mercoledì 5 dicembre 2007

Repubblica 5.12.07
Un saggio di Ludovico Incisa sul guerrigliero argentino
L'incredibile mito di Che Guevara
L'alone mistico che lo circonda contagia i movimenti giovanili e studenteschi occidentali in modo del tutto acritico
di Sandro Viola


Non fosse stato per le circostanze della sua morte, Ernesto Guevara, un giovane rivoluzionario argentino di bell´aspetto, pensoso all´accampamento e temerario in battaglia, sarebbe passato alla storia dell´America Latina per una sola ragione: la presenza del suo nome tra i compagni di Fidel Castro nei bivacchi sulla Sierra Maestra, durante i due anni e mezzo della guerriglia contro Batista. Certo: a partire dal ‘59, con la conquista dell´Avana e la nascita del regime castrista, Guevara diventa uno dei ministri di Fidel. Ma l´aver avuto un posto nel lungo elenco dei mediocri ministri cubani di questi quasi cinquant´anni, non significa che oggi sarebbe ricordato.
Come politico, come economista (il suo primo incarico fu al ministero dell´Economia), e persino come stratega della rivoluzione, Ernesto Guevara detto il Che non riuscì infatti ad illustrarsi. Forte carica morale, vita austera, grandi ideali, questo sì. Da ministro dell´Economia, per esempio, impone ai suoi funzionari di rinunciare ad ogni privilegio e lavorare il sabato nelle piantagioni o nei cantieri edili: ma tanto rigore non produce alcun effetto benefico, inutile dirlo, sulla situazione economica dell´isola.
Come pensatore rivoluzionario risulta piuttosto riduttivo, convinto com´è che per diffondere la rivoluzione cubana in America Latina basterebbe che in ogni paese ci fosse «quella forza tellurica che risponde al nome di Fidel Castro». E come marxista, tende soprattutto a sognare. Sogna per esempio la nascita «d´un nuovo tipo d´essere umano», nascita che sarà possibile congiungendo «la transizione al socialismo con la lotta contro l´alienazione». Un´altra idea tra le tante d´un «uomo nuovo», anch´essa finita come le altre nello sterminato archivio del «socialismo irrealizzato».
Persino come stratega della guerra di guerriglia, il suo idealismo, i suoi sogni, prevalgono quasi sempre su una valutazione realistica delle forze in campo. Benché molto celebrata, la sua teoria del «foco», il focolaio da cui far partire e sviluppare - con l´appoggio delle masse popolari - il processo rivoluzionario, si rivelerà infatti fallace, a volte anzi disastrosa. E in molti casi il suo ottimismo rasenta l´incoscienza. Mancano pochi giorni alla sua cattura e morte in Bolivia, il suo gruppo è incalzato sempre più da vicino dai soldati del presidente Barrientos, ma il Che scrive: «La leggenda della guerriglia cresce come spuma. Siamo già i superuomini invincibili, anche se il generale Barrientos ci definisce vipere e sorci».
Se queste erano le debolezze del politico e del capo militare, se il progetto cui Guevara sacrificherà la vita - la rivoluzione in America Latina - è andato incontro tra i Sessanta e gli Ottanta ad una serie d´irrimediabili sconfitte, come spiegare allora il mito del Che, il suo essere divenuto l´idolo d´un paio di generazioni di latino-americani e di europei, uno dei simboli della stagione storica che ha chiuso il Novecento? Come spiegare che ancora poche settimane fa, nel quarantesimo anniversario della morte di Guevara, si siano susseguite ovunque in Occidente rievocazioni e celebrazioni appassionate?
