giovedì 29 novembre 2007

l’Unità 29.11.07
«Adesso cambia tutto...» La sinistra alza il prezzo
Giordano: il programma dell’Unione è archeologia
Sarà scontro sul decreto sicurezza. La prova martedì
di Maria Zegarelli


LA ROTTURA «Pensavo fossi più duro, invece sei stato buono» ironizza Pierluigi Castagnetti in Transatlantico rivolgendosi a Oliviero Diliberto che ha appena finito di dire in aula che il governo «ha rotto consapevolmente il patto», dunque d’ora in poi si va-
luterà caso per caso. «Hai ragione, siamo stati fin troppo buoni, vorrà dire che la prossima volta non voteremo la fiducia». La maggioranza è ai ferri corti e mai come adesso Romano Prodi ha un problema. «Cambia tutto», insiste Diliberto. «Questa era la volta buona per il governo di tirare fuori gli attributi e invece non ha avuto il coraggio - ragiona -. Prodi ha regalato a Dini un enorme potere di interdizione, si è legato mani e piedi». Il Pdci, assicura, continuerà a votare la fiducia ogni volta che il governo la porrà, «ma d’ora in poi presenteremo emendamenti, decideremo se votare o no i provvedimenti». Il primo segnale sono le dimissioni del presidente della commissione Lavoro alla Camera, «visto che non abbiamo ministri da ritirare». A nulla è servita la telefonata tra Diliberto e il premier l’altro ieri, «non mi ha rassicurato affatto». Franco Giordano chiede la verifica politico-programmatica per gennaio «perché il programma dell’Unione non c’è più. Al primo posto di questa verifica deve esserci il tema della precarietà», dice in Aula. Per ora non è all’ordine del giorno l’uscita dalla maggioranza, ma certo i nervi sono tesi. Ieri mattina la segreteria ha avuto una discussione, in vista del voto in aula, molto «accesa, articolata». È un passaggio difficile per il partito di Fausto Bertinotti. Non si può rompere adesso, «perché nessuno di noi se la sente di fare entrare in vigore lo scalone Maroni - racconta un deputato - ma è difficile anche far capire ai nostri quello che è successo con il Welfare. La sinistra conta 150 parlamentari e sta sotto scacco dei tre senatori diniani». A questo si sta lavorando: «Far capire che il nostro obiettivo è di riportare al primo posto dell’agenda politica i temi del sociale, il lavoro, il precariato, i diritti civili». Ma c’è chi, dentro Rifondazione, spinge per andare alla rottura. E chi addirittura oggi confessa che alla fine «il male minore sarebbe stato un Dini ministro, perché almeno così l’avremmo “blindato”», invece adesso Lambertow fa il bello e il cattivo tempo. «Mastella aveva visto lungo...», commenta un altro. Se il «compagno» Diliberto ritiene «inutile, un rito stantio», la verifica, Giordano punta i piedi. In Transatlantico incontra Titti De Simone, capogruppo di Sd e discutono della questione. «Siamo d’accordo: è necessaria». Ai vertici della Sinistra sono arrivate molte telefonate da parte di alcuni ministri preoccupati, da Pierluigi Bersani e Linda Lanzillotta, ma lo stesso Mastella ieri ha ammesso con Giovanni Russo Spena, capogruppo al Senato, che «Romano non può non tener conto della frattura che si è creta con una parte della sua maggioranza». Piero Fassino assicura che la lotta alla precarietà sarà un punto qualificante del programma del governo e lo stesso Pd sta lavorando a un ddl per combattere la precarietà da presentare a gennaio. Ma le rassicurazioni non bastano più. Sullo sfondo c’è anche l’altro fronte aperto: la legge elettorale. La sinistra finora ha ingoiato rospi «in nome della lealtà verso la coalizione», ma se dopo Dini - e i fatti ormai dimostrano che l’era di questa maggioranza è divisa tra il prima Dini e il dopo Dini - «e il vile ricatto al governo», ci si dovesse trovare anche di fronte «a una riforma elettorale che di fatto sancirebbe la nostra morte, be’ allora non avrebbe più senso andare avanti», secondo il capogruppo dei verdi alla Camera Angelo Bonelli. «Noi siamo per la tenuta del governo - argomenta -, ma ci sono poteri forti, che Dini rappresenta, che stanno scavalcando la stessa politica. Il programma dell’Unione è andato in archivio e di questo anche il pd dovrà assumersi qualche responsabilità».
E se Romano Prodi non ha gradito l’intervista del senatore socialista Gavino Angius al Giornale, nella quale annunciava - pure lui - «mani libere» visto che il governo è inaffidabile», Boselli fa capannelli e insiste: ci vuole un nuovo esecutivo. Intanto la fiducia alla Camera passa - malgrado Salvatore Cannavò (Prc) che annuncia il suo e quello futuro di Franco Turigliatto al Senato - a Palazzo Madama si affilano i coltelli. Oggi il decreto sicurezza - la parte che riguarda le espulsioni - arriverà in Aula senza il relatore, sarà il presidente della Commissione a incardinare la discussione e il voto slitterà a martedì. Non si è giunti a una mediazione in commissione, tentativi andati a vuoto fino a ieri sera, dunque sarà l’Aula il banco di prova.
La sinistra annuncia che voterà soltanto se ci sarà «uma mediazione alta». Il vero nodo da sciogliere riguarda i Cpt (centri di permanenza temporanea) dove dovrebbero andare i cittadini europei in attesa di giudizio. «Il quadro è cambiato - annuncia Manuela Palermi, Pdci -. Siamo pronti a trovare un accordo, ma se alla fine il testo non ci soddisfa non lo votiamo». Anche Giovanni Russo Spena, Rc, è fiducioso, «ma d’ora in poi vogliamo esser ascoltati o non votiamo».

Repubblica 29.11.07
L’ira di Rifondazione: così non si va avanti
A rischio al Senato il decreto sicurezza. E c'è il timore di una "cosa ultrarossa"
Si allarga l'opposizione interna, possibile un nuovo cartello a sinistra
di Umberto Rosso


ROMA - Al telefono ormai quasi non si parlano più. E pure quando il Professore, come è successo ieri, tenta di circoscrivere l´incendio finisce che le sue parole suonano come un´ingerenza che fa infuriare ancor più Rifondazione. Ormai, siamo quasi al fatto personale. Franco Giordano non fa sconti, e fra le tante obiezione politiche c´è, nelle sue parole alla Camera, appunto anche la stilettata diretta, «presidente non si occupi di Rifondazione e della sua unità, su questo tema ha già avuto modo di sbagliarsi in passato... Non provate a spaccarci». Leggi 1998, quando il partito di Bertinotti mandò a casa il primo dei governi di Romano Prodi. Lo stesso presidente della Camera - dopo aver mediato a lungo e "consigliato" al Ferrero l´astensione in consiglio dei ministri e non il voto contrario sul welfare - si è sentito "tradito" dalla scelta del premier di porre la fiducia sul vecchio testo. Stanchi e irritati, anche, quelli del Prc, per le battute di Dini e dei centristi certi di aver vinto la mano e messo all´angolo gli "estremisti". Preoccupati, infine, di non sguarnire troppo il fianco sinistro, dove qualcuno comincia a vagheggiare la nascita di una Cosa ultra-rossa. Dunque, via il guanto di velluto, ecco il pugno di ferro. Discorso durissimo perciò del segretario. «Come da Franco non avevo più sentito - si compiace Ramon Mantovani, a capo della fronda interna nella maggioranza del Prc - ma quando i comportamenti sono deboli devi per forza alzare la voce». Con lui, almeno un terzo del gruppo parlamentare del partito avrebbe preferito infatti staccare la spina subito. Votano invece per disciplina la fiducia, tranne il trotzkista Cannavò, che anticipa in questo modo l´uscita dal partito ormai data per scontata. Stamattina tocca al gruppo a Palazzo Madama, riunito per affrontare l´altro passaggio ad altissimo rischio, il voto sul decreto sicurezza. «Previsioni? Difficile farne - anticipa Milziade Caprili, vicepresidente del Senato - ma certo così è molto complicato per tutti noi andare avanti». Rifondazione sulla corda. Nei gruppi parlamentari e nella base. «Anch´io, che pure passo per uno morbido nei confronti di Prodi - racconta Francesco Forgione, presidente della commissione Antimafia - in giro per l´Italia, dai magistrati alla gente comune, dai professori agli studenti, raccolgo solo lamentele e insoddisfazioni: ma che fine ha fatto la promessa di una svolta sociale?». Per cui, Professore attento, «sulla verifica facciamo sul serio».
Il rischio di una scissione? Giordano esclude decisamente. Ma il fantasma di una "Cosa rossissima", un variegato cartello a sinistra di Prc e soci, che punta ad "impadronirsi" della falce e martello che nel nuovo simbolo non ci sarà, prende corpo. Dopo l´addio di Cannavò e Turigliatto, nel conto potrebbe esserci anche quello di Pegolo e Giannini (il gruppo dell´Ernesto), e in dissenso restano anche Burgio e Grassi (Essere comunisti). Così come l´indipendente Francesco Caruso e Paolo Cacciari, il fratello del sindaco di Venezia. Un pattuglione che, in qualche modo, potrebbe anche intercettare la fronda di sinistra che freme dentro il Pdci, guidata dall´eurodeputato Marco Rizzo, che al governo Prodi staccherebbe volentieri la corrente. Però anche nella maggioranza bertinottiana, e in vista del congresso, la battaglia sul governo ha scatenato grandi manovre. Ramon Mantovani, fra i deputati più vicini al presidente della Camera, è il punto dei riferimento dei duri e potrebbe passare all´opposizione all´interno del partito, raccogliendo il gruppo della Fiom che fa capo a Giorgio Cremaschi e l´area degli autoconvocati che domenica scorsa si sono dati appuntamento a Firenze per contestare appunto la linea soft.
E la Cosa rossa soffre anche a destra. All´ala dei sindacalisti, guidati dal segretario Paolo Nerozzi che ha lasciato i ds per approdare nella Sinistra democratica di Mussi e Salvi, la linea contro la Cgil sul welfare non è piaciuta neanche un po´. Così, se il capogruppo Titti Di Salvo ieri in aula si schiera con il Prc sulla verifica, Nerozzi prende le distanze: agli stati generali della Cosa rossa, l´8 dicembre a Roma, lui non ci sarà. Sinistra democratica corre troppo dietro le suggestioni anti-Prodi e anti-Cgil di Rifondazione.

I siti di Prc, Pdci e Verdi invasi dai messaggi
E sul web esplode la protesta dei militanti

ROMA -L´irritazione a sinistra al quale Giordano e Diliberto hanno dato voce alla Camera correva nelle stesse ore su internet, tra militanti, iscritti e no global. Da ieri, giusto per capire l´aria che tira, la capogruppo di Pdci e Verdi al Senato, Manuela Palermi, tiene chiusa la casella di posta email. L´onda di insofferenza che monta dalla base si riversa all´indirizzo dei parlamentari della sinistra radicale. Il «ma che ci stiamo a fare al governo» è un tam-tam nei blog di quell´area. «Stiamo vivendo un momento di grande sofferenza - scrive Laura nel forum di sxnet.it, al quale si accede dal sito del Prc - Serve uno sforzo oltre la nostra umana comprensione per accettare il fatto che stiamo votando una legge sul welfare di m....». E un altro internauta ("Moltitudini"): «Ma che si vuole di più, quando si votano cose sulle quali non si è in dissenso, ma fermamente contrari?». Theo: «I ricatti li fa Dini e la colpa è sempre degli estremisti». Pietro Ancona, nel forum "radicalidisinistra.it" bolla come «ammuina, la resistenza della sinistra al governo, dopo la manifestazione del 20 ottobre: una tecnica per distrarre i lavoratori. E ora si rinvia alla verifica di gennaio». Non va, anche secondo Jean84: «I nostri politicanti di sinistra sono deboli e sotto scacco delle componenti più moderate».

Repubblica 29.11.07
Il Professore suona l’allarme rosso "Il Prc guarda al governo istituzionale"
Irritazione con Veltroni: non ha mosso un dito per difendermi
"Dobbiamo far capire a Rifondazione che le loro istanze saranno anche le nostre. Solo così possiamo fermarli
di Claudio Tito


ROMA - «Bisogna cominciare subito a ricucire con Rifondazione. Dobbiamo far capire che le loro istanze a partire da gennaio saranno anche le nostre. Solo così possiamo fermarli. Solo così possiamo evitare che gli saltino i nervi». A Palazzo Chigi è scattato l´allarme rosso. Ieri Romano Prodi ha assistito al dibattito sulla fiducia alla Camera senza nascondere tutto il suo malumore. Volto tirato, concentrazione ai massimi livelli. Gli attacchi frontali di Franco Giordano e Oliviero Diliberto sono stati per lui una spina conficcata nel fianco. Il premier però è ancora convinto di poter trovare, dopo la manovra economica, il modo per dare uno sbocco alla tensione dentro la sinistra radicale. È pronto a mettere sul piatto della bilancia i soldi dell´extragettito che - secondo i dati dell´Economia - sarà confermato anche dopo il saldo irpef di novembre. Nella verifica che si avvierà all´inizio del prossimo anno, allora, accoglierà molte delle istanze della Cosa rossa. E non è un caso che è pure allo studio l´ipotesi di correggere subito alla Camera la Finanziaria per lanciare un primo segnale.
Eppure sono le potenziali conseguenze dei discorsi pronunciati da Giordano e Diliberto a infiammare il Professore. Le voci che si rincorrono sul governo istituzionale sono arrivate fino a palazzo Chigi. E sono partite da Montecitorio. Da qualche giorno infatti il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, non nasconde in tutti suoi ragionamenti la possibilità-necessità di dar vita ad un esecutivo non presieduto da Prodi. «Nel caso di una crisi di governo - sono le parole pronunciate anche in pubblico la scorsa settimana - l´unico modo per sbloccare il sistema politico, sarebbe un governo istituzionale. Il mio è solo un suggerimento». Una prospettiva che ha come obiettivo principale la riforma elettorale e che dentro il Prc ha preso forza dopo lo strappo sul welfare. Un percorso che potrebbe prendere il via a gennaio offrendo una via d´uscita al partito di Giordano ormai in ebollizione: uscire dall´esecutivo e garantirsi sulla riforma che eviti il referendum della prossima primavera. Che la pazienza di Rifondazione sia arrivata al limite, lo si capisce anche dal breve colloquio tra Giordano, appunto, e Dario Franceschini. «Guarda - ha avvertito il capo del Prc nel bel mezzo del Transatlantico - che dopo le feste di Natale non sarà facile risolvere i problemi che avete creato adesso. C´è la verifica, la legge elettorale e poi l´Afghanistan. Ma hai visto che ha detto Parisi? Vuole rivedere i caveat della nostra missione e mandare più uomini. E secondo voi noi possiamo stare in questo governo a queste condizioni?». In sintesi, ha spiegato Diliberto a poca distanza rivolgendosi a un gruppo di suoi deputati, «se Romano ci dice ancora, come ha fatto in questi giorni, "tanto voi accettate tutto", allora è chiaro che noi non potremo più accettare niente». Il presidente del consiglio si è sentito snocciolare al telefono le stesse cose in presa diretta. A quel punto la fiducia di sempre ha cominciato ad alternarsi con una crescente preoccupazione. Il telefono è diventato rovente. Le bacchettate verso molti dei suoi interlocutori non sono mancate. A Enrico Boselli, ad esempio, ha rimproverato l´intervista rilasciata ieri da Gavino Angius. «Avete capito cosa state rischiando? - è sbottato- allora ditelo ad alta voce che volete un altro governo e assumetevene la responsabilità davanti agli elettori».
Ma l´irritazione del premier non tocca solo gli alleati più "piccoli". Bensì anche il Pd di Veltroni. «Neanche una parola in difesa del governo - si sono lamentati i prodiani -. In queste ore nessuno li ha sentiti. Walter pensa solo a fare accordi con Berlusconi e Casini. Con quale obiettivo?». L´inquilino di Palazzo Chigi, insomma, rimprovera il sindaco di Roma di muoversi esattamente nella stessa ottica di Bertinotti: considerare la legge elettorale prioritaria anche rispetto all´esecutivo e all´Unione. L´incontro di domani con Berlusconi, poi, sta alimentando fin da ora i dubbi e le perplessità di Palazzo Chigi. L´ipotizzata convergenza del Cavaliere sul sistema tedesco-spagnolo è letta come un elemento di rischio e non di stabilità per il governo. Non a caso tutti gli alleati più vicini al Professore ieri sono entrati in campo in difesa della "squadra". Per ripetere la minaccia brandita costantemente dal capo del governo. «Dopo Romano - ha puntato i piedi Antonio Di Pietro - ci sono solo le elezioni. Altri governi non esistono».
Nonostante le punzecchiature che a distanza si scambiano Prodi e Veltroni, il capo del Pd non vuole acuire le polemiche. «Si può ricostruire il tessuto dell´alleanza - è la linea dettata ai vertici democratici dopo il colloquio con Pier Ferdinando Casini - e lo possiamo fare con questo governo. Con questo governo possiamo arrivare alle riforme». Rassicurazioni che al momento non convincono Prodi. «E fa bene a non fidarsi - dice con un sorriso sardonico Francesco Nucara, il segretario del Pri che segue i giochi dai banchi dell´opposizione - perché quando al Senato il governo si salva come è successo in queste ore grazie alle assenze di Dell´Utri e Pera - non due senatori qualsiasi - allora vuole dire che il Cavaliere l´accordo con Veltroni vuol farlo davvero. Per ora Prodi non cadrà, ma se venerdì "Walter e Silvio" trovano una sintonia, allora per lui il 2008 sarà davvero breve».

Corriere della Sera 29.11.07
Allarme nell'ala radicale
La Cosa Rossa cade nei sondaggi «Morire per Danzica, non per Prodi»
di Francesco Verderami


Analizzando i consensi per blocchi l'insieme delle sinistre non supera quota 5 per cento

ROMA — «Forse potremmo morire per Danzica, certamente non moriremo per Prodi». Il paradosso della politica italiana è che si può pronunciare un epitaffio anche per un governo in vita. Perché non c'è dubbio che ieri Prodi alla Camera, con la fiducia sul Welfare ha ottenuto quanto chiedeva. Ma se pezzi consistenti della maggioranza — come spiega Diliberto — vedono nel premier una sorta di «dracula» che «vampirizza» gli alleati, allora per l'esecutivo diventa complicato anche tirare a campare. Di sicuro i leader della sinistra radicale — un tempo «guardie del corpo» del Professore — non accettano più di fare i donatori: «Di sangue ne abbiamo già versato — dice il segretario del Pdci — e a causa di Prodi stiamo perdendo il consenso dei nostri elettori».
I sondaggi riservati stanno a testimoniarlo, da mesi gli indici per le forze movimentiste sono costantemente negativi. Nell'ultima settimana, addirittura, a fronte di una modesta ripresa del governo (che nei giudizi positivi passa dal 33,5% al 34,9%), si registra l'ennesima flessione per il Prc (sceso ancora di due decimali al 4,6%), per i Verdi (che calano dal 2,3 al 2,1%) e per il Pdci (che atterrano all'1,6%). In un altro rilevamento, dove si studiano i consensi «per blocchi», il segnale è ancor più allarmante, perché la Cosa Rossa — presa nel suo insieme — non va oltre il 5%. Solo il Pd è dato in crescita di quasi un punto (al 27,7%), e questo è motivo di ulteriore tensione nell'area estrema del centrosinistra.
Prodi non è Danzica, «e noi non siamo disposti a sacrificare il rapporto con la nostra base», avvisa Giordano: «A gennaio la verifica sarà decisiva, e chiederemo di incastrare le questioni di governo con la partita sulla legge elettorale». Così il segretario del Prc offre due elementi: il primo, temporale, proietta la sfida decisiva all'inizio del 2008; il secondo evidenzia come la durezza dello scontro sia acuito dal nodo della riforma sul sistema di voto. «E se qualcuno pensa che stiamo scherzando, si sbaglia», spiegava ieri il capogruppo di Rifondazione Migliore al collega dell'Udeur Fabris: «Ci siamo rotti i c...». Per meglio dire si sono rotti i rapporti politici. Con Prodi «ma anche» con Veltroni, se è vero quanto ha raccontato il democratico Filippeschi lasciando l'Aula di Montecitorio: «I deputati del Prc ormai sospettano di noi. Dicono che vorremmo metterli a gennaio dinanzi al fatto compiuto, con una legge elettorale capestro da accettare o con la prospettiva del referendum da subire. Ci accusano, insomma, di voler provocare le elezioni anticipate che loro assolutamente non vogliono». Le urne sono il vero terrore per i partiti della Cosa Rossa, lo s'intuisce dallo sconforto del verde Cento, secondo il quale «siamo andati alla trattativa sul Welfare con un'arma giocattolo, mentre Prodi aveva la pistola carica»: «A gennaio perciò la sinistra movimentista dovrà riacquistare autonomia politica. L'Unione è finita».
Per capire in che condizioni versa l'alleanza, bastava sentire i discorsi pronunciati dai leader comunisti nel dibattito per la fiducia a Montecitorio. Talmente violenti verso Prodi, che il capogruppo del Pd Soro è arrivato a dire: «Il governo non meritava di essere trattato così dalla sua maggioranza». Traduzione: la crisi dopo la Finanziaria va messa in conto. Ipotesi che Bertinotti nei colloqui riservati non accantona. Nella sinistra massimalista è giunta dunque l'ora del «si salvi chi può», e per salvarsi da Prodi è l'ora di prenderne le distanze: così vanno interpretate le dimissioni del presidente della commissione Lavoro della Camera, il pdci Pagliarini. In gioco c'è la sopravvivenza delle ditte. Da quando il Cavaliere è passato dalla logica della spallata a Prodi alla logica dell'abbraccio con Veltroni, si è scatenato il finimondo nella maggioranza, dove lo schema delle «mani libere » è diventato una moda. Ieri il capo dei Socialisti Boselli è arrivato ad attaccare il telefono al premier, «che non può pensare di tirare a campare ma deve governare». Nessuno intende «morire per Prodi», come nessuno intende consegnare il proprio futuro nelle mani di Veltroni con la legge elettorale. Perché non è solo la Cosa Rossa a diffidare del leader democratico, se è vero che il gruppo del Senato guidato da Dini e Bordon starebbe meditando di far saltare «il nuovo inciucio»: per rompere lo schema in base al quale «con il Cavaliere dialoga solo Walter», si appresta a chiedere incontri ufficiali con i leader dei due schieramenti, con tanto di nuova proposta di riforma elettorale proporzionale. Vedere Berlusconi non è più un tabù da quando nell'Unione è in gioco la sopravvivenza.

