell'organizzazione — ricorda Franca Fossati, tra le donne allora attaccate, ora giornalista a La 7 —. Volevano entrare nonostante che noi donne considerassimo una conquista, in quel momento, un corteo separato, senza uomini. Il conflitto fu prima di tutto politico, poi diventò materiale. Successe quando arrivò quel gruppo del servizio d'ordine. Bisogna anche dire che pochi giorni prima, durante una manifestazione era stato ucciso un ragazzo proprio del servizio d'ordine, Piero Bruno. Gli animi erano molto accesi in quel momento...».
Bruno, studente appena diciottenne, era morto per un colpo di pistola sparato da un carabiniere il 26 novembre durante un corteo per l'Angola. Il ragazzo, con un'altra decina di giovani, si era staccato dai manifestanti per raggiungere la vicina ambasciata dello Zaire presidiata. Furono lanciate due molotov, un carabiniere sparò, imitato da un agente di ps: per terra rimase Piero Bruno. Un anno dopo il giudice, compiangendo la giovane vita, archiviò l'inchiesta. Quel 6 dicembre la ferita era molto fresca.
«Eravamo in sede quando ci chiamarono per quello striscione — ricorda Erri De Luca, del servizio d'ordine di Lc —. Non lo volevano far entrare nella manifestazione.
Lì per lì ci sembrò un'enormità. Ci precipitammo in via Cavour, ricordo solo che trovammo uno sbarramento del Pdup. Sgomberammo quel servizio d'ordine laterale al corteo. Poi tutto questo è diventato un attacco alle femministe.
Forse fu anche questo, ma per me francamente non fu così...».
«Una di noi, di Torino, aveva preso un schiaffone — ricorda Luisa Guarneri, ora consulente alla Fao —. Lei, con le altre ragazze venute da Torino, fu molto decisa nel denunciare l'aggressione di fronte ai dirigenti di Lotta continua riuniti a San Lorenzo». Da quello scontro nacque una lacerazione, molto forte e profonda, tra donne e uomini che fino ad allora erano stati militanti insieme. A registrarla, subito dopo, fu un'assemblea, una riunione decisamente infuocata, convocata in un magazzino di periferia. Era iniziato un processo la cui conclusione, dentro Lotta continua, portò pochi mesi dopo, nell'autunno del 1976, allo scioglimento dell'organizzazione.

il manifesto 25.11.07
Intervista. La Sinistra europea e le donne. Parla la senatrice Maria Luisa Boccia del Prc
«Le violenze hanno una radice sessuata»


Praga. Tra le centomila e passa donne che sfilavano ieri pomeriggio a Roma contro le violenze maschili nei loro confronti mancava ieri un piccolo gruppo di femministe. Assenti giustificate perché impegnate al congresso della Sinistra europea in corso di svolgimento da due giorni a Praga. Dove hanno incontrato altre donne di sinistra provenienti da tutto il continente e dove hanno posto, nell'assemblea plenaria ma anche nei gruppi di lavoro, la questione che era al centro della manifestazione che in contemporanea sfilava per le strade della capitale italiana. Nella delegazione femminile di Rifondazione comunista c'era la senatrice Maria Luisa Boccia. L'abbiamo raggiunta nella capitale della Repubblica Ceca e le abbiamo rivolto qualche domanda.
Senatrice Boccia, ieri a Roma hanno sfilato migliaia di femministe. Una manifestazione che si è fatta sentire e ha scatenato anche polemiche. In Italia di recente non sono mancati i casi di cronaca che hanno visto finire vittime delle donne. Qual è la posizione della Sinistra europea su questo tema?
Abbiamo parlato della violenza sulle donne anche qui al congresso di Praga, e oggi (ieri, ndr), in concomitanza con la manifestazione di Roma, abbiamo preso la parola nell'assemblea generale. Ma ne abbiamo discusso anche in precedenza nei gruppi di lavoro, dove ci siamo confrontate con le altre donne provenienti dal resto d'Europa.
In che termini ne avete discusso?
Abbiamo parlato di tante cose. Ma noi italiane, a differenza delle altre donne europee, abbiamo voluto porre l'accento sulla radice sessuata di questo fenomeno.
Perché dice così? Le altre donne non erano d'accordo con la vostra analisi?
Generalmente nella Sinistra europea viene posta soprattutto la questione della mancanza di diritti di cui soffrono le donne, mentre invece noi pensiamo che all'origine della violenza ci sia in particolare una crisi del rapporto tra i sessi. E dunque in questo senso poniamo l'accento sulle violenze perpetrate dai maschi. Ma più in generale ci siamo trovate d'accordo un po' tutte sul fatto che in molte società europee ci sia una disgregazione sociale tale che sicuramente favorisce e accentua le violenze nei confronti delle donne.

