La prova che Dio non esiste c’è: è il principio di conservazione della massa-energia.
di Eros Cococcetta
Mi riferisco a un principio molto noto in fisica, ma che, stranamente, è stato sempre annullato o, quantomeno, enormemente sottovalutato: “il principio di conservazione dell’energia e della materia”. Secondo questo vero e proprio fondamento della fisica, costantemente dimostrato da tutti gli esperimenti, nulla si crea e nulla e nulla si distrugge ma tutto si trasforma. In estrema sintesi il principio di conservazione si può così riassumere: nel 1772 Lavoisier dimostrò sperimentalmente che la materia non può essere creata o distrutta, ma solo trasformata. Nel 1850 Faraday scoprì, analogamente, che lo stesso principio valeva anche per l’energia. Tuttavia, fino ai primi anni del novecento, tutti pensavano che la materia e l’energia fossero due mondi assolutamente separati e senza alcun punto di contatto; questo fino al 1905, quando un giovane fisico tedesco, Albert Einstein, scoprì, con la celeberrima equazione E = mc², che l’energia e la massa (materia) sono i due aspetti che può assumere la realtà fisica (essendo, in effetti, la materia una forma di energia). Quindi, il principio in esame divenne quello della conservazione della massa-energia: ciò che resta sempre costante sul nostro piccolo pianeta e nell'universo è la somma di massa ed energia, e l’una si trasforma continuamente nell’altra e viceversa. A livello macroscopico il caso classico è l’energia solare (trasformazione della materia in energia); a livello subatomico (fisica quantistica) l’urto di fotoni genera continuamente coppia di particelle e antiparticelle, di diverso tipo in base all’energia dei fotoni (elettrone-positrone, quark-antiquark, ecc.), come pure l’urto di tali coppie genera fotoni. Non si tratta di speculazioni filosofiche, ma di fenomeni fisici reali provati sperimentalmente con un elevatissimo grado di accuratezza, come si verifica costantemente negli acceleratori di particelle.
Nulla si perde (nel senso della sparizione-annullamento) e nulla si crea, ma tutto si trasforma. Il principio di conservazione implica che nulla è stato creato e quindi che l’universo del tutto autosufficiente: un eterno divenire della realtà fisica (materia-energia) che non ha mai avuto origine e non avrà mai fine. Un Universo infinito composto da mondi innumerabili che mutano incessantemente (Giordano Bruno). Non è Dio che ha creato l’uomo, ma l’uomo che ha creato Dio (Ludwig Feuerbach), per dare una risposta a questioni che in passato non poteva comprendere e che, per tale motivo, sono state di esclusivo appannaggio della religione (che ha sempre ostacolato la scienza) e della filosofia, che, salvo pochi casi, è andata quasi sempre a braccetto con la religione. Ma ora non è più così, perché ormai le vere risposte ci vengono dalla scienza. L’importante è non negarle e, possibilmente, portarle all’attenzione della collettività.
Eros Cococcetta
P.S. Nell’articolo da voi pubblicato di Margherita Hack: “Ormai siamo in un regno Vaticano” (19 giugno 2007), la nostra grande e stimata scienziata ha asserito che: “” Non è dimostrabile né l’esistenza né la non-esistenza di Dio””. Una posizione agnostica che ho trovato francamente sorprendente.
Mi piacerebbe conoscere un suo commento sul principio di conservazione e, ovviamente, da parte di chiunque voglia dire qualcosa in merito.
l’Unità 27.11.07
Veltroni: senza un accordo si ritorni al protocollo
Il Pd al Senato: con queste modifiche quel testo qui non passa. Treu: la blindatura non serve
di Andrea Carugati
ALLA FINE la Camera potrebbe anche votare, senza fiducia, un testo leggermente modificato rispetto a quello del 23 luglio ma benedetto da sindacati e Confindustria. L’ipotesi, un po’ più complicata rispetto al “semplice” voto con fiducia sul testo originario, potrebbe essere l’uovo di colombo per non tradire lo spirito della concertazione e, allo stesso tempo, per non mortificare il lavoro svolto in Commissione a Montecitorio. Oltre ad accontentare le due anime più riottose della maggioranza, Rifondazione e diniani. Una serie di contatti, portati avanti ieri soprattutto dal sottosegretario Enrico Letta, mirano a questo: ottenere il via libera delle parti sociali su un testo che, sui contratti a termine, contenga una modifica sia rispetto a quello di luglio sia a quello votato in Commissione Lavoro. I diniani continuano a mantenere forti perplessità su qualsiasi tipo di modifica: ma, se non ci dovessero essere aumenti di spesa, potrebbero dare l’ok. Il diniano Natale D’Amico, tuttavia, incontrando ieri Letta ha fatto presente che, sui lavori usuranti, una modifica al numero di notti potrebbe costare di più. E non solo. Anche sui contratti a termine ha invitato ad evitare irrigidimenti. «E comunque-spiega- se si voterà un nuovo testo prima lo vogliamo leggere bene...».
Rifondazione, dal canto suo, con il capogruppo Gennaro Migliore chiede di non mettere la fiducia: «Finora l’abbiamo usata per sconfiggere l'ostruzionismo dell'opposizione. Ma non mi pare che ci sia, in questo caso. Quindi, non accettiamo di essere in qualche modo obbligati a ritornare su un testo e a distruggere il lavoro parlamentare». Di certo c’è che ieri sera le quotazioni della fiducia erano in calo. E anche Tiziano Treu, autorevole esponente del Pd ed esperto della materia, ha dei dubbi: «Non è detto che ci sarà».. E tuttavia l’ipotesi di un voto di fiducia resta ancora la più probabile.