Repubblica 29.11.07
Bertinotti: io, Wojtyla e la Chiesa che fa politica
"Non si può rifiutare alla religione di occupare uno spazio pubblico"
"Laici e credenti, dialogo obbligato"
di Marco Politi


Il presidente alla presentazione di un libro su Woityla: ammiro il suo coraggio
Lo Stato deve però riaffermare la sua autonomia, passando dal rifiuto della ingerenza alla ricerca della convivenza

«Non si può rifiutare alla religione di configurarsi nello spazio pubblico, rinchiudendo la fede in un fatto unicamente privato, ma non cerchi d´imporsi sulla politica». Il presidente della Camera Fausto Bertinotti presenterà oggi a Trastevere il libro su Papa Wojtyla Pellegrino scritto dall´inviato dell´Osservatore Romano padre Gianfranco Grieco. «Tra laici e credenti dialogo obbligato».

ROMA - Chiedete a bruciapelo a Fausto Bertinotti un flash su Wojtyla e ricorderà la ola al raduno della gioventù nel 2000. «Il gesto irrituale - spiega - mostrò che anche nelle più alte forme del potere può entrare la spontaneità e rivelò la sua straordinaria capacità di accettare la contaminazione dei linguaggi». Oggi alle 18 il presidente della Camera andrà in parrocchia a Trastevere, in via santa Dorotea, per presentare il libro «Pellegrino»(ed. Paoline), dedicato a Giovanni Paolo II dall´inviato principe dell´Osservatore Romano, padre Gianfranco Grieco, che lo ha seguito in tutti i suoi viaggi.
Presidente Bertinotti, il suo bilancio di papa Wojtyla?
«Giovanni Paolo II è il Papa prima della paura. E´ stato nel moderno, contrastandone gli aspetti che sentiva avversi alla sua religione, ma trasmettendo la convinzione di una vittoria sul campo. Il suo grande lascito è "Non abbiate paura!" e ciò permette a tutti il confronto indispensabile perché la religione sia lievito e non porti a rinchiudersi in nuove fortezze».
Il tratto distintivo del suo pontificato?
«L´essere messaggero di pace. Anche quando sembrò che il suo messaggio fosse impotente, si è visto quanto fu in grado di incidere sulle coscienze. Nel movimento per la pace, che arrivò ad una forza così considerevole da essere definito seconda potenza mondiale, c´è il suo segno».
Viaggiando per il mondo, Wojtyla intuì la globalizzazione. Che ruolo giocano le fedi nel pianeta unificato?
«Per un verso rappresentano la sottrazione al linguaggio unico, che la globalizzazione pretenderebbe fare scaturire dal mercato e dalla mercificazione. Dunque, un´affermazione forte dell´irriducibilità della persona umana al fatto economico. D´altro lato, oggi si affaccia il rischio dell´integralismo come risposta ai problemi del nostro tempo».
Le radici dell´integralismo?
«Il timore di sentirsi assediati e forse sconfitti dalla modernità, a meno di una separazione dei propri credenti dalle contaminazioni di questo mondo. Un fenomeno che, nei casi estremi, può arrivare persino a scendere in armi contro il mondo o le potenze che sembrano guidarlo e in larga parte lo guidano».
Papa Wojtyla e il suo successore hanno proclamato la presenza della fede nello spazio pubblico.
« In Italia non è una novità la presenza del fenomeno religioso nella costruzione della società civile. E´ una constatazione di lungo periodo. Troverei, comunque, sbagliato e immotivato rifiutare alla religione di configurarsi nello spazio pubblico. Non si può pretendere di rinchiudere la fede in un fatto unicamente privato. Tutta la modernità mostra la contestualità del rapporto tra pubblico e privato. Non dice forse anche il femminismo che il personale è politico?».
Eppure si producono frizioni tra religione e società.
«Il problema, posto recentemente da parecchie espressioni religiose, è la rinascita di fenomeni integralisti, basati sulla paura. Con cui si crede di affermare che solo l´adesione a una fede consente di giungere alla verità, anche alla verità storicamente esistente, e contemporaneamente si pensa che da una cattedra religiosa possa venire un´indicazione alla politica di quale deve essere la strada giusta».
E´ qui il pericolo?
«Non avremmo il riconoscimento necessario della presenza della religione nello spazio pubblico, bensì la nuova definizione di una gerarchia secondo cui la politica è minore rispetto ad altre cattedre. Sarebbe pericoloso, perché verrebbe meno l´autonomia della politica e della democrazia».
In questo quadro cosa significa laicità?
«Intanto un´eredità storica da non cancellare: la riaffermazione sistematica dell´autonomia dello Stato, che deve avere in sé le ragioni per legiferare e agire. Tutta la storia della separazione della sfera politica da quella religiosa, anche nel travaglio importante del cattolicesimo democratico in Italia oltre che delle forze non cattoliche, costituisce un elemento da preservare. Senza questo elemento basilare di laicità solo il peggio è ipotizzabile. Come non pensare che nel mondo contemporaneo di migranti una pretesa di ingerenza religiosa nello Stato determinerebbe inevitabilmente anche un conflitto religioso? La laicità è necessaria per ragioni di coesistenza».
Soltanto questo?
«Serve un passo in avanti. Passare dall´autonomia come rifiuto dell´ingerenza alla ricerca della convivenza tra diversi: è qui la nuova frontiera della laicità».
In Italia la convivenza ha un nome: rapporti con i musulmani. Costruire una moschea è diventato un problema.
«Potremmo discutere sui problemi prodotti dai fenomeni di immigrazione. Ma l´educazione alla convivenza è l´unica strada civile. Attingiamo alla grande tradizione mediterranea. Basterebbe accompagnare a Palermo i "resistenti" alla costruzione di un luogo di culto per l´Islam: quanta ricchezza, già nel profilo architettonico, di civiltà, culture, religioni».

Repubblica 29.11.07
Veronesi: a scuola pensiero scientifico al posto di religione


MILANO - «Al posto dell´ora di religione a scuola ci vorrebbe l´ora di pensiero scientifico...». A lanciare la laica provocazione pedagogica è una coppia di scienziati da anni impegnati sul fronte della guerra a tutte le superstizioni: il matematico Piergiorgio Odifreddi e l´oncologo Umberto Veronesi. L´occasione è la presentazione dello spettacolo di Odifreddi, Matematico e impertinente (al Ciak di Milano da lunedì) per raccogliere fondi per la ricerca sul legame virus-tumori. E di conserva aggiungono: «L´antidoto migliore alla religione è il pensiero scientifico. Imparare a giudicare e a lavorare con razionalità è un metodo che va insegnato ai giovani». (c.b.)

Repubblica 29.11.07
Perché l’utopia sopravvive alle ideologie
di Fredric Jameson


La nuova generazione impegna sui temi "no global" adotta sempre più spesso questa bandiera E così sconfessa le forme tradizionalidella militanzaa sinistra

Questo termine stava a indicare una progettualità indifferente alle debolezze umane e al peccato originale, una volontà di uniformare e di arrivare alla purezza ideale di un sistema perfetto da imporre con la forza ai suo i sudditi imperfetti quanto riluttanti.

In seguito queste analisi controrivoluzionarie, che hanno perso interesse per la destra dopo il collasso dei paesi socialisti, sono state adottate da una sinistra antiautoritaria la cui micropolitica ha scelto come propria bandiera la Differenza, riallacciando le proprie posizioni antistataliste alle classiche critiche anarchiche al marxismo come Utopia, esattamente in questa accezione centralizzante e autoritaria.

Sembrerà paradossale, ma le più antiche tradizioni marxiste, che accettavano acriticamente le analisi storiche di Marx ed Engels sul socialismo utopico contenute nel Manifesto del partito comunista e seguivano l´interpretazione bolscevica, accusavano il concorrente utopista di essere privo di qualsiasi concetto pratico o di strategia politica, e descrivevano l´utopismo come un idealismo intimamente e strutturalmente avverso alla politica in quanto tale. Il rapporto tra Utopia e politica, e i problemi del valore pratico-politico del pensiero utopista e dell´identificazione tra socialismo e Utopia rimangono in gran parte irrisolti ancora oggi, quando l´Utopia sembra avere recuperato una certa vitalità come slogan politico e come orizzonte ideale.

Infatti, un´intera nuova generazione della sinistra post- globalizzazione, quella che comprende i resti della vecchia e della nuova sinistra, assieme a quanto rimane dell´ala radicale della socialdemocrazia, alle minoranze culturali del Primo mondo, ai contadini proletarizzati del Terzo e alle masse senza terra o strutturalmente non avviabili al lavoro, è sempre più spesso propensa ad adottare questa bandiera in un periodo in cui il discredito dei partiti socialisti e comunisti e lo scetticismo riguardo i concetti tradizionali di rivoluzione hanno fatto piazza pulita di ogni dibattito. Alla resa dei conti potrebbe essere proprio il consolidarsi dell´emergente mercato mondiale (dato che è questa la vera posta in gioco nella cosiddetta globalizzazione) a facilitare lo sviluppo di nuove forme di attivismo politico. Nel frattempo, per usare la famosa frase della signora Thatcher, non c´è alcuna alternativa all´Utopia, anche perché il tardo capitalismo sembra non avere più alcun nemico naturale (i fondamentalismi religiosi che si contrappongono agli imperialismi americano e occidentale non hanno mai assunto posizioni anticapitaliste). Eppure qui non è in questione soltanto l´universalità invincibile del capitalismo che smantella instancabile tutti i progressi sociali strappati a partire dalla nascita dei movimenti socialista e comunista, che limita il welfare, la rete di salvaguardie, il diritto a unirsi in sindacato, i vincoli ambientali e alle industrie, che propone di privatizzare le pensioni e di distruggere quanto si oppone al libero mercato in tutto il mondo. La disgrazia non è la presenza di un nemico, bensì la convinzione universale non solo dell´irreversibilità di questa tendenza ma dell´impossibilità e della non praticabilità delle alternative storiche al capitalismo, la certezza che non sia concepibile né tantomeno realizzabile nella pratica alcun altro sistema socioeconomico. Gli utopisti non propongono soltanto di immaginare questi sistemi alternativi. La forma utopica è di per sé una significativa riflessione sulla differenza, sull´alterità radicale e sulla natura sistemica della totalità sociale.

Non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento fondamentale nella nostra società che non si sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche come tante scintille dalla coda di una cometa.
Perciò la dinamica fondamentale di qualsiasi politica utopista (o di qualsiasi utopismo politico) si collocherà sempre nella dialettica tra Identità e Differenza, nella misura in cui questa politica mirerà a immaginare e certe volte persino realizzare un sistema radicalmente diverso dall´attuale.
Traduzione di Giancarlo Carlotti © 200 © Giangiacomo Feltrinelli editore 2007

Corriere della Sera 29.11.07
A Buenos Aires Iniziativa del Centro Simon Wiesenthal: «Possiamo trovarli»
«Operazione ultima chance» Caccia ai nazisti in Sudamerica
In cima alla lista, il dottor Heim: «93 anni, ma è vivo»
di Alessandra Coppola


Il conto in banca indica che il «Dottor Morte» è vivo. Oltre un milione di euro a nome di Aribert Heim depositati in un istituto di Berlino. E mai reclamati dai figli.
È l'ultimo punto ad aver insospettito gli investigatori tedeschi e ad aver accelerato le ricerche: il macellaio di Mauthausen, l'uomo delle iniezioni letali iniettate nel cuore dei prigionieri, l'occhio al cronometro per prendere il tempo di spasmi e agonia, nonostante i suoi 93 anni potrebbe essere ancora su questa Terra. Forse in Argentina, oppure in Cile, dove abita la figlia. Comunque in Sudamerica.
«Sono le indicazioni che abbiamo — dice al telefono da Buenos Aires il presidente del Centro Simon Wiesenthal di Gerusalemme, Efraim Zuroff — e le riteniamo attendibili ». Al punto che il dottor Heim è candidato a diventare il primo successo dell'«Operazione ultima possibilità» esportata in America Latina: «Se anche trovassimo solo lui, ne sarebbe valsa la pena».
Il sistema è quello già sperimentato in Europa: una linea telefonica speciale, una ricompensa in cambio di informazioni attendibili. Di base circa 8.000 euro, che diventano 310.000 nel caso del most wanted Heim.
«Ultima possibilità» perché il più giovane dei ricercati, se non è morto, ha di sicuro superato gli ottanta. Ha ancora senso? A Zuroff, erede del cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal (morto due anni fa), la domanda non piace: «Me lo chiedono continuamente. E io do sempre la stessa risposta: il passare del tempo non riduce la colpa. Se qualcuno ha ucciso tua nonna e sessant'anni dopo lo troviamo, non è importante se ha ottanta o novant'anni. Tutti questi criminali hanno ucciso il nonno o la nonna di qualcuno, il padre o la madre, il figlio o il fratello».
In realtà più semplice catturarli, ammette, che processarli: «La volontà politica si sta rivelando meno facile da trovare che le informazioni sui nascondigli». Zuroff, però, ha delle cifre che lo sostengono: 488 criminali identificati nell'«Operation last chance» in venti Paesi (a partire da Lituania, Estonia e Lettonia nel 2002). E di questi, 99 sono arrivati a processo. Al campo di ricerca mancava solo il Sudamerica. Fino ad oggi: l'«ultima chance» arriva in Argentina, Cile, Brasile, Uruguay.
Qualche precedente c'è. Dal banale burocrate dell'Olocausto, Adolf Eichmann, scovato nel 1960 dal Mossad a Buenos Aires e poi processato e giustiziato a Gerusalemme; all'SS che ordinò la strage delle Fosse Ardeatine, Erich Priebke, riapparso nel '94 a Bariloche, quindi estradato in Italia, dove oggi è agli arresti. Pochi altri.
«Centinaia, se non migliaia di ex criminali nazisti si sono rifugiati in Sudamerica dopo la guerra. Tedeschi e austriaci, ma anche francesi, belgi, croati, italiani». Alla rete di connivenze e complicità che li hanno condotti a Buenos Aires Uki Goñi, giornalista e storico, ha dedicato Operazione Odessa: la fuga dei gerarchi nazisti verso l'Argentina di Perón (tradotto da Garzanti): le riunioni organizzative alla Casa Rosada, quindi l'invio di «agenti» in Europa per agevolare l'espatrio; il passaggio in Svizzera, i documenti di identità della Pontificia commissione di assistenza per ottenere il lascia passare della Croce Rossa (è il caso di Priebke, tra gli altri), la partenza dal porto di Genova.
Una ricostruzione che ha portato il Centro Simon Wiesenthal a chiedere, e in parte ottenere nel 2005, dal governo di Buenos Aires documenti fino a quel momento segreti (tra questi, la «circolare 11» che indicava alle ambasciate argentine in Europa di negare i visti agli ebrei che tentavano di sfuggire alla repressione nazista). E ha aperto numerose inchieste, non solo storiche.
«Nonostante le difficoltà — dice Goñi al Corriere — esiste davvero la possibilità di trovare ancora alcuni di questi criminali». L'iniziativa del Centro Simon Wiesenthal, secondo lo storico, non ha valore simbolico: «Attira l'attenzione su una questione che non è chiusa. Con dei possibili risultati concreti».
Più complicato rintracciare questi criminali oggi perché sono passati sessant'anni, continua. Ma anche perché nel mentre non è stato fatto tutto il possibile. Come lo spiega? «Per mancanza di volontà dei Paesi in cui i crimini sono Stati commessi — conclude Goñi —, e anche per un certo imbarazzo dell'Argentina. I governi li considerano temi delicati, cattura ed estradizione sono sempre fonti di frizioni diplomatiche. Per non parlare delle resistenze che hanno ancora molti a Buenos Aires a macchiare l'immagine di Perón».

Corriere della Sera 29.11.07
Monoteismi Jan Assmann, le origini dell'intolleranza
Quando la religione diventa un'arma nelle mani del potere
di Mario Andrea Rigoni


Non c'è, in apparenza, fenomeno più mostruoso della violenza praticata in nome della religione, del terrore scatenato in nome di Dio. Eppure esso è piuttosto una norma che un'eccezione storica, tragicamente confermata dal nostro tempo, anche se con modalità — come quelle dello stragismo suicida di origine islamica — che la fantasia più sinistra difficilmente avrebbe potuto concepire. A un tentativo di critica della violenza religiosa, compito dei più urgenti, si dedica nel volume Non avrai altro Dio (Il Mulino) l'egittologo tedesco Jan Assmann, un originale e notevole studioso che aveva già trattato i termini del problema con Mosè l'egizio (Adelphi) e che ha inaugurato un tipo di indagine, la «semantica culturale », attenta al rilievo che i fatti assumono, piuttosto che nella storia, nella rappresentazione della memoria (La memoria culturale, Einaudi). In conformità con questa metodologia, Assmann si chiede perché i testi sacri del monoteismo ebraico-cristiano- islamico siano caratterizzati da un linguaggio della violenza che interrompe la tradizione di «reciproco riconoscimento e traducibilità» propria delle precedenti religioni politeistiche.
La risposta è semplice: il monoteismo, con la sua concezione di un Dio unico, instaura un concetto di verità esclusiva, collegato a una rivelazione che riduce le verità di tutte le altre religioni al rango di aberrazioni e di menzogne da perseguitare, cosicché agli «idolatri» e agli «infedeli » non viene offerta altra alternativa che la conversione o l'eliminazione.
Mentre nell'antichità egiziana, babilonese, indiana, greca e romana tutti gli dei rappresentano infine un unico Dio e risultano dunque reciprocamente compatibili e traducibili l'uno nell'altro, nelle nuove religioni monoteistiche (precedute dalla breve ma significativa esperienza di Akhenaton nell'Egitto della XVIII dinastia) nessun dio può essere ammesso all'infuori dell'unico vero Dio.
Assmann non sostiene, ovviamente, che l'antico mondo politeistico fosse il regno della pace e della tranquillità, ma solo che la violenza che vi aveva luogo era motivata da ragioni di potere e di sovranità, ossia da ragioni politiche, anziché da questioni di verità, ossia di adesione o meno a un'ortodossia divina. Tuttavia lo studioso ritiene che la violenza sia appannaggio della politica e non della religione e che essa non costituisca dunque una conseguenza inevitabile del monoteismo. Le cose sarebbero potute andare diversamente se la religione non fosse stata usata dalla politica: esiste dunque anche per il presente o per il futuro la speranza che, sottratte all'ipoteca o al ricatto del potere, le religioni monoteistiche divengano tolleranti. Esse dovrebbero essere, conclude Assmann, «radicalmente depoliticizzate ». Come non condividere un tale auspicio? Ma di un auspicio appunto si tratta, di una considerazione che appartiene più all'ambito del «dover essere» che a quello dell'«essere», nel quale dobbiamo riflettere e operare. Un'obiezione che si può muovere all'analisi di Assmann è che egli trascura il nesso intrinseco e originario che unisce il sacro alla violenza indipendentemente dalla distinzione tra paganesimo e monoteismo. La terrorizzante crudeltà persecutoria connessa con il culto di Dioniso, quale appare dalle Baccanti di Euripide, non appartiene forse a un ambito puramente religioso? Ma è soltanto uno degli esempi adducibili. Né si possono dimenticare la diversa natura e la diversa evoluzione che hanno avuto i tre monoteismi.
Il cristianesimo, come l'ebraismo, è diventato più tollerante attraverso un processo di secolarizzazione contestuale con lo sviluppo di tutta la civiltà occidentale. A tale processo l'Islam è rimasto estraneo, arrestandosi a una fase arcaica, per ragioni che non sembrano solo di carattere storico, economico e culturale, ma anche religioso. Il cristianesimo ha distinto sempre di più la sfera civile e politica da quella religiosa, lo Stato dalla Chiesa. Non si è trattato unicamente di una strategia o di un accomodamento: Cristo stesso aveva prescritto di dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. Niente di simile è invece accaduto nell'Islam, infeudato a un integralismo religioso che investe tutti gli aspetti della vita e dell'esperienza: in tale caso sarebbe difficile pensare che la politica si sia arbitrariamente sovrapposta alla religione, poiché le due cose fanno tutt'uno non solo di fatto, ma anche di diritto. Ne consegue che ogni discorso sui rapporti dell'Islam con l'Occidente, con la laicità, con la democrazia, con la non violenza, rischia di avere poco senso fino a che non sarà rimosso — per vie che adesso si possono solo ipotizzare — questo enorme ostacolo.

