Armeni «normalizza» Sansonetti sulla legge elettorale
Liberazione ieri esaltava gli scenari «nuovi e vitali» della futura riforma. Due giorni fa il direttore parlava di spartizione
di e.d.b.
LA NOTTE ha diradato le nubi. E Liberazione, giornale vicino a Rifondazione Comunista, che giusto ieri vedeva una mera spartizione di potere nell’incontro tra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi («Il modello Veltrusconi: così si spartiranno il potere», titolava in apertura in quotidiano diretto da Piero Sansonetti), il mattino dopo coglie scenari nuovi. Anzi, per dirla con Ritanna Armeni, «nuovi e vitali».
Il giorno dopo è il segretario del Prc Franco Giordano, nell’intervista che apre il giornale, a tarare la posizione del partito: «Non voglio enfatizzare ma è importante che si sia discusso della legge elettorale». Giordano coglie principalmente un aspetto positivo dell’incontro tra i due big. E il giornale che giusto ieri suggeriva «dodici mesi sono anche un tempo sufficiente per far saltare questo progetto di monocolore che chiamano “nuovo bipolarismo”. Può saltare. Anche perché i protagonisti sono quello che sono. Ed è difficile che i libri di storia si ricorderanno di loro», oggi immagina (questo afferma Giordano): «Potrebbe essere l’inizio di un percorso per arrivare a disegnare una nuova legge sul sistema di voto. E a superare così definitivamente il problema del referendum».
Insomma la tattica e la strategia suggeriscono entrambe di non tirare la corda col segretario del Pd. E di rilanciare la propria azione politica in Parlamento e Consiglio dei ministri.
Le parole magiche che cambiano la prospettiva, erano d’altronde emerse chiaramente dall’incontro Veltroni-Berlusconi: sistema elettorale proporzionale. È questo lo scenario «nuovo e vitale» per il quale Armeni prevede un futuro magnifico: «Il sistema elettorale proporzionale avrà come conseguenza che alle prossime elezioni le forze politiche si presenteranno ai blocchi di partenza con le stesse opportunità, la loro rappresentanza sarà conseguente alla forza elettorale effettiva».
I dodici mesi necessario alle riforme, in cui fino al giorno prima si doveva «far saltare» il «progetto monocolore» diventano per il governo «una boccata d’ossigeno dopo un anno e mezzo di vita travagliata» e un’opportunità per far crescere la «cosa rossa». Insomma, postula Ritanna Armeni, «oggi siamo tutti più liberi». Liberi mentre, si immagina, gli altri si «spartiscono il potere».
l’Unità 3.12.07
PRC. Giordano contro Blair: «Un conservatore»
Da Lamezia Terme, Franco Giordano, segretario del Prc, attacca l’ex primo ministro britannico Tony Blair, che in un’intervista alla Stampa di ieri aveva indicato nelle componenti radicali dell’alleanza di centrosinistra, il motivo per cui in Italia non si erano fatte le riforme. Giordano risponde per le rime: «Le riforme di Blair sono state l’invasione dell’Iraq, la guerra, il taglio drastico del welfare ed una esagerata conflittualità sociale. Queste sono le classiche ricette dei conservatori, ed infatti Blair è un conservatore. Se il Partito Democratico ha intenzione di fare come Blair, si accomodi pure». Sul versante della «Cosa rossa» il segretario del Prc ha dichiarato che è il momento di accelerare: «I tempi sono stretti. Bisogna costruire al più presto una alternativa, da affidare a una sinistra che abbia più culture, quella pacifista, quella laica, quella ambientalista».
l’Unità 3.12.07
“la striscia rossa” di prima pagina: «Come vede il governo Prodi?
“Si dice di sinistra, ma è composto in parte da ex Dc, ovviamente cattolici, ma mi sorprende che persone storicamente di sinistra siano sempre un po’ piegate in un compromesso costante col Vaticano. Lo trovo un errore perché crea confusione e una mancanza di identità forte che manda allo sbando l’elettorato”» Giovanna Mezzogiorno, Io Donna, 1 dicembre 2007
l’Unità 3.12.07
Se questa è una donna
di Maurizio Chierici
Ingrid Betancourt ha scritto alla madre e ha dovuto mettersi in posa per dimostrare di essere viva... e ora comincia l’intrigo che in queste ore ne minaccia la vita. Non solo guerriglieri, ma gli equilibri di una regione condannata dal petrolio
Lei delinea una Colombia solidale, meno individualista, mai liberista, impegnata a difendere vita e dignità...
Se Uribe sperava che lo sfinimento della prigionia avesse disarmato l’antica rivale, è questa la risposta
Se questa è una donna. Pallore dei fantasmi sopravissuti ai lager di un’altra Germania. Filmato immobile. Non alza gli occhi, non muove le mani: pietrificata. Speriamo che un dolore così profondo non finisca nel mercato delle t-shirts: c’è chi lo suggerisce. Paradossalmente l’umiliazione della prigioniera racconta l’ultimo capitolo della sua speranza. Perché dopo la foto comincia l’intrigo che in queste ore ne minaccia la vita. Mai così in pericolo. Non solo guerriglieri vetero marxisti, paranoia feroce, ma le ambizioni dei grandi borghesi e gli equilibri strategici di una regione con la sventura del petrolio. Il lampo della cinepresa ne illude la felicità. Ingrid ha scritto alla madre e si è messa in posa per dimostrare di essere viva. Nessuna persona normale si mette in posa per dimostrare d’essere viva, eppure nei gironi dei sequestratori questa obbedienza è dovuta.
Ha sciolto i capelli. La treccia scende alle caviglie, quasi calendario del tempo di nessuno: la lunghezza degli anni vuoti sfiora la terra... Per mostrarsi ai figli e alla madre risveglia la vanità di donna che sdegnava il trucco, ma l’eleganza è una dimensione dello spirito e Ingrid Bertancourt recupera ciò che le è rimasto della dignità.
Forse si è guardata allo specchio prima di non guardare l’obiettivo mentre i pensieri attraversavano l’ultimo guado: nell’altra sponda la aspetta la vita di prima. Non immaginava che uniformi e politici di rango stavano preparando trappole per impedirle di tornare. Impossibile mediare con i signori del crimine. Dopo i campi di Hitler è venuta Norimberga. Nessun perdono o cambio di favori con la banda della tortura. Da combattere e sterminare, dottrina Bush. In fondo gli ostaggi sono polvere della storia. Un soffio e nessuno li ricorda. Mentre la cinepresa ne fissa l’immobilità, Ingrid non immagina che la vita pericolosa sta per diventare drammatica. Il presidente che se ne dichiara difensore non la vuole a Bogotà. Mentre mediazioni e diplomazie intrecciavano i sussurri, scombina le carte bruciandone la trama. Ingrid Betancourt che torna in scena è una tragedia insopportabile. Uribe lo ha impedito per cinque anni ma la situazione stava per sfuggirgli di mano.
Il ricordo di chi ha accompagnato Ingrid nella campagna elettorale 1998 impallidisce davanti alla immagine della signora sfinita nel bosco. Vederla ripiegata nel guscio delle persone che «hanno perso la vita», impossibile ritrovare la ragazza che scaldava gli elettori con polemiche ripetitive e noiose: «Ma che colpa ne ho se i notabili dei due partiti al potere continuano noiosamente ad alternarsi nella spartizione di privilegi e corruzione?». Voleva tagliare i legami tra narcos e politica. Aveva lasciato il marito a Parigi nei salotti della diplomazia. I figli studiavano attorno ai Campi Elisi. Bella casa, bella vita, grande borghesia: «Ma ogni volta che tornavo a Caracas mi stringeva il cuore. Non potevo far finta di niente, eccomi qua». Parlava agitando le mani, gli occhi si accendevano: progetti, speranze. Allegria contagiosa.