Nel suo ultimo libro, I ragazzi del Che - Storia d´una rivoluzione mancata (Corbaccio, pagg. 400, euro 20), Ludovico Incisa risponde a queste domande con la chiarezza che gli viene da una pluridecennale esperienza delle realtà latino-americane. L´analisi del fenomeno guevarista è ampia, minuziosa. Passa in rassegna i molti tentativi d´esportare la rivoluzione cubana negli altri paesi dell´America Latina: uno dopo l´altro regolarmente falliti, tanto che nel ‘93 Castro dovrà ammette che la lotta armata «non è il cammino per risolvere i problemi dei paesi latino-americani». Ma largo spazio è poi dedicato ai ricaschi che il mito della rivoluzione ebbe sulle gioventù europee.
La visione rivoluzionaria del Che, sostiene Incisa, è circondata da un alone mistico che trascinerà i movimenti giovanili, gli studenti soprattutto, prima in America Latina, poi in Europa e finanche negli Stati Uniti. Ma lì dov´era destinata nei progetti di Guevara e di Castro, vale a dire nel Terzo Mondo asiatico e africano, non solo non attecchisce politicamente, non innesca la lotta armata, ma suscita interessi sporadici o addirittura indifferenza. Si tratta dunque d´una idea della rivoluzione essenzialmente volontaristica e «occidentale».
Somiglia infatti a quel volontarismo eroico, «di guerra», impersonato dai D´Annunzio, dai Malraux, dai Lawrence, che aveva avuto un forte rilievo sulla scena della prima metà del secolo. «Nella seconda metà, il volontarismo rinasce in America Latina, in un´epica domanda di eroismo, nell´allegoria color sangue della gioventù in armi». C´è una differenza, tuttavia, con quei personaggi del passato: Guevara «dimostra un´assoluta ripugnanza per effetti letterari e gesti teatrali», anche se «è capace con la sua sola immagine di cancellare ogni sconfitta, di affascinare e commuovere».
Nessuna meraviglia quindi che quest´immagine e l´idea della rivoluzione latino-americana vengano a travasarsi direttamente nella rivolta degli studenti che l´anno dopo la morte del Che, nel ‘68, sta dilagando da un punto all´altro dell´Europa. Quella rivolta ha bisogno di esempi eroici, d´un mito. E «il fondo anarchico e poetico» del guevarismo servirà ad accendere entusiasmi, produrre slogan, nutrire illusioni. Poco importa che nei paesi europei l´internazionale studentesca non disponga di motivazioni rivoluzionarie locali: essa «farà proprie quelle del Terzo Mondo, e in particolare quelle del Vietnam». Ma a sventolare più d´ogni altra sui moti giovanili in Occidente, sarà comunque la bandiera del Che.
Quando nel maggio ‘68 gli studenti scendono nelle piazze d´Europa all´attacco delle istituzioni e delle polizie, tutti gli errori e le ingenuità commessi da Ernesto Guevara come pensatore e politico, sono infatti dimenticati. La sua morte in Bolivia, qualche mese prima, li ha infatti riscattati. Ucciso, dopo essere stato fatto prigioniero, da un sottufficiale ubriaco che gli spara una raffica di mitra contro il torace, il Che è morto con il coraggio e la dignità d´un eroe romantico. E sullo sfondo di quegli anni, la sua fine assume rapidamente i contorni della leggenda. In America Latina, dove il mito guevarista animerà le guerriglie urbane degli anni Settanta, e in tutta Europa, il Che diventa l´ultimo eroe del XX secolo.
Fioriranno poi, senza nessuna colpa del morto, l´enfasi e l´esagerazione. Per Jean Paul Sartre il Che è «l´uomo più completo del suo tempo», per il raffinato e decadente Pierre de Mandiargue «l´eroe poetico assoluto», per Miguel Angel Asturias «l´espressione d´un romanticismo autentico, del sacrificio eroico». Ma sono parole del dopo, pronunciate o scritte a molte migliaia di chilometri di distanza dall´arsa collina boliviana dove il Che ha perso la vita, e che non bastano certo ad occultare la sconfitta della causa per cui Guevara s´era battuto.

