lunedì 3 dicembre 2007

l’Unità 3.12.07
Armeni «normalizza» Sansonetti sulla legge elettorale
Liberazione ieri esaltava gli scenari «nuovi e vitali» della futura riforma. Due giorni fa il direttore parlava di spartizione
di e.d.b.


LA NOTTE ha diradato le nubi. E Liberazione, giornale vicino a Rifondazione Comunista, che giusto ieri vedeva una mera spartizione di potere nell’incontro tra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi («Il modello Veltrusconi: così si spartiranno il potere», titolava in apertura in quotidiano diretto da Piero Sansonetti), il mattino dopo coglie scenari nuovi. Anzi, per dirla con Ritanna Armeni, «nuovi e vitali».
Il giorno dopo è il segretario del Prc Franco Giordano, nell’intervista che apre il giornale, a tarare la posizione del partito: «Non voglio enfatizzare ma è importante che si sia discusso della legge elettorale». Giordano coglie principalmente un aspetto positivo dell’incontro tra i due big. E il giornale che giusto ieri suggeriva «dodici mesi sono anche un tempo sufficiente per far saltare questo progetto di monocolore che chiamano “nuovo bipolarismo”. Può saltare. Anche perché i protagonisti sono quello che sono. Ed è difficile che i libri di storia si ricorderanno di loro», oggi immagina (questo afferma Giordano): «Potrebbe essere l’inizio di un percorso per arrivare a disegnare una nuova legge sul sistema di voto. E a superare così definitivamente il problema del referendum».
Insomma la tattica e la strategia suggeriscono entrambe di non tirare la corda col segretario del Pd. E di rilanciare la propria azione politica in Parlamento e Consiglio dei ministri.
Le parole magiche che cambiano la prospettiva, erano d’altronde emerse chiaramente dall’incontro Veltroni-Berlusconi: sistema elettorale proporzionale. È questo lo scenario «nuovo e vitale» per il quale Armeni prevede un futuro magnifico: «Il sistema elettorale proporzionale avrà come conseguenza che alle prossime elezioni le forze politiche si presenteranno ai blocchi di partenza con le stesse opportunità, la loro rappresentanza sarà conseguente alla forza elettorale effettiva».
I dodici mesi necessario alle riforme, in cui fino al giorno prima si doveva «far saltare» il «progetto monocolore» diventano per il governo «una boccata d’ossigeno dopo un anno e mezzo di vita travagliata» e un’opportunità per far crescere la «cosa rossa». Insomma, postula Ritanna Armeni, «oggi siamo tutti più liberi». Liberi mentre, si immagina, gli altri si «spartiscono il potere».

l’Unità 3.12.07
PRC. Giordano contro Blair: «Un conservatore»


Da Lamezia Terme, Franco Giordano, segretario del Prc, attacca l’ex primo ministro britannico Tony Blair, che in un’intervista alla Stampa di ieri aveva indicato nelle componenti radicali dell’alleanza di centrosinistra, il motivo per cui in Italia non si erano fatte le riforme. Giordano risponde per le rime: «Le riforme di Blair sono state l’invasione dell’Iraq, la guerra, il taglio drastico del welfare ed una esagerata conflittualità sociale. Queste sono le classiche ricette dei conservatori, ed infatti Blair è un conservatore. Se il Partito Democratico ha intenzione di fare come Blair, si accomodi pure». Sul versante della «Cosa rossa» il segretario del Prc ha dichiarato che è il momento di accelerare: «I tempi sono stretti. Bisogna costruire al più presto una alternativa, da affidare a una sinistra che abbia più culture, quella pacifista, quella laica, quella ambientalista».

l’Unità 3.12.07
“la striscia rossa” di prima pagina: «Come vede il governo Prodi?
“Si dice di sinistra, ma è composto in parte da ex Dc, ovviamente cattolici, ma mi sorprende che persone storicamente di sinistra siano sempre un po’ piegate in un compromesso costante col Vaticano. Lo trovo un errore perché crea confusione e una mancanza di identità forte che manda allo sbando l’elettorato”» Giovanna Mezzogiorno, Io Donna, 1 dicembre 2007

l’Unità 3.12.07
Se questa è una donna
di Maurizio Chierici


Ingrid Betancourt ha scritto alla madre e ha dovuto mettersi in posa per dimostrare di essere viva... e ora comincia l’intrigo che in queste ore ne minaccia la vita. Non solo guerriglieri, ma gli equilibri di una regione condannata dal petrolio
Lei delinea una Colombia solidale, meno individualista, mai liberista, impegnata a difendere vita e dignità...
Se Uribe sperava che lo sfinimento della prigionia avesse disarmato l’antica rivale, è questa la risposta

Se questa è una donna. Pallore dei fantasmi sopravissuti ai lager di un’altra Germania. Filmato immobile. Non alza gli occhi, non muove le mani: pietrificata. Speriamo che un dolore così profondo non finisca nel mercato delle t-shirts: c’è chi lo suggerisce. Paradossalmente l’umiliazione della prigioniera racconta l’ultimo capitolo della sua speranza. Perché dopo la foto comincia l’intrigo che in queste ore ne minaccia la vita. Mai così in pericolo. Non solo guerriglieri vetero marxisti, paranoia feroce, ma le ambizioni dei grandi borghesi e gli equilibri strategici di una regione con la sventura del petrolio. Il lampo della cinepresa ne illude la felicità. Ingrid ha scritto alla madre e si è messa in posa per dimostrare di essere viva. Nessuna persona normale si mette in posa per dimostrare d’essere viva, eppure nei gironi dei sequestratori questa obbedienza è dovuta.
Ha sciolto i capelli. La treccia scende alle caviglie, quasi calendario del tempo di nessuno: la lunghezza degli anni vuoti sfiora la terra... Per mostrarsi ai figli e alla madre risveglia la vanità di donna che sdegnava il trucco, ma l’eleganza è una dimensione dello spirito e Ingrid Bertancourt recupera ciò che le è rimasto della dignità.
Forse si è guardata allo specchio prima di non guardare l’obiettivo mentre i pensieri attraversavano l’ultimo guado: nell’altra sponda la aspetta la vita di prima. Non immaginava che uniformi e politici di rango stavano preparando trappole per impedirle di tornare. Impossibile mediare con i signori del crimine. Dopo i campi di Hitler è venuta Norimberga. Nessun perdono o cambio di favori con la banda della tortura. Da combattere e sterminare, dottrina Bush. In fondo gli ostaggi sono polvere della storia. Un soffio e nessuno li ricorda. Mentre la cinepresa ne fissa l’immobilità, Ingrid non immagina che la vita pericolosa sta per diventare drammatica. Il presidente che se ne dichiara difensore non la vuole a Bogotà. Mentre mediazioni e diplomazie intrecciavano i sussurri, scombina le carte bruciandone la trama. Ingrid Betancourt che torna in scena è una tragedia insopportabile. Uribe lo ha impedito per cinque anni ma la situazione stava per sfuggirgli di mano.
Il ricordo di chi ha accompagnato Ingrid nella campagna elettorale 1998 impallidisce davanti alla immagine della signora sfinita nel bosco. Vederla ripiegata nel guscio delle persone che «hanno perso la vita», impossibile ritrovare la ragazza che scaldava gli elettori con polemiche ripetitive e noiose: «Ma che colpa ne ho se i notabili dei due partiti al potere continuano noiosamente ad alternarsi nella spartizione di privilegi e corruzione?». Voleva tagliare i legami tra narcos e politica. Aveva lasciato il marito a Parigi nei salotti della diplomazia. I figli studiavano attorno ai Campi Elisi. Bella casa, bella vita, grande borghesia: «Ma ogni volta che tornavo a Caracas mi stringeva il cuore. Non potevo far finta di niente, eccomi qua». Parlava agitando le mani, gli occhi si accendevano: progetti, speranze. Allegria contagiosa.
L’intervistatore ne era affascinato. Bellezza soffice: aveva 37 anni. Due settimane dopo diventa la senatrice più votata del paese. Smaschera le mani lunghe che devastano la Colombia nel libro La rage au coeur, rabbia nel cuore. Il titolo italiano ha il suono di un annuncio premonitore: Forse mi uccideranno domani. Fonda un partito per rompere il duopolio liberali- conservatori: Oxigeno non è un movimento verde ma «aria pulita per la gente che vota». Attacca il candidato alla presidenza Uribe e la sua sindrome di Washington. Accusa la Farc di affamare i contadini poveri che cinquant’anni prima aveva annunciato di proteggere dalle rapine di latifondo e multinazionali, invece li opprime nella paura con la multinazionale autarchica di chi fa pagare dazio alla produzione di coca. Sempre polvere bianca, dal parlamento alla rivoluzione che non vince e ingrassa. Minacce di morte, bombe sotto casa. Ingrid sa troppe cose. Anche i paramilitari della destra vicina all’Uribe che aspira a governare in solitudine, non la sopportano. Porta i ragazzi a Parigi e torna per parlare coi guerriglieri.
Nel febbraio 2002 affronta la corsa alla presidenza con la disinvoltura di chi non ha paura di niente. Va nei territori smilitarizzati per convincere l’esercito rosso della Farc a riacquistare la ragione. Parte da sola, cammino tortuoso fra le montagne attorno a San Vincente de Coquetà. La accompagna un’amica con la quale divide la speranza di cambiare la Colombia: Clara Rojas, candidata di Oxigeno alla vice presidenza. Il 23 febbraio 2002 finiscono nelle mani Farc e Ingrid diventa merce di scambio. I kmer rossi colombiani vogliono che Clara Rojas torni a Bogotà con le loro pretese: Ingrid da scambiare con 500 guerriglieri sotto chiave nelle prigioni di stato. Ma l’amicizia è un segno profondo. Clara non abbandona la compagna alla fine del mondo. Si innamora, nasce un bambino figlio dell’uomo che la tiene prigioniera: la sindrome di Stoccolama arriva nella foresta. Nella lettera scritta alla madre, Ingrid sospira. «Anche di Clara e del suo bebé non ho notizie». L’hanno isolata strappandole l’ultimo affetto. «La lontananza può trasformare un minuto di silenzio nella solitudine più lunga della vita», scrive Garcia Marquez in Notizie di un sequestro.
In febbraio la solitudine della Betancourt compirà sei anni, impossibile contare i minuti. La ragazza che non smetteva di parlare è costretta al silenzio e al disagio di essere la sola donna fra carcerieri che hanno 15 anni, stessa età dei militari che li inseguono. Fa il bagno vestita, dorme rannicchiata su un’amaca avvolta nell’ultimo giaccone. Le malattie di chi beve e mangia ciò che raccoglie lungo i sentieri la stanno spegnendo. Eppure nessuno ha davvero pietà. Nell’immagine della sopravvivenza ricorda le signore diafane che illanguidivano le tele primo novecento: quei ritratti dei pittori raccolti nel cenacolo della villa romana Strohl-Fern. L’ombra dei giardini dietro le poltrone. Ma la foresta di Ingrid non è il giardino sul quale si inteneriscono le penne dei salotti, e l’ombra della catena alla quale viene riagganciata quando si spegne la macchina da presa, racconta una vita senza pietà. Fino a quando?
È il problema che il presidente Uribe non ha voglia di risolvere. Anni prima della sconsolante telenovela degli ultimi giorni, i familiari della Betancourt e dei 600 ostaggi nelle mani Farc, polemizzano con la presidenza. Non vuole trattare, poi tratta. Vuol vincere con la forza, poi accetta le mediazioni, poi le cancella e fra un po’ le riaccende: ogni strategia è legata ad un filo segreto. Uribe preferisce che Ingrid Betancourt resti sepolta dov’è. E se la donna umiliata e gli altri 600 scudi umani tra esercito e guerriglia sono sempre stati in pericolo, mai come adesso rischiano la vita. Solo in questi giorni il sospetto che il presidente in coda a Chavez nel presentare la riforma costituzionale che gli garantisca rielezione eterna; solo adesso, questi sospetti trovano conferma nelle manovre affannose scatenate per impedire la liberazione di Ingrid Betancourt. Se la prigioniera torna in politica i disegni dell’uomo forte finiscono in niente. L’ultimo messaggio inviato a Bogotà da Sarkozy sottolinea il precipitare della situazione: serve un intervento umanitario, ma subito. Ingrid è davvero in pericolo e la Francia alza la voce pretendendo decisioni urgenti. Ecco cosa è successo dietro le quinte.
In agosto la senatrice Piedad Cordoba chiede al presidente Uribe di coinvolgere il presidente del Venezuela nel riscatto di Ingrid Betancoiurt e degli altri ostaggi. Lo fa mentre Chavez viene accusato da una giornalista venezuelana (residente a Miami e Washington) di ospitare i guerriglieri della Farc con Ingrid prigioniera dentro i confini del Venezuela. Beffa crudele, a quale scopo? Chavez accetta di interessarsi sollecitato da una telefonata del presidente Uribe. Lancia messaggi a Marulanda, padre di una guerriglia senza prospettive. A Santiago del Cile ne riparla con Uribe. Lo informa dell’incontro a Parigi con Sarkozy. Al ritorno da Parigi Chavez si inserisce in una telefonata di Piedad Cordobs: sta discorrendo col generale Montoya, comandante delle forze antiterroriste colombiano. Coraggio, auguri, noi militari ci intendiamo: non tace mai. E Uribe prende cappello: il presidente di un paese non può contattare generali di un altro paese. Missione di Chavez sospesa. Piedad Cordoba sapeva che sarebbe finita così.
Prima di andare con Chavez a Parigi, aveva incontrato a Medellin l’ex presidente Samper e Samper l’aveva messa in guardia: Uribe sta lavorando per scaricare Chavez. Ho quasi l’impressione l’abbia usato come allodola. I suoi contatti vengono registrati. Ogni mossa è tenuta d’occhio non solo dai colombiani ma dai nostri amici del Nord. Temo stia per succedere qualcosa. E succede...
La telefonata da un campo base Farc annuncia a Caracas l’invio di immagini e lettere, prova della sopravvivenza degli ostaggi. Pochi minuti e un bombardamento brucia il campo: da quel momento l’uso del cellulare viene proibito ad ogni guerrigliero coinvolto nella missione. Troppi radar incrociano i segnali. Partono i corrieri, direzione Caracas: filmati e lettere nascoste nelle borse da viaggio. Gli uomini di Uribe catturano i postini. Ma immagini e messaggi vengono comunicati alle famiglie con 36 ore di ritardo. I giornali lo scoprono da «indiscrezioni» pilotate in modo da non trasformare la pena della Betancourt in protagonista della costernazione nazionale. Con qualche eccentricità: El Tiempo è il grande quotidiano del paese. I proprietari fanno parte della corte di Uribe: ministro e vertici del partito.
La notizia che apre la prima pagina trascura l’immagine della signora. Dedica la ribalta ad un tipo dai capelli a spazzola. La canottiera scopre muscoli marines, occhi senza luce da marziano. Keith Stansell è un mercenario Usa. Assieme a due compagni della Microwawe System californiana, quattro anni fa è precipitato in territorio Farc con un aereo spia. I contractors della Microwawe lavorano per il Pentagono in Iraq e Colombia e Keith ruba la prima pagina alla Betancourt. La lettera alla madre viene distribuita con due giorni di ritardo e qualche taglio sospetto. Leggendola si capisce l’imbarazzo di Uribe. Ingrid ringrazia soprattutto Chavez e Soledad, Sarkozy, perfino Bush. Tanti amici, tanti nomi (in parte cancellati) ma per Uribe e i suoi ministri neanche una parola. Borges raccomandava di non scrivere quando si è innamorati o addolorati: meglio aspettare l’affievolirsi dei sentimenti.
La Betancourt non ne ha tenuto conto. Delinea l’affresco politico della Colombia alla quale non rinuncia. Solidale, meno individualista, mai liberista, impegnata a difendere vita e dignità di tutti: «Questa grandezza dorme purtroppo nei nostri cuori. Cuori induriti che non permettono sentimenti elevati... Fra qualche tempo la recupereremo». Se Uribe sperava che lo sfinimento della prigionia avesse disarmato l’antica rivale, ecco la risposta ed è comprensibile l’imbarazzo. Adesso, ne avrà pietà?

l’Unità 3.12.07
Serafini: «La violenza sui bambini non fa notizia»


ROMA «La violenza sui bambini non va in prima pagina». È il commento della Presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia, Anna Maria Serafini. «Le notizie sulle violenze subite da bambini e adolescenti che pure occupano spazio sulla carta stampata solo molto raramente finiscono in prima pagina». È questo uno dei dati più significativi emersi dal terzo Rapporto nazionale su stampa, infanzia e adolescenza curato dall’Istituto degli Innocenti. «Obiettivo del ciclo di incontri nei quali saranno coinvolti i protagonisti del mondo dei media a tutti livelli, dell’editoria, della pubblicità, del cinema e della televisione, è quello di realizzare - è detto in una nota - un atto di indirizzo su una materia delicata e che interessa in modo sempre più forte l’opinione pubblica, un testo che possa diventare il punto di riferimento per istituzioni e professionisti del settore».
L’analisi svolta dal rapporto ha riguardato 7.333 articoli, dei quali 5.597 della stampa quotidiana e 1.736 di quella periodica.
Il Rapporto - giunto alla sua terza edizione per questo - stato possibile procedere anche a un confronto con i dati dei due anni precedenti per verificare le tendenze in atto. Di violenze, agite o subite dai ragazzi, si parla in ben 1.300 articoli. Dopo la violenza, la salute, - l’argomento protagonista in ben 1.200 articoli. La violenza sui minori si attesta al primo posto della graduatoria scalzando la salute, che primeggiava nel 2004 (e che aveva a sua volta sopravanzato la scuola e l’educazione nel 2003).

Repubblica 3.12.07
Parla il letterato che da anni si oppone al governo: il passaggio alla democrazia non è facile
Evtushenko, poeta contro il Cremlino "Un potere volgare che nessuno attacca"
di Fiammetta Cucurnia


«Certo, quel che è successo in Russia negli ultimi giorni, durante la campagna elettorale, mi addolora. Mi addolora pensare che l´opposizione sia stata trattata in un modo così volgare, dispersa così. Mi addolora anche ammettere che non capisco perché sia accaduto e a che scopo, visto che il partito del governo non poteva che vincere, sempre e comunque. Così, da poeta e da cittadino mi interrogo e chiedo a voi: "La responsabilità è davvero soltanto di Putin?"» Evghenij Evtushenko, mito della poesia russa che tante volte nella sua vita ha scagliato i suoi versi contro il Cremlino in nome della libertà, oggi abbassa la voce per parlare di Russia nel giorno di Putin. Da un lato c´è l´entusiasmo e la speranza per quelli che lui chiama i devjanostiki, i ragazzi degli anni Novanta, che tornano a riempire gli stadi quando lui si esibisce, giovinetti cresciuti a pane e poesie dalle nonne mentre i padri facevano i soldi. Dall´altra c´è questo tarlo di un Paese che si era aperto e ora sembra tornare ai vecchi costumi. «Nessuno potrà impedirmi di dire che in quel che accade oggi c´è una grande responsabilità dell´Occidente e in particolare degli Stati Uniti, della loro politica estera e militare».
Eppure, Evghenij Aleksandrovic, i russi oggi hanno votato quasi come ai tempi di Breznev, quando sulla scheda era indicato solo il Pcus.
«Per carità, io non voglio affatto giustificare il Cremlino. Come ho detto, tanta volgarità è esagerata, e per di più ingiustificata poiché inutile. Penso che sia anche un fatto di inerzia, ognuno si comporta come sa. Il passaggio da un sistema autoritario come è stato quello sovietico ad uno radicalmente diverso, realmente democratico, non può essere facile e senza intoppi. Richiede tempo e forze nuove».
Gli spazi per le voci diverse sono stati del tutto chiusi, c´è stata una campagna elettorale all´insegna del monopolio assoluto.
«Sì, è vero, anche a me è stato chiesto di partecipare a una serata di lettura poetica a Mosca per sponsorizzare un partito, ora non dirò quale. Ho risposto gentilmente, ma ho rifiutato. Io sono un senza partito e non posso mettere i miei versi al servizio dell´uno o dell´altro, ho spiegato. Loro mi hanno detto che potevo declamare le poesie che volevo, liberamente, ci sarebbe stato solo il logo del partito da qualche parte sul muro. Ma io, come potevo?»
Magari poi l´avrebbero aiutata per le sue future iniziative.
«Beh, certo, come dicono gli americani, i pranzi gratis non esistono».
Ma come mai sostiene che i paesi occidentali sono responsabili, almeno in parte, delle scelte interne del Cremlino.
«La Russia non è un Paese appeso in cielo. Tutto quello che accade oggi nel mondo è intimamente connesso. Le basi militari americane spuntano come funghi nei Paesi ex satelliti dell´Urss, e perfino in quelli che un tempo facevano parte dell´Unione Sovietica. Il nostro giardino di casa è infestato dalle armi americane e si parla di dispiegarne sempre di più. In fin dei conti la Russia, oggi come oggi, non ha basi militari in nessun paese del mondo, ma deve fare i conti con quelle altrui piazzate dietro l´angolo. E c´è di più: i Paesi occidentali continuano a fare la lezione a Mosca, ogni incontro al vertice è occasione per sottolineare che la Russia non è abbastanza democratica. Ma poi, da che pulpito viene la predica. Ditemi voi il nome di un Paese che sia un vero esempio di democrazia, un modello di cui da cittadino del mondo io possa andare fiero. Che ognuno riconosca le sue colpe, per ricominciare. In queste condizioni, mi permetto una licenza poetica: se Andrej Sakharov fosse oggi il presidente della Russia non potrebbe ignorare, nemmeno lui, un tale contesto. Purtroppo, è quasi naturale che il Cremlino reagisca nel modo che gli è più congeniale».
Dunque, a questo punto, non possiamo far altro che aspettarci il riflusso.
«Io sono convinto che tutto sia ancora possibile, ma non dipende solo da Mosca. Con ogni probabilità, neppure Putin ha ancora preso nessuna decisione definitiva. In qualche modo, possiamo ancora disegnare il nostro futuro. L´importante è capire che ognuno deve fare la sua parte. Poi ci vuole tempo. Il tempo di permettere ai giovani devjanostiki, la prima generazione di russi che è cresciuta fuori della gabbia, di affacciarsi in prima persona sulla scena politica».