L’intervistatore ne era affascinato. Bellezza soffice: aveva 37 anni. Due settimane dopo diventa la senatrice più votata del paese. Smaschera le mani lunghe che devastano la Colombia nel libro La rage au coeur, rabbia nel cuore. Il titolo italiano ha il suono di un annuncio premonitore: Forse mi uccideranno domani. Fonda un partito per rompere il duopolio liberali- conservatori: Oxigeno non è un movimento verde ma «aria pulita per la gente che vota». Attacca il candidato alla presidenza Uribe e la sua sindrome di Washington. Accusa la Farc di affamare i contadini poveri che cinquant’anni prima aveva annunciato di proteggere dalle rapine di latifondo e multinazionali, invece li opprime nella paura con la multinazionale autarchica di chi fa pagare dazio alla produzione di coca. Sempre polvere bianca, dal parlamento alla rivoluzione che non vince e ingrassa. Minacce di morte, bombe sotto casa. Ingrid sa troppe cose. Anche i paramilitari della destra vicina all’Uribe che aspira a governare in solitudine, non la sopportano. Porta i ragazzi a Parigi e torna per parlare coi guerriglieri.
Nel febbraio 2002 affronta la corsa alla presidenza con la disinvoltura di chi non ha paura di niente. Va nei territori smilitarizzati per convincere l’esercito rosso della Farc a riacquistare la ragione. Parte da sola, cammino tortuoso fra le montagne attorno a San Vincente de Coquetà. La accompagna un’amica con la quale divide la speranza di cambiare la Colombia: Clara Rojas, candidata di Oxigeno alla vice presidenza. Il 23 febbraio 2002 finiscono nelle mani Farc e Ingrid diventa merce di scambio. I kmer rossi colombiani vogliono che Clara Rojas torni a Bogotà con le loro pretese: Ingrid da scambiare con 500 guerriglieri sotto chiave nelle prigioni di stato. Ma l’amicizia è un segno profondo. Clara non abbandona la compagna alla fine del mondo. Si innamora, nasce un bambino figlio dell’uomo che la tiene prigioniera: la sindrome di Stoccolama arriva nella foresta. Nella lettera scritta alla madre, Ingrid sospira. «Anche di Clara e del suo bebé non ho notizie». L’hanno isolata strappandole l’ultimo affetto. «La lontananza può trasformare un minuto di silenzio nella solitudine più lunga della vita», scrive Garcia Marquez in Notizie di un sequestro.
In febbraio la solitudine della Betancourt compirà sei anni, impossibile contare i minuti. La ragazza che non smetteva di parlare è costretta al silenzio e al disagio di essere la sola donna fra carcerieri che hanno 15 anni, stessa età dei militari che li inseguono. Fa il bagno vestita, dorme rannicchiata su un’amaca avvolta nell’ultimo giaccone. Le malattie di chi beve e mangia ciò che raccoglie lungo i sentieri la stanno spegnendo. Eppure nessuno ha davvero pietà. Nell’immagine della sopravvivenza ricorda le signore diafane che illanguidivano le tele primo novecento: quei ritratti dei pittori raccolti nel cenacolo della villa romana Strohl-Fern. L’ombra dei giardini dietro le poltrone. Ma la foresta di Ingrid non è il giardino sul quale si inteneriscono le penne dei salotti, e l’ombra della catena alla quale viene riagganciata quando si spegne la macchina da presa, racconta una vita senza pietà. Fino a quando?
È il problema che il presidente Uribe non ha voglia di risolvere. Anni prima della sconsolante telenovela degli ultimi giorni, i familiari della Betancourt e dei 600 ostaggi nelle mani Farc, polemizzano con la presidenza. Non vuole trattare, poi tratta. Vuol vincere con la forza, poi accetta le mediazioni, poi le cancella e fra un po’ le riaccende: ogni strategia è legata ad un filo segreto. Uribe preferisce che Ingrid Betancourt resti sepolta dov’è. E se la donna umiliata e gli altri 600 scudi umani tra esercito e guerriglia sono sempre stati in pericolo, mai come adesso rischiano la vita. Solo in questi giorni il sospetto che il presidente in coda a Chavez nel presentare la riforma costituzionale che gli garantisca rielezione eterna; solo adesso, questi sospetti trovano conferma nelle manovre affannose scatenate per impedire la liberazione di Ingrid Betancourt. Se la prigioniera torna in politica i disegni dell’uomo forte finiscono in niente. L’ultimo messaggio inviato a Bogotà da Sarkozy sottolinea il precipitare della situazione: serve un intervento umanitario, ma subito. Ingrid è davvero in pericolo e la Francia alza la voce pretendendo decisioni urgenti. Ecco cosa è successo dietro le quinte.
In agosto la senatrice Piedad Cordoba chiede al presidente Uribe di coinvolgere il presidente del Venezuela nel riscatto di Ingrid Betancoiurt e degli altri ostaggi. Lo fa mentre Chavez viene accusato da una giornalista venezuelana (residente a Miami e Washington) di ospitare i guerriglieri della Farc con Ingrid prigioniera dentro i confini del Venezuela. Beffa crudele, a quale scopo? Chavez accetta di interessarsi sollecitato da una telefonata del presidente Uribe. Lancia messaggi a Marulanda, padre di una guerriglia senza prospettive. A Santiago del Cile ne riparla con Uribe. Lo informa dell’incontro a Parigi con Sarkozy. Al ritorno da Parigi Chavez si inserisce in una telefonata di Piedad Cordobs: sta discorrendo col generale Montoya, comandante delle forze antiterroriste colombiano. Coraggio, auguri, noi militari ci intendiamo: non tace mai. E Uribe prende cappello: il presidente di un paese non può contattare generali di un altro paese. Missione di Chavez sospesa. Piedad Cordoba sapeva che sarebbe finita così.
Prima di andare con Chavez a Parigi, aveva incontrato a Medellin l’ex presidente Samper e Samper l’aveva messa in guardia: Uribe sta lavorando per scaricare Chavez. Ho quasi l’impressione l’abbia usato come allodola. I suoi contatti vengono registrati. Ogni mossa è tenuta d’occhio non solo dai colombiani ma dai nostri amici del Nord. Temo stia per succedere qualcosa. E succede...
La telefonata da un campo base Farc annuncia a Caracas l’invio di immagini e lettere, prova della sopravvivenza degli ostaggi. Pochi minuti e un bombardamento brucia il campo: da quel momento l’uso del cellulare viene proibito ad ogni guerrigliero coinvolto nella missione. Troppi radar incrociano i segnali. Partono i corrieri, direzione Caracas: filmati e lettere nascoste nelle borse da viaggio. Gli uomini di Uribe catturano i postini. Ma immagini e messaggi vengono comunicati alle famiglie con 36 ore di ritardo. I giornali lo scoprono da «indiscrezioni» pilotate in modo da non trasformare la pena della Betancourt in protagonista della costernazione nazionale. Con qualche eccentricità: El Tiempo è il grande quotidiano del paese. I proprietari fanno parte della corte di Uribe: ministro e vertici del partito.
La notizia che apre la prima pagina trascura l’immagine della signora. Dedica la ribalta ad un tipo dai capelli a spazzola. La canottiera scopre muscoli marines, occhi senza luce da marziano. Keith Stansell è un mercenario Usa. Assieme a due compagni della Microwawe System californiana, quattro anni fa è precipitato in territorio Farc con un aereo spia. I contractors della Microwawe lavorano per il Pentagono in Iraq e Colombia e Keith ruba la prima pagina alla Betancourt. La lettera alla madre viene distribuita con due giorni di ritardo e qualche taglio sospetto. Leggendola si capisce l’imbarazzo di Uribe. Ingrid ringrazia soprattutto Chavez e Soledad, Sarkozy, perfino Bush. Tanti amici, tanti nomi (in parte cancellati) ma per Uribe e i suoi ministri neanche una parola. Borges raccomandava di non scrivere quando si è innamorati o addolorati: meglio aspettare l’affievolirsi dei sentimenti.
La Betancourt non ne ha tenuto conto. Delinea l’affresco politico della Colombia alla quale non rinuncia. Solidale, meno individualista, mai liberista, impegnata a difendere vita e dignità di tutti: «Questa grandezza dorme purtroppo nei nostri cuori. Cuori induriti che non permettono sentimenti elevati... Fra qualche tempo la recupereremo». Se Uribe sperava che lo sfinimento della prigionia avesse disarmato l’antica rivale, ecco la risposta ed è comprensibile l’imbarazzo. Adesso, ne avrà pietà?
l’Unità 3.12.07
Serafini: «La violenza sui bambini non fa notizia»
ROMA «La violenza sui bambini non va in prima pagina». È il commento della Presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia, Anna Maria Serafini. «Le notizie sulle violenze subite da bambini e adolescenti che pure occupano spazio sulla carta stampata solo molto raramente finiscono in prima pagina». È questo uno dei dati più significativi emersi dal terzo Rapporto nazionale su stampa, infanzia e adolescenza curato dall’Istituto degli Innocenti. «Obiettivo del ciclo di incontri nei quali saranno coinvolti i protagonisti del mondo dei media a tutti livelli, dell’editoria, della pubblicità, del cinema e della televisione, è quello di realizzare - è detto in una nota - un atto di indirizzo su una materia delicata e che interessa in modo sempre più forte l’opinione pubblica, un testo che possa diventare il punto di riferimento per istituzioni e professionisti del settore».