Corriere della Sera 5.12.07
La storia del dirigente pci denunciato come spia fascista da alcuni compagni: prima salvato da Gramsci, morì fucilato nel '38
Una bambina contro Stalin
Fiction sul comunista Gino De Marchi Ucciso in Urss, sua figlia «svelò» il delitto
di Valerio Cappelli


ROMA — La sua «Resistenza » è durata tutta la vita. Era una ragazzina di 13 anni, Luciana De Marchi, quando decise di cercare suo padre. Gino De Marchi era un militante del partito comunista. Nel 1921 fu arrestato con l'accusa di essere una spia fascista nell'Unione Sovietica. Liberato per intervento del suo amico Antonio Gramsci, finì di nuovo nei guai fino alla morte per fucilazione nel 1938. Fu denunciato dai comunisti italiani, alcuni erano suoi amici. La sua vita è stata un romanzo. Ne sarà tratta una fiction in due puntate che il regista Alberto Negrin col produttore Carlo Degli Esposti stanno trattando con Raiuno.
Luciana si esprime in un italiano accidentato. È una donnina minuta di 80 anni. È nata in Russia, sposata con una figlia, vive tra Mosca e Fossano, in provincia di Cuneo, il paese del padre: «Sognavo di conoscere la sua famiglia». Lo ama ancora come se fosse vivo, i ricordi sono intatti, 69 anni dopo. Mentre non sembra incuriosita su chi sarà chiamata a interpretare lei, ha le idee chiare sul volto di Gino: «Fiorello mi ricorda mio padre, spiritoso, un talento multiforme, anche lui cantava, ballava. Vorrei che fosse lui il protagonista». «Vedo bene anche Pierfrancesco Favino, il fascino, la dolcezza, l'umanità », dice il regista. Serviranno tre attrici per coprire l'intero arco di vita di Luciana. Per il periodo di mezzo, quello della ricerca ossessiva, si pensa a Nicole Grimaudo o a Raffaela Rea.
Il film è tratto dal bel libro che Gabriele Nissim ha scritto per Mondadori su questa vicenda:
Una bambina contro Stalin.
Nella trasposizione sullo schermo sarà aggiunta una parola:
Una bambina italiana contro Stalin. Nissim e Luciana sono stati ricevuti al Quirinale dal presidente Napolitano: «Aveva letto il libro, interveniva, era interessato alla questione dei delatori». Napolitano e Fassino a sinistra hanno rotto il silenzio colpevole dell'ex partito comunista.
A Torino negli anni Venti c'era stata l'occupazione delle fabbriche. Le organizzazioni giovanili comuniste avevano nascosto delle armi. Gino viene beccato, sotto torchio rivela il nascondiglio di due mitragliatrici e fa il nome di un complice sfuggito ai carabinieri. «Un errore di gioventù — dice Nissim — che va inquadrato nel clima dell'epoca. I militanti torinesi lo considerano un traditore, una spia». Si fa strada l'idea del nemico infiltrato, si monta un castello ideologico. Il partito lo manda in punizione a Mosca, dove viene subito arrestato «per ordine del partito comunista italiano». Dopo l'intervento di Gramsci viene mandato al confine nel Turkestan. Va a lavorare in una comune agricola, chiede di tornare nel partito e di essere riabilitato ma non è ritenuto affidabile, gli resta come una zecca il marchio della spia. «La tragedia umana - dice la figlia - è che mio padre era apprezzato nel suo vero lavoro, regista di documentari di propaganda socialista ».
«Racconteremo questa storia non dall'alto dei Congressi sovietici - dice Alberto Negrin ma con gli occhi di Luciana, una persona semplice. Dietro la bambina e poi la donna che cerca suo padre, si scopre la tragedia della Russia di Stalin, dalla formica esce fuori il formicaio: i tradimenti, le delazioni, il cinismo».
Alla figlia non dicono che è stato fucilato ma scomparso: «È la prassi per non creare scandalo». Luciana manda una lettera a Krusciov, la risposta è che suo padre è morto di peritonite in un gulag. Chiede il certificato di morte: impossibile trovarlo. Con la caduta del Muro, si aprono gli armadi e Luciana scopre la verità. Ma sua madre dov'era, perché l'ha lasciata sola in tutti questi anni? «Si defilò subito per paura, fu convocata dalla polizia segreta. I familiari dei nemici del popolo dovevano fare abiura. Se mia madre non prendeva le distanze poteva essere condannata. Si risposò subito con un'altra persona... A 14 anni andai a vivere da sola, mi mantenevo come maestra d'asilo. Vennero anche da me, minacciarono di rinchiudermi all'orfanotrofio». Ha fatto l'attrice, ma era sulla lista nera e non fece carriera, tenuta sotto controllo dai pretoriani del regime sovietico. Come quel Grigorij Britikov: «Cercò di sedurmi, mi creò difficoltà nel lavoro. Lo conoscevo da quando ero bambina, lo chiamavo zio; più tardi negli archivi scoprii che fu uno di quelli che al processo testimoniarono contro mio padre». Luciana doveva seguire l'esempio di Morozov, l'eroe popolare che denunciando il padre, colpevole d'aver venduto del grano ai contadini ricchi, scelse il partito. «Io rifiutai. Ogni tanto bussavano alla mia porta. Come quella volta che bruciarono la stazione della metro: ha un alibi?, dov'era quel giorno?».
Dove trovò la forza a 13 anni di combattere contro il Golia rosso? «Non ero così consapevole, ero trascinata dalla forza dell'amore. Anche se era proibito, ho tenuto tutto con me, lettere, documentazioni, foto. Mio padre era alto, bello. L'ho cercato per tutta la mia esistenza. La sua storia continua a essere rimossa».