Repubblica 3.12.07
Gli scheletri nell'armadio di casa Lombroso
di Maurizio Crosetti


Torino si prepara a riaprire il museo sul padre dell´antropologia criminale un´incredibile collezione di reperti anatomici relegata da anni in cantina

TORINO. I nostri antenati abitano in cantina, sistemati in eleganti armadi ottocenteschi, un cranio dopo l´altro come vasetti di marmellata. Millecinquecento teschi, che poi è un modo concreto per vedere e toccare quello che siamo stati e quello che saremo. Ci sono scheletri appesi ai ganci come abiti. E cassettiere piene di falangi o di femori, e una pantera in scatola, smontata e bollita, ma anche un cervo, e una tigre, e una pecora che pare un puzzle.
Benvenuti nel magazzino della scienza, nel deposito della prossima ala del ciclopico Museo dell´Uomo che Torino ha già preparato e preparerà a San Salvario, nel Palazzo degli Istituti Anatomici. Sopra, nei lunghi corridoi e delle stanze che circondano un grazioso, romantico giardino, ci sono il Museo di Anatomia e il Museo della Frutta. E tra un anno, forse meno, tornerà il Museo di Antropologia Criminale "Cesare Lombroso", la vecchia star del palazzo, il discusso inventore della teoria secondo cui i delinquenti ce l´hanno scritto in faccia, il dissezionatore della devianza: pazzi, assassini ma anche geni, tutto quello che il cervello può avere di diverso, nel bene e nel male, di più nel male.
Il Museo Lombroso chiuso dal 1948 ricostruirà il mondo del professore, i suoi luoghi (lo studio, la biblioteca) e i suoi metodi. Ci saranno reperti anatomici, manufatti e scritti di criminali e alienati, armi proprie e improprie, reperti probatori, strumenti scientifici, fotografie, documenti, persino la forca dove impiccavano gli assassini. Non ci sarà, invece, la sua testa conservata in formalina dentro un vaso di vetro, con l´espressione corrucciata. Troppo macabra. Questo non vuol mica essere il museo dell´orrore.
Sopra, le vetrine. Sotto, nelle cantine, un magma scientifico di enorme suggestione e di incalcolabile valore. Il professor Giacomo Giacobini, docente di anatomia all´Università di Torino, è il responsabile e in qualche modo il custode di tutto questo. Il suo studio è quello dove lavorò Rita Levi Montalcini. «Entro un paio d´anni, dal nuovo Museo Lombroso all´ampliamento del Museo dell´Uomo, il cuore del positivismo torinese e italiano sarà un polo d´interesse unico, un luogo in cui discipline diverse si parlano, si collegano e raccontano le loro storie». Tenetelo a mente, il professor Giacobini. E anche il suo antico predecessore che si chiamava quasi come lui: Carlo Giacomini. Perché, più avanti, lo ritroveremo al piano di sopra. Sotto vetro.
Questo è un viaggio all´ingiù, nel tempo e nello spazio fisico del palazzo. Scale. Ascensori. Porte. Chiavi che girano nelle serrature e le fanno scattare. Odore di umido, profumo di buio. Nel controluce volano particelle di polvere. Ecco i calchi delle sepolture preistoriche, siamo nel Paleolitico, più o meno 25 mila anni fa. Lo scheletro di una donna abbraccia un bambino, o così sembrerebbe. «In realtà era un nano. La donna lo cinge col braccio, glielo appoggia sul collo in un gesto di grande tenerezza» dice il professore. Tenerezza eterna, amore millenario e misterioso. «Tutti ci chiediamo se fossero parenti, se fossero morti insieme e perché. Naturalmente non avremo mai la risposta».
Sono calchi in resina, realizzati con un negativo in silicone nei luoghi di sepoltura, cioè nei siti archeologici. Ora stanno in corridoio, appoggiati alle pareti. Bisognerà estrarli da questa oscurità per mostrarli alle persone. Così tutti potranno vedere il bimbo della grotta delle Arene Candide, a Finale Ligure, sepolto con una mantella di code di scoiattolo, ciottoli e conchiglie come giocattoli. Aveva sei, sette anni al massimo, diecimila anni fa. Di fronte a lui c´è il cosiddetto Giovane Principe, un quindicenne sepolto con un ricco corredo, una cuffia di conchiglie forate, i bastoni di comando in osso di alce, e poi pendagli d´avorio di mammuth. «Rarissimo in Italia a quei tempi, segno che ci troviamo al cospetto di un morto importante».
C´è anche un Uomo di Neanderthal, i suoi anni sono 50 mila: accanto allo scheletro in una fossa quadrata, i becchini preistorici misero una zampa di bisonte e una colonna vertebrale di renna, oggetti di un preciso rituale funebre. Però non esiste niente di macabro in questo scantinato in attesa d´essere museo, è come se la scienza avesse lasciato qui i suoi sedimenti, i suoi strati sovrapposti come le mura di Troia. Ecco l´immagine di un Uro, cioè l´antenato dei bovini domestici più massiccio di un bisonte, estinto attorno al 1600. «E´ inciso nella pietra di profilo, però ha due occhi e due narici» spiega il professor Giacobini. «Quando Picasso vide l´originale disse "finalmente ho trovato il mio maestro", perché proprio così aveva dipinto la prospettiva dei volti in Guernica».
La passeggiata è asistematica e dà i brividi. Fossili umani, la ricostruzione della donna preistorica chiamata Lucy, microscopi e provette, dipinti d´epoca e un Cro-Magnon alto quasi due metri, poi un banco di strumenti chirurgici: seghe da amputazione, spatole, bisturi. «Alcuni di questi oggetti venivano usati sul campo di battaglia, non si ha neanche idea di cosa significassero quattromila feriti a terra, per esempio dopo la battaglia di Solferino, senza assistenza né cure». Uno di questi strumenti è una sega di amputazione a catena di bicicletta: pensarne l´uso è già, a suo modo, una specie di tortura.
Oltre il grande atlante di anatomia del Mascagni - meravigliose tavole a colori in grandezza naturale - il labirinto procede tra banconi da lavoro e utensili come quelli per la bollitura delle ossa, e non bisogna scandalizzarsi perché anche il corpo è un oggetto. Lo stesso si prova al piano di sopra, nel Museo di Anatomia, dove i corpi e le ossa e le braccia e i cuori nei preparati sotto vetro ci raccontano chi siamo, e ogni storia è la nostra storia. Qui c´è uno scheletro smisurato e goffo. Apparteneva a Giacomo Borghello, nato a Novi Ligure nel 1810 e morto all´età di diciannove anni. Era alto due metri e 19 e lo esibivano al circo. Una povera vita da fenomeno da baraccone, e ora il suo destino è immutato, di nuovo in mostra e per sempre. Vicino a lui, come un fratello dolente, lo scheletro di un nano: a differenza di Giacomo, di lui non si sa nulla, non il nome né la vicenda umana, se non che si tratta di "un esempio di nanismo armonico". Ma il nano e il gigante, nel silenzio ci parlano.
Il museo venne costruito come la navata di una chiesa, per sottolinearne l´aspetto di cattedrale della scienza. Ed è bellissimo. Dal 1876 al 1898 lo diresse il professor Carlo Giacomini. «Ma lui è in vetrina, io no», scherza il successore Giacomo Giacobini e intanto mostra il predecessore. Il quale sta nella sala in fondo, ritto e quasi solenne nel suo scheletro. Una targa ripete le parole del testamento in data 22 giugno 1898: "(...) Non essendo partigiano né della Cremazione né dei Cimiteri preferisco che le mie ossa abbiano riposo nell´Istituto Anatomico dove ho passato i più bei anni della mia gioventù ed al quale ho consacrato tutte le mie forze (...) Desidero ancora che il mio cervello venga conservato col mio processo e posto nel Museo insieme agli altri (...)". Sembrava solo una storia di ossa e cellule, invece è una storia d´amore.

Repubblica 3.12.07
I cattolici e le leggi. La chiesa che chiede più potere
di Claudio Pavone


Dibattiti / le gerarchie ecclesiastiche e il peso che i credenti vogliono avere nella vita pubblica
I concordati, quello di Mussolini e quello di Craxi, hanno introdotto molta confusione
La sincera e dolente tensione di due intellettuali come Giuseppe Alberigo e Pietro Scoppola

Numerosi sono oggi i dibattiti sui rapporti fra religione e politica in una età definita spesso postsecolare che, come tale, non potrebbe far propri i principii che hanno ispirato nei due ultimi secoli la condotta degli Stati liberali e democratici nei confronti delle chiese e, in modo particolare, della Chiesa cattolica. Sono spesso dibattiti elevati, che rivelano il bisogno di chiarezza su temi di primaria importanza che riguardano i fondamenti stessi dello Stato laico.
Innanzi tutto, è lo stesso concetto di postsecolare che andrebbe chiarito. Sotto la sua apparente neutralità, di riconoscimento cioè di un mero dato di fatto, si nascondono in realtà interpretazioni del passato e del presente e previsioni del futuro che assumono facilmente un carattere normativo. Società secolare è una società in cui le credenze religiose non costituiscono i presupposti dell´ordinamento istituzionale. Si tratta di un principio, proprio della società laica, che si è sviluppato nei due secoli precedenti al nostro sotto i segni del liberalismo, della democrazia, del socialismo, e anche del capitalismo, in quanto fondato sulla distinzione fra economia ed etica. Lo Stato laico non può dunque vivere che in un società secolarizzata. Dare per scontato che questa sia ormai alle nostre spalle significherebbe mettere in forse anche la laicità.
Carattere essenziale della società secolarizzata e laica è la netta distinzione fra spazio pubblico e potere pubblico. Il secondo è chiamato a garantire il primo proprio perché non si confonde con esso. L´aggettivo "pubblico", quando qualifica lo spazio, sta ad indicare che tutti hanno uguale diritto di fruirne liberamente, come individui e come associazioni, compresi ovviamente i credenti in una religione e le associazioni da essi create. Questo spazio è «utilizzato amplissimamente dalle gerarchie ecclesiastiche», come scrive Eugenio Scalfari nell´editoriale apparso ieri su Repubblica. Suonano perciò strane le proteste dei cattolici contro i supposti ostracismi di cui in Italia essi sarebbero vittime per quanto riguarda la presenza nello spazio pubblico. La storia ci mostra che mai come nei regimi liberali e democratici i cattolici, le loro associazioni e le loro istituzioni ecclesiastiche abbiano goduto, anche in Italia, dei frutti di quella libertà che il Sillabo aveva condannata. I cattolici, e soprattutto le gerarchie, hanno certo dovuto rinunciare agli antichi privilegi di cui godevano, ma si sono nello stesso tempo affrancati dalla sottommissione alle pretese dello Stato nei loro confronti (che un tempo si chiamavano maiestatica iura circa sacra). Residui del vecchio giurisdizionalismo, cioè della permanenza di interventi pubblici nelle cose di religione, si rilevano peraltro in alcune legislazioni liberali, compresa l´apprezzabile legge delle Guarentigie con la quale subito dopo il 1870 lo Stato italiano regolò i suoi rapporti con la Chiesa cattolica.
La distinzione fra spazio pubblico e potere pubblico rinvia a quella più generale fra pubblico e privato, dove il primo termine indica le istituzioni pubbliche e il loro potere cogente su tutti i cittadini. È questa una distinzione salutare, faticosamente conquistata, sulla quale si regge tutto l´edificio delle libertà personali, comprese naturalmente quelle religiose. Chi invoca una penetrazione del privato nel pubblico per dare più forza al privato non sembra rendersi conto che ciò significa anche penetrazione del pubblico nel privato, del quale viene così condizionata, e quindi limitata, l´autonomia.
Questo vale anche per la coscienza religiosa, che ha a sua volta bisogno di libertà per radicarsi ed esprimersi. In altre parole: se viene privatizzato il pubblico, viene contestualmente pubblicizzato il privato. Ma allora, basterebbe eliminare alcuni equivoci terminologici perché tutto funzionasse per il meglio?
Purtroppo non è così. Le pressioni delle gerarchie cattoliche e dei loro fiancheggiatori politici e culturali quando chiedono maggiore presenza nello spazio pubblico mirano in realtà ad avere più spazio nel potere pubblico, basandosi sul doppio significato di "pubblico" che sopra ho cercato di delineare. In Italia i concordati, sia quello di Mussolini che quello di Craxi, hanno introdotto una confusione fra pubblico e privato che apre la strada alla nuove, pressanti, richieste della gerarchia ecclesiastica di provvedimenti normativi a proprio favore. Tali richieste, venuta meno la mediazione politica che la Democrazia Cristiana, pur entro certi limiti, sapeva di dover compiere, diventano sempre più insistenti, giovandosi da un lato della libertà che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini e nello stesso tempo usufruendo dei privilegi assicurati dal Concordato e dalle molte leggi che, dal campo finanziario a quello scolastico, li vanno accrescendo. Sembra quasi che intorno alle dichiarazioni di alcune autorità ecclesiastiche aleggino le parole attribuite ai gesuiti dell´Ottocento nei confronti dei liberali: «Esigo da voi la libertà perché è nei vostri principii, ma ve la nego perché non è nei miei».
Del resto, è intorno allo stesso concetto di libertà che, su questo terreno, possono sorgere equivoci. Una cosa è la libertà della Chiesa cattolica, altra cosa è la libertà di coscienza dei singoli cittadini di fronte alle religioni. Quando la Chiesa cattolica come istituzione rivendica la propria libertà ha ben diritto di farlo, ma deve rispettare i limiti che all´esercizio di quella libertà sono posti dalla libertà assicurata a tutti i cittadini dalla Costituzione. Non possono cioè le norme e i precetti della Chiesa trasformarsi, direttamente o indirettamente, in norme dello Stato, che verrebbero in tal modo a violare l´eguaglianza di tutti di fronte alla legge, cioè a dare vita a nuovi privilegi.
Nelle discussioni sui rapporti fra religione e politica non dovrebbe dunque insinuarsi l´idea che si tratti di rapporti fra due poteri, come quelli fra papa e imperatore al tempo della lotta delle investiture. Questo immeschinisce il più delle volte il discorso attorno alla religione e ne mette ai margini gli agnostici e gli atei, i quali, forse intimiditi dal clima che prevalentemente li circonda, a loro volta esitano ad affrontare con i cattolici e gli altri credenti i sommi problemi attorno al mondo, all´uomo, al suo destino, alle sue paure e alle sue speranze, che sono comuni a tutta l´umanità e che hanno fornito alle religioni la base dello loro forza attraverso i secoli.
Esiste anche in Italia una tradizione di cattolici liberali e democratici che hanno fatto della coesistenza fra la loro fede, la libertà e la democrazia un problema di coscienza, non un problema di rapporto fra due poteri.
Se ammiriamo due grandi intellettuali cattolici di recente scomparsi, Giuseppe Alberigo e Pietro Scoppola, è perché cogliamo, nella loro opera storiografica e nella loro presenza sulla scena pubblica, la sincera e talvolta dolente tensione fra quei due poli presenti nel profondo del loro animo. Alberigo e Scoppola, pur così attenti al concreto dispiegarsi nella vita istituzionale e politica dell´attività religiosa, ci ricordano che, a monte delle relative norme giuridiche, esistono principii che le trascendono, i quali, ove fossero violati, metterebbero in crisi l´intero edificio dello Stato laico.
Ai fermi difensori della laicità viene talvolta opposta la goffa replica: «Ma allora anche voi siete dogmatici!». Chi muove questa accusa sembra incapace di distinguere fra dogma e fermezza di convinzioni nella difesa della libertà di tutti. Certo, chi pensa che la morale possa fondarsi solo su verità dogmaticamente affermate può sentirsi smarrito in un mondo in cui si cerca e si pratica l´eticità muovendo dall´opposto principio dell´autonomia della morale. Ma di fatto la laicità, frutto di un lungo e difficile percorso costato crisi di coscienza, sofferenze e talvolta roghi, basandosi sulla distinzione fra spazio pubblico e potere pubblico, assicura anche a chi la nega o la stravolge (ad esempio, opponendo al laico buono il laicista cattivo) condizioni di vita intellettuale, sociale e politica in cui egli può liberamente vivere ed esprimersi.

Repubblica 3.12.07
Capodimonte. Artisti di casa e stranieri a confronto
Per festeggiare i cinquant’anni del museo un percorso che unisce Picasso a Van Gogh Brueghel a Boucher e i Carracci
di Bianca Riccio


Spregiudicata, attraente, certamente non convenzionale, la mostra che, aperta fino al 20 gennaio 2008, è stata allestita a Capodimonte per festeggiarne i cinquant´anni. E´ anche un omaggio deferente dei maggiori musei del mondo, che hanno volentieri concesso in prestito settanta opere, non solo prestigiose ma raramente uscite dalle loro sedi istituzionali. In ossequio, ripetiamo, ad uno dei musei più importanti e attivi d´Italia e forse d´Europa. Rispetto al museo, quindi, e al lavoro infaticabile e appassionato dei suoi funzionari che, dal lontano 1957, quando Capodimonte fu voluto da Bruno Molaioli, lo hanno saputo modificare profondamente senza però ledere in nessun modo la sua particolare identità. Da Reggia Museo delle collezioni principesche, farnesiane e borboniche, realizzato alla metà del settecento da Carlo III di Borbone, per collocarvi l´immensa collezione Farnese avuta in eredità da sua madre Elisabetta, ma di fatto chiuso dal 1799, trasformato a istituzione internazionale e cosmopolita. Ma torniamo alla mostra di compleanno. E´ da lodare la scelta ottima e molto abile di non separare il nucleo dei dipinti «forestieri» dal percorso delle collezioni permanenti, anzi, i «foresti» sono stati messi a colloquio con gli inquilini in situ disponendoli lungo il percorso museale. Una scelta provocatoria? Forse, ma è anche il segnale di una nuova concezione espositiva, più stimolante. Così ci si può concedere il piacere di vedere il raffinato e italianissimo ritratto la Donna con perla di Corot, accanto alla Madonna con bambino di Botticelli, i dipinti metafisici di Carrà e de Chirico a confronto con il rigore del celebre ritratto di Luca Pacioli con i suoi libri matematici, uno sconvolto Basquiat accanto allo stralunato Ritratto del Rosso Fiorentino e il capolavoro di George La Tour, giunto da Berlino, i Due contadini che mangiano ceci e miseria accanto ai caravaggeschi napoletani come Mattia Stomer. E ancora, il meraviglioso paesaggio di Turner La prima stella della sera che viene dalla National Gallery di Londra, un dipinto del 1830. Il Turner si colloca davanti a un solare e mediterraneo paesaggio di Claude Lorrain. Veramente c´è tutta l´occasione di riflettere su che cosa abbia significato la pittura italiana per l´Europa. Per esempio si sono messi a confronto dipinti di epoche e orientamenti stilistici diversi ma di tematiche affini, così i tre ritratti femminili di Picasso, la Donna di Maiorca, Olga con il collo di pelliccia e Il Ritratto di Olga Khokhlova sono ai lati della enigmatica Antea di Parmigianino. Sicuramente la visita che Picasso fece a Napoli e agli scavi pompeiani nel 1917 è all´origine della particolare tensione figurativa che si riscontra nel ritratto di Olga. Certo la conoscenza della pittura antica fatta a Napoli diviene qui un elemento essenziale. Il contatto diretto con l´antichità costituì per Picasso una ricchissima vena ispiratrice, qui ancora allo stadio di «problema da risolvere», il che dà un senso ben preciso al viaggio in Italia del pittore spagnolo. Seguitando nel nostro percorso, troviamo la più che seducente Betsabea di Rembrandt, davanti alla Danae di Tiziano, e l´ambizioso, superbo bozzetto, pressoché sconosciuto, per un dipinto mai eseguito dal giovane David a Roma, I funerali di Patroclo. Il Concerto di giovani, un´opera colta e raffinata di Caravaggio che viene dal Metropolitan di New York, firmato in basso a sinistra, è opera di Caravaggio giovane, presumibilmente ancora a Roma al servizio del Cardinal Del Monte, eseguito prima della sua precipitosa fuga proprio a Napoli, dove, come è noto, cambiò radicalmente la sua maniera. E adesso incontriamo Van Gogh davanti a Brueghel e Boucher, giustamente di fronte al bodoire in porcellane chinoiserie di Amalia di Sassonia, la moglie di Carlo III. Chiude questo percorso un enorme e ironico Gilbert&Gorge, una delle loro leggendarie autorappresentazioni. Ancora una provocazione? Al piano superiore, il piano del XIX secolo, troviamo una sorpresa. Sappiamo che Edgard Degas ebbe stretti rapporti con Napoli. Il nonno paterno Hilaire intorno al 1790 lasciò la Francia per Napoli e si fece una posizione come banchiere. Una zia di Edgard sposò Giuseppe Morbilli, duca di Sant´Angelo, lo zio Eduardo impalmò Claudia Primicile Carafa, la zia Laura il barone Gennaro Bellelli, e Stefanina, la prediletta Fanny, andò sposa a un altro Carafa. Di tutti esistono ritratti commossi. Ma c´erano nodi ancora più stretti per Degas a Napoli che quando vi soggiornava era sommerso dalle visite dei parenti.
Nel 1863 la amatissima sorella Thrèse, anche sua modella, sposò il cugino Morbilli. Qui troviamo a colloquio il doppio ritratto di Edmondo e Therèse Morbilli, un capolavoro che viene da Boston, accanto a quello delle sorelle Bellelli di Los Angeles, posti a confronto con un ritrovato ritratto di Therèse di Domenico Morelli. Tutto ciò, prestiti, festa e catalogo esemplare sottolineano il prestigio acquisito dalle istituzioni napoletane, attraverso le loro tante, tantissime manifestazioni. E vogliamo ricordare la mostra del Seicento napoletano e quelle del Settecento e dell´Ottocento, le diverse monografiche come quella su Luca Giordano o Gaspare Traversi, le mostre nelle sedi di Castel Sant´Elmo di villa Pignatelli, della Floridiana e della Certosa di Capri, tutto un vasto territorio trascinato e coinvolto dal vulcanico soprintendente e dai suoi collaboratori. La conclusione alla quale Nicola Spinosa vuole arrivare è che un Museo dovrebbe funzionare come laboratorio nel quale poter sperimentare nuove idee per altri progetti d´arte e forse anche di vita. E per il futuro si prevedono subito una ricognizione di tre fotografi diversi Mimmo Iodice, Olivo Barbieri e Craige Horsfield «Da Capodimonte» e Verso Capodimonte» e poi attesissima, nella primavera del 2008, una particolare monografica su Salvator Rosa. Ma non il Salvator Rosa dei paesaggi o delle battaglie, bensì l´artista visto dal suo lato più affascinante, quello del pittore di figure allegoriche, da esplorare nei suoi significati più magici, esoterici ed arcaici.

