mercoledì 28 novembre 2007

l’Unità 28.11.07
Sul welfare fiducia e polemiche
Il voto stasera alle 19. Bertinotti: ci sono difficoltà nel rapporto tra Parlamento ed esecutivo
di Bianca Di Giovanni


DIKTAT Romano Prodi blinda il testo sul welfare e sfarina la sua maggioranza. Il maxiemendamento su cui ieri alla Camera il governo ha posto la fiducia non è né il testo del Protocollo, né quello varato dalla Commissione Lavoro: una sintesi che scontenta il Parlamento e accontenta (pare) le parti sociali. Palazzo Chigi parla di «atto di coerenza politica», definendo la blindatura inevitabile, per non snaturare un’intesa votata da 5 milioni di lavoratori. Ma l’ala sinistra della coalizione (e non solo) attacca e parla apertamente di ricatti, denuncia il fatto che le modifiche imposte dall’esecutivo sono quelle pretese dai diniani (e da Confindustria) e - guarda caso- che gli emendamenti eliminati sono proprio gli unici due della sinistra. Ovvero: salta il tetto sulla deroga per i contratti a termine, torna il tetto delle 80 notti per i lavori da cosiderare usuranti. Le altre modifiche restano. Per di più in un caso (quello dei lavori usuranti) il governo aveva espresso parere favorevole in Commissione. Poi la retromarcia, che ha tutta l’aria di una contorsione, stile «harakiri» . Nel marasma della maggioranza, si apre anche una grave frattura istituzionale. Fausto Bertinotti parla di «evidente, preoccupante difficoltà nel rapporto tra il Parlamento e l’esecutivo». Il presidente della Camera auspica anche una «riflessione attenta anche sul tema del rapporto che intercorre, o deve intercorrere, fra le trattative e gli accordi che vedono protagonisti il governo e le parti sociali ed il ruolo delle Camere, in funzione della salvaguardia del carattere parlamentare della nostra forma di governo». Una stoccata senza precedenti.
Rc voterà la fiducia ma da gennaio riconsidererà la sua collocazione in maggioranza. Oggi si attende la decisione del Comunisti italiani. Nelle schiere della «cosa rossa» molti parlano di rimpasto a gennaio, di uscita dal governo. Anche se Prodi in serata stoppa tutti: sì a un rilancio, no a un rimpasto. Nel frattempo anche i socialisti di Boselli rumoreggiano: nel testo finale non compare infatti l’impegno all’indennità per i co.co.pro su cui il governo aveva dato rassicurazioni durante il voto sulla Finanziaria in Senato.
Il testo del maxiemendamento arriva in Aula a intorno alle 19, dopo il vaglio degli uffici della presidenza e un nuovo passaggio in commissione Lavoro. Una curiosità: l’esame si apre con la degustazione (presente anche il ministro Cesare Damiano) dei confetti portati dalla deputata Paola Pelino. Ma è l’unico momento dolce della giornata. Il malumore si tocca con mano. Già sono trapelati gli interventi del governo, e non piacciono a nessuno: né al relatore Emilio Del Bono (Pd), che però parla di «mediazione responsabile» né al presidente Gianni Pagliarini (Pdci), e forse nemmeno al sottosegretario Antonio Montagnino che ha seguito i lavori della Commissione. Sono due le novità principali del testo. Sparisce la soglia degli otto mesi alla proroga per i contratti a termine e oltre la quale il tempo determinato sarebbe diventato automaticamente un posto fisso. Ora dopo 36 mesi di contratti a termine (il cui conteggio vale anche se ci sono pause) la durata della proroga sarà stabilita dall’accordo tra le parti sociali chiamate ad un avviso comune. In mancanza di un accordo la palla ritorna nelle mani del governo. L’altra modifica chiave è rappresentata dal ritorno del tetto delle 80 notti come uno dei vincoli per poter rientrare nella categoria dei lavoratori usuranti. Viene dunque ripristinata la versione originaria del ddl, così come uscita da Palazzo Chigi. Resta anche la formulazione della delega: nessuna norma vincolante, tutto da definire entro tre mesi dalla entrata in vigore del provvedimento. È andata meglio invece per i capitoli sullo staff leasing e il job on call: il primo viene cancellato, mentre sul secondo (che nel protocollo originario era abrogato) si prevedono delle deroghe per il lavoro nei settori dello spettacolo e del turismo. Il lavoro a chiamata era passato con il voto contrario di Rc e favorevole della destra. Infine viene cancellata (dalla commissione Bilancio e non dal governo) la proposta sull’apprendistato per mancanza di copertura. Stasera la fiducia: si attendono dichiarazioni di voto di fuoco.

Corriere della Sera 28.11.07
Fiducia sul welfare, lo strappo di Bertinotti
«Rapporti difficili Camere-governo». Prc spaccato: sì, ma a gennaio serve la verifica
di Roberto Zuccolini


Passa la linea Giordano del voto al ddl, 10 deputati contro. Dini: Rifondazione sconfitta, noi decideremo E Boselli: mani libere

ROMA — Il governo chiede la fiducia e sul welfare si scatena la guerra tra sinistra radicale e moderati. Rifondazione comunista soffre e si divide, ma decide di votare «sì», i diniani invece esultano e Romano Prodi vede più vicino il traguardo di un fine anno senza crisi. Ma se ne riparlerà a gennaio, mese che il partito di Franco Giordano già prenota per la verifica di maggioranza. Mentre Fausto Bertinotti contesta in aula la scelta di ricorrere alla fiducia. È la sintesi di una giornata sull'orlo di una crisi di nervi per tutti coloro a cui non piace il Protocollo sul welfare così come è stato firmato nel luglio scorso. Cioè la sinistra radicale. Perché il governo ha blindato il testo originario (con pochi correttivi) smontando i cambiamenti che Prc, Verdi e Pdci avevano ottenuto in commissione, tra cui l'eliminazione della soglia minima per i lavori usuranti.
Risultato: Rifondazione comunista convoca il suo gruppo a Montecitorio. E lì si consuma una dura battaglia interna tra «duri» e «dialoganti». Alla fine prevale la decisione della segreteria, ma in dieci, tra cui Francesco Caruso e Ramon Mantovani, non sono d'accordo, vale a dire il 25 per cento dei deputati del Prc. Voteranno comunque «sì» al maxiemendamento, ma solo per disciplina e continueranno a portare avanti le loro idee critiche nei confronti del governo. Del resto lo stesso leader, Franco Giordano, fa capire che il «sì» alla fiducia è «solo per vincolo sociale», non «per relazione politica». E chiede, a gennaio, «una nuova fase politica e una verifica politico-parlamentare ». Commenta Berlusconi: «Lo avevo previsto».
La proposta non trova isolata Rifondazione. Clemente Mastella si dichiara pronto ad una verifica di governo «anche a dicembre ». Lamberto Dini invece esulta. Annunciando la nascita al Senato di un gruppo con gli altri due liberaldemocratici, D'Amico e Scalera, più Bordon e Manzione, rinnova le critiche alla maggioranza «che non c'è più». Ma allo stesso tempo, accanto ad un prudenziale «decideremo », fa capire che voterà «sì» al testo sul welfare perché è riuscito a far ritirare gran parte delle proposte della sinistra radicale: «Il Prc ha subito una grossa sconfitta». Decisamente nero invece l'umore del socialista Enrico Boselli, dopo l'incontro con Prodi: «Non sono soddisfatto. D'ora in poi avremo le mani libere. Qui non basta una verifica: ci vuole un nuovo esecutivo ». E Palazzo Chigi? La fiducia viene considerata «un atto di coerenza politica» perché «il testo non poteva snaturare l'accordo di luglio con le parti sociali ». Comunque nessun problema a fare, a gennaio, «un punto complessivo sull'azione di governo». Anzi, «era già previsto », basta che non si parli di «verifica». La fiducia, che verrà votata oggi alla Camera, non piace invece al presidente Fausto Bertinotti, che in un duro intervento in aula, in cui si legge tra le righe anche la sofferenza della sua Rifondazione, denuncia: «La procedura ripropone un'evidente preoccupante difficoltà nel rapporto tra esecutivo e Parlamento: serve una riflessione ».

Corriere della Sera 28.11.07
Dietro le quinte Sale la tensione dentro Rifondazione comunista
«Avanti così e ritiriamo i ministri»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Una botta ai riformisti dell'Unione, un'altra alla sinistra: è trascorsa così la giornata di Prodi. Tanto il premier è sicuro che «non esiste una soluzione alternativa al mio governo, nessuno l'ha preparata: dopo di me c'è solo il voto e a molti non conviene...».
Perciò solo a sera fa sapere che non vuole mettere all'angolo la Cosa Rossa. Cioè, dopo averlo fatto sul welfare. Il Prc ingoia anche questa. «Ma a gennaio tra noi e il governo si apre una fase nuova e se non si cambia non faremo finta di niente, potremmo arrivare a rompere», avverte Franco Giordano. Traduzione del deputato rifondarolo Peppe De Cristofaro, fedelissimo del capogruppo Gennaro Migliore: «Possiamo anche aprire la crisi». Le solite minacce del Prc che cadono ritualmente nel vuoto? L'alleato Cesare Salvi, presidente dei senatori della Sinistra democratica, nega: «Faremo un verifica in cui abbiamo deciso di non escludere neanche il ritiro dei ministri della sinistra dal governo. O Prodi cambia registro e programma, e fa un governo più snello, o qualcosa succederà».
E le frizioni tra governo e sinistra radicale potrebbero venire allo scoperto ancora prima di gennaio. Giovedì nell'aula di Palazzo Madama dovrebbe arrivare il provvedimento sulla sicurezza targato Amato. Un provvedimento senza rete, che la commissione di palazzo Madama ha licenziato senza averne terminato l'esame, dopo il pandemonio suscitato dal tentativo del relatore Sinisi, del Pd, di fare degli accordi con An, stroncati dalla sinistra radicale. È chiaro che in queste condizioni Palazzo Chigi, dopo le arrabbiature serali di Giordano e Bertinotti, fa sapere che il premier non ha intenzione alcuna di giocare con Dini contro il Prc. Ma la verità è un'altra. Quella che il premier va ripetendo anche a chi lo mette sull'avviso rispetto al tentativo di Veltroni di trovare un accordo sulla legge elettorale: «Tanto l'accordo su cosa fare dopo la mia caduta non c'è, quindi io andrò avanti».
Con questa tranquillità d'animo e con questa certezza di rimanere in sella il premier penalizza il Prc e all'ora di pranzo riceve lo Sdi di Enrico Boselli, che gli aveva chiesto di introdurre la flex security (il cosiddetto reddito di esistenza per i precari) nel welfare. La sera prima il ministro Damiano, via fax, manda ai socialisti la bozza di un possibile testo. Il martedì dopo il governo se lo rimangia. «Non c'è copertura finanziaria», spiega Letta. «Ci sono i fondi europei», ribatte lo Sdi Roberto Barbieri autore della proposta. Prodi alza gli occhi al cielo, allarga le braccia e lascia intendere che non si può mettere contro i sindacati. Ma Boselli è stufo di quest'andazzo e lo dice senza peli sulla lingua: «Romano, ci avete preso per il c..., quando volevamo mettere questo emendamento in Finanziaria ci hai detto di aspettare che arrivasse il provvedimento sul welfare per inserirlo lì. Ora anche questa promessa non vale più. Sai che c'è? Noi responsabilmente voteremo la fiducia sul welfare ma dal giorno dopo agiremo com vogliamo: mani libere. Del resto non lo fa forse Dini con altri due senatori? Benissimo, non dimenticarti che anche lo Sdi a Palazzo Madama di parlamentari ne ha tre...». E su questa frase si chiude l'incontro. Gli uomini del premier sono un po' preoccupati lui, serafico: «Tanto non hanno trovato una soluzione per sostituirmi... ». È vero: la soluzione effettivamente non c'è. Ma in molti ritengono che dalla riforma elettorale al governo istituzionale il passo sia breve...

l’Unità 28.11.07
Giordano trattiene i suoi pronti alla rottura
Il segretario di Rc: ma a gennaio si va alla verifica
«Patto da ricontrattare o salta la coalizione»
di Simone Collini


«NON C’È PIÙ VINCOLO POLITICO» Schiacciato tra l’incudine dello scalone e il martello di una fetta sempre più consistente di partito che chiede di uscire dal governo, Franco Giordano fa quel che può: annuncia che Rifondazione comunista voterà la fiducia sul welfare, «perché abbiamo un vincolo sociale con i nostri elettori e non vogliamo mandare in pensione i lavoratori con la riforma Maroni», ma anche che «a gennaio serve una verifica». Il che vuol dire due cose: che prima di questo appuntamento il Prc non si considera vincolato da «un patto di maggioranza, che va ricontrattato» (e il pacchetto sicurezza che presto arriva in aula?, gli viene chiesto in Transatlantico: «Lì non c’è la fiducia, siamo liberi»); e che in sede di verifica tutto può succedere, compreso il ritiro della delegazione del Prc dal governo e l’appoggio esterno. Non a caso quando a metà pomeriggio la “Velina Rossa” fa filtrare l’ipotesi che Rifondazione è pronta a imboccare questa strada già oggi, contestualmente al sì alla fiducia, il sottosegretario Alfonso Gianni smentisce con clausola temporale: «Non mi risulta, non almeno adesso». E anche il ministro per la Solidarietà sociale Paolo Ferrero fa capire che dopo uno «strappo all’interno della maggioranza» come quello che si è prodotto sul welfare tutto è possibile: «Non abbiamo costruito l’Unione per vedere le ragioni dei poteri forti prevalere sugli impegni assunti con il nostro elettorato».
Giordano non vorrebbe arrivare a una rottura col governo, ma mai come ieri l’insofferenza dentro al partito si è fatta sentire in modo così pesante. Per arrivare alla decisione di votare sì alla fiducia è stato infatti necessario convocare prima una riunione del gruppo di Montecitorio e poi, d’urgenza, la segreteria. Perché se è vero che la proposta di garantire il sostegno al governo è stata approvata dai deputati del Prc, è anche vero che tra i 35 presenti (Salvatore Cannavò e altri in rotta col partito neanche hanno partecipato e oggi diranno no alla fiducia) in 10 hanno votato contro. E non è solo la cifra di quelli che si sono espressi per il no alla fiducia a pesare, ma anche il modo in cui è composta: due indipendenti, due esponenti delle minoranze, ma anche sei della maggioranza. Oggi voteranno sì «per disciplina», e anche perché Giordano ha assicurato loro che questo «pessimo disegno di legge» sarà l’ultimo rospo ingoiato: «A gennaio va ricontrattato il patto di maggioranza o salta la coalizione». Ma con i sondaggi non proprio rassicuranti per il Prc e un congresso alle porte che si profila tutt’altro che semplice (Ramon Mantovani, che ieri ha avanzato la proposta di votare no alla fiducia, fa ora anche sapere che non accetterà l’appello del segretario a non emendare il documento congressuale: «Lo farò certamente su due temi, governo e unità a sinistra») la strada che Giordano dovrà percorrere si fa sempre più stretta. Anche perché se sia lui che Bertinotti hanno sempre sostenuto che questa volta non si può ripetere quanto accaduto nel ‘98 grazie al programma comune approvato prima delle elezioni, Giordano ora dice sconsolato che «il programma è finito in qualche museo delle cere».