Dal Pd arriva il monito del segretario Walter Veltroni: «Se non ci sono modifiche condivise la fiducia dovrebbe essere posta al protocollo nella sua versione originaria», avverte. E il suo gruppo al Senato esprime un «auspicio» affinché sia quello di luglio il testo su cui far esprimere le Camere. Concetto questo ribadito da Anna Finocchiaro ieri in un faccia a faccia con Lamberto Dini, che fonti vicine all’ex premier definiscono «positivo». «Il testo originario avrebbe certamente il nostro voto», assicura D’Amico. Mentre il Pd di palazzo Madama, pur nel rispetto del lavoro di Montecitorio, sottolinea che un testo diverso potrebbe avere delle difficoltà a passare in quell’aula.
Il resto sono «simboli», come li ha definiti ieri in aula il ministro Damiano. Tradotto: bandierine sventolate per sottolineare la propria identità. Così il Dini che dalle colonne del Messaggero minaccia la crisi: «Se il governo cambia il testo non avrà il nostro voto». E Russo Spena, Prc: «Se si torna al testo iniziale l’accordo non si farà». E su Dini: «Le sue sono impuntature infantili...». Insolitamente d’accordo tra loro, sulla linea Dini, anche dipietristi e Udeur, che pure ha ottenuto modifiche. Il Prc gliele rinfaccia. «Ma come, hanno avuto l’aumento di risorse per gli artigiani...», dice Gennaro Migliore. E tutti, naturalmente, invocano la parola definitiva di Prodi.
l’Unità 27.11.07
Francia, riesplode la rabbia delle banlieues
30 agenti feriti in un’altra notte di rivolta a Villiers-le-Bell
dopo la morte di due ragazzi in un incidente con la polizia
di Gianni Marsilli
SECONDA NOTTE DI VIOLENZE a Villiers-le-bel, nella banlieue parigina, dove domenica sera sono morti due ragazzi finiti con la moto contro la vettura di una pattuglia della polizia, mentre la protesta si espande e coinvolge altri cinque Comuni vicini. Trenta agenti (che vanno ad aggiungersi agli 8 di domenica) sono rimasti feriti dai sassi lanciati dai manifestanti e 25 auto sono state date alle fiamme.
E, a vederla ora, la Renault Megane bianca e blu della polizia sembra reduce da un violentissimo frontale contro un muro. Il muso sfasciato fino al volante, il motore in pezzi, il parabrezza sfondato. Dice invece il prefetto Paul-Henry Trollé che la macchina, nel tardo pomeriggio di domenica, avanzava a 40/50 chilometri l’ora, non di più, senza sirene né lampeggianti, e che all’improvviso da una laterale le è piombata addosso quella piccola moto da cross, tanto piccola da poter girare senza targa: «Sono arrivati velocissimi, erano senza casco». Il primo problema è che i due centauri - Mouchin, 15 anni, e Larami, 16 - sono morti sul colpo, o poco dopo. Il secondo problema è che i due poliziotti di pattuglia non li hanno soccorsi, rintronati e impauriti dalla folla che si faceva minacciosa. Fatto sta che sono stati evacuati con una specie di operazione di commando, quando ancora i due cadaveri giacevano sull’asfalto. Il terzo problema è che i giovani di Villiers-le-Bel, banlieue sita a venti chilometri a nord di Parigi, non ci hanno visto più. Hanno cominciato con il commissario arrivato per primo sul posto: una decina di costole rotte, il naso spaccato e la nuca aperta come una noce di cocco da un colpo di sbarra di ferro. Dopodiché gli hanno incendiato la macchina. Il commissario se la caverà, ma ci vorranno mesi. Poi hanno messo a ferro e fuoco tutto il circondario, fino all’alba, al grido di «la verità o vi ammazziamo». Ieri mattina si contavano 25 feriti, tra i quali otto poliziotti, un commissariato dato alle fiamme, un concessionario di automobili andato in fumo come un cerino e altre decine di incendi che hanno devastato negozi, commerci, macchine e mobilio urbano. Ieri pomeriggio un reporter televisivo di France 3 è stato aggredito. In serata gli scontri stavano ricominciando: automobili in fiamme, bombe carta e lacrimogeni sparati dagli agenti.
Nella Francia di Sarkozy la banlieue è come la brace sotto la cenere: un colpo di vento, e le fiamme si ravvivano. Tornano i passamontagna, i vandalismi, la guerriglia urbana.