Repubblica 3.12.07
L’esposizione a Vicenza
La favola di "Venere e Amore" nell'opera di Gian Antonio Pellegrini


VICENZA - Il mito di Venere e Amore è il tema della mostra "Capolavori che ritornano" allestita a Palazzo Thiene (Banca Popolare di Vicenza) dall´8 dicembre al 3 febbraio; la rassegna ha come opera centrale "Venere e Amore" di Gian Antonio Pellegrini; partendo da questa importante tela si snoda un percorso che passa attraverso gli stucchi cinquecenteschi del Palazzo fino alla pittura del settecento veneto; la galleria Barberini di Roma ha prestato per l´occasione "Venere e Adone" di Tiziano. Ingresso libero

Corriere della Sera 3.12.07
Tristano, Isolda e il Nulla
Wagner elabora le tesi di Schopenhauer per mostrare la distruzione dell'individuo
di Paolo Isotta


Il 7 dicembre la Scala inaugura la stagione lirica con l'opera del maestro tedesco.
Dirigerà Daniel Barenboim con regia di Patrice Chéreau
Una metafisica atea dove la fusione sentimentale dei due amanti diventa una forza dissolvitrice

Un articolo di giornale non potrà nemmeno lontanamente presumere di essere un'analisi d'un capolavoro della complessità del Tristano e Isolda. Conviene qui modestamente porre in rilievo alcuni luoghi del poema drammatico che, per essere di solito fraintesi, impediscono di cogliere addirittura il significato dell'opera.
Occorrerebbe innanzitutto conoscere nel modo più particolareggiato tutta la prima metà del I atto: nessun autore di teatro musicale raggiunge Wagner nell'arte di narrare attraverso il dialogo collocato in questa zona del dramma i lunghi e intricati antefatti dell'azione. Contemporaneamente viene con straordinaria densità enunciata la gran parte del materiale motivico onde si costruisce la forma musicale e drammatica dell'intera opera. Qui l'antefatto è dedicato al racconto dei rapporti avutisi fra Tristano e Isolda prima dell'inizio del dramma, i quali determinano il comportamento dei due eroi nel corso del I atto. Non li narreremo di nuovo per giungere a trattare d'uno dei simboli fondamentali del dramma, che dà luogo alla catastrofe del I atto: il filtro d'amore. Le fonti medioevali con la leggenda del fatale amore, per quanto investigate da Wagner con profondità filologica, restano per lui mero pretesto del capolavoro poetico: ogni elemento del mito riceve senso nuovo e originario dalla sua ricreazione.
Così assistiamo all'ordine che Isolda impartisce alla dama Brangania di fornirle dal suo scrigno il filtro di morte. L'antefatto ha spiegato esistere una colpa inespiata di Tristano verso Isolda e costei intende punirlo offrendogli la bevanda e al tempo stesso assumendola per evadere con la morte da quello che a lei pare un futuro di ignominiosa servitù, il matrimonio col vecchio re Marke, zio di Tristano, invece che con l'eroe ch'ella salvò due volte e poi l'ha conquistata pel re. Quando Tristano viene convocato dalla principessa e si vede porgere la coppa è del tutto consapevole del destino che l'attende: il suo orgoglio virile gli fa accettare di pagare con la vita l'oscura colpa inespiata. Ma l'ancella, terrorizzata per la volontà della sua signora, sostituisce al veleno il filtro d'amore. Quando gli eroi bevono alla stessa coppa ignorano ambedue codesta sostituzione. Ed ecco il punto sublime nel quale possono senza onta guardarsi negli occhi e pronunciare estaticamente l'uno il nome dell'altra. Una considerazione superficiale di questo punto chiave porterebbe a credere che il filtro d'amore abbia come meccanicamente avuto effetto sui due, trasformando il sentimento d'odio di Isolda verso Tristano nel suo opposto e, in modo simmetrico, accendendo l'amore nello spirito di Tristano. In realtà i due, bevuto che hanno, sono convinti di avere innanzi solo pochi istanti di vita: nessun pericolo li minaccia più, non sono più costretti a seguire i comandamenti del mondo falso, quello che nel sistema simbolico del Tristano viene chiamato il «Giorno» con la sua luce insopportabile. Solo ora si sentono liberi di confessarsi a vicenda il sentimento intimissimo celato nel cuore che il «Giorno », col suo sistema di valori, impediva, non che di manifestare, di dichiarare anche a se stessi. Dal primo istante l'attuarsi di questo arcano amore è mescolato alla presenza della morte, si fonde con essa.
Di qui viene naturale interrogarsi su ciò: in che cosa consiste l'invincibile amore di Tristano e Isolda? Quale significato specifico acquisisce nel dramma il vocabolo «Liebe»? Eccoci calati nel tema della metafisica erotica del Dramma Musicale. Nulla di più lontano dal congiungimento carnale, che riporterebbe i due nel mondo della vita: varcare le porte del mondo della vita è invece l'esatto fine dei due metafisici amanti. Perciò l'immensa notte d'amore del II atto, con la sua luce dell'oscurità derivante da un'orchestra che nessuno aveva saputo trattare con tale polifonia di linee e colori, non può intendersi col termine superficiale di «duetto d'amore» che quasi tutti adoperano. L'amore di Tristano e Isolda significa innanzitutto l'abbattimento dei confini tra «io» e «tu» per portare alla totale fusione dei due amanti, che prelude al culmine dell'amore, la fusione di questo unico essere nella Morte, ossia il passaggio dalla soglia che dalla vita conduce al Nulla.
La distruzione dell'individualità per la fusione dei «due» in «uno» e poi dell'«uno» nel Nulla si definisce in termini filosofici la distruzione dell'illusorio
principium individuationis che impedisce ai nostri sensi di cogliere come monistico il frutto della cieca e nefasta Volontà: ecco il lessico di Schopenhauer del quale Il mondo come Volontà e Rappresentazione costituì il fondamento della metafisica erotica del Tristano.
Ciò che dunque dovrebbe accadere durante la Notte del II atto e non avviene per l'irruzione del mondo del Giorno ordita dal traditore Melot è la fusione del «due» in «uno», indi il dissolvimento dell'«uno» nel Nulla per pura forza d'amore: una forza di natura puramente spirituale, tanto più sconvolgente giacché, come ciascuno avrà colto leggendo queste righe, abbiamo da fare con una metafisica del tutto atea. La distruzione dell'individualità passa dunque, ed ecco ancora Schopenhauer, per la conquista di una «volontà negativa », una noluntas.
Quando si giunge al sublime finale del dramma, che viene di solito definito Liebestod, morte d'amore, mentre la sua retta denominazione è Isoldes Verklärung, la trasfigurazione di Isolda, ispirata a Wagner anche dalla veneziana Assunta del Tiziano, Tristano è già morto dopo il terribile monologo della prima metà dell'atto. Egli, attinto da ferita letale, è in spasmodica attesa di Isolda per realizzare con lei ciò che nel II atto gli è stato impossibile: ma quando il pastore e Kurwenal gli annunciano il di lei arrivo egli non è più capace di attendere, in stato di totale esaltazione si strappa le bende. Isolda deve dunque compiere da sé il processo d'ingresso nel Nulla per sola forza d'amore; la pagina nella quale ciò avviene, la «trasfigurazione », potrebbe essere considerata il culmine di tutta la musica europea. Solo dopo ch'essa ha cessato di cantare tocca all'orchestra risolvere la vicenda tematico-simbolica del dramma. Il motivo del tormento d'amore inappagato compare già, in shock polifonico, nella III e IV misura del Preludio al I atto: e qui viene generalmente chiamato, col complesso delle altre voci che vi cozzano, «l'accordo del Tristano ». Incidentalmente osserviamo che ancora la più attardata letteratura ne parla come di un enigma armonico, laddove lo stesso Bach l'avrebbe immediatamente classificato e spiegato nella funzione. Per l'intera immensa partitura tornerà col suo tormentoso cromatismo. Solo qui, sostenuto dalle armonie che in Wagner si chiamano la cadenza «della redenzione», si frange un cammino verso l'alto e si risolve, placato, nella «terza maggiore» dell'«accordo di Si maggiore meglio strumentato della storia della musica » (Richard Strauss). Coll'ingresso nel Nulla si appaga, cessando, ogni desiderio. Il culmine del destino è nella morte dell'illusoria coscienza di sé.
Lo stile musicale del Tristano e Isolda dà ampio luogo al cromatismo, ossia all'uso di note estranee alla scala e di accordi alterati. In primo luogo va osservato che procedimenti eccezionali, ma linguisticamente sempre spiegabili secondo le regole dell'armonia tonale, vengono da Wagner adoperati non per una ricerca stilistica, o, Dio liberi, linguistica, fine a se stessa, ma per dar espressione a un contenuto drammatico che Wagner considerava, com'è, altrettanto eccezionale. Lungi dal vedere ciò come «conquista» del linguaggio, Wagner arriva a diffidare gli altri dall'uso di tali procedimenti eccezionali, solo a lui leciti. In secondo luogo, atteso che così non fu, ossia che gli altri se ne impadronirono impunemente (ma con quanto minor forza), occorre un'osservazione fondamentale. Si vuole da taluno che lo stile armonico del Tristano, oltre ad aprire vie nuove, abbia col suo pervadente cromatismo messo in crisi l'armonia tonale. In realtà l'arte inarrivabile con che Wagner maneggia la dinamite senza farla esplodere, il suo non scrivere nemmeno una notina delle parti interne a caso, lungi dall'andare nel verso d'un'equiparazione di consonanza e dissonanza (l'interpretazione «progressista» del Tristano nella Storia), rafforza enormemente il sentimento tonale. L'intima natura classica della partitura del Tristano, che occorrerà una buona volta ammettere, ritarda invece che determinare la crisi dell'armonia tonale.

il Riformista 3.12.07
Le prossime mosse di Benedetto XVI
Rivoluzione allo Ior: in arrivo Tietmeyer


Sono cinque gli uffici con competenze finanziarie del Vaticano. Oltre all'Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica), al governatorato dello Stato della Città del Vaticano, alla prefettura degli Affari Economici e alla congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli, c'è lo Ior (l'Istituto per le opere di religione), in sostanza la banca vaticana. L'istituto è controllato da una commissione cardinalizia di vigilanza dalla quale, questa settimana (si dice domani), dovrebbe ufficialmente uscire l'attuale presidente, ovvero l'ex segretario di Stato vaticano Angelo Sodano che lo scorso 23 novembre ha compiuto 80 anni ed è così entrato nell'età in cui non si può più far parte, come componenti effettivi, dei vari ministeri della Santa Sede.
Ancora oggi, nella commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior, vi sono insieme a lui Tarcisio Bertone (attuale segretario di Stato vaticano), Juan Sandoval Iniguez (arcivescovo di Guadalajara), Attilio Nicora (presidente dell'Apsa) e Adam Joseph Maida (arcivescovo di Detroit). Da domani, il posto di presidenza dovrebbe essere automaticamente consegnato al cardinale Bertone mentre per il nome di chi andrà a occupare il quinto e ultimo posto ancora disponibile i giochi sono aperti. Si parla con insistenza dell'arrivo del neocardinale Giovanni Lajolo (presidente del governatorato) anche se non è escluso che il pontefice, sentito innanzitutto il cardinale Bertone, possa optare per un nome internazionale. La commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior, infatti, ha quasi sempre avuto al suo interno, oltre a un cardinale proveniente dagli Stati Uniti, anche uno proveniente dalla Germania. Si tratta dei due paesi che raccolgono la maggiore quantità di offerte per la Santa Sede ed è logico che abbiano una rappresentanza agli alti livelli della banca vaticana.
La struttura dello Ior ha subìto nei mesi scorsi alcuni importanti cambiamenti. Il primo ottobre scorso Paolo Cipriani ha preso il posto del direttore generale Lelio Scaletti. Cipriani, cinquantatreenne romano, sposato con due figli, prima di entrare in servizio allo Ior aveva prestato la propria attività presso il Banco di Santo Spirito e la Banca di Roma, svolgendo anche compiti di rappresentanza di questi istituti in Lussemburgo, a New York e a Londra. Attualmente presidente dello Ior è il banchiere Angelo Caloia. Ma da gennaio il suo posto potrebbe essere preso dall'ex presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, membro della pontificia Accademia delle scienze.
Resta tutta da decifrare, invece, la posizione dell'attuale segretario personale del cardinale Sodano, monsignor Piero Pioppo, nominato prelato dello Ior dallo stesso Sodano durante i suoi ultimi mesi alla guida della segreteria di Stato, dopo aver rispolverato una carica che era rimasta vacante dai tempi dell'uscita di scena del discusso e potente monsignor Donato De Bonis, braccio destro di Paul Marcinkus.
In settimana, pare domani, dovrebbe avvenire anche l'importante nomina del nuovo direttore dei musei vaticani. Si tratta di Antonio Paolucci, storico dell'arte, già ministro dei beni culturali ed ex-soprintendente per il polo museale a Firenze. Insieme, si parla dell'arrivo alla congregazione per l'evangelizzazione dei popoli di monsignor Ermes Viale, oggi officiale della prima sezione della segreteria di Stato vaticana, quale nuovo capo dell'ufficio amministrativo del ministero retto dal cardinale Dias.
Più in là, invece, probabilmente entro e non oltre il mese di gennaio, dovrebbe avvenire un cambio ai vertici dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù. Viene dato per probabile l'arrivo, come nuovo presidente, dell'attuale vice presidente dell'ente ospedaliero Ospedali Galliera di Genova, il professor Giuseppe Profiti. L'ospedale genovese, in ossequio al suo statuto, è oggi presieduto dall'arcivescovo della città, il cardinale Angelo Bagnasco. Istituito, infatti, come opera pia, l'ente deve le sue origini alla munificenza della Marchesa Maria Brignole Sale, duchessa di Galliera, che lo ha edificato tra il 1877 e il 1888. Da sempre l'ente genovese ha avuto la peculiarità della presidenza affidata all'arcivescovo in carica in città. L'eventuale arrivo di Profiti al Bambino Gesù - ospedale a oggi di proprietà della Santa Sede - permetterebbe una certa continuità di governo con la gestione precedente.

l'Unità 3.12.07
La violenza sui bambini e il dilemma del segreto
di Luigi Cancrini


Uno psichiatra di Palermo ha denunciato un suo paziente che gli parlava di abusi, ancora in corso, compiuti nei confronti di tre bambine dai tre agli otto anni. La polemica che si è aperta a questo punto mi ha lasciato davvero perplessa. Davvero si può sostenere, come ha fatto Vittorino Andreoli, che la tutela del segreto professionale ed il rapporto di fiducia fra medico e paziente siano più importanti delle violenze che i bambini, in assenza di denuncia, avrebbero continuato a subire? Lei che ne pensa?
Lettera firmata


Ne penso che lo psichiatra ha fatto bene e che io avrei fatto altrettanto. Dopo aver tentato di convincere, ovviamente, il mio paziente all’autodenuncia. Proponendogli l’idea di una Comunità Terapeutica. Ma proponendogli, soprattutto, l’idea per cui il percorso terapeutico, in una situazione come la sua, parte proprio dalla capacità di assicurargli una protezione concreta nei confronti di un comportamento compulsivo che egli non riesce a tenere sotto controllo.
Quello cui ci troviamo di fronte qui, in effetti, è un problema di fondo dell’agire psicoterapeutico. Come ben sanno tutti quelli che lavorano con gli alcolisti, con i tossicodipendenti o con gli autori di violenza sessuale, situazioni terapeutiche centrate solo sul tentativo di capire il perché dei loro comportamenti possono trasformarsi in una forma sottile di complicità ed in una specie di «giustificazione» psicologica di tali comportamenti se non si pone con grande chiarezza, fin dall’inizio, il problema del loro superamento. Un problema che deve essere considerato in qualche modo preliminare allo sviluppo di un vero e proprio lavoro terapeutico. Il che non significa, ovviamente, che il terapeuta debba muoversi utilizzando risorse esterne (la polizia o i famigliari) senza il consenso del paziente per aiutarlo in questa direzione. Il che significa con grande evidenza, però, che il terapeuta deve chiarire al suo paziente che priva di un consenso su questo punto e priva dunque di una definizione consensuale degli obiettivi da raggiungere, la relazione che si stabilisce fra di loro non è una relazione terapeutica ma, al più, una relazione d’aiuto capace di offrire quel minimo di presenza e di vicinanza che bisogna comunque offrire ad una persona che sta così male da non riuscire neppure a formulare un progetto di cambiamento. In termini famigliari a chi lavora con i tossicodipendenti, un intervento di «riduzione del danno»: necessario, spesso, per costruire la base di un futuro intervento davvero terapeutico. Seguendo la formulazione lineare ed efficace dei medici olandesi che dicevano ai loro eroinomani: «la tua vita e la tua salute fisica ci interessano anche se tu non hai ancora deciso di smettere e di curarti».
È all’interno di questo ragionamento più complessivo che va inquadrata secondo me, dal punto di vista concettuale, la decisione dello psichiatra che ha ritenuto di non dover rispettare i limiti tradizionali del «segreto professionale» arrivando a denunciare i comportamenti del suo paziente. Grave sarebbe stato, certo, se a questa decisione fosse arrivato senza aver prima tentato di ottenere dal paziente delle scelte capaci di tenerlo lontano dal rischio di ripetizione dei suoi comportamenti evidenziando in modo chiaro la sua decisione di liberarsene. Se lo ha fatto tuttavia, come io non ho motivo di dubitare, il suo comportamento è legittimato soprattutto dalla sua compatibilità con quelle che sono, a mio avviso, le esigenze reali e profonde di colui che gli ha chiesto aiuto. Una persona che soffre di una patologia estremamente grave e che deve essere costretta comunque, anche con una denuncia (a) a interrompere un comportamento dannoso per lui oltre che per i bambini; (b) ad affrontare una consapevolezza piena e condivisa della sua condizione di malattia; (c) ad utilizzare tale consapevolezza per affrontare sul serio con una terapia vera e propria la sua patologia.
Ho lasciato in secondo piano (a qualcuno forse così sembrerà) il problema della protezione dei bambini. Si tratta di un argomento decisivo anche dal punto di vista legale, a mio avviso, perché l’obbligo di denuncia c’è in questa situazione ma io ho preferito non insistere su questo punto per una ragione che considero estremamente importante. Per avere la possibilità di insistere, cioè, sull’idea per cui quella su cui dobbiamo sempre basarci, al di là di tutte le apparenze, è la sostanziale, profonda convergenza che c’è, dal punto di vista psicologico, nelle relazioni interpersonali violente, fra interesse delle vittime e interesse dei persecutori e dei violenti. Sull’idea, cioè, per cui il violento produce ogni volta con i suoi comportamenti ferite in sé stesso oltre che nella sua vittima e che poche psicopatologie sono insieme mutilanti e gravi come quelle di chi è obbligato da dentro a violentare dei bambini. Essendo stato, come spesso accade, violentato a sua volta nell’infanzia ed attivando dunque, nel momento in cui prende il ruolo del violentatore, solo una ripetizione dolorosa e anacronistica della sua ferita originaria. Non traendone alcun tipo di sollievo, neppure momentaneo, ma solo, nel suo profondo, dolore, vergogna, senso di colpa e ulteriore difficoltà a vivere la sua vita.
Questa riflessione, io me ne rendo bene conto, può essere considerata di tipo essenzialmente etico. Quello che io vorrei sottolineare, invece, è che io la sento come una riflessione di ordine prevalentemente clinico. Una riflessione abitualmente sottovalutata da chi non si rende conto della sua importanza fondamentale nelle cure di tutti quei disturbi di personalità che si collegano ad una percezione erronea del Sé, a quella che in psicoanalisi viene definita come una patologia del Sé grandioso. Alle persone che non si rendono conto di star male, cioè, o che se ne rendono conto in modo limitato semplicemente perché i loro meccanismi difensivi li costringono ad evitare qualsiasi confronto con le loro parti più deboli o più infantili. Rendendo impossibile la richiesta di aiuto terapeutico («non ne ho bisogno») o trasformandola in un bisogno del tutto strumentale («ho bisogno solo di qualcuno che mi ascolti e mi capisca»): fino al momento in cui con chiarezza qualcuno (il terapeuta) non li riporta ad una considerazione realistica degli effetti, su loro e su gli altri, dei loro comportamenti.

domenica 2 dicembre 2007

Nel corso del mese di Novembre 2007 i contatti con "segnalazioni" sono stati 47.751, provenienti da questi Paesi:







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l’Unità 2.12.07
La «sinistra unita» riparte. Contro il «neocentrismo» del Pd
Archiviate le frizioni con il Pdci sul welfare, la Cosa Rossa punta sul proporzionale, magari tedesco
di Luigina Venturelli


AVVIO. Giordano lo chiama «soggetto unitario e plurale della sinistra», Mussi preferisce parlare di «sinistra grande e federata». Comunque sia, il processo di costruzione della Cosa Rossa - il terzo messo in cantiere in questi mesi di riorganizzazione della vita politica italiana - è stato avviato.
Ieri sono iniziati gli stati generali milanesi, un anticipo dell’assemblea nazionale che il prossimo fine settimana vedrà impegnati Rifondazione Comunista, Comunisti italiani, Sinistra democratica e Verdi nel dar vita ad una forza con «segno grafico comune» e «programma politico unitario». I tempi stringono, l’agenda a marce forzate imposta dalla prossima riforma della legge elettorale chiede di essere pronti già per le elezioni amministrative di primavera.
Meglio, dunque, portarsi avanti. E anticipare a Milano le linee guida che Roma dovrà sviluppare, anche se per ora si definiscono solo in contrapposizione a quello che già c’è: il Partito democratico ed il governo. Sul punto, la sintonia tra i leader Sd e Rc è completa. «Più guardo al nascente Pd, un partito a formazione plebiscitaria con vocazione neocentrista, più mi rallegro della scelta fatta mesi fa» ha spiegato Fabio Mussi. «La risposta a Berlusconi non può essere solo quella del Pd, una risposta da rendita di posizione, elitaria e tecnocratica» ha continuato Franco Giordano.
I toni sono duri anche nei confronti dell’esecutivo Prodi. «È grave che il governo abbia posto la fiducia sul protocollo welfare, rimangiandosi i miglioramenti fatti in parlamento» ha ricordato il coordinatore di Sinistra democratica. Ora serve raddrizzare la rotta, il prima possibile visto che «nel 2009, al più tardi, si andrà a votare». E stabilire «quattro o cinque cose da fare con priorità, come il riconoscimento dei diritti civili, senza il quale non si può chiudere la legislatura». Mussi ha anche ribadito che «il governo non cadrà per responsabilità della sinistra», ma la dichiarazione d’impegno è condizionata: «Non ci limiteremo a giocare il ruolo di semplici comparse, perchè 150 parlamentari non possono pesare meno di Dini e Manzione».
Sugli stessi toni il segretario di Rifondazione comunista: «Non ho nessuna vocazione a definire una data di scadenza del governo, che comunque è legata alla verifica di gennaio. Dobbiamo ripartire dal tema su cui ci siamo impantanati, la lotta alla precarietà: la sinistra rappresenta un terzo della coalizione e deve contare per quello che rappresenta».
Per questo il Paese «ha urgente bisogno di una sinistra unita e plurale, in grado di incidere sulle scelte quotidiane e di definire una prospettiva della società». Insomma, «non è questo il tempo delle nicchie e dei retropensieri, altrimenti saremo travolti da questa fase politica» ha insistito Giordano. E altrettanto chiaro è stato Mussi: «Il problema è il peso politico vero che abbiamo nella società italiana». Se la sinistra resta la somma algebrica di tante piccole percentuali «la frittata è fatta, possiamo anche riportarci a casa tutte le bandiere che vogliamo».
Via libera, dunque, ad un grande soggetto unitario. E ad una legge elettorale proporzionale, preferibilmente sul modello tedesco, «che però non sia cucita come un abito addosso al Partito democratico e al Partito delle libertà, o come diavolo si chiama quella cosa nata sul predellino».
Le tensioni interne alla Cosa Rossa sembrano per il momento accantonate, la sfida è tutta da giocare. E parte da Milano, «dove sono evidenti le più grandi contraddizioni della modernità, tra ambiente e sviluppo, tra lavoro e precarietà, tra diritti e una società che cambia continuamente» ha sottolineato la giovane coordinatrice cittadina, Chiara Cremonesi.

l’Unità 2.12.07
Occhetto. «La nuova sinistra sia libertaria, verde, femminista»


In Italia «è necessario rifondare la sinistra, dar vita ad una sinistra che non esiste più». Lo ha detto Achille Occhetto, intervenendo a Pescara ad un incontro organizzato da Sinistra Democratica. Per l’ultimo segretario del Pci «con la formazione del Pd la sinistra in Italia rischia di scomparire». Il parlamentare europeo ha sottolineato che «la sinistra deve essere plurale, unitaria; qualcosa che non è mai esistito», e «femminista, libertaria ed ambientalista».
A proposito della destra e del Pd, Occhetto ha sostenuto che «ha dato vita ad un partito che ha cercato con Berlusconi di rimettere al centro il leader di Forza italia proprio quando era criticato dai suoi alleati». «Veltroni - ha aggiunto - gli ha dato una mano a riportalo al centro della scena politica italiana. In tutto ciò mancano i temi fondamentali del Paese, dei giovani, della flessibilità, di coloro che non hanno lavoro».
Occhetto ha ribadito che è un momento difficile per la sinistra, «anche se in movimento». «L’importante - ha sottolineato - è che rinasca dalle ceneri di questa situazione grave», che sia una sinistra liberal e non una «fusione fredda» di partiti, né, tanto meno, un «cartello elettorale». Occhetto parteciperà lunedì alle 17 a Roma, presso l’Alpheus all’assemblea che vuole «creare un soggetto politico unitario». Con lui discuteranno Paul Ginsborg, Maria Gemma Azuni, Paolo Berdini, Ascanio Celestini, Cecilia D’Elia, Vezio De Lucia, Adriano Labbucci, Sandro Medici, Alessandro Portelli, don Roberto Sardelli.

l’Unità Roma 2.12.07
Sinistra, prove di unità domani all’Alpheus


La scelta del luogo è un po’ insolita per un’assise politica. Sarà l’Alpheus a tenere a battesimo l’assemblea di lancio della Cosa Rossa romana, convocata per domani pomeriggio, dalle 17 in poi.
Un appuntamento cittadino che prepara il terreno all’assemblea costituente nazionale che si terrà l’8-9 dicembre alla Nuova Fiera di Roma. Con una convocazione che prende il via da appelli sottoscritti anche da epsonenti di movimenti, sindacati, associazioni.
Parola d’ordine, scontata: «Unire la sinistra». Un’unità che, spiegano gli organizzatori (riecheggiando dibattiti che già hanno attraversato il Pd), «non può essere la somma» delle quattro forze già in campo, ovvero Prc, Sd, Verdi, Pdci, ma «deve vedere un coinvolgimento largo e aperto dei singoli e delle tante forme dell’impegno sociale culturale e civile».
Un appello tutto rivolto a quel «popolo» che va da «Genova 2001» alla «manifestazione delle donne» dello scorso 24 novembre. Ma anche a chi è responsabile del processo costituente: «La Federazione per noi - spiegano ancora gli organizzatori - rappresenta un primo passo ma non certo l’approdo».
Tra le proposte all’ordine del giorno, la possibilità di iscriversi, in forma singola o associata, direttamente alla Federazione e Forum tematici aperti a tutti indipendentemente dall’iscrizione.
All’assemblea prenderà parte anche Paul Ginsborg a nome dell’Associazione “Per una sinistra unita e plurale” di Firenze. E tra i promotori dell’appuntamento figurano Paolo Berdini, Ascanio Celestini, Raffaella Chiodo, Marcello Cini, Vezio De Lucia, Piero Di Siena, Claudio Fava, Ali Baba Faye, Sergio Giovagnoli, Patrizio Gonnella, Umberto Guidoni, Chiara Ingrao, Adriano Labbucci, Francesco Martone, Sandro Medici, Pasqualina Napoletano, Luigi Nieri, Achille Occhetto, Franco Ottaviano, Anna Pizzo, Dante Pomponi, Alessandro Portelli, Andrea Rivera, Bia Sarasini, Don Roberto Sardelli, Patrizia Sentinelli, Daniele Silvestri.