Repubblica 28.11.07
Franco Giordano, leader di Rifondazione, attacca Prodi: subisce i ricatti degli industriali
"Per ora restiamo ma nulla è scontato vogliamo ricontrattare il programma"
di Umberto Rosso


Diciamo sì alla fiducia per un vincolo verso i lavoratori, per evitare lo scalone di Maroni
Divisioni nel partito? Nessuno speculi sul nostro dibattito interno, abbiamo sempre votato con responsabilità
Cancellando il testo della commissione si è mortificata la centralità del Parlamento

ROMA - «Una fase, nel nostro rapporto con il governo, certamente si è chiusa. A gennaio, dopo l´approvazione della Finanziaria e del protocollo, il vincolo di Rifondazione con Palazzo Chigi va ricontrattato. Con una verifica, politica e programmatica. Il programma dell´Unione non esiste più ormai».
Vuol dire, onorevole Giordano, che il suo partito potrebbe anche ritrovarsi fuori dal governo?
«Non c´è nulla di scontato. Noi non puntiamo a far saltare il banco ma dipende appunto dalla verifica. Non prenderei alla leggera l´appuntamento: è tutta la sinistra che la pensa così».
Intanto, la fiducia sul welfare la votate.
«Sì, la voteremo. Ma per un vincolo sociale nei confronti dei lavoratori e non per un vincolo politico».
Che vuol dire?
«Vuol dire che se dicessimo no al voto di fiducia imposto dal governo, i lavoratori si ritroverebbero con lo scalone di Maroni sulle pensioni. Che invece, con le modifiche introdotte, è saltato».
Il gruppo alla Camera però si è diviso: una decina di deputati era contraria alla fiducia.
«Nessuno tenti di speculare sul dibattito all´interno di Rifondazione comunista. Piuttosto, farebbero meglio a cercare di riprendere il filo sociale con il nostro popolo, che è stato smarrito».
Era perfino circolata voce di un ritiro immediato della vostra delegazione al governo.
«Voci infondate. Stiamo lì, per ora».
Sicuro che, magari al Senato dove la maggioranza è sul filo, qualcuno dall´interno del Prc non prepari lo sgambetto sulla fiducia?
«Rifondazione è il partito che finora, con più senso di responsabilità e disciplina, ha garantito la navigazione del governo. Mentre tanti altri praticano le mani libere».
A cominciare da Dini, che parla oggi di una vostra bruciante sconfitta sul welfare.
«Dini è l´ultimo dei miei pensieri. Non pratichiamo giochi e giochini di palazzo, pensiamo ai problemi dei lavoratori. Dini non è uno di loro».
Però la mano sul protocollo l´ha vinta lui.
«Il nodo dei precari per noi resta aperto».
Ma se votate la fiducia...
«Sarà uno dei punti-chiave della verifica. Non è mica un capitolo chiuso. Lo riapriremo. Insieme ad altre questioni».
Quali?
«Diritti civili. Nuova legislazione in materia di lavoro. E centralità della democrazia parlamentare. Che da questo passaggio esce mortificata, a pezzi. Il governo ha incredibilmente cancellato con un colpo di spugna i miglioramenti al testo apportati in commissione». Perché è scattata la marcia indietro sul testo?
«Perché il governo non è libero, ha un deficit di autonomia, subisce i ricatti di Confindustria».
Se la prende con Montezemolo ma è Prodi che ha posto la fiducia.
«E´ proprio Prodi che non è libero nei confronti della Confindustria».
Sarà l´ultima volta che votate la fiducia? E se il governo la pone anche sul decreto sicurezza?
«Quel testo va profondamente cambiato».
Anche Rifondazione con le mani libere?
«Il cemento era il programma, ma non esiste più. E´ stato sistematicamente strattonato, stravolto. Ormai è archeologia, un museo delle cere. Basta. Ecco perché chiediamo di definire a gennaio le nuove priorità dell´esecutivo, e da queste dipenderà la nostra collaborazione futura».
Ce l´avete con Veltroni e il Pd?
«Veltroni in nome dei giovani ha sparato a zero contro le nostre proposte sulle pensioni. Poi quando si è trattato di difendere i giovani contro la precarietà, è sparito».
Il confronto con il Pd sulla riforma elettorale, in questo clima, per voi è a rischio?
«Il confronto va accelerato, bisogna coinvolgere tutte le forze parlamentari».
E´ un´altra cosa rispetto allo scontro politico "quotidiano".
«E´ un´altra cosa».

Corriere della Sera 28.11.07
Prodi: pericoloso mortificare la sinistra
Allarme del presidente del Consiglio: fattore di instabilità per il governo
di Francesco Alberti


Il capo del governo teme che lo strappo con Rifondazione porti a conseguenze: «Dobbiamo farci carico del loro disagio», sostiene. Gli elogi al «senso di responsabilità» manifestato dagli alleati nella vicenda del welfare

ROMA — La febbre da cavallo che sta divorando il corpo di Rifondazione spaventa, e non poco, Romano Prodi. «Attenzione, un Prc mortificato o, peggio, costretto all'angolo può diventare un pericoloso fattore di instabilità per il governo» è stato ieri il ragionamento del premier quando è apparso chiaro che l'ennesima mediazione sul protocollo del welfare veniva vissuta come una sorta di Caporetto da una parte consistente del partito di Giordano. Il Professore, nel momento stesso in cui ha deciso di sottoporre a fiducia un testo che non contempla parte delle modifiche introdotte alla Camera sotto la spinta del Prc, a cominciare da quelle sul precariato, aveva messo in conto l'insoddisfazione del partito di Bertinotti e il rischio di offrire benzina alle correnti anti-governative da tempo in gran spolvero a sinistra. Ma la realtà, stavolta, ha superato le previsioni. E lo stesso premier probabilmente non si aspettava una rivolta di queste ampiezza e profondità.
«Spegnere l'incendio» è diventata quindi, da ieri, la parola d'ordine di Palazzo Chigi: dal «soccorso rosso» al «soccorso ai rossi», verrebbe da dire. In che modo, però, non è semplice. Il repentino via libera del capo del governo alla verifica politico-programmatica chiesta da un Giordano in evidente difficoltà costituisce, nei piani del premier, solo il primo passo di un'azione che dovrà prendere compiutamente forma dopo la definitiva approvazione della Finanziaria. «C'è un grosso disagio nel Prc, di cui è giusto farsi carico nell'interesse di tutti» è la linea dettata dal premier. E via ad elogiare «il senso di responsabilità» dei vertici di Rifondazione (che comunque hanno assicurato il loro sì alla fiducia alla Camera); a rimarcare che «sul welfare non ci sono stati nè vincitori nè sconfitti» (indiretta risposta a Dini che, soffiando sul fuoco, ha parlato di «grossa sconfitta» della sinistra); ad elogiare la «fedeltà dell'alleato».
Parole al miele, ma che difficilmente basteranno a lenire i dolori del Prc. «Occorre far capire a Giordano e compagni— spiegano nella cerchia del Professore — che l'azione del governo, anche se tra frenate e accelerazioni, ha consentito di ottenere importanti risultati prima sul piano del risanamento e ora su quello della lotta alla diseguaglianza: un lavoro che ha avuto nel programma dell'Unione la sua stella polare, che va letto nell'arco dell'intera legislatura e che sarebbe un delitto buttare a mare». Resta il fatto che Giordano, ingoiato il rospo del welfare, non potrà che alzare la posta in gennaio, unico modo per non perdere il controllo dei suoi. Palazzo Chigi, per ora, si limita a promettere «nuove politiche», si presume sul versante sociale. Un film ancora da girare, ma sempre del genere thriller.

l’Unità 28.11.07
L’esercito delle banlieue
di Gianni Marsilli


FRANCIA. Il capo dell’Eliseo dalla Cina fa sapere che «sorveglierà» l’operato di Alliot Marie per paura che la rivolta dilaghi in tutto il Paese come accadde nel 2005
Per la ministra degli Interni quei teppisti sono un esercito nemico

Molotov e petardi, pietre e sbarre di ferro, ma anche fucilate. Bruciano automobili scuole e biblioteche ma ci sono proiettili che mirano ad uccidere il flic, il «porco» in uniforme. La rabbia del 2005 è ancora lì, intatta e rovente. Ma si è fatta più lucida e affilata, quasi omicida. La rivolta potrebbe essere meno estesa della sollevazione di due anni fa.
Ma anche più cattiva e determinata, non solo nichilista e disperata. Dicono le cronache che quelle centinaia di ragazzi - tutti neri o maghrebini - che hanno messo a ferro e fuoco Villiers-le-Bel stavolta hanno avuto il sostegno della gente intorno, come si aiutano i resistenti. Perché nulla è cambiato da due anni a questa parte, malgrado le promesse e i cantieri per nuovi alloggi popolari e le leggi - non applicate - che incoraggiano l’occupazione. Si vive sempre male, disoccupati ed etnicamente separati, in banlieue. Anche se si è francesi a tutti gli effetti. Capita allora che un incidente diventi una provocazione, qualsiasi sia stata la sua dinamica. Che la violenza sia spontanea, scontata, pavloviana. Era colpa dei poliziotti? Pare di no, pare. Ma non ha più molta importanza. La scintilla è scattata e l’incendio è scoppiato, travolgendo torti e ragioni.
Oggi Nicolas Sarkozy, appena rientrato dal suo viaggio in Cina, dovrebbe ricevere all’Eliseo le famiglie dei due ragazzi morti domenica sera. Prima, avrà reso visita ai gendarmi feriti, in particolare ai sei impallinati da un ignoto fucile da caccia. Sarkozy, si spera, è il primo a sapere che il tempo cammina molto in fretta, nelle banlieues. Che l’esperienza del 2005 non ha più molto da insegnare. Che le grandi manovre di anti-guerriglia urbana di migliaia di gendarmi non servono più a gran cosa, davanti a ragazzi pronti a diventare snipers. Che la faccenda, quindi, potrebbe farsi molto più pericolosa in questo autunno. Che il ministero degli Interni è in mano a Michèle Alliot Marie, che prima reggeva la Difesa, ed è portata a confondere i rivoltosi delle periferie con truppe di un esercito nemico. Alliot Marie ha cominciato male. Lunedì, già prima degli scontri più aspri, li aveva archiviati nella cartella della «delinquenza organizzata». Quei ragazzini di tredici, quindici anni relegati al rango di spacciatori, ladri, banditi. Ha così negato implicitamente l’esistenza del disagio nel quale vivono, che è grande. È parsa scordare che ci sono aziende che catalogano le richieste di lavoro a seconda del colore della pelle: nella colonna 1 i neri, in quella 2 i maghrebini, in quella 3 gli asiatici, nella 4 i «pure whites», come dire gli ariani. Che i senza lavoro toccano punte del 40-50 per cento. Che le ZUS (zone urbane sensibili) comprendono cinque milioni di francesi. Per questo l’Eliseo ha tenuto a far sapere che da Shanghai Sarkozy aveva telefonato ad Alliot Marie, e le aveva rivolto «un certo numero di raccomandazioni». La signora ministro è insomma sotto stretta tutela. Al timone è tornato lui, il suo predecessore diventato presidente. Con un rischio: che alzando il livello della gestione della crisi, si alzi anche il livello dello scontro. Malgrado la linea di Sarkozy, che si vorrebbe meno aggressiva di due anni fa, quando annunciava a gran voce di voler «ripulire» quei quartieri, come si disinfesta un tugurio.
Era stato lo stesso Sarkozy, però, a promettere in campagna elettorale un grande «piano Marshall» per le banlieues, del quale non si è vista ancora traccia. Ci sta lavorando Fadela Amara, ministro alle politiche urbane, di origine algerina, da sempre di sinistra, nel governo grazie alla «ouverture» politica presidenziale. Ma è ancora «in fase di concertazione» con sindaci e associazioni, e non sarà pronta prima di gennaio. Nel frattempo, i sindaci temono il peggio.