il manifesto 25.11.07
A Praga «Cancellati velocemente se non ci uniamo e rinnoviamo» Bertinotti lascia la guida di Se a Bisky che indica l'esempio tedesco
E' l'Europa che avverte: «La sinistra può sparire»
di Matteo Bartocci


Inviato a Praga Oggi in Germania, domani in Italia e soprattutto in Europa. Fausto Bertinotti lascia come previsto la presidenza della Sinistra europea ma intervenendo dal palco al congresso di Praga non rinuncia a trarre un bilancio e a rilanciare l'esigenza di una svolta per tutta la sinistra continentale. «Dobbiamo costruire in ogni paese e in tutta Europa una sinistra ampia e plurale, in grado di vincere la sfida del socialismo del XXI secolo e contrastare un capitalismo totalizzante». Per l'ex segretario di Rifondazione la nascita della Linke in Germania (fusione tra socialisti, comunisti Pds e sindacati di base) e il miraggio della «sinistra arcobaleno» in Italia sono modelli da replicare ovunque. Perché rispondono alla crisi di una politica che rischia di ridurre ogni alternativa a semplice alternanza di governo.
Ripartire da Praga quarant'anni dopo i carrarmati sovietici, «che posero fine alla possibilità di autoriforma di quel sistema». Ripartire da Praga dopo «la sconfitta del '68 che ha annunciato il crollo del movimento operaio in Europa occidentale».
Una sinistra disunita rischia di scomparire. E i movimenti privi di risultati rischiano di implodere. «La sinistra erede di quelle esperienze rischia di essere cancellata in tempi brevi», ha avvisato Bertinotti, e senza una sinistra forte in tutta Europa anche i movimenti sociali, da Lisbona agli scioperi francesi al 20 ottobre a Roma, «rischiano di essere condannati a non costituirsi in alternativa». Da qui la sfida e la necessità del salto. Aggregarsi su orbite più grandi è l'unica salvezza.
L'intuizione della Sinistra europea però è giusta, precisa un Bertinotti in veste di fondatore più che rifondatore, perché sotto la carica di quella che Marx chiamava la «fanteria leggera» del capitalismo - i migranti di oggi, manodopera a basso costo su scala globale - anche le tesi laburiste classiche rischiano di soccombere.
Il nuovo presidente della Se (19 partiti membri e 10 osservatori, dal partito comunista francese alla britannica Respect) è il segretario della Linke tedesca Lothar Bisky. Un dirigente che ha voluto fortemente la nascita del suo partito, dando prova di una determinazione e un pragmatismo che sicuramente potranno aiutare un movimento europeo ancora mai decollato nonostante la lotta comune sulla Bolkestein e il no alla Costituzione europea vincente in Francia e Olanda. «Il tema della massa critica è la traccia anche di queste tesi congressuali - spiega Fabio Amato, responsabile esteri di Rifondazione e nuovo membro dell'esecutivo della Se - dobbiamo creare un'alternativa da sinistra alla grande coalizione socialisti-popolari che governa l'Europa da cinquant'anni». Più dubbioso invece Jacopo Venier, responsabile esteri del Pdci (qui in veste di osservatore), che respinge ogni ipotesi di partito unico puntando più sul modello del Forum di San Paolo latinoamericano, una confederazione aperta a tutte sinistre del continente da Cuba al Pt di Lula.
Addio anche per Gennaro Migliore. Il capogruppo di Rifondazione alla camera lascia la «sua» creatura con un bilancio positivo: «La creazione di uno spazio pubblico continentale è fondamentale per dare la giusta dimensione a una politica che o è europea o non è. Non si può essere post-qualcosa per tutta la vita. La Se è uno strumento utile per un processo di unificazione di tutta la sinistra, non possiamo più definirci guardando al passato». Qualche spunto per l'Italia c'è: da tre anni tutti gli organismi dirigenti osservano la parità di genere senza deroghe (la vice di Bisky sarà Graziella Mascia, del Prc). E un'organizzazione fatta sì da partiti diversi ma anche da nodi e reti orizzontali - quello ambientalista, del lavoro, Glbt o femminista - può dare prospettive interessanti al cantiere infinito della travagliata «Cosa rossa» all'italiana.