Al solito, le versioni divergono. La polizia giura che non vi è stato inseguimento né investimento, tantomeno premeditato. Sarebbero stati i due ragazzi ad investire la Megane: «Due testimoni - dice il prefetto della Val d’Oise - affermano di averli visti arrivare come un bolide». I primi risultati delle indagini dell’Ispettorato della polizia nazionale confermano questa versione: «La responsabilità dei nostri funzionari non sembra poter essere messa in causa». Ma nelle strade di Villiers-le-Bel non ci crede nessuno. Peggio, sono i minuti seguiti all’incidente che hanno fatto scandalo, a prescindere dalla sua dinamica. Un collega di Le Monde, sul posto due ore dopo, ha potuto visionare un video girato da un abitante di quella strada. Vi si vedono i poliziotti accolti a male parole e una piccola folla che si fa minacciosa, mentre un pompiere cerca di rianimare i due ragazzi con un massaggio cardiaco. Il giornalista testimonia che due ore dopo l’incidente nessuno aveva ancora fatto i rilievi del caso, e che macchina e motorino erano stati toccati e spostati, con buona pace della ricostruzione di traiettorie e velocità. Più grave, un altro testimone sostiene che i due poliziotti che erano nella Megane non hanno portato assistenza ai ragazzi, che sono stati rapidamente prelevati da un’altra pattuglia e messi al sicuro, mentre quegli altri agonizzavano. Per questo è stata aperta un’indagine per omissione di soccorso. Le famiglie dei ragazzi morti erano stravolte di dolore e rabbia: «Nessuno ci ha avvertito di quanto era successo, né la polizia né il Comune». Le analogie con quanto accadde due anni fa sono impressionanti. Il 27 ottobre del 2005 morivano Zyed Benna e Bouna Traoré, poco più che bambini, folgorati da una linea ad alta tensione mentre cercavano di sfuggire ai poliziotti che li inseguivano. Ne seguì un mese di incendi e devastazioni in tutte le periferie francesi. Fu per miracolo, e per il sangue freddo di chi dirigeva le operazioni di polizia, che non vi furono altre vittime. Per questo le forze dell’ordine da domenica sera sono in stato di massima all’erta. Temono l’effetto contagio, la macchia d’olio. Il bersaglio politico è sempre lì anzi più in alto. Il ministro degli Interni del 2005 è oggi presidente della Repubblica. Ieri da Pechino, dov’è in visita ufficiale, Nicolas Sarkozy ha rivolto un invito «alla pacificazione». È improbabile che venga ascoltato. Non lo amano, nelle banlieues. Non amano più nessuno, in quei ghetti sempre più etnici ed esplosivi. Nel maggio scorso per due domeniche avevano amato Ségolène Royal, andando in massa alle urne e votando per lei in misura del 70/80%. Ma poi nulla è cambiato, la stessa Ségolène non ha coltivato quel capitale politico di frontiera, tanto evanescente quanto prezioso. Tantomeno l’ha fatto il suo partito. François Hollande, che ne è ancora il segretario, ieri non ha saputo far altro che parlare di «una crisi sociale profonda». Che ieri sera, per l’ennesima volta, era affidata ai gipponi e ai giubbotti antiproiettile di migliaia di gendarmi.
l’Unità 27.11.07
Il nome esatto è «femminicidio»
di Franca Bimbi
Le donne sono capaci di altrettante efferatezze degli uomini: dalle torture sul nemico prigioniero alla violenza sui loro stessi figli perpetrata anche per denaro. Tuttavia ritengo sia giusto usare il termine «femminicidio». Partiamo da lontano : paesi ricchi e poveri, salvo poche eccezioni, hanno in comune il monopolio maschile dell’uso legittimo della forza. Ovvero, in Occidente la lotta per le pari opportunità nella presenza delle donne nei corpi di polizia e nell’esercito è cominciata da pochissimo e, per ora, non ha dimostrato che sia possibile umanizzare il rapporto con il nemico (le foto dall’Iraq sono state eloquenti), ma neppure che sia possibile introdurre metodologie non violente nell’addestramento dei corpi di polizia. Dunque siamo lontani dalla civilizzazione dell’aggressività umana e, per ora, restiamo all’evidenza più semplice: gli uomini sono, in percentuali assolutamente preponderanti, responsabili di atti di violenza su persone di ogni sesso ed età.
La dicotomia culturale tra i due generi, costruita per gli uomini sulla valorizzazione di alcune forme dell’aggressività (il guerriero come ideale della virilità) e per le donne come interiorizzazione e colpevolizzazione delle pulsioni aggressive (l’ideale della madre che muore per il figlio e sopporta ogni «esuberanza» del marito), danneggia ambedue, perché ha contribuito a costruire una relazione con germi socialmente patologici, a partire dal primo legame, quello familiare. Senza fare sconti alle responsabilità individuali, la costruzione delle relazioni uomo-donna attorno alle asimmetrie nell’uso dell’aggressività svela anche la violenza delle donne sui loro figli, e la violenza sui bambini in generale, come violenza di genere, cioè inerente a quella relazione primaria in cui il maschile e femminile si fanno la guerra anche attraverso i loro cuccioli. Oggi siamo colpiti da due fenomenologie: la tratta delle donne e quella dei minori; la violenza sulle compagne di scuola, moltiplicata dall’uso di cellulari, blog, internet. La tratta non è un fenomeno recente: rimando alle ricerche dei sociologi di Chicago degli anni ’20-’30 in cui i trafficanti sono per antonomasia gli italiani.
Da sempre gli uomini poveri, ma ricchi della proprietà delle «loro» donne e dei loro figli, ne hanno fatto mercato, offrendoli ad uomini più ricchi che, per ragioni culturali, non potevano disporre allo stesso modo delle loro donne e dei loro figli.
Dunque, oggi i modelli patriarcali di possesso familiare, e le culture della parità e della tutela del miglior interesse del bambino, si incontrano nelle metropoli globalizzate, che si estendono anche alle periferie delle piccole e medie città italiane. Lo scambio tra sesso e denaro avviene con la mediazione di multinazionali del crimine, in cui prevale chi, volta a volta, rappresenta il gruppo dei venditori. Al di sotto dello scambio c’è anche la doppia ricerca del rafforzamento di un potere maschile a rischio: nell’emigrazione le «loro» donne si emancipano, ed i «nostri uomini» partecipano con noi del rifiuto esplicito di modelli di virilità che, purtuttavia, continuano segretamente a desiderare.
Eppure, come madri anche «noi» sopportiamo ancora piuttosto bene le «trasgressioni» dei nostri figli: c’è un punto di giunzione tra i giovani clienti dei «puttan tour» ed i giovanissimi della violenza ripresa con i cellulari.
