martedì 4 dicembre 2007

Repubblica 4.12.07
Parla Bertinotti: perché il centrosinistra ha fallito
intervista di Massimo Giannini


"Il progetto del governo è fallito noi siamo già oltre l'Unione"
Bertinotti: per Prodi l’ultimo appello sarà sui salari

«Dobbiamo prenderne atto: questo centrosinistra ha fallito. La grande ambizione con la quale avevamo costruito l´Unione non si è realizzata...». Alle cinque del pomeriggio, nel suo ufficio a Montecitorio, Fausto Bertinotti sorseggia un caffè d´orzo, e traccia un bilancio amaro di questo primo anno e mezzo di governo. È presidente della Camera, ci tiene a mantenere il suo profilo istituzionale, non vuole entrare in campo da giocatore. Ma le sue parole, quelle del vero leader della sinistra radicale, alla vigilia del meeting della Cosa Rossa di sabato prossimo, lasciano un solco profondo nel cammino della legislatura e nel destino delle riforme.
Bertinotti non fa previsioni, sulla durata del governo. «Non posso, non voglio», dice. Ma fa un ragionamento politico per molti versi «definitivo», sullo stato della maggioranza. «Voglio premetterlo: non ci deve essere nervosismo, da parte di Prodi. Usciamo da questa prigione mentale: io non so quanto andrà avanti, può anche darsi che duri fino alla fine della legislatura, e non ho nulla in contrario che questo accada. Ma per favore, prendiamo atto di una realtà: in questi ultimi due mesi tutto è cambiato». È nato il Pd, e la Cosa Rossa viaggia verso lidi inesplorati. Nel frattempo, Prodi ha accontentato i «moderati», sia sulla Finanziaria, sia sul Welfare.
Per il capo di Rifondazione ce n´è abbastanza per dire che «una stagione si è chiusa». Ora niente sarà più come prima: «Un governo nuovo, riformatore, capace di rappresentare una drastica alternativa a Berlusconi, e di stabilire un rapporto profondo con la società e con i movimenti, a partire dai grandi temi della disuguaglianza, del lavoro, dei diritti delle persone: ecco, questo progetto non si è realizzato. Già questo ha creato un forte disagio a sinistra. Poi si sono verificati fatti che lo hanno acuito. Ne potrei citare centomila...». Risultato: «Abbiamo un governo che sopravvive, fa anche cose difendibili, ma che lentamente ha alimentato le tensioni e accresciuto le distanze dal popolo e dalle forze della sinistra».
Questa, per Fausto il Rosso, è «la condizione reale». E forse irreversibile. Bertinotti cita Lenin, e la differenza tra strategia e tattica. «Il grande tema, per la sinistra radicale, è uno solo: l´autonomia. Torna una grande questione, che nacque nel ‘56, con i fatti di Ungheria, con la rottura nel Pci, con lo scontro Nenni-Togliatti. Lì nasce una grande cultura politica, una storia enorme, Riccardo Lombardi. È l´autonomia di un progetto, che da allora la sinistra ha cancellato, rimosso. Oggi, per la sinistra radicale, il tema si ripropone. Devi vivere nello spazio grande e nel tempo lungo, per creare una grande forza europea per il 21° secolo. Se questa è l´ambizione, allora tutto va ripensato. Essere o meno alleati del Pd, stare o meno dentro questo governo: tutto va riposizionato in chiave strategica».
Questo riposizionamento strategico, secondo Bertinotti, è appena iniziato. «Alla fine del percorso - chiarisce il leader - io voglio riconoscere al Pd il diritto a trovarsi gli alleati che vuole, ma voglio garantire a noi il diritto di tornare all´opposizione». Dunque la stagione dell´Unione è al capolinea? «Intellettualmente io sono già proiettato oltre. Ma politicamente ancora no». E qui torna Lenin. Fissata la strategia del tempo lungo, c´è da occuparsi di tattica «hic et nunc», come dice il presidente della Camera. La tattica impone di combattere, ancora, dentro il quadro delle alleanze consolidate, e dentro il perimetro del governo in carica. Ma ad alcune condizioni irrinunciabili: «So bene, e ho persino orrore a pronunciare il termine: "verifica". Ma è chiaro che a gennaio serve un confronto vero, che prende atto del fallimento del progetto iniziale ma che, magari in uno spettro meno largo di obiettivi, rifissa l´agenda su alcune emergenze oggettive. E viene incontro alle domande della società italiana, con scelte che devono avere una chiara leggibilità "di sinistra". So altrettanto bene che queste scelte devono essere assunte dall´intera coalizione. Ma stavolta, davvero hic Rhodus hic salta. Sul Welfare, come si è visto, la sinistra radicale non ha aperto nessuna crisi. Ciò non toglie che il governo ha ormai molto meno credito a sinistra di quanto non lo avesse qualche mese fa...».
Bertinotti rinuncia a fare l´elenco delle «centomila cose» su cui il centrosinistra ha rinunciato a imporre la sua visione («dalla laicità dello Stato alla politica estera»). «Ma se si vuole tentare una nuova fase della vita del governo, vedo due terreni irrinunciabili: i salari e la precarietà». È soprattutto sui primi, che il «padre nobile» del Prc fonda il suo ultimo avviso a Prodi: «Dai sindacalisti a Draghi, tutti dicono che la questione salariale è intollerabile. Ebbene, io mi chiedo: questa denuncia induce il governo a prendere qualche iniziativa, oppure no? Il 65% dei lavoratori italiani è senza contratto: posso sapere se questo per il governo è un problema, oppure no? In Francia Sarkozy ha aperto un confronto molto aspro, lanciando l´abolizione delle 35 ore e dicendo che se lavori di più guadagni di più: posso sapere se in Italia, dai metalmeccanici ai giornalisti, il governo ritiene ancora difendibili i contratti nazionali di categoria, oppure no? Non c´è più la scala mobile, ma intanto i prezzi stanno aumentando in modo esponenziale: tu, governo, non solo non vuoi indicizzazioni, ma con la fissazione dell´inflazione programmata hai contribuito pesantemente a tenere bassi i salari. Dunque c´entri, eccome se c´entri. E allora, in attesa di sapere cosa farai sui prezzi, posso sapere cosa pensi del problema dei salari? E attenzione: qui non basta più ripetere banalmente che "bisogna rinnovare i contratti". Io voglio sapere se il governo ritiene giuste o meno le rivendicazioni. Voglio sapere se ritiene opportuno restituire il fiscal drag, o se invece si vuole assumere la responsabilità di continuare a non farlo. Insomma, io voglio una bussola. Voglio decisioni che rimettano il centrosinistra in sintonia con la parte più sofferente del Paese. Che altro devo dire? Ridateci Donat Cattin...».
Dunque, appuntamento a gennaio. Se Prodi non raccoglie, questo invito potrebbe essere davvero l´ultimo. Questione di tattica, che per la Cosa Rossa, prima o poi, dovrà necessariamente coincidere con la strategia. Ma allo stesso modo, per Bertinotti, la tattica offre un´altra formidabile opportunità, stavolta a tutto il sistema politico: il dialogo sulle riforme. Stavolta l´accordo è «una possibilità reale». Nei due poli «si è affermata una larga condivisione su due punti essenziali. Primo: l´attuale sistema istituzionale ed elettorale è un fattore di riproduzione della crisi politica. Dalla Finanziaria al Welfare, tutto dimostra che il bicameralismo perfetto non funziona più. Secondo: la lunga transizione dalla Prima Repubblica è fallita. La barca si è messa in moto nel ‘93, ma non ha raggiunto l´altra riva, è in mezzo al fiume e va alla deriva con un duplice difetto: le maggioranze coatte (buone per vincere ma non per governare) e il trasformismo endemico. Insomma, questo sistema bipolare è fallito, e tutte le forze politiche hanno capito che se non va in porto una riforma, la crisi istituzionale diventa inevitabile, e travolge tutto. Si apre un panorama da Quarta Repubblica francese».
Di qui la convergenza possibile su un nuovo sistema elettorale. «Il sistema proporzionale, con clausola di sbarramento e senza premio di maggioranza, è una soluzione ragionevole», sostiene Bertinotti. «Soprattutto, è coerente con l´evoluzione del quadro politico: il Pd, il Partito del popolo del Cavaliere, la Cosa Rossa, lo spazio al centro. Siamo in una fase costituente di nuove soggettività politiche. La legge elettorale che scegli non è più levatrice del cambiamento, ma è una sua conseguenza. Con il proporzionale torni alla ricostituzione di alcuni fondamenti di democrazia attiva, che sentiamo ormai vacillare. Torni alla radice della Costituzione di 40 anni fa, torni a individuare nei partiti il cardine del sistema. Sei dentro la nervatura della democrazia, che non può non fondarsi sulla rappresentanza».
A Rifondazione il ritorno al proporzionale è sempre piaciuto. Normale che il suo leader lo benedica. Meno normale, in questo clima di sospetti, è che benedica anche l´apertura del tavolo con Berlusconi: «Senta, qui bisognerà prima o poi che un certo centrosinistra decida se il Cavaliere è un protagonista della politica italiana, oppure no. Io, che al contrario di Blair considero quanto mai attuale il cleavage destra/sinistra, penso che lo sia. Penso che sia un animale politico, che muove da processi reali di una parte della società, che incorpora l´antipolitica ma dentro una soggettività politica, chiaramente di destra. E penso che Berlusconi abbia preso atto della crisi del sistema e della crisi del centrodestra. Dunque, se rileggo le sue mosse, considero attendibile che anche lui, stavolta, cerchi un accordo per rinnovare il quadro politico-istituzionale».
Via libera alle riforme, via libera alla trattativa con il Cavaliere. Anche in questo caso, Prodi non deve innervosirsi. Finalmente è passata l´idea che il dibattito sulla legge elettorale non pregiudica l´esistenza del governo. «Non ci sono due maggioranza diverse, una per il governo, una per la riforma, che si escludono l´una con l´altra». Ma certo, se vuole durare, il Professore deve imprimere una svolta fin dai primi giorni del 2008. In caso contrario, sarà davvero la fine. L´ultima battuta di Fausto dice tutto: «Come vedo Prodi, mi chiede? Con tutto il rispetto, di lui mi viene da dire quello che Flaiano disse di Cardarelli: è il più grande poeta morente... Visse ancora alcuni anni. Ma gli ultimi furono terribili».

Rainews24 4.12.07
Fausto Bertinotti


Il presidente della Camera Fausto Bertinotti, a margine di un incontro a Montecitorio, commenta intano l'esito del vertice del Pd di ieri sera: i tempi per la riforma della legge elettorale, sostiene, sono ormai "maturi" e "auspico che la parola passi subito alle istituzioni". La terza carica dello Stato premette di non voler entrare "nel merito degli orientamenti, ma in ogni caso quello che emerge è che ormai si consolida l'idea che bisogna fare la riforma". "Siamo in una fase ormai operativa, - dice - non alle petizioni di principio. Siamo al fare. E' la conferma che siamo in una fase diversa". Bertinotti auspica che "in questa settimana la parola passi alle istituzioni" a cominciare dalla commissione Affari costituzionali del Senato dove la legge elettorale è già calendarizzata. "Mi sembra del tutto evidente - aggiunge il presidente della Camera - una propensione maggioritaria ad andare verso il proporzionale con soglia di sbarramento". Bertinotti osserva che il vincolo di coalizione "sarebbe incompatibile con un sistema proporzionale". "Al massimo - spiega il presidente della Camera a margine di un incontro istituzionale a Montecitorio - ci può essere una dichiarazione di alleanze prima del voto che però, come accade in Germania, non sarebbe vincolante. I partiti si presentano nell'arena delle elezioni e dicono qual è la loro indicazione e qual è il loro programma, poi decidono gli elettori". Riforma elettorale e poi voto? "No, su questo si sono manifestate tesi contrapposte tra me e Veltroni - dice Berlusconi - Noi abbiamo detto prima e ripetuto nel corso dell'incontro con i vertici del Pd: si fa la nuova legge elettorale e poi si va a elezioni anticipate. Ma Veltroni invece vuole, prima di andare al voto, non solo la riforma elettorale, ma anche le riforme istituzionali e dei regolamenti parlamentari".

l’Unità 4.12.07
Rifondazione farà decidere gli iscritti
Referendum in primavera sulla permanenza nel governo. Stati generali della Cosa rossa l’8 e 9 dicembre
di Marcella Ciarnelli


UN’AGENDA di lotta e di governo. Rifondazione Comunista ne ha fissato le scadenze dei prossimi tre mesi al termine dei lavori della direzione del partito. Una road map che comincerà con la verifica di governo in gennaio e della cui esigenza il segretario Franco Giordano ha discusso anche con il Presidente della Repubblica nel corso di un recente colloquio al Quirinale. E che si concluderà con un referendum tra gli elettori della sinistra per decidere, a verifica avvenuta, se ci sono ancora le condizioni per Rifondazione resti nella compagine di governo.
Al tavolo della trattativa il segretario Giordano ci vuole arrivare «con un mandato preciso». Per ottenerlo partirà una consultazione tra gli iscritti, ma sarebbe bene partecipassero quanti si riconoscono nella “cosa rossa” che dovrà fissare le priorità per «ricontrattare politicamente» quel programma «su cui siamo andati alle elezioni e che adesso non c’è più». Toccherà quindi al popolo della sinistra, una volta fatta la verifica, valutare con un sì o con un no se i punti stabiliti sono stati rispettati. Il prevalere dei no farà prendere in considerazione l’uscita della maggioranza. Il percorso fissato da Rifondazione sarà uno degli argomenti al centro dei Stati generali della sinistra che si terranno a Roma l’8 e il 9 dicembre ed a cui parteciperà anche Fausto Bertinotti. «Un’occasione per proporre rapidamente un’alternativa al Partito Democratico in stile americano e al populismo del Partito delle libertà». Che Prodi abbia fatto sapere di essere lui il garante della coalizione in tema di riforma elettorale a Giordano è sembrato troppo poco. «Ha scelto il tema meno indicato. Avremmo preferito lo avesse fatto nei passaggi delicati che abbiamo affrontato, a partire dai temi sociali».
L’itinerario in due tempi, che ha il sapore di una “fiducia a tempo” per Prodi ed il suo esecutivo, potrebbe avere come conseguenza lo slittamento del congresso previsto per marzo. Ma lo deciderà il Comitato politico nazionale, già convocato per il 16 di dicembre. Prima di questa data saranno consultati tutti segretari regionali e di federazione. «Se qualcuno agita lo spettro del rinvio come il segno di un deficit di democrazia nel partito, il congresso» si farà ha detto Giordano cui già sono arrivate le prime fibrillazioni.
Non è stata una assemblea facile quella di Rifondazione, un partito stretto tra la lealtà verso il governo e la necessità di non perdere la propria identità, specialmente dopo le ultime scelte dell’escutivo che l’hanno messo all’angolo. Lo strappo sul welfare, per alcuni una sconfitta senza mezzi termini, ha pesato sull’intera discussione. C’è stato spazio per la riflessione e per l’autocritica. C’è stato chi ha sottolineato l’inefficacia dell’azione politica e chi ha cercato di mettere in luce più i risultati positivi dell’azione di governo. Impotenza o risultati.
Rifondazione, almeno nella maggioranza dei suoi dirigenti, non è ancora un partito contro. Lo strappo dal governo è di là da venire. La scelta di aver votato la fiducia non è stata sconfessata dal segretario. Anzi difese «perché se facciamo cadere il governo non possiamo farlo peggiorando le condizioni dei lavoratori come sarebbe accaduto con l’entrata in vigore dello scalone Maroni». Ma questo non toglie che il vincolo politico di maggioranza ormai è andato in frantumi. La parola deve passare ai militanti, possibilmente a tutti quelli con cui lavorare per cercare di raggiungere «l’unità a sinistra». E il referendum è la strada scelta.

Corriere della Sera 4.12.07
Il progetto veltroniano costretto a fare i conti con gli alleati in rivolta
di Massimo Franco


Il dialogo fra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi non si ferma. Ma l'impressione è che quello fra maggioranza e opposizione non sia ancora neppure cominciato. Il segretario del Pd e il leader di FI inseguono un'intesa destinata per ora a suscitare sospetti e non solo entusiasmi. «Fra noi», sostiene il Cavaliere, «c'è coincidenza di vedute ». Forse. Il problema, però, non è di trovare un accordo sul sistema elettorale fra loro, ma di farlo accettare ai propri alleati. Pesano la diffidenza atavica dell'Unione verso il Cavaliere; il fantasma del patto a due; e l'atteggiamento guardingo di Romano Prodi, nervoso per i contraccolpi della trattativa sul governo. Così, quattro giorni dopo l'incontro Pd-FI alla Camera, i protagonisti sono costretti a convincere gli altri della bontà dell'operazione.
Impresa difficile. Veltroni non ha nessuna intenzione di fermarsi. E ha cominciato a indicare il Parlamento come il luogo dove si dovranno confrontare posizioni che non coincidono con l'appartenenza ad uno schieramento. Ma più il sindaco di Roma insiste sul valore storico di quanto sta accadendo, più si rizzano orecchie scettiche e allarmate. E più Berlusconi accentua l'esigenza di un'intesa fra i due grandi partiti, più le forze minori recalcitrano e si smarcano. L'atteggiamento della Lega, di An e in parte dell'Udc non costituisce un viatico incoraggiante: come minimo, fanno resistenza passiva.
Al Cavaliere che invita ad avvicinarsi al futuro partito delle libertà, pena l'irrilevanza e l'isolamento, Umberto Bossi replica con durezza: «La Lega non ha paura di restare isolata. I voti li pigliamo comunque». Il timore è quello di sempre: una riforma elettorale «che brucia la Lega». Una simile prospettiva spinge i lumbard a prendere le distanze da Berlusconi; e ad avvertirlo che il loro sodalizio può essere messo a rischio. Si tratta di resistenze che si saldano con quelle di un fronte eterogeneo ma agguerrito, che sta prendendo corpo nel centrosinistra. Apparentemente, Romano Prodi è solo uno spettatore interessato. Minimizza le polemiche, arrivando a dire che il centrodestra litiga più dell'Unione. Eppure, non nasconde di fidarsi di Berlusconi «un po', fino a prova contraria».
E intanto accetta di organizzare un vertice di maggioranza per discutere di riforma elettorale. «Si tratta di un obbligo politico, oltre che di buona educazione», ha spiegato ieri dall'Albania, dove si trovava in visita ufficiale. Anzi, è «un incontro scontato e necessario», perché «i grandi problemi si discutono insieme». La riunione si dovrebbe tenere la settimana prossima. E a occhio, per il segretario del Pd non sarà proprio una marcia trionfale. Prodiani come Arturo Parisi e Rosy Bindi lo accusano di tradire il maggioritario. Ieri si sono riuniti come «ulivisti» per dire no a quella che considerano «una deriva proporzionalista». Eppure i settori comunisti della coalizione rivolgono a Veltroni una critica opposta. Lo accusano di puntare ad un sistema bipartitico di fatto, con FI dirimpettaia; e dunque di parlare di proporzionale per imporre una logica che, a sentire Oliviero Diliberto del Pdci, mira a «sterminare gli alleati».
Insomma, Veltroni viene raffigurato come il sabotatore di un'alleanza che già gode di salute precaria. Ma l'ostilità contro di lui è esagerata strumentalmente anche per il ruolo che ricopre: attaccarlo serve a colpire il Pd. Il dialogo viene visto dunque come il cavallo di Troia di una fase che parte dell'Unione non vuole, e dunque combatte. Per Prc, Pdci e Verdi, come per l'Udeur di Clemente Mastella, Veltroni lavora per l'egemonia sul centrosinistra. È una strategia considerata foriera di intese con FI, con la conseguenza di far cadere Prodi; e dopo le elezioni, di una resa dei conti con i partiti piccoli. Per questo si riconosce il ruolo di garante della coalizione al premier in quanto tale, non come padre nobile del Pd. Per lo stesso motivo, nelle intenzioni di qualcuno il vertice a palazzo Chigi dovrebbe trasformarsi in una sorta di tribunale chiamato a processare i progetti veltroniani.