L’analisi svolta dal rapporto ha riguardato 7.333 articoli, dei quali 5.597 della stampa quotidiana e 1.736 di quella periodica.
Il Rapporto - giunto alla sua terza edizione per questo - stato possibile procedere anche a un confronto con i dati dei due anni precedenti per verificare le tendenze in atto. Di violenze, agite o subite dai ragazzi, si parla in ben 1.300 articoli. Dopo la violenza, la salute, - l’argomento protagonista in ben 1.200 articoli. La violenza sui minori si attesta al primo posto della graduatoria scalzando la salute, che primeggiava nel 2004 (e che aveva a sua volta sopravanzato la scuola e l’educazione nel 2003).
Repubblica 3.12.07
Parla il letterato che da anni si oppone al governo: il passaggio alla democrazia non è facile
Evtushenko, poeta contro il Cremlino "Un potere volgare che nessuno attacca"
di Fiammetta Cucurnia
«Certo, quel che è successo in Russia negli ultimi giorni, durante la campagna elettorale, mi addolora. Mi addolora pensare che l´opposizione sia stata trattata in un modo così volgare, dispersa così. Mi addolora anche ammettere che non capisco perché sia accaduto e a che scopo, visto che il partito del governo non poteva che vincere, sempre e comunque. Così, da poeta e da cittadino mi interrogo e chiedo a voi: "La responsabilità è davvero soltanto di Putin?"» Evghenij Evtushenko, mito della poesia russa che tante volte nella sua vita ha scagliato i suoi versi contro il Cremlino in nome della libertà, oggi abbassa la voce per parlare di Russia nel giorno di Putin. Da un lato c´è l´entusiasmo e la speranza per quelli che lui chiama i devjanostiki, i ragazzi degli anni Novanta, che tornano a riempire gli stadi quando lui si esibisce, giovinetti cresciuti a pane e poesie dalle nonne mentre i padri facevano i soldi. Dall´altra c´è questo tarlo di un Paese che si era aperto e ora sembra tornare ai vecchi costumi. «Nessuno potrà impedirmi di dire che in quel che accade oggi c´è una grande responsabilità dell´Occidente e in particolare degli Stati Uniti, della loro politica estera e militare».
Eppure, Evghenij Aleksandrovic, i russi oggi hanno votato quasi come ai tempi di Breznev, quando sulla scheda era indicato solo il Pcus.
«Per carità, io non voglio affatto giustificare il Cremlino. Come ho detto, tanta volgarità è esagerata, e per di più ingiustificata poiché inutile. Penso che sia anche un fatto di inerzia, ognuno si comporta come sa. Il passaggio da un sistema autoritario come è stato quello sovietico ad uno radicalmente diverso, realmente democratico, non può essere facile e senza intoppi. Richiede tempo e forze nuove».
Gli spazi per le voci diverse sono stati del tutto chiusi, c´è stata una campagna elettorale all´insegna del monopolio assoluto.
«Sì, è vero, anche a me è stato chiesto di partecipare a una serata di lettura poetica a Mosca per sponsorizzare un partito, ora non dirò quale. Ho risposto gentilmente, ma ho rifiutato. Io sono un senza partito e non posso mettere i miei versi al servizio dell´uno o dell´altro, ho spiegato. Loro mi hanno detto che potevo declamare le poesie che volevo, liberamente, ci sarebbe stato solo il logo del partito da qualche parte sul muro. Ma io, come potevo?»
Magari poi l´avrebbero aiutata per le sue future iniziative.
«Beh, certo, come dicono gli americani, i pranzi gratis non esistono».
Ma come mai sostiene che i paesi occidentali sono responsabili, almeno in parte, delle scelte interne del Cremlino.
«La Russia non è un Paese appeso in cielo. Tutto quello che accade oggi nel mondo è intimamente connesso. Le basi militari americane spuntano come funghi nei Paesi ex satelliti dell´Urss, e perfino in quelli che un tempo facevano parte dell´Unione Sovietica. Il nostro giardino di casa è infestato dalle armi americane e si parla di dispiegarne sempre di più. In fin dei conti la Russia, oggi come oggi, non ha basi militari in nessun paese del mondo, ma deve fare i conti con quelle altrui piazzate dietro l´angolo. E c´è di più: i Paesi occidentali continuano a fare la lezione a Mosca, ogni incontro al vertice è occasione per sottolineare che la Russia non è abbastanza democratica. Ma poi, da che pulpito viene la predica. Ditemi voi il nome di un Paese che sia un vero esempio di democrazia, un modello di cui da cittadino del mondo io possa andare fiero. Che ognuno riconosca le sue colpe, per ricominciare. In queste condizioni, mi permetto una licenza poetica: se Andrej Sakharov fosse oggi il presidente della Russia non potrebbe ignorare, nemmeno lui, un tale contesto. Purtroppo, è quasi naturale che il Cremlino reagisca nel modo che gli è più congeniale».
Dunque, a questo punto, non possiamo far altro che aspettarci il riflusso.
«Io sono convinto che tutto sia ancora possibile, ma non dipende solo da Mosca. Con ogni probabilità, neppure Putin ha ancora preso nessuna decisione definitiva. In qualche modo, possiamo ancora disegnare il nostro futuro. L´importante è capire che ognuno deve fare la sua parte. Poi ci vuole tempo. Il tempo di permettere ai giovani devjanostiki, la prima generazione di russi che è cresciuta fuori della gabbia, di affacciarsi in prima persona sulla scena politica».
Repubblica 3.12.07
Gli scheletri nell'armadio di casa Lombroso
di Maurizio Crosetti
Torino si prepara a riaprire il museo sul padre dell´antropologia criminale un´incredibile collezione di reperti anatomici relegata da anni in cantina
TORINO. I nostri antenati abitano in cantina, sistemati in eleganti armadi ottocenteschi, un cranio dopo l´altro come vasetti di marmellata. Millecinquecento teschi, che poi è un modo concreto per vedere e toccare quello che siamo stati e quello che saremo. Ci sono scheletri appesi ai ganci come abiti. E cassettiere piene di falangi o di femori, e una pantera in scatola, smontata e bollita, ma anche un cervo, e una tigre, e una pecora che pare un puzzle.
Benvenuti nel magazzino della scienza, nel deposito della prossima ala del ciclopico Museo dell´Uomo che Torino ha già preparato e preparerà a San Salvario, nel Palazzo degli Istituti Anatomici. Sopra, nei lunghi corridoi e delle stanze che circondano un grazioso, romantico giardino, ci sono il Museo di Anatomia e il Museo della Frutta. E tra un anno, forse meno, tornerà il Museo di Antropologia Criminale "Cesare Lombroso", la vecchia star del palazzo, il discusso inventore della teoria secondo cui i delinquenti ce l´hanno scritto in faccia, il dissezionatore della devianza: pazzi, assassini ma anche geni, tutto quello che il cervello può avere di diverso, nel bene e nel male, di più nel male.
Il Museo Lombroso chiuso dal 1948 ricostruirà il mondo del professore, i suoi luoghi (lo studio, la biblioteca) e i suoi metodi. Ci saranno reperti anatomici, manufatti e scritti di criminali e alienati, armi proprie e improprie, reperti probatori, strumenti scientifici, fotografie, documenti, persino la forca dove impiccavano gli assassini. Non ci sarà, invece, la sua testa conservata in formalina dentro un vaso di vetro, con l´espressione corrucciata. Troppo macabra. Questo non vuol mica essere il museo dell´orrore.