Repubblica 28.11.07
Le streghe son tornate
Le femministe che vengono dal web
di Simonetta Fiori


Le streghe sono tornate, o forse non se ne sono mai andate. Si mostrano con foschi cappelli a punta o rosei bigodini, ma questa volta sono come smaterializzate, incorporee, perché virtuale è il mondo che le ha generate, la grande rete invisibile nella quale hanno costruito il nuovo femminismo, senza conoscersi e fuori dalle appartenenze. Le web streghe, dunque. Creature internettiane con i loro blog, il profluvio di mail, il codice visivo preferito a quello scritto, i nomi provocatori come Le mele d´Eva, A-matrix, Luna e le altre, Sexy Shock.
Streghe giovanissime tra i venti e i trent´anni, che hanno pratiche e linguaggi incorporei - in questo assai distanti dalle madri inclini a una corporea autocoscienza - però capaci di trascinare in piazza una moltitudine di donne, come è accaduto a Roma sabato scorso. Questo solo sembra contare. Sono le protagoniste storiche ad applaudire il movimento risorto, prodigiosamente rifiorito, non importa se con qualche sguaiata intolleranza, con inattese esclusioni e improvvidi assalti al «palco d´inverno». «Da sempre la rivendicazione femminile è segnata da rabbia e provocazione», dice Elena Gianini Belotti, tra le artefici della stagione aurea con il leggendario Dalla parte delle bambine. Dopo un lungo silenzio, il femminismo riprende voce. Da Lea Melandri a Chiara Saraceno, da Maria Luisa Boccia ad Anna Bravo, la diagnosi è univoca, anche venata di stupefatto ottimismo. Nessuna in fondo se l´aspettava.
I simboli e le icone riaffiorano dal passato, anche l´allegria un po´ rancorosa, la croce cerchiata sui volti di biacca, le dita delle mani a triangolo, ad evocare il controllo del proprio corpo. Ma se le madri lottavano per la libertà di non aver figli - vedi la legge sull´aborto - queste di oggi lottano anche per la libertà di farli - vedi la legge sulla fecondazione. «Comune è il rifiuto di una normativa sul corpo», commenta Maria Luisa Boccia, storica della filosofia politica e figura di spicco del femminismo. «Anche se in queste richieste contrapposte è già evidente la distanza generazionale». Per Anna Bravo, studiosa non conformista, «più che un´analogia è una ripetizione. Il segno delle dita a triangolo aveva senso nella fase aggressiva della lotta per l´aborto, ma oggi? Poi l´utero quando è "abitato" non è più solo mio, cioè io ho il diritto di decidere, ma bisogna sapere che non decido solo per me, ma anche per qualcuno o qualcos´altro, il feto. Se le più giovani non se ne rendono conto, noi vecchie abbiamo una bella responsabilità!».
Un gioco di citazioni e rispecchiamenti sembra avvolgere il femminismo di ieri e quello di oggi, a cominciare dal separatismo così pervicacemente rivendicato sabato sulla piazza romana, quel «no!» gridato all´altra metà del cielo, che trent´anni fa aveva un significato dirompente, «il recupero della soggettività femminile lungamente conculcata», interviene la sociologa Chiara Saraceno, «ma oggi mi chiedo dove porti». Quella degli anni Settanta era una novità assoluta, «le donne prendevano atto della propria forza e la mostravano in pubblico», ricorda Anna Bravo. «Oggi però il separatismo mi sembra ingiustificato». Un´esclusione, quella maschile, che ai più appare un rigurgito di veterofemminismo, ma che Angela Azzaro, responsabile delle pagine culturali di Liberazione e tra le animatrici del corteo romano, non esita a difendere come sacrosanta: «Far sfilare gli uomini al nostro fianco avrebbe significato rassicurarli: mentre il nostro intento era esattamente il contrario, sollecitare nelle coscienze maschili una riflessione sulla violenza che ancora non c´è stata».
«La donna senza un uomo è come un pesce senza bicicletta», urlavano irridenti le femministe al principio degli anni Settanta. «Un uomo morto è un uomo che non stupra», è l´eco un po´ macabra di oggi. Allora la guerra al maschio appariva necessaria in un´Italia ancora feudale e profondamente contadina. Solo nel 1975 un nuovo diritto di famiglia poneva fine a discriminazioni secolari, con la parità giuridica tra i coniugi e l´attribuzione a entrambi della patria potestà. Soltanto allora veniva meno l´obbligo per le mogli di seguire il marito, e anche l´istituto della dote. Un paese lontano anni luce dall´attuale, nel quale sofferenze di secoli, da sempre coperte dal silenzio, esplodevano finalmente in una dimensione pubblica. Ma oggi? Oggi dopo la riforma della famiglia, dopo leggi fondamentali come il divorzio e l´aborto? «Sì, il paese è progredito sul piano legislativo», replica Elena Gianini Belotti, «ma è rimasto arretrato sul piano del costume e della mentalità. Gli uomini, nonostante tutto, non sono cambiati. Anzi, sono più disorientati. E se le donne si trovano a gridare gli slogan di trent´anni fa è perché su molti terreni siamo daccapo». Lo stupro è solo il segno più evidente/ siamo violentate quotidianamente: è uno striscione del 1976, ma secondo molte delle interpellate potrebbe sfilare in una piazza contemporanea. «In Italia più di cento donne all´anno sono vittime di omicidi dentro le mura di casa», ricorda la Gianini Belotti, che sta preparando per Laterza il libro Amorosi assassini. «Un massacro che continua nella totale indifferenza maschile. Se accadesse il contrario, se cento uomini venissero uccisi ogni anno dalle donne, ci sarebbero furibonde interrogazioni parlamentari».
«La famiglia è a rischio? La famiglia è un rischio», hanno gridato le neofemministe nelle piazze di Roma. Oggi, come ieri, si celebra il processo alla Famiglia, «luogo potenzialmente violento», «cristallizzazione di gerarchie e subalternità». Un tema anche questo antico, che risale agli anni Sessanta e forse ancor prima, nutrito di letture allora fondamentali come le teorie di David Levy sulla «mamma iperprotettiva» o «la genitorectomia» invocata da Bruno Bettelheim. Ma se un tempo ci si limitava a denunciarne la struttura repressiva, oggi ci si butta nel transgender, il superamento di confini e identità sessuali, gli amori lesbici, la decostruzione dei generi predicata da Judith Butler, autrice di culto e teorica del queer, la convinzione che l´identità di genere sia solo una costruzione sociale.
La mamma no, la madre non si tocca. Madri simboliche con cui accompagnarsi. «Una novità di oggi è anche nella trasversalità generazionale», dice Lea Melandri, memoria storica del femminismo. «Noi ci ribellavamo alle nostre genitrici, vere e ideali, insofferenti a qualsivoglia primogenitura. Queste più giovani ci vogliono al loro fianco. Non c´è lo strappo rispetto alle donne che le hanno precedute».
E quello strappo violento rispetto alle parlamentari e alle ministre: se le femministe storiche gridavano «il privato è politico», qui non c´è forte il rischio dell´antipolitica? «Diagnosi fuorviante», rispondono in coro le protagoniste di allora. Dietro la cacciata di Prestigiacomo e Carfagna («sgradevole e sbagliata») e dietro l´espulsione delle ministre Melandri, Turco e Pollastrini («sgradevole ma comprensibile»), si nasconde il desiderio di una politica diversa. «Non è un caso», racconta Chiara Saraceno, «che lo striscione "vaffagrillesco" sia stato oscurato dietro altri slogan. Direi piuttosto che è stata indelicata la presenza delle ministre su un palcoscenico osteggiato dalle neofemministe, ostili come lo eravamo noi a ogni forma di protagonismo». Una vecchia storia: il rifiuto d´una monumentalità gerarchica e verticale - il palco - a favore di un´orizzontalità che è pluralismo di voci. Puro cretinismo, come l´ha liquidato Giovanna Melandri? «Continuo a pensare che si sia trattato di idiozia politica», sostiene a freddo la ministra. «Non era un palco, ma un gazebo, strumento tecnico di La 7. La battaglia contro la violenza riguarda tutte noi: non può essere appannaggio solo di alcuni gruppi».
La lotta per «l´esclusiva», anche questa è una costante del movimento, le feroci discordie su cosa sia il Vero Femminismo. Nessuno però ricorda esempi analoghi di cacciata di donne da parte di altre donne. Molti litigi sì, anche in tribunale: per questioni di proprietà di sigle o di riviste. «Erano così minacciose per la riuscita del corteo queste politiche?», s´interroga Anna Bravo. Nei blog la discussione ferve, raddoppiano le mail. Le streghe sono tornate, ma questa volta sul web.

Repubblica 28.11.07
Domenico De Masi, sociologo: "Ora l'obiettivo è l'effettiva parità"
"Un nuovo movimento è pronto per il decollo"
di Marina Cavallieri


Professor Domenico De Masi, sociologo, cosa c´era di nuovo rispetto agli anni 70 nel corteo delle donne di sabato scorso a Roma?
«Di nuovo ho trovato l´intransigenza, un segno che nelle donne si era perso».
E cosa ha ritrovato del passato?
«Lo spirito del femminismo storico, fatto di grande passione ma anche di consapevolezza precisa. Le femministe erano persone esasperate, il nostro paese all´epoca era più vicino all´Iran che all´Italia di oggi. C´era un maschilismo che si tagliava a fette. Quella fu una generazione di donne che pagò prezzi altissimi, si sfasciarono famiglie, alcune subirono processi per aborto e misero in gioco anche il proprio equilibrio mentale, personale. Se ci fosse una santità laica, quelle donne meriterebbero di essere sante. Chi non c´era non può capire».
Dopo però è calato il silenzio. Un oblìo quasi imbarazzante...
«Le conquiste ottenute sembrarono aver placato gli animi. Oggi però io vedo un secondo decollo. Come gli aerei che hanno tre decolli. Questo per me è il secondo. Con il primo le donne hanno ottenuto alcune cose, tra cui un diritto di famiglia molto avanzato. Ora è il momento di chiedere una parità effettiva: la metà dei dirigenti, la metà dei politici, scadenze che non si possono più rinviare».
Il famoso "soffitto di vetro". Ma non crede che anche da parte delle donne ci sia stato in questi anni un ripensamento a livello teorico? Una rivalutazione degli ambiti femminili?
«Io credo che abbiano prevalso la pigrizia, la comodità. Si è detto: teniamoci quel po´ che abbiamo ottenuto e non rinunciamo al posto sul tram. Del resto dopo una grande lotta è naturale che ci sia una pausa, un allentamento della tensione».
Una pausa che è durata molto. Nel corteo c´erano le cinquantenni e le ventenni, mancavano le generazioni di mezzo. Lo ha notato?
«Quelle generazioni sono state una tragedia, un tappo. Dagli anni 80, dagli yuppie a oggi, le generazioni che si sono succedute sono state prive di qualsiasi valutazione critica su ciò che li circondava, prive di valutazione etica. Io sto all´università ho visto diversi "giovani" passare, è stato impressionante».
E i ventenni di oggi, sono diversi?
«Un po´ sì. Perché stanno vedendo che quel modo di essere non dà frutti. Ci sono nuovi bisogni. I giovani cominciano a ri-orientarsi, si creano nuove bussole».
Crede che nascerà di nuovo un movimento delle donne?
«Credo di sì. C´è bisogno di qualità della vita, di destrutturazione del tempo e dello spazio, di bisogni fondamentali come l´amicizia, l´amore. E dove c´è qualcosa di nuovo, ci sono le donne».