Repubblica 4.12.07
La consultazione aumenta però la tensione con i partner della Cosa Rossa. Sd: può diventare un siluro a Prodi
Il Prc vara il referendum sul governo "E sul decreto espulsioni niente sconti"
L’iniziativa si svolgerà dopo la verifica. Il Pdci: una mossa del tutto inutile
di Umberto Rosso


ROMA - Un "referendum" sul governo. L´idea porta la firma di Franco Giordano, e su questa base il segretario è riuscito a rimettere sostanzialmente d´accordo Rifondazione. Oltre che agli iscritti del Prc, Giordano lancia la proposta agli altri soci della Cosa rossa (nel prossimo week end a conclave a Roma per gli stati generali), ma le prime reazioni sono fredde. Si chiamano fuori i comunisti italiani, «ci pare inutile la verifica, figuriamoci una consultazione sulla verifica», mentre nelle fila della Sinistra democratica serpeggia la preoccupazione che un referendum possa tradursi solo in un siluro per Prodi. Un timore che circola anche fra i Verdi. In ogni caso, prima ancora di mettersi sulla strada della consultazione della base, a sinistra resta alto l´allarme sul decreto sicurezza, da oggi all´esame dell´aula del Senato (tour de force sugli emendamenti, con voto finale previsto per giovedì). Fra Rifondazione e il ministro Amato (attraverso il sottosegretario Marcella Lucidi) l´intesa di massima c´è: superamento, sia pure non definitivo, dei Cpt. Ma non tutti nel Pd, secondo quel che risulta alla sinistra radicale, gradiscono il testo frutto del compromesso. Il pericolo, allora, è che su alcune modifiche presentate dal centrodestra (in particolare da An) possa saldarsi un fronte che comprenda anche esponenti della maggioranza e la pattuglia dei diniani. «Ma se in questo modo il decreto espulsioni sarà peggiorato - avverte il capogruppo del Prc, Giovanni Russo Spena - sia chiaro che noi voteremo contro».
Una volta superato lo scoglio-sicurezza (e quindi la seconda lettura della Finanziaria), ecco allora aprirsi lo scenario della verifica di governo. Che Franco Giordano, ieri davanti allo stato maggiore del suo partito, ha arricchito con l´idea del sondaggio di massa fra i militanti. Ai dettagli stanno ancora lavorando ma il piano dovrebbe scattare in due tempi: una consultazione "in uscita" e una in "entrata". Un po´ sul modello sindacale, che chiama i lavoratori a pronunciarsi prima sulla piattaforma e poi sull´accordo raggiunto. Dunque, primo passaggio a gennaio con la richiesta agli iscritti di un mandato forte per trattare con il governo. Sul tappeto il segretario ha messo quattro temi caldi, da sottoporre appunto alla base: svolta sul precariato (secondo il progetto del giuslavorista Alleva), detassazione degli aumenti contrattuali, sblocco della Amato-Ferrero sull´immigrazione, pace e disarmo. Alla fine delle trattative con Prodi, più o meno nella prossima primavera, ecco il secondo tempo: il nuovo sondaggio, stavolta sui risultati incassati. E´ proprio questa, naturalmente, la parte più delicata dell´intera operazione: una vittoria dei no vincola il Prc a staccare la spina di Palazzo Chigi. E se il presidente Napolitano dovesse ipotizzare altre soluzioni? O se, nel frattempo, si fosse sul punto di chiudere un´intesa sulla legge elettorale? Ecco perché all´interno del Prc stanno ancora valutando con molta attenzione l´ipotesi di un referendum-capestro. In ogni caso, il combinato disposto verifica-consultazione degli iscritti quasi certamente farà slittare il congresso del partito, previsto in marzo. Rinvio che provoca qualche malumore, sospettando un qualche congelamento della battaglia interna. Ma il ministro Ferrero (uno dei nomi più accreditati per un´eventuale candidatura alternativa) decide di aspettare gli eventi. E non affonda il colpo neanche Ramon Mantovani, ala dei duri, che pure il referendum anti-Prodi lo vorrebbe, e subito.

l’Unità 4.12.07
All'Alpheus. La sinistra unita «consulta» Roma
«Partiamo dai temi della città per costruire il nuovo soggetto»


Una consultazione popolare nella città intorno ai lavori, ai contenuti e alle forme di una sinistra nuova, unitaria ed ecologista e la costituzione, sul territorio di Roma, di Comitati che trovino all'interno delle «Case della sinistra» i luoghi in cui si superino le divisioni.
Questi i punti della bozza programmatica elaborata dall’assemblea della «Sinistra unita» che si è svolta ieri all'Alpheus. Tanti i militanti, le associazioni e gli esponenti della società civile, ma anche gli assessori regionali al Bilancio e alla Cultura, rispettivamente Luigi Nieri e Giulia Rodano, il consigliere provinciale, Massimo Cervellini, che hanno riposto all'appello partito dal sito www.sinistraunita.info e che porterà all'Assemblea della sinistra e degli ecologisti convocata per l'8 e il 9 dicembre prossimo.
«Dobbiamo dirci la verità, è una grande occasione per superare anche la debolezza della sinistra. È un percorso anche difficile che però stenta a decollare». Lo ha detto l'assessore capitolino alla semplificazione, Cecilia D'Elia partecipando all'assemblea.
«C'è una grande domanda di unità e di partecipazione - ha affermato D'Elia - oggi nello spazio pubblico non c'è più spazio per la vita collettiva o mettiamo in campo un'altra idea o saremo perdenti».
«Si deve costruire una via che sia alternativa al protagonismo personale e alla partecipazione dall'alto per una sinistra unita e nuova», ha ricordato il presidente del Consiglio provinciale, Adriano Labbucci aprendo i lavori.

Repubblica Roma 4.12.07
L’assemblea dell’Alpheus
"Cosa rossa" la prima sfida alle provinciali
di Gabriele Isman

Non soltanto il Partito democratico, non solo la formazione che nascerà dalle ceneri di Forza Italia, o la lista La Destra di Storace. Le elezioni provinciali del 2008 potrebbero vedere anche il debutto della "Cosa Rossa", «il soggetto unitario della sinistra» come lo chiama l´assessore regionale Luigi Nieri, «un modo per non rimanere nelle proprie trincee» come ribadisce il presidente del Consiglio provinciale, Adriano Labbucci. Ieri è stato proprio lui ad aprire i lavori dell´assemblea Sinistra unita all´Alpheus. Amministratori ma a anche cittadini, associazioni, eletti di Rifondazione, Verdi e Pdci, che hanno risposto all´appello del sito www. sinistraunita. info - che conta già 700 firme, tra cui Ascanio Celestini, Achille Occhetto, ma anche gli assessori comunali Cecilia D´Elia e Dante Pomponi, e il delegato del Sindaco alla Memoria, Sandro Portelli - in vista dell´Assemblea della sinistra e degli ecologisti convocata per l´8 e il 9 dicembre prossimi al Palazzo dei Congressi dell´Eur. «Serve una nuova sinistra - ha detto Labbucci - altrimenti il rischio è l´emarginazione. Dare vita ad un soggetto unitario altrimenti ognuno rimane nelle proprie trincee. La federazione è un passo avanti ma non un approdo perché le federazioni non reggono a livello politico. L´obbiettivo è presentare una lista unica e gruppi unici ai consigli a partire dalle prossime provinciali. Roma è un laboratorio, qui si scaricano le problematiche nazionali».
All´assemblea c´erano, tra gli altri, lo storico Paul Ginsborg («Se dall´assemblea del prossimo week end verrà fuori l´idea che i partiti consulteranno la base, mi sentirò offeso. Io voglio partecipare attivamente alla costruzione della sinistra»), Aldo Tortorella, il segretario romano di Rifondazione Comunista Massimiliano Smeriglio. «Citando Paolo Conte - spiega il presidente del municipio X Sandro Medici all´Alpheus - si muore un po´ per poter vivere. Ovvero bisogna lasciare quelle identità che si rivelano steccati per rilanciare un´idea di sinistra in questo Paese».
Per tutti, l´appuntamento è al week end, al Palazzo dei congressi.

l’Unità 4.12.07
A Roma le Unioni civili avranno un altro nome?
Compromesso linguistico del Campidoglio per non urtareil Vaticano
Si chiamerà «Registro delle solidarietà»
di Mariagrazia Gerina


Dove non è riuscita la cattolicissima vicesindaco Maria Pia Garavaglia, si cimenta ora il “popolarissimo” (nel senso di ex Ppi) Lucio D’Ubaldo. Ovvero: trovare la formula che non offenda le sensibilità cattoliche, presenti dentro e soprattutto fuori dall’Aula Giulio Cesare. Registro sì, dunque, ma «delle Solidarietà» e non «delle Unioni civili». È questa l’ultima mediazione simbolico-linguistica messa in campo per ricucire le spaccature all’interno della maggioranza alla vigilia della fiaccolata radicale. A suggerirla è stato l’assessore al personale (già segretario cittadino del Ppi) Lucio D’Ubaldo e il capogruppo del Pd Pino Battaglia l’ha fatta propria esponendola nel vertice di maggioranza convocato ieri mattina dal sindaco Walter Veltroni per tentare di sciogliere la matassa e disinnescare le due delibere già all’ordine del giorno che chiedono appunto l’istituzione di un «Registro delle Unioni civili» e rischiano di far deflagrare le divisioni nella maggioranza e nel Pd. Sia quella di iniziativa popolare promossa dai radicali, sia quella consigliare (firmata dai capigruppo di Rnp, Verdi, Prci, Pdci), hanno infatti già raccolto il no compatto dell’Udeur, quello del vicecapogruppo del Pd, Amedeo Piva e di altri ex Dl, di un pezzo di lista civica per Veltroni, spaccata quanto il Pd. Soprattutto si è fatto sentire chiaramente il no del Vaticano, contrario al Registro anche qualora fosse istituito presso la Commissione Immigrazione Nuovi Diritti e Multietnicità (la mediazione tentata dalla vicesindaco) piuttosto che presso l’Anagrafe, come prevede la delibera di iniziativa popolare.
Per ora le forze che hanno portato avanti la battaglia (Verdi, Prc, Rnp e Pdci) hanno preso del tempo. E lo stesso Veltroni ha suggerito a tutti una pausa di riflessione. «La sostanza è il Registro e non come si chiamerà», ragionano intanto tra loro i capigruppo lasciando la stanza del sindaco. C’è chi è più possilista, come il Verde Nando Bonessio, chi più pessimista, come la Prc Adriana Spera: «La verità è che in questo paese non si può pronunciare la parola Unioni civili». Il più riflessivo di tutti è il pasdaran di Sinistra democratica Roberto Giulioli, di solito molto irruento. Che ci sia un «registro», comunque si chiami, e che il tema sia affrontato «in una delibera» sono i punti su cui non vogliono cedere. Il capogruppo del Pd, però, ha parlato di un ordine del giorno, in cui si ribadisca prima di tutto che già da tempo il Comune di Roma non discrimina le famiglie di fatto, prendendo come criterio di accesso al Welfare la famiglia anagrafica. Poi: che sulla materia delle Unioni civili è il parlamento che deve legiferare. Infine: che presto in giunta verrà portata una delibera che riordini il settore dell’anagrafe e istituisca il Registro delle Solidarietà. In attesa di capire meglio tempi e rischi della proposta, «le due delibere restano all’ordine del giorno», dice Gianluca Quadrana (Rnp). Ci sarà anche lui alla fiaccolata promossa dai radicali per questa sera, insieme a Pannella e a Grillini e Boselli, che pure hanno aderito per scandire il termine del 5 dicembre (sei mesi dopo la consegna delle 10mila firme a sostegno della delibera). «Termine perentorio», concorda Quadrana: «Anche se poi c’è la saggezza politica di essere flessibili sui tempi visto che stiamo cercando di raggiungere una mediazione». Mediazione o no, almeno la delibera di iniziativa popolare, con ogni probabilità, andrà avanti. E al momento del voto la spaccatura sarà inevitabile. Ma il punto è evitare che faccia troppo male. A questo servirebbe aver già dato il via libera a un «Registro B», quello delle «Solidarietà».

l’Unità 4.12.07
Unioni civili, la battaglia di Roma
di Andrea Benedino


La questione del registro delle unioni civili è diventato un caso: attenzione il rischio è di perdere in credibilità politica per chi ancora si batte per affermare il principio di laicità come «valore guida» nel futuro Pd

Il Consiglio Comunale di Roma si sta apprestando, in un clima di scontro tra guelfi e ghibellini, a discutere dell’approvazione del Registro delle Unioni Civili, a seguito di una delibera di iniziativa popolare sottoscritta da oltre 10.000 cittadini. Questa discussione e le decisioni che ne seguiranno stanno diventando sempre più emblematiche di come il Pd a guida Veltroni saprà affrontare i nodi delle questioni relative ai diritti civili, e più in generale di quanto il Pd e il suo leader sapranno decidere su temi di questa portata resistendo alle invadenze di campo e ai condizionamenti delle gerarchie vaticane e quindi di quanta fermezza ci sarà nell’affermazione piena del valore della laicità dello stato come valore guida di tutto il partito.
Un accordo che sembrava a portata di mano, a seguito di una faticosa mediazione portata avanti dal vicesindaco Maria Pia Garavaglia, sta rischiando di naufragare in queste ore a seguito dell’accensione dei riflettori sul «caso Roma» da parte delle solite gerarchie di Oltretevere: in primis un articolo di avvertimento di Avvenire nei giorni scorsi, poi l’incontro tra Veltroni e il cardinal Tarcisio Bertone, e poi ancora le dichiarazioni della senatrice teodem Paola Binetti secondo cui «il registro civile a Roma è una cosa inaccettabile. Benedetto XVI si è espresso contro e se passa, qualcuno penserà che Veltroni non può governare la città del Papa». Per non parlare delle dichiarazioni offensive per la dignità delle migliaia di conviventi etero ed omosessuali romani del novello Pio IX vice-capogruppo del Pd di Roma Amedeo Piva, secondo cui quella del Registro è «una delibera inutile ed inopportuna» e chi si impunta «si scontrerà contro un muro invalicabile» (forse quello di Porta Pia?).
Tanto basta per creare un caso, ed il tutto alla vigilia della discussione in Commissione Giustizia al Senato sui Contratti di Unione Solidale, per l’approvazione dei quali Veltroni segretario ha speso in questi mesi, fin dalla campagna per le elezioni primarie, parole forti ed impegnative.
Alle parole però devono seguire dei fatti, pena il rischio forte di perdere in credibilità politica e di far perdere la faccia a quanti ancora si battono per affermare pienamente il principio di autonomia e laicità dello stato come «valore guida» del futuro Pd. E i fatti non possono certo essere il baratto tra la bocciatura esplicita del registro e l’approvazione di un blando documento che scarica al Parlamento la patata bollente dei diritti dei conviventi, come si vocifera in queste ore. Anche perché la Roma di Veltroni, rispetto a tanti altri comuni italiani - da ultimo Ancona - che da anni hanno varato strumenti di questo tipo, anziché svolgere un ruolo tra i comuni capofila, rischierebbe di essere semplicemente l’ultima ruota del carro. E questo di certo il Pd veltroniano, amante dei primati e dell’eccellenza, è l’unica cosa che non può permettersi.
Personalmente sono consapevole del valore prettamente simbolico dell’approvazione di un Registro a Roma e del fatto che la vera battaglia sarà quella che si svolgerà in Senato. Ma è anche del tutto evidente come le due questioni si tengano strettamente assieme per il fatto che la figura del Sindaco di Roma coincide con quella del segretario del Pd e con quella del probabile futuro candidato premier del centrosinistra. Questo mi porta a dire che è ormai indubbiamente arrivato il momento del redde rationem per la leadership di Veltroni e per la tenuta del Partito Democratico sul tema dei diritti dei conviventi e che non ce la si potrà cavare facilmente con compromessi al ribasso che rinviino il problema sine die.
Le strade che Veltroni ha a sua disposizione per esercitare la sua leadership a mio parere non sono che due: o investirà tutto sul segnale politico che si produrrebbe nel paese e sul Parlamento con l’approvazione del Registro da parte del Consiglio Comunale capitolino (segnale che potrebbe produrre effetti anche a lungo periodo nella prospettiva della futura campagna elettorale), oppure sarà costretto ad impegnare personalmente tutta la sua credibilità di leader politico nell’incerta battaglia del Senato, col rischio che pezzi consistenti del suo gruppo parlamentare possano non seguire le sue indicazioni compromettendo l’immagine dell’intero partito. Tertium non datur, pena l’avvio di una deriva clericale che segnerebbe la perdita definitiva di credibilità del Pd verso il mondo laico del nostro Paese.
Personalmente ritengo che la seconda strada sia - in una prospettiva di lungo periodo - la più impervia e pericolosa per lo stesso Veltroni, in quanto egli rischierebbe di diventare suo malgrado l’ultimo di una lunga serie di leader politici italiani che su questo tema hanno parlato al vento, venendo poi contraddetti dalle proprie maggioranze parlamentari. Lo sarebbe perché di fatto si consegnerebbe la leadership del segretario nazionale del Pd su un tema come questo in ostaggio a quella piccola pattuglia di senatori teo-dem che finora hanno impedito con azioni efficaci ogni tipo di decisione parlamentare sull’argomento. Al tempo stesso questa sarebbe indubbiamente anche la strada che potrebbe far conseguire i risultati migliori, cioè l’approvazione di una legge da parte del Parlamento, atto ben più importante di qualsiasi registro. Questo però a condizione che Veltroni riesca a dimostrare di saper imporre una condotta parlamentare anche a quei senatori più inclini alle indicazioni delle gerarchie di Oltretevere, impresa che i più giudicherebbero alquanto ardua.
Di certo Veltroni non può pensare di limitarsi a stare zitto e fermo. La «politica del semaforo» di guzzantiana memoria, infatti, è proprio quella che è stata perseguita finora in questi anni dai vari leader del centrosinistra e che costringe l’Italia all’impossibilità di varare quelle riforme civili come i Cus, il testamento biologico o una riforma della legge sulla procreazione assistita che altri paesi hanno varato da tempo.
La nuova stagione che molti si augurano di vedere all’opera dipende molto quindi dalle scelte che farà Veltroni nelle prossime ore. Non è più il tempo del «ma anche», ma è giunto il momento delle scelte. Ci aiuti Veltroni a non deludere le speranze e i sogni di libertà di quella maggioranza di italiani che vorrebbe vivere una nuova stagione di libertà.
* Componente Commissione Manifesto dei Valori Pd