Sopra, le vetrine. Sotto, nelle cantine, un magma scientifico di enorme suggestione e di incalcolabile valore. Il professor Giacomo Giacobini, docente di anatomia all´Università di Torino, è il responsabile e in qualche modo il custode di tutto questo. Il suo studio è quello dove lavorò Rita Levi Montalcini. «Entro un paio d´anni, dal nuovo Museo Lombroso all´ampliamento del Museo dell´Uomo, il cuore del positivismo torinese e italiano sarà un polo d´interesse unico, un luogo in cui discipline diverse si parlano, si collegano e raccontano le loro storie». Tenetelo a mente, il professor Giacobini. E anche il suo antico predecessore che si chiamava quasi come lui: Carlo Giacomini. Perché, più avanti, lo ritroveremo al piano di sopra. Sotto vetro.
Questo è un viaggio all´ingiù, nel tempo e nello spazio fisico del palazzo. Scale. Ascensori. Porte. Chiavi che girano nelle serrature e le fanno scattare. Odore di umido, profumo di buio. Nel controluce volano particelle di polvere. Ecco i calchi delle sepolture preistoriche, siamo nel Paleolitico, più o meno 25 mila anni fa. Lo scheletro di una donna abbraccia un bambino, o così sembrerebbe. «In realtà era un nano. La donna lo cinge col braccio, glielo appoggia sul collo in un gesto di grande tenerezza» dice il professore. Tenerezza eterna, amore millenario e misterioso. «Tutti ci chiediamo se fossero parenti, se fossero morti insieme e perché. Naturalmente non avremo mai la risposta».
Sono calchi in resina, realizzati con un negativo in silicone nei luoghi di sepoltura, cioè nei siti archeologici. Ora stanno in corridoio, appoggiati alle pareti. Bisognerà estrarli da questa oscurità per mostrarli alle persone. Così tutti potranno vedere il bimbo della grotta delle Arene Candide, a Finale Ligure, sepolto con una mantella di code di scoiattolo, ciottoli e conchiglie come giocattoli. Aveva sei, sette anni al massimo, diecimila anni fa. Di fronte a lui c´è il cosiddetto Giovane Principe, un quindicenne sepolto con un ricco corredo, una cuffia di conchiglie forate, i bastoni di comando in osso di alce, e poi pendagli d´avorio di mammuth. «Rarissimo in Italia a quei tempi, segno che ci troviamo al cospetto di un morto importante».
C´è anche un Uomo di Neanderthal, i suoi anni sono 50 mila: accanto allo scheletro in una fossa quadrata, i becchini preistorici misero una zampa di bisonte e una colonna vertebrale di renna, oggetti di un preciso rituale funebre. Però non esiste niente di macabro in questo scantinato in attesa d´essere museo, è come se la scienza avesse lasciato qui i suoi sedimenti, i suoi strati sovrapposti come le mura di Troia. Ecco l´immagine di un Uro, cioè l´antenato dei bovini domestici più massiccio di un bisonte, estinto attorno al 1600. «E´ inciso nella pietra di profilo, però ha due occhi e due narici» spiega il professor Giacobini. «Quando Picasso vide l´originale disse "finalmente ho trovato il mio maestro", perché proprio così aveva dipinto la prospettiva dei volti in Guernica».
La passeggiata è asistematica e dà i brividi. Fossili umani, la ricostruzione della donna preistorica chiamata Lucy, microscopi e provette, dipinti d´epoca e un Cro-Magnon alto quasi due metri, poi un banco di strumenti chirurgici: seghe da amputazione, spatole, bisturi. «Alcuni di questi oggetti venivano usati sul campo di battaglia, non si ha neanche idea di cosa significassero quattromila feriti a terra, per esempio dopo la battaglia di Solferino, senza assistenza né cure». Uno di questi strumenti è una sega di amputazione a catena di bicicletta: pensarne l´uso è già, a suo modo, una specie di tortura.
Oltre il grande atlante di anatomia del Mascagni - meravigliose tavole a colori in grandezza naturale - il labirinto procede tra banconi da lavoro e utensili come quelli per la bollitura delle ossa, e non bisogna scandalizzarsi perché anche il corpo è un oggetto. Lo stesso si prova al piano di sopra, nel Museo di Anatomia, dove i corpi e le ossa e le braccia e i cuori nei preparati sotto vetro ci raccontano chi siamo, e ogni storia è la nostra storia. Qui c´è uno scheletro smisurato e goffo. Apparteneva a Giacomo Borghello, nato a Novi Ligure nel 1810 e morto all´età di diciannove anni. Era alto due metri e 19 e lo esibivano al circo. Una povera vita da fenomeno da baraccone, e ora il suo destino è immutato, di nuovo in mostra e per sempre. Vicino a lui, come un fratello dolente, lo scheletro di un nano: a differenza di Giacomo, di lui non si sa nulla, non il nome né la vicenda umana, se non che si tratta di "un esempio di nanismo armonico". Ma il nano e il gigante, nel silenzio ci parlano.
Il museo venne costruito come la navata di una chiesa, per sottolinearne l´aspetto di cattedrale della scienza. Ed è bellissimo. Dal 1876 al 1898 lo diresse il professor Carlo Giacomini. «Ma lui è in vetrina, io no», scherza il successore Giacomo Giacobini e intanto mostra il predecessore. Il quale sta nella sala in fondo, ritto e quasi solenne nel suo scheletro. Una targa ripete le parole del testamento in data 22 giugno 1898: "(...) Non essendo partigiano né della Cremazione né dei Cimiteri preferisco che le mie ossa abbiano riposo nell´Istituto Anatomico dove ho passato i più bei anni della mia gioventù ed al quale ho consacrato tutte le mie forze (...) Desidero ancora che il mio cervello venga conservato col mio processo e posto nel Museo insieme agli altri (...)". Sembrava solo una storia di ossa e cellule, invece è una storia d´amore.
Repubblica 3.12.07
I cattolici e le leggi. La chiesa che chiede più potere
di Claudio Pavone
Dibattiti / le gerarchie ecclesiastiche e il peso che i credenti vogliono avere nella vita pubblica
I concordati, quello di Mussolini e quello di Craxi, hanno introdotto molta confusione
La sincera e dolente tensione di due intellettuali come Giuseppe Alberigo e Pietro Scoppola
Numerosi sono oggi i dibattiti sui rapporti fra religione e politica in una età definita spesso postsecolare che, come tale, non potrebbe far propri i principii che hanno ispirato nei due ultimi secoli la condotta degli Stati liberali e democratici nei confronti delle chiese e, in modo particolare, della Chiesa cattolica. Sono spesso dibattiti elevati, che rivelano il bisogno di chiarezza su temi di primaria importanza che riguardano i fondamenti stessi dello Stato laico.
Innanzi tutto, è lo stesso concetto di postsecolare che andrebbe chiarito. Sotto la sua apparente neutralità, di riconoscimento cioè di un mero dato di fatto, si nascondono in realtà interpretazioni del passato e del presente e previsioni del futuro che assumono facilmente un carattere normativo. Società secolare è una società in cui le credenze religiose non costituiscono i presupposti dell´ordinamento istituzionale. Si tratta di un principio, proprio della società laica, che si è sviluppato nei due secoli precedenti al nostro sotto i segni del liberalismo, della democrazia, del socialismo, e anche del capitalismo, in quanto fondato sulla distinzione fra economia ed etica. Lo Stato laico non può dunque vivere che in un società secolarizzata. Dare per scontato che questa sia ormai alle nostre spalle significherebbe mettere in forse anche la laicità.
Carattere essenziale della società secolarizzata e laica è la netta distinzione fra spazio pubblico e potere pubblico. Il secondo è chiamato a garantire il primo proprio perché non si confonde con esso. L´aggettivo "pubblico", quando qualifica lo spazio, sta ad indicare che tutti hanno uguale diritto di fruirne liberamente, come individui e come associazioni, compresi ovviamente i credenti in una religione e le associazioni da essi create. Questo spazio è «utilizzato amplissimamente dalle gerarchie ecclesiastiche», come scrive Eugenio Scalfari nell´editoriale apparso ieri su Repubblica. Suonano perciò strane le proteste dei cattolici contro i supposti ostracismi di cui in Italia essi sarebbero vittime per quanto riguarda la presenza nello spazio pubblico. La storia ci mostra che mai come nei regimi liberali e democratici i cattolici, le loro associazioni e le loro istituzioni ecclesiastiche abbiano goduto, anche in Italia, dei frutti di quella libertà che il Sillabo aveva condannata. I cattolici, e soprattutto le gerarchie, hanno certo dovuto rinunciare agli antichi privilegi di cui godevano, ma si sono nello stesso tempo affrancati dalla sottommissione alle pretese dello Stato nei loro confronti (che un tempo si chiamavano maiestatica iura circa sacra). Residui del vecchio giurisdizionalismo, cioè della permanenza di interventi pubblici nelle cose di religione, si rilevano peraltro in alcune legislazioni liberali, compresa l´apprezzabile legge delle Guarentigie con la quale subito dopo il 1870 lo Stato italiano regolò i suoi rapporti con la Chiesa cattolica.