Rosso di Sera 5.12.07
Bertinotti, si apre una nuova fase
di Francesco Mancuso


Il presidente della Camera : “Questo centrosinistra ha fallito”. “Non si è stabilito un rapporto con la società ed i movimenti, si è invece creato un forte disagio a sinistra”. Bindi: “Se ne assuma la responsabilità!”. Mussi: “La Sinistra unita dovrà avere vocazione di governo”

Questo centrosinistra non è riuscito a realizzare “la grande ambizione”, ammette il presidente della Camera, Fausto Bertinotti a “Repubblica”, e pone la necessità, a gennaio, di un "confronto che sia vero".
"Dobbiamo prenderne atto: questo centrosinistra ha fallito... Una stagione si è chiusa, a gennaio occorrerà prendere atto del fallimento del progetto iniziale ma che... rifissi l'agenda su alcune emergenze oggettive. E venga incontro alle domande della società italiana, con scelte che devono avere una chiara leggibilità 'di sinistra'", prosegue il leader di Rifondazione.
La riflessione di Bertinotti si presta ai commenti dell’opposizione, ma è rivolta principalmente alla maggioranza. Il presidente della Camera pone l’accento sulla fine di una stagione, ma non preannuncia alcuna crisi dell’esecutivo.
Poi pone l’accento sui due "terreni irrinunciabili: i salari e la precarietà". Sui quali il governo non è riuscito a dare il meglio. In merito al rimescolamento di carte che la nascita del Pd ha portato nella politica italiana, Bertinotti, dice di voler riconoscere al partito "il diritto a trovarsi gli alleati che vuole, ma – prosegue - voglio garantire a noi il diritto di tornare all'opposizione". Infine alla domanda se la stagione dell'Unione sia al capolinea, il presidente della Camera risponde: "Intellettualmente io sono già proiettato oltre".
Com’è facilmente immaginabile le agenzie di stamani sono state letteralmente invase dalle dichiarazioni di esponenti della maggioranza e dell’opposizione che non vedevano l’ora di commentare l’intervista di Bertinotti. Ovviamente i commenti del centrodestra sono stati quelli più entusiastici. Casini, ad esempio, ha dichiarato che quello che ha detto Bertinotti lui lo sostiene da tempo, dimenticando in un lampo le sue disavventure prima con la Cdl e poi direttamente con Berlusconi.
Insomma nell’opposizione son stati tutti prontissimi nel dimenticare i propri guai, mollare il coltello tra i denti ed hanno avuto, almeno per stamattina, un momento di allegrezza.
Ma anche la maggioranza non si dimostra tenera col presidente della Camera. Per Rosi Bindi, quella di Bertinotti "è un'affermazione molto forte, della quale si assumerà tutte le responsabilità". "Penso - aggiunge la Bindi - che il centrosinistra, anche con l'apporto di Rifondazione, abbia compiuto scelte molto importanti per la vita del Paese. Questo non è un fallimento, ma sono risultati importanti".
L'intervista del presidente della Camera non è piaciuta neppure all'Italia dei Valori. "Si potrebbe ragionare a lungo sulle considerazioni espresse da Fausto Bertinotti, e potremmo anche ritrovarci d'accordo con lui su alcuni passaggi - afferma il capogruppo a Montecitorio Massimo Donadi - ma la sua più che un'analisi è un'entrata a gamba tesa nei rapporti tra maggioranza e governo che non si addice a colui che riveste il ruolo di presidente della Camera che per definizione è superpartes".
Mentre Mussi spiega all’agenzia Infoparl che “la Sinistra unita deve avere vocazione di governo”.
Insomma l’aria nella maggioranza, dopo l’intervista del presidente della Camera, si è surriscaldata.
Non che ce ne fosse particolare bisogno, ma se potrà servire per giungere ad una verifica, che sia concreta e che produca qualcosa in più rispetto ai famosi “dodici punti”, sarà valsa la pena.