Repubblica Firenze 4.12.07
L’onorificenza concessa dal presidente della Repubblica. Finirono davanti al plotone d’esecuzione perché non vollero arruolarsi
Medaglia d’oro ai martiri dello stadio
I cinque ragazzi furono fucilati dai fascisti il 22 marzo del ‘44
di Marzio Fatucchi


Tre morirono subito, altri due urlavano "mamma, mamma": furono finiti dai repubblichini con alcuni colpi di pistola
Non avevano neanche vent´anni, furono catturati durante un rastrellamento a Vicchio

«Vigliacchi, perché li uccidete». I soldati semplici si ribellarono, urlarono, alcuni svennero. Furono necessarie le minacce con il mitra dei repubblichini perché il plotone di esecuzione eseguisse la condanna a morte in quanto «renitenti alla leva» di quei cinque ragazzi, allo stadio di Campo di Marte. Tre di loro morirono subito, due, urlando «mamma, mamma», furono finiti con la pistola dai fascisti. I cinque ragazzi, allora neanche ventenni, Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni e Guido Targetti, adesso sono cinque medaglie d´oro al valor civile, conferite dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Era il 22 marzo del 1944, i cinque ragazzi uccisi furono accusati di non voler partire con l´esercito della Repubblica di Salò. Per questo il presidente del «tribunale militare straordinario di Firenze», il comandante regionale Adamo Rossi, emise le sentenze capitali. Cinque delle 23 comminate in quei pochi mesi: giovanissimi mandati a morire, dopo una procedura sommaria. Talmente sommaria che, come ricorda Carlo Francovich nel suo "La resistenza a Firenze", «i difensori ebbero impressione che le decisioni fossero già prese in altra sede». Forse qualcosa di più di una sensazione: lo dimostrerebbe il fatto che il famigerato maggiore Carità, il torturatore di Villa Triste, «una volta entrò nella sala dei testimoni a difesa e disse: "Oggi, qui ci debbono essere della condanne a morte, altrimenti ci penso io!"». Fu il Carità, ricorda don Angelo Becherle, il sacerdote che amministrò gli ultimi sacramenti ai ragazzi, a dare il colpo di grazia con la pistola, un intero caricatore, ai due ragazzi che ebbero la sfortuna di non morire subito.
I cinque ragazzi furono catturati durante un rastrellamento nelle campagne di Vicchio, una «punizione» per la zona, dove la Resistenza stava facendo proselitismo. Cinque condanne pretestuose, hanno sostenuto gli storici, servivano sia per dare un segnale al territorio del Mugello che per intimorire gli stessi soldati. «Che questa fucilazione dovesse avere il valore di un monito la dimostra il fatto che vari reparti militari formati da coscritti tutt´altro che entusiasti, dovettero assistere all´esecuzione perché da questo episodio imparassero a temere ed a rispettare la disciplina militare della Repubblica di Salò» scrive ancora Francovich. Sempre gli storici mettono in collegamento questo assassinio con l´azione dei Gap contro l´allora ministro della Repubblica di Salò Giovanni Gentile: una decisione pare presa come risposta all´eccidio di Campo di Marte, si ipotizzò di trasportare il suo corpo nello stesso luogo dove era stati fucilati i cinque.
A Campo di Marte, è presente un monumento, ogni anno si svolge una cerimonia a cui partecipano cittadini e scolaresche. Ed è proprio questa forte partecipazione in città ed a Vicchio, a distanza di oltre 60 anni, ad aver convinto il presidente Giorgio Napolitano a concedere la medaglia al valor civile, dopo la richiesta del presidente del quartiere 2 Gianluca Paolucci, sostenuta dalla Prefettura.

Corriere della Sera 4.12.07
Il ministro. Dibattito con gli studenti
D'Alema: no alle nozze gay. Sento il fascino della fede
di Fabrizio Caccia


Con gli studenti Il vicepremier e i giovani di un istituto tecnico: «Non sono cattolico ma avverto il fascino della fede»
No di D'Alema alle nozze gay: offesa a tanti italiani

ROMA — Massimo D'Alema in un istituto tecnico. Ammette di «avvertire il fascino della fede» e spiega: «Non sono favorevole a nozze tra omosessuali perché il matrimonio tra un uomo e una donna è il fondamento della famiglia, per la Costituzione. E, per la maggioranza degli italiani, è pure un sacramento».
È un D'Alema che non t'aspetti, quello che ieri mattina, nell'Aula magna dell'istituto tecnico «Cristoforo Colombo», parla per due ore con i ragazzi. Tema del dibattito: i giovani e i partiti. Il ministro degli Esteri si apre molto con gli studenti, li preferisce chiaramente ai giornalisti. E dice cose forti. Racconta loro del fulminante incontro con il cardinal Martini a Gerusalemme («Io non sono cattolico, ma avverto il fascino della fede e il cardinal Martini ti comunica il senso di questo fascino...»).
Cita Remo Bodei e Max Weber, Leibnitz e Voltaire. Ma soprattutto risponde chiaro alle domande: «No, non sono favorevole al matrimonio tra omosessuali — dice a Francesca della V B — perché il matrimonio tra un uomo e una donna è il fondamento della famiglia, per la Costituzione. E, per la maggioranza degli italiani, è pure un sacramento. Il matrimonio tra omosessuali, perciò, offenderebbe il sentimento religioso di tanta gente. Due persone dello stesso sesso possono vivere uniti senza bisogno di simulare un matrimonio. Lo Stato, però, deve riconoscere loro diritti civili e sociali. Mi accontenterei di fare la legge...».
Martina della V E gli chiede dei benefit dei parlamentari: «Io ho sempre pagato il cinema — le risponde D'Alema — e se vado in vacanza il viaggio lo pago io, come quest'estate che sono stato ad Atene con AirOne. Se vuole le porto gli scontrini...». Risposta pronta anche quando Jacopo della V B prova l'attacco ad effetto: «Lei che è coinvolto in vicende giudiziarie...». «Guardi, la rassicuro, non sono coinvolto in alcuna vicenda...», replica il vicepremier. E l'Islam? «Il fondamentalismo non è un residuo arcaico, ma un fenomeno della globalizzazione — spiega D'Alema —. È la reazione alla paura di essere cancellati dal mondo occidentale. L'Islam per tradizione è tollerante, se non fossimo andati noi a dargli fastidio con le crociate...».
Infine, l'antipolitica: «La crisi dei partiti non vuol dire che è finita la politica». Anzi. Ma servirà «una rivoluzione che spazzi via il teatrino e riporti al centro i problemi grandi: la pace, la guerra, l'aria che respiriamo...». Come fu la sua, nel '68, quando ci fu «una radicale svolta generazionale». Ecco: servirà «una nuova generazione che arriva come un'ondata e pulisce tutto». Magari è proprio questa che oggi gli sta davanti. Ma per imporsi dovrà usare «la forza», non quella cattiva, quella buona, cioè dovrà «far sentire la propria voce», «cambiare l'agenda». I ragazzi applaudono. «È difficile che chi ha il potere lo lasci — li avverte, però, il ministro —. Dipenderà da voi».

Corriere della Sera 4.12.07
Prematuri, nuovi confini
«Rianimazione solo dopo 23 settimane» I medici verso un documento nazionale
di Margherita De Bac


PADOVA — Non deve scendere al di sotto delle ventitré settimane l'asticella della vita. Tranne che in situazioni eccezionali, la rianimazione di creature così piccole non è indicata. Diverso invece l'intervento su un bambino che nasce dopo 24 e 25 settimane di gestazione: sì alla terapia intensiva continuata.
Parte da qui la discussione sulle cure per i prematuri di peso estremamente basso — 22-25 settimane — che condurrà a un documento nazionale. Gli esperti della medicina perinatale si vogliono dare un indirizzo a sostegno di decisioni difficili nelle ore immediatamente successive al parto. Il punto di partenza è la Carta di Firenze, elaborata nel 2004 da un gruppo coordinato dal professor Gianpaolo Donzelli, neonatologo dell'ospedale pediatrico Meyer. Il ministro della Salute Livia Turco alcuni mesi fa ha nominato una commissione per aggiornarla, dopo la vicenda del bambino destinato all'aborto terapeutico, nato sano anziché con atresia all'esofago, morto pochi giorni dopo un'inutile assistenza straordinaria.
Molti Paesi, soprattutto quelli nordici, non solo l'Olanda (la più rigida) hanno individuato uno spartiacque, una linea di confine. L'Italia non ancora perché, come dice Donzelli «la nostra realtà è particolare, non siamo calvinisti né protestanti, bisogna giungere a compromessi». Da noi prevale un'attitudine alla rianimazione.
Parliamo di bambini partoriti con ampio anticipo, ben quattro mesi e mezzo prima di quanto sia previsto per l'uomo, sui quali pesa una prognosi incerta. Oggi le tecniche impiegate per supportare le funzioni vitali si sono evolute a tal punto da consentire il «superamento dei limiti dell'agire medico» che può configurarsi come accanimento. Ci sono casi invece che suggerirebbero un'assistenza amorevole, palliativa, senza forzature. La discussione è all'inizio. Neonatologi, ginecologi, medici legali cercano una condivisione per arrivare a posizioni di massima che tengano conto dell'estrema imprevedibilità di ogni singola situazione. Si vanno delineando delle «attitudini» nella sostanza non molto distanti dalla Carta di Firenze.
A 22 settimane solo palliazione. A 23 la rianimazione non sarebbe in genere opportuna salvo i casi in cui il bambino mostri segni di vitalità (respiro, attività cardiaca, movimento). A 24 settimane «il trattamento intensivo è sempre indicato», a 25 occorrono cure intensive. Un nuovo confronto su questi temi si è svolto a Padova, nel convegno su etica in neonatologia organizzato dall'Università.
Claudio Fabris, presidente della società italiana di neonatologia, è contrario a distinzioni nette: «Non dobbiamo basarci su una valutazione statistica, ma sulla prognosi individuale. I genitori vanno coinvolti senza che però gravi su di loro il peso delle decisioni, sempre di carattere medico. Ogni bimbo ha una sua storia, una sua famiglia. Le scelte dipendono da dati ecografici, per definire l'esatta età gestazionale, dalla vitalità al momento del parto Non siamo notai».
Contrario alle raccomandazioni Mario De Curtis, primario neonatologo del Policlinico Umberto I: «Non si è mai sicuri dell'età gestazionale né si può prendere in pochi attimi la decisione di assistere un neonato che, per la sua fragilità può essere poco reattivo. Ai danni dell'estrema prematurità possono aggiungersi quelli della mancata rianimazione. Ritengo necessario scegliere solo dopo aver avviato la terapia intensiva».
All'Umberto I negli ultimi 3 anni sono nati 26 bambini sotto le 25 settimane. Dei 14 rimasti in ospedale (altri 12 sono stati trasferiti a causa dell'insufficiente ricettività delle Unità di rianimazione), 6 sono sopravvissuti (fra loro nessuno di 22) e sono in buone condizioni. Al Careggi di Firenze, nel centro di Firmino Rubaltelli, dal 2004 al 2007, ricoverati in terapia intensiva 67 bambini di 23-25 settimane, sopravvivenza del 60%.

Corriere della Sera 4.12.07
E l'ospedale di Treviso vara un codice interno
di M.D.B

PADOVA — Ospedale di Treviso. Da settembre gli operatori della neonatologia fanno riferimento a una «Carta» interna, frutto di un confronto durato un anno e mezzo che oltre a pediatri e bioetici ha coinvolto ostetriche e infermieri. «Le nostre linee guida orientative sono state già applicate e hanno trovato buona accoglienza. Soprattutto, hanno eliminato i contrasti che si creavano nell'équipe neonatale e hanno avvicinato i sanitari alle famiglie», dice Camillo Barbisan, presidente del Comitato etico. Lo «schema di lavoro» prevede che sotto le 23 settimane di gestazione si applichino solo cure compassionevoli, di conforto. Il bimbo di 23 e 24 settimane riceve intubazione e assistenza respiratoria e le cure vengono mantenute solo se le sue condizioni migliorano. Altrimenti sono sospese. Dopo la 25a settimana si fa tutto il necessario per sostenere il bimbo. I genitori vengono coinvolti dall'inizio «ma la decisione sull'avvio o la sospensione della terapia è sempre e solo un atto medico, condiviso dalla famiglia» .

Corriere della Sera 4.12.07
Le polemiche. Tonini: non è questione di fede
I cattolici si ribellano: valutare caso per caso
di Mariolina Iossa

ROMA — «Cattolico, protestante, non credente. Che cosa c'entra? Non è una questione religiosa. E neppure culturale. Quattro o cinque anni fa il Time pubblicò in copertina il volto di un feto di 23 settimane. Era splendido, già tutto delineato. Non esiste il plus e il minus della vita. La vita è il valore. Unico, universale ». Monsignor Tonini preferisce parlare di «categorie del pensiero», i suoi pensieri vanno oltre la sua incrollabile fede. Figuriamoci se ci si possa mettere a discutere con lui di un limite di 23, 24 o 25 settimane.
All'ex sindacalista cattolico Savino Pezzotta, tra i promotori del Family Day, la «linea olandese» sembra semplicemente terribile. «Diciamola con le parole giuste: in Olanda li lasciano morire. Addirittura fino a 25 settimane. Se ce la fanno bene, sennò pazienza. Ma che civiltà siamo se lasciamo morire una persona solo perché è nata prima? Se non la aiutiamo a far di tutto perché ce la faccia? La famiglia però va sostenuta, io rifiuto la visione privatistica, quel: sono affari loro. No, sono affari nostri».
È anche una questione di «frontiere della scienza» per Luigi Bobba, senatore della Margherita. «La scienza è al servizio della vita. Se oggi ci sono tecniche e strumenti che 15 o 20 anni fa erano impensabili per i medici, le linee guida del ministero dovranno tenerne conto. Interroghiamoci su questo, non facciamo finta di niente».
La giornalista vicina all'associazionismo cattolico Eugenia Roccella è convinta che «a 22 settimane si può sopravvivere. Non esistono confini netti, non è questione di settimane, magari il bambino è figlio di genitori alti, è più grande della media, può farcela. Altri no. Ma se c'è una minima possibilità, che fai, lo lasci lì? No, valutare sempre, caso per caso. Il piccolo di 22, 23 settimane va accompagnato, quello di 24, 25 intubato». Ma anche offrire «centri di eccellenza, strumenti tecnici e culturali, competenze adeguate è indispensabile», aggiunge la senatrice Paola Binetti. «All'epoca mia era rischioso nascere settimini. Adesso siamo talmente avanti. Con l'aiuto del ministro Turco siamo riusciti a far passare un piccolo emendamento nella Finanziaria per potenziare i posti letto di terapia intensiva neonatale per i prematuri negli ospedali italiani. Anche perché bisogna affrontare una realtà: è purtroppo vero che la legge 40 sulla fecondazione assistita fa nascere bambini più piccoli e prematuri. Che vanno aiutati a vivere e a crescere come tutti gli altri».

Corriere della Sera 4.12.07
L'intervista Peter Sauer. «Infanticidio? No, è amore»
di M. D. B.

In Olanda: la Carta di Groningen prevede che si assistano solo i bimbi che nascono dopo 25 settimane

PADOVA — «Ogni volta che un bambino muore è un momento doloroso. Ho 61 anni, da 25 faccio il neonatologo e sempre, quando mi è successo, ho dovuto chiudermi nella mia stanza e non parlare con nessuno, per riprendermi dall'emozione. Ora sono anziano, ma ho l'identica reazione. E invece in Italia pensate che a noi olandesi l'infanticidio piaccia».
Ci sbagliamo, professore, nel ritenervi cinici?
«Certo, vi sbagliate di grosso. Abbiamo una mentalità diversa. Noi decidiamo nell'interesse del bambino, che deve sempre prevalere. E non credo sia nel suo bene farlo sopravvivere attaccandolo a una macchina col rischio molto alto di gravi handicap. Non difendiamo la vita, ma la sua qualità».
Il nome di Peter Sauer è legato al documento di Groningen, del 2002, sul trattamento dei prematuri di 22-26 settimane. Un protocollo dove i bambini da destinare all'eutanasia (attiva, attraverso l'impiego di farmaci, o passiva con la semplice astensione da ogni sostegno artificiale) vengono suddivisi in tre gruppi. Il medico olandese, direttore del dipartimento di pediatria all'ospedale di Groningen, è stato relatore del convegno «Problemi etici in pediatria» organizzato dall'università di Padova.
Il protocollo funziona?
«Chiariamo subito. Quel documento non stabilisce l'eutanasia ma serve ai medici per non finire sotto processo. Ogni caso di bambino non rianimato viene giudicato da una commissione esterna e dal ministero della Giustizia. In 5 anni nessuno di noi è stato perseguito».
C'è vita sotto le 25 settimane?
«Sotto le 25 settimane la percentuale dei neonati che sopravvivono e hanno la prospettiva di un'infanzia qualitativamente buona è molto bassa. Noi dunque non li rianimiamo. Se poi sopravvivono senza aiuti, con le loro forze, meglio così, è una gioia per tutti».
Cosa pensa dell'atteggiamento dei medici italiani?
«Non condivido l'impostazione. Non bisogna pensare alla salute del bambino in quel momento. E' sbagliato usare a ogni costo tutte le cure oggi disponibili, meglio concentrare gli sforzi sui piccoli con maggiori capacità. Quando parlo con i colleghi italiani si dicono d'accordo con me, poi agiscono diversamente per paura».
Ritiene che questa attitudine sia dovuta all'influenza della Chiesa?
«Certamente. Consiglierei a chi parla su basi teoriche di venirli a vedere, i grandi prematuri. Creature di pochi etti, spesso sofferenti, con organi poco sviluppati, in molti casi il loro cervello è una palla di biliardo».
Lei è protestante?
«Sì, ma non significa nulla. Farei lo stesso anche se fossi cattolico. È rispetto della qualità della vita. Nel mio studio è venuta una mamma che si era opposta alla decisione di non rianimare il suo bimbo di 25 settimane. Il piccolo è sopravvissuto con gravi handicap. La donna mi ha detto: "Eccolo, lei avrebbe voluto eliminarlo". Tra me e me ho pensato alle sofferenze che il piccolo patirà da grande».

Repubblica 4.12.07
Il genoma umano intuizione italiana
di Renato Dulbecco


Vent'anni fa il progetto di ricerca fu avviato dal Cnr. Un successo non solo per la cura di malattie come i tumori, ma anche occasione di un dibattito sui limiti della scienza

Il Progetto Genoma Umano fu una felice iniziativa del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) iniziata nel 1987, ormai vent´anni or sono. L´anno prima, ad una conferenza tenutasi a Cold Spring Harbor, vicino a New York, avevo sostenuto che il sequenziamento dell´intero Genoma Umano avrebbe portato grandi vantaggi alla scienze biologiche e genetiche e avrebbe avuto notevoli ricadute in medicina, prima di tutto nel settore del cancro. Già allora infatti era chiaro che il cancro era una malattia del genoma, perché alcune alterazioni negli oncogeni erano state individuate.

Queste, però, erano state ottenute in maniera per così dire artigianale. Mi parve allora che solamente uno sforzo organizzato per decifrare tutti i possibili cambiamenti che avvengono in una cellula tumorale avrebbe potuto svelare la patogenesi del cancro e per far questo la sequenza dell´intero genoma era un prerequisito indispensabile.