La distinzione fra spazio pubblico e potere pubblico rinvia a quella più generale fra pubblico e privato, dove il primo termine indica le istituzioni pubbliche e il loro potere cogente su tutti i cittadini. È questa una distinzione salutare, faticosamente conquistata, sulla quale si regge tutto l´edificio delle libertà personali, comprese naturalmente quelle religiose. Chi invoca una penetrazione del privato nel pubblico per dare più forza al privato non sembra rendersi conto che ciò significa anche penetrazione del pubblico nel privato, del quale viene così condizionata, e quindi limitata, l´autonomia.
Questo vale anche per la coscienza religiosa, che ha a sua volta bisogno di libertà per radicarsi ed esprimersi. In altre parole: se viene privatizzato il pubblico, viene contestualmente pubblicizzato il privato. Ma allora, basterebbe eliminare alcuni equivoci terminologici perché tutto funzionasse per il meglio?
Purtroppo non è così. Le pressioni delle gerarchie cattoliche e dei loro fiancheggiatori politici e culturali quando chiedono maggiore presenza nello spazio pubblico mirano in realtà ad avere più spazio nel potere pubblico, basandosi sul doppio significato di "pubblico" che sopra ho cercato di delineare. In Italia i concordati, sia quello di Mussolini che quello di Craxi, hanno introdotto una confusione fra pubblico e privato che apre la strada alla nuove, pressanti, richieste della gerarchia ecclesiastica di provvedimenti normativi a proprio favore. Tali richieste, venuta meno la mediazione politica che la Democrazia Cristiana, pur entro certi limiti, sapeva di dover compiere, diventano sempre più insistenti, giovandosi da un lato della libertà che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini e nello stesso tempo usufruendo dei privilegi assicurati dal Concordato e dalle molte leggi che, dal campo finanziario a quello scolastico, li vanno accrescendo. Sembra quasi che intorno alle dichiarazioni di alcune autorità ecclesiastiche aleggino le parole attribuite ai gesuiti dell´Ottocento nei confronti dei liberali: «Esigo da voi la libertà perché è nei vostri principii, ma ve la nego perché non è nei miei».
Del resto, è intorno allo stesso concetto di libertà che, su questo terreno, possono sorgere equivoci. Una cosa è la libertà della Chiesa cattolica, altra cosa è la libertà di coscienza dei singoli cittadini di fronte alle religioni. Quando la Chiesa cattolica come istituzione rivendica la propria libertà ha ben diritto di farlo, ma deve rispettare i limiti che all´esercizio di quella libertà sono posti dalla libertà assicurata a tutti i cittadini dalla Costituzione. Non possono cioè le norme e i precetti della Chiesa trasformarsi, direttamente o indirettamente, in norme dello Stato, che verrebbero in tal modo a violare l´eguaglianza di tutti di fronte alla legge, cioè a dare vita a nuovi privilegi.
Nelle discussioni sui rapporti fra religione e politica non dovrebbe dunque insinuarsi l´idea che si tratti di rapporti fra due poteri, come quelli fra papa e imperatore al tempo della lotta delle investiture. Questo immeschinisce il più delle volte il discorso attorno alla religione e ne mette ai margini gli agnostici e gli atei, i quali, forse intimiditi dal clima che prevalentemente li circonda, a loro volta esitano ad affrontare con i cattolici e gli altri credenti i sommi problemi attorno al mondo, all´uomo, al suo destino, alle sue paure e alle sue speranze, che sono comuni a tutta l´umanità e che hanno fornito alle religioni la base dello loro forza attraverso i secoli.
Esiste anche in Italia una tradizione di cattolici liberali e democratici che hanno fatto della coesistenza fra la loro fede, la libertà e la democrazia un problema di coscienza, non un problema di rapporto fra due poteri.
Se ammiriamo due grandi intellettuali cattolici di recente scomparsi, Giuseppe Alberigo e Pietro Scoppola, è perché cogliamo, nella loro opera storiografica e nella loro presenza sulla scena pubblica, la sincera e talvolta dolente tensione fra quei due poli presenti nel profondo del loro animo. Alberigo e Scoppola, pur così attenti al concreto dispiegarsi nella vita istituzionale e politica dell´attività religiosa, ci ricordano che, a monte delle relative norme giuridiche, esistono principii che le trascendono, i quali, ove fossero violati, metterebbero in crisi l´intero edificio dello Stato laico.
Ai fermi difensori della laicità viene talvolta opposta la goffa replica: «Ma allora anche voi siete dogmatici!». Chi muove questa accusa sembra incapace di distinguere fra dogma e fermezza di convinzioni nella difesa della libertà di tutti. Certo, chi pensa che la morale possa fondarsi solo su verità dogmaticamente affermate può sentirsi smarrito in un mondo in cui si cerca e si pratica l´eticità muovendo dall´opposto principio dell´autonomia della morale. Ma di fatto la laicità, frutto di un lungo e difficile percorso costato crisi di coscienza, sofferenze e talvolta roghi, basandosi sulla distinzione fra spazio pubblico e potere pubblico, assicura anche a chi la nega o la stravolge (ad esempio, opponendo al laico buono il laicista cattivo) condizioni di vita intellettuale, sociale e politica in cui egli può liberamente vivere ed esprimersi.
Repubblica 3.12.07
Capodimonte. Artisti di casa e stranieri a confronto
Per festeggiare i cinquant’anni del museo un percorso che unisce Picasso a Van Gogh Brueghel a Boucher e i Carracci
di Bianca Riccio
Spregiudicata, attraente, certamente non convenzionale, la mostra che, aperta fino al 20 gennaio 2008, è stata allestita a Capodimonte per festeggiarne i cinquant´anni. E´ anche un omaggio deferente dei maggiori musei del mondo, che hanno volentieri concesso in prestito settanta opere, non solo prestigiose ma raramente uscite dalle loro sedi istituzionali. In ossequio, ripetiamo, ad uno dei musei più importanti e attivi d´Italia e forse d´Europa. Rispetto al museo, quindi, e al lavoro infaticabile e appassionato dei suoi funzionari che, dal lontano 1957, quando Capodimonte fu voluto da Bruno Molaioli, lo hanno saputo modificare profondamente senza però ledere in nessun modo la sua particolare identità. Da Reggia Museo delle collezioni principesche, farnesiane e borboniche, realizzato alla metà del settecento da Carlo III di Borbone, per collocarvi l´immensa collezione Farnese avuta in eredità da sua madre Elisabetta, ma di fatto chiuso dal 1799, trasformato a istituzione internazionale e cosmopolita. Ma torniamo alla mostra di compleanno. E´ da lodare la scelta ottima e molto abile di non separare il nucleo dei dipinti «forestieri» dal percorso delle collezioni permanenti, anzi, i «foresti» sono stati messi a colloquio con gli inquilini in situ disponendoli lungo il percorso museale. Una scelta provocatoria? Forse, ma è anche il segnale di una nuova concezione espositiva, più stimolante. Così ci si può concedere il piacere di vedere il raffinato e italianissimo ritratto la Donna con perla di Corot, accanto alla Madonna con bambino di Botticelli, i dipinti metafisici di Carrà e de Chirico a confronto con il rigore del celebre ritratto di Luca Pacioli con i suoi libri matematici, uno sconvolto Basquiat accanto allo stralunato Ritratto del Rosso Fiorentino e il capolavoro di George La Tour, giunto da Berlino, i Due contadini che mangiano ceci e miseria accanto ai caravaggeschi napoletani come Mattia Stomer. E ancora, il meraviglioso paesaggio di Turner La prima stella della sera che viene dalla National Gallery di Londra, un dipinto del 1830. Il Turner si colloca davanti a un solare e mediterraneo paesaggio di Claude Lorrain. Veramente c´è tutta l´occasione di riflettere su che cosa abbia significato la pittura italiana per l´Europa. Per esempio si sono messi a confronto dipinti di epoche e orientamenti stilistici diversi ma di tematiche affini, così i tre ritratti femminili di Picasso, la Donna di Maiorca, Olga con il