JAN ASSMANN, Non avrai altro Dio IL MULINO PAGINE 148, e 9

Corriere della Sera 29.11.07
La tavolozza di Le Corbusier
La pittura, una passione tenuta segreta. Nei quadri le intuizioni del grande architetto
di Stefano Bucci


«Sarà l'occasione buona per scoprire un aspetto di Le Corbusier messo in ombra dalla sua grandezza di architetto». Per Achille Bonito Oliva, uno dei curatori (con Erich Mouchet e Vincenzo Sanfo) della mostra che si apre il primo dicembre ad Alessandria, l'esposizione di Palazzo Monferrato rappresenta dunque un'opportunità unica per avvicinarsi all'universo di Charles-Edouard Jeanneret. «Le Corbusier è stato un'artista totale, quasi leonardesco che ha coltivato un rapporto continuo con il disegno, con la pittura — dice Bonito Oliva —. E in questo rapporto ha saputo trovare nutrimento costante alla sua ispirazione, ma anche disciplina, esercizio spirituale».
Dalla Natura morta purista del 1922 al graffito di Cap Martin del 1937, dalla Donna e il toro del 1951 allo studio di scultura del 1962, dal
Ritratto di Vonvon all'Icone au guéridon, dai dipinti ai collage (a cui Le Corbusier dedicherà «una buona parte del proprio impegno figurativo »), dalle litografie alle gouache: in questi lavori sempre contrassegnati dall'«uso gioioso del colore e dalla libertà delle forme » l'uomo che inventò «la machine à habiter» troverà così, durante tutti i suoi sessant'anni di attività «ininterrotta e feconda», anche «una valvola di sfogo e spesso un motivo di ispirazione per i suoi progetti architettonici».
Casa Ozenfant, Ville Savoye, le Unità abitative di Marsiglia, la Cappella di Ronchamp, il convento de La Tourette, i palazzi di Cahndigarh: Le Corbusier è stato certamente uno dei grandi maestri dell'architettura, un maestro che nascondeva una grande passione per la pittura e per l'arte figurativa («nell'uso dei colori puri si avverte la lezione del neoplasticismo ma anche quella di un pittore come Léger»). Una passione che trova iniziale espressione nel legame con quell'Amedée Ozenfant con cui Le Corbusier fonderà il movimento «purista» che, derivato da una forma del tutto particolare di cubismo, poneva l'accento «sulla purezza delle forme e sulla loro incidenza formale». A questa esperienza si legherà anche la fondazione (con Ozenfant e Dermée della rivista d'avanguardia «L'Esprit Noveau»).
«Meno nota, ma allo stesso modo importante», la passione per l'arte di Le Corbusier è alla base di una concezione del tutto personale dell'architettura e dell'organizzazione degli spazi, propria di una sensibilità derivata da interessi formali nati appunto «non all'interno delle scuole di architettura, ma piuttosto nell'alveo di quelle sperimentazioni e curiosità artistiche che hanno solcato il secolo scorso e di cui Le Corbusier si è fortemente imbevuto ». E c'è anche qualcosa d'Italia in questo «amore» del giovane Charles- Edouard, nato in un piccolo paesino svizzero (Le Chaux-de Fonds): perché non solo il suo primo successo pubblico, a soli 15 anni, sarà un premio per un orologio da taschino presentato all'Esposizione di Arti decorative di Torino del 1902. Ma, nel 1907, ci sarà anche un Grand Tour che lo porterà per oltre due mesi a dividersi tra Milano, la Toscana e il Veneto.
In qualche modo sarà proprio il successo, il fatto di essere diventato un «mito» già in vita, che costringerà Le Corbusier ad abbandonare, almeno all'apparenza, la pittura o almeno rendere «secondario» questo aspetto della propria creatività. Tuttavia, anche se in forma decisamene più intima e spesso riservata più agli amici ed estimatori che al grande pubblico, continuerà a coltivare questa passione riempiendo centinaia di fogli di schizzi e dipinti (molti dei quali oggi conservati alla Fondazione Le Corbusier) che finiscono per definire uno stile del tutto personale e riconoscibile. Uno stile che non nasconde le assonanze con Miró, Léger e con Picasso (a cominciare dalla contiguità di soggetti quali le donne e i tori che Bonito Oliva definisce «un omaggio all'eterno femminino ma anche ai miti della cultura mediterranea »). E che farà nascere le forme sinuose delle bagnanti, le nature morte, il ciclo dedicato ai Tori o gli straordinari carnet di viaggio.
La mostra di Alessandria (che presenta anche alcuni oli su tela di grandi dimensioni, sculture e arazzi) celebra dunque «questo lavoro segreto, intimo, paziente ed ostinato » ma anche raccontando la «quotidianità » di questo amore continuo, quotidianamente coltivato nel segreto della sua «serra», a cui il grande architetto amava abbandonarsi «alla ricerca di una sua serenità e identità interiore». Ma i grandi dipinti e le sculture presenti in mostra sono la testimonianza della serietà con cui Le Corbusier affrontava questa sua passione di pittore, ma ancor più lo dimostrano le libertà comprese nelle centinaia di fogli che egli ci ha lasciato, intrisi di segni, colori, o solcati da sorprendenti collage. Fogli che, come spiegano i curatori, «nella loro capacità di essere non necessariamente opera finita, mantengono una spontaneità che ci fa comprendere il processo creativo del grande architetto e in cui possiamo ritrovare alcune delle sue grandi intuizioni».

Stralci dal libro di Le Corbusier e Amédée Ozenfant «Sulla pittura moderna», Christian Marinotti Edizioni

La nostra civiltà, razionale, ormai giunta allo «stadio macchinista», ha bisogno della pittura? Sì, perché le arti plastiche, assieme alla musica e alla poesia, costituiscono un efficace mezzo di distrazione e di elevazione al di sopra della faticosa realtà. Inoltre, inducono nei nostri sensi e nel nostro spirito delle sensazioni estremamente eccitanti di un genere, che esse soltanto possono provocare.
Un'emozione qualitativamente così intensa non può essere trasmessa all'uomo moderno attraverso le arti d'imitazione, attraverso la copia più o meno fedele degli oggetti della natura. Per venire al dunque, qual è la missione della pittura? Soddisfare i nostri bisogni superiori.
(...) La pittura non può raggiungere il nostro spirito se non per mezzo degli occhi, che si sono singolarmente affinati attraverso l'osservazione dell'intenso spettacolo della vita moderna.
La geometria, grazie allo sviluppo della civiltà della macchina, si afferma dappertutto; ormai i nostri sensi si sono abituati agli spettacoli nei quali domina la geometria; il nostro stesso spirito, pago di ritrovare dappertutto tale geometria — una delle sue stesse creazioni —, è divenuto insofferente agli aspetti spesso «ageometrici » e inconsistenti della pittura, con una particolare intolleranza per le in-coerenti imprecisioni dell'impressionismo.
Lo spettacolo odierno è essenzialmente geometrico.
I nostri sensi e il nostro spirito ne sono impregnati: l'uomo è un animale geometrico animato da spirito geometrico; i suoi bisogni d'arte si sono modificati. L'arte contemporanea deve prendere coscienza dell'esistenza di questi nuovi bisogni. Un lavoro enorme è già stato fatto in questi ultimi cinquant'anni. Da Ingres al Cubismo, abbiamo acquisito delle certezze.
(...) Un quadro può essere una semplice composizione di forme e colori senza alcun debito nei confronti delle cose esistenti? Sicuramente il quadro moderno tende a essere un oggetto indipendente e quello purista cerca di essere quanto più possibile un prodotto dell'inventiva.
È certo che l'ideale al quale tendono il Cubismo e il Purismo è quello di creare delle composizioni che non debbano nulla alla natura.
Ma un quadro che fosse solamente una sinfonia di colori e di forme, che non utilizzasse altro se non reazioni primarie, forme e colori, non sarebbe altro che un insieme ornamentale, ma, secondo l'esperienza, le reali soddisfazioni prodotte dall'ornamento mancano di quel qualcosa che, tuttavia, ci aspettiamo dall'arte: un'emozione intellettuale e affettiva alla quale l'arte puramente fisiologica è estranea; è questo il motivo per cui il purismo parte da elementi scelti fra gli oggetti esistenti, dai quali trae le sue forme specifiche.
Li sceglie preferibilmente fra quelli che servono agli usi più immediati dell'uomo; quelli che costituiscono quasi dei prolungamenti delle sue membra e per ciò stesso sono vissuti come cose di un'intimità estrema...

Corriere della Sera 29.11.07
Le Corbusier. Viaggi illuminanti L'artista viaggiava in tutto il mondo. E nel Maghreb ebbe una svolta
Le ragazze della casbah Così in Algeria scoprì il nudo
di Francesca Bonazzoli Confronti


«Non ti domando denaro, non domandarmi dove vado, né quel che farò: neanche io ne so nulla». Due righe, spigolose come il suo carattere: così, a vent'anni, il giovane Le Corbusier annunciò al padre l'inizio delle sue peregrinazioni che durarono tutta la vita. Dall'Europa al Sud America, dal Nord Africa a New York all'India, sempre accompagnato da un taccuino per disegnare e sempre al centro di avventure e incontri speciali.
A Berlino, dove si fermò nello studio di Peter Behrens, si trovò fianco a fianco con altri due giovani apprendisti, Mies van der Rohe e Gropius, ma se ne andò presto: «Avevo sperato in un contatto frequente e fecondo con Behrens. Ma è un iroso malato e scorbutico, collerico senza ragione, e dalla mattina alla sera». Ad Atene, di passaggio per il viaggio di sei mesi in Medio Oriente, rimase 18 giorni in contemplazione del Partenone. In Russia fece tre viaggi, ma ripartì deluso perché invece della rivoluzione in cui aveva sperato, «Stalin ha deciso che l'architettura proletaria è di spirito greco-latino». Con lo scrittore Antoine Saint-Exupéry pare abbia sorvolato l'Argentina e l'Uruguay, nel 1929; in Spagna andò invece con Leger, mentre in Brasile arrivò su un dirigibile Zeppelin.
Di tutte le sue avventure, però, la più importante e la più trasgressiva fu forse quella vissuta ad Algeri.
Fu lo stesso Le Corbusier ad accennare di aver scoperto la vera bellezza del nudo femminile in Algeria «grazie alla struttura plastica di certe donne della Casbah sotto l'intensa e tuttavia sottile luce di Algeri».
In realtà, queste parole redatte in un asettico stile notarile e puritano, nascondono un episodio rivelatoci invece nei dettagli da Jean de Maisonseul in una lettera del 5 gennaio 1968. Questo signore, che divenne in seguito direttore del Musée National des Beaux-Arts di Algeri, nel 1931 aveva 19 anni e lavorava per l'urbanista Pierre A. Emery. Corbu era arrivato per la prima volta ad Algeri per tenere una conferenza e poiché Emery era troppo occupato per accompagnare l'illustre ospite, fu de Maisonseul a condurlo nella Casbah.
«I nostri giri attraverso le strade laterali— scrisse — ci portarono verso la fine della giornata nella Rue Kataroudji dove lui (Le Courbusier) fu affascinato dalla bellezza di due giovani ragazze, una spagnola, l'altra algerina. Le due ci condussero su per una stretta scala fino alla loro camera; là schizzò alcuni nudi — con mio stupore — su un quaderno di scuola e matite colorate; gli schizzi della ragazza spagnola che giaceva sdraiata nel letto sia da sola che in un bel gruppo con la ragazza algerina si rivelarono accurati e realistici; ma lui disse che erano molto brutti e si rifiutò di mostrarli».
E non basta. De Maisonseul racconta ancora come poi il suo ospite si fermò anche presso un chiosco vicino alla Place du Gouvernement per acquistare delle cartoline dai colori chiassosi con bellezze locali nude circondate da decori da bazar orientali.
Pettegolezzi, si dirà. E invece no, perché Corbu, da quel momento, introdusse nella sua pittura, fino ad allora dedicata alla natura morta (bicchieri, bottiglie, chitarre) anche il tema del nudo che non uscirà più dal suo repertorio e con il quale si confronterà con Delacroix (e le sue «Femmes d'Alger») e Picasso.
I primi nudi femminili, in realtà, erano stati quelli di Joséphine Baker, la ballerina vestita con un gonnellino di 16 banane con cui Corbu aveva fatto la traversata sul Lutetia tornando da Rio de Janeiro nel dicembre 1929. Ma furono gli schizzi di Algeri a dare avvio alle ricerche sulla figura monumentale. Nonostante Le Corbusier abbia affermato che i tre taccuini di Algeri gli furono rubati, di fatto, come mostrano anche i disegni dal 1937 al 38 e dal 1963 al 64, non smise mai di rielaborare quegli schizzi.
La verità è che quell'uomo arrogante, che amava l'assolutismo, che aveva impostato tutte le sue creazioni su rigide griglie teoretiche e che era dedito al lavoro con un'etica protestante («Ho sacrificato tutto ciò che costituisce la gioia di una vita normale; la mia vita è anormale... conduco la vita di un cane »), aveva scoperto la leggerezza nel corpo femminile.
Come quando, durante una cena a Copacabana, si estraniò dagli altri commensali, concentrandosi sul suo inseparabile taccuino perché era così piacevole, disse, «disegnare le belle spalle delle donne di Rio».
E' grazie al femminino, dunque, se disordine e emozione alleggeriscono la rigida opera del «corvo» Corbu.

Corriere della Sera Roma 29.11.07
I versi di Lucrezio fra poesia e scienza
di Franco Cordelli


Dopo Proust e Musil e dopo Shakespeare, ecco Lucrezio. Sempre all'Auditorium, sempre rapporti tra poesia e scienza, tra scienza e letteratura. Per la Fondazione Sigma-Tau, Sandro Modeo ha curato «Per l'immenso spazio», l'esatto contrario che un collage di belle pagine. Si tratta di testi montati con sapienza, tratti dal «De rerum natura» e orientati in senso forte per temi. Codesti temi sono scanditi dai titoli delle sezioni, unendo in modo sempre sorprendente ma sempre logico un passo del primo libro con un passo del quinto o del terzo.
I temi enucleati da Modeo sono la genesi del mondo, il rapporto tra biologia e genetica, la coscienza della morte, l'attacco alla visione religiosa del mondo. Vi è anche, naturalmente, l'ode a Epicuro. Intendiamoci: c'è tutto in Lucrezio. Eppure il montaggio, lo ripeto, valorizza in senso globale l'attacco recato dal grande poeta alla superstizione in quanto strumento di dominio culturale dell'uomo sull'uomo. La scienza, ovvero la visione scientifica del mondo, il materialismo (fino alle scoperte di Darwin, come è stato sottolineato in un prologo- enunciazione di ciò che avremmo visto e ascoltato), lo stoicismo come coscienza della morte, sua contemplazione, esercizio al distacco e tutto questo emerge in modo netto dallo spettacolo che Modeo e il regista Claudio Longhi hanno ricavato dai versi lucreziani.
Vi hanno dato vita i tre attori Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Elisabetta Piccolomini. Alle loro spalle vi era uno schermo, nel quale scorrevano i versi che man mano venivano letti. A differenza dei due spettacoli-letture dedicati a Proust-Musil e a Shakespeare, non vi erano per fortuna immagini distraenti o fuori luogo. Ma Orsini e Popolizio a volte creavano uno spazio tra la fonetica e la semantica. Come se dissociassero i loro corpi (cioè la loro voce) da quanto da Lucrezio proclamato. Si slanciavano in avanti quando il testo era più didascalico. Si ritraevano quando era più forte, se non più altisonante.

Rosso di Sera 29.11.07
La Sinistra non può più indugiare
di Piero Di Siena, senatore della Repubblica


Ora, dopo il voto di fiducia sul testo del protocollo sul welfare e l'annuncio da parte di Rifondazione di una verifica politica della maggioranza di centrosinistra, possiamo ben dire noi del Forum delle Associazioni per la Sinistra che se i partiti a fine luglio ci avessero dato retta non saremmo forse arrivati a questo punto.
Allora noi sostenemmo che una verifica generale sul programma di governo dell'Unione si sarebbe dovuta fare a settembre senza aspettare che la maggioranza finisse per logoramento, anticipando una discussione essenzialmente intorno a tre punti, che era facile prevedere sarebbero stati motivi di frizione all'interno della maggioranza. Si trattava, secondo noi, di verificare se vi fosse una comune visione sulla gestione del problema del debito pubblico del nostro paese da cui discendono le soluzioni che vanno date ai problemi relativi alla spesa sociale, se si potesse raggiungere una posizione comune sulla riforma della legge elettorale, se fosse possibile un bilancio fatto per tempo sui caratteri della nostra presenza militare all'estero. Per dirla con chiarezza, da parte nostra vi era anche la consapevolezza che non si trattava nemmeno di orientare una tale verifica sullo spostamento a sinistra dell'asse dell'azione di governo (che è stato per tutta l'estate il feticcio attorno a cui è ruotata la convocazione della manifestazione del 20 ottobre) ma di ricalibrare il programma di governo rispetto agli effettivi rapporti di forza emersi dalle elezioni della primavera del 2006.
Si è preferito a sinistra affrontare le questioni caso per caso con il risultato che l'opinione pubblica - quella più lontana dalla politica ma quella decisiva a determinare successi e insuccessi elettorali -attribuisce anche a noi la responsabilità della fibrillazione permanente della maggioranza che è una delle cause dell'impopolarità crescente dell'Unione.
Tutto ciò ha favorito anche la politica "corsara" del Partito democratico versione Veltroni e di Berlusconi che hanno proceduto con colpi di mano a un sostanziale mutamento del quadro politico. Il risultato è che la verifica oggi invocata da Rifondazione coincide con una crisi parallela e contemporanea dei due schieramenti che si sono contrapposti nell'ultimo quindicennio. Siamo di fronte a una situazione che Max Weber avrebbe definito di "crisi organica" di un sistema politico, cioè a una difficoltà di fondo dell'una e dell'altra parte di garantire una guida del paese. Le soluzioni che si profilano all'orizzonte - soprattutto se sulla legge elettorale si realizzasse un asse Veltroni-Berlusconi - sarebbero inquietanti per la stessa qualità dell'assetto democratico del paese. Perciò la sinistra non può più indugiare. Per essa dare vita a un processo unitario, che sia - come noi del Forum delle Associazioni per la Sinistra abbiamo indicato nella nostra iniziativa del 26 novembre a Roma - il primo passo verso un partito nuovo della sinistra italiana, è un dovere da assolvere non solo verso se stessi ma verso il paese. Sarebbe un grave atto di irresponsabilità se gli esiti dell'Assemblea dell'8 e 9 dicembre non fossero all'altezza della situazione che si è determinata.

Liberazione 29.11.07
Governo sì governo no. Un'altra domanda proibita...
di Piero Sansonetti


Ieri sera Franco Giordano ha pronunciato in Parlamento un discorso severissimo, molto bello, e ha denunciato il carattere "autoritario" di alcune scelte di questo governo. In particolare della scelta sulla riforma del welfare e delle pensioni. Franco ha usato proprio questa parola, impegnativa: autoritario. Credo che non abbia esagerato: autoritario è la parola giusta, sia per il modo nel quale è maturata la scelta del governo, sia per come è stata imposta al Parlamento. Ad essere sinceri, usare la formulazione " scelta del governo " è una forzatura: la scelta è stata fatta in Confindustria, non a Palazzo Chigi, e poi imposta a Prodi attraverso una dichiarazione di Cordero di Montezemolo e l'avallo di Walter Veltroni, che oggi è il capo vero dell'esecutivo (per questo, sul nostro giornale, scherzando un po', abbiamo ribattezzato il premier chiamandolo Walter Montezemolo).
In ogni caso Confindustria e il suo partito (cioè il Pd) hanno decretato un nuovo assetto delle pensioni, del welfare e del mercato del lavoro, stracciando una legge approvata in Commissione alla Camera. Una cosa del genere, a mia memoria, non era mai successa.
A questo punto, io sono arrivato a una certezza e a un grande dubbio. La certezza è che questo governo non assomiglia neanche un po' al progetto di governo al quale Rifondazione comunista e la sinistra avevano aderito un anno e mezzo fa. Non è un governo di svolta, non è un governo riformatore, non è un governo di compromesso tra centrosinistra, sinistra moderata e sinistra radicale (e tra le idee che queste forze esprimono), ma è un governo monocolore, di centro, interamente dominato dal Pd e dalle sue nuove posizioni conservatrici. La sinistra non era entrata in questo governo per motivi tecnici, cioè per dare i voti necessari ad impedire un governo Berlusconi. Era entrata con una sua idea, con la convinzione di poter spostare a sinistra il paese, la società, lo Stato, i meccanismi dell'economia. Beh, non ci è riuscita.
E ora il dubbio, che esprimerò - appena un po' provocatoriamente - sotto forma di domanda (la stessa che circa un mese fa lanciammo dalle colonne di questo giornale suscitando qualche scandalo: "Domanda proibita..."). Chiedo: la sinistra deve restare in questo governo? E perché? Con quali speranze? In quale modo spiegando al suo popolo questa scelta? In che forma rispondendo al grido - sereno ma formidabile - che si era alzato nel corteo del 20 ottobre?
Badate che con questa domanda - mia, personalissima e modestissima, che stavolta non impegna il giornale - non avanzo l'ipotesi di uscire dalla maggioranza: è chiaro che per motivi "tattici", facilmente spiegabili, e già illustrati dai compagni del gruppo parlamentare, occorre garantire l'approvazione della riforma delle pensioni (altrimenti si torna allo scalone di Maroni, che era ancora peggio di questa orrenda legge Damiano-Montezemolo) e della legge Finanziaria, che contiene alcuni provvedimenti positivi. Dico semplicemente che forse, subito dopo aver votato la fiducia non sarebbe una idea forsennata quella di ritirare la delegazione dal governo (anche restando nella maggioranza). E', di fatto un monocolre Pd? Lo sia in modo chiaro e dichiarato.
Anche perché - a me pare - il popolo di sinistra (il popolo del 20 ottobre) chiede alla sinistra responsabilità, ma anche atti politici forti, di lotta politica. Ascoltando i lettori, sbirciando le lettere, ho l'impressione che uscire dal governo potrebbe essere la risposta giusta

Liberazione 29.11.07
Decreto sicurezza, Salvi: «Pronti a non votarlo»
Parla il senatore Sd: «La sinistra è unita per cambiare quel testo incostituzionale»
di Davide Varì


«Sul decreto espulsioni abbiamo registrato passi avanti». Cesare Salvi - capogruppo al Senato della Sinistra democratica - è ottimista. Reduce dalla riunione tra i capogruppo di maggioranza in cui venivano discussi cambiamenti sul decreto nato poche ore dopo l'aggressione e la morte della signora Giovanna Reggiani, fa sapere che questa volta «il piddì è stato collaborativo e corretto». Del resto rifondazione, Sds e comunisti italiani sono stati fin troppo chiari: «O si cambia il decreto oppure non lo votiamo». Nessuna possibilità di fraintendimento, dunque. E a quanto pare, nella riunione di maggioranza di ieri qualcosa è cambiato davvero. Tanto per cominciare, il testo che verrà presentato in Aula e che sarà votato martedì prossimo, dovrebbe aver trovato un relatore disponibile: fino a ieri era infatti "orfano". In secondo luogo le modifiche richieste dalla sinistra dovrebbero essere accolte in commissione giustizia. «Se così non fosse - ribadisce Salvi - noi abbiamo dichiarato che non lo voteremmo: e così sarà».