il manifesto 25.11.07
Italiani, fate presto la Cosa
di Matteo Bartocci


«Cari italiani, non lasciateci soli». Da segretario della Linke Lothar Bisky non può non auspicare un'unificazione della sinistra italiana. Ma come neopresidente della Sinistra europea non può sbilanciarsi sul percorso tormentato della «Cosa rossa» né tantomeno indicare a modello la sua esperienza, un'unificazione felice tra socialisti, comunisti e sindacati di base. «Di esempi ce ne sono tanti sia in Germania che in Italia - dice Bisky - ma una sinistra ampia e plurale non è solo un obiettivo realistico in tutta Europa: è ormai necessario».
Con lei si può dire che la presidenza della Sinistra europea passa dall'Ovest all'Est. C'è un significato politico?
Sicuramente. Io vengo dall'Est ma la Linke è ormai un partito nazionale occidentale a tutti gli effetti. La partecipazione dei cittadini dell'Europa orientale al processo di unificazione europea è fondamentale. Anche per il pluralismo culturale e sociale che da sempre è alla base del nostro continente. La scelta di fare il congresso a Praga non è casuale: abbiamo scelto il cuore della Mitteleuropa. Anche se Bertinotti ha disegnato un quadro molto critico delle nostre difficoltà sono sicuro che la Sinistra europea ha tutte le possibilità per crescere. Dobbiamo porci tre obiettivi realistici. Primo: difendere lo stato sociale europeo e contrastare il dumping sociale. Secondo: in Europa abbiamo bisogno di pace e non di riarmo. Per questo siamo contrari ai radar americani in Repubblica Ceca e Polonia. Terzo: serve più democrazia. La partecipazione dei cittadini alla scrittura della Costituzione europea è fondamentale. Il no di Francia e Olanda va accolto. I capi di governo non possono trattare l'Europa come una seconda casa dove fare quello che vogliono.
Bertinotti ha chiesto un salto di qualità: la creazione in ogni paese di una sinistra ampia e plurale. Lo giudica un obiettivo realistico?
Di più: è necessario. In Germania fior di politologi hanno detto che la nostra era un'illusione, che la Linke non sarebbe mai nata e che in ogni caso un'aggregazione a sinistra della Spd non sarebbe mai entrata al Bundestag. Sbagliavano. Ci siamo e ormai abbiamo una base stabile. Talvolta chiedere l'impossibile è realistico. Credo che un'opportunità del genere debba essere colta dalla sinistra di ogni paese.
Avrete un programma comune alle europee del 2009?
E' possibile e io lavorerò per questo. E' una richiesta però che deve partire da Roma, Berlino, Tallin, Varsavia, Parigi. Anche se ogni paese ha le sue specificità il gioco vale la candela. La politica ormai deve agire su un livello europeo.
Voi siete all'opposizione al Bundestag, Rifondazione invece è al governo. Non è una contraddizione tra di voi il fatto che votiate in maniera opposta sull'Afghanistan?
Assolutamente no. Con Rifondazione c'è un ottimo rapporto. Ne conosciamo le particolarità e cerchiamo il più possibile di fare iniziative comuni. Sappiamo che in Italia la minaccia Berlusconi è permanente, forse non avere Berlusconi è l'unico vantaggio che abbiamo in Germania rispetto a voi...
Come spiegherebbe la grande coalizione a un italiano?
E' un governo dove non si distingue più nulla, sulle cose fondamentali Spd e Cdu dicono le stesse cose. Al suo ultimo congresso l'Spd ha fatto un po' di propaganda elettorale verso la sinistra ma si comporta al governo come Angela Merkel. E' uno sbocco che nuoce a tutta la cultura politica.
Pensa sia possibile collaborare con il Partito del socialismo europeo?
Solo sulla base di contenuti. Il campo socialista è molto sfumato e in qualche caso abbiamo perfino posizioni coincidenti, come sul salario minimo. Con alcuni partiti, come il partito socialista olandese, siamo in contatto diretto. Certo, se penso ai socialisti francesi collaborare è molto difficile.
La sua Linke è un modello per la sinistra italiana?
No, di modelli ne avete abbastanza. Io le rigiro la domanda: cari italiani, non lasciateci soli.