Corriere della Sera 2.12.07
L'alleanza. La Cosa rossa sarà «la Sinistra». E nel logo via falce e martello
di Francesca Basso


MILANO — «Nasce la Sinistra» scandisce Mussi, che prosegue: «Basta chiamarci la Cosa rossa. Altrimenti il Pd va chiamato la Cosa grigia». Oltre al nome c'è il simbolo, senza falce e martello: «Un segno grafico comune — spiega il segretario del Prc Giordano — per un soggetto unitario plurale, che si presenterà unito alle prossime elezioni. Comunque conserveremo anche il nostro simbolo». A Milano per gli Stati generali della Cosa rossa locale, anticipazione di quelli nazionali a Roma l'8 e il 9 dicembre, i leader della sinistra si leccano le ferite dopo lo scacco sul welfare. E puntano il dito sull'«agenda» dettata dall'incontro Veltroni-Berlusconi. «Mi pare che si stia dando la data di scadenza al governo per iniziativa del Pd e del neopartito di Berlusconi» attacca Mussi. Giordano è ancora più diretto: «La mia data è legata alla verifica di gennaio. La sinistra proporrà un percorso di priorità, prima fra tutte la lotta alla precarietà. Serve uno scatto».

il Riformista 2.12.07
Walter e Silvio: «Tutto ruota intorno a noi»
di Stefano Cappellini


«Dal 1986 con Berlusconi c’è un conflitto di culture, di programmi e di valori, e tuttavia c’è anche un rispetto reciproco». «Il Pd e la Pdl sono forze alternative e tuttavia è significativo che queste forze abbiano cominciato a dialogare». «Con Berlusconi si è registrato un dissenso sulle riforme costituzionali. E tuttavia...». Stralci dalla conferenza stampa di Walter Veltroni, al termine del vertice con Silvio Berlusconi.
È finita la stagione del «ma anche». Poteva andare bene per rassicurare Prodi. O per incontrare Fini e Casini. Veltroni ha aperto ufficialmente con Berlusconi la stagione dell’«e tuttavia»: la congiunzione che meglio raffigura «la nuova stagione», così come ieri, «Silvio» e «Walter» se la sono raccontata al quinto piano di Montecitorio, in un colloquio che il leader del Pd ha battezzato come «la fine della stagione dell’odio e della rissa». Accompagnati al tavolo rispettivamente da Dario Franceschini e Gianni Letta, i due leader hanno condiviso un punto essenziale: i nemici e gli ostacoli sono tanti, e tuttavia tutto ruota intorno a noi.
Il sistema politico di domani. Da raggiungere a tutti i costi. Con un blitz parlamentare. Con lo spariglio del referendum, su cui i due si sono raccomandati un prudente silenzio. Persino col tabù dei tabù, un governo istituzionale sull’asse Pd-Pdl per scrivere le regole del gioco in caso di improvviso default del governo Prodi. Il cerimoniale di giornata - lessico, conferenze stampa, comunicati - è stato studiato affinché il dialogo tra «Silvio» e «Walter» risuonasse alle orecchie altrui come un cinguettìo. Berlusconi ha accettato subito la condizione che Veltroni gli ha posto a quattr’occhi: «Silvio, per cominciare la discussione, io ho bisogno della certezza che tu non continuerai a porre la pregiudiziale della caduta del governo». E Walter è stato subito accontentato. «È la vera novità di giornata», dirà poi il leader del Pd. «Berlusconi ha fatto passi avanti mostruosi, rimangiandosi cose dette fino a ventiquattro ore prima», commenta lo staff veltroniano.
Nonostante la particolare insistenza di Veltroni nel sottolineare che l’incontro con Berlusconi non aveva nulla di diverso dagli altri, tutto concorreva a raccontare il contrario. Tempi, enfasi, merito. «Con Veltroni abbiamo concordato sull’obiettivo di far nascere in Italia un sistema bipolare centrato su due grandi partiti: il Partito delle libertà dalla nostra parte e il Partito democratico dall’altra», spiegava l’ex premier. Il quale al sindaco di Roma ha spiegato che il Vassallum è una buona bozza, e più si fa spagnola (circoscrizioni piccole con sbarramento alto) meglio è. Berlusconi si è detto però indisponibile a ragionare anche di riforme costituzionali, «perché occorre troppo tempo». Ma Veltroni l’ha presa bene: «Ci ha detto che nel merito è d’accordo». Guai a rovinare il clima. «Silvio» e «Walter» si sono coperti a vicenda su tutto. Il primo, concedendo di mettere via ogni pregiudiziale sul dialogo, ha potuto ribadire senza problemi in conferenza stampa che «la riforma elettorale serve solo a tornare alle urne». Il secondo ha minimizzato ogni dissenso e messo in cima all’agenda l’unico punto d’intesa: «La priorità - ha detto Veltroni - è la riforma elettorale», un’affermazione che si era ben guardato dal pronunciare dopo aver incontrato Fini e Casini, coi quali aveva invece trovato un intesa sui ritocchi alla Carta.
Ora la parola è al Parlamento. E difficilmente i due dialoganti troveranno la strada spianata. Un blitz elettorale spagnolo Pd-Pdl non ha complici. Fini si è smarcato. Casini, la vittima designata della «nuova stagione», non ci pensa nemmeno. Rifondazione ha bisogno di più garanzie. E il tempo stringe. Subito dopo l’incontro, Berlusconi ha confessato ai capigruppo di Forza Italia di essere scettico: «Siamo al 30 novembre, forse è troppo tardi». Romano Prodi, invece, si è attaccato al telefono con Veltroni. E pur di capire qualcosa sul senso della giornata, appena reduce dal vertice italo-francese si è precipitato a sorpresa alla fondazione Zeri di Bologna, dov’era in visita Francesco Rutelli. Al Prof non tornano alcuni conti. La sicurezza di Berlusconi nel parlare di «ritorno alle urne». I «12 mesi» che secondo Veltroni serviranno a chiudere le riforme e che assomigliano a una data di scadenza della legislatura. Nonché il modo in cui è stata liquidata dal leader del Pd la proposta prodiana di tornare al Mattarellum. «Non ho nessun commento da fare. Ho sentito Veltroni ed era soddisfatto per questo inizio di dialogo. Ripeto: inizio di dialogo». E tuttavia...

l’Unità 2.12.07
«Relativismo culturale». Ora Ratzinger attacca le Nazioni Unite
di Umberto De Giovannangeli


Ratzinger scaglia l’accusa ricevendo le Ong cattoliche. Al centro della polemica la questione aborto
La risposta del portavoce del Palazzo di Vetro: «Le Nazioni Unite si fondano sui diritti dell’uomo»

LA SANTA SEDE prova a smussare gli angoli e a frenare le polemiche. Ci prova, per l’appunto. Ma la sostanza resta. E la sostanza è l’attacco sferrato ieri da Benedetto XVI all’Onu e agli altri organismi internazionali. La loro colpa? Quella di essere «dominati» dalla logica del «relativismo morale». Incredulità. E un «doloroso sbigottimento» di fronte ad un’accusa ritenuta «profondamente ingiusta». Sono i sentimenti che permeano esponenti di diverse agenzie umanitarie delle Nazioni Unite che - con la garanzia dell’anonimato - confidano a l’Unità il loro disappunto. «Dal Papa ci saremmo attesi un riconoscimento del nostro impegno profuso, spesso in solitudine, nelle aree più calde al mondo, e sempre a fianco dei più deboli», ci dice un’operatrice dell’Unicef. «Relativismo morale? Rifiuto di difendere la dignità dell’uomo? Con tutto il rispetto, ma Benedetto XVI è stato informato dell’impegno delle agenzie Onu in Africa, in Medio Oriente, nei Balcani, in Eritrea, e potrei continuare a lungo...», osserva un giovane dirigente di un’altra agenzie delle Nazioni Unite da poco rientrato da una missione nel martoriato Darfur. «Il Papa non è solo un’autorità morale, ma è anche una figura di primo piano nella scena internazionale. Avrebbe fatto meglio a sostenere la richiesta,che accomuna a tutte le agenzie Onu: quella di maggiori finanziamenti per le attività di difesa di intere popolazioni sofferenti». Così non è stato, purtroppo», gli fa eco un operatore dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi.
Benedetto XVI si scaglia contro la logica del «relativismo morale che segna spesso il dibattito nell’Onu e negli altri organismi internazionali». Si nega cittadinanza - denuncia - alla verità sull’uomo nonchè alla possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale». Le regole internazionali - si lamenta Papa Ratzinger - si basano solo su una ragione politica e non etica, e ciò porta ad «amari frutti», come quello di considerare i diritti umani sulla base di stili di vita egoistici. Per questo, sprona, occorre battersi affinchè i principi etici non siano «negoziabili», nè al Palazzo di Vetro di New York, nè altrove. Ad ascoltarlo, nella Sala Clementina, un centinaio di rappresentanti delle Ong di ispirazione cattolica convocati dal segretario di Stato Vaticano, il card.Tarcisio Bertone, per un summit di tre giorni. «Occorre uno spirito di solidarietà che conduca a promuovere uniti quei principi etici non negoziabili per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale»,spiega Benedetto XVI. Pur lodando i progressi fatti in materia di diritti umani dalla comunità mondiale, Papa Ratzinger ha osservato che «spesso il dibattito internazionale appare segnato da una logica relativistica che pare ritenere, come unica garanzia di una convivenza pacifica tra i popoli, il negare cittadinanza alla verità sull’uomo e sulla sua dignità nonchè alla possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale». «Viene così di fatto ad imporsi una concezione del diritto e della politica, il cui consenso tra gli Stati, ottenuto talvolta in funzione di interessi di corto respiro o manipolato da pressioni ideologiche, risulterebbe essere la sola ed ultima fonte delle norme internazionali», ha aggiunto. «I frutti amari di tale logica relativistica nella vita internazionale - ha detto - sono purtroppo evidenti: si pensi ad esempio al tentativo di considerare come diritti dell’uomo le conseguenze di certi stili egoistici di vita; oppure al disinteresse per le necessità economiche e sociali dei popoli più deboli, o al disprezzo per il diritto umanitario, e ad una difesa selettiva dei diritti umani». Così il j’accuse del Papa. Che Padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa vaticana cerca di ridimensionare, definendo «forzate» le interpretazioni giornalistiche.
In serata, giunge la risposta da New York. Le Nazioni Unite nascono «da un accordo tra Stati» e «si fondano sui diritti dell’uomo»: per l‘Onu «una delle pietre miliari della sua storia è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», puntualizza il portavoce del Palazzo di Vetro, Farhan Haq. «Le Nazioni Unite nascono da un accordo tra Stati - ribadisce Haq - ma «ascoltano anche i popoli, le Ong, gli attivisti per i diritti umani e i singoli parlamentari». «Dobbiamo fare di più - ammette il portavoce - ma l’Onu cerca sempre di includere il maggior numero possibile di interlocutori». Secondo Haq, il documento firmato a Parigi quasi sessant’anni fa, il 10 dicembre 1948, ha «innestato nel dna» dell’Onu quegli stessi principi etici di cui parla il Papa, e che secondo Benedetto XVI «non sono negoziabili».

l’Unità 2.12.07
Benedetto XVI dimentica l’operato Onu nei Paesi martoriati da guerra e povertà
La brutta politica di sua Santità
di Umberto De Giovannangeli


È «relativismo morale» impegnarsi per salvare la vita di migliaia di donne e bambini segnati dal virus dell’Aids nella martoriata Africa? È «negare la possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale», impegnarsi perché le Nazioni Unite approvino finalmente una risoluzione per la moratoria universale della pena di morte? Tra i «frutti amari della logica relativistica» vanno annoverati anche gli sforzi per la ricostruzione, non solo materiale, di Paesi disastrati da guerre e pulizie etniche?
Tanto per ricordare una tragedia dimenticata, basterà citare il caso del Ruanda. Ed ancora: lavorare per alleviare le sofferenze della popolazione palestinese nella Striscia di Gaza, praticare una solidarietà concreta per la gente del Kosovo, tutto ciò rientra nel «disprezzo del diritto umanitario» e nella discriminatoria «difesa selettiva dei diritti umani»? C’è molta politica, e poca pietas, nelle considerazioni che Papa Benedetto XVI ha espresso ieri incontrando in Vaticano le Ong cattoliche più importanti e influenti del mondo. C’è molta politica e, spiace rilevarlo, di quella partigiana e dunque, annoverabile nella «brutta politica». Brutta perché faziosa. Brutta perché ingenerosa. Brutta perché la battaglia della Chiesa cattolica contro l’aborto non dovrebbe spingersi fino al punto di tirare in ballo l’operato dell’Onu, genericamente inteso, e di non meglio precisati organismi internazionali. Le Nazioni Unite non sono solo il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea generale. Le Nazioni Unite sono anche le tante agenzie umanitarie impegnate ogni giorno nelle aree più «calde» e disastrate del pianeta. Benedetto XVI avrebbe fatto bene a ricordarlo: la sua non è stata una dimenticanza di poco conto. Se non suona blasfemo, diremmo che il pontefice stavolta ha peccato di «ingenerosità».
Papa Ratzinger sprona a battersi affinché i principi etici non siano «negoziabili», né a Palazzo di Vetro di New York né altrove. Bene. Giusto. Ma coerenza avrebbe voluto che tra i principi etici non «negoziabili» vi fosse anche il «no» allo Stato che si fa giustiziere attraverso la pratica della pena di morte. Nella Terza commissione delle Nazioni Unite che nelle scorse settimane ha approvato la risoluzione per la moratoria della pena capitale, la Santa Sede (che all’Onu ha il rango di osservatore) ha guardato con favore ad un capzioso tentativo del fronte anti-moratoria di inserire la questione del diritto dell’embrione all’interno di una discussione che riguardava il «no» ai boia di Stato. Le ragioni dell’etica dovrebbero spingere a chiedere più risorse per le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite; le ragioni di una «bella politica» imporrebbero il sostegno a quanti, in nome di una visione multilaterale del governo dei conflitti, chiedono una maggiore centralità, e dunque più strumenti e poteri, per l’Onu.
Ha ragione, Papa Ratzinger, a denunciare il «disprezzo per il diritto umanitario» che segna fortemente i nostri tempi. Ma quel disprezzo - ricorderebbero gli operatori Onu che ogni giorno interagiscono con una umanità sofferente - - ha poco a che vedere con «certi stili egoistici di vita» e molto con quelle logiche di potenza, che hanno, ad esempio, segnato negativamente le presidenze del religiosissimo George W.Bush, e fatto prevalere gli interessi del più forte su quelle dei più deboli. Di queste logiche deteriori, l’Onu è stato più vittima che propugnatore.

l’Unità 2.12.07
Benedetto XVI contro il «nichilismo» dei tempi moderni
Nell’omelia per l’inizio dell’Avvento spiega la sua enciclica. Ribadisce: senza la speranza in Dio vi è il nulla
di Roberto Monteforte


LA SPERANZA cristiana per rispondere al nichilismo dei tempi moderni, per reagire al neo paganesimo. È questo il senso dell’enciclica «Spe salvi» (Nella speranza siamo salvati), la seconda di Benedetto XVI presentata ufficialmente venerdì scorso. Lo ha spiegato direttamente papa Ratzinger nell’omelia tenuta ieri pomeriggio nella Basilica di san Pietro in Vaticano in occasione della celebrazione dei vespri per la prima domenica d’Avvento. Non è stata certo casuale la scelta del 30 novembre per la presentazione dell’Enciclica. Oggi, infatti, inizia per la Chiesa cattolica un tempo classico di speranza in preparazione della festività natalizia. «Una speranza che non è priva di fondamento». È questa la verità di fede cui dedica tutta la sua omelia papa Benedetto XVI. Celebrazione solenne, in latino, ieri nella Basilica vaticana. Canti in gregoriano. Ma sono in italiano le parole che pronuncia il Papa «teologo». Vuole spiegare lui stesso cosa sia la «speranza cristiana» e quale sia il senso della sua seconda Enciclica. E di una spiegazione c’è bisogno. Se smarrimento e incertezza percorrono l’uomo contemporaneo, questa inquietudine per il presente e per il futuro è vissuta in profondità anche da tanti credenti. Così Benedetto XVI, messi da parte i riferimenti polemici e le critiche alle speranze umane fallite pur presenti nella sua «Spe salvi», invita a riflettere, a ritrovare le ragioni profonde della fede. E a offrirle all’uomo contemporaneo.
Parla di «speranza non vaga o illusoria, ma certa e affidabile» perché «ancorata in Cristo, Dio fatto uomo, roccia della nostra salvezza». La richiama come la «novità», la rottura con la storia precedente, con il tempo del paganesimo. È questo un messaggio attualissimo per papa Ratzinger che vi vede forti analogie con la condizione dell’uomo contemporaneo, segnata da un nichilismo che «corrode la speranza» e che lo porta a pensare che «dentro di lui e intorno a lui regni il nulla: nulla prima della nascita, nulla dopo la morte». A questo senso del nulla invita a reagire. Ripropone la sua certezza: «Se manca Dio, viene meno la speranza». Ogni cosa apparirebbe come «appiattita», privata di ogni valore simbolico rispetto «alla mera materialità».
Così va dritto al nodo, a quella verità di fede fondamentale per il cristiano rappresentata dal rapporto tra «l’esistenza qui ed ora, e l’adilà». Una dimensione difficile da comprendere per l’uomo contemporaneo a cui il Papa teologo offre una spiegazione: «Non è un luogo dove finiremo dopo la morte», ma «la realtà di Dio», cioè «la pienezza della vita a cui ogni essere umano è proteso».
Un Dio che -aggiunge - offre se stesso e che sa attendere i tempi dell’uomo, che ne rispetta la libertà. Anche quando è un rifiuto. È il no di chi - osserva il pontefice - non lo ha veramente conosciuto. È questo il compito della Chiesa: far conoscere il vero volto di Dio, la sua accoglienza, la speranza cristiana.
«Ogni uomo è chiamato a sperare corrispondendo all’attesa che Dio ha su di lui» afferma il pontefice. Lo richiama come un dato di esperienza presente nella vita di tutti. «Che cosa manda avanti il mondo, se non la fiducia che Dio ha nell’uomo?». Una fiducia - spiega utilizzando immagini del vivere quotidiano - che «ha il suo riflesso nei cuori dei piccoli, degli umili, quando attraverso le difficoltà e le fatiche si impegnano ogni giorno a fare del loro meglio, a compiere quel poco di bene che però agli occhi di Dio è tanto: in famiglia, nel posto di lavoro, a scuola, nei diversi ambiti della società». Dove cercare allora segni di questa speranza? «Ogni bambino che nasce - conclude papa Ratzinger - è segno della fiducia di Dio nell’uomo ed è conferma, almeno implicita, della speranza che l’uomo nutre in un futuro aperto sull’eterno di Dio». Un ragionamento di fede. Arriverà all’uomo contemporaneo e riuscirà a riempire la sua solitudine?

l’Unità 2.12.07
«Italia, una teocrazia a democrazia limitata»
di Anna Tito


ALAIN TOURAINE ha dedicato i suoi ultimi studi alla laicità in epoca di multiculturalismo e di integralismi religiosi. L’abbiamo incontrato: ecco, agli occhi del grande sociologo, qual è il gap che il Vaticano impone al nostro Paese

Di laicità dello Stato, ingerenze della Chiesa, derive integralistiche discute con noi Alain Touraine. A ottantadue anni il grande sociologo continua a esplorare strade nuove. I suoi libri, asciutti ed essenziali, sono ogni volta una provocazione, e l’ultima sua fatica, Un dibattito sulla laicità (XL edizioni, pp. 188, 14 euro), risultato del dialogo con il filosofo Alain Renaut sulla laicità in Francia, inquadra da prospettive diverse la questione scottante della società multiculturale e della tolleranza. Il dibattito prende le mosse dall’approvazione, nel marzo 2004, della legge che vieta di «ostentare i simboli religiosi a scuola», un provvedimento che si riferisce a tutti simboli, ma che concerne in particolare il velo indossato da ragazze di fede musulmana.
Se Touraine insiste sulla necessità di difendere le acquisizioni moderne della laicità, per Renaut essa rischia di essere superata dalla trasformazione della società contemporanea: non si vede infatti in quali termini l’applicazione del principio della separazione dello Stato dalle organizzazioni religiose stabilito nel 1905 possa contribuire al giorno d’oggi a far fronte alla questione delle differenze culturali, di cui lamenta, in Francia, la mancanza di riconoscimento; e considera la legge sul velo come un passo indietro, mentre per Touraine essa rappresenta un freno al dilagare di un fenomeno realmente pericoloso.
Secondo Renaut, la difesa della laicità, come principio assoluto, appare storicamente immotivata: la separazione tra Stato e Chiesa è oggi ormai da tutti accettata, e il filosofo suggerisce quindi di «riconsiderare il principio di laicità affinché le differenze non siano più solamente neutralizzate ma integrate». Touraine puntualizza a sua volta come i diritti vadano considerati individuali, più che di gruppo: ne consegue l’impossibilità di accettare quelle istanze che trasformano un diritto - nella fattispecie quello di indossare il velo - in una contrapposizione che può implicare derive integralistiche. In questo senso Touraine difende la legge in quanto provvedimento concreto e nient’altro, per arrestare, finché si è in tempo, «l’insorgere dell’islamismo radicale nelle scuole».
I due intellettuali condividono però l’allarme di una deriva «integralistica», poiché al di là della necessità di contenere il fondamentalismo, l’annullamento delle diversità, in nome dell’universalità dello Stato repubblicano, comporterebbe il declino della civiltà. E il dialogo, sebbene nato dall’esperienza francese, appare costruttivo anche per gli altri Paesi, specie in un momento in cui alla questione dell’incontro fra le culture, che andrebbe affrontata con una certa dose di lungimiranza, si antepongono interessi politici «immediati».
Se in Francia laicità equivale a morale repubblicana, in Italia essa significa soltanto accettazione delle religioni da parte dello Stato, «garante della neutralità e della tolleranza», e a Touraine appare «inaccettabile che i vertici dell’episcopato italiano, intervengano nella televisione pubblica, come se quella italiana fosse una società di tipo teocratico». Del fatto che «non sarebbe possibile approvare in Italia una legge sulla laicità simile a quella francese» è convinto il sociologo «poiché esiste una 'specificità italiana', condizionata dalla Chiesa. Ma il ruolo del Vaticano va ricercato in quella che definirei la parziale sconfitta dell’unità nazionale, con scarsa capacità d’integrazione, come si riscontra tuttora nella lingua e nel regionalismo».
Non stupisce Touraine, pertanto, il fatto che in Italia l’episcopato eserciti una pressione notevole per il finanziamento delle scuole cattoliche, e che la sinistra attualmente al governo accetti di scendere a patti con il Vaticano: «è una lunga storia, dovuta sia all’Unità d'Italia nel 1870, come ho già detto, sia al Concordato del 1929». Sul fatto che la Chiesa continui a influenzare la politica, la società, la cultura di base degli individui, egli non ha dubbio alcuno: un paio d’anni orsono, proprio mentre in Francia «ci ponevamo il problema del velo, il Vaticano denunciava l’Imam abruzzese che aveva chiesto di rimuovere il crocefisso dalle aule scolastiche».
Invece, nella scuola francese la libertà di pensiero è forse non «’sacra’, ma di certo molto difesa e voluta», e la Francia può pertanto dirsi un Paese del tutto laico e - tiene ad aggiungere lo studioso, riferendosi a pagine fra le più buie della storia nazionale - «la Chiesa cattolica interviene molto poco nella vita politica, specie dopo avere appoggiato il governo di Vichy e del maresciallo Pétain, con la Chiesa e i cardinali che benedicevano il maresciallo», ha in seguito «solo per buonsenso evitato di parlare troppo ad alta voce». Lo storico cattolico di recente scomparso René Rémond «mio amico - ricorda - è stato a lungo il principale portavoce dell’insegnamento cattolico nelle università, ma non riteneva che lo spirito laico fosse in conflitto con quello cattolico». E d’altronde, nello Stato francese, «il diritto di insegnare e l’oggettività da parte dei docenti cattolici nelle scuole pubbliche nelle università» era scontato.
Il tutto, ancora una volta, è molto diverso da quanto avviene in Italia. La Chiesa, nel caso dei Dico, ad esempio, «si attribuisce dei poteri che non sarebbero mai permessi altrove»: da questo punto di vista, «la Francia è un Paese pacificato, dopo essere stato realmente in guerra fra la laicità e il clericalismo, mentre anche in questo in Italia la società e la cultura appaiono fortemente condizionate dalla Chiesa cattolica».
Nonostante tutto, in conclusione, Touraine si mostra ottimista: «l’Italia si libererà di questo condizionamento del tutto artificiale, che non dà un’immagine positiva della Chiesa cattolica; quest’ultima dovrebbe essere più presente in Asia, in Africa o altrove, piuttosto che conservare il controllo delle anime e della politica in piccoli Paesi europei che, quali i nostri, contano ormai ben poco per il progresso del mondo».