Senatore, sul decreto espulsioni il piddì sembra aver fatto qualche passo indietro. Qualcosa sta cambiando?
Sembra di sì, il piddì è stato collaborativo e corretto. Del resto la posizione della sinistra, di tutta la sinistra era chiara: o cambiate quel decreto o non lo votiamo.

Che tipo di modifiche avete chiesto?
Modifiche importanti, modifiche che riconducano un decreto nato sotto la scia di una paventata emergenza sicurezza entro l'alveo della Costituzione italiana. In particolare chiediamo di cancellare ogni riferimento all'espulsione dei familiari di chi commette reato, di mantenere la definizione di responsabilità individuali e non generiche e infine che la gestione delle espulsioni avvenga da parte del giudice ordinario. A questo punto dobbiamo sperare che i senatori centristi non facciano scherzi.

Insomma, finita l'emergenza si torna a ragionare?
Il problema di quel decreto è il vizio d'origine. In uno stato di diritto non si può agire e deliberare sulla scia emotiva di un fatto di cronaca (l'aggressione e la morte della signora Giovanna Reggiani a Roma). Il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida propose una norma che vietava l'approvazione di un decreto entro le 92 ore successive un grave fatto di cronaca. Un semplice accorgimento per evitare riduzioni, o tentazioni di riduzione dei diritti costituzionali. Del resto la manifestazione delle donne di sabato scorso ha spiegato bene cos'è la violenza e dove si genera, respingendo ogni forma demagogica di sicurezza.

Un'idea diversa da quella di Veltroni...
Certo, il segretario del Partito democratico ha detto e fatto cose molto gravi: ha dipinto un'intera nazione, i rumeni, e un'intera etnia, i rom, come potenziali delinquenti. In realtà quel decreto non andava fatto ed ora noi ci siamo presi l'impegno di rincondurlo entro i binari del diritto e della costituzionalità. Del resto l'Italia rischia un'infrazione dall'Europa: sarebbe il secondo Paese, dopo l'Austria di Heider, ad essere additato come Paese che emette leggi razziste.

Come è possibile che nel giro di relativamente pochi anni gli ex diessini e attuali piddini abbiano compiuto una svolta al limite del giustizialismo e così a rischio razzismo?
In realtà la svolta c'è stata da tempo. Chi era nei Ds - perchè come me aveva creduto in quel cambiamento storico e politico - si è ritrovato a fare i conti con svolte di valori ben più profondi. Ma io sono sicuro che molti elettori diessini non condividono questo cambiamento; sono sicuro che sono migliori dei loro rappresentanti politici e mi auguro, anzi ne sono certo, che quando lo avranno, sceglieranno un partito di sinistra unito che sa parlare al popolo senza scorciatoie o tentazioni demagogiche.

In effetti, in tutta questa faccenda è emerso il vero discrimine tra un politica di destra ed una di sinistra...
Certo, c'è un modo demagogico di brandire il tema della sicurezza - un modo che peraltro non da risultati - ed uno che lavora per l'integrazione. Voglio dire che se lavoriamo per togliere le persone da quelle baraccopoli invivibili di certo facciamo un servizio alla sicurezza degli italiani e nello stesso tempo diamo un posto decente dove vivere a migliaia di persone.

mercoledì 28 novembre 2007

l’Unità 28.11.07
Sul welfare fiducia e polemiche
Il voto stasera alle 19. Bertinotti: ci sono difficoltà nel rapporto tra Parlamento ed esecutivo
di Bianca Di Giovanni


DIKTAT Romano Prodi blinda il testo sul welfare e sfarina la sua maggioranza. Il maxiemendamento su cui ieri alla Camera il governo ha posto la fiducia non è né il testo del Protocollo, né quello varato dalla Commissione Lavoro: una sintesi che scontenta il Parlamento e accontenta (pare) le parti sociali. Palazzo Chigi parla di «atto di coerenza politica», definendo la blindatura inevitabile, per non snaturare un’intesa votata da 5 milioni di lavoratori. Ma l’ala sinistra della coalizione (e non solo) attacca e parla apertamente di ricatti, denuncia il fatto che le modifiche imposte dall’esecutivo sono quelle pretese dai diniani (e da Confindustria) e - guarda caso- che gli emendamenti eliminati sono proprio gli unici due della sinistra. Ovvero: salta il tetto sulla deroga per i contratti a termine, torna il tetto delle 80 notti per i lavori da cosiderare usuranti. Le altre modifiche restano. Per di più in un caso (quello dei lavori usuranti) il governo aveva espresso parere favorevole in Commissione. Poi la retromarcia, che ha tutta l’aria di una contorsione, stile «harakiri» . Nel marasma della maggioranza, si apre anche una grave frattura istituzionale. Fausto Bertinotti parla di «evidente, preoccupante difficoltà nel rapporto tra il Parlamento e l’esecutivo». Il presidente della Camera auspica anche una «riflessione attenta anche sul tema del rapporto che intercorre, o deve intercorrere, fra le trattative e gli accordi che vedono protagonisti il governo e le parti sociali ed il ruolo delle Camere, in funzione della salvaguardia del carattere parlamentare della nostra forma di governo». Una stoccata senza precedenti.
Rc voterà la fiducia ma da gennaio riconsidererà la sua collocazione in maggioranza. Oggi si attende la decisione del Comunisti italiani. Nelle schiere della «cosa rossa» molti parlano di rimpasto a gennaio, di uscita dal governo. Anche se Prodi in serata stoppa tutti: sì a un rilancio, no a un rimpasto. Nel frattempo anche i socialisti di Boselli rumoreggiano: nel testo finale non compare infatti l’impegno all’indennità per i co.co.pro su cui il governo aveva dato rassicurazioni durante il voto sulla Finanziaria in Senato.
Il testo del maxiemendamento arriva in Aula a intorno alle 19, dopo il vaglio degli uffici della presidenza e un nuovo passaggio in commissione Lavoro. Una curiosità: l’esame si apre con la degustazione (presente anche il ministro Cesare Damiano) dei confetti portati dalla deputata Paola Pelino. Ma è l’unico momento dolce della giornata. Il malumore si tocca con mano. Già sono trapelati gli interventi del governo, e non piacciono a nessuno: né al relatore Emilio Del Bono (Pd), che però parla di «mediazione responsabile» né al presidente Gianni Pagliarini (Pdci), e forse nemmeno al sottosegretario Antonio Montagnino che ha seguito i lavori della Commissione. Sono due le novità principali del testo. Sparisce la soglia degli otto mesi alla proroga per i contratti a termine e oltre la quale il tempo determinato sarebbe diventato automaticamente un posto fisso. Ora dopo 36 mesi di contratti a termine (il cui conteggio vale anche se ci sono pause) la durata della proroga sarà stabilita dall’accordo tra le parti sociali chiamate ad un avviso comune. In mancanza di un accordo la palla ritorna nelle mani del governo. L’altra modifica chiave è rappresentata dal ritorno del tetto delle 80 notti come uno dei vincoli per poter rientrare nella categoria dei lavoratori usuranti. Viene dunque ripristinata la versione originaria del ddl, così come uscita da Palazzo Chigi. Resta anche la formulazione della delega: nessuna norma vincolante, tutto da definire entro tre mesi dalla entrata in vigore del provvedimento. È andata meglio invece per i capitoli sullo staff leasing e il job on call: il primo viene cancellato, mentre sul secondo (che nel protocollo originario era abrogato) si prevedono delle deroghe per il lavoro nei settori dello spettacolo e del turismo. Il lavoro a chiamata era passato con il voto contrario di Rc e favorevole della destra. Infine viene cancellata (dalla commissione Bilancio e non dal governo) la proposta sull’apprendistato per mancanza di copertura. Stasera la fiducia: si attendono dichiarazioni di voto di fuoco.

Corriere della Sera 28.11.07
Fiducia sul welfare, lo strappo di Bertinotti
«Rapporti difficili Camere-governo». Prc spaccato: sì, ma a gennaio serve la verifica
di Roberto Zuccolini


Passa la linea Giordano del voto al ddl, 10 deputati contro. Dini: Rifondazione sconfitta, noi decideremo E Boselli: mani libere

ROMA — Il governo chiede la fiducia e sul welfare si scatena la guerra tra sinistra radicale e moderati. Rifondazione comunista soffre e si divide, ma decide di votare «sì», i diniani invece esultano e Romano Prodi vede più vicino il traguardo di un fine anno senza crisi. Ma se ne riparlerà a gennaio, mese che il partito di Franco Giordano già prenota per la verifica di maggioranza. Mentre Fausto Bertinotti contesta in aula la scelta di ricorrere alla fiducia. È la sintesi di una giornata sull'orlo di una crisi di nervi per tutti coloro a cui non piace il Protocollo sul welfare così come è stato firmato nel luglio scorso. Cioè la sinistra radicale. Perché il governo ha blindato il testo originario (con pochi correttivi) smontando i cambiamenti che Prc, Verdi e Pdci avevano ottenuto in commissione, tra cui l'eliminazione della soglia minima per i lavori usuranti.
Risultato: Rifondazione comunista convoca il suo gruppo a Montecitorio. E lì si consuma una dura battaglia interna tra «duri» e «dialoganti». Alla fine prevale la decisione della segreteria, ma in dieci, tra cui Francesco Caruso e Ramon Mantovani, non sono d'accordo, vale a dire il 25 per cento dei deputati del Prc. Voteranno comunque «sì» al maxiemendamento, ma solo per disciplina e continueranno a portare avanti le loro idee critiche nei confronti del governo. Del resto lo stesso leader, Franco Giordano, fa capire che il «sì» alla fiducia è «solo per vincolo sociale», non «per relazione politica». E chiede, a gennaio, «una nuova fase politica e una verifica politico-parlamentare ». Commenta Berlusconi: «Lo avevo previsto».
La proposta non trova isolata Rifondazione. Clemente Mastella si dichiara pronto ad una verifica di governo «anche a dicembre ». Lamberto Dini invece esulta. Annunciando la nascita al Senato di un gruppo con gli altri due liberaldemocratici, D'Amico e Scalera, più Bordon e Manzione, rinnova le critiche alla maggioranza «che non c'è più». Ma allo stesso tempo, accanto ad un prudenziale «decideremo », fa capire che voterà «sì» al testo sul welfare perché è riuscito a far ritirare gran parte delle proposte della sinistra radicale: «Il Prc ha subito una grossa sconfitta». Decisamente nero invece l'umore del socialista Enrico Boselli, dopo l'incontro con Prodi: «Non sono soddisfatto. D'ora in poi avremo le mani libere. Qui non basta una verifica: ci vuole un nuovo esecutivo ». E Palazzo Chigi? La fiducia viene considerata «un atto di coerenza politica» perché «il testo non poteva snaturare l'accordo di luglio con le parti sociali ». Comunque nessun problema a fare, a gennaio, «un punto complessivo sull'azione di governo». Anzi, «era già previsto », basta che non si parli di «verifica». La fiducia, che verrà votata oggi alla Camera, non piace invece al presidente Fausto Bertinotti, che in un duro intervento in aula, in cui si legge tra le righe anche la sofferenza della sua Rifondazione, denuncia: «La procedura ripropone un'evidente preoccupante difficoltà nel rapporto tra esecutivo e Parlamento: serve una riflessione ».

Corriere della Sera 28.11.07
Dietro le quinte Sale la tensione dentro Rifondazione comunista
«Avanti così e ritiriamo i ministri»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Una botta ai riformisti dell'Unione, un'altra alla sinistra: è trascorsa così la giornata di Prodi. Tanto il premier è sicuro che «non esiste una soluzione alternativa al mio governo, nessuno l'ha preparata: dopo di me c'è solo il voto e a molti non conviene...».
Perciò solo a sera fa sapere che non vuole mettere all'angolo la Cosa Rossa. Cioè, dopo averlo fatto sul welfare. Il Prc ingoia anche questa. «Ma a gennaio tra noi e il governo si apre una fase nuova e se non si cambia non faremo finta di niente, potremmo arrivare a rompere», avverte Franco Giordano. Traduzione del deputato rifondarolo Peppe De Cristofaro, fedelissimo del capogruppo Gennaro Migliore: «Possiamo anche aprire la crisi». Le solite minacce del Prc che cadono ritualmente nel vuoto? L'alleato Cesare Salvi, presidente dei senatori della Sinistra democratica, nega: «Faremo un verifica in cui abbiamo deciso di non escludere neanche il ritiro dei ministri della sinistra dal governo. O Prodi cambia registro e programma, e fa un governo più snello, o qualcosa succederà».
E le frizioni tra governo e sinistra radicale potrebbero venire allo scoperto ancora prima di gennaio. Giovedì nell'aula di Palazzo Madama dovrebbe arrivare il provvedimento sulla sicurezza targato Amato. Un provvedimento senza rete, che la commissione di palazzo Madama ha licenziato senza averne terminato l'esame, dopo il pandemonio suscitato dal tentativo del relatore Sinisi, del Pd, di fare degli accordi con An, stroncati dalla sinistra radicale. È chiaro che in queste condizioni Palazzo Chigi, dopo le arrabbiature serali di Giordano e Bertinotti, fa sapere che il premier non ha intenzione alcuna di giocare con Dini contro il Prc. Ma la verità è un'altra. Quella che il premier va ripetendo anche a chi lo mette sull'avviso rispetto al tentativo di Veltroni di trovare un accordo sulla legge elettorale: «Tanto l'accordo su cosa fare dopo la mia caduta non c'è, quindi io andrò avanti».
Con questa tranquillità d'animo e con questa certezza di rimanere in sella il premier penalizza il Prc e all'ora di pranzo riceve lo Sdi di Enrico Boselli, che gli aveva chiesto di introdurre la flex security (il cosiddetto reddito di esistenza per i precari) nel welfare. La sera prima il ministro Damiano, via fax, manda ai socialisti la bozza di un possibile testo. Il martedì dopo il governo se lo rimangia. «Non c'è copertura finanziaria», spiega Letta. «Ci sono i fondi europei», ribatte lo Sdi Roberto Barbieri autore della proposta. Prodi alza gli occhi al cielo, allarga le braccia e lascia intendere che non si può mettere contro i sindacati. Ma Boselli è stufo di quest'andazzo e lo dice senza peli sulla lingua: «Romano, ci avete preso per il c..., quando volevamo mettere questo emendamento in Finanziaria ci hai detto di aspettare che arrivasse il provvedimento sul welfare per inserirlo lì. Ora anche questa promessa non vale più. Sai che c'è? Noi responsabilmente voteremo la fiducia sul welfare ma dal giorno dopo agiremo com vogliamo: mani libere. Del resto non lo fa forse Dini con altri due senatori? Benissimo, non dimenticarti che anche lo Sdi a Palazzo Madama di parlamentari ne ha tre...». E su questa frase si chiude l'incontro. Gli uomini del premier sono un po' preoccupati lui, serafico: «Tanto non hanno trovato una soluzione per sostituirmi... ». È vero: la soluzione effettivamente non c'è. Ma in molti ritengono che dalla riforma elettorale al governo istituzionale il passo sia breve...

l’Unità 28.11.07
Giordano trattiene i suoi pronti alla rottura
Il segretario di Rc: ma a gennaio si va alla verifica
«Patto da ricontrattare o salta la coalizione»
di Simone Collini


«NON C’È PIÙ VINCOLO POLITICO» Schiacciato tra l’incudine dello scalone e il martello di una fetta sempre più consistente di partito che chiede di uscire dal governo, Franco Giordano fa quel che può: annuncia che Rifondazione comunista voterà la fiducia sul welfare, «perché abbiamo un vincolo sociale con i nostri elettori e non vogliamo mandare in pensione i lavoratori con la riforma Maroni», ma anche che «a gennaio serve una verifica». Il che vuol dire due cose: che prima di questo appuntamento il Prc non si considera vincolato da «un patto di maggioranza, che va ricontrattato» (e il pacchetto sicurezza che presto arriva in aula?, gli viene chiesto in Transatlantico: «Lì non c’è la fiducia, siamo liberi»); e che in sede di verifica tutto può succedere, compreso il ritiro della delegazione del Prc dal governo e l’appoggio esterno. Non a caso quando a metà pomeriggio la “Velina Rossa” fa filtrare l’ipotesi che Rifondazione è pronta a imboccare questa strada già oggi, contestualmente al sì alla fiducia, il sottosegretario Alfonso Gianni smentisce con clausola temporale: «Non mi risulta, non almeno adesso». E anche il ministro per la Solidarietà sociale Paolo Ferrero fa capire che dopo uno «strappo all’interno della maggioranza» come quello che si è prodotto sul welfare tutto è possibile: «Non abbiamo costruito l’Unione per vedere le ragioni dei poteri forti prevalere sugli impegni assunti con il nostro elettorato».
Giordano non vorrebbe arrivare a una rottura col governo, ma mai come ieri l’insofferenza dentro al partito si è fatta sentire in modo così pesante. Per arrivare alla decisione di votare sì alla fiducia è stato infatti necessario convocare prima una riunione del gruppo di Montecitorio e poi, d’urgenza, la segreteria. Perché se è vero che la proposta di garantire il sostegno al governo è stata approvata dai deputati del Prc, è anche vero che tra i 35 presenti (Salvatore Cannavò e altri in rotta col partito neanche hanno partecipato e oggi diranno no alla fiducia) in 10 hanno votato contro. E non è solo la cifra di quelli che si sono espressi per il no alla fiducia a pesare, ma anche il modo in cui è composta: due indipendenti, due esponenti delle minoranze, ma anche sei della maggioranza. Oggi voteranno sì «per disciplina», e anche perché Giordano ha assicurato loro che questo «pessimo disegno di legge» sarà l’ultimo rospo ingoiato: «A gennaio va ricontrattato il patto di maggioranza o salta la coalizione». Ma con i sondaggi non proprio rassicuranti per il Prc e un congresso alle porte che si profila tutt’altro che semplice (Ramon Mantovani, che ieri ha avanzato la proposta di votare no alla fiducia, fa ora anche sapere che non accetterà l’appello del segretario a non emendare il documento congressuale: «Lo farò certamente su due temi, governo e unità a sinistra») la strada che Giordano dovrà percorrere si fa sempre più stretta. Anche perché se sia lui che Bertinotti hanno sempre sostenuto che questa volta non si può ripetere quanto accaduto nel ‘98 grazie al programma comune approvato prima delle elezioni, Giordano ora dice sconsolato che «il programma è finito in qualche museo delle cere».

Repubblica 28.11.07
Franco Giordano, leader di Rifondazione, attacca Prodi: subisce i ricatti degli industriali
"Per ora restiamo ma nulla è scontato vogliamo ricontrattare il programma"
di Umberto Rosso


Diciamo sì alla fiducia per un vincolo verso i lavoratori, per evitare lo scalone di Maroni
Divisioni nel partito? Nessuno speculi sul nostro dibattito interno, abbiamo sempre votato con responsabilità
Cancellando il testo della commissione si è mortificata la centralità del Parlamento

ROMA - «Una fase, nel nostro rapporto con il governo, certamente si è chiusa. A gennaio, dopo l´approvazione della Finanziaria e del protocollo, il vincolo di Rifondazione con Palazzo Chigi va ricontrattato. Con una verifica, politica e programmatica. Il programma dell´Unione non esiste più ormai».
Vuol dire, onorevole Giordano, che il suo partito potrebbe anche ritrovarsi fuori dal governo?
«Non c´è nulla di scontato. Noi non puntiamo a far saltare il banco ma dipende appunto dalla verifica. Non prenderei alla leggera l´appuntamento: è tutta la sinistra che la pensa così».
Intanto, la fiducia sul welfare la votate.
«Sì, la voteremo. Ma per un vincolo sociale nei confronti dei lavoratori e non per un vincolo politico».
Che vuol dire?
«Vuol dire che se dicessimo no al voto di fiducia imposto dal governo, i lavoratori si ritroverebbero con lo scalone di Maroni sulle pensioni. Che invece, con le modifiche introdotte, è saltato».
Il gruppo alla Camera però si è diviso: una decina di deputati era contraria alla fiducia.
«Nessuno tenti di speculare sul dibattito all´interno di Rifondazione comunista. Piuttosto, farebbero meglio a cercare di riprendere il filo sociale con il nostro popolo, che è stato smarrito».
Era perfino circolata voce di un ritiro immediato della vostra delegazione al governo.
«Voci infondate. Stiamo lì, per ora».
Sicuro che, magari al Senato dove la maggioranza è sul filo, qualcuno dall´interno del Prc non prepari lo sgambetto sulla fiducia?
«Rifondazione è il partito che finora, con più senso di responsabilità e disciplina, ha garantito la navigazione del governo. Mentre tanti altri praticano le mani libere».
A cominciare da Dini, che parla oggi di una vostra bruciante sconfitta sul welfare.
«Dini è l´ultimo dei miei pensieri. Non pratichiamo giochi e giochini di palazzo, pensiamo ai problemi dei lavoratori. Dini non è uno di loro».
Però la mano sul protocollo l´ha vinta lui.
«Il nodo dei precari per noi resta aperto».
Ma se votate la fiducia...
«Sarà uno dei punti-chiave della verifica. Non è mica un capitolo chiuso. Lo riapriremo. Insieme ad altre questioni».
Quali?
«Diritti civili. Nuova legislazione in materia di lavoro. E centralità della democrazia parlamentare. Che da questo passaggio esce mortificata, a pezzi. Il governo ha incredibilmente cancellato con un colpo di spugna i miglioramenti al testo apportati in commissione». Perché è scattata la marcia indietro sul testo?
«Perché il governo non è libero, ha un deficit di autonomia, subisce i ricatti di Confindustria».
Se la prende con Montezemolo ma è Prodi che ha posto la fiducia.
«E´ proprio Prodi che non è libero nei confronti della Confindustria».
Sarà l´ultima volta che votate la fiducia? E se il governo la pone anche sul decreto sicurezza?
«Quel testo va profondamente cambiato».
Anche Rifondazione con le mani libere?
«Il cemento era il programma, ma non esiste più. E´ stato sistematicamente strattonato, stravolto. Ormai è archeologia, un museo delle cere. Basta. Ecco perché chiediamo di definire a gennaio le nuove priorità dell´esecutivo, e da queste dipenderà la nostra collaborazione futura».
Ce l´avete con Veltroni e il Pd?
«Veltroni in nome dei giovani ha sparato a zero contro le nostre proposte sulle pensioni. Poi quando si è trattato di difendere i giovani contro la precarietà, è sparito».
Il confronto con il Pd sulla riforma elettorale, in questo clima, per voi è a rischio?
«Il confronto va accelerato, bisogna coinvolgere tutte le forze parlamentari».
E´ un´altra cosa rispetto allo scontro politico "quotidiano".
«E´ un´altra cosa».