Repubblica 28.11.07
L’evoluzione incompiuta
di Luce Irigaray


A quale punto del loro percorso di emancipazione e di liberazione sono pervenute le donne? Come regolano, oggi, le relazioni fra vita privata e vita pubblica? Perché la questione decisiva dalla parte delle donne è stata per secoli e ancora rimane la seguente: come uscire dal letto matrimoniale e dalla cucina della casa familiare per acquisire un´autonomia civile che consenta loro un ruolo pubblico paritetico rispetto a quello dell´uomo. La cosa non è così semplice da potere essere risolta in qualche anno. Così oggi assistiamo a situazioni paradossali che possono scoraggiare chi ha pensato che le donne siano le protagoniste di cui la nostra Storia ha ormai bisogno.
E però va anche ricordato che è da poco tempo che le donne si trovano a doversi confrontare con l´impegno di passare da una semplice identità naturale a un´identità civile. Il carattere parossistico di certi atteggiamenti sembra dunque corrispondere all´emergere sintomatico di un´evoluzione incompiuta.
Per esempio, certe donne sono saltate dalla clausura della casa familiare a una poltrona di dirigente politica senza il necessario passaggio attraverso uno statuto di cittadinanza con diritti a loro appropriati. E così da un lato rimangono sottoposte agli uomini per cose che riguardano la loro vita sedicente privata - ad esempio la scelta di essere o non essere madre - e da un altro intendono rappresentare e governare altre donne senza però l´oggettività di una legislazione e di una cultura che possa fare da mediazione fra loro. Di qui le violenze o le incoerenze cui talvolta assistiamo.
E così, è vero che ogni donna è interessata alla violenza fatta alle donne. Ma che cosa significa «ogni donna»? Quale appartenenza pubblica può essere condivisa tra una casalinga e una ministra se non uno statuto civile di cittadinanza al femminile che tuttora non esiste? Che cosa hanno ancora in comune queste due donne salvo una certa appartenenza naturale e delle rivendicazioni contro una cultura al maschile? Non si può né coesistere né condividere a livello pubblico in nome di una semplice naturalità o in nome di rivendicazioni che fin quando non assumono una forma di richiesta oggettiva, preferibilmente formulata in modo positivo, non si distinguono dalla rabbia che esplode nell´ambito privato. La violenza pubblica sulle donne si fa allora eco della violenza privata patita.
Ci ritroviamo così in un circolo vizioso che non dovrebbe riguardare la vita pubblica, ma da cui essa si trova troppo spesso e da troppi lati viene invasa. La politica delle donne non ha abbastanza riflettuto su questo vicolo cieco, di cui non sono le donne le principali responsabili ma che forse proprio loro potrebbero riaprire, segnatamente sfuggendo al recinto della rivendicazione o della violenza. Questo richiederebbe però, da parte delle donne, lo sforzo di uscire da una cultura che non è la loro, senza fermarsi alla sua critica. Invece di volere a ogni costo insediarsi in una politica che non è fatta da loro né per loro, e che suscita conflitti e rigetti anche fra di loro, dovrebbero tentare di definire e praticare una cultura che corrisponda alla loro identità. Non sto qui facendo l´apologia di una politica separatista al femminile. Penso, al contrario, che le donne siano portatrici di valori relazionali che le rendono capaci di farsi promotrici di un´altra politica delle differenze e delle relazioni fra uomini e donne. Ma, per promuovere un mondo nuovo, c´è bisogno di pensiero. Non basta fermarsi a qualche slogan concernente il potere, la soggettività femminile, la politica del fra donne eccetera. Si tratta di riflettere su quale contenuto oggettivo si mette dietro gli slogan, e di verificare se questo contenuto si possa condividere e come. Se ogni donna si accontenta di rivendicare il diritto alla propria soggettività, temo che una condivisione pubblica fra le donne non potrà mai esserci. Lo stesso vale se le donne si accontentano di cercare di appropriarsi di un´oggettività culturale e politica definita da e per gli uomini. Il compito più importante che le donne oggi devono assumere è lavorare alla loro individuazione come persone civili e culturali. La politica, per non dire la democrazia, dovrebbe essere un affare di convivenza civile fra le persone prima di essere un affare di rivalità per il possesso, il potere, la poltrona.

Repubblica 28.11.07
Nicole Kidman: "Sono rassegnata fare l’attrice è una finzione"
di Maria Pia Fusco


L’attrice australiana, che ha da poco compiuto 40 anni, fa un bilancio della vita e della carriera in occasione della presentazione a Londra del suo nuovo film "La bussola d´oro" in Italia il 13 dicembre

Malgrado le polemiche non è un film anti-religioso, sono cattolica e non l´avrei mai interpretato
Come mamma di due bambini sento la responsabilità di educarli e di affidare loro il futuro
Alla mia età non oso rifiutare le offerte Volterei le spalle alla fortuna. E non importa se qualche film non va
Non ho difficoltà a lavorare con creature inesistenti. Mi ricorda quando studiavo recitazione a scuola

Se nella vita, come nel film La bussola d´oro, potesse avere il suo daimon - l´animale parlante che rappresenta l´anima di una persona - Nicole Kidman sceglierebbe «un gattino, perché amo il latte, mi piace dormire e adoro essere coccolata. Però in certi giorni una tigre mi rappresenterebbe meglio, non credo ci sia bisogno di spiegare perché». Nel film di Chris Weitz dal libro di Philip Pullman, il daimon di Nicole Kidman è una scimmia dorata, iraconda e aggressiva, perché è l´anima di Marisa Coulter, il suo personaggio, una donna crudele e assetata di potere, che non esita a far sparire bambini per conto del Magisterium, l´entità che controlla l´umanità con un potere assoluto che nega il libero arbitrio e le ricerche della scienza. Per il Magisterium la «bussola d´oro», lo strumento che porta la conoscenza della verità, è una minaccia da distruggere e Lyra, la bambina di 12 anni che la possiede, per tenerla affronta mille pericoli in un mondo popolato di Gyziani (nomadi che vivono sull´acqua), streghe volanti (la più bella è Serafina Pekkala, Eva Green), orsi guerrieri, Ingoiatori che rapiscono i bambini, tartari e ogni tipo di daimon e animale immaginabile.
Prodotto dalla New Line e presentato in anteprima a Londra, La bussola d´oro uscirà in Italia il 13 dicembre distribuito dalla 01. Lo precedono polemiche e condanne da parte di organizzazioni cattoliche che vedono nel Magisterium un´accusa al potere religioso. Forse nei libri di Pullman i riferimenti religiosi sono più espliciti e l´insistenza sulla violenza contro i bambini suggerisce un´accusa alla pedofilia, ma nel film i toni sono sfumati e, dice la Kidman, «ne parlano senza aver visto il film, persone contrarie ad ogni critica o dialogo. Quando lo vedranno sono certa che ogni accusa si dissiperà. Ho avuto un´educazione cattolica, non avrei mai fatto un film antireligioso, mia nonna non me l´avrebbe perdonato. Non sono un´appassionata del genere fantasy ma questo film, va oltre la fantascienza, mi interessa il tema del libero arbitrio e la signora Coulter è un personaggio ricco che attraversa stati d´animo e pulsioni diverse, dalla crudeltà alla dolcezza di sentimenti materni, si trasforma nel corso della trilogia», dice la Kidman. E, come il resto del cast - dalla giovanissima Dakota Blue Richards (Lyra) a Daniel Craig che tra un Bond e l´altro ha infilato il ruolo di Lord Asriel, lo scienziato legato a Lyra, pronto a tutto pur di scoprire la verità di nuovi mondi - chiede di non giudicare il personaggio in questo primo film. La fine di La bussola d´oro infatti è spudoratamente sospesa, è, come dice il regista, «volutamente un lancio per La lama sottile e Il cannocchiale d´ambra, gli altri due titoli della trilogia di Pullman "Queste oscure materie".
Il progetto della trilogia (pubblicata in Italia da Salani), soddisfa l´ansia del cinema di trovare eroi per un pubblico giovane che, come Harry Potter o il popolo di "Il signore degli anelli", creino attesa e garantiscano il successo in serie. E che in questo caso «l´eroe sia al femminile e il futuro delle nuove generazioni sia affidato a una bambina per me è un elemento di interesse in più. Del resto è vero che il futuro del mondo è affidato ai nostri figli. Io ne ho due e, come tutti i genitori, sento la responsabilità di come educarli», dice la Kidman. Che ha firmato per i prossimi due film («Vedrete se sarò più cattiva io o Daniel Craig») e persevera in un´attività intensa e senza sosta, con il rischio di scelte infelici, come gli ultimi titoli - Fur, Vita da strega, Invasion, ecc. - e il sospetto di una carriera in bilico. A prescindere dall´esito di La bussala d´oro, l´attesa è per Margot at the wedding, interpreta una scrittrice, in crisi con se stessa e la sua famiglia.
«Da nove mesi vivo tra gli Usa e l´Australia, dove sto girando Australia con Buz Luhrmann, una vicenda d´amore che attraversa momenti epici della storia del nostro paese. Intanto ho fatto Margot, ed è vero che sto lavorando molto, troppo. Ma ho 40 anni, è un momento critico, che ho la fortuna di vivere senza contraccolpi, le offerte sono quelle di prima, non oso rifiutarle, sarebbe come voltare le spalle alla fortuna. E non importa se qualche film non va bene, per me ogni personaggio che faccio è importante, significa esperienza, significa crescita».
Con la signora Coulter è tornata all´esperienza di lavorare con bambini, dopo The others o Io sono Sean, una delle sue prime scelte bizzarre e tutt´altro che fortunate. Ma soprattutto «ho fatto l´esperienza di lavorare non solo con attori ma anche con animali, creature e oggetti inesistenti, da creare dopo al computer. Non ho avuto difficoltà, ho recuperato la memoria delle prime lezioni di recitazione, si imparava a "fare finta", si parlava a interlocutori inesistenti. E dopo un film come Dogville, dove non esisteva neanche un dettaglio di scenografia, non mi spaventa più nulla. Nel futuro del cinema il computer c´è, temo che sarà sempre più usato».

l’Unità 28.11.07
Clima, l’Onu richiama i ricchi: in pericolo oltre un miliardo di poveri
di Pietro Greco


Per il rapporto dell’Undp saranno loro a pagare il prezzo più alto dei mutamenti dovuti ai gas serra. Servono 86 miliardi di dollari

FATE ATTENZIONE ai poveri del mondo. Perché sono loro che pagheranno il prezzo più salato per i cambiamenti del clima accelerati dall’uomo. Il monito è del
Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), che ieri ha reso pubblico il suo rapporto 2007/2008 sullo Sviluppo Umano dal titolo piuttosto esplicito: «Combattere il cambiamento del clima: la solidarietà umana in un mondo diviso». Ed è rivolto alla parte ricca del mondo, che è anche la principale responsabile dell’aumento della temperatura media del pianeta e dei suoi effetti. Si tratta di un monito tempestivo, perché lunedì 3 dicembre, si apre a Bali la conferenza dell’Onu che dovrà decidere il futuro del Protocollo di Kyoto e, quindi, le modalità con cui il mondo deciderà di combattere quella che molti, ormai, ritengono la più grave minaccia che incombe sull’umanità nel XXI secolo. Ma si tratta anche di un monito che scende nel dettaglio e diventa un vero e proprio programma politico. Con una sua coerenza. E una sua forza.
I dati scientifici di riferimento sono quelli dell’Ipcc: la temperatura media del pianeta è aumentata di 0,72 °C nell’ultimo secolo. E aumenterà ancora di un valore compreso tra 1,8 °C e 4,0 °C entro il 2100. L’incertezza dipende anche dalle scelte politiche che, nel frattempo, adotteremo. Cosa comporterà, in termini economici e sociali, un cambiamento del clima che non ha precedenti negli ultimi millenni? Gli esperti dell’Undp non hanno dubbi. Peggiorerà in maniera insopportabile le condizioni di vita della fascia di popolazione più povera del mondo. L’alta temperatura irromperà in diversi modi nei campi, rivoltando il sistema agricolo di molti paesi. Entro i 2060, l’agricoltura a sud del Sahara subirà un calo di produttività del 26%. A livello mondiale altri 600 milioni di persone (in aggiunta agli 800 attuali) soffriranno la malnutrizione. E, entro il 2080, altri 1,8 miliardi di persone soffriranno la sete. In tutto il mondo i rifugiati ambientali potrebbero essere oltre 330 milioni.
Ma anche sul piano sanitario i rischi saranno diffusi. Altre 400 milioni di persone, per esempio, saranno minacciate dalla malaria. Lo scenario dell’Undp, dunque, conferma e rafforza quello proposto nei mesi e nelle settimane scorse dagli scienziati dell’Ipcc. Ma l’Undp chiama anche a una precisa azione politica. Dobbiamo andare «oltre Kyoto» anche perché non possiamo far pagare ai poveri le colpe dei ricchi. E in maniera così drammatica. Che fare, dunque? Muoversi lungo due direzioni: cercare sia di prevenire che di adattarsi al clima che cambia. Chiamando i ricchi alla solidarietà attiva verso i più poveri. In tema di prevenzione, è bene che da Bali parta un processo con tappe ben definite per la riduzione delle emissioni di gas serra. L’accordo può essere raggiunto su questa base: i paesi sviluppati, che hanno responsabilità storiche, si impegnino a ridurre le loro emissioni del 30% rispetto ai livelli di riferimento del 1990 entro il 2030 e dell’80% entro il 2050. Nel medesimo tempo i paesi a economia emergente e i paesi ancora in via di sviluppo accettino di ridurre le loro emissioni del 20% entro il 2050, sempre rispetto al 1990 come anno di riferimento. Tutto ciò avverrà a un costo pari all’1,6% del Pil mondiale. Una cifra grande, ma inferiore di un terzo abbondante alla spesa militare. Un prezzo giusto per sventare la più grave minaccia alla sicurezza dei cittadini del pianeta. Se questo avverrà, riusciremo a mantenere la concentrazione di anidride carbonica entro il livello di 450 parti per milioni e limiteremo a soli (si fa per dire) 2 °C l’aumento della temperatura media del pianeta.
Ma due gradi sono ancora molto. Anzi, moltissimo. Cosicché oltre a prevenire dovremo anche adattarci ai cambiamenti del clima. Inutile dire che i ricchi hanno le risorse, finanziarie e tecnologiche, per farlo. Non avranno questa capacità i poveri del mondo. Ecco perché i ricchi dovranno aiutare i poveri. Finanziando le loro possibilità di adattamento. Il prezzo della solidarietà è stato fissato dall’Undp in 86 miliardi di dollari l’anno da raggiungere entro il 2015. Non è un prezzo impossibile. Ma è alto. A tutt’oggi gli aiuti che ogni anno i paesi ricchi trasferiscono ai paesi poveri per aiutarli ad adattarsi al clima non superano i 26 milioni di dollari.