l’Unità 2.12.07
Il documento pontificio «Spe salvi» e il suo attacco alla scienza
Etica contro ragione: la sfida sbagliata di Papa Ratzinger
di Pietro Greco


«La scienza non redime l’uomo. La scienza (…) può anche distruggere l’uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa». Non c’è nella nuova enciclica Spe salvi, resa pubblica ieri l’altro, una frase che più di questa esprime tutta l’aura di pessimismo con cui Papa Ratzinger guarda all’uomo contemporaneo. È una frase che difficilmente uno scienziato laico (o un laico tout court) può accettare. Non perché non ne condivide la premessa: nessun uomo (e quindi nessuno scienziato) autenticamente laico - che non serve, quindi, neppure la «religione della scienza» - pensa che la scienza da sola possa redimere l’uomo.
Anzi tutti riconoscono che la scienza possa essere usata per distruggere l’uomo e il mondo. L’affermazione è ormai vera in senso tecnico: sessant’anni fa le nuove conoscenze scientifiche sulla fissione del nucleo di uranio e la loro immediata applicazione tecnologica, con la costruzione delle armi atomiche, hanno consegnato all’umanità, per la prima volta nella sua storia, la possibilità concreta di distruggere se stessa e una parte non marginale della biosfera.
No, la parte della frase che un laico difficilmente può accettare è quella finale: «se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa». Perché con questo richiamo alla necessità dell’eteronomia della scienza, Joseph Ratzinger propone sia una visione dell’uomo in cui ragione ed etica sono irrimediabilmente separate; sia una visione in cui sono cristallizzate in una rigida gerarchia: prima viene l’etica - che è fuori dalla ragione - poi la ragione.
Dopo Charles Darwin non solo gli scienziati laici, ma tutti i laici non possono sottrarsi a una visione naturalistica dell’uomo. Certo la scienza ci propone un naturalismo critico, non rozzamente riduzionista. Ma certamente evoluzionista, che colloca la nostra specie dentro la natura. Con tutte e ciascuna le sue capacità, sia quelle che gli consentono di elaborare i ragionamenti più astratti sia quelle che gli consentono di elaborare giudizi etici. L’una e l’altra - la ragione e le capacità di elaborare giudizi etici - sono il frutto, storico, dell’evoluzione della materia biologica. L’una e l’altra sono emerse nella nostra specie come capacità adattative.
Certo, i comportamenti che nelle diverse culture vengono giudicati buoni - e anche quelle costellazioni di buoni comportamenti che possiamo chiamare sistemi morali - non sono né gli stessi, né equivalenti, né frutto della selezione naturale. Sono, come rimarca Giovanni Boniolo (Il limite e il ribelle, Cortina, 2003) il frutto della cultura dell’uomo. Ma la capacità di esprimere giudizi morali e quindi di costruire sistemi morali - come sostiene Marc Hauser (Menti morali, Il Saggiatore, 2007) - questa è certamente un frutto dell’evoluzione. Appartiene alla natura.
E non è né separata né in conflitto con la ragione. Anzi, come ci spiega tra gli altri Antonio Damasio (L'errore di Cartesio. Emozioni, ragione e cervello umano, Adelphi, 1995) ragione e capacità di elaborare giudizi morali sono caratteri co-evolutivi. Sono emersi insieme nella storia evolutiva della nostra specie. Non è quindi possibile separare la ragione dall’etica. Né è, dunque, possibile proporre una gerarchia di valori. L’etica non viene prima della ragione. E, naturalmente, è vero anche il contrario: la ragione non viene prima dell’etica. Semplicemente ragione e capacità di esprimere giudizi morali co-esistono e co-evolvono.
Non sta a noi, ovviamente, giudicare se questa visione naturalistica dell’uomo sia o meno in contrasto con la religione e, in particolare, con l’insegnamento della Chiesa cattolica. Tuttavia è certo che essa non consegna per necessità a forze che sono fuori dalla ragione - e da quella sua particolare dimensione che è la scienza - il monopolio dell’indirizzo etico. Ancora una volta la capacità, etica, di orientare la ragione e la scienza al fine di migliorare e non peggiorare la condizione umana appartiene all’uomo e non è, necessariamente, fuori dall’uomo. Non era forse proprio quel Francis Bacon cui Joseph Ratzinger nella sua enciclica attribuisce l’idea di scienza come redenzione dell’uomo a sostenere che la «nuova scienza» non doveva (non doveva, anche se avrebbe potuto) essere a beneficio di questo o di quello, ma doveva (anche se avrebbe potuto fare il contrario) essere a vantaggio dell’intera umanità? Non c’era in questo valore universalistico cui aderisce la comunità scientifica già dal Seicento un’intenzione etica che è perlomeno ingeneroso dimenticare? E che oggi possiamo re-interpretare in chiave ecologica, sostenendo che la scienza deve essere a beneficio non di questo o di quello, ma dell’intera biosfera?
Nel naturalismo critico - nel collocare l'uomo per intero, con la sua ragione e con la sua capacità di elaborare giudizi morali, nella natura - non c'è - come temeva
Samuel Wilberforce, l'arcivescovo di Oxford - la base della dissoluzione dei fondamenti etici della società. E non c'è neppure, come sembra temere Joseph Ratzinger, la base di un relativismo etico che uniforma ogni comportamento. Ma al contrario, c'è la base per costruire quell'"etica laica" o, per dirla con Orlando Franceschelli ("La natura dopo Darwin", Donzelli, 2007), quella "saggezza solidale" che costituisce sia un atto di ottimismo e di fiducia nell'umanità sia la premessa per un dialogo senza conflitto tra credenti e non credenti.

Repubblica 2.12.07
Il papa che rifiuta il mondo moderno
di Eugenio Scalfari


L´annuncio che la seconda enciclica del Papa, dopo quella sull´amore e sulla "caritas", sarebbe stata dedicata alla speranza aveva suscitato in me una viva aspettazione. Il cammino di Benedetto XVI verso la pienezza del suo magistero era stato fin qui piuttosto incerto, la sua decantata teologia soggetta a mutamenti a volte repentini, la sua vocazione pastorale crescente anche se non paragonabile a quella, tanto più drammaturgica e spettacolare, del suo predecessore.
Nei mesi più recenti era emersa una tonalità critica nei confronti della grande revisione conciliare e in un certo senso modernista del Vaticano II, dove dottori e pastori della Chiesa in vesti episcopali avevano aperto alla modernità, all´ecumenismo e perfino ai laici non credenti mettendosi in ascolto per trasmettere il messaggio evangelico e per conciliarlo con le risposte del pensiero laico, della morale laica e della razionalità.
Il Papa sembrava revocare in dubbio il messaggio conciliare e scavalcare a ritroso almeno due dei pontificati precedenti, quello di papa Roncalli e quello di papa Montini, tornando piuttosto alla Chiesa pacelliana e anche più indietro.
Sensazioni tuttavia, ancora incerte. Mitigate – debbo dirlo – dall´apprezzamento sincero dell´opera di Pietro Scoppola, manifestato da Ratzinger in persona in occasione della sua morte con parole inusitate di lode verso un cattolico la cui posizione nei confronti del mondo moderno era di tutt´altro segno di quella ormai prevalente nella Chiesa di Roma.
Perciò attendevo con interesse la seconda enciclica sperando che da essa si potessero trarre maggiori lumi sul pensiero di papa Ratzinger. Così infatti è stato. Anticipo qui il mio giudizio sul documento papale: Benedetto XVI ha voltato le spalle al Concilio Vaticano II.
Lo deduco da una lettura attenta del testo che del resto è estremamente chiaro.
Per certi cattolici il pensiero di un laico non credente può forse non avere rilievo alcuno o può esser tacciato di indebita interferenza. Respingo questa seconda obiezione: i non credenti sono stati da sempre "terra di missione" per la Chiesa; sarebbe dunque molto strano che gli si voglia chiuder la bocca quando essi parlano a chi vuol parlare con loro.
Quanto alla prima obiezione, quella dell´irrilevanza, essa ha un carattere soggettivo e non può esser presa in considerazione se non si munisca di argomenti forti ed espliciti in aperto contraddittorio. Anche i non credenti infatti hanno uno spazio pubblico, almeno altrettanto legittimo di quello reclamato e utilizzato amplissimamente dalla gerarchia ecclesiastica. Spazio pubblico significa discussione pubblica, rinvio di argomenti dagli uni agli altri, confronto paritario. Perciò facciamolo questo confronto. La "Spe Salvi" ce ne fornisce una buona occasione.
* * *
Prima osservazione. L´enciclica porta un sottotitolo che indica i destinatari del documento: «Ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi e a tutti i fedeli laici sulla speranza cristiana».
E´ strano che un´enciclica elenchi fin dal titolo i suoi destinatari. Tra di essi non sono indicati i seguaci delle altre confessioni cristiane, per non parlare dei fedeli di altre religioni. Solo vescovi, sacerdoti, fedeli cattolici.
Eppure si parla della speranza. Quella parola dovrebbe comunicare la massima apertura verso tutti i punti cardinali dell´orizzonte spirituale. Il vertice della cattolicità si chiude invece in difesa? Parla soltanto a chi è già arruolato e a chi è già convinto? Dov´è lo spirito missionario? Seconda osservazione. Le argomentazioni del documento pontificio sono certamente interessanti e comprensibili dalla cultura europea, ma abbastanza estranee ai cattolici di continenti e culture più lontane, all´Africa, all´Asia, all´America Latina. Che Ratzinger fosse un Papa europeo lo si era capito subito. La "Spe Salvi" ce ne dà conferma.
Ecco un´altra prova del suo voltar le spalle al messaggio ecumenico del Vaticano II.
* * *
Mi spiace dirlo di un Papa celebrato soprattutto per la sua finezza teologica ma la sua teologia, almeno per quanto riguarda il rapporto tra speranza-fede-certezza è in realtà una tautologia. Arbitraria e quindi non utilizzabile come prova di quanto l´autore vuole provare.
La speranza, dice papa Benedetto, contiene già la fede, la sostanza della fede è la certezza di ciò che la verità rivelata ci insegna. Perciò la speranza è già salvezza.
Questo passaggio costituisce il nucleo teologico della "Spe Salvi". Del resto è lo stesso titolo dell´enciclica ad annunciarlo: sarete salvi a causa della speranza, sarete salvi perché sperate. Cento pagine conta l´enciclica, l´identificazione speranza - fede - verità rivelata - certezza - salvezza ne occupa più o meno la metà. Qui sta forse la sapienza teologica di papa Benedetto che ne dedica una cinquantina ad illustrare con citazioni argomentate, chiamando in causa di volta in volta Paolo e Agostino, Ambrogio e Bernardo di Chiaravalle, Massimo il Confessore, e l´edificante esperienza della schiava Bakhita, per suffragare le due parole del titolo: "Spe Salvi", sperate e sarà vostro il regno dei cieli.
Si coglie, in questo modo di ragionare più induttivo che deduttivo, un riflesso dell´ontologia di Anselmo da Aosta. Era gran tempo che il ragionamento ontologico non aveva più molto spazio nella dottrina ecclesiale; la scolastica l´aveva spodestato. E in effetti l´ontologia contiene un rischio per l´architettura dottrinaria della Chiesa; l´ontologia si elabora nell´interno d´un pensiero che riflette su se stesso.
La Chiesa è molto cauta a muoversi su un terreno così rischioso.
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La Chiesa, la sua dottrina elaborata a dir poco dall´800 dopo Cristo, non ha in molta simpatia la privatezza individuale. Leggete ciò che dice questa enciclica quando parla della preghiera, concepita come mezzo di ascesa verso Dio.
Dice che la preghiera è uno strumento prezioso, che pregare Dio, Gesù Cristo, la Madonna, i Santi, i propri estinti, è un modo per elevare l´anima, crescere in amore e in dedizione di sé. Ciascuno, naturalmente, è libero di pregare a proprio modo, ma questa libertà ha un limite: la preghiera privata rischia di diventare sterile estaticità.
Bisogna dunque passare alla preghiera liturgica da praticare anche solitariamente ma meglio assai coralmente, nella propria comunità, nella propria chiesa, guidata dai propri sacerdoti.
Il richiamo comunitario si affaccia più volte nelle pagine del documento papale. E vi irrompe in modo decisivo quando si parla della salvezza e della vita eterna.
Pensare alla salvezza della singola anima, di quella specifica anima individuale, è un modo imperfetto e improprio di configurare la vita eterna.
Contiene in sé tracce di egoismo. La salvezza passa per l´amore verso gli altri e soprattutto verso Dio. Quindi non può riguardare solo se stessi, il mio io si salverà perché io spero che tutti si salvino. La salvezza quindi è un fatto comunitario guidato dalla sposa di Cristo, cioè dalla Chiesa. La salvezza privata non è un pensiero buono. Perché può prescindere dal Magistero?
* * *
Pagine importanti riguardano il Giudizio finale.
E´ chiaro che quello è un appuntamento essenziale nella dottrina e tanto più se la speranza è il principio di tutto. La speranza è sinonimo di buona vita ed anche di buona morte. Sinonimo di fede e di certezza. Di resurrezione dei corpi. Quindi di conservazione dell´individualità e della memoria di sé. Non ci si reincarna nel corpo d´un altro ma nel proprio.
Dice Agostino in una memorabile pagina delle sue "Confessioni" (ma questa citazione non l´ho trovata nella "Spe Salvi"): «Tenterò di raggiungerti dove puoi esser raggiunto e di aderirti dove aderirti è possibile, o mio Dio, mia dolce sicurezza e mio bene. Rinuncerò anche alla mia memoria, alla memoria di me, pur di avere la beatitudine di poter salire al tuo cospetto. Ma se rinuncio alla mia memoria, come potrò avere memoria di te?».
Questa è la contraddizione essenziale tra la condizione umana e la gioia della beatitudine che fonde l´anima giunta al cospetto del creatore. Ma per arrivare a quel momento supremo c´è ancora il momento del Giudizio finale. Tutti saremo salvati, come l´anima amorosa di tutti ardentemente spera? Ma allora dov´è la giustizia?
La Giustizia, dice papa Benedetto, è un canone irrinunciabile. Dio non può rinunciare alla Giustizia visto che essa è uno dei suoi principali attributi.
Dio giudicherà in base alla speranza che ha aperto l´anima alla fede. Chi non ha sperato con ardore si sarà autoescluso. Ma Dio è anche misericordia e amore per le sue creature, sicché ammette una sorta di prova d´appello ed è la sua grazia a renderla possibile. Questo percorso è suggestivo. E´ il racconto di «cose che non si vedono».
Proprio perché non si vedono è la speranza che accadranno a darcene certezza e sostanza. Si chiama religione, sentimento religioso. E certo lo è, l´aura è quella.
Ma attenti ad un racconto così dettagliato perché dalla religiosità si rischia di travalicare facilmente nell´ideologia e da questa alla favola per bambini e al "c´era una volta", nella quale è sempre la voce della mamma a legger quel favoloso racconto che ci promette la vita oltremondana, conservando memoria di noi almeno fino a quando «l´anima esploderà nella gioia suprema» dinanzi al Dio onnipotente, causa e fine di tutto.
* * *
Dovrei forse dire una parola sull´ennesima condanna (stavolta senza appello) che nell´Enciclica il Papa lancia contro l´Illuminismo, il relativismo, il marxismo? Contro la scienza se priva di fede? Contro il moralismo che si affida all´autonomia della coscienza individuale? Insomma contro la modernità, considerata in blocco come un abisso dal quale ritrarsi finché si è in tempo? Non credo che su questi temi valga la pena di ribattere. L´abbiamo già fatto più volte e ripetersi in questo caso non giova.
Osservo, perché risulta evidente dal testo, che gli accenti critici dedicati a Marx e al marxismo sono molto più cauti e starei per dire più riguardosi nelle parole di papa Benedetto di quelli riservati all´Illuminismo.
Dopo tutto Marx creò una sorta di chiesa economicistica, si affidò allo spirito collettivo del proletariato sofferente, anche il suo pensiero ebbe i suoi presbiteri che annunciarono un loro paradiso. Penso che quel riguardo papale nei suoi confronti sia dovuto ad una chiesa e ad un paradiso terreno, in nome del quale si consumarono indicibili orrori. Sorretti però da una fede.
Gli illuministi non avevano fede. Alcuni di loro – Voltaire per esempio – erano teisti. Direi per necessità: non si spiegavano l´esistenza del creato e per non farla troppo lunga con discussioni e ricerche che non portavano da nessuna parte, si rassegnarono all´idea che ci fosse stato un architetto dell´universo e che, una volta creatolo, l´abbia lasciato funzionare da solo con tutti gli errori connessi e si sia ritirato dalla scena.
L´impegno degli illuministi fu un altro: cercarono di far trionfare la ragione, la tolleranza, la cultura. E di sconfiggere l´ignoranza, i privilegi, i pregiudizi, la tirannia. Si trovarono di fronte l´Ancien Régime e la Chiesa. Il trono e l´altare. Insomma il potere nelle sue espressioni meno accettabili.
Questa situazione era durata a dir poco un millennio. Il temporalismo della Chiesa era durato anche di più. La tentazione verso forme temporalistiche sia pure di tipo moderno è perennemente risorgente e va energicamente respinta.
A Benedetto XVI il relativismo non piace ed è comprensibile in chi amministra la verità assoluta (la sua). Non c´è niente da dire su questo punto. Certo, anche la Chiesa cambia spesso di opinione su fatti peccati e peccatori. E´ umano. A rileggere la sua storia ci si accorge che è anch´essa immersa nel relativismo. Anche questo è umano.
Perciò "Unicuique suum".

Repubblica 2.12.07
Unioni civili, il rebus di Veltroni i radicali: è ostaggio del Vaticano
Fiaccolata per il registro. Il Comune: serve una legge
di Giovanna Vitale


ROMA - Guai in casa per il leader del Pd. Avviato il dialogo sulle riforme in Parlamento, Walter Veltroni rischia di raccogliere i cocci della sua maggioranza in Campidoglio. Pomo della discordia: l´istituzione del registro delle unioni civili nella capitale. Proposta affidata a due diverse delibere - una di iniziativa consiliare, l´altra popolare - già incardinate nell´ordine dei lavori dell´aula Giulio Cesare.
A denunciare il pericolo affossamento sono stati, ieri, i Radicali. Allarmati per l´incontro di mercoledì in Vaticano fra il sindaco di Roma e il segretario di Stato Tarcisio Bertone. E a poco vale la precisazione giunta subito dal gabinetto del sindaco: «La visita era fissata da mesi, le coppie di fatto non c´entrano». Per Marco Pannella «Veltroni è un trasformista», perciò «il 4 dicembre faremo una fiaccolata in Campidoglio: per dar voce a tutti quei cittadini che non accettano di farsi dettare l´agenda da Oltretevere».
Chiaro l´obbiettivo: accendere i riflettori sul consiglio comunale chiamato a esprimersi sul registro delle unioni civili. Sul quale, però, l´Unione traballa: con la sinistra radicale a chiedere la confluenza delle due delibere in un provvedimento più soft, «concordato in tre riunioni di maggioranza con la vicesindaco Maria Pia Garavaglia, delegata da Veltroni a trovare una sintesi», spiega la capogruppo del Prc Adriana Spera; l´Udeur, insieme all´opposizione, fermamente contraria. Nel mezzo il Pd, che «sta lavorando per arrivare a una soluzione condivisa da tutti», dice il capogruppo Pino Battaglia, tentando di sopire le frizioni interne al partito. Evidenti nelle parole del suo vice, Amedeo Piva, ex Dl di area Letta: «Se la sinistra si impunta andrà a sbattere contro un muro invalicabile; si tratta di una delibera inutile e inopportuna». Parole stigmatizzate non solo dal segretario di Rifondazione Massimiliano Smeriglio («Sembra Pio IX alla vigila della breccia di Porta Pia»), ma anche dai due consiglieri del Pd Paolo Masini e Giulio Pelonzi: «La posizione di Piva è rispettabile ma del tutto personale, in questo momento c´è bisogno di dialogo, non di inasprire i toni».
Dialogo che domani Veltroni cercherà in una riunione della maggioranza. Per ribadire, trapela dal Campidoglio, l´importanza di un tema che però spetta al Parlamento disciplinare, non ai Comuni. Tanto più nella capitale dove, sin dal ‘90, è in vigore il Dpr 223/89 che istituisce la famiglia anagrafica, attribuendo a tutte le persone conviventi, anche con figli, gli stessi diritti di accesso agli asili nido e di riduzione dei tributi. Dunque, è la tesi di Veltroni, nei fatti già Roma non discrimina chi abita sotto lo stesso tetto. Il registro non aggiungerebbe nulla. È solo una bandiera ideologica: chi intende sventolarla a ogni costo, si assumerà il rischio di una bocciatura. Probabile alla luce del percorso che si va delineando: accantonare la delibera (con la possibilità che il Pd voti contro, insieme al centrodestra) per approvare un ordine del giorno che impegni il sindaco a promuovere una legge sulle unioni civili in Parlamento.