In particolare, la trasposizione dei giochi erotici tra adolescenti in violenza di gruppo non è un fenomeno della modernità. È probabile che il cellulare mostri agli adulti di oggi ciò che gli adulti di ieri non potevano o non volevano vedere, come è probabile che l’autonomia delle giovanissime sia esposta a forme di violenza ieri sconosciute, tuttavia ben note alle loro madri che, nelle inchieste, ammettono solo per telefono i costi della loro ricerca di felicità familiare e amorosa. Nell’ambito delle violenze tra giovanissimi, è emersa di recente l’omofobia: anche qui i modelli di genere contano moltissimo e, di nuovo, siamo di fronte ad un’emersione di vecchie storie.
Tuttavia la violenza più diffusa, per le donne come per i bambini, è quella domestica e sessuale, che si colloca nella famiglia e nelle relazioni primarie, che proviene da padri, mariti, compagni, genitori acquisiti, parenti, amici e vicini: è la violenza dell’intimità e non dell’estraneità, è la violenza di chi pensi nell’amore e non quella di chi credi un nemico. Per questo è importante dare all’insieme delle più diverse fenomenologie un nome che le identifichi alla radice. Non è giusto chiamarla «violenza maschile»: anche se i violenti sono per il 90% uomini, non si tratta di propensioni naturali, genetiche e neppure di responsabilità collettive.
Il suo nome è violenza di genere e sessuale. Si tratti di donne, di bambini, di omosessuali, le forme della violenza vengono agite sulle vittime all’interno delle più ovvie e spesso accettate costruzioni della mascolinità, e, poiché in esse è in gioco la vulnerabilità più intima delle persone, trattate in ogni caso... come donne, sembra giusto affrontarle assieme sul piano politico, e cercare, sul piano scientifico, di studiarne accuratamente le differenti fattispecie, per dipanare meglio le relazioni tra gli umani e gli intrecci tra vecchi e nuovi modelli.
Dunque la giornata del 25 novembre era dedicata alla violenza di genere e sessuale. Tuttavia poiché le vittime sono per la grandissima maggioranza donne e bambine, è giusto parlare di «femminicidio», riconoscendo che le donne vengono battute, violate, uccise soprattutto in quanto donne, in relazione alla loro diversità sessuale. Se possiamo capire, rispetto all’Olocausto, la differenza tra l’essere perseguitati ed uccisi in quanto ebrei oppure come una qualsiasi persona in una «banale» rissa o resa dei conti, possiamo anche accettare il termine «femminicidio», forse sconosciuto al vocabolario ma purtroppo ancora attuale, dove sono negati la libertà e l’orgoglio della differenza, dove la differenza è pensata come «natura» da ridurre sotto un dominio o cancellare, lì inizia l’idea del genocidio.
l’Unità Roma 27.11.07
Il cinema di Herzog e la musica dei Popol Vuh
Concerto-spettacolo stasera nell’Aula Magna della Sapienza per la stagione della Istituzione Universitaria dei Concerti
di Giovanni Fratello
L’intensa collaborazione tra il gruppo Popol Vuh e in particolare tra il suo fondatore Florian Fricke e il regista Werner Herzog è alla base di "Tetralogia del sogno e del dolore", concerto-spettacolo tra cinema e musica che si tiene stasera nell’Aula Magna della Sapienza per la stagione della Istituzione Universitaria dei Concerti.
Protagonisti ne saranno per la parte musicale l’Ars Ludi e l’ensemble vocale Ready Made, mentre la parte spettacolare, curata da Arteforum, comprende la proiezione di estratti dei film di Herzog: "Aguirre furore di Dio" (1972), "Nosferatu (1978)" "Fitzcarraldo" (1982) e "Cobra Verde (1987). Pellicole, in particolare "Aguirre" e "Fitzcarraldo", che possono annoverarsi tra le migliori prove cinematografiche del regista e attore tedesco, e che appartengono al novero dei film in cui nella colonna sonora compare la musica degli stessi Popol Vuh e di Fricke -fra l’altro tra gli interpreti de "L’enigma di Kaspar Hauser" sempre di Herzog. Tuttavia si tratta degli unici apporti dati al cinema da parte dei Popol Vuh: questo gruppo tedesco, nato nel 1970 e che prende nome da un libro che raccoglie i miti e le leggende di vari gruppi etnici che abitarono la regione Quiché, uno degli antichi regni maya del Guatemala, si è segnalato all’attenzione fin dai suoi primi dischi per l’originale miscela, con venature psichedeliche, fra musica elettronica e acustica, ponendosi in quella corrente del rock che viene definita "progressive". Il concerto di stasera nasce da un progetto di Gianluca Ruggeri che ha riscritto e arrangiato i brani originali in una nuova versione per sei strumentisti e dodici voci, avvalendosi della supervisione musicale di Johannes Fricke, il figlio di Florian Fricke scomparso nel 2001. L’interesse per i Popol Vuh e per altri gruppi tedeschi nati negli anni Settanta, come i Tangerine Dream o gli Amon Düül, sta rifiorendo anche grazie alla ondata della nuova musica elettronica iniziata una decina di anni or sono, caratterizzata tanto da influenze pop quanto della musica cosiddetta colta e di cui quei gruppi furono per molti aspetti i capostipiti.
Info. www.concertiiuc.it
Tel. 06.3610051-52
<span style="font-weight: bold; color: rgb(204, 0, 0);">Repubblica 27.11.07
L’Islam dell’uomo nuovo e gli allievi del Corano
di Renzo Guolo
"Taleb" è il discepolo. Interpreta la shari´a secondo un codice a dir poco rigido. E le donne, attraverso la seduzione, sarebbero causa di sedizione
Storia dell´etnia pashtun e ruolo delle madrasse, dove i taliban si sono formati
Taliban. Da dove viene questo strano movimento di strani "studenti coranici" che prima mette fine alla guerra civile che segue il vittorioso jihad contro i sovietici; poi instaura un emirato islamico sacrificato all´alleanza con Bin Laden; infine, dopo la sconfitta, si riorganizza e conduce un nuovo jihad contro l´altra superpotenza globale che ha invaso il "paese dei monti"?