l'Unità Firenze 28.11.07
Jervis. Etica laica e religione, una battaglia aperta
di Renzo Cassigoli


Il rapporto tra etica laica e religione è al centro del dibattito pubblico in Italia, più in generale in Europa e negli Stati Uniti. Anzi, possiamo dire che il concetto di laicità ha assunto dimensioni planetarie dovendo fare i conti con gli integralismi, i fondamentalismi, con i compiti e i limiti delle società democratiche dinanzi ai problemi della bioetica e dello sviluppo della scienza in un sistema ormai globale. Dopo oltre due secoli , insomma, si torna a discutere del valore e del significato dello Stato laico in un confronto-scontro che sembra senza soluzione di continuità. Sono questi gli argomenti che Giovanni Jervis affronta sul piano scientifico in un saggio molto intenso intitolato Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, che sarà presentato oggi alle Oblate di Firenze (ore 17.30, ingresso libero). Esplicito il riferimento a Sigmund Freud, che definiva illusioni quella varietà di errori della mente che incidono sulla nostra vita, sui quali Jervis invita a riflettere. In questo contesto gli aspetti psicologici posti dai grandi temi sociali assumono per l’autore un’importanza crescente rispetto a questioni che possono essere chiarite se riusciamo a comprendere i punti deboli del nostro comune modo di pensare. «Per molti anni - scrive - ho diviso il mio tempo fra l’ascolto di persone in difficoltà e l’insegnamento universitario. Dai pazienti ho imparato ad addentrarmi con cautela nella debolezza delle cose umane; dagli allievi a connettere, nei limiti del possibile, la psicologia del buonsenso con la psicologia scientifica». Una riflessione importante quella di Jervis, visto che oggi sul tavolo non c’è solo il confronto con vetusti dogmi o astratti principi, ma il sostanziale contenuto di diritti sociali, umani, di cittadinanza che impongono un nuovo modo di pensare e nuove regole rispetto a quelle dettate da una visione confessionale che ignora e condanna la diversità. Valgano tre esempi: i diritti negati alle coppie di fatto, ma concessi a chi ha il potere; la difesa della salute che porta a combattere il flagello dell’Aids con l’astinenza piuttosto che con la contraccezione; il diritto di decidere della propria vita mediante il testamento biologico. Regole che garantiscano tutti i cittadini lasciando libera la coscienza religiosa di ognuno di accettarle o meno. Fa riflettere sul piano scientifico e umano la conclusione a cui giunge Jervis. «In un’epoca caratterizzata dalla crisi delle ideologie politiche e dal tramonto delle utopie rivoluzionarie, l’attenzione ai limiti della natura umana presenta una rilevanza inedita. Ammaestrati dal fallimento dei grandi sistemi siamo più attenti agli “errori della mente”, consapevoli di essere esposti a illusioni sociali. Accesi antagonismi riguardano oggi la bioetica e il significato dell’evoluzionismo darwiniano, che coinvolgono temi politici e problemi di psicologia. Viene talora ripetuto che il conflitto fra fede e scienza potrebbe essere un falso problema. Il contesto è invece serio e profondo e non pare destinato a risolversi con facilità».

Corriere della Sera 28.11.07
Medicina La rivista scientifica «Lancet» riapre le polemiche
«E' provato: l'omeopatia è inutile»
di Margherita De Bac


Uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista di medicina The Lancet stronca severamente l'omeopatia e altre medicine alternative, come l'agopuntura. L'efficacia dei farmaci omeopatici non presenta «vantaggi significativi rispetto ai placebo », anzi, ci sono «inattesi effetti collaterali». Insorgono i produttori di preparati omeopatici.

Lo studio Censurata la «mancanza di informazioni». Londra taglia i fondi
«L'omeopatia è un placebo: effetti collaterali inattesi»
Nuova ricerca di Lancet. I farmacologi: basta aiuti

ROMA — Efficace come un placebo. Finta medicina. O, se preferite, acqua fresca. Stangata di Lancet, la prestigiosa rivista di scienza, sull'omeopatia. Un articolo firmato sull'ultimo numero da Ben Goldacre, autore di un commento affilato anche sul quotidiano britannico Guardian,
stronca la più gettonata delle terapie alternative citando cinque ampie revisioni degli studi condotti negli ultimi anni. Tutti, sostiene, portano alla stessa conclusione: «Non sono stati evidenziati vantaggi significativi rispetto ai placebo».
Non basta. Goldacre insiste nel colpire duramente denunciando gli «inattesi effetti collaterali» e la mancanza di informazione adeguata. Seguono, sempre su Lancet,
due servizi sull'ondata antiomeopatica nel Regno Unito, dove il governo ha tagliato i fondi pubblici ad alcuni centri che prescrivono le cure dolci, e sul buon vento che soffia in India dove il mercato sta crescendo del 25% all'anno, sostenuto da 100 milioni di pazienti.
Alle insinuazioni replicano i Laboratoires Boiron, una delle maggiori aziende del settore, che cita i risultati di sperimentazioni condotte secondo le regole corrette dal punto di vista metodologico. Vengono rivendicati gli «effetti benefici degli interventi con omeopatia». «L'ennesimo attacco scientificamente ingiustificabile» è annoverato fra le attitudini sfavorevoli «al progresso nella conoscenza. L'omeopatia è una vera e propria chance per la medicina di domani — argomenta Boiron — ma non ce la fa da sola, ha bisogno di condividere il percorso con gli scienziati, mondo accademico e realtà ospedaliera ».
Polemiche anche in Italia dopo la divulgazione del documento della società italiana di farmacologia, la Sif, nell'ultimo numero della Newsletter. Bocciate oltre all'omeopatia («la forza delle evidenze che scaturisce dagli studi pubblicati è bassa e vengono in genere riportati risultati negativi»), agopuntura («efficacia moderata come nel caso delle patologie infiammatorie croniche»), medicina tradizionale cinese (« su di essa esistono limitatissime informazioni, carenza aggravata dalle difficoltà legate alla lingua») e fitoterapia. Meno duro il giudizio sulle erbe: «Da anni molti medici in Italia le usano e hanno maggiore familiarità. Le prove di efficacia però non sono sempre entusiasmanti e se prescritte con troppa disinvoltura possono portare qualche guaio».
Achille Caputi, presidente della Sif, spiega le ragioni dei farmacologi: «Per il servizio sanitario è un momento di estreme difficoltà economiche e non vediamo perché bisognerebbe rimborsare cure che non funzionano, come vorrebbe la proposta di legge in discussione al Parlamento ». Sono circa 200 i centri ospedalieri e di Asl che rimborsano le altre terapie (salvo versamento di ticket e prodotti a carico del paziente), grazie all'autonomia di spesa delle Regioni.
La popolarità delle terapie alternative in Italia è per la prima volta in calo secondo l'ultima indagine Istat, 60 mila famiglie intervistate nel 2005. Gli italiani che almeno una volta hanno combattuto raffreddore, influenza e dolori intestinali o reumatici sono 7 milioni e 900 mila, un milione in meno rispetto al '99. Il motivo? Maggiore prudenza dopo gli articoli scientifici non rassicuranti.

il manifesto 28.11.07
Falce e martello La sinistra unita rinuncia al simbolo. E si apre la gara per l'eredità
Per un pugno di voti rossi
di Daniela Preziosi


Vintage nell'urna Per i pubblicitari è roba vecchia. Per i sondaggisti vale dallo 0,1 all'1, 5 per cento. Ma il semiologo Calabrese avverte: attenti alle rottamazioni facili, ha una potenza comunicativa eterna La Cosa rossa abbandona il vessillo degli operai e dei contadini poveri. Che però ha già i suoi pretendenti. Marco Rizzo, Pdci, perché intende «restare comunista». Ma non solo reduci. Salvatore Cannavò, della sinistra Critica: «Nel caso, sceglieremo la versione più sobria»

Abbiamo un altro progetto, più vitale». Cannavò viene dal trozkismo di Livio Maitan. Che aveva come simbolo una falcemartello rovesciata. «Non rovesciata, era quella originaria. Ma nel caso, sceglieremo la sua versione più conosciuta, la più sobria». Così elegante.

«No, non si fa. Applicare alla politica le categorie del marketing è cinico e riduttivo. Però...». C'è un però nel discorso di una pubblicitaria come Annamaria Testa. Ed è: però se le si chiede, come fa il manifesto,quanto appeal ha oggi la falcemartello, il simbolo che fu di Lenin a significare che la rivoluzione d'ottobre era stata fatta dagli operai e dai contadini poveri...«Ecco vede, la gente ancora si commuove. Però...».«Però i simboli devono avere una rispondenza con la realtà. Oggi in fabbrica chi lavora più con il martello? Nessuno. E in campagna chi lavora con il falcetto? Nessuno».
Terribile e elegante, moderno e archetipico, famoso e famigerato. Trinariciuto e ingombrante. Ma non c'è aggettivo che potrà salvare la falcemartello dalla rottamazione. Non sarà fra le insegne dell'imminente federazione della sinistra. Resterà sulle tessere dei due partiti comunisti (Rifondazione e Pdci). Ma un marchio politico che non va sulla scheda elettorale è fatalmente destinato alla dissolvenza. L'ultimo a rassegnarsi è Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, che sulla conservazione dell'attrezzistica rivoluzionaria ha consumato l'ultimo strappo. Novembre 2005, Armando Cossutta, presidente e padre del partito, nonché suo personale ispiratore, dichiarò al Corriere della sera che alla falcemartello si poteva rinunciare in nome di più avanzate alleanze. Tempo sei mesi l'anziano Cossutta, ultimo partigiano del parlamento, si accomodava nel gruppo misto del senato.
Benché anziana signora, la falcemartello esercita ancora un suo fascino. «Se non proprio un mercato, diciamo che ha un suo mercatino», ci dice il sondaggista Renato Mannheimer. O, meglio, dice il collega Alessandro Amadori: «Ha avuto un grande mercato. Per fortuna non siamo più negli anni 90, quando si abbattevano i simboli. Ormai funziona il vintage». E non importa che i due oggetti sono ormai abbandonati in una rimessa, forse persino sconosciuti ai bambini del 2010. «Il reale significato non importa. Questo simbolo ha un potere comunicativo enorme. Il martello dà un'idea di pressione, la falce di taglio, di rivoluzione. Il lavoro e il cambiamento. Per l'eternità», dice Amadori. Ma, nel contingente: nel segreto dell'urna, dove Stalin ti guarda, può ancora funzionare? Perché fra le varie e ideali ragioni per le quali nel Pdci si resiste alla rottamazione, c'è la quasi certezza che qualcuno raccoglierà il simbolo e lo porterà sulla scheda elettorale. Che vale l'1-1,5 dei voti rossi, dice la voce comune. O no? Non è detto, secondo Ferdinando Pagnoncelli dell'Ipsos. «Per rievocare, questo simbolo ormai non ha più valore. Ha però il valore di ribadire. Intendo dice che sarà un elemento distintivo per un elettore un po' confuso che affronta una scheda grande come un lenzuolo». E' d'accordo il semiologo Omar Calabrese, uno dei padri della 'Quercia': «La falcemartello ha ancora un valore residuale. L'elettore si comporta così: se il simbolo nuovo è forte, quello vecchio lucra lo 0,1 per cento. Se è debole...». Ed è proprio il caso che temono quelli della Cosa rossa.
Chi sono i possibili nuovi falcemartelluti? Di sicuro Marco Ferrando, Partito comunista dei lavoratori: dove si è presentato ha preso l'1 per cento. Ma c'è chi teme il colpo di scena di Marco Rizzo, ormai in rotta con Diliberto. Ha appena pubblicato il libro Perché ancora comunisti che ha tutta l'aria di un preambolo a una contestazione in grande stile. «Questa unità a sinistra, sulla carta, è fatta al 70 per cento da comunisti. E non può avere, come sosteneva Diliberto fino all'ultimo comitato centrale, neanche un richiamo ai simboli del lavoro? Non sono d'accordo. Resto comunista, che ci posso fare? Ai tempi della Bolognina lo dicevamo tutti: il nome è la cosa. Quando uno smonta i simboli una ragione c'è. L'unità a sinistra cosa ha prodotto? Niente». Falcemartello, dunque, saranno raccolti dai custodi dell'ortodossia comunista? Non è detto. Salvatore Cannavò, deputato Sinistra Critica, l'area in partenza dal Prc, annuncerà la nascita di una nuova creatura a sinistra proprio l'8 dicembre, contemporaneamente all'assemblea della Cosa rossa. «Ogni volta che qualcuno butta qualcosa, mi viene da raccoglierlo. Sul simbolo rifletteremo. Ma sia chiaro: non ci interessa assemblare reduci.

il manifesto 28.11.07
Lo storico Canfora
Lenin direbbe: i simboli sono puro accidente Ma il comunismo non può essere archiviato
di Andrea Fabozzi