Corriere della Sera 28.11.07
Prodi: pericoloso mortificare la sinistra
Allarme del presidente del Consiglio: fattore di instabilità per il governo
di Francesco Alberti


Il capo del governo teme che lo strappo con Rifondazione porti a conseguenze: «Dobbiamo farci carico del loro disagio», sostiene. Gli elogi al «senso di responsabilità» manifestato dagli alleati nella vicenda del welfare

ROMA — La febbre da cavallo che sta divorando il corpo di Rifondazione spaventa, e non poco, Romano Prodi. «Attenzione, un Prc mortificato o, peggio, costretto all'angolo può diventare un pericoloso fattore di instabilità per il governo» è stato ieri il ragionamento del premier quando è apparso chiaro che l'ennesima mediazione sul protocollo del welfare veniva vissuta come una sorta di Caporetto da una parte consistente del partito di Giordano. Il Professore, nel momento stesso in cui ha deciso di sottoporre a fiducia un testo che non contempla parte delle modifiche introdotte alla Camera sotto la spinta del Prc, a cominciare da quelle sul precariato, aveva messo in conto l'insoddisfazione del partito di Bertinotti e il rischio di offrire benzina alle correnti anti-governative da tempo in gran spolvero a sinistra. Ma la realtà, stavolta, ha superato le previsioni. E lo stesso premier probabilmente non si aspettava una rivolta di queste ampiezza e profondità.
«Spegnere l'incendio» è diventata quindi, da ieri, la parola d'ordine di Palazzo Chigi: dal «soccorso rosso» al «soccorso ai rossi», verrebbe da dire. In che modo, però, non è semplice. Il repentino via libera del capo del governo alla verifica politico-programmatica chiesta da un Giordano in evidente difficoltà costituisce, nei piani del premier, solo il primo passo di un'azione che dovrà prendere compiutamente forma dopo la definitiva approvazione della Finanziaria. «C'è un grosso disagio nel Prc, di cui è giusto farsi carico nell'interesse di tutti» è la linea dettata dal premier. E via ad elogiare «il senso di responsabilità» dei vertici di Rifondazione (che comunque hanno assicurato il loro sì alla fiducia alla Camera); a rimarcare che «sul welfare non ci sono stati nè vincitori nè sconfitti» (indiretta risposta a Dini che, soffiando sul fuoco, ha parlato di «grossa sconfitta» della sinistra); ad elogiare la «fedeltà dell'alleato».
Parole al miele, ma che difficilmente basteranno a lenire i dolori del Prc. «Occorre far capire a Giordano e compagni— spiegano nella cerchia del Professore — che l'azione del governo, anche se tra frenate e accelerazioni, ha consentito di ottenere importanti risultati prima sul piano del risanamento e ora su quello della lotta alla diseguaglianza: un lavoro che ha avuto nel programma dell'Unione la sua stella polare, che va letto nell'arco dell'intera legislatura e che sarebbe un delitto buttare a mare». Resta il fatto che Giordano, ingoiato il rospo del welfare, non potrà che alzare la posta in gennaio, unico modo per non perdere il controllo dei suoi. Palazzo Chigi, per ora, si limita a promettere «nuove politiche», si presume sul versante sociale. Un film ancora da girare, ma sempre del genere thriller.

l’Unità 28.11.07
L’esercito delle banlieue
di Gianni Marsilli


FRANCIA. Il capo dell’Eliseo dalla Cina fa sapere che «sorveglierà» l’operato di Alliot Marie per paura che la rivolta dilaghi in tutto il Paese come accadde nel 2005
Per la ministra degli Interni quei teppisti sono un esercito nemico

Molotov e petardi, pietre e sbarre di ferro, ma anche fucilate. Bruciano automobili scuole e biblioteche ma ci sono proiettili che mirano ad uccidere il flic, il «porco» in uniforme. La rabbia del 2005 è ancora lì, intatta e rovente. Ma si è fatta più lucida e affilata, quasi omicida. La rivolta potrebbe essere meno estesa della sollevazione di due anni fa.
Ma anche più cattiva e determinata, non solo nichilista e disperata. Dicono le cronache che quelle centinaia di ragazzi - tutti neri o maghrebini - che hanno messo a ferro e fuoco Villiers-le-Bel stavolta hanno avuto il sostegno della gente intorno, come si aiutano i resistenti. Perché nulla è cambiato da due anni a questa parte, malgrado le promesse e i cantieri per nuovi alloggi popolari e le leggi - non applicate - che incoraggiano l’occupazione. Si vive sempre male, disoccupati ed etnicamente separati, in banlieue. Anche se si è francesi a tutti gli effetti. Capita allora che un incidente diventi una provocazione, qualsiasi sia stata la sua dinamica. Che la violenza sia spontanea, scontata, pavloviana. Era colpa dei poliziotti? Pare di no, pare. Ma non ha più molta importanza. La scintilla è scattata e l’incendio è scoppiato, travolgendo torti e ragioni.
Oggi Nicolas Sarkozy, appena rientrato dal suo viaggio in Cina, dovrebbe ricevere all’Eliseo le famiglie dei due ragazzi morti domenica sera. Prima, avrà reso visita ai gendarmi feriti, in particolare ai sei impallinati da un ignoto fucile da caccia. Sarkozy, si spera, è il primo a sapere che il tempo cammina molto in fretta, nelle banlieues. Che l’esperienza del 2005 non ha più molto da insegnare. Che le grandi manovre di anti-guerriglia urbana di migliaia di gendarmi non servono più a gran cosa, davanti a ragazzi pronti a diventare snipers. Che la faccenda, quindi, potrebbe farsi molto più pericolosa in questo autunno. Che il ministero degli Interni è in mano a Michèle Alliot Marie, che prima reggeva la Difesa, ed è portata a confondere i rivoltosi delle periferie con truppe di un esercito nemico. Alliot Marie ha cominciato male. Lunedì, già prima degli scontri più aspri, li aveva archiviati nella cartella della «delinquenza organizzata». Quei ragazzini di tredici, quindici anni relegati al rango di spacciatori, ladri, banditi. Ha così negato implicitamente l’esistenza del disagio nel quale vivono, che è grande. È parsa scordare che ci sono aziende che catalogano le richieste di lavoro a seconda del colore della pelle: nella colonna 1 i neri, in quella 2 i maghrebini, in quella 3 gli asiatici, nella 4 i «pure whites», come dire gli ariani. Che i senza lavoro toccano punte del 40-50 per cento. Che le ZUS (zone urbane sensibili) comprendono cinque milioni di francesi. Per questo l’Eliseo ha tenuto a far sapere che da Shanghai Sarkozy aveva telefonato ad Alliot Marie, e le aveva rivolto «un certo numero di raccomandazioni». La signora ministro è insomma sotto stretta tutela. Al timone è tornato lui, il suo predecessore diventato presidente. Con un rischio: che alzando il livello della gestione della crisi, si alzi anche il livello dello scontro. Malgrado la linea di Sarkozy, che si vorrebbe meno aggressiva di due anni fa, quando annunciava a gran voce di voler «ripulire» quei quartieri, come si disinfesta un tugurio.
Era stato lo stesso Sarkozy, però, a promettere in campagna elettorale un grande «piano Marshall» per le banlieues, del quale non si è vista ancora traccia. Ci sta lavorando Fadela Amara, ministro alle politiche urbane, di origine algerina, da sempre di sinistra, nel governo grazie alla «ouverture» politica presidenziale. Ma è ancora «in fase di concertazione» con sindaci e associazioni, e non sarà pronta prima di gennaio. Nel frattempo, i sindaci temono il peggio.

Repubblica 28.11.07
Le streghe son tornate
Le femministe che vengono dal web
di Simonetta Fiori


Le streghe sono tornate, o forse non se ne sono mai andate. Si mostrano con foschi cappelli a punta o rosei bigodini, ma questa volta sono come smaterializzate, incorporee, perché virtuale è il mondo che le ha generate, la grande rete invisibile nella quale hanno costruito il nuovo femminismo, senza conoscersi e fuori dalle appartenenze. Le web streghe, dunque. Creature internettiane con i loro blog, il profluvio di mail, il codice visivo preferito a quello scritto, i nomi provocatori come Le mele d´Eva, A-matrix, Luna e le altre, Sexy Shock.
Streghe giovanissime tra i venti e i trent´anni, che hanno pratiche e linguaggi incorporei - in questo assai distanti dalle madri inclini a una corporea autocoscienza - però capaci di trascinare in piazza una moltitudine di donne, come è accaduto a Roma sabato scorso. Questo solo sembra contare. Sono le protagoniste storiche ad applaudire il movimento risorto, prodigiosamente rifiorito, non importa se con qualche sguaiata intolleranza, con inattese esclusioni e improvvidi assalti al «palco d´inverno». «Da sempre la rivendicazione femminile è segnata da rabbia e provocazione», dice Elena Gianini Belotti, tra le artefici della stagione aurea con il leggendario Dalla parte delle bambine. Dopo un lungo silenzio, il femminismo riprende voce. Da Lea Melandri a Chiara Saraceno, da Maria Luisa Boccia ad Anna Bravo, la diagnosi è univoca, anche venata di stupefatto ottimismo. Nessuna in fondo se l´aspettava.
I simboli e le icone riaffiorano dal passato, anche l´allegria un po´ rancorosa, la croce cerchiata sui volti di biacca, le dita delle mani a triangolo, ad evocare il controllo del proprio corpo. Ma se le madri lottavano per la libertà di non aver figli - vedi la legge sull´aborto - queste di oggi lottano anche per la libertà di farli - vedi la legge sulla fecondazione. «Comune è il rifiuto di una normativa sul corpo», commenta Maria Luisa Boccia, storica della filosofia politica e figura di spicco del femminismo. «Anche se in queste richieste contrapposte è già evidente la distanza generazionale». Per Anna Bravo, studiosa non conformista, «più che un´analogia è una ripetizione. Il segno delle dita a triangolo aveva senso nella fase aggressiva della lotta per l´aborto, ma oggi? Poi l´utero quando è "abitato" non è più solo mio, cioè io ho il diritto di decidere, ma bisogna sapere che non decido solo per me, ma anche per qualcuno o qualcos´altro, il feto. Se le più giovani non se ne rendono conto, noi vecchie abbiamo una bella responsabilità!».
Un gioco di citazioni e rispecchiamenti sembra avvolgere il femminismo di ieri e quello di oggi, a cominciare dal separatismo così pervicacemente rivendicato sabato sulla piazza romana, quel «no!» gridato all´altra metà del cielo, che trent´anni fa aveva un significato dirompente, «il recupero della soggettività femminile lungamente conculcata», interviene la sociologa Chiara Saraceno, «ma oggi mi chiedo dove porti». Quella degli anni Settanta era una novità assoluta, «le donne prendevano atto della propria forza e la mostravano in pubblico», ricorda Anna Bravo. «Oggi però il separatismo mi sembra ingiustificato». Un´esclusione, quella maschile, che ai più appare un rigurgito di veterofemminismo, ma che Angela Azzaro, responsabile delle pagine culturali di Liberazione e tra le animatrici del corteo romano, non esita a difendere come sacrosanta: «Far sfilare gli uomini al nostro fianco avrebbe significato rassicurarli: mentre il nostro intento era esattamente il contrario, sollecitare nelle coscienze maschili una riflessione sulla violenza che ancora non c´è stata».
«La donna senza un uomo è come un pesce senza bicicletta», urlavano irridenti le femministe al principio degli anni Settanta. «Un uomo morto è un uomo che non stupra», è l´eco un po´ macabra di oggi. Allora la guerra al maschio appariva necessaria in un´Italia ancora feudale e profondamente contadina. Solo nel 1975 un nuovo diritto di famiglia poneva fine a discriminazioni secolari, con la parità giuridica tra i coniugi e l´attribuzione a entrambi della patria potestà. Soltanto allora veniva meno l´obbligo per le mogli di seguire il marito, e anche l´istituto della dote. Un paese lontano anni luce dall´attuale, nel quale sofferenze di secoli, da sempre coperte dal silenzio, esplodevano finalmente in una dimensione pubblica. Ma oggi? Oggi dopo la riforma della famiglia, dopo leggi fondamentali come il divorzio e l´aborto? «Sì, il paese è progredito sul piano legislativo», replica Elena Gianini Belotti, «ma è rimasto arretrato sul piano del costume e della mentalità. Gli uomini, nonostante tutto, non sono cambiati. Anzi, sono più disorientati. E se le donne si trovano a gridare gli slogan di trent´anni fa è perché su molti terreni siamo daccapo». Lo stupro è solo il segno più evidente/ siamo violentate quotidianamente: è uno striscione del 1976, ma secondo molte delle interpellate potrebbe sfilare in una piazza contemporanea. «In Italia più di cento donne all´anno sono vittime di omicidi dentro le mura di casa», ricorda la Gianini Belotti, che sta preparando per Laterza il libro Amorosi assassini. «Un massacro che continua nella totale indifferenza maschile. Se accadesse il contrario, se cento uomini venissero uccisi ogni anno dalle donne, ci sarebbero furibonde interrogazioni parlamentari».
«La famiglia è a rischio? La famiglia è un rischio», hanno gridato le neofemministe nelle piazze di Roma. Oggi, come ieri, si celebra il processo alla Famiglia, «luogo potenzialmente violento», «cristallizzazione di gerarchie e subalternità». Un tema anche questo antico, che risale agli anni Sessanta e forse ancor prima, nutrito di letture allora fondamentali come le teorie di David Levy sulla «mamma iperprotettiva» o «la genitorectomia» invocata da Bruno Bettelheim. Ma se un tempo ci si limitava a denunciarne la struttura repressiva, oggi ci si butta nel transgender, il superamento di confini e identità sessuali, gli amori lesbici, la decostruzione dei generi predicata da Judith Butler, autrice di culto e teorica del queer, la convinzione che l´identità di genere sia solo una costruzione sociale.
La mamma no, la madre non si tocca. Madri simboliche con cui accompagnarsi. «Una novità di oggi è anche nella trasversalità generazionale», dice Lea Melandri, memoria storica del femminismo. «Noi ci ribellavamo alle nostre genitrici, vere e ideali, insofferenti a qualsivoglia primogenitura. Queste più giovani ci vogliono al loro fianco. Non c´è lo strappo rispetto alle donne che le hanno precedute».
E quello strappo violento rispetto alle parlamentari e alle ministre: se le femministe storiche gridavano «il privato è politico», qui non c´è forte il rischio dell´antipolitica? «Diagnosi fuorviante», rispondono in coro le protagoniste di allora. Dietro la cacciata di Prestigiacomo e Carfagna («sgradevole e sbagliata») e dietro l´espulsione delle ministre Melandri, Turco e Pollastrini («sgradevole ma comprensibile»), si nasconde il desiderio di una politica diversa. «Non è un caso», racconta Chiara Saraceno, «che lo striscione "vaffagrillesco" sia stato oscurato dietro altri slogan. Direi piuttosto che è stata indelicata la presenza delle ministre su un palcoscenico osteggiato dalle neofemministe, ostili come lo eravamo noi a ogni forma di protagonismo». Una vecchia storia: il rifiuto d´una monumentalità gerarchica e verticale - il palco - a favore di un´orizzontalità che è pluralismo di voci. Puro cretinismo, come l´ha liquidato Giovanna Melandri? «Continuo a pensare che si sia trattato di idiozia politica», sostiene a freddo la ministra. «Non era un palco, ma un gazebo, strumento tecnico di La 7. La battaglia contro la violenza riguarda tutte noi: non può essere appannaggio solo di alcuni gruppi».
La lotta per «l´esclusiva», anche questa è una costante del movimento, le feroci discordie su cosa sia il Vero Femminismo. Nessuno però ricorda esempi analoghi di cacciata di donne da parte di altre donne. Molti litigi sì, anche in tribunale: per questioni di proprietà di sigle o di riviste. «Erano così minacciose per la riuscita del corteo queste politiche?», s´interroga Anna Bravo. Nei blog la discussione ferve, raddoppiano le mail. Le streghe sono tornate, ma questa volta sul web.

Repubblica 28.11.07
Domenico De Masi, sociologo: "Ora l'obiettivo è l'effettiva parità"
"Un nuovo movimento è pronto per il decollo"
di Marina Cavallieri


Professor Domenico De Masi, sociologo, cosa c´era di nuovo rispetto agli anni 70 nel corteo delle donne di sabato scorso a Roma?
«Di nuovo ho trovato l´intransigenza, un segno che nelle donne si era perso».
E cosa ha ritrovato del passato?
«Lo spirito del femminismo storico, fatto di grande passione ma anche di consapevolezza precisa. Le femministe erano persone esasperate, il nostro paese all´epoca era più vicino all´Iran che all´Italia di oggi. C´era un maschilismo che si tagliava a fette. Quella fu una generazione di donne che pagò prezzi altissimi, si sfasciarono famiglie, alcune subirono processi per aborto e misero in gioco anche il proprio equilibrio mentale, personale. Se ci fosse una santità laica, quelle donne meriterebbero di essere sante. Chi non c´era non può capire».
Dopo però è calato il silenzio. Un oblìo quasi imbarazzante...
«Le conquiste ottenute sembrarono aver placato gli animi. Oggi però io vedo un secondo decollo. Come gli aerei che hanno tre decolli. Questo per me è il secondo. Con il primo le donne hanno ottenuto alcune cose, tra cui un diritto di famiglia molto avanzato. Ora è il momento di chiedere una parità effettiva: la metà dei dirigenti, la metà dei politici, scadenze che non si possono più rinviare».
Il famoso "soffitto di vetro". Ma non crede che anche da parte delle donne ci sia stato in questi anni un ripensamento a livello teorico? Una rivalutazione degli ambiti femminili?
«Io credo che abbiano prevalso la pigrizia, la comodità. Si è detto: teniamoci quel po´ che abbiamo ottenuto e non rinunciamo al posto sul tram. Del resto dopo una grande lotta è naturale che ci sia una pausa, un allentamento della tensione».
Una pausa che è durata molto. Nel corteo c´erano le cinquantenni e le ventenni, mancavano le generazioni di mezzo. Lo ha notato?
«Quelle generazioni sono state una tragedia, un tappo. Dagli anni 80, dagli yuppie a oggi, le generazioni che si sono succedute sono state prive di qualsiasi valutazione critica su ciò che li circondava, prive di valutazione etica. Io sto all´università ho visto diversi "giovani" passare, è stato impressionante».
E i ventenni di oggi, sono diversi?
«Un po´ sì. Perché stanno vedendo che quel modo di essere non dà frutti. Ci sono nuovi bisogni. I giovani cominciano a ri-orientarsi, si creano nuove bussole».
Crede che nascerà di nuovo un movimento delle donne?
«Credo di sì. C´è bisogno di qualità della vita, di destrutturazione del tempo e dello spazio, di bisogni fondamentali come l´amicizia, l´amore. E dove c´è qualcosa di nuovo, ci sono le donne».