Per comprenderlo occorre partire innanzitutto dal nome: taleb è il discepolo, o lo studente delle scuole religiose. I taliban si sono, infatti, formati nelle madrasse deobandi che, negli anni Ottanta, ospitano i figli dei profughi afgani di etnia pashtun rifugiatisi in Pakistan. Madrasse, situate in larga parte tra il Baluchistan e le province nord occidentali di frontiera; affollatissime, non solo perché interpretano la shari´a, rendendola comprensibile ai loro poco sofisticati allievi, secondo il rigido codice consuetudinario pasthunwali; ma anche perché offrono vitto, alloggio e un´istruzione minima a ragazzi di basso ceto sociale e sradicati dal proprio paese. Grazie anche ai finanziamenti sauditi che, sfruttando il ruolo di alleati dei mujaheddin che lottano contro "l´ateismo empio" dei governi filosovietici afgani, esportano in Asia centrale la loro rigida concezione dell´islam wahhabita.
È in nome della solidarietà, allo stesso tempo pashtun e islamista, che le scuole deobandi spingeranno i loro studenti a raggiungere le fila di un gruppo di reduci delusi dall´incapacità dei mujaheddin afgani di mettere fine agli scontri etnici e politici seguiti alla caduta del regime filo sovietico. Li guida il mullah Omar, anima di una piccola madrassa di Singesar, che ha partecipato al jihad contro i sovietici, rimanendo più volte ferito. Il mullah sale alle cronache per aver mobilitato i suoi allievi contro i mujaheddin che violano la legge islamica. L´autorevolezza acquisita dalla milizia di Omar nel frenare gli eccessi di quanti terrorizzano la popolazione con le loro incontrollate violenze è tale che molti gli chiedono di porre fine alla guerra civile. Per farlo Omar dovrà battere le altre fazioni: quella pashtun di Hekmatyar, il leader islamsita dell´Hezb-e-islami ; quelle dei tagiki e degli uzbeki guidati da Massud e Dostum.
Nel novembre 1994 i taliban conquistano Kandahar, che diventa la capitale spirituale del movimento. Kabul è presa nel settembre 1996. Una conquista marcata da un immediato biglietto da visita. Najbullah, presidente filo sovietico tra il 1986 e il 1992, ospite-prigioniero di una sede Onu, viene rapito, evirato e poi trascinato attorno al palazzo presidenziale da un auto: infine è ucciso a colpi d´arma da fuoco. Il cadavere viene impiccato davanti al palazzo. Tra le mani i taliban gli infilano una sigaretta e, nelle tasche del denaro, simboli di "vizio e corruzione".
Nell´aprile 1996 il mullah Omar legittima il suo ruolo di leader religioso indossando il Mantello del Profeta, reliquia che si vuole appartenga a Muhammad. Proclamandosi "Comandante dei credenti", rivendica il ruolo di guida di tutti i musulmani afgani. Dopo quel gesto, che ne fa una figura semi trascendente, Omar si vedrà sempre meno in pubblico. Affida la sua parola a Radio Shariat. Ormai solo una voce, si circonda di mistero; chiuso nel cerchio caldo della comunità kandaharita, sfugge a ogni possibilità di vedere sminuito un carisma costruito più sul mito che su reali doti.
"L´esilio volontario" del leader favorisce la polverizzazione del potere, esercitato di fatto dalla Shura di Kandahar ma anche dai consigli locali della Shura diventati sempre più autonomi. Contrariamente all´esperienza dell´altro stato islamico contemporaneo, lo "stato totale" iraniano, quello dei taliban si rivela uno "stato minimo". L´amministrazione pubblica non esiste; difesa esterna, amministrazione della giustizia, mantenimento dell´ordine pubblico per mezzo della "polizia religiosa", sono i soli compiti del nuovo potere. La popolazione è lasciata a sé stessa.
Il regime applica la shari´a in maniera rigidissima. Per costruire "l´uomo nuovo" islamico sono proibiti non solo gli alcolici o l´interesse sui prestiti; ma anche le immagini, la musica; tagliarsi la barba; persino gli aquiloni. Adulterio e omosessualità sono sanzionati con la pena capitale. Ma è soprattutto sulle donne che i taliban concentrano la loro attenzione.
Quella dei taliban è, infatti, un´ideologia di un "ordine religioso militante", forgiatosi nella società maschile della madrassa. La maggior parte di loro proviene dalla province sud del paese, le più tradizionaliste e meno istruite. La miscela formata dal tradizionalismo tribale pashtun e islamismo deobandi, dà forma a un´immagine maschile della donna come potenziale minaccia all´ordine sociale. Per i taliban le donne causano la sedizione attraverso la seduzione. Una concezione che fa di loro il primo bersaglio della morale del regime. Le donne non potranno più uscire di casa, se non accompagnate da un maschio maharam, "lecito religiosamente": spesso un membro della famiglia. E comunque dovranno indossare il burqa, provvedimento, peraltro, già disposto dai mujaheddin nel 1994. Sarà vietato loro truccarsi o portare tacchi alti, poiché il loro rumore "turba gli uomini e li distrae dal pensiero di Dio". Le donne saranno poi costrette ad abbandonare il lavoro e l´istruzione.