La comunità scientifica non fu inizialmente favorevole al progetto: gli alti costi stimati facevano temere che le risorse necessarie al progetto sarebbero state tolte da altri settori altrettanto importanti. Inoltre si sosteneva che grandi parti del genoma fossero inutili e che in ogni caso il lavoro sarebbe stato molto ripetitivo e poco degno di un vero ricercatore. Oggi, a vent´anni di distanza, tutte queste obiezioni sono state ampiamente superate e numerosi genomi, oltre a quello umano, sono ormai disponibili. Nello stesso tempo, i geni responsabili delle principali malattie genetiche sono stati individuati e i dati sul cancro e sulle altre malattie complesse cominciano ad accumularsi.

Il Cnr mi affidò fin dall´inizio il coordinamento del Progetto, in cui fui coadiuvato da Paolo Vezzoni, un ricercatore del Cnr stesso. Malgrado fosse auspicabile, non fu possibile creare un unico Centro per lo studio del genoma, ma data la particolare situazione frammentata si scelse la via di raccogliere in un unico coordinamento una ventina di gruppi che si interessavano di genetica umana e di concentrarli su una specifica regione cromosomica, la parte terminale del cromosoma X. Posso dire che i soldi, pur non essendo molti (due miliardi di vecchie lire per anno, grosso modo un centesimo di quanto stanziato dagli americani), furono ben spesi e che il progetto fu produttivo: si era allora nella fase di mappatura del genoma e le pubblicazioni che descrissero per prime la mappa della regione terminale del braccio lungo del cromosoma X sono lì a testimoniarlo. Come conseguenza, il contributo italiano alla scoperta di numerosi geni responsabili di malattie genetiche fu notevole. Si effettuavano regolarmente riunioni semestrali in cui erano esposti gli avanzamenti ottenuti, e i gruppi più produttivi vennero incoraggiati, pratica questa assolutamente necessaria perché un progetto raggiunga gli scopi prefissati.

Per ragioni che ancora mi sfuggono, il finanziamento terminò improvvisamente nel 1995 e, malgrado le assicurazioni a livello sia di dirigenza Cnr che di Ministero, non venne più ripreso. Fu un vero peccato, perché proprio allora iniziava la fase di sequenziamento da cui l´Italia rimase esclusa. Mentre la fase di mappatura consentiva ancora il successo di un piccolo progetto indipendente, la fase di sequenziamento necessitava di un´organizzazione più rigida e di un impegno a livello internazionale che non fu possibile prendere per carenza di fondi. Per questo l´Italia rimase essenzialmente fuori dalla seconda fase del progetto che culminò con la presentazione alla Casa Bianca nel 2000 non di uno ma addirittura di due draft del genoma umano.
Malgrado questa delusione, ho avuto modo di constatare che il Progetto Genoma fece nascere per la prima volta in Italia un dibattito sulle possibilità e i limiti della scienza, in un´opinione pubblica che sino ad allora aveva completamento ignorato le grandi possibilità che in quei decenni si stavano aprendo nel settore della biologia.

Repubblica 4.12.07
Vincere in nome di dio
di Maurizio Crosetti


Kakà ringrazia il Signore per il Pallone d´oro. Bush si sente parte di un disegno divino. Ecco come sportivi e potenti invocano la Provvidenza

«E´ stato Dio a volerlo» ha detto Kakà commentando la vittoria del Pallone d´Oro. Ma il goleador brasiliano non è l´unica star ad aver legato i propri successi a disegni divini. Sempre di più, nello sport come in politica, il trascendente gioca un ruolo chiave. Tutto da ostentare.
Lo ringraziano per una vittoria, e magari per quella stessa vittoria l´avevano anche pregato in ginocchio. Okay, ma per chi tifa Dio? Se poi vince l´altro, che magari è pure ateo, come la mettiamo? Indicano il cielo con un dito dopo un gol, si fanno il segno della croce prima di entrare in campo e poi si baciano la mano che andrà ad accarezzare l´erba. Va bene, ma se la moviola li pesca cinque minuti dopo nel più clamoroso dei bestemmioni?
La partita tra sport e religione è una faccenda complicata, un match a eliminazione diretta tra fede e superstizione, misticismo e magia. Ora se ne parla perché il milanista Kakà ha vinto il Pallone d´Oro («Dio lo ha voluto») e ha dichiarato che a fine carriera diventerà pastore evangelico, una specie di prete bello alla Goffredo Parise, speriamo per lui con più solida vocazione. Ma c´è chi non ha avuto bisogno di aspettare tanto, per la convocazione da parte di quel commissario tecnico imprevedibile che è Dio: Michela Amadori era una pallavolista azzurra, Fabiana Benedettini una campionessa di basket, hanno detto ciao e sono diventate suore. Stefano Albanesi non ha mai vinto il Pallone d´oro, però se la cavava mica male, nel Pescara. Via la tuta, ha indossato la tonaca. Uguale a quelle, antiche e nere, dei preti di oratorio nelle partite in mezzo alla polvere.
«Certe scelte si possono mantenere segrete, però renderle pubbliche può servire a qualcuno in difficoltà». Lo dice Antonietta Di Martino, vice campionessa del mondo nel salto in alto. «Dopo un grave infortunio stavo per abbandonare lo sport, credere in Dio mi ha aiutato molto». Il compagno segreto non cambia solo la carriera, così non vale. Cambia la vita. «Senza la mia conversione all´Islam non sarei stato così famoso in Arabia, Siria, Pakistan. Nel resto del mondo hanno conosciuto Cassius Clay». A dirlo, infatti, è Muhammad Alì. «Nel 1964 sono diventato islamico, poi ho cominciato a non mangiare carne di maiale, poi a non fumare e a non bere alcol. Tutto questo ha accresciuto la mia fede in Allah».
Di solito, Dio entra in campo nell´intervallo, quando l´atleta ha più bisogno di forza. Quando soffre, quando è stanco, quando è ferito. Ma se vi dicono che con la mano ha segnato lui e non Maradona, non credeteci. «Dopo l´infortunio al ginocchio ho avuto molto tempo per pensare, ed è lì che ho cominciato a interessarmi al buddismo». Roberto Baggio ringrazia le cicatrici sulla gamba, un uncinetto ricamato dal bisturi, per essere diventato il buddista più famoso d´Italia. Invece il terribile Mike Tyson si avvicinò all´Islam, o almeno lui dice di averci provato, nella cella di una galera, condannato per stupro. Oppure c´è chi, come Michael Schumacher, assicura di vedere Dio ai trecento all´ora. «Gli credo» commentò il cardinale Tonini. «Chi rischia la vita ogni giorno non può farlo con leggerezza, non può non interrogarsi sul senso dell´esistenza e del nostro stare al mondo».
Dio è un atleta democratico, gli piace giocare accanto ai fuoriclasse come agli sportivi normali. Sulla via di Damasco, anche se quel giorno si chiamava Allah e non Gesù, ha colpito Lew Alcidor, ovvero Kareem Abdul Jabbar, la supernova del basket americano. Ma anche Victor Claudio Vallerini, che faceva il terzino nella Lazio ed entrò in seminario. L´Altissimo chiama in tanti modi. «Non ho mai smesso di credere in lui, e così ho ripreso a giocare» dice Julio Gonzalez, l´ex attaccante del Vicenza che perse un braccio in un incidente stradale e dopo due anni è tornato in campo in Paraguay, dov´è stato tesserato dal Tacuary: non per un´esibizione ma per l´intero campionato. Oppure Kanu, il nigeriano che stava all´Inter e venne operato al cuore, valvola aortica e carriera finita? No. «Dio mi ha aiutato ad essere ancora un atleta, e la mia vita ha più senso di prima».
Il Signore chiama, e chiede. «Ho sentito la sua voce, mi diceva di non giocare più a basket, di rinunciare per lui a qualcosa che amavo davvero, e così è stato». Michael Watson, guardia statunitense che giocò a Jesi e Castelletto Ticino, si tolse canotta e scarpette per sempre. Invece Jonathan Edwars, grande triplista, nel ´91 rinunciò ai campionati del mondo per non dover gareggiare di domenica: una storia molto alla "momenti di gloria". Anche se poi la convocazione/vocazione segue strade misteriose e asimmetriche. C´è Taribo West (ricordate l´interista con le treccine colorate?) che diventa pastore pentecostale ed esercita in casa. C´è il brasiliano Muller, ex del Toro, ricordato per la sua memorabile moglie Jussara più che per le galoppate in area: oggi è pastore protestante, e del resto quasi tutto il Brasile campione del mondo 2002 s´inginocchiò a pregare dopo la finale di Yokohama, mostrando magliette con la scritta Jesus. Oppure c´è Nicola Legrottaglie che alla Juve chiamavano "il meshato" e che ora parla spesso di Gesù. Anche lui, come Kakà, è un novello evangelico: sabato scorso si sono affrontati a San Siro e chissà se si sono menati almeno un po´.
Ancora non inserito nelle sostanze proibite come doping spirituale, Dio forse c´entra qualcosa con le vittorie del ginnasta Igor Cassina o del canoista Antonio Rossi, oppure con gli spari infallibili del tiratore Giovanni Pellielo, o con le piroette sul ghiaccio di Carolina Kostner. Il portiere dell´Atalanta, Ferdinando Coppola, attaccava alla rete un santino della Madonna di Loreto, poi però ha smesso. E Moggi aveva in ufficio un quadretto di Padre Pio: non è bastato per schermargli il telefonino, e comunque la sua trinità erano arbitro e guardalinee. Anche se la migliore rimane il commento a una scritta sul muro di una chiesa di Liverpool, una ventina di anni fa: "Dio salva". Una mano anonima aggiunse "ma Rush segna sulla respinta".
Sacro o profano, qui non si gioca mai in campo neutro. Certo, il rischio dell´amuleto è forte. L´ha corso persino Trapattoni, stringendo l´ampolla con l´acqua benedetta ai mondiali asiatici: forse Budda tifava Corea.

Repubblica 4.12.07
George, Silvio e gli altri tutti i raccomandati dal Signore
di Vittorio Zucconi


È tramontata la blanda associazione con la parola «cristiano», utilizzata in contrappunto al materialismo socialista, da gruppi come la Dc di Don Sturzo o la Cdu bavarese di Joseph Strauss, che comunque mai pretesero di possedere un telefono privilegiato con la Provvidenza. L´identificazione passiva e collettiva con il Dio del Nuovo e dell´Antico Testamento deve oggi trasformarsi in ostentazione, in testimonianza attiva e individuale, fino alla proclamazione solenne della banda larga con il cielo. Lo intuì Silvio Berlusconi, la cui religiosità non sembrava ai più essere testimoniata dalla pratica di vita, trasformando negli anni ‘90 una «discesa in campo» in una allegorica «discesa dal cielo», via elicotteri, quando cominciò a giocare con formule rischiose quali «l´unto del Signore» e l´«Uomo della Provvidenza». Accolto dallo scandalo e dall´indignazione di coloro che ricordavano chi avesse già utilizzato queste false attribuzioni di titolo, ma benedetto dai cappellani della corte di Arcore, il segnale della «provvidenzialità» e dell´unzione sacra fu recepito e assimilato da coloro ai quali era diretto, dai naufraghi dei partiti cosiddetti «cristiani». In hoc signo, vinse.
Ma se in Italia la presenza a Roma di un rappresentante ufficiale del cielo limita la possibilità di vantare raccomandazioni divine, nessun Papa vieta invece agi aspiranti cesari americani di proclamarsi vicari di Dio in politica. Sfiorando il rischio di passare per folle («chi parla con Dio è una persona devota, chi sostiene che Dio parla a lui è da ricoverare») Bush seguì i consigli del proprio stratega Karl Rove e spiegò che «Dio parla attraverso di me» (16 luglio 2004). Fu Dio a dirgli, come l´arcangelo a Maria, «vai e porta la pace in Medio Oriente, dai uno stato ai palestinesi e la sicurezza agli israeliani» come riferirono stupefatti il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il suo ministro degli esteri Nabil Shaath, dopo un colloquio con lui. In La fede di George Bush, scritto da un importante leader cristianista, Stephen Mansfield, e mai smentito, il presidente spiega, tra virgolette: «Ho sempre sentito che era Dio a volere che io diventassi presidente. Non so spiegarlo, ma so che è Dio a volerlo».
Tra l´ovvio e il messianico, essendo comunque evidente per una persona di fede che «nulla avviene senza la volontà di Dio», la nuova generazione di raccomandati dal Signore mercanteggia la propria fede in voti. Il ricorso a Dio nei momenti di difficoltà politica non è nuovo né esclusivo dell´Occidente, come dimostrò Stalin riesumando dalle galere sovietiche il metropolita ortodosso di Mosca per benedire l´Armata Rossa mentre la Wehrmacht era alle porte. Ma la pretesa di essere il portatore di un endorsment divino in politica non era stata così sfacciata dalla visione di Costantino sul Ponte Milvio. Tutti i concorrenti alla Casa Bianca collassano lungo la via di Damasco. Lo fa la Clinton, la cui devozione ci era rimasta oscura per 60 anni. Barack Hussein Obama, sul quale pesano micidiali insinuazioni di frequentazioni giovanili di moschee, non si perde una funzione nella chiesa della Trinità a Chicago. E non si ricorda un candidato come il pastore battista Mike Huckabee, ex governatore dell´Arkansas, che da simpatica comparsa sta scavalcando nei sondaggi repubblicani i pezzi grossi Giuliani, Romney, McCain e Thompson sparando nei propri spot la dizione "Christian Leader". Dunque un cristiano prima che leader, per una nazione troppo spaventata e confusa dal Dio degli altri (il «Dio cattivo» secondo il generale del Pentagono Boykin) per ricordarsi della Costituzione che vieterebbe ogni test di religiosità in politica (Art VI, sez. 3). Neppure il televangelista Pat Robertson osò mai descriversi prima come «cristiano» e poi come «leader» nella sua corsa presidenziale del 1988. Il senatore Joe Libermann, arrivato a 537 voti dalla vicepresidenza, pur ebreo ortodosso praticante mai si sarebbe sognato di definirsi come un «leader ebreo».
Quello che appare chiaro, nelle nazioni dove più profonda è la diffidenza verso la politica, è che il ricorso a Dio è inversamente proporzionale alla fiducia negli uomini. L´apparentamento al divino, la fuga verso il cielo, è una sorta di bollino di garanzia trascendentale che si può rifiutare, ma non confutare. Quando le benedizioni degli uomini divengono sospette agli occhi dei cittadini, o i propri precedenti terreni sono dubbi, e lì che scatta «l´uso politico del discorso mitico» nella definizione del politologo Stephen O´Leary, l´apparentamento con l´ineffabile e l´indimostrabile. È l´equivalente mistico del leggendario «parola di re» che Farouk d´Egitto oppose agli avversari di poker che chiedevano di vedere i suoi quattro assi. Tony Blair smentì la notizia secondo cui lui e Bush si sarebbero inginocchiati insieme a pregare alla vigilia dell´invasione dell´Iraq. Ma Dio non smentisce nessuno.

l’Unità 4.12.07
Velare e svelare, la doppia vita del velo
di Elena Doni


Oggi è una linea di confine tra le islamiche e le occidentali e da noi è visto come imposizione
È invece anche un segno di identità

IN OGNI SECOLO e in ogni paese un pezzo di stoffa - insieme alla casa - sono stati gli strumenti del potere maschile: ma questo simbolo di costrizione può anche diventare un’arma tutta femminile. Una mostra e tre libri ci raccontano questa storia