collo di pelliccia e Il Ritratto di Olga Khokhlova sono ai lati della enigmatica Antea di Parmigianino. Sicuramente la visita che Picasso fece a Napoli e agli scavi pompeiani nel 1917 è all´origine della particolare tensione figurativa che si riscontra nel ritratto di Olga. Certo la conoscenza della pittura antica fatta a Napoli diviene qui un elemento essenziale. Il contatto diretto con l´antichità costituì per Picasso una ricchissima vena ispiratrice, qui ancora allo stadio di «problema da risolvere», il che dà un senso ben preciso al viaggio in Italia del pittore spagnolo. Seguitando nel nostro percorso, troviamo la più che seducente Betsabea di Rembrandt, davanti alla Danae di Tiziano, e l´ambizioso, superbo bozzetto, pressoché sconosciuto, per un dipinto mai eseguito dal giovane David a Roma, I funerali di Patroclo. Il Concerto di giovani, un´opera colta e raffinata di Caravaggio che viene dal Metropolitan di New York, firmato in basso a sinistra, è opera di Caravaggio giovane, presumibilmente ancora a Roma al servizio del Cardinal Del Monte, eseguito prima della sua precipitosa fuga proprio a Napoli, dove, come è noto, cambiò radicalmente la sua maniera. E adesso incontriamo Van Gogh davanti a Brueghel e Boucher, giustamente di fronte al bodoire in porcellane chinoiserie di Amalia di Sassonia, la moglie di Carlo III. Chiude questo percorso un enorme e ironico Gilbert&Gorge, una delle loro leggendarie autorappresentazioni. Ancora una provocazione? Al piano superiore, il piano del XIX secolo, troviamo una sorpresa. Sappiamo che Edgard Degas ebbe stretti rapporti con Napoli. Il nonno paterno Hilaire intorno al 1790 lasciò la Francia per Napoli e si fece una posizione come banchiere. Una zia di Edgard sposò Giuseppe Morbilli, duca di Sant´Angelo, lo zio Eduardo impalmò Claudia Primicile Carafa, la zia Laura il barone Gennaro Bellelli, e Stefanina, la prediletta Fanny, andò sposa a un altro Carafa. Di tutti esistono ritratti commossi. Ma c´erano nodi ancora più stretti per Degas a Napoli che quando vi soggiornava era sommerso dalle visite dei parenti.
Nel 1863 la amatissima sorella Thrèse, anche sua modella, sposò il cugino Morbilli. Qui troviamo a colloquio il doppio ritratto di Edmondo e Therèse Morbilli, un capolavoro che viene da Boston, accanto a quello delle sorelle Bellelli di Los Angeles, posti a confronto con un ritrovato ritratto di Therèse di Domenico Morelli. Tutto ciò, prestiti, festa e catalogo esemplare sottolineano il prestigio acquisito dalle istituzioni napoletane, attraverso le loro tante, tantissime manifestazioni. E vogliamo ricordare la mostra del Seicento napoletano e quelle del Settecento e dell´Ottocento, le diverse monografiche come quella su Luca Giordano o Gaspare Traversi, le mostre nelle sedi di Castel Sant´Elmo di villa Pignatelli, della Floridiana e della Certosa di Capri, tutto un vasto territorio trascinato e coinvolto dal vulcanico soprintendente e dai suoi collaboratori. La conclusione alla quale Nicola Spinosa vuole arrivare è che un Museo dovrebbe funzionare come laboratorio nel quale poter sperimentare nuove idee per altri progetti d´arte e forse anche di vita. E per il futuro si prevedono subito una ricognizione di tre fotografi diversi Mimmo Iodice, Olivo Barbieri e Craige Horsfield «Da Capodimonte» e Verso Capodimonte» e poi attesissima, nella primavera del 2008, una particolare monografica su Salvator Rosa. Ma non il Salvator Rosa dei paesaggi o delle battaglie, bensì l´artista visto dal suo lato più affascinante, quello del pittore di figure allegoriche, da esplorare nei suoi significati più magici, esoterici ed arcaici.
Repubblica 3.12.07
L’esposizione a Vicenza
La favola di "Venere e Amore" nell'opera di Gian Antonio Pellegrini
VICENZA - Il mito di Venere e Amore è il tema della mostra "Capolavori che ritornano" allestita a Palazzo Thiene (Banca Popolare di Vicenza) dall´8 dicembre al 3 febbraio; la rassegna ha come opera centrale "Venere e Amore" di Gian Antonio Pellegrini; partendo da questa importante tela si snoda un percorso che passa attraverso gli stucchi cinquecenteschi del Palazzo fino alla pittura del settecento veneto; la galleria Barberini di Roma ha prestato per l´occasione "Venere e Adone" di Tiziano. Ingresso libero
Corriere della Sera 3.12.07
Tristano, Isolda e il Nulla
Wagner elabora le tesi di Schopenhauer per mostrare la distruzione dell'individuo
di Paolo Isotta
Il 7 dicembre la Scala inaugura la stagione lirica con l'opera del maestro tedesco.
Dirigerà Daniel Barenboim con regia di Patrice Chéreau
Una metafisica atea dove la fusione sentimentale dei due amanti diventa una forza dissolvitrice
Un articolo di giornale non potrà nemmeno lontanamente presumere di essere un'analisi d'un capolavoro della complessità del Tristano e Isolda. Conviene qui modestamente porre in rilievo alcuni luoghi del poema drammatico che, per essere di solito fraintesi, impediscono di cogliere addirittura il significato dell'opera.
Occorrerebbe innanzitutto conoscere nel modo più particolareggiato tutta la prima metà del I atto: nessun autore di teatro musicale raggiunge Wagner nell'arte di narrare attraverso il dialogo collocato in questa zona del dramma i lunghi e intricati antefatti dell'azione. Contemporaneamente viene con straordinaria densità enunciata la gran parte del materiale motivico onde si costruisce la forma musicale e drammatica dell'intera opera. Qui l'antefatto è dedicato al racconto dei rapporti avutisi fra Tristano e Isolda prima dell'inizio del dramma, i quali determinano il comportamento dei due eroi nel corso del I atto. Non li narreremo di nuovo per giungere a trattare d'uno dei simboli fondamentali del dramma, che dà luogo alla catastrofe del I atto: il filtro d'amore. Le fonti medioevali con la leggenda del fatale amore, per quanto investigate da Wagner con profondità filologica, restano per lui mero pretesto del capolavoro poetico: ogni elemento del mito riceve senso nuovo e originario dalla sua ricreazione.
Così assistiamo all'ordine che Isolda impartisce alla dama Brangania di fornirle dal suo scrigno il filtro di morte. L'antefatto ha spiegato esistere una colpa inespiata di Tristano verso Isolda e costei intende punirlo offrendogli la bevanda e al tempo stesso assumendola per evadere con la morte da quello che a lei pare un futuro di ignominiosa servitù, il matrimonio col vecchio re Marke, zio di Tristano, invece che con l'eroe ch'ella salvò due volte e poi l'ha conquistata pel re. Quando Tristano viene convocato dalla principessa e si vede porgere la coppa è del tutto consapevole del destino che l'attende: il suo orgoglio virile gli fa accettare di pagare con la vita l'oscura colpa inespiata. Ma l'ancella, terrorizzata per la volontà della sua signora, sostituisce al veleno il filtro d'amore. Quando gli eroi bevono alla stessa coppa ignorano ambedue codesta sostituzione. Ed ecco il punto sublime nel quale possono senza onta guardarsi negli occhi e pronunciare estaticamente l'uno il nome dell'altra. Una considerazione superficiale di questo punto chiave porterebbe a credere che il filtro d'amore abbia come meccanicamente avuto effetto sui due, trasformando il sentimento d'odio di Isolda verso Tristano nel suo opposto e, in modo simmetrico, accendendo l'amore nello spirito di Tristano. In realtà i due, bevuto che hanno, sono convinti di avere innanzi solo pochi istanti di vita: nessun pericolo li minaccia più, non sono più costretti a seguire i comandamenti del mondo falso, quello che nel sistema simbolico del Tristano viene chiamato il «Giorno» con la sua luce insopportabile. Solo ora si sentono liberi di confessarsi a vicenda il sentimento intimissimo celato nel cuore che il «Giorno », col suo sistema di valori, impediva, non che di manifestare, di dichiarare anche a se stessi. Dal primo istante l'attuarsi di questo arcano amore è mescolato alla presenza della morte, si fonde con essa.