Sostiene di aver già «assaporato» le schede dove al posto della falce e martello c'era la barba di Garibaldi, e aveva solo sei anni d'età, e comunque non per questo il professore storico e comunista Luciano Canfora proverà dispiacere quando, questione di giorni, la sinistra italiana annuncerà la rinuncia al marchio comunista. «Nel mio leninismo assoluto - dice il professore - trovo incomprensibile tutto questo stare appresso ai simboli».
Eppure a incrociare falce e martello nel simbolo pare sia stato proprio Lenin.
Non vedo il dramma, non mi crea imbarazzo che scompaia un simbolo anacronistico. Non c'è nemmeno l'ombra dell'emozione che ci fu nel 1989. Come strumenti del lavoro la falce e il martello sono talmente anacronistici che già la Ddr aveva introdotto nella sua bandiera il compasso.
Scompare il simbolo perché possa dileguarsi anche la parola, «comunista»?
Questa è una sciocchezza, mica l'hanno inventata i sovietici nel '17 e nemmeno Marx ed Engels. Potremmo risalire al primo secolo avanti Cristo. Aristofane fa una critica molto aspra del comunismo nelle Donne al parlamento. Semmai una parola moderna è liberalismo. Neanche Pericle l'ha mai pronunciata. Mi creda, la partita comunista è aperta e i nomi sono puri accidenti.
Dice così perché la falce e il martello non le sono mai tanto piaciuti.
Ma no, si tratta di un simbolo che ha avuto la sua forza. Però come ci ha insegnato Eraclito non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume. La lezione vale anche per queste cose. La storia è un movimento perenne, al tempo loro falce e martello furono un ottimo simbolo, adesso da molto tempo non lo sono più. La controprova? Quando il Pds cambiò emblema la cosa non giovò quasi per nulla a quelli che conservarono il simbolo comunista.
Veramente ricordiamo schede dove il voto per il Pds era espresso con una piccolissima croce alla base della Quercia, esattamente sopra quello che restava della falce e martello.
Ah sì? E io ricordo alle elezioni politiche del 1953 che molti onesti proletari mettevano la croce due volte, sia sul simbolo del Psi che su quello del Pci, convinti così di rafforzare il voto per la falce e martello. Vede quanto sono ingannevoli i simboli? Quelle schede naturalmente finivano annullate.
Eppure il Pci aveva quei manifesti semplici, solo il simbolone e «vota comunista».
Quel simbolo, la bandiera rossa con falce, martello e stella sovrapposta alla bandiera d'Italia, rappresentava già una bella rottura con l'ortodossia comunista. Quando Togliatti lo fece disegnare da Guttuso era in auge il Comintern, e invece il Pci si metteva a rivendicare l'orgoglio nazionale.
Ragione per cui insisto: nemmeno un po' di nostalgia di fronte a questo tramonto?
Senta, le ricordo quello che disse Luigi Russo a Giuseppe Saragat quando fece la scissione di palazzo Barberini. Gli disse che era il Daniele Cortis della politica italiana, quel personaggio del romanzo di Fogazzaro che piange continuamente. Nessuno di noi dovrebbe fare politica con le nostalgie e i piagnistei. La politica è verità. E anche voi giornalisti dovreste evitare di assecondare l'inclinazione a perdere tempo dei nostri politici.
A prescindere dal simbolo, allora, il fatto che la sinistra dell'Unione tenti di mettersi insieme le sembra utile e interessante?
Lo sarebbe. Il partito democratico è un partito di centro e qualcuno dovrà pur interessarsi di quella parte della società italiana che vede dimezzarsi il suo potere di acquisto. Dunque una sinistra unita sarebbe certamente una cosa utile. Ma non credo che gli attuali dirigenti siano adatti a farla. Litigano su tutto come in un condominio di periferia, meglio sarebbe cercarsene di nuovi.
Nuovo per nuovo torniamo al simbolo, se la sente di suggerire qualcosa?
Dovrei interrogare le Muse, mi dia cinque minuti.
(...)
Pronto, professore, cosa suggeriscono le Muse per il nuovo simbolo della sinistra?
Mi hanno fatto ripensare al mappamondo di Unità proletaria. Se lo ricorda? Non era male. Del resto siamo internazionalisti e l'unità del genere umano la predica anche il vangelo. Avremmo dei potenti alleati.

il manifesto 28.11.07
Un luogo per orientarsi tra il pieno e il vuoto
di Maria Teresa Carbone


Oggi a Perugia la conferenza sui disturbi alimentari
Intorno al tema «Luoghi e spazi della cura nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare» si tiene oggi al Centro congressi dell'Hotel Giò di Perugia la conferenza programmatica promossa dalla Direzione Regionale Sanità e Servizi Sociali della Regione Umbria. Articolato su due sessioni, «I luoghi della cura» e «La rete degli interlocutori», l'incontro si propone come la prima vera occasione di riflessione sui bisogni di salute, sui modelli organizzativi e sulle effettive ricadute degli
interventi assistenziali nella popolazione interessata da queste patologie.

Lontani i tempi in cui gli studi dell'antropologo Edward Banfield fecero diventare il centro lucano di Chiaromonte un emblema dell'arretratezza meridionale. Oggi il paese ospita un servizio pubblico modello per la cura dell'anoressia e della bulimia

A Chiaromonte si arriva da Lauria, sulla Salerno-Reggio Calabria. È qui che si imbocca la superstrada Sinnica, quaranta chilometri attraverso il parco nazionale del Pollino: grandi rocce scavate dal vento, una vegetazione fitta ammantata dei colori dell'autunno, fiumare asciutte pronte a gonfiarsi di acqua nei mesi invernali. I segni della presenza umana sono rari: non si incrociano molte macchine, e i pochi paesi che si vedono in alto sulle colline appaiono isolati, raccolti. Chiaromonte non fa eccezione: un piccolo centro abitato di poco più di duemila abitanti, il cui nucleo storico è arroccato su uno sperone roccioso, mentre più in basso, a mezza costa, si trovano le case più recenti, costruite nell'ultimo mezzo secolo. E proprio mezzo secolo fa, nel 1958, questo paese così appartato fornì all'antropologo statunitense Edward Banfield i materiali per un saggio, Le basi morali di una società arretrata, divenuto famoso per una formula fin troppo fortunata, «familismo amorale».
Suona quindi come un felice paradosso che «Montegrano» (come Banfield ribattezzò nel suo studio Chiaromonte), emblema dell'arretratezza e dell'inerzia meridionale, ospiti da circa un anno una struttura di riferimento, nel nostro paese e anche all'estero, per i disturbi del comportamento alimentare: il primo centro residenziale pubblico di cura del Mezzogiorno e il secondo in tutta Italia dopo l'esperienza pilota di Palazzo Francisci a Todi. Ma forse di paradosso si tratta solo in parte, e anzi non è un caso che appunto in una località così piccola, dove la capacità e i tempi dell'ascolto sono di certo ancora oggi più elevati rispetto alle grandi città, abbia trovato sede questa struttura, nella quale l'anoressia e la bulimia, insieme alle forme sempre più numerose e sfuggenti in cui si declinano oggi i «disturbi alimentari», vengono infine affrontate (e curate) come disagi che investono tutti gli aspetti della personalità.

La spia di un bisogno diffuso
La storia del centro «Giovanni Gioia» di Chiaromonte lo conferma. Sono passati poco più di due anni da quando i genitori di una ragazza anoressica, che avevano dovuto sostenere spese molto ingenti per fare curare la figlia in un centro privato svizzero, si rivolsero alla Asl di Lagonegro per sapere se avrebbero avuto diritto a una qualche forma di rimborso. Una pratica burocratica fra le tante; ma i responsabili della Asl, e in particolare il direttore Mario Marra, si resero conto che il problema di quella famiglia era la spia di un bisogno diffuso, al quale non si era ancora fatto fronte, nonostante l'attenzione crescente (ma spesso superficiale) che la stampa e i media dedicano da qualche anno tempi ai «disturbi dell'alimentazione».
Secondo i dati ministeriali sono circa due milioni i ragazzi che in Italia soffrono di problemi connessi al comportamento alimentare e decine di milioni nel mondo si ammalano ogni anno. Ogni cento ragazze, nella fascia compresa tra i dodici e i venticinque anni, dieci soffrono di disturbi più o meno lievi, e una o due delle forme più gravi come anoressia e bulimia. Dati, d'altronde, che con ogni probabilità sottovalutano il fenomeno, poiché si riferiscono a quasi dieci anni fa e non tengono conto del fatto che negli ultimi tempi quella che era una patologia quasi esclusivamente femminile colpisce un numero sempre più alto di ragazzi, e che oltre i venticinque anni sono tante, oggi, le donne affette dal binge eating disorder, le abbuffate compulsive le cui conseguenze non sono meno pesanti rispetto all'anoressia o alla bulimia. Eppure, malgrado una situazione tanto drammatica, la risposta della sanità pubblica è stata finora frammentata, disorganica, lenta (come documenta la scheda in basso).
Ma a incoraggiare Marra in questa impresa, che si presentava al tempo stesso indispensabile e temeraria, è stato soprattutto l'incontro con una psichiatra di Perugia, Laura Dalla Ragione, responsabile del progetto che ha trasformato il cinquecentesco Palazzo Francisci di Todi nella prima struttura pubblica per i disturbi del comportamento alimentare: fino all'anno scorso - appunto fino all'apertura del centro di Chiaromonte - l'unico posto dove nel nostro paese fossero riuniti i quattro livelli terapeutici (l'ambulatorio, il day hospital, la residenza e la struttura riabilitativa). Ma soprattutto un posto speciale, dove la vita delle ragazze si scandisce in un ritmo armonioso e costante di attività diverse, dalla musica all'arte alla danza, capaci di attirarle fuori dalla solitudine di cui sono prigioniere e di dare loro, anche grazie a un rapporto più equilibrato con il cibo, una nuova percezione del proprio corpo e di sé.
All'ingresso, una citazione di Plotino, «L'anima ha bisogno di un luogo», riassume meglio di tante parole l'orientamento dei terapeuti di Palazzo Francisci. (E infatti, proprio questo titolo ha scelto la responsabile del centro umbro, Laura Dalla Ragione, per un saggio sui disturbi alimentari e la ricerca dell'identità scritto insieme alla specialista di medicina integrata Simonetta Marucci e appena uscito per Tecniche nuove).
Realizzato in tempi eccezionalmente brevi, un anno circa, grazie all'impegno della Asl di Lagonegro ma anche del sindaco di Chiaromonte, Luigi Viola, che ha da subito creduto molto in questo progetto, il centro «Giovanni Gioia» è davvero «un luogo per l'anima». Da fuori, l'edificio che lo accoglie, un piccolo ospedale costruito negli anni Sessanta e oggi dismesso, appare piuttosto anonimo, simile a tante strutture sanitarie dello stesso tipo sparse per l'Italia. Oltrepassata la porta, però, appare evidente lo sforzo dei responsabili di dare agli ambienti un calore che non ha nulla di ospedaliero, dalle camere a due letti, non troppo diverse - con le loro scrivanie, le coperte colorate e i manifesti alle pareti - da quelle che gli ospiti (per lo più ragazze sui vent'anni, ma anche donne mature e perfino un fragile adolescente appena arrivato, e all'apparenza ancora smarrito) hanno lasciato nelle loro case, ai grandi ambienti comuni, dove la giornata scorre secondo un calendario ben cadenzato. Un ordine tranquillo e insieme rigoroso che gli ospiti si sono impegnati, al momento dell'ingresso, ad accettare, firmando un preciso «contratto terapeutico».
Sono queste regole di base - prendersi cura della propria salute, evitare comportamenti autolesivi, come nascondere cibo o bere quantità esagerate di acqua o girare per la residenza nelle ore notturne - a rappresentare il primo passo verso la guarigione, grazie al sostegno costante di un nutrito numero di operatori. In tutto, infatti, la «casa» accoglie sedici ospiti, più dieci in semiresidenza, continuamente assistiti da una quarantina di diverse figure: educatori, psicologi, dietisti, terapeuti che si occupano delle varie attività, dall'arte alla educazione corporea e perfino all'ippoterapia e all'onoterapia (gli umili asini si sono rivelati terapeuti incredibilmente efficaci).
«A un anno circa dall'apertura del centro, il bilancio è molto positivo» commenta con evidente orgoglio la responsabile del centro, la psicoterapeuta Rosa Trabace, che non nasconde tuttavia la difficoltà di far funzionare un sistema complesso, così lontano dal rigido modello ospedaliero e basato invece sull'incrociarsi di competenze diverse: «C'è un grande investimento di energie, ma al termine dei tre o quattro mesi del periodo di residenza le ragazze sono finalmente pronte ad affrontare la fase forse più delicata, il rientro a casa, che prevede comunque una serie di incontri di sostegno».

Nuovi progetti
Mentre escono chiacchierando a bassa voce dalla grande sala dedicata alle attività artistiche, tutta tappezzata di disegni e di collage, le ragazze assomigliano a tante loro coetanee, le facce sorridenti, le felpe colorate, le unghie smaltate di nero. Sarà al momento dello spuntino di metà mattina (uno dei cinque pasti in cui si cadenza la giornata), che affiorerà un po' di smarrimento, di tensione. Davanti al frutto o alla fetta biscottata - ogni ospite ha un programma di alimentazione individuale, studiato da dietologi e nutrizionisti - qualcuna sembra perdersi in un vortice scuro di timori. Ma gli educatori e la dietista girano fra i tavoli, incoraggiando le riluttanti con una battuta, un sorriso. I tempi devono essere rispettati, non è consentito attardarsi.
In un'altra sala, due terapeute, in attesa dell'arrivo delle ospiti, dispongono sul pavimento una serie di immagini di fiori tutti diversi: è un progetto nuovo, spiegano, che coinvolge numerose attività, dall'arte alla musica all'espressione corporea, e che porterà (ma le ragazze non lo sanno ancora) a una sorta di piccolo spettacolo finale. Osservando questi fiori così attraenti nella loro varietà e immedesimandosi nelle loro forme attraverso immagini, suoni, movimenti, le ragazze potranno cominciare a riflettere da una prospettiva che avevano dimenticato su di sé e sul proprio corpo, questo corpo che è al centro della loro ossessiva attenzione e che nei tre o quattro mesi di ricovero imparano, alla lettera, a «riscoprire».