Repubblica 28.11.07
L’evoluzione incompiuta
di Luce Irigaray


A quale punto del loro percorso di emancipazione e di liberazione sono pervenute le donne? Come regolano, oggi, le relazioni fra vita privata e vita pubblica? Perché la questione decisiva dalla parte delle donne è stata per secoli e ancora rimane la seguente: come uscire dal letto matrimoniale e dalla cucina della casa familiare per acquisire un´autonomia civile che consenta loro un ruolo pubblico paritetico rispetto a quello dell´uomo. La cosa non è così semplice da potere essere risolta in qualche anno. Così oggi assistiamo a situazioni paradossali che possono scoraggiare chi ha pensato che le donne siano le protagoniste di cui la nostra Storia ha ormai bisogno.
E però va anche ricordato che è da poco tempo che le donne si trovano a doversi confrontare con l´impegno di passare da una semplice identità naturale a un´identità civile. Il carattere parossistico di certi atteggiamenti sembra dunque corrispondere all´emergere sintomatico di un´evoluzione incompiuta.
Per esempio, certe donne sono saltate dalla clausura della casa familiare a una poltrona di dirigente politica senza il necessario passaggio attraverso uno statuto di cittadinanza con diritti a loro appropriati. E così da un lato rimangono sottoposte agli uomini per cose che riguardano la loro vita sedicente privata - ad esempio la scelta di essere o non essere madre - e da un altro intendono rappresentare e governare altre donne senza però l´oggettività di una legislazione e di una cultura che possa fare da mediazione fra loro. Di qui le violenze o le incoerenze cui talvolta assistiamo.
E così, è vero che ogni donna è interessata alla violenza fatta alle donne. Ma che cosa significa «ogni donna»? Quale appartenenza pubblica può essere condivisa tra una casalinga e una ministra se non uno statuto civile di cittadinanza al femminile che tuttora non esiste? Che cosa hanno ancora in comune queste due donne salvo una certa appartenenza naturale e delle rivendicazioni contro una cultura al maschile? Non si può né coesistere né condividere a livello pubblico in nome di una semplice naturalità o in nome di rivendicazioni che fin quando non assumono una forma di richiesta oggettiva, preferibilmente formulata in modo positivo, non si distinguono dalla rabbia che esplode nell´ambito privato. La violenza pubblica sulle donne si fa allora eco della violenza privata patita.
Ci ritroviamo così in un circolo vizioso che non dovrebbe riguardare la vita pubblica, ma da cui essa si trova troppo spesso e da troppi lati viene invasa. La politica delle donne non ha abbastanza riflettuto su questo vicolo cieco, di cui non sono le donne le principali responsabili ma che forse proprio loro potrebbero riaprire, segnatamente sfuggendo al recinto della rivendicazione o della violenza. Questo richiederebbe però, da parte delle donne, lo sforzo di uscire da una cultura che non è la loro, senza fermarsi alla sua critica. Invece di volere a ogni costo insediarsi in una politica che non è fatta da loro né per loro, e che suscita conflitti e rigetti anche fra di loro, dovrebbero tentare di definire e praticare una cultura che corrisponda alla loro identità. Non sto qui facendo l´apologia di una politica separatista al femminile. Penso, al contrario, che le donne siano portatrici di valori relazionali che le rendono capaci di farsi promotrici di un´altra politica delle differenze e delle relazioni fra uomini e donne. Ma, per promuovere un mondo nuovo, c´è bisogno di pensiero. Non basta fermarsi a qualche slogan concernente il potere, la soggettività femminile, la politica del fra donne eccetera. Si tratta di riflettere su quale contenuto oggettivo si mette dietro gli slogan, e di verificare se questo contenuto si possa condividere e come. Se ogni donna si accontenta di rivendicare il diritto alla propria soggettività, temo che una condivisione pubblica fra le donne non potrà mai esserci. Lo stesso vale se le donne si accontentano di cercare di appropriarsi di un´oggettività culturale e politica definita da e per gli uomini. Il compito più importante che le donne oggi devono assumere è lavorare alla loro individuazione come persone civili e culturali. La politica, per non dire la democrazia, dovrebbe essere un affare di convivenza civile fra le persone prima di essere un affare di rivalità per il possesso, il potere, la poltrona.

Repubblica 28.11.07
Nicole Kidman: "Sono rassegnata fare l’attrice è una finzione"
di Maria Pia Fusco


L’attrice australiana, che ha da poco compiuto 40 anni, fa un bilancio della vita e della carriera in occasione della presentazione a Londra del suo nuovo film "La bussola d´oro" in Italia il 13 dicembre

Malgrado le polemiche non è un film anti-religioso, sono cattolica e non l´avrei mai interpretato
Come mamma di due bambini sento la responsabilità di educarli e di affidare loro il futuro
Alla mia età non oso rifiutare le offerte Volterei le spalle alla fortuna. E non importa se qualche film non va
Non ho difficoltà a lavorare con creature inesistenti. Mi ricorda quando studiavo recitazione a scuola

Se nella vita, come nel film La bussola d´oro, potesse avere il suo daimon - l´animale parlante che rappresenta l´anima di una persona - Nicole Kidman sceglierebbe «un gattino, perché amo il latte, mi piace dormire e adoro essere coccolata. Però in certi giorni una tigre mi rappresenterebbe meglio, non credo ci sia bisogno di spiegare perché». Nel film di Chris Weitz dal libro di Philip Pullman, il daimon di Nicole Kidman è una scimmia dorata, iraconda e aggressiva, perché è l´anima di Marisa Coulter, il suo personaggio, una donna crudele e assetata di potere, che non esita a far sparire bambini per conto del Magisterium, l´entità che controlla l´umanità con un potere assoluto che nega il libero arbitrio e le ricerche della scienza. Per il Magisterium la «bussola d´oro», lo strumento che porta la conoscenza della verità, è una minaccia da distruggere e Lyra, la bambina di 12 anni che la possiede, per tenerla affronta mille pericoli in un mondo popolato di Gyziani (nomadi che vivono sull´acqua), streghe volanti (la più bella è Serafina Pekkala, Eva Green), orsi guerrieri, Ingoiatori che rapiscono i bambini, tartari e ogni tipo di daimon e animale immaginabile.
Prodotto dalla New Line e presentato in anteprima a Londra, La bussola d´oro uscirà in Italia il 13 dicembre distribuito dalla 01. Lo precedono polemiche e condanne da parte di organizzazioni cattoliche che vedono nel Magisterium un´accusa al potere religioso. Forse nei libri di Pullman i riferimenti religiosi sono più espliciti e l´insistenza sulla violenza contro i bambini suggerisce un´accusa alla pedofilia, ma nel film i toni sono sfumati e, dice la Kidman, «ne parlano senza aver visto il film, persone contrarie ad ogni critica o dialogo. Quando lo vedranno sono certa che ogni accusa si dissiperà. Ho avuto un´educazione cattolica, non avrei mai fatto un film antireligioso, mia nonna non me l´avrebbe perdonato. Non sono un´appassionata del genere fantasy ma questo film, va oltre la fantascienza, mi interessa il tema del libero arbitrio e la signora Coulter è un personaggio ricco che attraversa stati d´animo e pulsioni diverse, dalla crudeltà alla dolcezza di sentimenti materni, si trasforma nel corso della trilogia», dice la Kidman. E, come il resto del cast - dalla giovanissima Dakota Blue Richards (Lyra) a Daniel Craig che tra un Bond e l´altro ha infilato il ruolo di Lord Asriel, lo scienziato legato a Lyra, pronto a tutto pur di scoprire la verità di nuovi mondi - chiede di non giudicare il personaggio in questo primo film. La fine di La bussola d´oro infatti è spudoratamente sospesa, è, come dice il regista, «volutamente un lancio per La lama sottile e Il cannocchiale d´ambra, gli altri due titoli della trilogia di Pullman "Queste oscure materie".
Il progetto della trilogia (pubblicata in Italia da Salani), soddisfa l´ansia del cinema di trovare eroi per un pubblico giovane che, come Harry Potter o il popolo di "Il signore degli anelli", creino attesa e garantiscano il successo in serie. E che in questo caso «l´eroe sia al femminile e il futuro delle nuove generazioni sia affidato a una bambina per me è un elemento di interesse in più. Del resto è vero che il futuro del mondo è affidato ai nostri figli. Io ne ho due e, come tutti i genitori, sento la responsabilità di come educarli», dice la Kidman. Che ha firmato per i prossimi due film («Vedrete se sarò più cattiva io o Daniel Craig») e persevera in un´attività intensa e senza sosta, con il rischio di scelte infelici, come gli ultimi titoli - Fur, Vita da strega, Invasion, ecc. - e il sospetto di una carriera in bilico. A prescindere dall´esito di La bussala d´oro, l´attesa è per Margot at the wedding, interpreta una scrittrice, in crisi con se stessa e la sua famiglia.
«Da nove mesi vivo tra gli Usa e l´Australia, dove sto girando Australia con Buz Luhrmann, una vicenda d´amore che attraversa momenti epici della storia del nostro paese. Intanto ho fatto Margot, ed è vero che sto lavorando molto, troppo. Ma ho 40 anni, è un momento critico, che ho la fortuna di vivere senza contraccolpi, le offerte sono quelle di prima, non oso rifiutarle, sarebbe come voltare le spalle alla fortuna. E non importa se qualche film non va bene, per me ogni personaggio che faccio è importante, significa esperienza, significa crescita».
Con la signora Coulter è tornata all´esperienza di lavorare con bambini, dopo The others o Io sono Sean, una delle sue prime scelte bizzarre e tutt´altro che fortunate. Ma soprattutto «ho fatto l´esperienza di lavorare non solo con attori ma anche con animali, creature e oggetti inesistenti, da creare dopo al computer. Non ho avuto difficoltà, ho recuperato la memoria delle prime lezioni di recitazione, si imparava a "fare finta", si parlava a interlocutori inesistenti. E dopo un film come Dogville, dove non esisteva neanche un dettaglio di scenografia, non mi spaventa più nulla. Nel futuro del cinema il computer c´è, temo che sarà sempre più usato».

l’Unità 28.11.07
Clima, l’Onu richiama i ricchi: in pericolo oltre un miliardo di poveri
di Pietro Greco


Per il rapporto dell’Undp saranno loro a pagare il prezzo più alto dei mutamenti dovuti ai gas serra. Servono 86 miliardi di dollari

FATE ATTENZIONE ai poveri del mondo. Perché sono loro che pagheranno il prezzo più salato per i cambiamenti del clima accelerati dall’uomo. Il monito è del
Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), che ieri ha reso pubblico il suo rapporto 2007/2008 sullo Sviluppo Umano dal titolo piuttosto esplicito: «Combattere il cambiamento del clima: la solidarietà umana in un mondo diviso». Ed è rivolto alla parte ricca del mondo, che è anche la principale responsabile dell’aumento della temperatura media del pianeta e dei suoi effetti. Si tratta di un monito tempestivo, perché lunedì 3 dicembre, si apre a Bali la conferenza dell’Onu che dovrà decidere il futuro del Protocollo di Kyoto e, quindi, le modalità con cui il mondo deciderà di combattere quella che molti, ormai, ritengono la più grave minaccia che incombe sull’umanità nel XXI secolo. Ma si tratta anche di un monito che scende nel dettaglio e diventa un vero e proprio programma politico. Con una sua coerenza. E una sua forza.
I dati scientifici di riferimento sono quelli dell’Ipcc: la temperatura media del pianeta è aumentata di 0,72 °C nell’ultimo secolo. E aumenterà ancora di un valore compreso tra 1,8 °C e 4,0 °C entro il 2100. L’incertezza dipende anche dalle scelte politiche che, nel frattempo, adotteremo. Cosa comporterà, in termini economici e sociali, un cambiamento del clima che non ha precedenti negli ultimi millenni? Gli esperti dell’Undp non hanno dubbi. Peggiorerà in maniera insopportabile le condizioni di vita della fascia di popolazione più povera del mondo. L’alta temperatura irromperà in diversi modi nei campi, rivoltando il sistema agricolo di molti paesi. Entro i 2060, l’agricoltura a sud del Sahara subirà un calo di produttività del 26%. A livello mondiale altri 600 milioni di persone (in aggiunta agli 800 attuali) soffriranno la malnutrizione. E, entro il 2080, altri 1,8 miliardi di persone soffriranno la sete. In tutto il mondo i rifugiati ambientali potrebbero essere oltre 330 milioni.
Ma anche sul piano sanitario i rischi saranno diffusi. Altre 400 milioni di persone, per esempio, saranno minacciate dalla malaria. Lo scenario dell’Undp, dunque, conferma e rafforza quello proposto nei mesi e nelle settimane scorse dagli scienziati dell’Ipcc. Ma l’Undp chiama anche a una precisa azione politica. Dobbiamo andare «oltre Kyoto» anche perché non possiamo far pagare ai poveri le colpe dei ricchi. E in maniera così drammatica. Che fare, dunque? Muoversi lungo due direzioni: cercare sia di prevenire che di adattarsi al clima che cambia. Chiamando i ricchi alla solidarietà attiva verso i più poveri. In tema di prevenzione, è bene che da Bali parta un processo con tappe ben definite per la riduzione delle emissioni di gas serra. L’accordo può essere raggiunto su questa base: i paesi sviluppati, che hanno responsabilità storiche, si impegnino a ridurre le loro emissioni del 30% rispetto ai livelli di riferimento del 1990 entro il 2030 e dell’80% entro il 2050. Nel medesimo tempo i paesi a economia emergente e i paesi ancora in via di sviluppo accettino di ridurre le loro emissioni del 20% entro il 2050, sempre rispetto al 1990 come anno di riferimento. Tutto ciò avverrà a un costo pari all’1,6% del Pil mondiale. Una cifra grande, ma inferiore di un terzo abbondante alla spesa militare. Un prezzo giusto per sventare la più grave minaccia alla sicurezza dei cittadini del pianeta. Se questo avverrà, riusciremo a mantenere la concentrazione di anidride carbonica entro il livello di 450 parti per milioni e limiteremo a soli (si fa per dire) 2 °C l’aumento della temperatura media del pianeta.
Ma due gradi sono ancora molto. Anzi, moltissimo. Cosicché oltre a prevenire dovremo anche adattarci ai cambiamenti del clima. Inutile dire che i ricchi hanno le risorse, finanziarie e tecnologiche, per farlo. Non avranno questa capacità i poveri del mondo. Ecco perché i ricchi dovranno aiutare i poveri. Finanziando le loro possibilità di adattamento. Il prezzo della solidarietà è stato fissato dall’Undp in 86 miliardi di dollari l’anno da raggiungere entro il 2015. Non è un prezzo impossibile. Ma è alto. A tutt’oggi gli aiuti che ogni anno i paesi ricchi trasferiscono ai paesi poveri per aiutarli ad adattarsi al clima non superano i 26 milioni di dollari.

l'Unità Firenze 28.11.07
Jervis. Etica laica e religione, una battaglia aperta
di Renzo Cassigoli


Il rapporto tra etica laica e religione è al centro del dibattito pubblico in Italia, più in generale in Europa e negli Stati Uniti. Anzi, possiamo dire che il concetto di laicità ha assunto dimensioni planetarie dovendo fare i conti con gli integralismi, i fondamentalismi, con i compiti e i limiti delle società democratiche dinanzi ai problemi della bioetica e dello sviluppo della scienza in un sistema ormai globale. Dopo oltre due secoli , insomma, si torna a discutere del valore e del significato dello Stato laico in un confronto-scontro che sembra senza soluzione di continuità. Sono questi gli argomenti che Giovanni Jervis affronta sul piano scientifico in un saggio molto intenso intitolato Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, che sarà presentato oggi alle Oblate di Firenze (ore 17.30, ingresso libero). Esplicito il riferimento a Sigmund Freud, che definiva illusioni quella varietà di errori della mente che incidono sulla nostra vita, sui quali Jervis invita a riflettere. In questo contesto gli aspetti psicologici posti dai grandi temi sociali assumono per l’autore un’importanza crescente rispetto a questioni che possono essere chiarite se riusciamo a comprendere i punti deboli del nostro comune modo di pensare. «Per molti anni - scrive - ho diviso il mio tempo fra l’ascolto di persone in difficoltà e l’insegnamento universitario. Dai pazienti ho imparato ad addentrarmi con cautela nella debolezza delle cose umane; dagli allievi a connettere, nei limiti del possibile, la psicologia del buonsenso con la psicologia scientifica». Una riflessione importante quella di Jervis, visto che oggi sul tavolo non c’è solo il confronto con vetusti dogmi o astratti principi, ma il sostanziale contenuto di diritti sociali, umani, di cittadinanza che impongono un nuovo modo di pensare e nuove regole rispetto a quelle dettate da una visione confessionale che ignora e condanna la diversità. Valgano tre esempi: i diritti negati alle coppie di fatto, ma concessi a chi ha il potere; la difesa della salute che porta a combattere il flagello dell’Aids con l’astinenza piuttosto che con la contraccezione; il diritto di decidere della propria vita mediante il testamento biologico. Regole che garantiscano tutti i cittadini lasciando libera la coscienza religiosa di ognuno di accettarle o meno. Fa riflettere sul piano scientifico e umano la conclusione a cui giunge Jervis. «In un’epoca caratterizzata dalla crisi delle ideologie politiche e dal tramonto delle utopie rivoluzionarie, l’attenzione ai limiti della natura umana presenta una rilevanza inedita. Ammaestrati dal fallimento dei grandi sistemi siamo più attenti agli “errori della mente”, consapevoli di essere esposti a illusioni sociali. Accesi antagonismi riguardano oggi la bioetica e il significato dell’evoluzionismo darwiniano, che coinvolgono temi politici e problemi di psicologia. Viene talora ripetuto che il conflitto fra fede e scienza potrebbe essere un falso problema. Il contesto è invece serio e profondo e non pare destinato a risolversi con facilità».

Corriere della Sera 28.11.07
Medicina La rivista scientifica «Lancet» riapre le polemiche
«E' provato: l'omeopatia è inutile»
di Margherita De Bac


Uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista di medicina The Lancet stronca severamente l'omeopatia e altre medicine alternative, come l'agopuntura. L'efficacia dei farmaci omeopatici non presenta «vantaggi significativi rispetto ai placebo », anzi, ci sono «inattesi effetti collaterali». Insorgono i produttori di preparati omeopatici.

Lo studio Censurata la «mancanza di informazioni». Londra taglia i fondi
«L'omeopatia è un placebo: effetti collaterali inattesi»
Nuova ricerca di Lancet. I farmacologi: basta aiuti

ROMA — Efficace come un placebo. Finta medicina. O, se preferite, acqua fresca. Stangata di Lancet, la prestigiosa rivista di scienza, sull'omeopatia. Un articolo firmato sull'ultimo numero da Ben Goldacre, autore di un commento affilato anche sul quotidiano britannico Guardian,
stronca la più gettonata delle terapie alternative citando cinque ampie revisioni degli studi condotti negli ultimi anni. Tutti, sostiene, portano alla stessa conclusione: «Non sono stati evidenziati vantaggi significativi rispetto ai placebo».
Non basta. Goldacre insiste nel colpire duramente denunciando gli «inattesi effetti collaterali» e la mancanza di informazione adeguata. Seguono, sempre su Lancet,
due servizi sull'ondata antiomeopatica nel Regno Unito, dove il governo ha tagliato i fondi pubblici ad alcuni centri che prescrivono le cure dolci, e sul buon vento che soffia in India dove il mercato sta crescendo del 25% all'anno, sostenuto da 100 milioni di pazienti.
Alle insinuazioni replicano i Laboratoires Boiron, una delle maggiori aziende del settore, che cita i risultati di sperimentazioni condotte secondo le regole corrette dal punto di vista metodologico. Vengono rivendicati gli «effetti benefici degli interventi con omeopatia». «L'ennesimo attacco scientificamente ingiustificabile» è annoverato fra le attitudini sfavorevoli «al progresso nella conoscenza. L'omeopatia è una vera e propria chance per la medicina di domani — argomenta Boiron — ma non ce la fa da sola, ha bisogno di condividere il percorso con gli scienziati, mondo accademico e realtà ospedaliera ».
Polemiche anche in Italia dopo la divulgazione del documento della società italiana di farmacologia, la Sif, nell'ultimo numero della Newsletter. Bocciate oltre all'omeopatia («la forza delle evidenze che scaturisce dagli studi pubblicati è bassa e vengono in genere riportati risultati negativi»), agopuntura («efficacia moderata come nel caso delle patologie infiammatorie croniche»), medicina tradizionale cinese (« su di essa esistono limitatissime informazioni, carenza aggravata dalle difficoltà legate alla lingua») e fitoterapia. Meno duro il giudizio sulle erbe: «Da anni molti medici in Italia le usano e hanno maggiore familiarità. Le prove di efficacia però non sono sempre entusiasmanti e se prescritte con troppa disinvoltura possono portare qualche guaio».
Achille Caputi, presidente della Sif, spiega le ragioni dei farmacologi: «Per il servizio sanitario è un momento di estreme difficoltà economiche e non vediamo perché bisognerebbe rimborsare cure che non funzionano, come vorrebbe la proposta di legge in discussione al Parlamento ». Sono circa 200 i centri ospedalieri e di Asl che rimborsano le altre terapie (salvo versamento di ticket e prodotti a carico del paziente), grazie all'autonomia di spesa delle Regioni.
La popolarità delle terapie alternative in Italia è per la prima volta in calo secondo l'ultima indagine Istat, 60 mila famiglie intervistate nel 2005. Gli italiani che almeno una volta hanno combattuto raffreddore, influenza e dolori intestinali o reumatici sono 7 milioni e 900 mila, un milione in meno rispetto al '99. Il motivo? Maggiore prudenza dopo gli articoli scientifici non rassicuranti.

il manifesto 28.11.07
Falce e martello La sinistra unita rinuncia al simbolo. E si apre la gara per l'eredità
Per un pugno di voti rossi
di Daniela Preziosi


Vintage nell'urna Per i pubblicitari è roba vecchia. Per i sondaggisti vale dallo 0,1 all'1, 5 per cento. Ma il semiologo Calabrese avverte: attenti alle rottamazioni facili, ha una potenza comunicativa eterna La Cosa rossa abbandona il vessillo degli operai e dei contadini poveri. Che però ha già i suoi pretendenti. Marco Rizzo, Pdci, perché intende «restare comunista». Ma non solo reduci. Salvatore Cannavò, della sinistra Critica: «Nel caso, sceglieremo la versione più sobria»

Abbiamo un altro progetto, più vitale». Cannavò viene dal trozkismo di Livio Maitan. Che aveva come simbolo una falcemartello rovesciata. «Non rovesciata, era quella originaria. Ma nel caso, sceglieremo la sua versione più conosciuta, la più sobria». Così elegante.