O quanti contorcimenti e giravolte, quanti ordini e contrordini nell’eterna illusione maschile di controllare le donne, di nasconderle, o magari anche cancellarle! In ogni secolo e in ogni paese la casa e un pezzo di stoffa sono stati gli strumenti del potere maschile: «il velo e le quattro mura» è un detto del sud-est asiatico in cui viene sintetizzata la vita di una donna «perbene». Ma se la casa diventa spesso, ancora oggi, una prigione il velo ha sempre avuto una doppia vita: di oscuramento e di ornamento, di cancellazione ma anche di seduzione. Comunque, di una serie di significati che nessun altro capo di abbigliamento ha mai avuto. Velo sì, velo no: nel medio Oriente pre-cristiano il velo era per le signore e c’erano frustate per le prostitute se osavano copiarle, in seguito velo per le spose di Maometto perché allora era un segno di distinzione ma quattro secoli prima, nel mondo cristiano, era velo per tutte, per omologare nella «modestia» (secondo il burbero Tertulliamo che scriveva nel 208 d.C.) fanciulle e maritate.
E poi, nell’Italia del Cinquecento velo come dichiarazione anagrafica: velo lungo fino a terra per le «matrone e donne principali», velo solo fino alle spalle per «donzelle e citelle». E quando dovevano uscire di casa, ma solo a Venezia e a Torino, velo a coprire anche il viso. Sempre nel Cinquecento, in Francia, il velo diventa dichiarazione dei redditi: nero per le vedove povere, bianco per le ricche dame e le regine (ancora oggi in Vaticano solo le regine hanno l’autorizzazione a portare il velo bianco davanti al Papa). E dall’Inghilterra di quel secolo che fu detto elisabettiano sono arrivati ritratti della grande regina in cui il velo chiaro, appuntato sulla testa, ricade fino ai piedi aprendosi a ventaglio.
Ancora oggi il velo è utilizzato per messaggi «altri» ed è diventato questione religiosa e identitaria: quindi politica. Il velo è oggi una sorta di linea di confine tra le islamiche e le occidentali e viene spesso creduto dalle donne europee e americane un’imposizione della famiglia, della tradizione e della religione. Ciò può essere vero per le donne immigrate di recente, che vedono nel velo una dichiarazione di fedeltà a quel mondo che hanno dovuto abbandonare, ma spesso il velo è invece una rivendicazione di identità di giovani donne musulmane istruite, sia residenti nei paesi d’origine sia immigrate di seconda generazione. Donne che vogliono percorrere una loro via alla conquista di diritti e di spazi civili senza scimmiottare le occidentali e senza mutuarne certi atteggiamenti che giudicano riprovevoli o anche solo sgradevoli. Non è infrequente nelle città di paesi musulmani vedere ragazze velate figlie di madri che vanno a capo scoperto: a loro le giovani rimproverano di aver accettato supinamente le mode portate dai colonizzatori, mentre le figlie reclamano i loro diritti Corano alla mano. E non sbagliano perché la volontà di condizionare le donne, di rinchiuderle e cancellarle dal consesso civile non è del Profeta ma dei suoi epigoni. Nella sura dedicata alle donne Maometto dice: «Trattatele comunque con gentilezza, ché, se le trattate con disprezzo, può darsi che voi disprezziate cosa in cui Dio ha invece posto un bene grande». Il Profeta era morto da poco che subito un califfo zelante, Umar ibn al-Khattab, ne tradì la volontà imponendo alle donne di coprirsi la testa con l’hijab e designò una figura maschile, l’imam, per fare da guida nelle preghiere, mentre Maometto nella sua casata aveva assegnato questo ruolo a una donna.
Né i cristiani si sono comportati meglio: nei Vangeli ci sono numerose testimonianze della dolcezza, della comprensione, dell’amore che Cristo manifestò sempre per le figure femminili. E se i primi cristiani ebbero un atteggiamento paritario nei confronti delle donne, ben presto arrivarono i primi interdetti, come quello di non potersi avvicinare all’altare, e poi anche la monacazione. Ecco dunque il velo come simbolo d’identità - spose di Gesù - e simbolo della reclusione che ancora oggi, in alcuni conventi di clausura, impedisce alle suore - e per tutta la vita - di essere viste da qualsiasi persona, compresi i parenti stretti. Velate e nascoste da una doppia grata: dove capita talvolta che un padre infili un dito nella speranza che la figlia lo tocchi, rispondendo così al segno d’amore paterno: la punta d’un dito per ricordarsi a una figlia cancellata da un velo. Un’esclusione dal mondo che non è stata mai prevista per il genere maschile, neppure per gli uomini più pii, votati per alcuni ordini al silenzio ma non alla cancellazione di sé.
Opportunamente dunque, a ricordare l’ondivaga storia del velo, le contraddizioni, i malintesi, l’estetica e la simbologia di questo tenue pezzo di stoffa è stata organizzata una grande mostra a Caraglio, in provincia di Cuneo sotto l’egida della Regione Piemonte. Che espone opere prestate da grandi musei e collezioni europee e americane e nel sontuoso catalogo offre saggi di studiosi di formazioni e competenze diverse. Viene passata in rassegna tutta la storia del velo in mondi diversi e la percezione che del velo hanno avuto le donne in altre culture. Che è stata ed è, a seconda dei luoghi, delle epoche e delle persone, disciplinata accettazione, sublimazione del sé, ostentazione vanitosa o anche soluzione di comodo. Perché quando il velo non è un velo, ma un drappo nero calato su tutto il viso o l’opaca prigione del burka, esso difende dalla volgarità licenziosa degli uomini dei paesi di rigida separatezza tra i sessi. Come racconta anche Lilli Gruber, scrivendo dell’Arabia Saudita nel suo ultimo documentatissimo libro Figlie dell’Islam. Curiosa poi la contradditoria percezione del velo da parte di uomini venuti da mondi lontani. Per esempio l’idea diffusa che un mondo lussurioso si nasconda dietro quei visi e quei luoghi proibiti. Lo documenta in Italia la letteratura di viaggio fin dal Quattrocento (vedi La storia velata di Anna Vanzan, Edizioni Lavoro 2006) mentre in tempi più vicini a noi - Ottocento e primo Novecento - l’ammiccamento erotico degli occhi o la lascivia immaginata negli hammam delle donne sono raccontati in Europa dalla pittura orientalistica, da vari romanzi e persino dalle cartoline esotiche di epoca coloniale.
L’ambiguità del velo, più che in queste improbabili fantasticherie si osserva in un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti, ancora oggi. Imposto per spegnere o almeno controllare la femminilità, è stato trasformato dalle donne in oggetto di grande raffinatezza, ricamato e colorato: fino a diventare nel mondo occidentale del Novecento quella contraddizione in termini che fu la veletta, fatta sì per vedere ma soprattutto per essere guardate. Il punitivo chador iraniano si è trasformato in questi anni in un breve velo colorato portato sopra una sorta di lieve passamontagna bianco mentre la tetra prigione del burka viene ricamata con punti perfetti, ton sur ton, da quelle mani destinate poi a scomparire sotto il pesante tessuto di cotone. Il dramma delle donne afgane costrette a portare questo indumento è stato ricordato proprio in questi giorni (l’Unità, 28 novembre) da una giornalista della radio e della televisione di Kabul, Jamila Mujahed, venuta in Italia in occasione dell’uscita di un libro (Burka!, Donzelli e Amnesty International) di fumetti amaramente divertenti di Simona Bassano di Tufillo con un commento, appunto, di Jamila. Ecco come lei racconta il primo giorno, dopo l’arrivo dei talebani, in cui fu costretta a mettere quella «prigione da passeggio»: «Appena indossato il burka, mi sembrò come se il mondo intero a un tratto si facesse buio e io fossi rinchiusa in una prigione strettissima. I forellini che costituivano il mio unico accesso al mondo esterno erano talmente piccoli e odiosi! Sentivo che ero costretta a entrare in una nuova era: il tempo della disgrazia, della discriminazione, dell’abuso e della subalternità, delle prepotenze e della violenza».

Liberazione 4.12.07
Cultura e pratiche della nuova formazione politica possono essere solo rosso-verdi
Un processo costituente per la sinistra
Se non accadrà oggi, non accadrà più
di Alberto Asor Rosa


Sono la persona meno adatta a parlare di "unità delle sinistre". Non sono riuscito a smaltire del tutto la delusione provata in seguito al fallimento della "Camera di consultazione della Sinistra", la quale, avviata da una grande discussione fra l'estate del 2004, e partita con un'entusiasmante Assemblea il 15 gennaio 2005 alla Fiera di Roma (auguri), aveva posto più o meno (ma forse con una maggiore apertura culturale) gli stessi problemi di oggi. Due anni persi, compagni. La delusione fu accresciuta dalla constatazione che le attività della Camera s'interruppero non per contrasti maturati all'interno (il lavoro andava benissimo), ma per una decisione freddamente presa all'esterno, in una sede politica, e per un calcolo meramente elettorale (andare da soli al voto, senza impacci di sorta): quando proprio nel voto, e poi nella successiva, difficilissima attività parlamentare, la già conseguita unità delle sinistre sarebbe stata preziosa; e per noi ci sarebbe stata un'altra storia. Doppio errore, compagni.
Altri errori sono stati commessi nella fase post-elettorale, anche più gravi di questo. Ma lasciamo stare. La questione, dicevo, oggi si ripresenta, con maggior urgenza e, - pare a me, - un po' più di disperazione di prima. Bene. Volete un'opinione? L'unità delle "sinistre radicali" (in qualche modo dobbiamo chiamarle, se non sappiamo di cosa stiamo parlando) è da considerarsi positiva in qualsiasi forma, anche in quella fortemente ambigua e contraddittoria della "sinistra unita e plurale" (formula che, in buona sostanza, significa "sinistra unita e divisa"). Positiva, ripeto, in qualsiasi forma: anche in quella dell'invito a cena o di un semplice cappuccino preso insieme a colazione. Se però si fa sul serio e non per ischerzo, cercherò d'entrare un po' più nel merito; e dirò quali siano secondo me le condizioni in base alle quali si possa passare dal giro di walzer, - un piacevole ma poco stabile e duraturo - ad una più stabile unione. Il discorso sarebbe ovviamente molto lungo. Ma io lo ridurrò qui a quattro punti, schematicamente riassunti (del che chiedo venia in partenza).
Nessuno si è seriamente chiesto finora come dovrebbe essere una formazione della sinistra radicale europea all'inizio del terzo Millennio, e quale di conseguenza (o, meglio, come premessa) la sua cultura. Basilare secondo me che essa sia, - e che la sua cultura sia - rosso-verde. Senza la sintesi di questi due colori, nessuna unità e nessuna radicalità: ossia, nessuna autentica novità nel campo delle forze politiche europee più o meno ancorate alla tradizione (oppure spencolate avventurosamente verso il prossimo futuro come il nostrano Pd, il quale potrebbe rivelarsi il contenitore destinato a produrre, se non duramente condizionato e corretto alla sua sinistra, veri e propri mostri).
Ora, questa sintesi ha dalla sua il fatto che essa corrisponda seriamente alla problematiche dominanti la scena della nostra contemporaneità (e questo è non piccolo fattore di forza): ma è maledettamente complicata e difficile da declinare. Provatevi a coniugare su due piedi sviluppo e sostenibilità, lavoro e ambiente, e vi troverete di fronte a problemi teorici e a difficoltà pratiche d'enorme portata. Che tuttavia non si potrebbe rinunciare ad affrontare se non si desiderasse d'essere riassorbiti nel processo universale della globalizzazione, il quale, da fenomeno economico e sociale, tende sempre più a diventare destino, se nessuno gli si oppone (come molti cercano di persuaderci che sia già avvenuto).
Se cultura e pratiche della nuova formazione politica possono essere solo rosso-verdi, allora è evidente che esse non possono essere più solo rosse. Forse è arrivato il momento, compagni, di archiviare la "questione comunista". Per la parte ch'essa è stata della nostra storia, non abbiamo che da vantarcene. Ma provate a cercare in essa, con animo sereno e disincantato, una risposta, una sola risposta, alle tremende questioni che ci pendono sul capo: e vi accorgerete che nei fondi di magazzino non c'è più niente da usare, se non quell'ineliminabile soffio che ispira solidarietà e spirito critico, e che ci ha fatto essere fin da ragazzi su questa sponda invece che sull'altra. Distogliendo lo sguardo dall'ipnotica fascinazione del glorioso passato, mettiamoci a studiare cosa oggi la realtà nostra e quella mondiale ci riserbano, e cosa quelle future. Tutto ciò ci costerà qualche sforzo intellettuale in più; ma anche una maggiore e più autentica fedeltà all'ispirazione dei nostri progenitori.
Quello che sto cercando di descrivere è più che un programma: è un processo. Un processo costituente. Che può durare anche un anno. Ma deve cominciare da oggi. Se non comincia da oggi, non comincerà mai. E cos'è un processo costituente, se non l'apertura al nuovo, all'inesplorato, all'inorganico? Esiste nella società italiana, - credetemi, - una ricchezza di forze, che stenta a rivelarsi per mancanza di comunicazione. Questa era la grande idea della Camera di consultazione: mettere in rapporto l'interno e l'esterno, l'organizzato e il non organizzato, il partito e l'associazione, il gruppo, il comitato, i singoli individui. Se la Costituente della sinistra radicale sarà davvero fifty-fifty, potremo aspettarci cose grosse. Se dovesse riguardare solo i gruppi politici esistenti, faremo fatica a staccarci dai blocchi di partenza. Si faccia ora il gesto di disponibilità e di apertura, che non s'è fatto allora.
Infine. Siamo proprio sicuri che il proporzionale puro giovi alla nostra causa? Pare a me ch'esso sia concepito soprattutto come il grimaldello con cui realizzare il gigantesco inciucio centrista, al quale non a caso fin da questa settimana si sta tempestivamente lavorando. Sia pure, dunque, il proporzionale: ma con la precisa indicazione del programma e dello schieramento di governo proposto al paese prima, e non dopo, il voto. Questo, ovviamente, soprattutto nell'auspicabile ipotesi che la formazione rosso-verde allora ci sia (catastrofico pensare di andare ai prossimi voti senza). Se ci fosse, una formazione politica del 15% renderebbe assai complicato al Pd (anche questo è un vecchio discorso) muoversi verso l'alleanza centrista si realizzasse, porterebbe la formazione rosso-verde oltre il 20%, sbarrandole comunque, e sia pure in questo caso a posteriori, la strada del governo. A questo proposito (e tanto per concludere con un'affermazione che mi alienerà le ultimissime simpatie): al governo bisogna cercare di restare, di andarci con le unghie e coi denti. Un governo di centro-sinistra è infatti in Italia (nelle condizioni attuali) un'opzione strategica, non tattica. Infatti, non se ne vedono altre nel corso delle prossime generazioni. Restare incollati ai moderati, strappando loro ogni giorno un frammento di potere e una scelta, è l'unica strada possibile. Se saremo più forti, più organici, più coesi, più consapevoli, strapperemo di più finché arriveremo ad essere la maggioranza del centro-sinistra, - cosa tutt'altro che impossibile, anzi tutt'altro che da escludere, anzi, da praticare consapevolmente fin d'ora (perché dovremo restare minoritari in eterno?). Se invece saremo come siamo, faranno di noi ciò che vogliono. Questa è la semplice verità del momento, che raccoglie insieme le quattro cose che volevo dire.

lunedì 3 dicembre 2007

l’Unità 3.12.07
Armeni «normalizza» Sansonetti sulla legge elettorale
Liberazione ieri esaltava gli scenari «nuovi e vitali» della futura riforma. Due giorni fa il direttore parlava di spartizione
di e.d.b.


LA NOTTE ha diradato le nubi. E Liberazione, giornale vicino a Rifondazione Comunista, che giusto ieri vedeva una mera spartizione di potere nell’incontro tra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi («Il modello Veltrusconi: così si spartiranno il potere», titolava in apertura in quotidiano diretto da Piero Sansonetti), il mattino dopo coglie scenari nuovi. Anzi, per dirla con Ritanna Armeni, «nuovi e vitali».
Il giorno dopo è il segretario del Prc Franco Giordano, nell’intervista che apre il giornale, a tarare la posizione del partito: «Non voglio enfatizzare ma è importante che si sia discusso della legge elettorale». Giordano coglie principalmente un aspetto positivo dell’incontro tra i due big. E il giornale che giusto ieri suggeriva «dodici mesi sono anche un tempo sufficiente per far saltare questo progetto di monocolore che chiamano “nuovo bipolarismo”. Può saltare. Anche perché i protagonisti sono quello che sono. Ed è difficile che i libri di storia si ricorderanno di loro», oggi immagina (questo afferma Giordano): «Potrebbe essere l’inizio di un percorso per arrivare a disegnare una nuova legge sul sistema di voto. E a superare così definitivamente il problema del referendum».
Insomma la tattica e la strategia suggeriscono entrambe di non tirare la corda col segretario del Pd. E di rilanciare la propria azione politica in Parlamento e Consiglio dei ministri.
Le parole magiche che cambiano la prospettiva, erano d’altronde emerse chiaramente dall’incontro Veltroni-Berlusconi: sistema elettorale proporzionale. È questo lo scenario «nuovo e vitale» per il quale Armeni prevede un futuro magnifico: «Il sistema elettorale proporzionale avrà come conseguenza che alle prossime elezioni le forze politiche si presenteranno ai blocchi di partenza con le stesse opportunità, la loro rappresentanza sarà conseguente alla forza elettorale effettiva».
I dodici mesi necessario alle riforme, in cui fino al giorno prima si doveva «far saltare» il «progetto monocolore» diventano per il governo «una boccata d’ossigeno dopo un anno e mezzo di vita travagliata» e un’opportunità per far crescere la «cosa rossa». Insomma, postula Ritanna Armeni, «oggi siamo tutti più liberi». Liberi mentre, si immagina, gli altri si «spartiscono il potere».

l’Unità 3.12.07
PRC. Giordano contro Blair: «Un conservatore»


Da Lamezia Terme, Franco Giordano, segretario del Prc, attacca l’ex primo ministro britannico Tony Blair, che in un’intervista alla Stampa di ieri aveva indicato nelle componenti radicali dell’alleanza di centrosinistra, il motivo per cui in Italia non si erano fatte le riforme. Giordano risponde per le rime: «Le riforme di Blair sono state l’invasione dell’Iraq, la guerra, il taglio drastico del welfare ed una esagerata conflittualità sociale. Queste sono le classiche ricette dei conservatori, ed infatti Blair è un conservatore. Se il Partito Democratico ha intenzione di fare come Blair, si accomodi pure». Sul versante della «Cosa rossa» il segretario del Prc ha dichiarato che è il momento di accelerare: «I tempi sono stretti. Bisogna costruire al più presto una alternativa, da affidare a una sinistra che abbia più culture, quella pacifista, quella laica, quella ambientalista».

l’Unità 3.12.07
“la striscia rossa” di prima pagina: «Come vede il governo Prodi?
“Si dice di sinistra, ma è composto in parte da ex Dc, ovviamente cattolici, ma mi sorprende che persone storicamente di sinistra siano sempre un po’ piegate in un compromesso costante col Vaticano. Lo trovo un errore perché crea confusione e una mancanza di identità forte che manda allo sbando l’elettorato”» Giovanna Mezzogiorno, Io Donna, 1 dicembre 2007

l’Unità 3.12.07
Se questa è una donna
di Maurizio Chierici


Ingrid Betancourt ha scritto alla madre e ha dovuto mettersi in posa per dimostrare di essere viva... e ora comincia l’intrigo che in queste ore ne minaccia la vita. Non solo guerriglieri, ma gli equilibri di una regione condannata dal petrolio
Lei delinea una Colombia solidale, meno individualista, mai liberista, impegnata a difendere vita e dignità...
Se Uribe sperava che lo sfinimento della prigionia avesse disarmato l’antica rivale, è questa la risposta