Di qui viene naturale interrogarsi su ciò: in che cosa consiste l'invincibile amore di Tristano e Isolda? Quale significato specifico acquisisce nel dramma il vocabolo «Liebe»? Eccoci calati nel tema della metafisica erotica del Dramma Musicale. Nulla di più lontano dal congiungimento carnale, che riporterebbe i due nel mondo della vita: varcare le porte del mondo della vita è invece l'esatto fine dei due metafisici amanti. Perciò l'immensa notte d'amore del II atto, con la sua luce dell'oscurità derivante da un'orchestra che nessuno aveva saputo trattare con tale polifonia di linee e colori, non può intendersi col termine superficiale di «duetto d'amore» che quasi tutti adoperano. L'amore di Tristano e Isolda significa innanzitutto l'abbattimento dei confini tra «io» e «tu» per portare alla totale fusione dei due amanti, che prelude al culmine dell'amore, la fusione di questo unico essere nella Morte, ossia il passaggio dalla soglia che dalla vita conduce al Nulla.
La distruzione dell'individualità per la fusione dei «due» in «uno» e poi dell'«uno» nel Nulla si definisce in termini filosofici la distruzione dell'illusorio
principium individuationis che impedisce ai nostri sensi di cogliere come monistico il frutto della cieca e nefasta Volontà: ecco il lessico di Schopenhauer del quale Il mondo come Volontà e Rappresentazione costituì il fondamento della metafisica erotica del Tristano.
Ciò che dunque dovrebbe accadere durante la Notte del II atto e non avviene per l'irruzione del mondo del Giorno ordita dal traditore Melot è la fusione del «due» in «uno», indi il dissolvimento dell'«uno» nel Nulla per pura forza d'amore: una forza di natura puramente spirituale, tanto più sconvolgente giacché, come ciascuno avrà colto leggendo queste righe, abbiamo da fare con una metafisica del tutto atea. La distruzione dell'individualità passa dunque, ed ecco ancora Schopenhauer, per la conquista di una «volontà negativa », una noluntas.
Quando si giunge al sublime finale del dramma, che viene di solito definito Liebestod, morte d'amore, mentre la sua retta denominazione è Isoldes Verklärung, la trasfigurazione di Isolda, ispirata a Wagner anche dalla veneziana Assunta del Tiziano, Tristano è già morto dopo il terribile monologo della prima metà dell'atto. Egli, attinto da ferita letale, è in spasmodica attesa di Isolda per realizzare con lei ciò che nel II atto gli è stato impossibile: ma quando il pastore e Kurwenal gli annunciano il di lei arrivo egli non è più capace di attendere, in stato di totale esaltazione si strappa le bende. Isolda deve dunque compiere da sé il processo d'ingresso nel Nulla per sola forza d'amore; la pagina nella quale ciò avviene, la «trasfigurazione », potrebbe essere considerata il culmine di tutta la musica europea. Solo dopo ch'essa ha cessato di cantare tocca all'orchestra risolvere la vicenda tematico-simbolica del dramma. Il motivo del tormento d'amore inappagato compare già, in shock polifonico, nella III e IV misura del Preludio al I atto: e qui viene generalmente chiamato, col complesso delle altre voci che vi cozzano, «l'accordo del Tristano ». Incidentalmente osserviamo che ancora la più attardata letteratura ne parla come di un enigma armonico, laddove lo stesso Bach l'avrebbe immediatamente classificato e spiegato nella funzione. Per l'intera immensa partitura tornerà col suo tormentoso cromatismo. Solo qui, sostenuto dalle armonie che in Wagner si chiamano la cadenza «della redenzione», si frange un cammino verso l'alto e si risolve, placato, nella «terza maggiore» dell'«accordo di Si maggiore meglio strumentato della storia della musica » (Richard Strauss). Coll'ingresso nel Nulla si appaga, cessando, ogni desiderio. Il culmine del destino è nella morte dell'illusoria coscienza di sé.
Lo stile musicale del Tristano e Isolda dà ampio luogo al cromatismo, ossia all'uso di note estranee alla scala e di accordi alterati. In primo luogo va osservato che procedimenti eccezionali, ma linguisticamente sempre spiegabili secondo le regole dell'armonia tonale, vengono da Wagner adoperati non per una ricerca stilistica, o, Dio liberi, linguistica, fine a se stessa, ma per dar espressione a un contenuto drammatico che Wagner considerava, com'è, altrettanto eccezionale. Lungi dal vedere ciò come «conquista» del linguaggio, Wagner arriva a diffidare gli altri dall'uso di tali procedimenti eccezionali, solo a lui leciti. In secondo luogo, atteso che così non fu, ossia che gli altri se ne impadronirono impunemente (ma con quanto minor forza), occorre un'osservazione fondamentale. Si vuole da taluno che lo stile armonico del Tristano, oltre ad aprire vie nuove, abbia col suo pervadente cromatismo messo in crisi l'armonia tonale. In realtà l'arte inarrivabile con che Wagner maneggia la dinamite senza farla esplodere, il suo non scrivere nemmeno una notina delle parti interne a caso, lungi dall'andare nel verso d'un'equiparazione di consonanza e dissonanza (l'interpretazione «progressista» del Tristano nella Storia), rafforza enormemente il sentimento tonale. L'intima natura classica della partitura del Tristano, che occorrerà una buona volta ammettere, ritarda invece che determinare la crisi dell'armonia tonale.
il Riformista 3.12.07
Le prossime mosse di Benedetto XVI
Rivoluzione allo Ior: in arrivo Tietmeyer
Sono cinque gli uffici con competenze finanziarie del Vaticano. Oltre all'Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica), al governatorato dello Stato della Città del Vaticano, alla prefettura degli Affari Economici e alla congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli, c'è lo Ior (l'Istituto per le opere di religione), in sostanza la banca vaticana. L'istituto è controllato da una commissione cardinalizia di vigilanza dalla quale, questa settimana (si dice domani), dovrebbe ufficialmente uscire l'attuale presidente, ovvero l'ex segretario di Stato vaticano Angelo Sodano che lo scorso 23 novembre ha compiuto 80 anni ed è così entrato nell'età in cui non si può più far parte, come componenti effettivi, dei vari ministeri della Santa Sede.
Ancora oggi, nella commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior, vi sono insieme a lui Tarcisio Bertone (attuale segretario di Stato vaticano), Juan Sandoval Iniguez (arcivescovo di Guadalajara), Attilio Nicora (presidente dell'Apsa) e Adam Joseph Maida (arcivescovo di Detroit). Da domani, il posto di presidenza dovrebbe essere automaticamente consegnato al cardinale Bertone mentre per il nome di chi andrà a occupare il quinto e ultimo posto ancora disponibile i giochi sono aperti. Si parla con insistenza dell'arrivo del neocardinale Giovanni Lajolo (presidente del governatorato) anche se non è escluso che il pontefice, sentito innanzitutto il cardinale Bertone, possa optare per un nome internazionale. La commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior, infatti, ha quasi sempre avuto al suo interno, oltre a un cardinale proveniente dagli Stati Uniti, anche uno proveniente dalla Germania. Si tratta dei due paesi che raccolgono la maggiore quantità di offerte per la Santa Sede ed è logico che abbiano una rappresentanza agli alti livelli della banca vaticana.
La struttura dello Ior ha subìto nei mesi scorsi alcuni importanti cambiamenti. Il primo ottobre scorso Paolo Cipriani ha preso il posto del direttore generale Lelio Scaletti. Cipriani, cinquantatreenne romano, sposato con due figli, prima di entrare in servizio allo Ior aveva prestato la propria attività presso il Banco di Santo Spirito e la Banca di Roma, svolgendo anche compiti di rappresentanza di questi istituti in Lussemburgo, a New York e a Londra. Attualmente presidente dello Ior è il banchiere Angelo Caloia. Ma da gennaio il suo posto potrebbe essere preso dall'ex presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, membro della pontificia Accademia delle scienze.