Repubblica 2.12.07
Binetti: in gioco anche la credibilità del Pd
"Walter fa bene a tenere duro niente affronti alla città del Papa"
La prima conseguenza? Un esodo dei credenti verso la Cosa bianca


ROMA - Senatrice Paola Binetti, il registro delle unioni civili c´è già in diverse città italiane. Perché non potrebbe essere istituito anche a Roma?
«Un´iniziativa di questo tipo è irricevibile. Come può pensare Veltroni nella città del Papa, nella capitale simbolo del cristianesimo, di creare il registro che vogliono i Radicali? È un´offesa, e il mio non è clericalismo».
I Radicali hanno raccolto oltre diecimila firme e la questione è all´ordine del giorno del Campidoglio. Una risposta va data.
È una provocazione culturale, portata nella culla della cristianità. Il registro è peraltro inutile. Già c´è a Roma un certificato anagrafico che dice con chi vivi e dove. Quale sarebbe il vantaggio? Una coppia di fatto non ottiene la pensione di reversibilità o magari l´eredità. Sarebbe una spaccatura nella città. Il mondo cattolico non potrebbe non reagire».
Veltroni non solo come sindaco, ma anche come leader del Partito democratico, dovrebbe ignorare i diritti civili?
«Se Veltroni desse il via libera, questo lo renderebbe meno credibile anche come segretario del Pd. E spingerebbe i cattolici verso il nuovo soggetto centrista, la Cosa bianca a cui stanno pensando Pezzotta, Tabacci, Montezemolo e Casini. Il Partito democratico può rischiare di diventare poco ospitale per i cattolici».
In Parlamento quando si riparla di coppie di fatto?
«Siamo presi dalla finanziaria, dal welfare, dal decreto sicurezza, ma a gennaio si riaccenderà il dibattito sulle unioni civili. Nessuno vuole cancellare nulla. Magari il Signore ci ispirasse una formula per tutelare i diritti individuali senza intaccare l´istituto della famiglia!».
(g. c.)

il Riformista 2.12.07
Walter di fatto affossa le coppie


Così Veltroni è andato a far visita al segretario di Stato Tarcisio Bertone in Vaticano. Se qualcuno a Roma sperava in un intervento dall’alto per sbloccare il dibattito sull’istituzione di un registro per le coppie di fatto in Campidoglio, le notizie che arrivano dal Vaticano non sono per nulla rassicuranti. Tutt’altro: sono una doccia fredda, anzi gelata. «Veltroni intervenga», chiedevano pochi giorni fa i radicali romani. E l’intervento doveva servire a dare la linea alla maggioranza che sostiene il sindaco al Comune di Roma su come votare quando arriveranno in consiglio comunale, la prossima settimana, le due delibere relative alle coppie di fatto. Ebbene: altro che linea, Veltroni ha praticamente affossato le residue speranze che per il momento Roma - la capitale d’Italia, la città che ospita la Santa Sede, la città guidata da un sindaco che è allo stesso tempo il leader del maggior partito della maggioranza al governo e che aspira a sua volta a guidare un prossimo esecutivo - possa dotarsi di un registro nel quale annotare le convivenze tra persone anche dello stesso sesso; anche se questo registro avrebbe avuto un significato poco più che simbolico. È proprio questo il punto: il valore dei simboli. E Veltroni sa bene di dover essere molto attento anche e soprattutto ai simboli in una città come Roma.
Di certo, se le notizie che trapelano dai palazzi corrispondono tutte al vero, questa non è una notizia soltanto per i romani ma è qualcosa su cui l’intero centrosinistra viene chiamato a una riflessione. Veltroni, infatti, su questo tema specifico sinora ha dichiarato, in occasione della sua partecipazione a Otto e Mezzo, soltanto che questa materia è di competenza del Parlamento. Poi, più nulla. Un messaggio chiarissimo, dunque, come chiarissimo è quello lanciato dallo stesso Veltroni direttamente dal Vaticano. A questo punto, però, ci si chiede quale politica il Partito democratico, del quale Veltroni è il segretario, intende portare avanti in materia di diritti civili. Il silenzio sinora è stato pressoché assoluto. In ballo ci sono, e parliamo soltanto delle prossime settimane, il testamento biologico, le linee guida sulla legge 40 e la telenovela Pacs-Dico-Cus. Abbastanza per iniziare a preoccuparsi in mancanza di chiarezza su cosa il centrosinistra intenda fare. Se la maggioranza capitolina è la rappresentazione in sedicesimo del futuro centrosinistra di conio veltroniano, sarà bene che i sostenitori di queste battaglie siano preparati anche all’eventualità molte delusioni. E, però, speriamo davvero di sbagliarci.

l’Unità 2.12.07
Sciopero della fame contro il carcere che non finisce mai
Da ieri 755 ergastolani rifiutano il cibo. Rischio caos: hanno diritto all’assistenza medica


NIENTE DA PERDERE È cominciato lo sciopero della fame ad oltranza contro «la pena che non finisce mai». Ovvero l’ergastolo. Lo praticano i detenuti senza termine di pena di 50 carceri italiane. E i loro familiari all’esterno. Chiedono l’abolizione della misura più dura prevista dal nostro codice penale. Tramite il tam tam dell’associazione di volontariato fiorentina Pantagruel, che ha organizzato tramite internet la protesta, sono 755 i detenuti e le famiglie che hanno aderito. Di questi, 40 hanno già dato disponibilità a proseguire ad oltranza nell’astinenza da cibo. Il che potrebbe provace presto dei dilemmi di carattere giuridico-etico: potrà il direttore del carcere imporre la nutrizione coatta? «I detenuti hanno diritto a scioperare, i direttori non ne hanno alcuno per impedire (con la nutrizione obbligatoria) che questo sciopero si realizzi», spiega la senatrice Maria Luisa Boccia.
L’idea dello sciopero della fame parte da Spoleto, da Carmelo Musumeci, ergastolano. Pubblica una lettera su Internet che fa subito il giro delle “celle”. Proprio all’esterno del carcere umbro ieri sera c’è stata la veglia di preghiera indetta dalla Comunità Papa Giovanni XXIII di cui Don Oreste Benzi è stato il fondatore. Lo slogan che si è diffuro é: «Non abbiamo niente da perdere, se non le nostre catene». E così si è giunti allo sciopero odierno. Protesta annunciata ai mass media dal parlamentare del Prc Francesco Caruso che ieri si è recato al carcere di Catanzaro alle ore 12, al termine del presidio di lotta indetto dalle associazioni e dai centri sociali calabresi all’esterno dell’istituto. E proprio all’inizio dello sciopero della fame. «Si tratta di una mobilitazione senza precedenti, in quanto vede coinvolti la maggior parte degli ergastolani attualmente detenuti in oltre 50 carceri», afferma il deputato ’no-global’.
Alla protesta hanno aderito ergastolani anche condannati per delitti plurimi, per mafia, per stragi. “Residenti” all’Ucciarone, Poggioreale, Pagliarelli di Palermo, Benevento, Pavia, Torino, Potenza, L’Aquila, Trapani,Spoleto, Livorno, Secondigliano, Sulmona, Rebibbia, Novara, Velletri, Vicenza, Viterbo, Biella.
«Lo sciopero della fame - afferma Caruso - si pone l’obiettivo di riaprire la battaglia per l’abolizione dell’ergastolo, una campagna che rischia di finire stritolata nel clima securitario di questi ultimi mesi: non è un caso che le proposte di legge sull’abolizione dell’ergastolo, che mirano a tramutare l’ergastolo in 30 anni di carcere, ancora non vengono calendarizzate».

l’Unità 2.12.07
Suicidi al Buoncammino: «Perché erano qui?»
Tre casi nel carcere di Cagliari. Il direttore: «I malati di mente e di Aids non dovrebbero stare in cella...»
di Davide Madeddu


Tre morti e due tentativi di suicidio in un mese. Il carcere Buon Camminioo riconquista il triste primato. Le cronache degli ultimi trenta giorni parlano di due suicidi, un uomo di cinquant’anni e un ragazzo che non aveva compiuto 19 anni, un giovane morto per cause ancora da chiarire e altri due detenuti salvati in extremis dagli uomini della polizia penitenziaria. Casi che, seppur lontani l’uno dall’altro, sono legati da un unico filo, quello della disperazione. «Il problema è che molto spesso in carcere ci sono delle persone che dovrebbero stare altrove ­ dice Gianfranco Pala, direttore ­ ma non essendoci strutture alternative finiscono tutti in carcere». E dietro le sbarre devono fare i conti con un edificio costruito più di cento anni fa e a corto di personale dato che, a sentire il direttore, dopo il pensionamento di «72 uomini della polizia penitenziaria l’organico è stato rinforzato con 15 persone trasferite». E i dati forniti dal direttore dell’istituto di pena più grande della Sardegna non è che siano molto confortanti. «Su cento detenuti che varcano il portone d’ingresso settanta hanno problemi di varia natura». Precisando che i suicidi registrati negli ultimi giorni sono «slegati fra loro» perché «nel primo caso si trattava di un uomo cui era stata revocata la semilibertà e nel secondo caso un ragazzo lasciato dalla fidanzata», il direttore non nega la presenza di problemi. «In carcere ci sono 350 detenuti ­ spiega ­ 10 hanno l’aids conclamato, 20 sono sieropositivi e in condizioni fisiche disastrose, 47 hanno l’epatite B o C, 48 sono cardiopatici a causa di utilizzo di cocaina».
Tra le mura del carcere situato in cima alla collina che domina il capoluogo sardo ci sono anche parecchi sofferenti psichici. «In carcere ci sono 37 persone sofferenti malattie psichiatriche gravi, quelli che, dovrebbero stare in strutture per sofferenti mentali ­ aggiunge ­ altre 48 persone con disagio mentale, 106 tossicodipendenti dichiarati, 6 alcolisti e inoltre altri detenuti sotto metadone e in terapia». Situazioni disperate in cui molto spesso possono maturare anche gli episodi di autolesionismo. «Molte persone dovrebbero essere ospitate e sistemate altrove ­ conclude ­ però il problema nasce proprio qui, non ci sono strutture idonee ed adeguate e allora chi ha commesso un reato finisce in carcere».

l’Unità 2.12.07
Giorgio Amendola il comunista
di Armando Cossutta


Sono molto importanti le manifestazioni in atto nel Paese con le quali si vuole ricordare la figura di Giorgio Amendola, nel centesimo anniversario della sua nascita. Emerge giustamente il ruolo straordinario che egli ha avuto nelle vicende politiche della seconda metà del ’900 e che fa di lui uno dei protagonisti in assoluto della nascita e della costruzione della nostra «Repubblica democratica fondata sul lavoro». È bene illustrare agli italiani i suoi grandi meriti di organizzatore tenace dell’unità antifascista, di dirigente esemplare della Guerra di Liberazione, di parlamentare illustre, di uomo di Stato. Desidero soltanto esprimere qualche breve riflessione sulla sua personalità politica, vista dall’interno del Partito Comunista Italiano, di cui è stato uno dei massimi dirigenti.
Figlio di una famiglia importante della borghesia napoletana, cresciuto a contatto con alcune delle maggiori personalità della cultura liberale italiana ed europea, è divenuto comunista per una scelta forte, come si sa. Ed è stato comunista - voglio sottolineare - nell’unico modo razionale in cui si poteva e doveva esserlo in Italia. Non fu né un comunista di tipo socialdemocratico né di tipo liberalsocialista come molti hanno scritto. Era comunista.
Togliattiano senza mai proclamarlo, aveva con Togliatti la medesima formazione e cultura storicista; ed aveva ben chiara la stessa strategia. Non ebbe esitazioni, sin dall’inizio, finita la guerra, a schierarsi dalla sua parte nel sostenere la concezione stessa del partito, profondamente, totalmente nuova rispetto al passato: e si batté per un partito non di propaganda o di testimonianza ma per una organizzazione che fa politica, che la propone, che la costruisce. Ed anche per questo per un partito di vocazione naturalmente unitaria, di massa.
Il suo lavoro di tessitore di rapporti unitari, svolto in modo intenso, continuo con uomini della sinistra italiana lo ha portato a scontrarsi spesso contro resistenze ed incrostazioni settarie. Le combatteva a viso aperto, non curandosi delle etichette allora disdicevoli di "riformista", che gli venivano cucite addosso. Era unitario, non accomodante. All’esterno sapeva fronteggiare anche duramente gli avversari politici e all’interno del partito non cercava compromissioni per affermare le sue convinzioni. Il suo linguaggio era diretto ed esplicito, detestava le formulazioni fumose, involute.
Amendola è stato sempre uomo di partito. Sovente i suoi commentatori dimenticano che nel ’54, destituito Pietro Secchia, fu nominato per scelta di Togliatti responsabile della Commissione di organizzazione, che era fondamentale, la più importante di tutte nella vita del Pci. Da lì lavorò per il rinnovamento profondo del partito, per il rinnovamento politico sancito nell’ottavo congresso del 1956 e per quello organizzativo compiuto con il nono congresso del 1959. Contribuirà a fare emergere una generazione più giovane di dirigenti, più aperta alle nuove realtà sociali ed alle esigenze unitarie, e questo fu in non poche organizzazioni regionali impresa ardua (ne so qualcosa!), che richiese grande coraggio e forte determinazione. Erano le sue doti, erano suoi meriti. Riuscirà a far sostituire alla testa delle maggiori federazioni figure popolari, cariche di antichi meriti e di radicati consensi, con compagni trentenni, non ancora affermati ma futuri costruttori del grandissimo partito che divenne il Pci. Eravamo quasi tutti della stessissima, medesima età, 1924-1925-1926: Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso, Alfredo Reichlin, Ugo Pecchioli, Fernando Di Giulio, Aldo Tortorella, e tanti altri in ogni parte d’Italia.
Togliattiano nel profondo non esitò a distinguersi (non certo a distaccarsi) dal segretario nazionale su questioni di grande rilevanza, a partire dal giudizio sull’Unione Sovietica. Le sue critiche erano rivolte a sollecitare una differenziazione più esplicita nei confronti dei dirigenti sovietici a cavallo tra il XX ed il XXII congresso del Pcus. Furono critiche pubbliche e di non poco peso, di cui Togliatti e tutto il partito dovettero tenere conto: riserve esplicite e rilevanti sui ritardi e sugli errori nella vita interna sovietica.
Eppure Amendola, in epoca successiva, si trovò solo a non condividere la condanna del Pci contro l’invasione dell’Afghanistan: egli fu l’unico nella Direzione del partito a votare contro la risoluzione. E non esitò a rinfacciare a me apertamente ed anche duramente di non avere condiviso il suo atteggiamento. «Mi meraviglio di te - mi disse - eppure dovresti ben sapere cosa significa strategicamente, nei rapporti internazionali, che cosa conta Kabul a cavallo come è fra tre continenti ed in una contesa che prefigura una disputa di portata mondiale. Non mi piace proprio nulla della vita interna dell’Unione Sovietica ma so che essa rappresenta un fondamentale deterrente nei confronti del dominio mondiale degli Stati Uniti».
E fu quasi solo negli ultimi anni della sua vita - ma giustamente profetico - nel sostenere l’esigenza oggettiva dell’unità delle forze della sinistra, l’unità fra comunisti, socialisti, socialdemocratici, oltre le antiche contrapposizioni, oltre le rispettive collocazioni, riconoscendo e superando autocriticamente i propri «fallimenti», come impietosamente egli li definiva.
Comunista anche in questo, perché non si è comunista - diceva - solo per sventolare un simbolo ed un nome ma si è comunista se si contribuisce a costruire l’unità delle forze in grado di agire con efficacia per fare avanzare i lavoratori e l’intera società in Italia ed in Europa verso il rinnovamento democratico ed il progresso sociale. Concetti, come si vede, di estrema attualità.

Repubblica 2.12.07
Dal video e dalle lettere un'immagine quasi leggendaria
Betancourt, se la bellezza è più forte della ferocia
di Francesco Merlo


Quando eleganza e bellezza possono vincere la ferocia
In quelle mani che si intrecciano c´è la fragilità di milioni di donne maltrattate
Le recenti immagini di Ingrid sono destinate a diventare un simbolo

Solo dei guerriglieri marxisti, con le bombe esplosive nelle tasche e le bombe ideologiche nella testa, possono non capire che la bellezza di Ingrid Betancourt li ha già seppelliti tutti. Guardatelo ancora quel video, meno di trenta secondi su Youtube, e, senza pensare di essere diventati dei fiancheggiatori – fiancheggiatori estetici –, liberate pure il vostro cuore.
E ditelo anche voi, insieme con noi, che Ingrid Betancourt in 2107 giorni di prigionia è diventata più bella, che non era mai stata così bella. E che tutto il marxismo del mondo, quello scritto e quello orale, non può competere con l´eleganza della rozza tunica bianca che copre quel corpo esile e disarmato. Contro la ferocia della rivoluzione qui c´è l´arma dell´eleganza che nessuna modella d´alta moda riuscirebbe ad eguagliare, un´eleganza che per un rivoluzionario è micidiale perché in pochissimi secondi sbriciola la durezza dell´astio sociale.
E, ancora, in quelle mani di porcellana che s´intrecciano ci sono la compostezza e la fragilità di milioni di donne maltrattate: quelle mani sono le mani di tutte le donne del mondo, le mani della carezze contro le mani-grilletto dei guerriglieri; le mani delle mamme, le mani che salutano, le mani della musica, le mani dell´arpa e quelle del ricamo contro le mani-protesi della lotta armata; le mani nelle mani contro il pugno chiuso dei compagni del Farc.
Comunque vada a finire, dobbiamo molto alla bellezza di Ingrid Betancourt. Intanto, se in tutto il mondo e tutti insieme siamo sobbalzati davanti alla sua sofferenza, noi che siamo bestie feroci, è perché vi abbiano riconosciuto la bellezza, quella che lascia senza fiato, la bellezza allo stato naturale, di perfezione rinascimentale, la bellezza che disarma gli efferati perché ne rivela la gratuità e dimostra che non esiste la violenza di cui parlava Marx, la violenza levatrice di storia.
Guardate come la bellezza di quelle palpebre semichiuse toglie dignità a qualunque progetto che sia fondato sulla sofferenza, fosse pure quella di un ricco banchiere e non quella di una donna, madre e moglie. Le palpebre di Ingrid Betancourt sono chiuse davanti alla violenza che ha visto e davanti a quella che ha subìto, mentre le nostre palpebre, al contrario, sono sbarrate per lo sbigottimento. L´immagine che vediamo è una: per circa trenta secondi soltanto la camera si muove cambiando appena un poco la prospettiva. Ma nell´immobilità della Betancourt, che è bella come una poesia di Baudelaire, c´è tutta la velocità dei nostri nervi in fuga, c´è la nostra inquietudine, ci siamo noi che ci chiediamo come sia possibile che questi guerriglieri non riconoscano in questo video il loro autogol risolutivo, non capiscano che la bellezza di questa donna è come la cattura di Che Guevara in Bolivia, come la notizia della sua morte, come la foto del suo cadavere.
L´immagine della Betancourt, specie se non fosse liberata, è destinata a diventare un´immagine mito, come il cavallo di Troia per esempio, un giocattolino al quale viene consegnata l´espugnazione di una città e il declino di una grande civiltà, come il Che appunto, il rivoluzionario romantico che è finito sulle magliette dei giovani di sinistra, di destra e di centro, ma anche come Marilyn, come il Cristo armato, come James Dean, che è a sua volta l´immagine simbolo della ribellione e della libertà individuali. Ebbene, allo stesso modo, la Betancourt è la bellezza disarmata che sconfigge la guerriglia e il marxismo, i quali furono più forti dell´esercito degli Stati Uniti, ma sono più deboli di un donna. Tutto infatti possiamo comprendere: la libertà dei popoli, la rivoluzione, il sol dell´avvenire, la guerriglia; ma non la gratuità della sofferenza inflitta a una donna.
Da tempo ci siamo convinti che in Italia il fascismo aveva già perso la sua partita con la storia quando decise di infilare l´intelligenza in galera, cioè quando mandò Gramsci in prigione. E difatti, in quella prigione, Gramsci divenne ancora più intelligente e, morendo di prigione, seppellì il fascismo. Allo stesso modo qui il tormento ha reso la Betancourt bella e invincibile, ed è della sua immagine che ci ricorderemo ogni volta che ci parleranno di guerriglia marxista.
Di sicuro esistono altre forme di bellezza. Non è vero che la sola bellezza è quella maledetta, ma certo nella bellezza che è anche sofferenza c´è un surplus di mistero che non si esprime necessariamente nella magrezza e nelle cicatrici. A volte anche in un corpo fastoso può rivelarsi il maledettismo: basta uno sguardo, una mano, una tunica, un viso, o i lunghissimi capelli raccolti in una coda che pende sul davanti. Qui la bellezza maledetta traspare da ogni dettaglio, la Betancourt sembra la donna dell´antico rito indiano Sati, la donna che si lascia bruciare viva insieme al cadavere del marito, la donna fedele non ad un uomo, ma a se stessa, alla propria tenacia, alla propria forza, alla propria coerenza. Nel lento crescere dei capelli della Betancourt in cinque anni di prigionia ci sono più forza, più tenacia e più coerenza che in tutta la teoria e in tutta la pratica della rivoluzione armata. Quei capelli lunghi sono il dolore della donna, sono un velo di lacrime, sono salici piangenti. Siamo certi che se fosse liberata, subito la Betancourt libererebbe anche i capelli che, così lunghi e al vento, tornerebbero ad essere allegria.