Rinchiuse dietro alla loro grata velata, le donne sono le principali vittime della "grande prigione" costruita dai taliban. La "polizia religiosa" punisce quante trasgrediscono gli ordini. L´afflizione del corpo femminile, mediante cui si ricompone l´unità del corpo sociale maschile, raggiunge il culmine ogni venerdì nello stadio di Kabul. Lì si eseguono pubblicamente la lapidazione delle adultere, le flagellazioni delle "fornicatrici" o la fustigazione delle "mal velate".
Non sarà, comunque, l´ossessione della "purezza religiosa" a segnare la fine dell´Emirato. Bensì l´alleanza tra i taliban e Al Qaeda e gli avvenimenti internazionali che ne sono seguiti. La "fatale amicizia del mullah Omar con Bin Laden, proietterà l´autarchico "stato islamico" dei pashtun nella fucina incandescente della "guerra al terrore". In un brutale corto circuito tra globale e locale, la sofisticata jihad dei qaedisti sulla skyline di Manhattan si ritorce contro la tribale "comunità dei puri" nei piccoli villaggi ai piedi dell´Hindu Kush. Una nemesi che gli "studenti coranici" non hanno mai accettato. Anche se alcuni tra loro pensano che il destino dell´islamismo pashtun si giochi lontano dal terreno di scontro imposto dagli jihadisti "arabi" e dalle ambizioni califfali di Osama e i suoi seguaci.
Repubblica 27.11.07
L’assessore Lastri lancia l’allarme. E denuncia al giurì lo spot "irrispettoso" di un noto formaggio
Le violenze contro le donne raddoppiate in due anni
di Massimo Vanni
Violenza sulle donne, l´assessore alle pari opportunità Daniela Lastri tira le somme in occasione della Giornata internazionale contro gli abusi (era domenica) e a Firenze scatta l´allarme. Crescono fin quasi a raddoppiare negli ultimi due anni i casi di violenza su donne. Quello che non cresce invece, secondo l´assessore, è la cultura della parità: «Certi stereotipi sono duri a morire», dice Lastri puntando il dito contro lo spot Tv di un noto formaggio che parla di una donna come «bella topolona»: uno spot «irrispettoso» che l´assessore intende segnalare al Giurì della pubblicità.
Una pubblicità «fastidiosa», la definisce l´assessore Lastri: «Sicuramente irrispettosa dell´immagine femminile». Anzi, aggiunge la responsabile comunale delle pari opportunità e dell´istruzione: «Io non mangio il gorgonzola e se c´è chi vorrà fare altrettanto ne sarò contenta». Nessun boicottaggio, tiene a precisare l´assessore di Palazzo Vecchio intenzionato comunque a ricorrere al Giurì: «Non intendo prendermela con i produttori di gorgonzola, rilevo solo che quella pubblicità non è un messaggio edificante nei confronti delle donne: utilizza un linguaggio volgare ed è un pessimo esempio sotto il profilo educativo, è un messaggio negativo».
D´altra parte, aggiunge l´assessore comunale alle pari opportunità e all´istruzione, «certi stereotipi sono duri a morire e vanno combattuti sul terreno culturale fin dalla scuola». La guerra alla violenza sulle donne appare però oggi una strada sempre più in salita: negli ultimi due anni crescono le donne che chiedono aiuto. Secondo i dati della prefettura, nei primi sei mesi di quest´anno i casi di violenza raccolti dalle forze dell´ordine e dai servizi sanitari sono stati 57. Contro i 42 del 2006 e i 37 del 2005.
Un incremento tanto consistente quanto preoccupante: «Stiamo parlando dei casi venuti in emersione, delle donne che hanno trovato il coraggio di uscire allo scoperto: non sappiamo quanti siano in realtà - sostiene Lastri - ma i dati che abbiamo ci dicono che il fenomeno è in crescita, che c´è una recrudescenza di violenza nei confronti delle donne». I dati provenienti dal centro antiviolenza Artemisia, la Onlus convenzionata con Palazzo Vecchio dal 1999, mostrano una crescita più lenta, ma comunque una crescita.
Se nel 2006 le donne «prese in carico» da Artemisia per diversi motivi sono state 225, nei primi 9 mesi del 2007 il conto è già arrivato a 207. Nella gran parte dei casi si tratta di violenza fisica e psicologica (136), ma anche solo psicologica (36), economica (32), sessuale (32), persecuzioni (18). Le fasce d´età più interessate, sempre nello stesso periodo del 2007, riguardano le donne in età da 30 ai 39 anni (61 casi), e dai 40 ai 49 anni (46). Per lo più donne italiane (161) ma anche romene (13), peruviane (8), albanesi (7) e dello Srilanka (4).
Grazie ad Artemisia si garantiscono risposte a chi chiede aiuto, colloqui di accoglienza, percorsi terapeutici, consulenze psicologiche e legali, fino al supporto per il reinserimento socio-lavorativo. Ma Firenze va incontro anche alle donne che, dopo aver denunciato il proprio violentatore, hanno bisogno di protezione. E´ la «Casa rifugio», un´accoglienza temporanea per un periodo di circa sei mesi per donne sole o con bambini: appartamenti con indirizzo segreto, che al momento garantiscono tetto e protezione a 10 donne che vivono in situazione di grave pericolo.