Educazione all'autostima
Non ci sono specchi, infatti, sulle pareti del centro, ma una volta la settimana ognuna a turno incontra, guidata dallo psicoterapeuta, la propria immagine, in quello che rappresenta uno dei momenti più importanti di questo percorso tanto faticoso quanto affascinante. «La terapia dello specchio - spiega la psicologa Ada Nubile - si scandisce in sette appuntamenti, dal primo, in cui la ragazza si guarda ancora avvolta negli abiti ampi che il regolamento prevede, fino all'ultimo, quando arriva il momento di affrontare il corpo nella sua nudità, coperto solo da un costume da bagno». Una progressiva educazione alla autostima e alla percezione realistica della propria immagine, ma anche, soprattutto, il ritrovamento dentro di sé di quel «luogo» che «l'anima» sembrava avere smarrito.

Liberazione 27.11.07
Melandri Turco Pollastrini non avete capito nulla
di Angela Azzaro


Se c'è qualcuna che sabato ha dato il peggio di sé, non sono le donne che hanno contestato ministre ed ex ministre, ma proprio le politiche che hanno dimostrato di non aver capito nulla, né della manifestazione, né delle proteste.
Partiamo dalle reazioni. Le più furiose sono state quelle di Stefania Prestigiacomo e di Giovanna Melandri. «Chi è stato deve pagare» ha detto la prima. «Cretine e sciagurate» ha detto la seconda diretta alle manifestanti che l'avevano cacciata dal palco di La7. Barbara Pollastrini e Livia Turco si sono contenute, ma in fondo hanno parlato delle contestatrici come di una minoranza di scalmanate. Tra una dichiarazione e l'altra, hanno avuto anche il tempo di chiamarsi per esprimersi solidarietà come avessero subito chissà quale violenza. Ci sarebbe da ridere, se non fosse preoccupante il segnale che arriva: nella democrazia in crisi ormai cronica, il dissenso non è più legittimo, non è più possibile. O si sale sul carro del vincitore, oppure si deve stare zitti e zitte. Le manifestanti di sabato hanno detto che non ci stanno, che vogliono parlare e che nessuna, davvero nessuna, è tenuta a farlo in loro nome. Tanto più se parla con il linguaggio delle ministre. Immaginatevi di invertire le parti. Che cosa accadrebbe, se davanti a una ministra che secondo noi non solo svolge male il suo ruolo, ma compie atti che disapproviamo, le dicessimo: «Hai sbagliato, devi pagare». Oppure «Sei una cretina, una sciagurata». Ci darebbero delle violente, forse scatterebbe anche una querela. La stessa regola dovrebbe valere anche per le ministre, soprattutto per loro che rappresentano le istituzioni. Invece, nessuno o quasi, si è indignato per le accuse rivolte alle manifestanti che esercitavano semplicemente il loro diritto al dissenso.
Ma su cosa dissentivano e perché? Le donne che hanno allontanato dal corteo prima Prestigiacomo e Carfagna, poi contestato e allontanato dal palco di La7 le tre ministre hanno posto almeno due questioni: di metodo e di merito. Ma prima di tutto bisogna chiarire una cosa: le contestatrici non erano uno sparuto gruppo, ma la maggior parte delle realtà che hanno lavorato all'organizzazione della manifestazione. Non quattro scalmanate, come sono state definite, ma quelle straordinarie giovani che senza nessun partito, nessun sindacato hanno portato tante donne in piazza per una manifestazione unica. Le organizzatrici avevano deciso non solo che quella manifestazione fosse solo di donne, ma che non ci fosse un palco finale per far sì che nessuna voce prevaricasse le altre. Tutte protagoniste allo stesso modo. Davanti alla crisi della rappresentanza, le protagoniste del 24 non hanno usato la solita scorciatoia di crearne un'altra, ma di provare davvero a giocare la carta della partecipazione, della pluralità. Si può facilmente capire la rabbia, quando - arrivate in piazza Navona - hanno trovato il palco di La7 con sopra le ministre che parlavano in loro nome. Le hanno allontanate con la loro voce, la loro forza, la loro voglia di cambiare le cose. Le ministre, il giorno dopo, hanno continuato a rivendicarsi quella presenza non capendo che la questione posta è quella dell'autonomia del movimento delle donne dalla politica istituzionale, è la libertà che non si misura nelle aule del governo. Se Melandri, Turco, Pollastrini avevano davvero a cuore le questioni poste con la manifestazione dovevano preoccuparsi prima (cosa che non hanno fatto) e il 24 stare a sentire, dare spazio alle donne che la politica e i media ufficiali cancellano ogni giorno. Sarebbe stato un atto di grande democrazia e di alta politica. Invece...
C'è poi una questione di contenuti che va chiarita. Il corteo di sabato non era un generico evento contro la violenza degli uomini sulle donne. L'appello iniziale ( www.controviolenzadonne.org ) non poteva lasciare dubbi, almeno di non averlo, colpevolmente, mai letto o di averlo voluto, appositamente e malignamente, fraintendere. Diceva infatti a chiare lettere che si manifestava contro la famiglia e il familismo, luogo dove avvengono il 90 per cento dei casi di violenza, e contro il pacchetto sicurezza considerato xenofobo e repressivo. Come è possibile allora che ministre ed ex ministre a favore del family day o del pacchetto sicurezza fossero alla manifestazione? Non è una forzatura, un uso strumentale, una violenza? Non è vero che bastava essere donne per partecipare a quella manifestazione, ma donne che la pensano in un certo modo. Immaginate che cosa succederebbe se a una manifestazione antirazzista venissero Borghezio o Calderoli? O che nel programma di Veltroni qualcuno scrivesse un capitolo sulla pace senza se né ma? Veltroni si arrabbierebbe e "allontanerebbe" quelle frasi così estranee alla sua idea della politica. Dire che le donne sono tutte uguali, è un altro atto di misoginia a cui la manifestazione del 24 ha indirettamente risposto ponendo al centro grandi questioni politiche. Questioni ineludibili.

Liberazione 27.11.07
Ricordate ancora Franco Basaglia?
di Alessandro Delfanti


Sono passati quasi trent'anni dall'approvazione della legge 180, o legge Basaglia, quella che ha chiuso i manicomi e ha messo l'Italia all'avanguardia nel campo della psichiatria del tempo. O meglio, dei diritti umani, applicati anche, guarda un po', agli utenti psichiatrici. A ricordare quel 13 maggio del 1978 contribuisce la ristampa di Non ho l'arma che uccide il leone (Stampa Alternativa, pp. 336, euro 15), uscito per la prima volta nel 1980, poco dopo la fine di quel periodo di lotte che aveva coinciso non per caso con gli anni settanta. L'autore, Peppe Dell'Acqua, è uno dei protagonisti dell'epopea del manicomio di San Giovanni a Trieste, il "Magnifico frenocomio" che con l'arrivo di Basaglia era diventato il principale laboratorio della liberazione dei matti dalle porte sbarrate, dalle inferriate e dal potere che si esercitava su di loro in tutte le piccolezze della vita quotidiana di un recluso in una "istituzione totale". Al centro del libro ci sono proprio le voci dei matti, gli internati di San Giovanni. Sono le storie di Boris, Tinta, Dorina, Doz, Elda, Rosina, Brunetta a guidare la narrazione, ad aiutare Dell'Acqua a ricostruire gli anni settanta di San Giovanni, quando lui era un giovane psichiatra, Franco Basaglia il direttore del manicomio e i malati un soggetto di liberazione collettiva insieme a infermieri e lavoratori dell'ospedale psichiatrico. Tutti insieme fecero cadere "le mura di Gerico del manicomio della città di Trieste", come scrive Basaglia nell'introduzione inedita che impreziosisce questo libro.
Il clima di San Giovanni in quegli anni era esplosivo. Al manicomio erano arrivati artisti, militanti politici, ma anche scolaresche, comitati di quartiere, musicisti, tutti attirati dalla forza dell'esperienza basagliana e spinti dall'energia che ha dato vita alle mille esperienze di liberazione degli anni settanta. Anni che si percepiscono anche nelle contraddizioni, nelle rotture, nella grandiosità delle assemblee generali "del giovedì", aperte a tutti, nella capacità di dialogare con i comitati di quartiere, per esempio, con i gruppetti della sinistra e con i bambini delle scuole elementari. Con tutti coloro che volevano passare i cancelli di San Giovanni: un manicomio aperto "in entrata e in uscita". Basaglia scelse di abbinare all'apertura delle porte dei padiglioni per far uscire i degenti, ormai non più coatti, l'apertura alla città: concerti, feste, gite, teatro. Ma un manicomio che divideva la città: Trieste si disperava per i matti liberati dai "comunisti cappelloni" di Basaglia, sguinzagliati per le sue vie, e allo stesso tempo gioiva per la riacquistata umanità dei suoi cittadini più reietti. In quella e nelle altre città del resto la malattia mentale si sovrapponeva con le divisioni di classe (è così ancora oggi, sosterrebbero in tanti), gli psichiatri erano il braccio armato della giustizia e gli infermieri erano secondini che non potevano far altro che rinchiudere e tener buoni i degenti.
Tra le tante storie raccontate una delle più note è quella di Marco Cavallo, il grande cavallo azzurro di legno e cartapesta che nella pancia conteneva i sogni e i desideri dei malati e che sfondò, ma sfondò per davvero, le porte e i muri di San Giovanni. Una volta finita la sua costruzione in uno dei laboratori che aprirono a San Giovanni e diedero ai malati la possibilità di fare arte, teatro, musica, ci si accorse che era troppo alto per passare dalle porte. Come racconta Dell'Acqua, «i malati cominciarono a pensare di avere solo sognato, secoli di grigio tornarono nelle loro teste, urla disumane assordarono le loro orecchie. Marco Cavallo, fremendo, testa bassa, cominciò una corsa furibonda, come impazzito, verso la porta principale e, senza più esitazione, oramai a gran carriera, aggredì quel pezzo di azzurro e verde oltre la porta. Saltarono i vetri e gli infissi. Caddero calcinacci e mattoni. Marco Cavallo arrestò la sua corsa nel prato, tra gli alberi, ferito e ansimante, confuso all'azzurro del cielo. Gli applausi, gli evviva, i pianti, la gioia guarirono in un baleno le sue ferite. Il muro, il primo muro era saltato». Dietro Marco Cavallo, che da allora cominciò a comparire qua e là per Trieste e per l'Italia, uscirono decine e decine di matti, per assaporare la libertà che era stata sottratta loro per anni. Sui muri dei padiglioni apparve anche la famosa scritta che si può leggere ancora oggi: "La libertà è terapeutica". Questa libertà passò, allora, per gesti e cose semplicissime: una spazzola, un foglio di carta e un pennello, una seduta dalla parrucchiera, e soprattutto il sospirato "Articolo 4" che trasformava il ricovero da coatto a volontario e inaugurava l'era delle gite fuori dal padiglione dal quale non si usciva da tempo immemorabile.
Un buco nero in cui sparire per sempre, questo era il manicomio prima delle lotte che lo hanno abbattuto. "Robe de mati."

Repubblica 28.11.07
Cinema e letteratura in un saggio di Caterina Selvaggi
I segretari dell'invisibile
di Simonetta Fiori


Il fenomeno non è nuovo, ma negli ultimi tempi ha registrato un notevole incremento: qualcuno lo chiama "cannibalismo", ma non si capisce "chi" mangia "cosa". Il cinema che divora la letteratura o viceversa ne è divorato? Un´occhiata ai film in sala (e ai festival) può esserne conferma: da I vicerè di Faenza all´ultimo lavoro di Coppola tratto da Mircea Eliade, sono innumerevoli le pellicole che ricavano ispirazione e nutrimento dalle opere letterarie, per non dire dell´ampia messe di titoli studiata dall´industria cinematografica per un pubblico preadolescenziale e in età puberale, come la serie del maghetto Potter o i film suggeriti da Moccia. E per la prossima stagione sono già al lavoro i registi Grimaldi e Ozpetek, il primo su Caos calmo di Veronesi e il secondo su Un giorno perfetto di Mazzucco. A ricordarci che è una storia antica e controversa provvede una densa raccolta di saggi di Caterina Selvaggi, Lo sguardo multiplo, che attraverso alcuni grandi come Bellocchio e Benigni, Bergman e Bertolucci, Dardly e Pasolini ripercorre con una strumentazione anche psicoanalitica quella relazione "parallela" e "contigua" già segnalata da Sklovskij nei tardi anni Venti (Franco Angeli, pagg. 128, euro 15; il volume sarà presentato stasera alle ore 19.15 al Cinema Trevi di Roma da Walter Pedullà, Giorgio Gosetti e Sergio Toffetti).
La storia del cinema è caratterizzata dalla migrazione della letteratura verso il grande schermo. Se l´impasto in alcuni casi è noto al grande pubblico - Via col vento o Ben Hur - può sorprendere che un western come Ombre rosse sia stato ispirato da Maupassant, segno dell´autonomia del codice cinematografico. Per spiegare in cosa consista la "contiguità" tra i due linguaggi - narrativo e filmico - la Selvaggi ricorre alla categoria della visione, dello «sguardo multiplo», come suggerisce il titolo del volume: la capacità di andare oltre il "visibile conosciuto e presunto" che accomuna le due modalità espressive. Il regista e lo scrittore come "segretari dell´invisibile", secondo un´efficace definizione del Nobel Coetzee. E forse non è un caso, ci ricorda l´autrice, che il cinema nasca proprio quando la letteratura a cavallo tra Otto e Novecento frantuma il suo sguardo per accogliere l´irruzione dell´inconscio e dell´irrazionale. L´espion è colui che guarda spiando, come il narratore della Recherche proustiana. Ed espion - sembra suggerire Caterina Selvaggi - è anche il regista: l´inquadratura utilizzata come confine del desiderio.