Repubblica 2.12.07
Machiavelli e l’arcidiavolo
di Giuseppe Montesano


Torna con le illustrazioni originali di Emanuele Luzzati un piccolo gioiello scritto dall´autore del "Principe" È la storia di Belfagor, mandato sulla terra a studiare gli uomini e soprattutto le donne. La missione naufraga tra terribili "monne oneste", matrimoni, figlie di re e ritirate fulminee nel più rassicurante inferno
Era il Rinascimento, un mondo in cui tutto diventava possibile: l´elogio della carne di Pietro Aretino e le sottigliezze neoplatoniche di Marsilio Ficino, le satire sulle perditrici e i madrigali in lode alle gentili

Come passava il suo tempo Niccolò Machiavelli, intellettuale e scrittore ex consulente del Principe, quando diventò disoccupato perché non diceva sempre sì al Principe? Come tutti gli scrittori, scioperato a perder tempo di giorno e scribacchiando di notte. È il 10 dicembre del 1513, e in una lettera Machiavelli si lamenta con Francesco Vettori: perché i Medici non lo adoperano, fosse pure a «voltolare un sasso»? Il tempo gli passa andando a caccia di tordi col vischio e a sentir ciarlare i taglialegna, e già nel primo pomeriggio se ne va all´osteria. Là, in compagnia di beccai e mugnai si «ingaglioffa» a giocare a carte tutta la giornata, dando battaglia per «un quattrino» e facendosi dispetti con quei «pidocchi» tra parolacce e urla. La noia e l´inattività lo affliggono, ed è forse in quei giorni in cui persino i compagni di bevute servono a togliere «el cervello di muffa», che scrive per divagarsi Belfagor arcidiavolo: un micro-racconto riproposto dal Melangolo con i disegni di Emanuele Luzzati.
Plutone raduna i demoni per risolvere un caso: è possibile che quasi tutti i dannati dicano di andare all´inferno a causa delle mogli? Per saperlo, Plutone spedisce sulla terra Belfagor arcidiavolo, che va a Firenze perché lì può far fruttare «con arti usuraie» i suoi soldi. Ma, errore gravissimo, Belfagor-Roderigo sceglie per moglie una «Monna Onesta», e, peggio, se ne innamora. E qui la favola di Belfagor arcidiavolo prende a correre con il ritmo secco e tutto fatti di Machiavelli, essenziale come uno scheletro ripulito fino all´osso che si metta a danzare e a ghignare. Monna Onesta rovina il marito; lui fugge; salvato da un contadino, per ringraziarlo lo fa arricchire invasando le donne e uscendone a comando. Mai fidarsi del diavolo, però: Belfagor-Roderigo entra nel corpo della figlia del re di Francia e si rifiuta di uscirne. Ma come in uno scatenato cartoon a ritmo di jazz New Orléans, il machiavellico contadino convoca una band che con «trombe, corni, tamburi, cornamuse, cembanelle, cemboli e altri romori» circonda Belfagor-Roderigo e gli dice che è venuta a riprenderselo la moglie: «Fu cosa meravigliosa a pensare quanta alterazione di mente recassi a Roderigo sentire ricordato il nome della moglie». Senza più ragionare, l´arcidiavolo ritorna all´inferno con la velocità di un Wile Coyote rinsavito che sfugga a un malefico Bip-Bip.
In Belfagor arcidiavolo Machiavelli giocava con il tema medievale della satira contro le donne e dei fiorentini più astuti del diavolo, in un divertissement che avrà certo letto ad alta voce agli amici e a una qualche "Monna": e non certo una Monna Onesta come quella della sua favola, perché anche se l´autore del Principe era ammogliato con monna Marietta e aveva una barca di figli, da Lodovico a Guido a Piero a Baccina e al piccolo Totto, non si faceva per questo mancare gli svaghi di piacere. Come racconta lui stesso in una lettera, nel 1509, a Verona, finisce adescato da una donna a pagamento: al buio non si accorge di nulla, e pur trovandola floscia e ripugnante, «tanta era la disperata foia che io havevo, che la fotte´ un colpo…». Ma quando Niccolò la vede, scopre l´orrore: la donna è una vecchia piena di pidocchi, vizza, cisposa, senza denti, bavosa, senza capelli, con la barbetta, balbuziente. L´avventura da romanzo picaresco alla Lazarillo de Tormes o in stile Pitocco è finita? Per niente! Appena la vecchia parla le esce «un fiato sì puzzolente», che l´autore del Principe le dà di stomaco addosso.
Ma a leggere il suo epistolario, si scopre che non sempre a Machiavelli andava così male: a Francesco Guicciardini scrive che si sbaciucchia con "la Riccia", che però lo trova pazzo come tutti i letterati; Guicciardini gli risponde ricordandogli che "la Mariscotta", una cortigiana, ha nostalgia di lui e dei suoi modi educati: perché in realtà Niccolò, che diceva che «la fortuna è donna; et è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla», era in realtà timidissimo e compito; a Francesco Vettori scrive che «ogni dì siamo in casa di qualche fanciulla per rihavere le forze, godendoci questo resto della vita»; poi, a sorpresa, consiglia al Vettori di lasciarsi andare all´amore, come ha fatto sempre lui stesso: «Levategli dunque i basti, cavategli il freno, chiudete gli occhi e dite: fa´ tu, Amore, guidami tu, sono tuo servo…»; e, a cinquant´anni, dichiara di aver lasciato «i pensieri delle cose grandi et gravi» per seguire Venere e una donna che gli fa amare il contrario di ciò che amava prima: una «creatura tanto delicata e tanto nobile…».
Era il Rinascimento, un mondo in cui tutto diventava possibile: dove l´elogio della carne di Pietro Aretino e le sottigliezze neoplatoniche di Marsilio Ficino andavano a braccetto, dove le satire sulle donne perditrici si sposavano in uno stesso poeta ai madrigali in lode delle donne gentili, dove gli arcidiavoli si innamoravano delle Monne Oneste e i prelati di quelle molto meno oneste. Quali contraddizioni era in grado di ingoiare e ruminare quell´epoca di festosa e cruda vitalità nel suo stomaco? Sul finire del Rinascimento ormai stremato, il Gran Maestro Rabelais fece trionfare nel suo Gargantua et Pantagruel la liberazione sessuale di maschi e femmine e la grande Cuccagna del cibo sognata dal popolo nella Abbazia di Thélème: una libera confraternita di gaudenti illuminati che aveva per sola insegna il motto pre-anarchico: «Fa´ ciò che vuoi!». Ma nel Libro Terzo del suo enorme romanzo, Rabelais era poi capace di andare avanti dal capitolo nono al capitolo quarantottesimo a dibattere con Herr Trippa e il filosofo Spaccapeli, e con infiniti teologi e sapienti tutti invischiati in deliranti discussioni sulle corna e sulla donna, per rispondere al comico, delirante, irrisolvibile quesito: è opportuno che Pantagruel prenda moglie? Ma la sapienza umana non basta a questa decisione, Pantagruel e i suoi gaudenti partono per rivolgersi all´Oracolo della Divina Bottiglia, e la Dea dei bevitori offre una sola risposta a tutti i quesiti: Trink, cioè «Bevi!». Attraverso Rabelais la Divina Bottiglia dice a Pantagruel che la vita deve scorrere e fluire libera dai legacci, sangue e vino e flussi mestruali e sudore e seme si devono mescolare in un solo fiume, e i giorni devono essere vissuti fino alla feccia. Il diavolo? Ma il diavolo non esiste, e se mai c´è, che beva anche lui per dimenticare se stesso nel vino!
Poi la festa rinascimentale finisce, e il diavolo ricompare: prima come satirico svelatore delle malvagità umane nei Sogni di Francisco De Quevedo e nel Diavolo zoppo di René Lesage, poi per ritornare alla fine dell´Età dei Lumi, e di nuovo in compagnia della donna: anzi, questa volta, lui stesso trasformatosi in donna. È il demone in forma di cammello del Diavolo innamorato di Jacques Cazotte, che per tentare Alvaro diventa una seducente Biondetta, amorosa e dolce, coraggiosa e erotica, e che alla fine riesce a portarsi a letto lo spagnolo. È l´inizio del grande Cafarnao, della totentanz romantica: erotismo e sosia negli Elisir del diavolo di Hoffmann, cadaveri tornati in vita per sedurre monaci rosei e belli nella Morta innamorata di Gautier, donne diaboliche più del diavolo nelle Diaboliche del cattolicissimo Barbey D´Aurevilly. È la fin de siècle che trionfa nella Carne, la morte e il diavolo, con un erotismo morboso e sfrenato a tessere i rapporti tra i Belfagor decadenti e le sensuali e crudeli Belle-dame-sans-merci, fino alle messe nere di Huysmans che in Là-bas lascia correre la sua misoginia intrisa di bavosa e frustrata sensualità, dimenticando che il père Baudelaire aveva già messo in scena il Sabba, ma con raffinata ironia lo aveva congedato per sempre nello scherzo sublime di Le Monstre: «La tua gamba muscolosa e secca sa arrampicarsi sui vulcani e, nonostante la neve e la miseria, sa danzare i più focosi can can… Sciocca, tu te ne vai dritta al Diavolo! Volentieri verrei con te, se questa sveltezza spaventosa non mi mandasse in bambola: vattene dunque, tutta sola, al Diavolo!... Sono diabolicamente afflitto di non reggerti la torcia, e di prendere congedo da te, fiaccola d´inferno! Giudica, mia cara, quanto sono afflitto: poiché da tanto tempo io ti amo! Sì, vecchio mostro, io ti amo…».
Da qui in poi l´amore non sarà mai più quello carnale e allegro di Machiavelli, per illustrare i tête-à-tête tra Donne e Arcidiavoli non basterà il festevole e bertoldesco Luzzati che illustra Belfagor arcidiavolo, e ci vorrà la feroce lacerazione di Mattotti che racconta nello strazio Lo strano caso del dottor Jeckill e Mr. Hyde. Qualche secolo fa a Vienna è apparso un uomo con gli occhialetti e il pizzetto, ha sostenuto che i bambini sono perversi polimorfi, che le donne godono più degli uomini e che esiste una demoniaca potenza che si chiama Libido. Allora, strizzando l´occhietto, Belfagor arcidiavolo si è sdraiato sul lettino del dottor Freud e si è scisso in due; Belfagor è diventato psicanalista, e l´Arcidiavolo abita l´Inconscio, né maschio né femmina: è cominciata la Modernità.

Giuseppe Montesano ha recentemente pubblicato Il ribelle in guanti rosa: Charles Baudelaire (Mondadori) e ha curato Una settimana di bontà di Max Ernst (Adelphi)

Repubblica 2.12.07
"L'Onu dimentica la dignità dell'uomo"
L'attacco del Papa: relativismo morale. Le Nazioni Unite: noi fondati su quei principi
di Marco Politi


La tensione con le ong era già riesplosa sulle questioni di aborto e contraccettivi
Il portavoce di Benedetto XVI "Interpretazioni forzate sulle frasi del pontefice"

CITTA´ DEL VATICANO - Ventiquattr´ore dopo la pubblicazione della Spe Salvi, papa Ratzinger attacca il «relativismo» predominante nelle organizzazioni internazionali, fra cui quelle che dipendono dalle Nazioni Unite, e dichiara di aver scritto la sua seconda enciclica come risposta al «nichilismo» imperante. Il nichilismo, ha affermato il pontefice celebrando l´Avvento nella basilica vaticana, «corrode la speranza nel cuore dell´uomo» perché diffonde la convinzione che «dentro di lui e intorno a lui regni il nulla: nulla prima della nascita, nulla dopo la morte».
Ieri mattina Benedetto XVI ha ricevuto le Ong cattoliche in occasione di un convegno organizzato dal segretario di Stato cardinale Bertone. «Il dibattito internazionale - ha lamentato il Papa dinanzi a esponenti che collaborano sistematicamente con l´Onu - appare spesso segnato da una logica relativistica che pare ritenere, come unica garanzia di una convivenza pacifica tra i popoli, il negare cittadinanza alla verità sull´uomo e sulla sua dignità nonché alla possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale».
La tensione fra il Vaticano e alcune organizzazioni internazionali è riesplosa recentemente sulla questione dell´aborto e dei contraccettivi. Con l´Unhcr, che si occupa dei campi di rifugiati in tutto il mondo, la Santa Sede ha polemizzato per la distribuzione di kit anticontraccettivi (per prevenire gravidanze insostenibili in condizioni di estrema difficoltà). Mentre con Amnesty International è scontro dopo la decisione dell´organizzazione umanitaria di verificare se anche il diritto all´interruzione di gravidanza non vada considerato un diritto fondamentale della donna.
Benedetto XVI non accetta il rifiuto delle istanze internazionali di considerare unicamente etico ciò che è prescritto dal magistero vaticano. Si sta imponendo una concezione del diritto e della politica - ha polemizzato - in cui conta solo il consenso tra gli stati, frequentemente ispirato a «interessi di corto respiro» o manipolato da «pressioni ideologiche».
Ratzinger ha rilanciato i principi «non negoziabili» e ha parlato di «frutti amari» della logica relativistica: diritti concepiti come conseguenze di «certi stili egoistici», disinteresse per le necessità economiche e sociali dei popoli più deboli, disprezzo del diritto umanitario e difesa selettiva dei diritti umani. Le Ong cattoliche, ha concluso, devono «opporre al relativismo la grande creatività della verità circa l´innata dignità dell´uomo».
Nel pomeriggio il pontefice si è poi recato in San Pietro a denunciare il «paganesimo dei nostri giorni», cioè relativismo e nichilismo.
Il rischio che il discorso papale venisse percepito come attacco diretto alle Nazioni unite è stato immediatamente percepito dalla segreteria di Stato vaticana. Poche ore dopo, il portavoce papale padre Lombardi spiegava che mai il Papa aveva attaccato l´Onu e che circolavano «interpretazioni forzate». Ciò nonostante, in serata, è intervenuto uno dei portavoce del Palazzo di Vetro, Farhan Haq, per sottolineare che le Nazioni Unite, pur nascendo da un accordo fra Stati, si fondano sulla «Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo» e quindi sugli stessi principi etici del Papa.
L´ultima enciclica, com´era prevedibile, ha suscitato commenti contrastanti. Entusiasta Berlusconi per gli attacchi al marxismo: «Non posso che condividere al cento per cento ciò che ha scritto il pontefice». Polemico lo storico Nicola Tranfaglia, secondo cui Marx ebbe sempre presente l´uomo come essere umano, mentre Ratzinger «non condanna la sola teoria che nella storia dell´umanità ha elevato l´uomo a Dio proponendo la razza eletta: il nazismo».

Aprile on line 30.11.07
Bertinotti e l'unità della sinistra
di E.S.


Nel corso del convegno dedicato alla figura di Franceso De Martino, in occasione del centenario della nascita, il presidente della Camera loda le qualità intellettuali del leader socialista per rimarcare la povertà culturale dell'attuale politica italiana. Quindi riflette sul presente e l'immediato futuro, individuando nel soggetto unico la sola alternativa possibile delle forze radicali
Parte da lontano Bertinotti. E lo fa intervenendo al convegno nella sala Zuccari di palazzo Giustiniani sulla figura di Francesco De Martino, in occasione del centenario dalla nascita. Il presidente della Camera ricorda aspetti peculiari del leader socialista, che permettono di tornare su temi di stringente attualità per la sinistra italiana.
"Francesco De Martino ci ha lasciato una grande verità: la fede nel socialismo in un Novecento che ha registrato il fallimento del socialismo reale senza che il capitalismo risolvesse nel frattempo il suo carattere intrinseco di violenza e di sfruttamento dell'umanità". Un passaggio al quale fa subito seguito una riflessione di carattere culturale. Dopo aver ricordato De Martino quale "raffinato e vigoroso intellettuale", Bertinotti sottolinea come un tempo, nella cultura della sinistra, il fatto di esercitare un qualche ruolo di leader imponesse anche una certa attitudine e dedizione allo studio. "Oggi questo non accade più", ha poi aggiunto, sottolineando con vena sottilmente polemica: "Per favore, fatemi un esempio di un politico che negli ultimi tre anni abbia scritto un saggio che abbia superato le venti cartelle. Mi sembra però che nessuno abbia tempo e voglia per farlo. E questo è indicativo se un politico ha un'idea generale della società. Se il rapporto tra la politica di oggi e l'evoluzione della cultura e della società è messo fuori dalla politica della direzione, allora noi siamo di fronte a un impoverimento drammatico. Io penso che la direzione politica si possa esercitare bene, ma quello che è imprescindibile è un profilo intellettuale".
L'orizzonte di approdo della sua riflessione è dunque la situazione contemporanea, vale a dire il nodo nevralgico dell'unità a sinistra, che l'otto e nove dicembre prossimi dovrebbe materializzarsi nei locali della nuova Fiera di Roma. E se il condizionale è d'obbligo, il motivo risiede nelle evidenti e profonde spaccature registrate proprio in queste ultime ore. Parlando sempre di De Martino, la terza carica dello Stato ricorda come per l'ex segretario socialista proprio questa unità rappresentasse "unità in un solo partito della sinistra, non dei riformisti o dei socialisti", perché considerava "il tema del socialismo irrinunciabile e l'unità delle forze di sinistra possibile per revisione delle forze comuniste e socialiste".
Lanciato il sasso, Bertinotti non può più nascondere la mano, ed esimersi dalle domande dei cronisti che lo sollecitano soprattutto sullo "strappo" minacciato da Diliberto e il suo partito. "Sono sicuro che l'unità si farà al di là delle vicende contingenti. Trascende totalmente la vicenda quotidiana. Del resto, anche nei partiti politici già consolidati ci sono dei dissensi, ci sono maggioranze e minoranze".
Il problema diviene dunque di "passaggio storico", per raggiungere l'obiettivo di costituzione di una sinistra "che metta insieme non solo i partiti, ma tutto ciò che vive in un Paese come l'Italia e che si configura come una sinistra di critica all'ordine esistente, che pensa a un diverso modello sociale, a diverse forme di democrazia. Queste forze critiche, queste che si chiamano sinistra radicale nella politica e nella società, devono darsi un'unità perché è l'unico modo per fare valere le proprie ragioni".
"Perché oggi interessa De Martino? - si è chiesto in ultimo il presidente della Camera-. Nel suo testamento -spiega-, ci ha detto chiaramente: "Credo nella qualità del socialismo". Già questo basta a spiegare una vita". E la conclusione del suo ragionamento fissa delle coordinate ben precise: "Al di là del fascino della sua figura, De Martino mi interessa per tre cose: la qualità del socialismo, il tema dell'unità della sinistra, la temperie culturale marxiana".
Guardare al passato, per costruire un altro futuro.

Liberazione 2.12.07
Se ci sarà la legge elettorale si aprono scenari nuovi e vitali
di Ritanna Armeni


E ora che l'accordo fra Veltroni e Berlusconi è stato raggiunto che cosa si può immaginare? Quali scenari si possono disegnare per i prossimi mesi? E questo accordo come influirà sulla vita di una sinistra radicale che cerca l'unità e prova a dar vita a una forza politica nuova?
Il comportamento ottimista e rilassato di Veltroni e Berlusconi dopo l'incontro di venerdì non era di facciata, non indicava solo un buon inizio di discussione, bensì un accordo quasi completamente raggiunto e la convinzione che avrebbe ricevuto il placet degli altri partiti.
Non è stato annunciato per motivi di diplomazia, ma i suoi termini sembrano chiari: proporzionale, soglia di sbarramento al 4 o al 5 per cento. Discussione sul premio di maggioranza che può essere o del tutto eliminato o può arrivare a valori non esorbitanti come il tre per cento. Modello in sostanza tedesco, mettendo da parte le previste correzioni spagnole. Questo accordo è apparso anche a coloro che fino ad oggi sono stati sostenitori del maggioritario l'unico modo per uscire da un impasse politico che rischia di provocare danni enormi al sistema politico e istituzionale. Il sistema elettorale proporzionale avrà come conseguenza che alle prossime elezioni le forze politiche si presenteranno ai blocchi di partenza con le stesse opportunità, la loro rappresentanza sarà conseguente alla forza elettorale effettiva. Formerà il governo il partito che avrà maggiore forza elettorale e questo riceverà probabilmente (ma non è detto) un premio che faciliterà la governabilità ma non dovrebbe schiacciare né l'opposizione né gli alleati.
Si aprono, se così sarà, scenari nuovi, non ancora certi, ma almeno vitali.
Intanto si otterrebbe il risultato di cancellare il referendum elettorale che senza accordo si sarebbe svolto nella prossima primavera. Un referendum inviso ai partiti minori che dalla nuova legge elettorale sarebbero stati cancellati o costretti ad alleanze forzose.
In secondo luogo dà respiro al governo Prodi. Non sappiamo quanto, ma, se è vero che per fare le riforme occorrono almeno dodici mesi, per questo periodo di tempo l'opposizione impegnata nelle riforme probabilmente si asterrà da spallate, agguati, richiesta di elezioni anticipate e via discorrendo. Per la maggioranza sarà una boccata di ossigeno dopo un anno e mezzo di vita travagliata.
In terzo luogo è ragionevole attendersi che in questi mesi assisteremo ad un cambiamento dei rapporti fra i partiti, al formarsi di nuove aggregazioni. Se il Partito democratico ha ormai intrapreso il suo percorso per affermarsi come partito maggioritario delle forze riformiste, se il Partito della libertà, appena nato, sia pure teatralmente, darà il via ad un forza politica che non necessita della Casa della libertà, anche altre forze tenteranno nuovi percorsi. Assisteremo quasi sicuramente alla nascita di un'aggregazione di centro nella quale attorno all'UDC di Casini potrebbero confluire le forze moderate che non si riconoscono né nel partito di Veltroni, né in quello di Berlusconi, da movimenti e associazioni cattoliche a imprenditori.
E auspicabilmente potremo assistere finalmente alla nascita della "cosa rossa", l'unione delle forze della sinistra radicale che hanno in questi mesi di governo condotto una significativa battaglia per spostare a sinistra l'asse dell'esecutivo.
Se questa sarà la tendenza è possibile che alle prossime elezioni si presentino sei formazioni in grado di superare la soglia di sbarramento: il partito democratico, il partito della libertà, un partito di centro, la lega, Alleanza nazionale e la "cosa rossa". Non si tratta solo della semplificazione politica di cui parlano i politologi, ma del chiarimento nel quadro politico delle opzioni e dei riferimenti culturali.
Rimane da rispondere all'ultima, e per il lettori di Liberazione , più importante domanda. Ci sono vantaggi per la sinistra? Secondo me sì e almeno per tre motivi.
Intanto perché è passato il sistema proporzionale. In un paese come l'Italia, da oltre 15 anni sottoposto ad una campagna culturale e politica che vedeva nel sistema maggioritario, nella eliminazione delle formazioni politiche "estreme", non allineate, nella concentrazione del potere e del governo nelle mani di pochi la salvezza da tutti i mali della politica e dell'economia, la vittoria di una cultura e di un sistema elettorale proporzionale, il depotenziamento del referendum, sono anche una vittoria di questa sinistra che l'ha sempre sostenuto. Dimenticarlo denota una sindrome vittimista di cui sarebbe bene liberarsi.
In secondo luogo perché la riforma elettorale agevola la nascita della Cosa rossa, invita ad eliminare dubbi, a superare inevitabili travagli; rende meno forti ostacoli burocratici. Introduce in sostanza nuovi elementi di dibattito politico e fa, speriamo, da levatrice ad una spinta forte presente nel popolo della sinistra, che ancora non riesce ad imporsi. L'assemblea dell'8 e 9 dicembre si svolge ora in un contesto più favorevole. Quale sarebbe stato il clima politico senza la prospettiva di una riforma elettorale proporzionale e magari con la certezza del referendum?
In ultimo, e non per ultimo, il motivo più importante. Il nuovo quadro politico che si sta delineando non solo sollecita e rende quasi necessaria la nascita della "cosa rossa", ma agevola la costruzione del progetto politico della sinistra, rende più libero il dibattito sulla identità e le scelte della nuova formazione politica. Sappiamo tutti, e non possiamo nascondercelo che essa ha avuto molte difficoltà e ha subito qualche consistente battuta d'arresto. Sappiamo che la battaglia condotta per evitare uno spostamento moderato e filoindustriale del governo Prodi ha incontrato ostacoli difficilissimi. Sappiamo che questo ci ha fatto sentire in un vicolo cieco: uscire dal governo Prodi e tornare all'opposizione favorendo comunque in questo modo un ulteriore spostamento a destra del paese o rimanere al governo accettando i diktat moderati e quindi rinunciare alle propria identità?
Oggi siamo tutti più liberi. Le prospettive che si aprono ci consentono di continuare una battaglia nel governo e nella società sapendo che non ci sarà alcun legame di coalizione, che non ci saranno costrizioni e punizioni maggioritarie. La sinistra può costruire il suo avvenire liberamente. Il futuro torna nelle sue mani. E questo non è poco.

Liberazione 2.12.07
Intervista al segretario di Rifondazione Comunista dopo gli incontri politici di questi giorni.
Giordano: «Le riforme? Le fa il Parlamento. La verifica di gennaio si farà. E sarà vera»
di Stefano Bocconetti


«Dopo la sbornia maggioritaria qualcosa si sta muovendo
e sono in molti ormai ad aver capito la necessità del proporzionale».
Al lavoro per una nuova cultura politica che uscirà dagli Stati Generali della Sinistra

C'è chi insiste sul clima dell'incontro, chi si azzarda a disegnare nuovi scenari. Chi ne analizza i toni, chi addirittura "pesa" gli aggettivi utilizzati nelle conferenze stampa. Comunque sia, i giornali e i media sono pieni dell'incontro fra Veltroni e Berlusconi. Tu che idea ti sei fatto del primo "faccia a faccia" fra i segretari dei due nuovi partiti?
«Non voglio enfatizzare ma è importante che si sia discusso della legge elettorale». Franco Giordano non si unisce, insomma, al coro di chi ha visto in quell'ora di colloquio l'inizio di chissà che cosa. Però ne coglie le novità.

Perché lo definisci "importante"?
Perché potrebbe essere l'inizio di un percorso per arrivare a disegnare una nuova legge sul sistema di voto. E a superare così definitivamente il problema referendum.

Una riforma che proponga un sistema proporzionale?
La strada è quella. E detto fra di noi, mi sembra divertente vedere tanti leader che, passata la sbornia maggioritaria, ora tornano a parlare della necessità del proporzionale. Meglio tardi che mai.

Domanda un po' grezza: ma non pensi che l'incontro, le belle parole dette lì, possano far parte del teatrino della politica? Non pensi, insomma, che alla fine salti fuori ben altra riforma rispetto a quella di cui si parla in queste ore?
Naturalmente so bene che più si va avanti e più ci sarà il rischio che qualcuno, o più di qualcuno, pensi ad un modello elettorale cucito su misura per il proprio partito. Ma proprio per evitare tutto questo, proprio per evitare che il tema sia appaltato alle maggior forze politiche, dobbiamo tutti chiedere che la parola torni al Parlamento.

Una volta lì che accade?
Sono convinto che ci siano condizioni per realizzare una significativa maggioranza che ridisegni il sistema elettorale sul modello tedesco.

Dalle cose che dici sembra che tu conosca già il testo definitivo di questa legge, è così?
No, ti assicuro, non c'è ancora un testo definitivo. E penso che dovremo ancora lavorare molto: perché non si può immaginare un modello tedesco e poi disegnare minuscoli collegi che premino solo le piccole formazioni, radicate in alcune zone del paese. Riducendo invece la rappresentanza nazionale di altre forze politiche. Non si può, insomma, parlare di sistema tedesco e poi immaginare dei collegi studiati solo per ridurre la sinistra. No, non lo permetteremo.