Per tutto questo però servono risorse, ricorda l´assessore alle pari opportunità: «Chiederemo alla Regione disposizioni più precise per sostenere gli interventi in corso nel piano integrato sanitario: gli interventi sulla violenza contro le donne devono essere inseriti fra i livelli essenziali di assistenza socio-sanitaria». Una richiesta che già oggi potrebbe essere discussa: alle 15 in Palazzo Bastogi si riunisce il tavolo regionale contro la violenza verso le donne coordinato dall´assessore toscano Susanna Cenni, a cui partecipano anche Alessia Petraglia (Sd) e Anna Maria Celesti (Fi), prime firmatarie della legge appena approvata all´unanimità dal consiglio regionale. Il consiglio comunale ha invece approvato una mozione sottoscritta da tutte le consigliere che chiede di migliorare l´illuminazione per rendere più sicura la città.
Repubblica Milano 27.11.07
Due ragazzi ogni giorno provano ad uccidersi
di Laura Asnaghi
Il male di vivere a Milano spinge, ogni giorno, due giovani a tentare il suicido. In un anno i casi sono 750. Tanti, troppi. Numeri da allarme rosso. Le ragazze cercano di farla finita ingoiando interi tubetti di pillole o tagliandosi le vene. I maschi preferiscono gesti più plateali, come lanciarsi dalla finestra. Milano, città ricca, locomotiva dell´economia italiana, ha un primato tristemente negativo. È quello dei ragazzi giovani che, tra i 14 e i 24 anni (ma non mancano quelli che hanno solo 11 anni), progettano e poi mettono in atto il suicidio. 750 ci provano e, per fortuna, vengono salvati, ma 15 si uccidono provocando enormi tragedie in famiglia.
Per far fronte a questa emergenza, Milano si è attrezzata con due posti letto dedicati a loro. Sono al Fatebenefratelli, ospedale che ha ottenuto un fondo di 450mila euro per il triennio. I ricoveri sono brevi, durano due-tre giorni, quanto basta per stabilire un contatto con il giovane, la sua famiglia e decidere insieme quale percorso terapeutico seguire. La cura è fondamentale perché, come ricorda l´assessore regionale alla Sanità, Luciano Bresciani, «quando questi gesti estremi falliscono, se il giovane è abbandonato a se stesso, nel giro di due anni, il 50 per cento cerca di nuovo la morte».
Ma trattare i giovani che hanno tentato il suicidio non è facile. Ci vuole un lavoro d´équipe, cosa che il Fatebenefratelli ha sperimentato, unico ospedale in Europa, nell´ultimo anno. 16 i giovani assistiti, metà maschi, metà femmine, di cui 10 minorenni e un trenta per cento stranieri. Il 76 per cento soffriva di depressione e il 20 per cento usava sia cannabis che cocaina. I letti dove sono stati assistiti sono quelli del reparto di pediatria, diretto da Luca Bernardo, dove i medici lavorano in squadra con Claudio Mencacci, il direttore del dipartimento di psichiatria, uno dei grandi esperti milanesi delle problematiche giovanili. L´ospedale accoglie i giovani ma poi quando li dimette li affida ai medici del "Crisis Center" dell´Amico Charly, l´associazione, presieduta da Mariagrazia Zanaboni, che da due anni offre aiuto ai giovani e alle famiglie colpite da questo problema. «Il principale fattore di rischio - ricorda Gustavo Pietropolli Charmet, responsabile scientifico del "Crisis Center" - è essere adolescenti in una città come Milano. Noi ne seguiamo 80, più altrettanti genitori. Il tentato suicidio spesso viene banalizzato ma un segnale d´allarme. Un punto da cui partire per iniziare una vera cura».
Repubblica Roma 27.11.07
La vera politica? È un fatto di cuore
Quelle appassionate lettere tra Bettini e Pietro Ingrao
di Stefano Clerici
Racchiude alcuni suoi scritti ma soprattutto un carteggio con uno dei "padri" del Pci
"A chiare lettere", il libro del senatore del Pd, vuole ridare dignità alla politica
Specie di questi tempi, la politica non è molto ben vista. I grandi vecchi, appassionati uomini di Stato - quelli che hanno pensato e fatto l´Italia del dopoguerra - non ci sono quasi più. I giovani e i giovanissimi, catturati da tempo dalla globalizzazione, dal telefonino, da internet e dal linguaggio sms, sembrano in tutt´altre faccende affaccendati. Gli uomini e le donne di mezza età, compresi quelli che hanno vissuto (con dubbi e speranze) la stagione prorompente tra gli anni Sessanta e Settanta, si sentono sempre più spesso frustrati e delusi. Così, in questo paesaggio, su cui incombe La Casta, nasce e cresce la gramigna dell´antipolitica. Della contestazione contro tutto e contro tutti. Del facciamo d´ogni erba un fascio. Del sono tutti ladri. O di un partito vale l´altro. Perciò, a scrivere oggi un libro che tenta di ridare dignità alla politica, all´onestà dei sentimenti e ai valori d´una volta, ci vuole certo un bel coraggio.
E Goffredo Bettini, senatore della Repubblica, questo coraggio l´ha avuto. Il suo libro «A chiare lettere», presentato recentemente, è il frutto di questa scelta per certi versi ardita. Racchiude alcuni suoi scritti ma soprattutto, in apertura, uno scambio di lettere, un carteggio come si usa dire, con Pietro Ingrao, ovvero uno dei grandi vecchi rimasti su piazza, uno dei padri storici del Pci, un uomo con il quale si poteva e si può ancora dissentire, ma che certo ha fatto dell´amore per la politica - la vera e nobile politica - una delle sue ragioni di vita.