Se questa è una donna. Pallore dei fantasmi sopravissuti ai lager di un’altra Germania. Filmato immobile. Non alza gli occhi, non muove le mani: pietrificata. Speriamo che un dolore così profondo non finisca nel mercato delle t-shirts: c’è chi lo suggerisce. Paradossalmente l’umiliazione della prigioniera racconta l’ultimo capitolo della sua speranza. Perché dopo la foto comincia l’intrigo che in queste ore ne minaccia la vita. Mai così in pericolo. Non solo guerriglieri vetero marxisti, paranoia feroce, ma le ambizioni dei grandi borghesi e gli equilibri strategici di una regione con la sventura del petrolio. Il lampo della cinepresa ne illude la felicità. Ingrid ha scritto alla madre e si è messa in posa per dimostrare di essere viva. Nessuna persona normale si mette in posa per dimostrare d’essere viva, eppure nei gironi dei sequestratori questa obbedienza è dovuta.
Ha sciolto i capelli. La treccia scende alle caviglie, quasi calendario del tempo di nessuno: la lunghezza degli anni vuoti sfiora la terra... Per mostrarsi ai figli e alla madre risveglia la vanità di donna che sdegnava il trucco, ma l’eleganza è una dimensione dello spirito e Ingrid Bertancourt recupera ciò che le è rimasto della dignità.
Forse si è guardata allo specchio prima di non guardare l’obiettivo mentre i pensieri attraversavano l’ultimo guado: nell’altra sponda la aspetta la vita di prima. Non immaginava che uniformi e politici di rango stavano preparando trappole per impedirle di tornare. Impossibile mediare con i signori del crimine. Dopo i campi di Hitler è venuta Norimberga. Nessun perdono o cambio di favori con la banda della tortura. Da combattere e sterminare, dottrina Bush. In fondo gli ostaggi sono polvere della storia. Un soffio e nessuno li ricorda. Mentre la cinepresa ne fissa l’immobilità, Ingrid non immagina che la vita pericolosa sta per diventare drammatica. Il presidente che se ne dichiara difensore non la vuole a Bogotà. Mentre mediazioni e diplomazie intrecciavano i sussurri, scombina le carte bruciandone la trama. Ingrid Betancourt che torna in scena è una tragedia insopportabile. Uribe lo ha impedito per cinque anni ma la situazione stava per sfuggirgli di mano.
Il ricordo di chi ha accompagnato Ingrid nella campagna elettorale 1998 impallidisce davanti alla immagine della signora sfinita nel bosco. Vederla ripiegata nel guscio delle persone che «hanno perso la vita», impossibile ritrovare la ragazza che scaldava gli elettori con polemiche ripetitive e noiose: «Ma che colpa ne ho se i notabili dei due partiti al potere continuano noiosamente ad alternarsi nella spartizione di privilegi e corruzione?». Voleva tagliare i legami tra narcos e politica. Aveva lasciato il marito a Parigi nei salotti della diplomazia. I figli studiavano attorno ai Campi Elisi. Bella casa, bella vita, grande borghesia: «Ma ogni volta che tornavo a Caracas mi stringeva il cuore. Non potevo far finta di niente, eccomi qua». Parlava agitando le mani, gli occhi si accendevano: progetti, speranze. Allegria contagiosa.
L’intervistatore ne era affascinato. Bellezza soffice: aveva 37 anni. Due settimane dopo diventa la senatrice più votata del paese. Smaschera le mani lunghe che devastano la Colombia nel libro La rage au coeur, rabbia nel cuore. Il titolo italiano ha il suono di un annuncio premonitore: Forse mi uccideranno domani. Fonda un partito per rompere il duopolio liberali- conservatori: Oxigeno non è un movimento verde ma «aria pulita per la gente che vota». Attacca il candidato alla presidenza Uribe e la sua sindrome di Washington. Accusa la Farc di affamare i contadini poveri che cinquant’anni prima aveva annunciato di proteggere dalle rapine di latifondo e multinazionali, invece li opprime nella paura con la multinazionale autarchica di chi fa pagare dazio alla produzione di coca. Sempre polvere bianca, dal parlamento alla rivoluzione che non vince e ingrassa. Minacce di morte, bombe sotto casa. Ingrid sa troppe cose. Anche i paramilitari della destra vicina all’Uribe che aspira a governare in solitudine, non la sopportano. Porta i ragazzi a Parigi e torna per parlare coi guerriglieri.
Nel febbraio 2002 affronta la corsa alla presidenza con la disinvoltura di chi non ha paura di niente. Va nei territori smilitarizzati per convincere l’esercito rosso della Farc a riacquistare la ragione. Parte da sola, cammino tortuoso fra le montagne attorno a San Vincente de Coquetà. La accompagna un’amica con la quale divide la speranza di cambiare la Colombia: Clara Rojas, candidata di Oxigeno alla vice presidenza. Il 23 febbraio 2002 finiscono nelle mani Farc e Ingrid diventa merce di scambio. I kmer rossi colombiani vogliono che Clara Rojas torni a Bogotà con le loro pretese: Ingrid da scambiare con 500 guerriglieri sotto chiave nelle prigioni di stato. Ma l’amicizia è un segno profondo. Clara non abbandona la compagna alla fine del mondo. Si innamora, nasce un bambino figlio dell’uomo che la tiene prigioniera: la sindrome di Stoccolama arriva nella foresta. Nella lettera scritta alla madre, Ingrid sospira. «Anche di Clara e del suo bebé non ho notizie». L’hanno isolata strappandole l’ultimo affetto. «La lontananza può trasformare un minuto di silenzio nella solitudine più lunga della vita», scrive Garcia Marquez in Notizie di un sequestro.
In febbraio la solitudine della Betancourt compirà sei anni, impossibile contare i minuti. La ragazza che non smetteva di parlare è costretta al silenzio e al disagio di essere la sola donna fra carcerieri che hanno 15 anni, stessa età dei militari che li inseguono. Fa il bagno vestita, dorme rannicchiata su un’amaca avvolta nell’ultimo giaccone. Le malattie di chi beve e mangia ciò che raccoglie lungo i sentieri la stanno spegnendo. Eppure nessuno ha davvero pietà. Nell’immagine della sopravvivenza ricorda le signore diafane che illanguidivano le tele primo novecento: quei ritratti dei pittori raccolti nel cenacolo della villa romana Strohl-Fern. L’ombra dei giardini dietro le poltrone. Ma la foresta di Ingrid non è il giardino sul quale si inteneriscono le penne dei salotti, e l’ombra della catena alla quale viene riagganciata quando si spegne la macchina da presa, racconta una vita senza pietà. Fino a quando?
È il problema che il presidente Uribe non ha voglia di risolvere. Anni prima della sconsolante telenovela degli ultimi giorni, i familiari della Betancourt e dei 600 ostaggi nelle mani Farc, polemizzano con la presidenza. Non vuole trattare, poi tratta. Vuol vincere con la forza, poi accetta le mediazioni, poi le cancella e fra un po’ le riaccende: ogni strategia è legata ad un filo segreto. Uribe preferisce che Ingrid Betancourt resti sepolta dov’è. E se la donna umiliata e gli altri 600 scudi umani tra esercito e guerriglia sono sempre stati in pericolo, mai come adesso rischiano la vita. Solo in questi giorni il sospetto che il presidente in coda a Chavez nel presentare la riforma costituzionale che gli garantisca rielezione eterna; solo adesso, questi sospetti trovano conferma nelle manovre affannose scatenate per impedire la liberazione di Ingrid Betancourt. Se la prigioniera torna in politica i disegni dell’uomo forte finiscono in niente. L’ultimo messaggio inviato a Bogotà da Sarkozy sottolinea il precipitare della situazione: serve un intervento umanitario, ma subito. Ingrid è davvero in pericolo e la Francia alza la voce pretendendo decisioni urgenti. Ecco cosa è successo dietro le quinte.
In agosto la senatrice Piedad Cordoba chiede al presidente Uribe di coinvolgere il presidente del Venezuela nel riscatto di Ingrid Betancoiurt e degli altri ostaggi. Lo fa mentre Chavez viene accusato da una giornalista venezuelana (residente a Miami e Washington) di ospitare i guerriglieri della Farc con Ingrid prigioniera dentro i confini del Venezuela. Beffa crudele, a quale scopo? Chavez accetta di interessarsi sollecitato da una telefonata del presidente Uribe. Lancia messaggi a Marulanda, padre di una guerriglia senza prospettive. A Santiago del Cile ne riparla con Uribe. Lo informa dell’incontro a Parigi con Sarkozy. Al ritorno da Parigi Chavez si inserisce in una telefonata di Piedad Cordobs: sta discorrendo col generale Montoya, comandante delle forze antiterroriste colombiano. Coraggio, auguri, noi militari ci intendiamo: non tace mai. E Uribe prende cappello: il presidente di un paese non può contattare generali di un altro paese. Missione di Chavez sospesa. Piedad Cordoba sapeva che sarebbe finita così.
Prima di andare con Chavez a Parigi, aveva incontrato a Medellin l’ex presidente Samper e Samper l’aveva messa in guardia: Uribe sta lavorando per scaricare Chavez. Ho quasi l’impressione l’abbia usato come allodola. I suoi contatti vengono registrati. Ogni mossa è tenuta d’occhio non solo dai colombiani ma dai nostri amici del Nord. Temo stia per succedere qualcosa. E succede...
La telefonata da un campo base Farc annuncia a Caracas l’invio di immagini e lettere, prova della sopravvivenza degli ostaggi. Pochi minuti e un bombardamento brucia il campo: da quel momento l’uso del cellulare viene proibito ad ogni guerrigliero coinvolto nella missione. Troppi radar incrociano i segnali. Partono i corrieri, direzione Caracas: filmati e lettere nascoste nelle borse da viaggio. Gli uomini di Uribe catturano i postini. Ma immagini e messaggi vengono comunicati alle famiglie con 36 ore di ritardo. I giornali lo scoprono da «indiscrezioni» pilotate in modo da non trasformare la pena della Betancourt in protagonista della costernazione nazionale. Con qualche eccentricità: El Tiempo è il grande quotidiano del paese. I proprietari fanno parte della corte di Uribe: ministro e vertici del partito.
La notizia che apre la prima pagina trascura l’immagine della signora. Dedica la ribalta ad un tipo dai capelli a spazzola. La canottiera scopre muscoli marines, occhi senza luce da marziano. Keith Stansell è un mercenario Usa. Assieme a due compagni della Microwawe System californiana, quattro anni fa è precipitato in territorio Farc con un aereo spia. I contractors della Microwawe lavorano per il Pentagono in Iraq e Colombia e Keith ruba la prima pagina alla Betancourt. La lettera alla madre viene distribuita con due giorni di ritardo e qualche taglio sospetto. Leggendola si capisce l’imbarazzo di Uribe. Ingrid ringrazia soprattutto Chavez e Soledad, Sarkozy, perfino Bush. Tanti amici, tanti nomi (in parte cancellati) ma per Uribe e i suoi ministri neanche una parola. Borges raccomandava di non scrivere quando si è innamorati o addolorati: meglio aspettare l’affievolirsi dei sentimenti.
La Betancourt non ne ha tenuto conto. Delinea l’affresco politico della Colombia alla quale non rinuncia. Solidale, meno individualista, mai liberista, impegnata a difendere vita e dignità di tutti: «Questa grandezza dorme purtroppo nei nostri cuori. Cuori induriti che non permettono sentimenti elevati... Fra qualche tempo la recupereremo». Se Uribe sperava che lo sfinimento della prigionia avesse disarmato l’antica rivale, ecco la risposta ed è comprensibile l’imbarazzo. Adesso, ne avrà pietà?

l’Unità 3.12.07
Serafini: «La violenza sui bambini non fa notizia»


ROMA «La violenza sui bambini non va in prima pagina». È il commento della Presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia, Anna Maria Serafini. «Le notizie sulle violenze subite da bambini e adolescenti che pure occupano spazio sulla carta stampata solo molto raramente finiscono in prima pagina». È questo uno dei dati più significativi emersi dal terzo Rapporto nazionale su stampa, infanzia e adolescenza curato dall’Istituto degli Innocenti. «Obiettivo del ciclo di incontri nei quali saranno coinvolti i protagonisti del mondo dei media a tutti livelli, dell’editoria, della pubblicità, del cinema e della televisione, è quello di realizzare - è detto in una nota - un atto di indirizzo su una materia delicata e che interessa in modo sempre più forte l’opinione pubblica, un testo che possa diventare il punto di riferimento per istituzioni e professionisti del settore».
L’analisi svolta dal rapporto ha riguardato 7.333 articoli, dei quali 5.597 della stampa quotidiana e 1.736 di quella periodica.
Il Rapporto - giunto alla sua terza edizione per questo - stato possibile procedere anche a un confronto con i dati dei due anni precedenti per verificare le tendenze in atto. Di violenze, agite o subite dai ragazzi, si parla in ben 1.300 articoli. Dopo la violenza, la salute, - l’argomento protagonista in ben 1.200 articoli. La violenza sui minori si attesta al primo posto della graduatoria scalzando la salute, che primeggiava nel 2004 (e che aveva a sua volta sopravanzato la scuola e l’educazione nel 2003).

Repubblica 3.12.07
Parla il letterato che da anni si oppone al governo: il passaggio alla democrazia non è facile
Evtushenko, poeta contro il Cremlino "Un potere volgare che nessuno attacca"
di Fiammetta Cucurnia


«Certo, quel che è successo in Russia negli ultimi giorni, durante la campagna elettorale, mi addolora. Mi addolora pensare che l´opposizione sia stata trattata in un modo così volgare, dispersa così. Mi addolora anche ammettere che non capisco perché sia accaduto e a che scopo, visto che il partito del governo non poteva che vincere, sempre e comunque. Così, da poeta e da cittadino mi interrogo e chiedo a voi: "La responsabilità è davvero soltanto di Putin?"» Evghenij Evtushenko, mito della poesia russa che tante volte nella sua vita ha scagliato i suoi versi contro il Cremlino in nome della libertà, oggi abbassa la voce per parlare di Russia nel giorno di Putin. Da un lato c´è l´entusiasmo e la speranza per quelli che lui chiama i devjanostiki, i ragazzi degli anni Novanta, che tornano a riempire gli stadi quando lui si esibisce, giovinetti cresciuti a pane e poesie dalle nonne mentre i padri facevano i soldi. Dall´altra c´è questo tarlo di un Paese che si era aperto e ora sembra tornare ai vecchi costumi. «Nessuno potrà impedirmi di dire che in quel che accade oggi c´è una grande responsabilità dell´Occidente e in particolare degli Stati Uniti, della loro politica estera e militare».
Eppure, Evghenij Aleksandrovic, i russi oggi hanno votato quasi come ai tempi di Breznev, quando sulla scheda era indicato solo il Pcus.
«Per carità, io non voglio affatto giustificare il Cremlino. Come ho detto, tanta volgarità è esagerata, e per di più ingiustificata poiché inutile. Penso che sia anche un fatto di inerzia, ognuno si comporta come sa. Il passaggio da un sistema autoritario come è stato quello sovietico ad uno radicalmente diverso, realmente democratico, non può essere facile e senza intoppi. Richiede tempo e forze nuove».
Gli spazi per le voci diverse sono stati del tutto chiusi, c´è stata una campagna elettorale all´insegna del monopolio assoluto.
«Sì, è vero, anche a me è stato chiesto di partecipare a una serata di lettura poetica a Mosca per sponsorizzare un partito, ora non dirò quale. Ho risposto gentilmente, ma ho rifiutato. Io sono un senza partito e non posso mettere i miei versi al servizio dell´uno o dell´altro, ho spiegato. Loro mi hanno detto che potevo declamare le poesie che volevo, liberamente, ci sarebbe stato solo il logo del partito da qualche parte sul muro. Ma io, come potevo?»
Magari poi l´avrebbero aiutata per le sue future iniziative.
«Beh, certo, come dicono gli americani, i pranzi gratis non esistono».
Ma come mai sostiene che i paesi occidentali sono responsabili, almeno in parte, delle scelte interne del Cremlino.
«La Russia non è un Paese appeso in cielo. Tutto quello che accade oggi nel mondo è intimamente connesso. Le basi militari americane spuntano come funghi nei Paesi ex satelliti dell´Urss, e perfino in quelli che un tempo facevano parte dell´Unione Sovietica. Il nostro giardino di casa è infestato dalle armi americane e si parla di dispiegarne sempre di più. In fin dei conti la Russia, oggi come oggi, non ha basi militari in nessun paese del mondo, ma deve fare i conti con quelle altrui piazzate dietro l´angolo. E c´è di più: i Paesi occidentali continuano a fare la lezione a Mosca, ogni incontro al vertice è occasione per sottolineare che la Russia non è abbastanza democratica. Ma poi, da che pulpito viene la predica. Ditemi voi il nome di un Paese che sia un vero esempio di democrazia, un modello di cui da cittadino del mondo io possa andare fiero. Che ognuno riconosca le sue colpe, per ricominciare. In queste condizioni, mi permetto una licenza poetica: se Andrej Sakharov fosse oggi il presidente della Russia non potrebbe ignorare, nemmeno lui, un tale contesto. Purtroppo, è quasi naturale che il Cremlino reagisca nel modo che gli è più congeniale».
Dunque, a questo punto, non possiamo far altro che aspettarci il riflusso.
«Io sono convinto che tutto sia ancora possibile, ma non dipende solo da Mosca. Con ogni probabilità, neppure Putin ha ancora preso nessuna decisione definitiva. In qualche modo, possiamo ancora disegnare il nostro futuro. L´importante è capire che ognuno deve fare la sua parte. Poi ci vuole tempo. Il tempo di permettere ai giovani devjanostiki, la prima generazione di russi che è cresciuta fuori della gabbia, di affacciarsi in prima persona sulla scena politica».

Repubblica 3.12.07
Gli scheletri nell'armadio di casa Lombroso
di Maurizio Crosetti


Torino si prepara a riaprire il museo sul padre dell´antropologia criminale un´incredibile collezione di reperti anatomici relegata da anni in cantina

TORINO. I nostri antenati abitano in cantina, sistemati in eleganti armadi ottocenteschi, un cranio dopo l´altro come vasetti di marmellata. Millecinquecento teschi, che poi è un modo concreto per vedere e toccare quello che siamo stati e quello che saremo. Ci sono scheletri appesi ai ganci come abiti. E cassettiere piene di falangi o di femori, e una pantera in scatola, smontata e bollita, ma anche un cervo, e una tigre, e una pecora che pare un puzzle.
Benvenuti nel magazzino della scienza, nel deposito della prossima ala del ciclopico Museo dell´Uomo che Torino ha già preparato e preparerà a San Salvario, nel Palazzo degli Istituti Anatomici. Sopra, nei lunghi corridoi e delle stanze che circondano un grazioso, romantico giardino, ci sono il Museo di Anatomia e il Museo della Frutta. E tra un anno, forse meno, tornerà il Museo di Antropologia Criminale "Cesare Lombroso", la vecchia star del palazzo, il discusso inventore della teoria secondo cui i delinquenti ce l´hanno scritto in faccia, il dissezionatore della devianza: pazzi, assassini ma anche geni, tutto quello che il cervello può avere di diverso, nel bene e nel male, di più nel male.
Il Museo Lombroso chiuso dal 1948 ricostruirà il mondo del professore, i suoi luoghi (lo studio, la biblioteca) e i suoi metodi. Ci saranno reperti anatomici, manufatti e scritti di criminali e alienati, armi proprie e improprie, reperti probatori, strumenti scientifici, fotografie, documenti, persino la forca dove impiccavano gli assassini. Non ci sarà, invece, la sua testa conservata in formalina dentro un vaso di vetro, con l´espressione corrucciata. Troppo macabra. Questo non vuol mica essere il museo dell´orrore.
Sopra, le vetrine. Sotto, nelle cantine, un magma scientifico di enorme suggestione e di incalcolabile valore. Il professor Giacomo Giacobini, docente di anatomia all´Università di Torino, è il responsabile e in qualche modo il custode di tutto questo. Il suo studio è quello dove lavorò Rita Levi Montalcini. «Entro un paio d´anni, dal nuovo Museo Lombroso all´ampliamento del Museo dell´Uomo, il cuore del positivismo torinese e italiano sarà un polo d´interesse unico, un luogo in cui discipline diverse si parlano, si collegano e raccontano le loro storie». Tenetelo a mente, il professor Giacobini. E anche il suo antico predecessore che si chiamava quasi come lui: Carlo Giacomini. Perché, più avanti, lo ritroveremo al piano di sopra. Sotto vetro.
Questo è un viaggio all´ingiù, nel tempo e nello spazio fisico del palazzo. Scale. Ascensori. Porte. Chiavi che girano nelle serrature e le fanno scattare. Odore di umido, profumo di buio. Nel controluce volano particelle di polvere. Ecco i calchi delle sepolture preistoriche, siamo nel Paleolitico, più o meno 25 mila anni fa. Lo scheletro di una donna abbraccia un bambino, o così sembrerebbe. «In realtà era un nano. La donna lo cinge col braccio, glielo appoggia sul collo in un gesto di grande tenerezza» dice il professore. Tenerezza eterna, amore millenario e misterioso. «Tutti ci chiediamo se fossero parenti, se fossero morti insieme e perché. Naturalmente non avremo mai la risposta».
Sono calchi in resina, realizzati con un negativo in silicone nei luoghi di sepoltura, cioè nei siti archeologici. Ora stanno in corridoio, appoggiati alle pareti. Bisognerà estrarli da questa oscurità per mostrarli alle persone. Così tutti potranno vedere il bimbo della grotta delle Arene Candide, a Finale Ligure, sepolto con una mantella di code di scoiattolo, ciottoli e conchiglie come giocattoli. Aveva sei, sette anni al massimo, diecimila anni fa. Di fronte a lui c´è il cosiddetto Giovane Principe, un quindicenne sepolto con un ricco corredo, una cuffia di conchiglie forate, i bastoni di comando in osso di alce, e poi pendagli d´avorio di mammuth. «Rarissimo in Italia a quei tempi, segno che ci troviamo al cospetto di un morto importante».
C´è anche un Uomo di Neanderthal, i suoi anni sono 50 mila: accanto allo scheletro in una fossa quadrata, i becchini preistorici misero una zampa di bisonte e una colonna vertebrale di renna, oggetti di un preciso rituale funebre. Però non esiste niente di macabro in questo scantinato in attesa d´essere museo, è come se la scienza avesse lasciato qui i suoi sedimenti, i suoi strati sovrapposti come le mura di Troia. Ecco l´immagine di un Uro, cioè l´antenato dei bovini domestici più massiccio di un bisonte, estinto attorno al 1600. «E´ inciso nella pietra di profilo, però ha due occhi e due narici» spiega il professor Giacobini. «Quando Picasso vide l´originale disse "finalmente ho trovato il mio maestro", perché proprio così aveva dipinto la prospettiva dei volti in Guernica».
La passeggiata è asistematica e dà i brividi. Fossili umani, la ricostruzione della donna preistorica chiamata Lucy, microscopi e provette, dipinti d´epoca e un Cro-Magnon alto quasi due metri, poi un banco di strumenti chirurgici: seghe da amputazione, spatole, bisturi. «Alcuni di questi oggetti venivano usati sul campo di battaglia, non si ha neanche idea di cosa significassero quattromila feriti a terra, per esempio dopo la battaglia di Solferino, senza assistenza né cure». Uno di questi strumenti è una sega di amputazione a catena di bicicletta: pensarne l´uso è già, a suo modo, una specie di tortura.
Oltre il grande atlante di anatomia del Mascagni - meravigliose tavole a colori in grandezza naturale - il labirinto procede tra banconi da lavoro e utensili come quelli per la bollitura delle ossa, e non bisogna scandalizzarsi perché anche il corpo è un oggetto. Lo stesso si prova al piano di sopra, nel Museo di Anatomia, dove i corpi e le ossa e le braccia e i cuori nei preparati sotto vetro ci raccontano chi siamo, e ogni storia è la nostra storia. Qui c´è uno scheletro smisurato e goffo. Apparteneva a Giacomo Borghello, nato a Novi Ligure nel 1810 e morto all´età di diciannove anni. Era alto due metri e 19 e lo esibivano al circo. Una povera vita da fenomeno da baraccone, e ora il suo destino è immutato, di nuovo in mostra e per sempre. Vicino a lui, come un fratello dolente, lo scheletro di un nano: a differenza di Giacomo, di lui non si sa nulla, non il nome né la vicenda umana, se non che si tratta di "un esempio di nanismo armonico". Ma il nano e il gigante, nel silenzio ci parlano.
Il museo venne costruito come la navata di una chiesa, per sottolinearne l´aspetto di cattedrale della scienza. Ed è bellissimo. Dal 1876 al 1898 lo diresse il professor Carlo Giacomini. «Ma lui è in vetrina, io no», scherza il successore Giacomo Giacobini e intanto mostra il predecessore. Il quale sta nella sala in fondo, ritto e quasi solenne nel suo scheletro. Una targa ripete le parole del testamento in data 22 giugno 1898: "(...) Non essendo partigiano né della Cremazione né dei Cimiteri preferisco che le mie ossa abbiano riposo nell´Istituto Anatomico dove ho passato i più bei anni della mia gioventù ed al quale ho consacrato tutte le mie forze (...) Desidero ancora che il mio cervello venga conservato col mio processo e posto nel Museo insieme agli altri (...)". Sembrava solo una storia di ossa e cellule, invece è una storia d´amore.