Resta tutta da decifrare, invece, la posizione dell'attuale segretario personale del cardinale Sodano, monsignor Piero Pioppo, nominato prelato dello Ior dallo stesso Sodano durante i suoi ultimi mesi alla guida della segreteria di Stato, dopo aver rispolverato una carica che era rimasta vacante dai tempi dell'uscita di scena del discusso e potente monsignor Donato De Bonis, braccio destro di Paul Marcinkus.
In settimana, pare domani, dovrebbe avvenire anche l'importante nomina del nuovo direttore dei musei vaticani. Si tratta di Antonio Paolucci, storico dell'arte, già ministro dei beni culturali ed ex-soprintendente per il polo museale a Firenze. Insieme, si parla dell'arrivo alla congregazione per l'evangelizzazione dei popoli di monsignor Ermes Viale, oggi officiale della prima sezione della segreteria di Stato vaticana, quale nuovo capo dell'ufficio amministrativo del ministero retto dal cardinale Dias.
Più in là, invece, probabilmente entro e non oltre il mese di gennaio, dovrebbe avvenire un cambio ai vertici dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù. Viene dato per probabile l'arrivo, come nuovo presidente, dell'attuale vice presidente dell'ente ospedaliero Ospedali Galliera di Genova, il professor Giuseppe Profiti. L'ospedale genovese, in ossequio al suo statuto, è oggi presieduto dall'arcivescovo della città, il cardinale Angelo Bagnasco. Istituito, infatti, come opera pia, l'ente deve le sue origini alla munificenza della Marchesa Maria Brignole Sale, duchessa di Galliera, che lo ha edificato tra il 1877 e il 1888. Da sempre l'ente genovese ha avuto la peculiarità della presidenza affidata all'arcivescovo in carica in città. L'eventuale arrivo di Profiti al Bambino Gesù - ospedale a oggi di proprietà della Santa Sede - permetterebbe una certa continuità di governo con la gestione precedente.
l'Unità 3.12.07
La violenza sui bambini e il dilemma del segreto
di Luigi Cancrini
Uno psichiatra di Palermo ha denunciato un suo paziente che gli parlava di abusi, ancora in corso, compiuti nei confronti di tre bambine dai tre agli otto anni. La polemica che si è aperta a questo punto mi ha lasciato davvero perplessa. Davvero si può sostenere, come ha fatto Vittorino Andreoli, che la tutela del segreto professionale ed il rapporto di fiducia fra medico e paziente siano più importanti delle violenze che i bambini, in assenza di denuncia, avrebbero continuato a subire? Lei che ne pensa?
Lettera firmata
Ne penso che lo psichiatra ha fatto bene e che io avrei fatto altrettanto. Dopo aver tentato di convincere, ovviamente, il mio paziente all’autodenuncia. Proponendogli l’idea di una Comunità Terapeutica. Ma proponendogli, soprattutto, l’idea per cui il percorso terapeutico, in una situazione come la sua, parte proprio dalla capacità di assicurargli una protezione concreta nei confronti di un comportamento compulsivo che egli non riesce a tenere sotto controllo.
Quello cui ci troviamo di fronte qui, in effetti, è un problema di fondo dell’agire psicoterapeutico. Come ben sanno tutti quelli che lavorano con gli alcolisti, con i tossicodipendenti o con gli autori di violenza sessuale, situazioni terapeutiche centrate solo sul tentativo di capire il perché dei loro comportamenti possono trasformarsi in una forma sottile di complicità ed in una specie di «giustificazione» psicologica di tali comportamenti se non si pone con grande chiarezza, fin dall’inizio, il problema del loro superamento. Un problema che deve essere considerato in qualche modo preliminare allo sviluppo di un vero e proprio lavoro terapeutico. Il che non significa, ovviamente, che il terapeuta debba muoversi utilizzando risorse esterne (la polizia o i famigliari) senza il consenso del paziente per aiutarlo in questa direzione. Il che significa con grande evidenza, però, che il terapeuta deve chiarire al suo paziente che priva di un consenso su questo punto e priva dunque di una definizione consensuale degli obiettivi da raggiungere, la relazione che si stabilisce fra di loro non è una relazione terapeutica ma, al più, una relazione d’aiuto capace di offrire quel minimo di presenza e di vicinanza che bisogna comunque offrire ad una persona che sta così male da non riuscire neppure a formulare un progetto di cambiamento. In termini famigliari a chi lavora con i tossicodipendenti, un intervento di «riduzione del danno»: necessario, spesso, per costruire la base di un futuro intervento davvero terapeutico. Seguendo la formulazione lineare ed efficace dei medici olandesi che dicevano ai loro eroinomani: «la tua vita e la tua salute fisica ci interessano anche se tu non hai ancora deciso di smettere e di curarti».
È all’interno di questo ragionamento più complessivo che va inquadrata secondo me, dal punto di vista concettuale, la decisione dello psichiatra che ha ritenuto di non dover rispettare i limiti tradizionali del «segreto professionale» arrivando a denunciare i comportamenti del suo paziente. Grave sarebbe stato, certo, se a questa decisione fosse arrivato senza aver prima tentato di ottenere dal paziente delle scelte capaci di tenerlo lontano dal rischio di ripetizione dei suoi comportamenti evidenziando in modo chiaro la sua decisione di liberarsene. Se lo ha fatto tuttavia, come io non ho motivo di dubitare, il suo comportamento è legittimato soprattutto dalla sua compatibilità con quelle che sono, a mio avviso, le esigenze reali e profonde di colui che gli ha chiesto aiuto. Una persona che soffre di una patologia estremamente grave e che deve essere costretta comunque, anche con una denuncia (a) a interrompere un comportamento dannoso per lui oltre che per i bambini; (b) ad affrontare una consapevolezza piena e condivisa della sua condizione di malattia; (c) ad utilizzare tale consapevolezza per affrontare sul serio con una terapia vera e propria la sua patologia.
Ho lasciato in secondo piano (a qualcuno forse così sembrerà) il problema della protezione dei bambini. Si tratta di un argomento decisivo anche dal punto di vista legale, a mio avviso, perché l’obbligo di denuncia c’è in questa situazione ma io ho preferito non insistere su questo punto per una ragione che considero estremamente importante. Per avere la possibilità di insistere, cioè, sull’idea per cui quella su cui dobbiamo sempre basarci, al di là di tutte le apparenze, è la sostanziale, profonda convergenza che c’è, dal punto di vista psicologico, nelle relazioni interpersonali violente, fra interesse delle vittime e interesse dei persecutori e dei violenti. Sull’idea, cioè, per cui il violento produce ogni volta con i suoi comportamenti ferite in sé stesso oltre che nella sua vittima e che poche psicopatologie sono insieme mutilanti e gravi come quelle di chi è obbligato da dentro a violentare dei bambini. Essendo stato, come spesso accade, violentato a sua volta nell’infanzia ed attivando dunque, nel momento in cui prende il ruolo del violentatore, solo una ripetizione dolorosa e anacronistica della sua ferita originaria. Non traendone alcun tipo di sollievo, neppure momentaneo, ma solo, nel suo profondo, dolore, vergogna, senso di colpa e ulteriore difficoltà a vivere la sua vita.
Questa riflessione, io me ne rendo bene conto, può essere considerata di tipo essenzialmente etico. Quello che io vorrei sottolineare, invece, è che io la sento come una riflessione di ordine prevalentemente clinico. Una riflessione abitualmente sottovalutata da chi non si rende conto della sua importanza fondamentale nelle cure di tutti quei disturbi di personalità che si collegano ad una percezione erronea del Sé, a quella che in psicoanalisi viene definita come una patologia del Sé grandioso. Alle persone che non si rendono conto di star male, cioè, o che se ne rendono conto in modo limitato semplicemente perché i loro meccanismi difensivi li costringono ad evitare qualsiasi confronto con le loro parti più deboli o più infantili. Rendendo impossibile la richiesta di aiuto terapeutico («non ne ho bisogno») o trasformandola in un bisogno del tutto strumentale («ho bisogno solo di qualcuno che mi ascolti e mi capisca»): fino al momento in cui con chiarezza qualcuno (il terapeuta) non li riporta ad una considerazione realistica degli effetti, su loro e su gli altri, dei loro comportamenti.