Liberazione 28.11.07
«La fiducia è legittima, ma crea evidenti difficoltà nei rapporti»
Bertinotti: «Salvare il ruolo delle Camere»


Ieri pomeriggio Fausto Bertinotti è intervenuto per manifestare la sua preoccupazione in relazione al ruolo che deve esistere tra Parlamento, governo e parti sociali. Il presidente della Camera ha sottolineato come il troppo frequente ricorso alla fiducia e ai maxi emendamenti rischia di mettere in pericolo le prerogative delle Camere. Ecco il testo del suo intervento.

«Non vi è dubbio che, alla luce della prassi consolidata, il governo possa, per prerogativa costituzionale, porre in ogni fase del procedimento legislativo la questione di fiducia, individuandone l'oggetto. Né è contestabile la prassi, anche qui consolidata, di accorpare in un unico emendamento più articoli di un progetto di legge a scopo fiduciario. Da questo punto di vista l'iniziativa del governo è dunque legittima e conforme a numerosissimi precedenti, verificatisi nel corso delle legislature. In tal senso si è pronunciata in passato la presidenza della Camera e, rispetto a quelle pronunce, non vi è nulla da aggiungere o rettificare. Devo tuttavia segnalare che la procedura cui ho fatto riferimento, e che il governo ha inteso percorrere nell'iter del disegno di legge collegato, ripropone una evidente, preoccupante difficoltà nel rapporto fra parlamento ed esecutivo, inducendo una riflessione sul nostro sistema istituzionale, così come, negli anni, si è andato evolvendo nella prassi. In questo contesto merita una riflessione attenta anche il tema del rapporto che intercorre - o deve intercorrere - fra le trattative e gli accordi che vedono protagonisti il governo e le parti sociali ed il ruolo delle Camere, in funzione della salvaguardia del carattere parlamentare della nostra forma di governo. Nel caso di specie voglio anche ricordare, dal punto di vista del metodo, come nella risoluzione alla nota di aggiornamento al Dpef, approvata dalla Camera il 4 ottobre scorso, fosse stato sottolineato, con riferimento ai disegni di legge collegati, "che l'utilizzo di più strumenti... può utilmente concorrere ad un più ordinato e più ragionato esame dei provvedimenti che compongono la manovra".
Ritengo quindi, di dover rappresentare, in termini generali, quella che appare un'esigenza istituzionale, emera non da oggi, che postula una adeguata precisazione dei rispettivi ruoli - e prerogative - del Parlamento e del governo.
Penso che tutti i gruppi parlamentari, a partire da quell'opportuna opera di revisione dei regolamenti, che è da più parti auspicata nel comune obiettivo di restituire piena agibilità al nostro sistema costituzionale e di garantire, in questo contesto, la pienezza delle prerogative parlamentari»

Liberazione 28.11.07
Fiducia sul welfare. Parlamento esautorato
Bertinotti furioso. Giordano: «Verifica»
di Angela Mauro


Con un maxi emendamento e la fiducia il governo blinda la maggioranza. Delusione del Prc: «Votiamo per un vincolo sociale, non più politico»
Per il presidente della Camera esiste «un'evidente preoccupante difficoltà nel rapporto tra l'esecutivo e il Parlamento». Stasera il voto in aula

E ' finito il primo tempo della legislatura? «L'hanno fatto finire loro...», dice Franco Giordano, concitato ma determinato in Transatlantico. Nessun velo, nessuna attenuante. Il Prc e il governo Prodi sono ormai ai ferri corti. La decisione dell'esecutivo di porre la fiducia sul pacchetto welfare è un «atto grave, perchè su previdenza e lotta alla precarietà il Parlamento dovrebbe poter discutere liberamente», spiega il segretario di Rifondazione. Ma è ancora «più grave» perchè il testo sul quale oggi l'aula della Camera confermerà la fiducia al governo non è quello modificato dalla Commissione lavoro di Montecitorio, bensì un maxiemendamento radicalmente rivisto dal governo per andare incontro ai ricatti di Dini (Confindustria), che in Senato non avrebbe votato la versione "migliorata" dalla sinistra, e anche per rispondere alle pressioni dei sindacati, contrari a cambiamenti sul protocollo firmato a Palazzo Chigi il 23 luglio scorso. Insomma, un problema di merito (perchè il maxiemendamento cancella gran parte delle modifiche volute dalla sinistra e fa contento Dini, lo vedremo nel dettaglio più avanti) e di metodo. E su quest'ultimo punto interviene anche lo stesso Fausto Bertinotti, che non ci sta a veder "declassato" il Parlamento in una pura funzione di notifica degli atti del governo. «C'è da riflettere sul sistema istituzionale e sul rapporto tra le trattative governo-parti sociali e il ruolo delle Camere», dice in aula il presidente della Camera, che già nel corso della giornata aveva tentato di "salvare il salvabile", decidendo di rispedire in commissione il maxiemendamento del governo per una valutazione formale. Cortesia istituzionale, che certo non ha ammorbidito lo schiaffo al lavoro parlamentare arrivato da Palazzo Chigi.
Parlare di rapporti ai ferri corti dunque è espressione nient'affatto esagerata. Tanto più che Rifondazione arriva alla decisione di accordare la fiducia al governo Prodi dopo due riunioni del gruppo parlamentare alla Camera e, nella seconda riunione, mette ai voti la scelta. Il sì alla fiducia passa con 25 voti, 10 i no, 5 gli assenti giustificati. Ma il disagio è palpabile, il giudizio sul pacchetto welfare resta «pessimo», specifica Giordano, durissimo nel motivare il sì alla fiducia. «La votiamo solo per un vincolo sociale», perchè se ora cade il governo a gennaio entrerebbe in vigore lo scalone Maroni sull'età pensionabile. «Non lo facciamo per un vincolo politico che non c'è più: va ricontrattato», puntualizza ancora il segretario, chiedendo, a nome di tutta la sinistra e non solo del Prc, una «verifica politico-parlamentare del governo a gennaio: dal suo esito dipenderà il nostro atteggiamento nel governo».
«Perchè - continua Giordano - ormai è chiaro che non ci sono più le condizioni per attuare il programma dell'Unione: lo hanno consegnato al museo delle cere...». Ma Palazzo Chigi sembra non recepire il messaggio. «Non ci sarà alcuna verifica a gennaio - fanno sapere dall'esecutivo - ma solo un già previsto punto complessivo sull'azione di governo». Nè sono all'ordine del giorno ipotesi di «rimpasto», la legislatura «dura fino al 2011», continua a far sapere Prodi, «la fase è attraversata dal confronto sulle riforme, elettorale e istituzionali...». Insomma, se fa fede questo prima botta e risposta a mezzo stampa, proprio non ci siamo. Eppure Giordano insiste sul fatto che «quello deciso oggi (ieri, ndr.) è un vero e proprio riposizionamento strategico per Rifondazione: non può più accadere che ci sia chi ha le mani libere e chi invece deve sempre garantire il governo, si apre una fase politica nuova».
A gennaio si vedrà, anno nuovo, vita nuova. Ma già ieri qualcuno ha provato ad alzare l'asticella del confronto con quella che sembrerebbe più una provocazione, anche qui a mezzo stampa. Nel primissimo pomeriggio, la Velina Rossa di Pasquale Laurito, foglio "ultraletto" a Montecitorio, prova a indovinare la strategia del Prc: «Sì alla fiducia, con un contestuale ritiro della propria delegazione dal governo». La "bufala" fa agitare tutti in Transatlantico, fino a quando Giordano la bolla come «simpatica, colorita non fosse altro che per l'aggettivo "rossa", ma stavolta non ci ha preso...». Niente di vero, dunque, anche se c'è chi fa propria la provocazione, rilanciando: «Sì alla fiducia, ma, dopo, fuori dal governo». Lo fa Caruso - indipendente del Prc che con altri nove deputati ha votato no, nella riunione di gruppo, alla fiducia - ma resta isolato. Sia chiaro: sia lui che gli altri contrari alla fiducia (Acerbo, Burgio, Cacciari, Frias, Lombardi, Mantovani, Pegolo, Provera, Russo) si atterranno alla decisione presa dalla maggioranza, per disciplina di gruppo.
Nel merito, il maxiemendamento del governo cancella le modifiche della Commissione sui lavori usuranti (resta il tetto della 80 notti all'anno, oltre il quale un lavoratore diventa "usurato"), accetta invece di abrogare lo "staff leasing" (unica vera "concessione" alla sinistra) e peggiora nettamente sul "job on call" (lavoro a chiamata per ristorazione, turismo e congressi) chiesto da Confindustria. Sui contratti a termine, viene mantenuta la stesura fatta in Parlamento: il contratto precario diventa a tempo indeterminato "dopo 36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro". Ma l'ulteriore proroga, quantificata dalla Commissione "in otto mesi", è diventata a tempo indeterminato e affidata alla contrattazione tra le parti. Augusto Rocchi, deputato del Prc in Commissione Lavoro, è un fiume in piena e, quando in Transatlantico gli chiedono della storiella sul ritiro della delegazione del partito dal governo, non ha dubbi, anche se non si esprime nel merito della domanda: «La mia opinione personale è che questo governo non è autonomo da Confindustria. I sindacati? Applausi per Cgil, Cisl e Uil! Voglio vedere come gestiranno la faccenda della proroga dei contratti a termine...».
Del resto, basta dare uno sguardo alle dichiarazioni trionfanti dell'organizzazione degli industriali, che esprime una «valutazione di massima positiva» (Bombassei), e dello stesso Dini, che infierisce sulla sinistra: «Per loro, una sconfitta pesante». La sensazione è che si sia solo all'inizio di una resa dei conti incrociata nel governo. Si considerano con «le mani libere» i socialisti, insoddisfatti dell'incontro chiarificatore con Prodi che non ha accolto nel maxiemendamento la loro richiesta di stabilire una indennità di disoccupazione per i co.co.pro. Addirittura, Boselli dà ragione a Rifondazione sulla verifica e rincara: «E' insufficiente, occorre probabilmente un nuovo governo». La prova del Welfare è per la sinistra anche il primo passo della sfida al Pd. Non lo nasconde il capogruppo del Prc alla Camera Gennaro Migliore che nota una «contraddizione nel Partito Democratico: decidano loro chi dà la linea nel governo...».
Ma non è nemmeno detto che la vera partita si giochi a gennaio. Resta da capire come e se il welfare passerà la prova del Senato, la stessa riflessione vale per la Finanziaria che viaggia verso un'ulteriore lettura a Palazzo Madama. E tra i provvedimenti al voto prima di Natale c'è anche il pacchetto sicurezza, che già sta facendo tremare la maggioranza al Senato. «Lì non c'è la fiducia, siamo liberi...», prevede Giordano, rispondendo ai cronisti alla Camera.
E il resto della sinistra? Oltre a concordare, come sostiene Giordano, sulla richiesta di verifica al governo, anche Sd, Verdi e Pdci non nascondo la loro irritazione per come sono andate le cose sul welfare. Ma i toni sono differenziati. Pecoraro spiega il sì alla fiducia senza scendere sul piede di guerra, qualunque cosa accada: «Continueremo a essere leali verso la coalizione, riteniamo inaccettabili i ricatti centristi». I Comunisti Italiani faranno il punto in una riunione di gruppo convocata per questa mattina, sicuri che «l'autonomia del governo da Confindustria se n'è andata a farsi friggere» (Sgobio) e che dopo il voto i rapporti in maggioranza non saranno più gli stessi. «Può essere che il governo ce la faccia, ma il giorno dopo non si ritrovi più la sua maggioranza», dice Palermi dal Senato. Sinistra Democratica non riunisce gruppi per decidere sulla fiducia. Scontato il sì, ma anche per il movimento di Mussi è chiaro che «da gennaio non ci sono più alibi» (Di Salvo), serve «un nuovo patto e un nuovo esecutivo, più snello ed equilibrato nel rapporto tra sinistra e Pd», propone Salvi. E' lampante comunque che, tra i quattro a sinistra, è il Prc il partito che si trova a gestire con maggiore travaglio interno il rapporto con un governo che ha rinnegato il suo programma e che non si è nemmeno posto il problema di dare ascolto a quanti sono scesi in piazza il 20 ottobre. Pesa il fantasma del '98, epoca che - lo sanno bene nel partito, ma meno tra i media più importanti del paese - è lontana nel tempo e nelle caratteristiche. Il ministro Ferrero la spiega così: «Esiste un problema nel rapporto tra il governo e il paese, si è aperto un problema politico su nodi sociali importanti». Punto e a capo, si volta pagina, senza guardare a dieci anni fa. L'intezione è questa, la strada è da definire.