«No, non si fa. Applicare alla politica le categorie del marketing è cinico e riduttivo. Però...». C'è un però nel discorso di una pubblicitaria come Annamaria Testa. Ed è: però se le si chiede, come fa il manifesto,quanto appeal ha oggi la falcemartello, il simbolo che fu di Lenin a significare che la rivoluzione d'ottobre era stata fatta dagli operai e dai contadini poveri...«Ecco vede, la gente ancora si commuove. Però...».«Però i simboli devono avere una rispondenza con la realtà. Oggi in fabbrica chi lavora più con il martello? Nessuno. E in campagna chi lavora con il falcetto? Nessuno».
Terribile e elegante, moderno e archetipico, famoso e famigerato. Trinariciuto e ingombrante. Ma non c'è aggettivo che potrà salvare la falcemartello dalla rottamazione. Non sarà fra le insegne dell'imminente federazione della sinistra. Resterà sulle tessere dei due partiti comunisti (Rifondazione e Pdci). Ma un marchio politico che non va sulla scheda elettorale è fatalmente destinato alla dissolvenza. L'ultimo a rassegnarsi è Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, che sulla conservazione dell'attrezzistica rivoluzionaria ha consumato l'ultimo strappo. Novembre 2005, Armando Cossutta, presidente e padre del partito, nonché suo personale ispiratore, dichiarò al Corriere della sera che alla falcemartello si poteva rinunciare in nome di più avanzate alleanze. Tempo sei mesi l'anziano Cossutta, ultimo partigiano del parlamento, si accomodava nel gruppo misto del senato.
Benché anziana signora, la falcemartello esercita ancora un suo fascino. «Se non proprio un mercato, diciamo che ha un suo mercatino», ci dice il sondaggista Renato Mannheimer. O, meglio, dice il collega Alessandro Amadori: «Ha avuto un grande mercato. Per fortuna non siamo più negli anni 90, quando si abbattevano i simboli. Ormai funziona il vintage». E non importa che i due oggetti sono ormai abbandonati in una rimessa, forse persino sconosciuti ai bambini del 2010. «Il reale significato non importa. Questo simbolo ha un potere comunicativo enorme. Il martello dà un'idea di pressione, la falce di taglio, di rivoluzione. Il lavoro e il cambiamento. Per l'eternità», dice Amadori. Ma, nel contingente: nel segreto dell'urna, dove Stalin ti guarda, può ancora funzionare? Perché fra le varie e ideali ragioni per le quali nel Pdci si resiste alla rottamazione, c'è la quasi certezza che qualcuno raccoglierà il simbolo e lo porterà sulla scheda elettorale. Che vale l'1-1,5 dei voti rossi, dice la voce comune. O no? Non è detto, secondo Ferdinando Pagnoncelli dell'Ipsos. «Per rievocare, questo simbolo ormai non ha più valore. Ha però il valore di ribadire. Intendo dice che sarà un elemento distintivo per un elettore un po' confuso che affronta una scheda grande come un lenzuolo». E' d'accordo il semiologo Omar Calabrese, uno dei padri della 'Quercia': «La falcemartello ha ancora un valore residuale. L'elettore si comporta così: se il simbolo nuovo è forte, quello vecchio lucra lo 0,1 per cento. Se è debole...». Ed è proprio il caso che temono quelli della Cosa rossa.
Chi sono i possibili nuovi falcemartelluti? Di sicuro Marco Ferrando, Partito comunista dei lavoratori: dove si è presentato ha preso l'1 per cento. Ma c'è chi teme il colpo di scena di Marco Rizzo, ormai in rotta con Diliberto. Ha appena pubblicato il libro Perché ancora comunisti che ha tutta l'aria di un preambolo a una contestazione in grande stile. «Questa unità a sinistra, sulla carta, è fatta al 70 per cento da comunisti. E non può avere, come sosteneva Diliberto fino all'ultimo comitato centrale, neanche un richiamo ai simboli del lavoro? Non sono d'accordo. Resto comunista, che ci posso fare? Ai tempi della Bolognina lo dicevamo tutti: il nome è la cosa. Quando uno smonta i simboli una ragione c'è. L'unità a sinistra cosa ha prodotto? Niente». Falcemartello, dunque, saranno raccolti dai custodi dell'ortodossia comunista? Non è detto. Salvatore Cannavò, deputato Sinistra Critica, l'area in partenza dal Prc, annuncerà la nascita di una nuova creatura a sinistra proprio l'8 dicembre, contemporaneamente all'assemblea della Cosa rossa. «Ogni volta che qualcuno butta qualcosa, mi viene da raccoglierlo. Sul simbolo rifletteremo. Ma sia chiaro: non ci interessa assemblare reduci.

il manifesto 28.11.07
Lo storico Canfora
Lenin direbbe: i simboli sono puro accidente Ma il comunismo non può essere archiviato
di Andrea Fabozzi


Sostiene di aver già «assaporato» le schede dove al posto della falce e martello c'era la barba di Garibaldi, e aveva solo sei anni d'età, e comunque non per questo il professore storico e comunista Luciano Canfora proverà dispiacere quando, questione di giorni, la sinistra italiana annuncerà la rinuncia al marchio comunista. «Nel mio leninismo assoluto - dice il professore - trovo incomprensibile tutto questo stare appresso ai simboli».
Eppure a incrociare falce e martello nel simbolo pare sia stato proprio Lenin.
Non vedo il dramma, non mi crea imbarazzo che scompaia un simbolo anacronistico. Non c'è nemmeno l'ombra dell'emozione che ci fu nel 1989. Come strumenti del lavoro la falce e il martello sono talmente anacronistici che già la Ddr aveva introdotto nella sua bandiera il compasso.
Scompare il simbolo perché possa dileguarsi anche la parola, «comunista»?
Questa è una sciocchezza, mica l'hanno inventata i sovietici nel '17 e nemmeno Marx ed Engels. Potremmo risalire al primo secolo avanti Cristo. Aristofane fa una critica molto aspra del comunismo nelle Donne al parlamento. Semmai una parola moderna è liberalismo. Neanche Pericle l'ha mai pronunciata. Mi creda, la partita comunista è aperta e i nomi sono puri accidenti.
Dice così perché la falce e il martello non le sono mai tanto piaciuti.
Ma no, si tratta di un simbolo che ha avuto la sua forza. Però come ci ha insegnato Eraclito non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume. La lezione vale anche per queste cose. La storia è un movimento perenne, al tempo loro falce e martello furono un ottimo simbolo, adesso da molto tempo non lo sono più. La controprova? Quando il Pds cambiò emblema la cosa non giovò quasi per nulla a quelli che conservarono il simbolo comunista.
Veramente ricordiamo schede dove il voto per il Pds era espresso con una piccolissima croce alla base della Quercia, esattamente sopra quello che restava della falce e martello.
Ah sì? E io ricordo alle elezioni politiche del 1953 che molti onesti proletari mettevano la croce due volte, sia sul simbolo del Psi che su quello del Pci, convinti così di rafforzare il voto per la falce e martello. Vede quanto sono ingannevoli i simboli? Quelle schede naturalmente finivano annullate.
Eppure il Pci aveva quei manifesti semplici, solo il simbolone e «vota comunista».
Quel simbolo, la bandiera rossa con falce, martello e stella sovrapposta alla bandiera d'Italia, rappresentava già una bella rottura con l'ortodossia comunista. Quando Togliatti lo fece disegnare da Guttuso era in auge il Comintern, e invece il Pci si metteva a rivendicare l'orgoglio nazionale.
Ragione per cui insisto: nemmeno un po' di nostalgia di fronte a questo tramonto?
Senta, le ricordo quello che disse Luigi Russo a Giuseppe Saragat quando fece la scissione di palazzo Barberini. Gli disse che era il Daniele Cortis della politica italiana, quel personaggio del romanzo di Fogazzaro che piange continuamente. Nessuno di noi dovrebbe fare politica con le nostalgie e i piagnistei. La politica è verità. E anche voi giornalisti dovreste evitare di assecondare l'inclinazione a perdere tempo dei nostri politici.
A prescindere dal simbolo, allora, il fatto che la sinistra dell'Unione tenti di mettersi insieme le sembra utile e interessante?
Lo sarebbe. Il partito democratico è un partito di centro e qualcuno dovrà pur interessarsi di quella parte della società italiana che vede dimezzarsi il suo potere di acquisto. Dunque una sinistra unita sarebbe certamente una cosa utile. Ma non credo che gli attuali dirigenti siano adatti a farla. Litigano su tutto come in un condominio di periferia, meglio sarebbe cercarsene di nuovi.
Nuovo per nuovo torniamo al simbolo, se la sente di suggerire qualcosa?
Dovrei interrogare le Muse, mi dia cinque minuti.
(...)
Pronto, professore, cosa suggeriscono le Muse per il nuovo simbolo della sinistra?
Mi hanno fatto ripensare al mappamondo di Unità proletaria. Se lo ricorda? Non era male. Del resto siamo internazionalisti e l'unità del genere umano la predica anche il vangelo. Avremmo dei potenti alleati.

il manifesto 28.11.07
Un luogo per orientarsi tra il pieno e il vuoto
di Maria Teresa Carbone


Oggi a Perugia la conferenza sui disturbi alimentari
Intorno al tema «Luoghi e spazi della cura nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare» si tiene oggi al Centro congressi dell'Hotel Giò di Perugia la conferenza programmatica promossa dalla Direzione Regionale Sanità e Servizi Sociali della Regione Umbria. Articolato su due sessioni, «I luoghi della cura» e «La rete degli interlocutori», l'incontro si propone come la prima vera occasione di riflessione sui bisogni di salute, sui modelli organizzativi e sulle effettive ricadute degli
interventi assistenziali nella popolazione interessata da queste patologie.

Lontani i tempi in cui gli studi dell'antropologo Edward Banfield fecero diventare il centro lucano di Chiaromonte un emblema dell'arretratezza meridionale. Oggi il paese ospita un servizio pubblico modello per la cura dell'anoressia e della bulimia

A Chiaromonte si arriva da Lauria, sulla Salerno-Reggio Calabria. È qui che si imbocca la superstrada Sinnica, quaranta chilometri attraverso il parco nazionale del Pollino: grandi rocce scavate dal vento, una vegetazione fitta ammantata dei colori dell'autunno, fiumare asciutte pronte a gonfiarsi di acqua nei mesi invernali. I segni della presenza umana sono rari: non si incrociano molte macchine, e i pochi paesi che si vedono in alto sulle colline appaiono isolati, raccolti. Chiaromonte non fa eccezione: un piccolo centro abitato di poco più di duemila abitanti, il cui nucleo storico è arroccato su uno sperone roccioso, mentre più in basso, a mezza costa, si trovano le case più recenti, costruite nell'ultimo mezzo secolo. E proprio mezzo secolo fa, nel 1958, questo paese così appartato fornì all'antropologo statunitense Edward Banfield i materiali per un saggio, Le basi morali di una società arretrata, divenuto famoso per una formula fin troppo fortunata, «familismo amorale».
Suona quindi come un felice paradosso che «Montegrano» (come Banfield ribattezzò nel suo studio Chiaromonte), emblema dell'arretratezza e dell'inerzia meridionale, ospiti da circa un anno una struttura di riferimento, nel nostro paese e anche all'estero, per i disturbi del comportamento alimentare: il primo centro residenziale pubblico di cura del Mezzogiorno e il secondo in tutta Italia dopo l'esperienza pilota di Palazzo Francisci a Todi. Ma forse di paradosso si tratta solo in parte, e anzi non è un caso che appunto in una località così piccola, dove la capacità e i tempi dell'ascolto sono di certo ancora oggi più elevati rispetto alle grandi città, abbia trovato sede questa struttura, nella quale l'anoressia e la bulimia, insieme alle forme sempre più numerose e sfuggenti in cui si declinano oggi i «disturbi alimentari», vengono infine affrontate (e curate) come disagi che investono tutti gli aspetti della personalità.

La spia di un bisogno diffuso
La storia del centro «Giovanni Gioia» di Chiaromonte lo conferma. Sono passati poco più di due anni da quando i genitori di una ragazza anoressica, che avevano dovuto sostenere spese molto ingenti per fare curare la figlia in un centro privato svizzero, si rivolsero alla Asl di Lagonegro per sapere se avrebbero avuto diritto a una qualche forma di rimborso. Una pratica burocratica fra le tante; ma i responsabili della Asl, e in particolare il direttore Mario Marra, si resero conto che il problema di quella famiglia era la spia di un bisogno diffuso, al quale non si era ancora fatto fronte, nonostante l'attenzione crescente (ma spesso superficiale) che la stampa e i media dedicano da qualche anno tempi ai «disturbi dell'alimentazione».
Secondo i dati ministeriali sono circa due milioni i ragazzi che in Italia soffrono di problemi connessi al comportamento alimentare e decine di milioni nel mondo si ammalano ogni anno. Ogni cento ragazze, nella fascia compresa tra i dodici e i venticinque anni, dieci soffrono di disturbi più o meno lievi, e una o due delle forme più gravi come anoressia e bulimia. Dati, d'altronde, che con ogni probabilità sottovalutano il fenomeno, poiché si riferiscono a quasi dieci anni fa e non tengono conto del fatto che negli ultimi tempi quella che era una patologia quasi esclusivamente femminile colpisce un numero sempre più alto di ragazzi, e che oltre i venticinque anni sono tante, oggi, le donne affette dal binge eating disorder, le abbuffate compulsive le cui conseguenze non sono meno pesanti rispetto all'anoressia o alla bulimia. Eppure, malgrado una situazione tanto drammatica, la risposta della sanità pubblica è stata finora frammentata, disorganica, lenta (come documenta la scheda in basso).
Ma a incoraggiare Marra in questa impresa, che si presentava al tempo stesso indispensabile e temeraria, è stato soprattutto l'incontro con una psichiatra di Perugia, Laura Dalla Ragione, responsabile del progetto che ha trasformato il cinquecentesco Palazzo Francisci di Todi nella prima struttura pubblica per i disturbi del comportamento alimentare: fino all'anno scorso - appunto fino all'apertura del centro di Chiaromonte - l'unico posto dove nel nostro paese fossero riuniti i quattro livelli terapeutici (l'ambulatorio, il day hospital, la residenza e la struttura riabilitativa). Ma soprattutto un posto speciale, dove la vita delle ragazze si scandisce in un ritmo armonioso e costante di attività diverse, dalla musica all'arte alla danza, capaci di attirarle fuori dalla solitudine di cui sono prigioniere e di dare loro, anche grazie a un rapporto più equilibrato con il cibo, una nuova percezione del proprio corpo e di sé.
All'ingresso, una citazione di Plotino, «L'anima ha bisogno di un luogo», riassume meglio di tante parole l'orientamento dei terapeuti di Palazzo Francisci. (E infatti, proprio questo titolo ha scelto la responsabile del centro umbro, Laura Dalla Ragione, per un saggio sui disturbi alimentari e la ricerca dell'identità scritto insieme alla specialista di medicina integrata Simonetta Marucci e appena uscito per Tecniche nuove).
Realizzato in tempi eccezionalmente brevi, un anno circa, grazie all'impegno della Asl di Lagonegro ma anche del sindaco di Chiaromonte, Luigi Viola, che ha da subito creduto molto in questo progetto, il centro «Giovanni Gioia» è davvero «un luogo per l'anima». Da fuori, l'edificio che lo accoglie, un piccolo ospedale costruito negli anni Sessanta e oggi dismesso, appare piuttosto anonimo, simile a tante strutture sanitarie dello stesso tipo sparse per l'Italia. Oltrepassata la porta, però, appare evidente lo sforzo dei responsabili di dare agli ambienti un calore che non ha nulla di ospedaliero, dalle camere a due letti, non troppo diverse - con le loro scrivanie, le coperte colorate e i manifesti alle pareti - da quelle che gli ospiti (per lo più ragazze sui vent'anni, ma anche donne mature e perfino un fragile adolescente appena arrivato, e all'apparenza ancora smarrito) hanno lasciato nelle loro case, ai grandi ambienti comuni, dove la giornata scorre secondo un calendario ben cadenzato. Un ordine tranquillo e insieme rigoroso che gli ospiti si sono impegnati, al momento dell'ingresso, ad accettare, firmando un preciso «contratto terapeutico».
Sono queste regole di base - prendersi cura della propria salute, evitare comportamenti autolesivi, come nascondere cibo o bere quantità esagerate di acqua o girare per la residenza nelle ore notturne - a rappresentare il primo passo verso la guarigione, grazie al sostegno costante di un nutrito numero di operatori. In tutto, infatti, la «casa» accoglie sedici ospiti, più dieci in semiresidenza, continuamente assistiti da una quarantina di diverse figure: educatori, psicologi, dietisti, terapeuti che si occupano delle varie attività, dall'arte alla educazione corporea e perfino all'ippoterapia e all'onoterapia (gli umili asini si sono rivelati terapeuti incredibilmente efficaci).
«A un anno circa dall'apertura del centro, il bilancio è molto positivo» commenta con evidente orgoglio la responsabile del centro, la psicoterapeuta Rosa Trabace, che non nasconde tuttavia la difficoltà di far funzionare un sistema complesso, così lontano dal rigido modello ospedaliero e basato invece sull'incrociarsi di competenze diverse: «C'è un grande investimento di energie, ma al termine dei tre o quattro mesi del periodo di residenza le ragazze sono finalmente pronte ad affrontare la fase forse più delicata, il rientro a casa, che prevede comunque una serie di incontri di sostegno».

Nuovi progetti
Mentre escono chiacchierando a bassa voce dalla grande sala dedicata alle attività artistiche, tutta tappezzata di disegni e di collage, le ragazze assomigliano a tante loro coetanee, le facce sorridenti, le felpe colorate, le unghie smaltate di nero. Sarà al momento dello spuntino di metà mattina (uno dei cinque pasti in cui si cadenza la giornata), che affiorerà un po' di smarrimento, di tensione. Davanti al frutto o alla fetta biscottata - ogni ospite ha un programma di alimentazione individuale, studiato da dietologi e nutrizionisti - qualcuna sembra perdersi in un vortice scuro di timori. Ma gli educatori e la dietista girano fra i tavoli, incoraggiando le riluttanti con una battuta, un sorriso. I tempi devono essere rispettati, non è consentito attardarsi.
In un'altra sala, due terapeute, in attesa dell'arrivo delle ospiti, dispongono sul pavimento una serie di immagini di fiori tutti diversi: è un progetto nuovo, spiegano, che coinvolge numerose attività, dall'arte alla musica all'espressione corporea, e che porterà (ma le ragazze non lo sanno ancora) a una sorta di piccolo spettacolo finale. Osservando questi fiori così attraenti nella loro varietà e immedesimandosi nelle loro forme attraverso immagini, suoni, movimenti, le ragazze potranno cominciare a riflettere da una prospettiva che avevano dimenticato su di sé e sul proprio corpo, questo corpo che è al centro della loro ossessiva attenzione e che nei tre o quattro mesi di ricovero imparano, alla lettera, a «riscoprire».

Educazione all'autostima
Non ci sono specchi, infatti, sulle pareti del centro, ma una volta la settimana ognuna a turno incontra, guidata dallo psicoterapeuta, la propria immagine, in quello che rappresenta uno dei momenti più importanti di questo percorso tanto faticoso quanto affascinante. «La terapia dello specchio - spiega la psicologa Ada Nubile - si scandisce in sette appuntamenti, dal primo, in cui la ragazza si guarda ancora avvolta negli abiti ampi che il regolamento prevede, fino all'ultimo, quando arriva il momento di affrontare il corpo nella sua nudità, coperto solo da un costume da bagno». Una progressiva educazione alla autostima e alla percezione realistica della propria immagine, ma anche, soprattutto, il ritrovamento dentro di sé di quel «luogo» che «l'anima» sembrava avere smarrito.

Liberazione 27.11.07
Melandri Turco Pollastrini non avete capito nulla
di Angela Azzaro


Se c'è qualcuna che sabato ha dato il peggio di sé, non sono le donne che hanno contestato ministre ed ex ministre, ma proprio le politiche che hanno dimostrato di non aver capito nulla, né della manifestazione, né delle proteste.
Partiamo dalle reazioni. Le più furiose sono state quelle di Stefania Prestigiacomo e di Giovanna Melandri. «Chi è stato deve pagare» ha detto la prima. «Cretine e sciagurate» ha detto la seconda diretta alle manifestanti che l'avevano cacciata dal palco di La7. Barbara Pollastrini e Livia Turco si sono contenute, ma in fondo hanno parlato delle contestatrici come di una minoranza di scalmanate. Tra una dichiarazione e l'altra, hanno avuto anche il tempo di chiamarsi per esprimersi solidarietà come avessero subito chissà quale violenza. Ci sarebbe da ridere, se non fosse preoccupante il segnale che arriva: nella democrazia in crisi ormai cronica, il dissenso non è più legittimo, non è più possibile. O si sale sul carro del vincitore, oppure si deve stare zitti e zitte. Le manifestanti di sabato hanno detto che non ci stanno, che vogliono parlare e che nessuna, davvero nessuna, è tenuta a farlo in loro nome. Tanto più se parla con il linguaggio delle ministre. Immaginatevi di invertire le parti. Che cosa accadrebbe, se davanti a una ministra che secondo noi non solo svolge male il suo ruolo, ma compie atti che disapproviamo, le dicessimo: «Hai sbagliato, devi pagare». Oppure «Sei una cretina, una sciagurata». Ci darebbero delle violente, forse scatterebbe anche una querela. La stessa regola dovrebbe valere anche per le ministre, soprattutto per loro che rappresentano le istituzioni. Invece, nessuno o quasi, si è indignato per le accuse rivolte alle manifestanti che esercitavano semplicemente il loro diritto al dissenso.
Ma su cosa dissentivano e perché? Le donne che hanno allontanato dal corteo prima Prestigiacomo e Carfagna, poi contestato e allontanato dal palco di La7 le tre ministre hanno posto almeno due questioni: di metodo e di merito. Ma prima di tutto bisogna chiarire una cosa: le contestatrici non erano uno sparuto gruppo, ma la maggior parte delle realtà che hanno lavorato all'organizzazione della manifestazione. Non quattro scalmanate, come sono state definite, ma quelle straordinarie giovani che senza nessun partito, nessun sindacato hanno portato tante donne in piazza per una manifestazione unica. Le organizzatrici avevano deciso non solo che quella manifestazione fosse solo di donne, ma che non ci fosse un palco finale per far sì che nessuna voce prevaricasse le altre. Tutte protagoniste allo stesso modo. Davanti alla crisi della rappresentanza, le protagoniste del 24 non hanno usato la solita scorciatoia di crearne un'altra, ma di provare davvero a giocare la carta della partecipazione, della pluralità. Si può facilmente capire la rabbia, quando - arrivate in piazza Navona - hanno trovato il palco di La7 con sopra le ministre che parlavano in loro nome. Le hanno allontanate con la loro voce, la loro forza, la loro voglia di cambiare le cose. Le ministre, il giorno dopo, hanno continuato a rivendicarsi quella presenza non capendo che la questione posta è quella dell'autonomia del movimento delle donne dalla politica istituzionale, è la libertà che non si misura nelle aule del governo. Se Melandri, Turco, Pollastrini avevano davvero a cuore le questioni poste con la manifestazione dovevano preoccuparsi prima (cosa che non hanno fatto) e il 24 stare a sentire, dare spazio alle donne che la politica e i media ufficiali cancellano ogni giorno. Sarebbe stato un atto di grande democrazia e di alta politica. Invece...
C'è poi una questione di contenuti che va chiarita. Il corteo di sabato non era un generico evento contro la violenza degli uomini sulle donne. L'appello iniziale ( www.controviolenzadonne.org ) non poteva lasciare dubbi, almeno di non averlo, colpevolmente, mai letto o di averlo voluto, appositamente e malignamente, fraintendere. Diceva infatti a chiare lettere che si manifestava contro la famiglia e il familismo, luogo dove avvengono il 90 per cento dei casi di violenza, e contro il pacchetto sicurezza considerato xenofobo e repressivo. Come è possibile allora che ministre ed ex ministre a favore del family day o del pacchetto sicurezza fossero alla manifestazione? Non è una forzatura, un uso strumentale, una violenza? Non è vero che bastava essere donne per partecipare a quella manifestazione, ma donne che la pensano in un certo modo. Immaginate che cosa succederebbe se a una manifestazione antirazzista venissero Borghezio o Calderoli? O che nel programma di Veltroni qualcuno scrivesse un capitolo sulla pace senza se né ma? Veltroni si arrabbierebbe e "allontanerebbe" quelle frasi così estranee alla sua idea della politica. Dire che le donne sono tutte uguali, è un altro atto di misoginia a cui la manifestazione del 24 ha indirettamente risposto ponendo al centro grandi questioni politiche. Questioni ineludibili.