Repubblica 3.12.07
I cattolici e le leggi. La chiesa che chiede più potere
di Claudio Pavone


Dibattiti / le gerarchie ecclesiastiche e il peso che i credenti vogliono avere nella vita pubblica
I concordati, quello di Mussolini e quello di Craxi, hanno introdotto molta confusione
La sincera e dolente tensione di due intellettuali come Giuseppe Alberigo e Pietro Scoppola

Numerosi sono oggi i dibattiti sui rapporti fra religione e politica in una età definita spesso postsecolare che, come tale, non potrebbe far propri i principii che hanno ispirato nei due ultimi secoli la condotta degli Stati liberali e democratici nei confronti delle chiese e, in modo particolare, della Chiesa cattolica. Sono spesso dibattiti elevati, che rivelano il bisogno di chiarezza su temi di primaria importanza che riguardano i fondamenti stessi dello Stato laico.
Innanzi tutto, è lo stesso concetto di postsecolare che andrebbe chiarito. Sotto la sua apparente neutralità, di riconoscimento cioè di un mero dato di fatto, si nascondono in realtà interpretazioni del passato e del presente e previsioni del futuro che assumono facilmente un carattere normativo. Società secolare è una società in cui le credenze religiose non costituiscono i presupposti dell´ordinamento istituzionale. Si tratta di un principio, proprio della società laica, che si è sviluppato nei due secoli precedenti al nostro sotto i segni del liberalismo, della democrazia, del socialismo, e anche del capitalismo, in quanto fondato sulla distinzione fra economia ed etica. Lo Stato laico non può dunque vivere che in un società secolarizzata. Dare per scontato che questa sia ormai alle nostre spalle significherebbe mettere in forse anche la laicità.
Carattere essenziale della società secolarizzata e laica è la netta distinzione fra spazio pubblico e potere pubblico. Il secondo è chiamato a garantire il primo proprio perché non si confonde con esso. L´aggettivo "pubblico", quando qualifica lo spazio, sta ad indicare che tutti hanno uguale diritto di fruirne liberamente, come individui e come associazioni, compresi ovviamente i credenti in una religione e le associazioni da essi create. Questo spazio è «utilizzato amplissimamente dalle gerarchie ecclesiastiche», come scrive Eugenio Scalfari nell´editoriale apparso ieri su Repubblica. Suonano perciò strane le proteste dei cattolici contro i supposti ostracismi di cui in Italia essi sarebbero vittime per quanto riguarda la presenza nello spazio pubblico. La storia ci mostra che mai come nei regimi liberali e democratici i cattolici, le loro associazioni e le loro istituzioni ecclesiastiche abbiano goduto, anche in Italia, dei frutti di quella libertà che il Sillabo aveva condannata. I cattolici, e soprattutto le gerarchie, hanno certo dovuto rinunciare agli antichi privilegi di cui godevano, ma si sono nello stesso tempo affrancati dalla sottommissione alle pretese dello Stato nei loro confronti (che un tempo si chiamavano maiestatica iura circa sacra). Residui del vecchio giurisdizionalismo, cioè della permanenza di interventi pubblici nelle cose di religione, si rilevano peraltro in alcune legislazioni liberali, compresa l´apprezzabile legge delle Guarentigie con la quale subito dopo il 1870 lo Stato italiano regolò i suoi rapporti con la Chiesa cattolica.
La distinzione fra spazio pubblico e potere pubblico rinvia a quella più generale fra pubblico e privato, dove il primo termine indica le istituzioni pubbliche e il loro potere cogente su tutti i cittadini. È questa una distinzione salutare, faticosamente conquistata, sulla quale si regge tutto l´edificio delle libertà personali, comprese naturalmente quelle religiose. Chi invoca una penetrazione del privato nel pubblico per dare più forza al privato non sembra rendersi conto che ciò significa anche penetrazione del pubblico nel privato, del quale viene così condizionata, e quindi limitata, l´autonomia.
Questo vale anche per la coscienza religiosa, che ha a sua volta bisogno di libertà per radicarsi ed esprimersi. In altre parole: se viene privatizzato il pubblico, viene contestualmente pubblicizzato il privato. Ma allora, basterebbe eliminare alcuni equivoci terminologici perché tutto funzionasse per il meglio?
Purtroppo non è così. Le pressioni delle gerarchie cattoliche e dei loro fiancheggiatori politici e culturali quando chiedono maggiore presenza nello spazio pubblico mirano in realtà ad avere più spazio nel potere pubblico, basandosi sul doppio significato di "pubblico" che sopra ho cercato di delineare. In Italia i concordati, sia quello di Mussolini che quello di Craxi, hanno introdotto una confusione fra pubblico e privato che apre la strada alla nuove, pressanti, richieste della gerarchia ecclesiastica di provvedimenti normativi a proprio favore. Tali richieste, venuta meno la mediazione politica che la Democrazia Cristiana, pur entro certi limiti, sapeva di dover compiere, diventano sempre più insistenti, giovandosi da un lato della libertà che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini e nello stesso tempo usufruendo dei privilegi assicurati dal Concordato e dalle molte leggi che, dal campo finanziario a quello scolastico, li vanno accrescendo. Sembra quasi che intorno alle dichiarazioni di alcune autorità ecclesiastiche aleggino le parole attribuite ai gesuiti dell´Ottocento nei confronti dei liberali: «Esigo da voi la libertà perché è nei vostri principii, ma ve la nego perché non è nei miei».
Del resto, è intorno allo stesso concetto di libertà che, su questo terreno, possono sorgere equivoci. Una cosa è la libertà della Chiesa cattolica, altra cosa è la libertà di coscienza dei singoli cittadini di fronte alle religioni. Quando la Chiesa cattolica come istituzione rivendica la propria libertà ha ben diritto di farlo, ma deve rispettare i limiti che all´esercizio di quella libertà sono posti dalla libertà assicurata a tutti i cittadini dalla Costituzione. Non possono cioè le norme e i precetti della Chiesa trasformarsi, direttamente o indirettamente, in norme dello Stato, che verrebbero in tal modo a violare l´eguaglianza di tutti di fronte alla legge, cioè a dare vita a nuovi privilegi.
Nelle discussioni sui rapporti fra religione e politica non dovrebbe dunque insinuarsi l´idea che si tratti di rapporti fra due poteri, come quelli fra papa e imperatore al tempo della lotta delle investiture. Questo immeschinisce il più delle volte il discorso attorno alla religione e ne mette ai margini gli agnostici e gli atei, i quali, forse intimiditi dal clima che prevalentemente li circonda, a loro volta esitano ad affrontare con i cattolici e gli altri credenti i sommi problemi attorno al mondo, all´uomo, al suo destino, alle sue paure e alle sue speranze, che sono comuni a tutta l´umanità e che hanno fornito alle religioni la base dello loro forza attraverso i secoli.
Esiste anche in Italia una tradizione di cattolici liberali e democratici che hanno fatto della coesistenza fra la loro fede, la libertà e la democrazia un problema di coscienza, non un problema di rapporto fra due poteri.
Se ammiriamo due grandi intellettuali cattolici di recente scomparsi, Giuseppe Alberigo e Pietro Scoppola, è perché cogliamo, nella loro opera storiografica e nella loro presenza sulla scena pubblica, la sincera e talvolta dolente tensione fra quei due poli presenti nel profondo del loro animo. Alberigo e Scoppola, pur così attenti al concreto dispiegarsi nella vita istituzionale e politica dell´attività religiosa, ci ricordano che, a monte delle relative norme giuridiche, esistono principii che le trascendono, i quali, ove fossero violati, metterebbero in crisi l´intero edificio dello Stato laico.
Ai fermi difensori della laicità viene talvolta opposta la goffa replica: «Ma allora anche voi siete dogmatici!». Chi muove questa accusa sembra incapace di distinguere fra dogma e fermezza di convinzioni nella difesa della libertà di tutti. Certo, chi pensa che la morale possa fondarsi solo su verità dogmaticamente affermate può sentirsi smarrito in un mondo in cui si cerca e si pratica l´eticità muovendo dall´opposto principio dell´autonomia della morale. Ma di fatto la laicità, frutto di un lungo e difficile percorso costato crisi di coscienza, sofferenze e talvolta roghi, basandosi sulla distinzione fra spazio pubblico e potere pubblico, assicura anche a chi la nega o la stravolge (ad esempio, opponendo al laico buono il laicista cattivo) condizioni di vita intellettuale, sociale e politica in cui egli può liberamente vivere ed esprimersi.

Repubblica 3.12.07
Capodimonte. Artisti di casa e stranieri a confronto
Per festeggiare i cinquant’anni del museo un percorso che unisce Picasso a Van Gogh Brueghel a Boucher e i Carracci
di Bianca Riccio


Spregiudicata, attraente, certamente non convenzionale, la mostra che, aperta fino al 20 gennaio 2008, è stata allestita a Capodimonte per festeggiarne i cinquant´anni. E´ anche un omaggio deferente dei maggiori musei del mondo, che hanno volentieri concesso in prestito settanta opere, non solo prestigiose ma raramente uscite dalle loro sedi istituzionali. In ossequio, ripetiamo, ad uno dei musei più importanti e attivi d´Italia e forse d´Europa. Rispetto al museo, quindi, e al lavoro infaticabile e appassionato dei suoi funzionari che, dal lontano 1957, quando Capodimonte fu voluto da Bruno Molaioli, lo hanno saputo modificare profondamente senza però ledere in nessun modo la sua particolare identità. Da Reggia Museo delle collezioni principesche, farnesiane e borboniche, realizzato alla metà del settecento da Carlo III di Borbone, per collocarvi l´immensa collezione Farnese avuta in eredità da sua madre Elisabetta, ma di fatto chiuso dal 1799, trasformato a istituzione internazionale e cosmopolita. Ma torniamo alla mostra di compleanno. E´ da lodare la scelta ottima e molto abile di non separare il nucleo dei dipinti «forestieri» dal percorso delle collezioni permanenti, anzi, i «foresti» sono stati messi a colloquio con gli inquilini in situ disponendoli lungo il percorso museale. Una scelta provocatoria? Forse, ma è anche il segnale di una nuova concezione espositiva, più stimolante. Così ci si può concedere il piacere di vedere il raffinato e italianissimo ritratto la Donna con perla di Corot, accanto alla Madonna con bambino di Botticelli, i dipinti metafisici di Carrà e de Chirico a confronto con il rigore del celebre ritratto di Luca Pacioli con i suoi libri matematici, uno sconvolto Basquiat accanto allo stralunato Ritratto del Rosso Fiorentino e il capolavoro di George La Tour, giunto da Berlino, i Due contadini che mangiano ceci e miseria accanto ai caravaggeschi napoletani come Mattia Stomer. E ancora, il meraviglioso paesaggio di Turner La prima stella della sera che viene dalla National Gallery di Londra, un dipinto del 1830. Il Turner si colloca davanti a un solare e mediterraneo paesaggio di Claude Lorrain. Veramente c´è tutta l´occasione di riflettere su che cosa abbia significato la pittura italiana per l´Europa. Per esempio si sono messi a confronto dipinti di epoche e orientamenti stilistici diversi ma di tematiche affini, così i tre ritratti femminili di Picasso, la Donna di Maiorca, Olga con il collo di pelliccia e Il Ritratto di Olga Khokhlova sono ai lati della enigmatica Antea di Parmigianino. Sicuramente la visita che Picasso fece a Napoli e agli scavi pompeiani nel 1917 è all´origine della particolare tensione figurativa che si riscontra nel ritratto di Olga. Certo la conoscenza della pittura antica fatta a Napoli diviene qui un elemento essenziale. Il contatto diretto con l´antichità costituì per Picasso una ricchissima vena ispiratrice, qui ancora allo stadio di «problema da risolvere», il che dà un senso ben preciso al viaggio in Italia del pittore spagnolo. Seguitando nel nostro percorso, troviamo la più che seducente Betsabea di Rembrandt, davanti alla Danae di Tiziano, e l´ambizioso, superbo bozzetto, pressoché sconosciuto, per un dipinto mai eseguito dal giovane David a Roma, I funerali di Patroclo. Il Concerto di giovani, un´opera colta e raffinata di Caravaggio che viene dal Metropolitan di New York, firmato in basso a sinistra, è opera di Caravaggio giovane, presumibilmente ancora a Roma al servizio del Cardinal Del Monte, eseguito prima della sua precipitosa fuga proprio a Napoli, dove, come è noto, cambiò radicalmente la sua maniera. E adesso incontriamo Van Gogh davanti a Brueghel e Boucher, giustamente di fronte al bodoire in porcellane chinoiserie di Amalia di Sassonia, la moglie di Carlo III. Chiude questo percorso un enorme e ironico Gilbert&Gorge, una delle loro leggendarie autorappresentazioni. Ancora una provocazione? Al piano superiore, il piano del XIX secolo, troviamo una sorpresa. Sappiamo che Edgard Degas ebbe stretti rapporti con Napoli. Il nonno paterno Hilaire intorno al 1790 lasciò la Francia per Napoli e si fece una posizione come banchiere. Una zia di Edgard sposò Giuseppe Morbilli, duca di Sant´Angelo, lo zio Eduardo impalmò Claudia Primicile Carafa, la zia Laura il barone Gennaro Bellelli, e Stefanina, la prediletta Fanny, andò sposa a un altro Carafa. Di tutti esistono ritratti commossi. Ma c´erano nodi ancora più stretti per Degas a Napoli che quando vi soggiornava era sommerso dalle visite dei parenti.
Nel 1863 la amatissima sorella Thrèse, anche sua modella, sposò il cugino Morbilli. Qui troviamo a colloquio il doppio ritratto di Edmondo e Therèse Morbilli, un capolavoro che viene da Boston, accanto a quello delle sorelle Bellelli di Los Angeles, posti a confronto con un ritrovato ritratto di Therèse di Domenico Morelli. Tutto ciò, prestiti, festa e catalogo esemplare sottolineano il prestigio acquisito dalle istituzioni napoletane, attraverso le loro tante, tantissime manifestazioni. E vogliamo ricordare la mostra del Seicento napoletano e quelle del Settecento e dell´Ottocento, le diverse monografiche come quella su Luca Giordano o Gaspare Traversi, le mostre nelle sedi di Castel Sant´Elmo di villa Pignatelli, della Floridiana e della Certosa di Capri, tutto un vasto territorio trascinato e coinvolto dal vulcanico soprintendente e dai suoi collaboratori. La conclusione alla quale Nicola Spinosa vuole arrivare è che un Museo dovrebbe funzionare come laboratorio nel quale poter sperimentare nuove idee per altri progetti d´arte e forse anche di vita. E per il futuro si prevedono subito una ricognizione di tre fotografi diversi Mimmo Iodice, Olivo Barbieri e Craige Horsfield «Da Capodimonte» e Verso Capodimonte» e poi attesissima, nella primavera del 2008, una particolare monografica su Salvator Rosa. Ma non il Salvator Rosa dei paesaggi o delle battaglie, bensì l´artista visto dal suo lato più affascinante, quello del pittore di figure allegoriche, da esplorare nei suoi significati più magici, esoterici ed arcaici.