Ingrao confessa candidamente al suo amico Goffredo: «Evidentemente io devo avere una passione per la politica che è tenace; altrimenti non si spiega come essa passione duri così a lungo e ancora adesso - in età così avanzata - fatichi a spegnersi». E Bettini, altrettanto sinceramente, gli risponde che «non è stata un´astratta scelta etica, ideologica, di valori a farmi diventare a quattordici anni un giovane comunista. E´ stata, piuttosto, la materialità di un grumo di passioni, di emozioni, di esigenze psicologiche e di spinte che potrei definire psichiche, di paure e di speranze, di reazioni alla vita e alle sue sorprese».Sembra quasi un epistolario tra padre e figlio. Padre di un partito che fu (e che tanto, piaccia o no, ha dato alla storia patria). E figlio di un partito, il Pd, che è appena nato ma che affonda le sue radici in quegli stessi valori e sentimenti in cui molti uomini di buon senso - cattolici o laici che siano - da tempo immemorabile si riconoscono. Tanto che Goffredo Bettini, spiegando poi la sua convinta scelta per una politica riformista, parla di «sguardo radicato nel presente, ma teso verso il futuro e impregnato di memoria».Insomma, questo è un libro che tenta di riconciliarci con la politica. Intesa non come burocratico apparato accalappia-consensi, né tanto meno come fabbrica di affari e di affaristi. Ma come passione civile, appunto. Quella nobile passione che nei grandi vecchi del Novecento, come Pietro Ingrao, per fortuna fa fatica a spegnersi.
Repubblica Milano 27.11.07
Giorello: "Parla di libertà ecco perché lo ascoltiamo"
Il Dalai Lama. Esercita il fascino che una volta era riservato a Gandhi
di Zita Dazzi
Mi disse di essere scettico su tutto, pure sulla religione
A Milano dal 7 al 9 dicembre la massima autorità del buddismo tibetano testimone della lotta per l´indipendenza
«Il Dalai Lama è una figura di enorme carisma intellettuale e spirituale. E la gente si presenta in massa ad ogni appuntamento con lui perché l´uomo esprime ai massimi livelli un vento di libertà che sbalordisce chi è abituato a confrontarsi con i dogmatismi, le chiusure e i fondamentalismi delle tre grandi religioni abramitiche». Non ha dubbi sulla grandezza del leader tibetano, Giulio Giorello, filosofo della scienza e docente dell´università Statale, che parteciperà agli eventi programmati durante i tre giorni di visita del Dalai Lama a Milano.
Professor Giorello, lei studia la razionalità, si dichiara "uomo di nessuna chiesa". Che cosa la affascina nel Dalai Lama?
«Ho avuto diversi contatti con lui curando la pubblicazione di un testo per una collana scientifica di Raffaello Cortina che dirigo. Mi è piaciuto soprattutto il fatto che affermi che chi è coinvolto in una discussione deve essere scettico sin dalle premesse. Lui ha dichiarato subito che la prima cosa su cui sarebbe stato scettico è il buddismo».
Il Dalai Lama predica l´ascesi, la pace interiore, la rinuncia alle passioni terrene. Consiglia la meditazione come via per arrivare all´Illuminazione superiore. Tutte cose che sembrano poco coerenti con la frenetica vita moderna, specie in una città come Milano. Eppure già in 10.000 si sono prenotati per la tre giorni al Palasharp.
«La meditazione appartiene anche alla grande tradizione del pensiero occidentale. Penso ad alcune figure cardine come Cartesio, Wittgenstein, Jan Huss. Non è un termine desueto, anacronistico, appannaggio della new age. È uno strumento che abbiamo il diritto di rivendicare».
Ma non sarà certo l´ "Ottuplice sentiero" a catturare l´interesse delle masse.
«Il fascino del Dalai Lama anche presso i non buddisti praticanti nasce dal suo grande coraggio, dalla libertà interiore che trasuda dalle sue parole, dalla modestia e dall´apertura mentale che sono gli aspetti centrali del suo insegnamento».
Il buddismo è una filosofia di vita che affascina l´uomo occidentale. Sta diventando "di moda", tanti vip si dichiarano tali.
«L´orientalismo è stato più volte di moda nei secoli, fin dall´800. Il Dalai Lama esercita il fascino che una volta esercitava Gandhi. E a ragione. Perché è un non violento e perché teorizza che è meglio la ricerca della verità che il possesso della verità».
Quest´anno poi c´è stata la repressone dei monaci in Birmania. Questo ha fatto "pubblicità" al buddismo.
«Certo, c´è un aspetto politico non indifferente nel seguito che hanno il Dalai Lama e il buddismo tibetano, simboli di una coraggiosa resistenza alla tirannia, involuzione autoritaria del comunismo cinese. Noi occidentali avremmo il dovere di denunciare e invece stiamo zitti. Tutti, a partire da quei campioni di democrazia che sono gli Stati Uniti, così valenti nei confronti del povero Chavez e così pavidi con la potente Cina».
Anche in Italia e a Milano c´è molto imbarazzo di fronte all´arrivo del Dalai Lama. I politici fanno a gara nel dire che non ci saranno incontri davvero ufficiali.
«Sono come Don Abbondio. Mi viene da dire, con Manzoni, che certo, "se uno non ha coraggio, non se lo può dare"».
C´è chi dice che il buddismo, una pratica di vita, una filosofia, più che una religione, è una valida alternativa alla psicoanalisi.
«Personalmente io quando ho bisogno di spiritualità vado al pub e prediligo il contatto con lo spirito sopra i 45 gradi. Ma ognuno scelga la strada che preferisce».
In che senso?
«Se io devo scegliere fra uno psicanalista, cioè un consulente filosofico a buon prezzo, e una guida spirituale del livello del Dalai Lama o di altre figure analoghe che si possono trovare nel misticismo sufi, o anche nel cattolicesimo - penso al monaco Enzo Bianchi - beh, ovviamente opto per queste ultime».