Rosso di Sera 5.12.07
L'8 e 9 le pubblicazioni per il matrimonio della sinistra
di Pietro Folena


Il prossimo fine settimana può diventare l'occasione decisiva per l'unità a sinistra. Ma non ci si arriva nelle migliori condizioni. Abbiamo - riconosciamolo - subito una sconfitta sul fronte del protocollo del welfare. Certo una sconfitta che, dati gli equilibri attuali, era nelle cose. Ma, per l'appunto, ciò che è necessario modificare sono proprio gli equilibri attuali. E su questo la responsabilità è nostra, collettivamente ed individualmente.
Penso che occorra, l'8 e 9 dicembre, stabilire un vero percorso unitario. Non una vaga promessa di fidanzamento, ma le vere pubblicazioni del matrimonio a sinistra. Solo così, solo unendosi, sarà possibile evitare il ripetersi di quanto accaduto.
Non ci arriviamo, dicevo, con le condizioni migliori. Il clima, anche a sinistra, è pesante. Ci sono troppi segnali solitari. Penso al comportamento del Pdci sul voto finale al protocollo del welfare (ma anche la reazione degli altri partiti è stata al di sopra delle righe). Penso alla consultazione annunciata da Rifondazione, che sarebbe meglio, se si vuole fare l'unità, rivedere insieme agli altri partner che non possono essere solo degli invitati.
Penso all'atteggiamento della sinistra sindacale - e del sindacato nel suo complesso - preoccupato di mantenere il protocollo così com'era per non essere scavalcato a sinistra, con l'effetto di rischiare persino dei peggioramenti. Ci era stato spiegato che il protocollo non era intoccabile, alla fine invece lo è stato con il plauso delle parti sociali, anche quelle i cui rappresentati avrebbero tratto non pochi benefici dalle modifiche apportate.
Mi fermo qui perché in vista dell'8 e 9 non voglio certo alimentare polemiche. Però, guardiamoci in faccia e diciamoci le cose come stanno: da soli, contiamo davvero poco. Insieme, invece, possiamo sperare di non dover sempre subire.
Al Partito democratico va riconosciuto il dovuto. Sono stati bravi, si sono uniti con l'obiettivo di dare un "timone riformista" e ci sono riusciti. Anche troppo. L'8 e 9 tocca a noi reagire all'offensiva moderata. Ma per farlo serve che ciascuno metta da parte il protagonismo. Se si vuole fare una cosa nuova, allora, dal 10 dicembre si stabilisca che i 4 segretari smettano di dichiarare ognuno per sé e si inizi ad agire come un sol uomo. A partire dalla verifica di gennaio, ormai indispensabile.