Liberazione 25.11.07
Ripartire da Praga
di Stefano Bocconetti


Ripartire da Praga. Quarant'anni (o quasi) dopo i carri armati. La Sinistra europea si ritrova nella capitale della repubblica ceca per il suo secondo congresso. Se si volta indietro scopre di essere cresciuta: oggi i partiti aderenti sono diciannove e altri dieci hanno chiesto di farne parte. Compresi i giovani socialisti della Polonia. Quando nacque erano dodici. Se si guarda indietro, insomma, la Sinistra europea scopre di avere un bilancio in attivo. Diverso, molto diverso è il discorso se si guarda al domani. A quel che può accadere. Per dirla con Fausto Bertinotti - che col discorso di ieri ha lasciato a Lothar Bisky la presidenza dell'organizzazione, in un'assise che ha eletto Graziella Mascia alla vicepresidenza -, per dirla con Fausto Bertinotti, si diceva, il futuro di questa sinistra è tutt'altro che scontato. C'è il rischio, insomma, che questa Europa - di più: i vari paesi che compongono il vecchio continente - si ritrovi senza sinistra. Con la scomparsa della sinistra radicale.
L'intervento di Bertinotti arriva in un congresso che stava già provando ad affrontare questi argomenti. Magari ad un osservatore esterno poteva apparire come un'assemblea che non "marciava proprio alla stessa velocità". Per capire: c'è stata la relazione introduttiva di Graziella Mascia che ha ilustrato le tesi politiche, riflettendo sulla crisi della politica, sui rischi che corre l'Europa con lo spettro dell'antipolitica. Ma la neovicepresidente aveva anche avviato la riflessione sui limiti di questa stagione di iniziative, sul perché il tema del lavoro non era riuscito ad "invadere" l'agenda politica. Sul perché la nuova stagione dovrà essere segnata dalla battaglia contro la precarietà. Un'introduzione al quale era seguito un dibattito. Con molti spunti - l'avvio di una riflessione dei francesi sui limiti di una sinistra ultrafrazionata, per esempio, è sembrato molto significativo - ma anche, è inutile negarlo, molta routine.
Ed è in quest'assemblea che nel primo pomeriggio è intervenuto Bertinotti. E' partito proprio dalla drammatica repressione che spense la primavera di Praga, di cui sta per ricorrere il quarantennale. Lì, finì la speranza che i regimi dell'Est potessero riformarsi ma da lì partì anche la sconfitta del movimento operaio. Da lì partì "la rivoluzione capitalista", lì "la globalizzazione di cui oggi siamo in grado di vedere la natura profonda, ha iniziato il suo lavorare quotidiano per una regressione nella civiltà del lavoro''.
E si arriva all'oggi. Con un "capitalismo totalizzante, che dentro di sé vuole avere tutto: tutto ciò che riguarda la produzione ma anche ciò che riguarda la vita, la natura. Tutto. E davanti a tutto ciò ci vuole una sinistra all'altezza. E lo è? Vediamo. Per Bertinotti il vecchio continente è segnato, è percorso da mille conflitti. Ne cita alcuni: la battaglia dei lavoratori dei trasporti in Francia, il gigantesco corteo a Roma il 20 ottobre, le manifestazioni di Lisbona. Eppure - ecco la sua riflessione - non si sfugge alla sensazione che l'opposizione sociale diffusa in Europa non riesca ad incontrare la politica. Non riesca ad incontrare la sinistra.
E qui, per quattro volte, Bertinotti chiede che ci sia un "salto di qualità" nell'iniziativa. In più ci mette una metafora: "E' come si avessimo preso una lunghissima rincorsa e ora dobbiamo fare il salto". Il salto lo devono fare tutti. Lo stesso movimento che deve trovare la capacità di coordinarsi, di mettersi in relazione. E riscoprire una dimensione europea, come forse è avvenuto solo nella battaglia contro la direttiva Bolkestein. Ma il salto lo deve fare anche e soprattutto la sinistra. La sua analisi è che l'opposizione sociale, che pure è diffusa, non riesca ad incontrare la politica - in una fase di crisi della politica - perché è mancata la progettazione di un'alternativa. Di un'alternativa di sinistra.
Farla, disegnarla, costruirla è "un'opportunità", una chance. Ma non è detto che tutto vada in quella direzione. Anzi, le spinte vanno esattamente in direzione opposta, col vecchio continente governato, di fatto, da una grande coalizione, dove tutto si riduce ad una semplice alternanza. E dove comunque può continuare ad esercitare fascino la parola d'ordine del "voto utile". Come invertire questa rotta? Bertinotti cita spesso la Germania, la Die Linke, quando spiega che questo compito spetta ad una sinistra che deve essere "sempre più ampia, plurale", più unita. Una sinistra capace di ricostruire "egemonia" ( che era lo stesso termine utilizzato da Graziella Mascia). Intesa come proposta capace di parlare a tutti, capace di diventare senso comune.
Finisce così il passaggio di consegne alla guida della Sinistra europea. Con la platea di delegati in piedi ad applaudire mentre la presidente di turno, una spagnola, saluta il "compagno Bertinotti" e a nome, dell'assemblea gli regala due preziosi libri antichi: "La Gerusalemme liberata".
Finisce così, con Lothar Bisky, leader della Die Linke, che prende la parola subito dopo. Non usa le parole preoccupate di Bertinotti, ma sembra condividerne l'analisi. Perché insiste sulla necessità di costruire una sinistra che sia davvero plurale, unitaria, sempre più larga.. Intanto c'è l'elezione di Graziella Mascia a vicepresidente, c'è la nomina di Fabio Amato nell'esecutivo (che prende il posto di Gennaro Migliore, che lascia l'incarico "schiacciato" com'è dal lavoro parlamentare). C'è una discussione che dopo i due interventi clou è ripartita serrata nelle commissioni. I risultati? Si conosceranno oggi, al momento di votare i documenti politici.