Liberazione 27.11.07
Ricordate ancora Franco Basaglia?
di Alessandro Delfanti


Sono passati quasi trent'anni dall'approvazione della legge 180, o legge Basaglia, quella che ha chiuso i manicomi e ha messo l'Italia all'avanguardia nel campo della psichiatria del tempo. O meglio, dei diritti umani, applicati anche, guarda un po', agli utenti psichiatrici. A ricordare quel 13 maggio del 1978 contribuisce la ristampa di Non ho l'arma che uccide il leone (Stampa Alternativa, pp. 336, euro 15), uscito per la prima volta nel 1980, poco dopo la fine di quel periodo di lotte che aveva coinciso non per caso con gli anni settanta. L'autore, Peppe Dell'Acqua, è uno dei protagonisti dell'epopea del manicomio di San Giovanni a Trieste, il "Magnifico frenocomio" che con l'arrivo di Basaglia era diventato il principale laboratorio della liberazione dei matti dalle porte sbarrate, dalle inferriate e dal potere che si esercitava su di loro in tutte le piccolezze della vita quotidiana di un recluso in una "istituzione totale". Al centro del libro ci sono proprio le voci dei matti, gli internati di San Giovanni. Sono le storie di Boris, Tinta, Dorina, Doz, Elda, Rosina, Brunetta a guidare la narrazione, ad aiutare Dell'Acqua a ricostruire gli anni settanta di San Giovanni, quando lui era un giovane psichiatra, Franco Basaglia il direttore del manicomio e i malati un soggetto di liberazione collettiva insieme a infermieri e lavoratori dell'ospedale psichiatrico. Tutti insieme fecero cadere "le mura di Gerico del manicomio della città di Trieste", come scrive Basaglia nell'introduzione inedita che impreziosisce questo libro.
Il clima di San Giovanni in quegli anni era esplosivo. Al manicomio erano arrivati artisti, militanti politici, ma anche scolaresche, comitati di quartiere, musicisti, tutti attirati dalla forza dell'esperienza basagliana e spinti dall'energia che ha dato vita alle mille esperienze di liberazione degli anni settanta. Anni che si percepiscono anche nelle contraddizioni, nelle rotture, nella grandiosità delle assemblee generali "del giovedì", aperte a tutti, nella capacità di dialogare con i comitati di quartiere, per esempio, con i gruppetti della sinistra e con i bambini delle scuole elementari. Con tutti coloro che volevano passare i cancelli di San Giovanni: un manicomio aperto "in entrata e in uscita". Basaglia scelse di abbinare all'apertura delle porte dei padiglioni per far uscire i degenti, ormai non più coatti, l'apertura alla città: concerti, feste, gite, teatro. Ma un manicomio che divideva la città: Trieste si disperava per i matti liberati dai "comunisti cappelloni" di Basaglia, sguinzagliati per le sue vie, e allo stesso tempo gioiva per la riacquistata umanità dei suoi cittadini più reietti. In quella e nelle altre città del resto la malattia mentale si sovrapponeva con le divisioni di classe (è così ancora oggi, sosterrebbero in tanti), gli psichiatri erano il braccio armato della giustizia e gli infermieri erano secondini che non potevano far altro che rinchiudere e tener buoni i degenti.
Tra le tante storie raccontate una delle più note è quella di Marco Cavallo, il grande cavallo azzurro di legno e cartapesta che nella pancia conteneva i sogni e i desideri dei malati e che sfondò, ma sfondò per davvero, le porte e i muri di San Giovanni. Una volta finita la sua costruzione in uno dei laboratori che aprirono a San Giovanni e diedero ai malati la possibilità di fare arte, teatro, musica, ci si accorse che era troppo alto per passare dalle porte. Come racconta Dell'Acqua, «i malati cominciarono a pensare di avere solo sognato, secoli di grigio tornarono nelle loro teste, urla disumane assordarono le loro orecchie. Marco Cavallo, fremendo, testa bassa, cominciò una corsa furibonda, come impazzito, verso la porta principale e, senza più esitazione, oramai a gran carriera, aggredì quel pezzo di azzurro e verde oltre la porta. Saltarono i vetri e gli infissi. Caddero calcinacci e mattoni. Marco Cavallo arrestò la sua corsa nel prato, tra gli alberi, ferito e ansimante, confuso all'azzurro del cielo. Gli applausi, gli evviva, i pianti, la gioia guarirono in un baleno le sue ferite. Il muro, il primo muro era saltato». Dietro Marco Cavallo, che da allora cominciò a comparire qua e là per Trieste e per l'Italia, uscirono decine e decine di matti, per assaporare la libertà che era stata sottratta loro per anni. Sui muri dei padiglioni apparve anche la famosa scritta che si può leggere ancora oggi: "La libertà è terapeutica". Questa libertà passò, allora, per gesti e cose semplicissime: una spazzola, un foglio di carta e un pennello, una seduta dalla parrucchiera, e soprattutto il sospirato "Articolo 4" che trasformava il ricovero da coatto a volontario e inaugurava l'era delle gite fuori dal padiglione dal quale non si usciva da tempo immemorabile.
Un buco nero in cui sparire per sempre, questo era il manicomio prima delle lotte che lo hanno abbattuto. "Robe de mati."

Repubblica 28.11.07
Cinema e letteratura in un saggio di Caterina Selvaggi
I segretari dell'invisibile
di Simonetta Fiori


Il fenomeno non è nuovo, ma negli ultimi tempi ha registrato un notevole incremento: qualcuno lo chiama "cannibalismo", ma non si capisce "chi" mangia "cosa". Il cinema che divora la letteratura o viceversa ne è divorato? Un´occhiata ai film in sala (e ai festival) può esserne conferma: da I vicerè di Faenza all´ultimo lavoro di Coppola tratto da Mircea Eliade, sono innumerevoli le pellicole che ricavano ispirazione e nutrimento dalle opere letterarie, per non dire dell´ampia messe di titoli studiata dall´industria cinematografica per un pubblico preadolescenziale e in età puberale, come la serie del maghetto Potter o i film suggeriti da Moccia. E per la prossima stagione sono già al lavoro i registi Grimaldi e Ozpetek, il primo su Caos calmo di Veronesi e il secondo su Un giorno perfetto di Mazzucco. A ricordarci che è una storia antica e controversa provvede una densa raccolta di saggi di Caterina Selvaggi, Lo sguardo multiplo, che attraverso alcuni grandi come Bellocchio e Benigni, Bergman e Bertolucci, Dardly e Pasolini ripercorre con una strumentazione anche psicoanalitica quella relazione "parallela" e "contigua" già segnalata da Sklovskij nei tardi anni Venti (Franco Angeli, pagg. 128, euro 15; il volume sarà presentato stasera alle ore 19.15 al Cinema Trevi di Roma da Walter Pedullà, Giorgio Gosetti e Sergio Toffetti).
La storia del cinema è caratterizzata dalla migrazione della letteratura verso il grande schermo. Se l´impasto in alcuni casi è noto al grande pubblico - Via col vento o Ben Hur - può sorprendere che un western come Ombre rosse sia stato ispirato da Maupassant, segno dell´autonomia del codice cinematografico. Per spiegare in cosa consista la "contiguità" tra i due linguaggi - narrativo e filmico - la Selvaggi ricorre alla categoria della visione, dello «sguardo multiplo», come suggerisce il titolo del volume: la capacità di andare oltre il "visibile conosciuto e presunto" che accomuna le due modalità espressive. Il regista e lo scrittore come "segretari dell´invisibile", secondo un´efficace definizione del Nobel Coetzee. E forse non è un caso, ci ricorda l´autrice, che il cinema nasca proprio quando la letteratura a cavallo tra Otto e Novecento frantuma il suo sguardo per accogliere l´irruzione dell´inconscio e dell´irrazionale. L´espion è colui che guarda spiando, come il narratore della Recherche proustiana. Ed espion - sembra suggerire Caterina Selvaggi - è anche il regista: l´inquadratura utilizzata come confine del desiderio.

Liberazione 28.11.07
«La fiducia è legittima, ma crea evidenti difficoltà nei rapporti»
Bertinotti: «Salvare il ruolo delle Camere»


Ieri pomeriggio Fausto Bertinotti è intervenuto per manifestare la sua preoccupazione in relazione al ruolo che deve esistere tra Parlamento, governo e parti sociali. Il presidente della Camera ha sottolineato come il troppo frequente ricorso alla fiducia e ai maxi emendamenti rischia di mettere in pericolo le prerogative delle Camere. Ecco il testo del suo intervento.

«Non vi è dubbio che, alla luce della prassi consolidata, il governo possa, per prerogativa costituzionale, porre in ogni fase del procedimento legislativo la questione di fiducia, individuandone l'oggetto. Né è contestabile la prassi, anche qui consolidata, di accorpare in un unico emendamento più articoli di un progetto di legge a scopo fiduciario. Da questo punto di vista l'iniziativa del governo è dunque legittima e conforme a numerosissimi precedenti, verificatisi nel corso delle legislature. In tal senso si è pronunciata in passato la presidenza della Camera e, rispetto a quelle pronunce, non vi è nulla da aggiungere o rettificare. Devo tuttavia segnalare che la procedura cui ho fatto riferimento, e che il governo ha inteso percorrere nell'iter del disegno di legge collegato, ripropone una evidente, preoccupante difficoltà nel rapporto fra parlamento ed esecutivo, inducendo una riflessione sul nostro sistema istituzionale, così come, negli anni, si è andato evolvendo nella prassi. In questo contesto merita una riflessione attenta anche il tema del rapporto che intercorre - o deve intercorrere - fra le trattative e gli accordi che vedono protagonisti il governo e le parti sociali ed il ruolo delle Camere, in funzione della salvaguardia del carattere parlamentare della nostra forma di governo. Nel caso di specie voglio anche ricordare, dal punto di vista del metodo, come nella risoluzione alla nota di aggiornamento al Dpef, approvata dalla Camera il 4 ottobre scorso, fosse stato sottolineato, con riferimento ai disegni di legge collegati, "che l'utilizzo di più strumenti... può utilmente concorrere ad un più ordinato e più ragionato esame dei provvedimenti che compongono la manovra".
Ritengo quindi, di dover rappresentare, in termini generali, quella che appare un'esigenza istituzionale, emera non da oggi, che postula una adeguata precisazione dei rispettivi ruoli - e prerogative - del Parlamento e del governo.
Penso che tutti i gruppi parlamentari, a partire da quell'opportuna opera di revisione dei regolamenti, che è da più parti auspicata nel comune obiettivo di restituire piena agibilità al nostro sistema costituzionale e di garantire, in questo contesto, la pienezza delle prerogative parlamentari»

Liberazione 28.11.07
Fiducia sul welfare. Parlamento esautorato
Bertinotti furioso. Giordano: «Verifica»
di Angela Mauro


Con un maxi emendamento e la fiducia il governo blinda la maggioranza. Delusione del Prc: «Votiamo per un vincolo sociale, non più politico»
Per il presidente della Camera esiste «un'evidente preoccupante difficoltà nel rapporto tra l'esecutivo e il Parlamento». Stasera il voto in aula

E ' finito il primo tempo della legislatura? «L'hanno fatto finire loro...», dice Franco Giordano, concitato ma determinato in Transatlantico. Nessun velo, nessuna attenuante. Il Prc e il governo Prodi sono ormai ai ferri corti. La decisione dell'esecutivo di porre la fiducia sul pacchetto welfare è un «atto grave, perchè su previdenza e lotta alla precarietà il Parlamento dovrebbe poter discutere liberamente», spiega il segretario di Rifondazione. Ma è ancora «più grave» perchè il testo sul quale oggi l'aula della Camera confermerà la fiducia al governo non è quello modificato dalla Commissione lavoro di Montecitorio, bensì un maxiemendamento radicalmente rivisto dal governo per andare incontro ai ricatti di Dini (Confindustria), che in Senato non avrebbe votato la versione "migliorata" dalla sinistra, e anche per rispondere alle pressioni dei sindacati, contrari a cambiamenti sul protocollo firmato a Palazzo Chigi il 23 luglio scorso. Insomma, un problema di merito (perchè il maxiemendamento cancella gran parte delle modifiche volute dalla sinistra e fa contento Dini, lo vedremo nel dettaglio più avanti) e di metodo. E su quest'ultimo punto interviene anche lo stesso Fausto Bertinotti, che non ci sta a veder "declassato" il Parlamento in una pura funzione di notifica degli atti del governo. «C'è da riflettere sul sistema istituzionale e sul rapporto tra le trattative governo-parti sociali e il ruolo delle Camere», dice in aula il presidente della Camera, che già nel corso della giornata aveva tentato di "salvare il salvabile", decidendo di rispedire in commissione il maxiemendamento del governo per una valutazione formale. Cortesia istituzionale, che certo non ha ammorbidito lo schiaffo al lavoro parlamentare arrivato da Palazzo Chigi.
Parlare di rapporti ai ferri corti dunque è espressione nient'affatto esagerata. Tanto più che Rifondazione arriva alla decisione di accordare la fiducia al governo Prodi dopo due riunioni del gruppo parlamentare alla Camera e, nella seconda riunione, mette ai voti la scelta. Il sì alla fiducia passa con 25 voti, 10 i no, 5 gli assenti giustificati. Ma il disagio è palpabile, il giudizio sul pacchetto welfare resta «pessimo», specifica Giordano, durissimo nel motivare il sì alla fiducia. «La votiamo solo per un vincolo sociale», perchè se ora cade il governo a gennaio entrerebbe in vigore lo scalone Maroni sull'età pensionabile. «Non lo facciamo per un vincolo politico che non c'è più: va ricontrattato», puntualizza ancora il segretario, chiedendo, a nome di tutta la sinistra e non solo del Prc, una «verifica politico-parlamentare del governo a gennaio: dal suo esito dipenderà il nostro atteggiamento nel governo».
«Perchè - continua Giordano - ormai è chiaro che non ci sono più le condizioni per attuare il programma dell'Unione: lo hanno consegnato al museo delle cere...». Ma Palazzo Chigi sembra non recepire il messaggio. «Non ci sarà alcuna verifica a gennaio - fanno sapere dall'esecutivo - ma solo un già previsto punto complessivo sull'azione di governo». Nè sono all'ordine del giorno ipotesi di «rimpasto», la legislatura «dura fino al 2011», continua a far sapere Prodi, «la fase è attraversata dal confronto sulle riforme, elettorale e istituzionali...». Insomma, se fa fede questo prima botta e risposta a mezzo stampa, proprio non ci siamo. Eppure Giordano insiste sul fatto che «quello deciso oggi (ieri, ndr.) è un vero e proprio riposizionamento strategico per Rifondazione: non può più accadere che ci sia chi ha le mani libere e chi invece deve sempre garantire il governo, si apre una fase politica nuova».
A gennaio si vedrà, anno nuovo, vita nuova. Ma già ieri qualcuno ha provato ad alzare l'asticella del confronto con quella che sembrerebbe più una provocazione, anche qui a mezzo stampa. Nel primissimo pomeriggio, la Velina Rossa di Pasquale Laurito, foglio "ultraletto" a Montecitorio, prova a indovinare la strategia del Prc: «Sì alla fiducia, con un contestuale ritiro della propria delegazione dal governo». La "bufala" fa agitare tutti in Transatlantico, fino a quando Giordano la bolla come «simpatica, colorita non fosse altro che per l'aggettivo "rossa", ma stavolta non ci ha preso...». Niente di vero, dunque, anche se c'è chi fa propria la provocazione, rilanciando: «Sì alla fiducia, ma, dopo, fuori dal governo». Lo fa Caruso - indipendente del Prc che con altri nove deputati ha votato no, nella riunione di gruppo, alla fiducia - ma resta isolato. Sia chiaro: sia lui che gli altri contrari alla fiducia (Acerbo, Burgio, Cacciari, Frias, Lombardi, Mantovani, Pegolo, Provera, Russo) si atterranno alla decisione presa dalla maggioranza, per disciplina di gruppo.
Nel merito, il maxiemendamento del governo cancella le modifiche della Commissione sui lavori usuranti (resta il tetto della 80 notti all'anno, oltre il quale un lavoratore diventa "usurato"), accetta invece di abrogare lo "staff leasing" (unica vera "concessione" alla sinistra) e peggiora nettamente sul "job on call" (lavoro a chiamata per ristorazione, turismo e congressi) chiesto da Confindustria. Sui contratti a termine, viene mantenuta la stesura fatta in Parlamento: il contratto precario diventa a tempo indeterminato "dopo 36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro". Ma l'ulteriore proroga, quantificata dalla Commissione "in otto mesi", è diventata a tempo indeterminato e affidata alla contrattazione tra le parti. Augusto Rocchi, deputato del Prc in Commissione Lavoro, è un fiume in piena e, quando in Transatlantico gli chiedono della storiella sul ritiro della delegazione del partito dal governo, non ha dubbi, anche se non si esprime nel merito della domanda: «La mia opinione personale è che questo governo non è autonomo da Confindustria. I sindacati? Applausi per Cgil, Cisl e Uil! Voglio vedere come gestiranno la faccenda della proroga dei contratti a termine...».
Del resto, basta dare uno sguardo alle dichiarazioni trionfanti dell'organizzazione degli industriali, che esprime una «valutazione di massima positiva» (Bombassei), e dello stesso Dini, che infierisce sulla sinistra: «Per loro, una sconfitta pesante». La sensazione è che si sia solo all'inizio di una resa dei conti incrociata nel governo. Si considerano con «le mani libere» i socialisti, insoddisfatti dell'incontro chiarificatore con Prodi che non ha accolto nel maxiemendamento la loro richiesta di stabilire una indennità di disoccupazione per i co.co.pro. Addirittura, Boselli dà ragione a Rifondazione sulla verifica e rincara: «E' insufficiente, occorre probabilmente un nuovo governo». La prova del Welfare è per la sinistra anche il primo passo della sfida al Pd. Non lo nasconde il capogruppo del Prc alla Camera Gennaro Migliore che nota una «contraddizione nel Partito Democratico: decidano loro chi dà la linea nel governo...».
Ma non è nemmeno detto che la vera partita si giochi a gennaio. Resta da capire come e se il welfare passerà la prova del Senato, la stessa riflessione vale per la Finanziaria che viaggia verso un'ulteriore lettura a Palazzo Madama. E tra i provvedimenti al voto prima di Natale c'è anche il pacchetto sicurezza, che già sta facendo tremare la maggioranza al Senato. «Lì non c'è la fiducia, siamo liberi...», prevede Giordano, rispondendo ai cronisti alla Camera.
E il resto della sinistra? Oltre a concordare, come sostiene Giordano, sulla richiesta di verifica al governo, anche Sd, Verdi e Pdci non nascondo la loro irritazione per come sono andate le cose sul welfare. Ma i toni sono differenziati. Pecoraro spiega il sì alla fiducia senza scendere sul piede di guerra, qualunque cosa accada: «Continueremo a essere leali verso la coalizione, riteniamo inaccettabili i ricatti centristi». I Comunisti Italiani faranno il punto in una riunione di gruppo convocata per questa mattina, sicuri che «l'autonomia del governo da Confindustria se n'è andata a farsi friggere» (Sgobio) e che dopo il voto i rapporti in maggioranza non saranno più gli stessi. «Può essere che il governo ce la faccia, ma il giorno dopo non si ritrovi più la sua maggioranza», dice Palermi dal Senato. Sinistra Democratica non riunisce gruppi per decidere sulla fiducia. Scontato il sì, ma anche per il movimento di Mussi è chiaro che «da gennaio non ci sono più alibi» (Di Salvo), serve «un nuovo patto e un nuovo esecutivo, più snello ed equilibrato nel rapporto tra sinistra e Pd», propone Salvi. E' lampante comunque che, tra i quattro a sinistra, è il Prc il partito che si trova a gestire con maggiore travaglio interno il rapporto con un governo che ha rinnegato il suo programma e che non si è nemmeno posto il problema di dare ascolto a quanti sono scesi in piazza il 20 ottobre. Pesa il fantasma del '98, epoca che - lo sanno bene nel partito, ma meno tra i media più importanti del paese - è lontana nel tempo e nelle caratteristiche. Il ministro Ferrero la spiega così: «Esiste un problema nel rapporto tra il governo e il paese, si è aperto un problema politico su nodi sociali importanti». Punto e a capo, si volta pagina, senza guardare a dieci anni fa. L'intezione è questa, la strada è da definire.