Repubblica 3.12.07
L’esposizione a Vicenza
La favola di "Venere e Amore" nell'opera di Gian Antonio Pellegrini


VICENZA - Il mito di Venere e Amore è il tema della mostra "Capolavori che ritornano" allestita a Palazzo Thiene (Banca Popolare di Vicenza) dall´8 dicembre al 3 febbraio; la rassegna ha come opera centrale "Venere e Amore" di Gian Antonio Pellegrini; partendo da questa importante tela si snoda un percorso che passa attraverso gli stucchi cinquecenteschi del Palazzo fino alla pittura del settecento veneto; la galleria Barberini di Roma ha prestato per l´occasione "Venere e Adone" di Tiziano. Ingresso libero

Corriere della Sera 3.12.07
Tristano, Isolda e il Nulla
Wagner elabora le tesi di Schopenhauer per mostrare la distruzione dell'individuo
di Paolo Isotta


Il 7 dicembre la Scala inaugura la stagione lirica con l'opera del maestro tedesco.
Dirigerà Daniel Barenboim con regia di Patrice Chéreau
Una metafisica atea dove la fusione sentimentale dei due amanti diventa una forza dissolvitrice

Un articolo di giornale non potrà nemmeno lontanamente presumere di essere un'analisi d'un capolavoro della complessità del Tristano e Isolda. Conviene qui modestamente porre in rilievo alcuni luoghi del poema drammatico che, per essere di solito fraintesi, impediscono di cogliere addirittura il significato dell'opera.
Occorrerebbe innanzitutto conoscere nel modo più particolareggiato tutta la prima metà del I atto: nessun autore di teatro musicale raggiunge Wagner nell'arte di narrare attraverso il dialogo collocato in questa zona del dramma i lunghi e intricati antefatti dell'azione. Contemporaneamente viene con straordinaria densità enunciata la gran parte del materiale motivico onde si costruisce la forma musicale e drammatica dell'intera opera. Qui l'antefatto è dedicato al racconto dei rapporti avutisi fra Tristano e Isolda prima dell'inizio del dramma, i quali determinano il comportamento dei due eroi nel corso del I atto. Non li narreremo di nuovo per giungere a trattare d'uno dei simboli fondamentali del dramma, che dà luogo alla catastrofe del I atto: il filtro d'amore. Le fonti medioevali con la leggenda del fatale amore, per quanto investigate da Wagner con profondità filologica, restano per lui mero pretesto del capolavoro poetico: ogni elemento del mito riceve senso nuovo e originario dalla sua ricreazione.
Così assistiamo all'ordine che Isolda impartisce alla dama Brangania di fornirle dal suo scrigno il filtro di morte. L'antefatto ha spiegato esistere una colpa inespiata di Tristano verso Isolda e costei intende punirlo offrendogli la bevanda e al tempo stesso assumendola per evadere con la morte da quello che a lei pare un futuro di ignominiosa servitù, il matrimonio col vecchio re Marke, zio di Tristano, invece che con l'eroe ch'ella salvò due volte e poi l'ha conquistata pel re. Quando Tristano viene convocato dalla principessa e si vede porgere la coppa è del tutto consapevole del destino che l'attende: il suo orgoglio virile gli fa accettare di pagare con la vita l'oscura colpa inespiata. Ma l'ancella, terrorizzata per la volontà della sua signora, sostituisce al veleno il filtro d'amore. Quando gli eroi bevono alla stessa coppa ignorano ambedue codesta sostituzione. Ed ecco il punto sublime nel quale possono senza onta guardarsi negli occhi e pronunciare estaticamente l'uno il nome dell'altra. Una considerazione superficiale di questo punto chiave porterebbe a credere che il filtro d'amore abbia come meccanicamente avuto effetto sui due, trasformando il sentimento d'odio di Isolda verso Tristano nel suo opposto e, in modo simmetrico, accendendo l'amore nello spirito di Tristano. In realtà i due, bevuto che hanno, sono convinti di avere innanzi solo pochi istanti di vita: nessun pericolo li minaccia più, non sono più costretti a seguire i comandamenti del mondo falso, quello che nel sistema simbolico del Tristano viene chiamato il «Giorno» con la sua luce insopportabile. Solo ora si sentono liberi di confessarsi a vicenda il sentimento intimissimo celato nel cuore che il «Giorno », col suo sistema di valori, impediva, non che di manifestare, di dichiarare anche a se stessi. Dal primo istante l'attuarsi di questo arcano amore è mescolato alla presenza della morte, si fonde con essa.
Di qui viene naturale interrogarsi su ciò: in che cosa consiste l'invincibile amore di Tristano e Isolda? Quale significato specifico acquisisce nel dramma il vocabolo «Liebe»? Eccoci calati nel tema della metafisica erotica del Dramma Musicale. Nulla di più lontano dal congiungimento carnale, che riporterebbe i due nel mondo della vita: varcare le porte del mondo della vita è invece l'esatto fine dei due metafisici amanti. Perciò l'immensa notte d'amore del II atto, con la sua luce dell'oscurità derivante da un'orchestra che nessuno aveva saputo trattare con tale polifonia di linee e colori, non può intendersi col termine superficiale di «duetto d'amore» che quasi tutti adoperano. L'amore di Tristano e Isolda significa innanzitutto l'abbattimento dei confini tra «io» e «tu» per portare alla totale fusione dei due amanti, che prelude al culmine dell'amore, la fusione di questo unico essere nella Morte, ossia il passaggio dalla soglia che dalla vita conduce al Nulla.
La distruzione dell'individualità per la fusione dei «due» in «uno» e poi dell'«uno» nel Nulla si definisce in termini filosofici la distruzione dell'illusorio
principium individuationis che impedisce ai nostri sensi di cogliere come monistico il frutto della cieca e nefasta Volontà: ecco il lessico di Schopenhauer del quale Il mondo come Volontà e Rappresentazione costituì il fondamento della metafisica erotica del Tristano.
Ciò che dunque dovrebbe accadere durante la Notte del II atto e non avviene per l'irruzione del mondo del Giorno ordita dal traditore Melot è la fusione del «due» in «uno», indi il dissolvimento dell'«uno» nel Nulla per pura forza d'amore: una forza di natura puramente spirituale, tanto più sconvolgente giacché, come ciascuno avrà colto leggendo queste righe, abbiamo da fare con una metafisica del tutto atea. La distruzione dell'individualità passa dunque, ed ecco ancora Schopenhauer, per la conquista di una «volontà negativa », una noluntas.
Quando si giunge al sublime finale del dramma, che viene di solito definito Liebestod, morte d'amore, mentre la sua retta denominazione è Isoldes Verklärung, la trasfigurazione di Isolda, ispirata a Wagner anche dalla veneziana Assunta del Tiziano, Tristano è già morto dopo il terribile monologo della prima metà dell'atto. Egli, attinto da ferita letale, è in spasmodica attesa di Isolda per realizzare con lei ciò che nel II atto gli è stato impossibile: ma quando il pastore e Kurwenal gli annunciano il di lei arrivo egli non è più capace di attendere, in stato di totale esaltazione si strappa le bende. Isolda deve dunque compiere da sé il processo d'ingresso nel Nulla per sola forza d'amore; la pagina nella quale ciò avviene, la «trasfigurazione », potrebbe essere considerata il culmine di tutta la musica europea. Solo dopo ch'essa ha cessato di cantare tocca all'orchestra risolvere la vicenda tematico-simbolica del dramma. Il motivo del tormento d'amore inappagato compare già, in shock polifonico, nella III e IV misura del Preludio al I atto: e qui viene generalmente chiamato, col complesso delle altre voci che vi cozzano, «l'accordo del Tristano ». Incidentalmente osserviamo che ancora la più attardata letteratura ne parla come di un enigma armonico, laddove lo stesso Bach l'avrebbe immediatamente classificato e spiegato nella funzione. Per l'intera immensa partitura tornerà col suo tormentoso cromatismo. Solo qui, sostenuto dalle armonie che in Wagner si chiamano la cadenza «della redenzione», si frange un cammino verso l'alto e si risolve, placato, nella «terza maggiore» dell'«accordo di Si maggiore meglio strumentato della storia della musica » (Richard Strauss). Coll'ingresso nel Nulla si appaga, cessando, ogni desiderio. Il culmine del destino è nella morte dell'illusoria coscienza di sé.
Lo stile musicale del Tristano e Isolda dà ampio luogo al cromatismo, ossia all'uso di note estranee alla scala e di accordi alterati. In primo luogo va osservato che procedimenti eccezionali, ma linguisticamente sempre spiegabili secondo le regole dell'armonia tonale, vengono da Wagner adoperati non per una ricerca stilistica, o, Dio liberi, linguistica, fine a se stessa, ma per dar espressione a un contenuto drammatico che Wagner considerava, com'è, altrettanto eccezionale. Lungi dal vedere ciò come «conquista» del linguaggio, Wagner arriva a diffidare gli altri dall'uso di tali procedimenti eccezionali, solo a lui leciti. In secondo luogo, atteso che così non fu, ossia che gli altri se ne impadronirono impunemente (ma con quanto minor forza), occorre un'osservazione fondamentale. Si vuole da taluno che lo stile armonico del Tristano, oltre ad aprire vie nuove, abbia col suo pervadente cromatismo messo in crisi l'armonia tonale. In realtà l'arte inarrivabile con che Wagner maneggia la dinamite senza farla esplodere, il suo non scrivere nemmeno una notina delle parti interne a caso, lungi dall'andare nel verso d'un'equiparazione di consonanza e dissonanza (l'interpretazione «progressista» del Tristano nella Storia), rafforza enormemente il sentimento tonale. L'intima natura classica della partitura del Tristano, che occorrerà una buona volta ammettere, ritarda invece che determinare la crisi dell'armonia tonale.

il Riformista 3.12.07
Le prossime mosse di Benedetto XVI
Rivoluzione allo Ior: in arrivo Tietmeyer


Sono cinque gli uffici con competenze finanziarie del Vaticano. Oltre all'Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica), al governatorato dello Stato della Città del Vaticano, alla prefettura degli Affari Economici e alla congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli, c'è lo Ior (l'Istituto per le opere di religione), in sostanza la banca vaticana. L'istituto è controllato da una commissione cardinalizia di vigilanza dalla quale, questa settimana (si dice domani), dovrebbe ufficialmente uscire l'attuale presidente, ovvero l'ex segretario di Stato vaticano Angelo Sodano che lo scorso 23 novembre ha compiuto 80 anni ed è così entrato nell'età in cui non si può più far parte, come componenti effettivi, dei vari ministeri della Santa Sede.
Ancora oggi, nella commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior, vi sono insieme a lui Tarcisio Bertone (attuale segretario di Stato vaticano), Juan Sandoval Iniguez (arcivescovo di Guadalajara), Attilio Nicora (presidente dell'Apsa) e Adam Joseph Maida (arcivescovo di Detroit). Da domani, il posto di presidenza dovrebbe essere automaticamente consegnato al cardinale Bertone mentre per il nome di chi andrà a occupare il quinto e ultimo posto ancora disponibile i giochi sono aperti. Si parla con insistenza dell'arrivo del neocardinale Giovanni Lajolo (presidente del governatorato) anche se non è escluso che il pontefice, sentito innanzitutto il cardinale Bertone, possa optare per un nome internazionale. La commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior, infatti, ha quasi sempre avuto al suo interno, oltre a un cardinale proveniente dagli Stati Uniti, anche uno proveniente dalla Germania. Si tratta dei due paesi che raccolgono la maggiore quantità di offerte per la Santa Sede ed è logico che abbiano una rappresentanza agli alti livelli della banca vaticana.
La struttura dello Ior ha subìto nei mesi scorsi alcuni importanti cambiamenti. Il primo ottobre scorso Paolo Cipriani ha preso il posto del direttore generale Lelio Scaletti. Cipriani, cinquantatreenne romano, sposato con due figli, prima di entrare in servizio allo Ior aveva prestato la propria attività presso il Banco di Santo Spirito e la Banca di Roma, svolgendo anche compiti di rappresentanza di questi istituti in Lussemburgo, a New York e a Londra. Attualmente presidente dello Ior è il banchiere Angelo Caloia. Ma da gennaio il suo posto potrebbe essere preso dall'ex presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, membro della pontificia Accademia delle scienze.
Resta tutta da decifrare, invece, la posizione dell'attuale segretario personale del cardinale Sodano, monsignor Piero Pioppo, nominato prelato dello Ior dallo stesso Sodano durante i suoi ultimi mesi alla guida della segreteria di Stato, dopo aver rispolverato una carica che era rimasta vacante dai tempi dell'uscita di scena del discusso e potente monsignor Donato De Bonis, braccio destro di Paul Marcinkus.
In settimana, pare domani, dovrebbe avvenire anche l'importante nomina del nuovo direttore dei musei vaticani. Si tratta di Antonio Paolucci, storico dell'arte, già ministro dei beni culturali ed ex-soprintendente per il polo museale a Firenze. Insieme, si parla dell'arrivo alla congregazione per l'evangelizzazione dei popoli di monsignor Ermes Viale, oggi officiale della prima sezione della segreteria di Stato vaticana, quale nuovo capo dell'ufficio amministrativo del ministero retto dal cardinale Dias.
Più in là, invece, probabilmente entro e non oltre il mese di gennaio, dovrebbe avvenire un cambio ai vertici dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù. Viene dato per probabile l'arrivo, come nuovo presidente, dell'attuale vice presidente dell'ente ospedaliero Ospedali Galliera di Genova, il professor Giuseppe Profiti. L'ospedale genovese, in ossequio al suo statuto, è oggi presieduto dall'arcivescovo della città, il cardinale Angelo Bagnasco. Istituito, infatti, come opera pia, l'ente deve le sue origini alla munificenza della Marchesa Maria Brignole Sale, duchessa di Galliera, che lo ha edificato tra il 1877 e il 1888. Da sempre l'ente genovese ha avuto la peculiarità della presidenza affidata all'arcivescovo in carica in città. L'eventuale arrivo di Profiti al Bambino Gesù - ospedale a oggi di proprietà della Santa Sede - permetterebbe una certa continuità di governo con la gestione precedente.

l'Unità 3.12.07
La violenza sui bambini e il dilemma del segreto
di Luigi Cancrini


Uno psichiatra di Palermo ha denunciato un suo paziente che gli parlava di abusi, ancora in corso, compiuti nei confronti di tre bambine dai tre agli otto anni. La polemica che si è aperta a questo punto mi ha lasciato davvero perplessa. Davvero si può sostenere, come ha fatto Vittorino Andreoli, che la tutela del segreto professionale ed il rapporto di fiducia fra medico e paziente siano più importanti delle violenze che i bambini, in assenza di denuncia, avrebbero continuato a subire? Lei che ne pensa?
Lettera firmata


Ne penso che lo psichiatra ha fatto bene e che io avrei fatto altrettanto. Dopo aver tentato di convincere, ovviamente, il mio paziente all’autodenuncia. Proponendogli l’idea di una Comunità Terapeutica. Ma proponendogli, soprattutto, l’idea per cui il percorso terapeutico, in una situazione come la sua, parte proprio dalla capacità di assicurargli una protezione concreta nei confronti di un comportamento compulsivo che egli non riesce a tenere sotto controllo.
Quello cui ci troviamo di fronte qui, in effetti, è un problema di fondo dell’agire psicoterapeutico. Come ben sanno tutti quelli che lavorano con gli alcolisti, con i tossicodipendenti o con gli autori di violenza sessuale, situazioni terapeutiche centrate solo sul tentativo di capire il perché dei loro comportamenti possono trasformarsi in una forma sottile di complicità ed in una specie di «giustificazione» psicologica di tali comportamenti se non si pone con grande chiarezza, fin dall’inizio, il problema del loro superamento. Un problema che deve essere considerato in qualche modo preliminare allo sviluppo di un vero e proprio lavoro terapeutico. Il che non significa, ovviamente, che il terapeuta debba muoversi utilizzando risorse esterne (la polizia o i famigliari) senza il consenso del paziente per aiutarlo in questa direzione. Il che significa con grande evidenza, però, che il terapeuta deve chiarire al suo paziente che priva di un consenso su questo punto e priva dunque di una definizione consensuale degli obiettivi da raggiungere, la relazione che si stabilisce fra di loro non è una relazione terapeutica ma, al più, una relazione d’aiuto capace di offrire quel minimo di presenza e di vicinanza che bisogna comunque offrire ad una persona che sta così male da non riuscire neppure a formulare un progetto di cambiamento. In termini famigliari a chi lavora con i tossicodipendenti, un intervento di «riduzione del danno»: necessario, spesso, per costruire la base di un futuro intervento davvero terapeutico. Seguendo la formulazione lineare ed efficace dei medici olandesi che dicevano ai loro eroinomani: «la tua vita e la tua salute fisica ci interessano anche se tu non hai ancora deciso di smettere e di curarti».
È all’interno di questo ragionamento più complessivo che va inquadrata secondo me, dal punto di vista concettuale, la decisione dello psichiatra che ha ritenuto di non dover rispettare i limiti tradizionali del «segreto professionale» arrivando a denunciare i comportamenti del suo paziente. Grave sarebbe stato, certo, se a questa decisione fosse arrivato senza aver prima tentato di ottenere dal paziente delle scelte capaci di tenerlo lontano dal rischio di ripetizione dei suoi comportamenti evidenziando in modo chiaro la sua decisione di liberarsene. Se lo ha fatto tuttavia, come io non ho motivo di dubitare, il suo comportamento è legittimato soprattutto dalla sua compatibilità con quelle che sono, a mio avviso, le esigenze reali e profonde di colui che gli ha chiesto aiuto. Una persona che soffre di una patologia estremamente grave e che deve essere costretta comunque, anche con una denuncia (a) a interrompere un comportamento dannoso per lui oltre che per i bambini; (b) ad affrontare una consapevolezza piena e condivisa della sua condizione di malattia; (c) ad utilizzare tale consapevolezza per affrontare sul serio con una terapia vera e propria la sua patologia.
Ho lasciato in secondo piano (a qualcuno forse così sembrerà) il problema della protezione dei bambini. Si tratta di un argomento decisivo anche dal punto di vista legale, a mio avviso, perché l’obbligo di denuncia c’è in questa situazione ma io ho preferito non insistere su questo punto per una ragione che considero estremamente importante. Per avere la possibilità di insistere, cioè, sull’idea per cui quella su cui dobbiamo sempre basarci, al di là di tutte le apparenze, è la sostanziale, profonda convergenza che c’è, dal punto di vista psicologico, nelle relazioni interpersonali violente, fra interesse delle vittime e interesse dei persecutori e dei violenti. Sull’idea, cioè, per cui il violento produce ogni volta con i suoi comportamenti ferite in sé stesso oltre che nella sua vittima e che poche psicopatologie sono insieme mutilanti e gravi come quelle di chi è obbligato da dentro a violentare dei bambini. Essendo stato, come spesso accade, violentato a sua volta nell’infanzia ed attivando dunque, nel momento in cui prende il ruolo del violentatore, solo una ripetizione dolorosa e anacronistica della sua ferita originaria. Non traendone alcun tipo di sollievo, neppure momentaneo, ma solo, nel suo profondo, dolore, vergogna, senso di colpa e ulteriore difficoltà a vivere la sua vita.
Questa riflessione, io me ne rendo bene conto, può essere considerata di tipo essenzialmente etico. Quello che io vorrei sottolineare, invece, è che io la sento come una riflessione di ordine prevalentemente clinico. Una riflessione abitualmente sottovalutata da chi non si rende conto della sua importanza fondamentale nelle cure di tutti quei disturbi di personalità che si collegano ad una percezione erronea del Sé, a quella che in psicoanalisi viene definita come una patologia del Sé grandioso. Alle persone che non si rendono conto di star male, cioè, o che se ne rendono conto in modo limitato semplicemente perché i loro meccanismi difensivi li costringono ad evitare qualsiasi confronto con le loro parti più deboli o più infantili. Rendendo impossibile la richiesta di aiuto terapeutico («non ne ho bisogno») o trasformandola in un bisogno del tutto strumentale («ho bisogno solo di qualcuno che mi ascolti e mi capisca»): fino al momento in cui con chiarezza qualcuno (il terapeuta) non li riporta ad una considerazione realistica degli effetti, su loro e su gli altri, dei loro comportamenti.