Ammettiamo che la riforma si faccia presto e bene. Dopo che succede?
In che senso?

Che accade? Si vota? Prodi lascia?
Abbiamo chiesto una verifica a gennaio. Ne ho parlato anche con Napolitano. L'abbiamo detto e lo ripetiamo: vogliamo una verifica. Vogliamo arrivare a definire un nuovo vincolo politico. Se ce ne sono le condizioni.

"Verifica" e legge elettorale hanno qualcosa in comune?
Guarda, la "verifica" col resto della maggioranza avrà temi e contenuti precisi. Ma è evidente che tutto questo si intreccia con la legge elettorale. Sì, insomma a gennaio si capirà se c'è la possibilità o meno di imporre una svolta. Nelle scelte del governo e nell'organizzazione del sistema politico.

Qualcuno, anche dentro Rifondazione, era però convinto che per accelerare questa verifica sarebbe stato più utile non votare la fiducia.
Invece abbiamo fatto bene a votare sì. Altrimenti dal primo gennaio sarebbe scattata la mannaia dello scalone. E dal nostro comportamento sarebbero derivate scelte penalizzanti per i lavoratori. E si sarebbero vanificati quel po' di effetti redistributivi della legge finanziaria. Senza parlare di un'altra conseguenza...

Quale?
Che la situazione sarebbe precipitata. Con esiti disastrosi. Perché avrebbe creato una frattura irricucibile col resto della sinistra. Tutto questo, però, non cambia di un millimetro il nostro giudizio negativo sul protocollo welfare. Di più: non cambia di una virgola la nostra denuncia sul comportamento poco libero del governo. Che mai come in questa fase ha dimostrato tanta dipendenza nei confronti della Confindustria. Per questo ho parlato di vincolo sociale e non politico del nostro voto.

Avete votato sì ma il provvedimento non vi piace. Come se ne esce da quest'empasse?
Esattamente facendo ripartire la verifica dal tema della precarietà, dagli strumenti per sostenere il reddito di chi sta alla base della piramide sociale. Verifica vera, insomma. Nella quale dobbiamo strappare risultati. Concreti, tangibili. Sappiamo, per esempio, che nella finanziaria si sta studiando il modo per inserire un fondo che consenta di detassare gli aumenti contrattuali...

Misura giusta?
Sì, ma è ancora poco. Troppo poco. Mi dispiace per i nostri interlocutori ma stavolta vogliamo di più. Molto di più: misure di redistribuzione, soldi per la ricerca e la formazione, iniziative che disegnino un altro modello di sviluppo. Vogliamo quei diritti civili che alcuni settori della maggioranza continuano a voler negare. Vogliamo risultati. E sulla base di questi, valuteremo la nostra collocazione politica.

Ma a gennaio dovrebbe già esserci un altro soggetto, quello della sinistra? Non è così?
Quando dico che valuteremo proprio a questo mi riferisco. Noi di Rifondazione lo faremo con una consultazione ampia, in cui il nostro "popolo" sarà chiamato anche a decidere le priorità della verifica. Le modalità di questa consultazione le definiremo già domani, in direzione. Ma un bilancio di questa verifica la faremo anche tutti insieme, a sinistra. E decideremo tutti insieme.

Se proprio vogliamo dirla tutta, però, sul protocollo la sinistra non ha votato allo stesso modo?
Ti riferisci al non voto dei comunisti italiani? L'abbiamo detto tutti: è stata una scelta di differenziazione sbagliata. propagandistica. Attuata da chi, oltretutto, sapeva benissimo che il proprio comportamento non avrebbe avuto conseguenze. Un errore. Un brutto errore.

Ed ora che accade?
Che bisogna fare in fretta a stringere. Rischiamo grosso, non so se tutti l'abbiamo capito. Stretti fra un populismo che si traveste da antipolitica ma che può diventare affascinante per pezzi di popolo e un partito democratico, tecnocratico ed elitario. Bisogna fare presto a costruire un soggetto unitario e plurale. Che sappia essere efficace ma che sappia anche innovare la sua politica culturale.

In pillole che vuoi dire?
Voglio dire che l'8 e il 9 dicembre, quando daremo vita agli stati generali della sinistra, non dovremo solo decidere la forma unitaria che si vogliono dare alcune forze politiche. Dovremo riuscire a mescolare, davvero, storie, culture, percorsi diversi. Insomma, la democrazia di genere, il femminismo, la lotta di classe, il pacifismo, l'ambientalismo, i movimenti gay o quelli che si battono per liberarsi dall'oppressione dei brevetti non devono semplicemente sovrapporsi. Uno al fianco dell'altro. No, devono dar vita ad una nuova cultura politica. Nuova.

Una nuova cultura, nell'immaginario di tutti, si rappresenta anche con un nuovo simbolo. O no?
E infatti ci sarà un nuovo segno grafico. E dovremo farlo valere subito, fin dalle prossime elezioni. Qualunque esse siano.

Domanda diretta: ma Rifondazione, tutta Rifondazione è sul serio convinta della necessità di questa svolta?
All'ultimo comitato politico nazionale abbiamo registrato una maggioranza amplissima. E naturalmente andremo al congresso dove ognuno potrà liberamente esprimere le sue opinioni. Anche se io sono convinto che l'accelerazione verso il soggetto unitario sia nei fatti...

Nella paura di essere stritolati fra Berlusconi e Veltroni?
Ma no. Penso a qualcosa che vada al di là del contingente. Penso al fatto, per esempio, che anche in questo periodo l'Europa, tutta, è scossa da enormi movimenti sociali. La battaglia dei precari in Portogallo, l'esplodere della questione giovanile in Francia, il 20 ottobre da noi. Eppure, questi fenomeni sociali non riescono ad incontrare la politica. Non riescono ad incontrare la sinistra. Sì, una nuova sinistra è necessaria proprio per realizzare questo scatto, un nuovo rapporto fra la conflittualità e la rappresentanza politica.

L'ultima cosa, segretario. Si dice che hai qualcosa da rimproverare a Liberazione. E' vero?
Diciamoci la verità: ci sono stati passaggi, in questi mesi, in queste settimane, anche passaggi delicati, in cui c'è stata difficoltà a rendere pubblica la nostra impostazione politica. Insomma, le posizioni di Rifondazione non c'erano sui giornali. Neanche su Liberazione. Credo che sia giusto dire queste cose. Muovo una critica, insomma, fermo restando che rispetto, e rispetterò sempre, la sua autonomia. Ma con un quotidiano come il nostro mi piace avere un rapporto vero. Sincero. Come si usa fra compagni che si stimano.

Liberazione 2.12.07
Stati Generali. un nuovo inizio? Dipende
di Rina Gagliardi


Non so quando, e a che proposito, sia venuta in uso la dizione di Stati Generali ad indicare eventi politici, sociali o culturali di una certa solenne importanza

N on so quando, e a che proposito, sia venuta in uso la dizione di Stati Generali ad indicare eventi politici, sociali o culturali di una certa solenne importanza. Eventi, cioè, caratterizzati dalla volontà di rappresentare un "mondo" nel suo insieme e nelle sue singole parti, nella sua generalità, appunto, e nelle sue articolazioni, nella sua complessità come nella sua interezza - perfino completezza. Sta di fatto che, da un certo punto in poi, fino ai nostri giorni, gli Stati Generali hanno cominciato a dilagare: solo in questo autunno, anzi in questo mese di novembre, se ne sono tenuti almeno una dozzina, come, tra gli altri, per citare i più politicamente significativi, quelli della cooperazione e solidarietà internazionale, quelli della sostenibilità, promosso dalla regione Toscana, quelli del Terzo Settore - ma anche, per dire, quelli delle donne Udc, quelli delle piccole e medie imprese, quelli del vino, quelli del rock piemontese. E altrettanti ne sono annunciati a venire - a Torino il sindaco Chiamparino ha annunciato i prossimi stati generali della città, per costruire un progetto adeguato di futuro per la ex-capitale dell'automobile. Una tale inflazione di Stati Generali, certo, rischia di depotenziarne il senso e di ridurne via via la portata, quella natura speciale che li distingue dai convegni, dai meeting e dalle assemblee. Tuttavia, il fascino - il valore - di questa dizione non è ancora del tutto andato perduto. Ogni volta che si convocano Stati Generali - anche i più piccoli - si comunicano, quantomeno, un'intenzione, un messaggio, una volontà non ordinarie. Si sottintende il bisogno di unire quel che c'è, tutto quel c'è di reale e di vitale, in un certo settore, campo di attività, giardino di idee. E di andare possibilmente oltre. E di iniziare una fase nuova. Naturalmente, la verifica della bontà dell'intento non potrà che essere ex-post, come si usa dire. Ci sono, anche nelle cronache recenti, Stati Generali che non sono stati nient'affatto generali - come per esempio quelli della scuola, ai tempi del governo Berlusconi, voluti con inusitata pomposità dalla ministra Moratti e rivelatisi un flop. O, al contrario, Stati Generali che hanno segnato una tappa significativa nella vita e nella cultura dei movimenti - come quelli dell'antimafia, tenutisi a Roma un anno fa. Insomma, dipende. Dipende non solo dall'impegno (in forze, energie, persuasione, intelligenza) che viene effettivamente profuso nella costruzione dell'evento, ma anche, se non soprattutto, dalla sua capacità di incontrare davvero il tempo giusto, e di diventare credibile, produttivo, ricco.
Vale, questa specie di legge, anche per gli ormai imminenti Stati Generali della sinistra. Potrebbero essere, sì, un "nuovo inizio", l'avvio di un'altra storia. Potrebbero perfino, essere un (piccolo) fatto rivoluzionario. Dipende. Dipende, anche, se non soprattutto, da quanto essi - gli Stati Generali della sinistra - riusciranno a sfuggire al controllo e a vivere di vita propria. A smentire le scontatezze, le ritualità, i riti dell'anti-ritualità, le facili previsioni, insomma le logiche tradizionali della politica e dell'antipolitica. Ad accendere, alla fin fine, una scintilla - piccola, forse, ma una scintilla vera, una luce che, prima, non si vedeva o non riusciva a prendere chiarezza. E' mai successo davvero, nella nostra storia? Ma sì, quel 5 maggio del 1789 accadde proprio questo.
***
Nulla autorizzava a pensare che quel ritorno degli Stati Generali - che non erano più stati convocati dal 1614 - avrebbe così radicalmente cambiato la faccia della Francia, dell'Europa e della modernità. E' pur vero che, concretamente, la rivoluzione di Francia era cominciata, da un pezzo, e da un pezzo era drammaticamente acuita da una crisi sociale senza precedenti, nonché da una catastrofica crisi finanziaria. E' vero che l' ancièn règime era ormai arrivato alle soglie dell'implosione: che era cioè un'architettura abbondantemente marcescente, con un monarca assoluto, una classe di parassiti (i nobili e l'alto clero) che viveva, poche migliaia di privilegiati, sulle spalle e il lavoro di milioni e milioni di persone, un diritto fermo ai secoli del feudalesimo, e non poteva più reggere nel Paese che aveva nel frattempo prodotto l' Encyclopedie , riscoperto il diario dell'abate Meslier, messo in scena le commedie di Beumarchais, lanciato il grido di Emmanuel Syeyès («Che cos'è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa ha rappresentato fino ad oggi nell'ordine politico? Nulla. Che cosa chiede? Di diventare qualche cosa»). Eppure.
Vedete come la "astuzia della ragione storica" si incarica di operare, anche di nascosto, anche quando le condizioni concrete sembrano tutte congiurare per svilire un evento, o ridurlo ai minimi termini? Il re di Francia, per quanto irresoluto, conservatore, pauroso, aveva bisogno come il pane che il popolo - il popolo borghese, quello che aveva o ricchezza o cultura - si mobilitasse per salvare il suo regno dalla bancarotta: perciò, per convocare gli Stati Generali, scrisse una "lettera preliminare", colma di affetto per i suoi «fedeli sudditi», e densa di promesse «di felicità e prosperità», che nel febbraio dell'89 fu letta in tutte le parrocchie di Francia, «come un'omelia», racconta lo storico Winock. Milioni di francesi furono spinti all'entusiasmo e alla partecipazione: sembrava finalmente venuto il momento in cui i problemi - gravi e gravissimi - che affliggevano il Paese potevano essere affrontati, discussi, risolti. Milioni di persone, diversissime l'una dall'altra per condizione sociale e culturale, ma accomunate dal fatto di aver compiuto venticinque anni, di essere di sesso maschile, e di «essere compresi nei ruoli d'imposta», si gettarono a capofitto nell'impresa: parrocchie, borghi, comuni, città, baliaggi primari e baliaggi secondari, siniscalchie, corporazioni erano i luoghi dove riunirsi, per redigere i propri cahier de doléances ed eleggere i propri deputati agli Stati Generali. Con quali regole? Non c'erano, od erano pochissimo chiare - così come non era chiara la geografia della Francia dell' ancièn régime che confondeva spesso i confini delle province e l'appartenenza delle parrocchie. Quanti dovevano essere i rappresentanti da eleggere? Con quanti e quali gradi? Con norme univoche, che valevano per tutti e dovunque, oppure con una differenziazione che rispettava le specificità locali, tra comunità d'election e pays d'Etat ? Con quale sistema si doveva procedere al voto, segreto o palese? Interrogativi che furono alla fine risolti sulla base del regolamento regio, e della sua creativa interpretazione - era la scoperta di una cosa nuova, la democrazia, ed era la ricerca del suo corollario principale, la costruzione di forme e di regole. Ma, soprattutto, era il Re in persona a sollecitare tutto questo: «Sua Maestà desidera che, fin dalle terre estreme del suo Reame e dalle più umili abitazioni, a ciascuno sia consentito di poter far giungere fino a Lei i suoi voti e i suoi reclami». Parole di fuoco, pur redatte e diffuse da un uomo dedito più che ad ogni altra cosa al piacere della caccia, che però si imprimono nella testa di tutti, anche dei più diseredati, e li spingono alla lotta. «Stroncando l'ingiustizia, essi realizzano la parola del re, o così credono», scrive Albert Mathiez. «La politica, come dice Madame de Stael, è un campo nuovo per l'immaginazione dei francesi: ciascuno si lusinga di recitarvi una parte, ciascuno vede uno scopo per sé, nelle possibilità moltiplicate che si annunciano dappertutto».
E' in questo clima di straordinario fervore che si svolge la campagna elettorale, nei primi mesi dell'anno, ci si scontra sulle prerogative dei tre ordini, si eleggono i deputati, matura la coscienza del Terzo Stato di essere lui - loro, i borghesi - il vero autentico rappresentante della Nazione. Quelle che si svolgono, a pensarci un paio di secoli abbondanti dopo, sono primarie diffuse, capillari, inconsapevoli, che coinvolgono quasi ogni più piccolo angolo della Francia, scoprono i propri leader locali nelle schiere di giuristi e avvocati che affollano il "partito patriottico" (tra di essi, nell'Artois, un piccolo avvocato che difendeva i poveri e si distingueva per gli attacchi ai nobili, che si chiamava Massimiliano Robespeierre) , dividono i curati di campagna dai vescovi e una pattuglia di aristocratici liberal dai nobili conservatori, accumulano una impressionante marea di analisi e proposte concrete - come di speranze. Alla fine, dai diversi "grandi elettori" dei baliaggi, esce una nuova, gigantesca assemblea: millecentocinquaquattro deputati, 291 del clero, 285 della nobiltà, 578 del Terzo Stato. Quelli che andranno a Versailles, per gli Stati Generali.
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Ma seguiamo ancora l'astuzia della ragione storica. Quel 5 maggio cominciò malissimo, con una cerimonia d'apertura che apparve una pietra tombale su tutte le attese, le ansie, gli entusiasmi. Tutto il cerimoniale era studiato per mantenere, fin nelle minuzie fisiche, la separazione tra i tre ordini: nobili e clero vennero ricevuti in pompa magna dal re, nel suo gabinetto, quelli del Terzo Stato, costretti ad una lunghissima attesa e ad una coda interminabile, vennero fatti passare da una porticina secondaria, e si limitarono a sfilare di corsa per la camera da letto del monarca. Tutti costretti a vestirsi di nero - una specie di costume ufficiale, che doveva sancire la visibile "minorità" dei borghesi rispetto agli sfavillanti costumi degli ordini privilegiati. Poi, di fronte a loro, dopo essersi fatto attendere per ore, Luigi XVI pronunciò un breve discorso che diffidava i deputati da ogni pretesa di innovazione e li invitava, al tempo stesso, ad aprire i cordoni della borsa. A seguire, fu Necker (il Padoa Schioppa dell'epoca) a parlare: tre ore di cifre, numeri, di deficit, di tagli alla spesa pubblica. Ma forse fu proprio questa cattiva accoglienza a far scattare la molla decisiva. Se il re e i suoi ministri non parlavano di politica, sarebbero stati loro - i Comuni, questa era il nuovo nome che il Terzo Stato si dette - a impadronirsene, della politica. La sera stessa del 6 maggio i deputati del Terzo Stato si riunirono, provincia per provincia: i bretoni con Chapellier e Lanjunais, quelli dell'Artois con Robespierre, quelli del Delfinato attorno a Mounier e Barnave - e via via, scoprendo che il primo obiettivo erano le procedure, la "verifica dei poteri", cioè della validità delle elezioni, da realizzarsi in un'unica assemblea, insomma l'abbattimento di quella barriera "innaturale" che separava i deputati delle caste alte da quelli delle nuove classi borghesi e popolari. Chi ha detto che le regole non sono nulla e che la sostanza è tutto? Nello spazio di pochissime settimane, dopo estenuanti e vane trattative, il Terzo Stato maturò, proprio su regole e procedure, una nuovissima consapevolezza di se stesso e del suo ruolo storico: il 12 giugno i deputati "comuni" iniziarono da soli la verifica dei poteri e procedettero all'appello di tutti i componenti l'assemblea degli Stati Generali. Il giorno dopo, tre curati del Poitou (Lecesve, Ballare e Jallet) abbandonarono l'assemblea dell'ordine clericale e fecero il loro ingresso, tra gli applausi, nel grande salone dove era riunito il Terzo Stato - furono seguiti, pochi giorni dopo, da altri sedici parroci. La resistenza dei nobili, che pretendevano fino all'ultimo di far valere il voto per ordine invece che per testa, durò ancora qualche giorno. Ma, pensate, che cosa escogitò il piccolo Luigi XVI per annullare e bloccare il movimento: la sera del 19 giugno, dopo aver decretato l'annullamento di tutte le delibere del Terzo Stato, ordinò la chiusura della sala in cui esso s'incontrava, a causa di improvvisi e ineludibili lavori di ristrutturazione. Un mezzuccio meschino? Sì, certo. Ma da quel mezzuccio, la mattina successiva, consegue nientemeno che il giuramento della Pallacorda: nasce l'Assemblea Nazionale, nasce la Francia della libertè, egalitè, fraternitè. Tutto era già cominciato, tutto era destinato a svolgersi con velocità febbrile, bruciando mediazioni, resistenze, forze preponderanti, sconfitte tattiche. E scoprendo, quasi subito, il Quarto Stato, o incomodo, il popolo di Parigi insorta. La sera del 14 luglio 1789, la lunga gloriosa e violenta giornata della presa della Bastiglia, Luigi XVI scrisse sul suo diario: Rien . Niente.
***
No, non credo che gli Stati Generali dell'8 e del 9 dicembre 2007 possano produrre un fuoco paragonabile a quello che si accese quel 5 maggio del 1789. Eppure, non sarebbe male tenere quell'evento nella mente e nella memoria, non per nostalgie o goffi esercizi mimetici, non per riscoprire chissà quali irripetibili modelli, ma per sapere, molto più semplicemente, che ci sono processi reali che hanno ragione di mille miserie, e di mille apparenti "impossibilità". Che c'è sempre una possibilità di andare davvero oltre, quando si convocano gli Stati Generali. Dipende…

il manifesto 2.12.07
La monade che mosse guerra all'ottico di Amsterdam
«Il cortigiano e l'eretico. Leibniz, Spinoza e il destino di Dio nel mondo moderno». Una sottile disputa filosofica trasformata da Matthew Stewart in romanzo
di Roberto Ciccarelli


A memoria d'uomo, le lotterie non hanno mai premiato il visionario costruttore di città utopiche o il medico che avrebbe voluto fondare un ospedale per sconfiggere il male del secolo. Di solito, la fortuna è cieca e premia soltanto chi ha un sogno per sé stesso: una villa con giardino, un fondo pensione milionario, un'automobile all'ultimo grido, oppure la filosofia. È lo strano, e divertente, caso del filosofo Matthew Stewart che ha imparato dai suoi maestri dell'università di Oxford a diffidare della provvidenza divina e a puntare tutto sulle proprie capacità auto-imprenditoriali. Il suo prestigioso dottorato gli è servito ad avviare una lucrosa attività di consulente d'impresa e a sfruttarne i guadagni per dedicarsi alla «vita contemplativa» della scrittura filosofica, senza rinunciare ai sogni che talvolta fanno felici gli uomini.
A riprova della fortunata vena di Stewart, forse ispirata alla serietà umoristica del Wittgenstein rappresentato dal regista inglese Derek Jarman nel suo omonimo film, ci sono due libri. Il primo è The Truth About Everything: An Irreverent History of Philosophy: With Illustrations, una perlustrazione di duemila anni di storia filosofica che ricorda Il senso della vita dei Monty Python. Il secondo, a disposizione del lettore italiano, è Il cortigiano e l'eretico. Leibniz, Spinoza e il destino di Dio nel mondo moderno (Feltrinelli, pp. 326, euro 25). Con questo libro, Stewart è riuscito nell'ardua impresa di trasformare una sottile, ma sostanziale, disputa sull'esistenza di Dio che divise Spinoza e Leibniz nel 1676, in una feroce guerra ideologica e politica. Nel suo romanzo filosofico, Stewart restituisce l'immagine di due uomini del nostro tempo, descrivendone vividamente le abitudini, le idiosincrasie e i rapporti con il potere.
Leibniz è l'affascinante cortigiano di Hannover che seppe trasformarsi nel filosofo dell'uomo comune. Stewart ne apprezza il lavoro prolifico e le raffinatezze matematiche, in particolare la scoperta del calcolo infinitesimale che umiliò Newton. Il genio non fu superiore alle debolezze del cortigiano, il cui carrierismo indusse alla continua ricerca di sempre nuovi ingaggi da parte dei principi regnanti, anche per dimenticare l'avidità dei parenti che gli sottrassero l'eredità. Spinoza, figlio di ebrei portoghesi migrati in Olanda, in giovane età vide l'azienda paterna fallire. Scelse di fare l'ottico, con esiti discreti, lontano dalle cattedre e dalle corti. Uomo che sapeva bastare a se stesso, Spinoza inquietò i grandi spiriti dell'Europa. La sua eresia è stata premiata sotto forma di successo postumo.
Le eredità del cortigiano e dell'eretico sono ancora riconoscibili. I leibniziani dei nostri giorni scomunicano il «relativismo morale», il diritto alla critica e alla differenza. Pensano che esista un aspetto essenziale dell'esperienza che sfugge all'intelligenza umana. Fanno appello ad una giungla di nomi per riempire questo vuoto pneumatico: Essere, Vita, Assoluto, Volontà e Razionalità sino ad arrivare all'«anima immortale» o alla «monade» di Leibniz. Gli spinozisti, invece, rinunciano alla grancassa di queste maiuscole che invocano il divino. Sono sobri e radicali, sanno che nella vita non c'è nessun mistero insondabile e che la salvezza è in questo mondo, basta andarla a scovare tra le sue infinite pieghe. È probabile che questa salvezza non corrisponda al biglietto vincente venduto al libero pensatore, ed imprenditore, Matthew Stewart. L'immanenza assoluta della vita non la si pesca nel bussolotto, ma sta nell'aria del tempo che si respira.