il Riformista 5.12.07
Col mal di pancia, ma tutti dietro Fausto


Riassumendo. La carta dei valori ancora non cè, o almeno ancora non se ne discute. La forma organizzativa nemmeno, o meglio è avvolta nelle nubi del politicismo: cè chi vuole una federazione dellesistente, chi una confederazione (più blanda della federazione), chi un cartello elettorale (e poi si vedrà). Per non parlare della discussione sul simbolo, derubricato quasi a oggetto ornamentale, visto che non è chiaro se quello scelto sarà usato alle elezioni o no. A tre giorni dagli stati generali, la Cosa rossa, intesa come progetto politico, non sta tanto bene. Alcuni protagonisti fanno melina (i Verdi non sono convinti, il Pdci gioca in proprio), altri si lacerano (il Prc) e i sondaggi non sono rassicuranti.
In questo quadro non è un caso che la notizia (e la politica) - al di là delle discussioni su carta dei valori, forma organizzativa e simbolo che si trascinano da mesi - labbia sbattuta sul tavolo Faust o Bertinotti. Il quale nellintervista di ieri a Repubblica ha indicato la nuova stagione di Rifondazione (e della Cosa rossa): «Il sistema proporzionale è coerente con levoluzione del quadro politico: il Pd, il Partito del Popolo del Cavaliere, la Cosa rossa, lo spazio al centro. Siamo in una fase costituente di nuove soggettività politiche e la legge che scegli non è più la levatrice del cambiamento ma una sua conseguenza». Se questo è il quadro, ne derivano, per Bertinotti, due implicazioni. La prima riguarda il passato, ovvero il governo Prodi: «Il progetto del governo è fallito. Siamo già oltre lUnione». La seconda riguarda le priorità per lagenda del prossimo anno: «La questione salariale è intollerabile». Tradotto: per Bertinotti (e per il Prc) linterlocutore per le riforme istituzionali è Veltroni mentre la Cosa rossa deve trovare ossigeno sul piano sociale a partire da una ripresa della conflittualità (mai nominati i sindacati confederali). E la parola dordine è: «autonomia» nellazione politica.
Una presa di posizione dura (anzi durissima) che mette in conto una rottura con chi non è daccordo. Ma a chi è in disaccordo, e però non rompe, non resta che allinearsi nonostante i mal di pancia. Come in una partita di poker, per Bertinotti, è arrivato il momento di alzare la posta e dire: vedo. E che cosa ha visto Bertinotti? Qui cè la seconda notizia: la rottura non cè stata. E le reazioni degli alleati hanno dato ragione - paradossalmente ma non troppo - al subcomandante Fausto: Sd si allinea con qualche malumore, i Verdi mantengono le perplessità così come i comunisti italiani che vedono nellintervista di Bertinotti la volontà di tornare allopposizione. Rifondazione invece preme sullacceleratore e guida il processo. E sabato sarann o tutti sul palco a parlare di soggetto «unitario e plurale».
Certo, di distinguo ce ne sono stati eccome, ma nulla che abbia fatto intravedere un percorso che non andasse a rimorchio di Rifondazione. Il leader di Sd Fabio Mussi ha criticato a Bertinotti sulla linea del mi potevi almeno avvisare: «Dal punto di vista del metodo, se si vuole una sinistra nuova e unita, bisogna fin da ora confrontare per tempo posizioni e decisioni politiche, e possibilmente condividerle». E ha provato a mettere qualche distinguo: «Può capitare che una grande forza politica debba stare allopposizione, per forza di numeri o per libera scelta. Ma non esiste, voglio dirlo a Fausto Bertinotti, grande forza politica che non parta sempre da unambizione di governo». Anche tra i verdi, che allinterno della Cosa rossa hanno sempre mantenuto un profilo autonomo, non sono mancati mal di pancia. Il capogruppo alla Camera Angelo Bonelli afferma: «Non sono daccordo con Bertinotti. Questo governo non solo va sostenuto ma va rilanciato. Noi, tra laltro, non siamo favorevoli a un governo istituzionale e nemmeno ad andare alle elezioni». E aggiunge: «Sul piano più generale poi noi abbiamo in mente una sinistra di governo e una legge elettorale più o meno sul modello usato per le regioni». Ma nemmeno in questo caso si è registrata una rottura.
Ma Rifondazione non è disposta a rallentare. Spiega Alfonso Gianni: «Il punto è che si è chiusa una fase politica e se ne deve aprire unaltra. A partire dal governo. È inutile continuare a fare i bambini e dire che bisogna applicare il programma dellUnione. Bisogna fissare pochi e realizzabili obiettivi. Tra cui cè la legge elettorale. Se riusciamo a farla con questo governo bene, altrimenti amen». Ad oggi, la Cosa rossa si farà, ma, almeno per il Prc, con un nuovo schema: con chi ci sta. Parola di Fausto.

il Riformista 5.12.07
Caro Fausto, l'opposizione non è la terra promessa
di Paolo Franchi


Dice Fausto Bertinotti a Repubblica che questo centrosinistra ha fallito, e che la grande ambizione dell'Unione si è persa per strada. È un'affermazione importante, e potenzialmente gravida di conseguenze. Che l'Unione non esista più è un'ovvietà nota a tutti, anche a chi nega l'evidenza. Che sia Bertinotti a certificarlo, in trasparente polemica con Romano Prodi, è un altro discorso. E, per la sinistra-sinistra, divisa tra la necessità di tenere comunque in vita il governo e la tentazione di riconquistare la propria libertà di movimento, è anche una svolta. Tanto più significativa perché si colloca alla vigilia degli stati generali della Cosa Rossa.
Prodi, il governo, la verifica, e insomma le ambasce della vita quotidiana, per Bertinotti sono la tattica. Ma lui, Fausto, se dell'hic et nunc deve pure occuparsi, «intellettualmente» si sente «già proiettato oltre»: se il governo è tattica, la ridefinizione di un progetto autonomo della sinistra è strategia. E la principale chance per collegare i due piani è, secondo Bertinotti, il dialogo sulle riforme, riforma elettorale in primis. A condizione che sia la più tedesca possibile: «Alla fine del percorso, io voglio riconoscere al Pd il diritto a trovarsi gli alleati che vuole, ma voglio garantire a noi il diritto di tornare all'opposizione».
Stefano Cappellini chiarisce, qui sotto, come e perché queste affermazioni abbiano avuto, nella maggioranza, l'effetto di una bomba politica, o giù di lì. Si occupa, insomma, della «tattica». Io vorrei spendere due amichevoli parole sulla «strategia». Per dire che (non da oggi) sono d'accordo con Bertinotti su un punto sostanziale. In Italia (tanto più dopo la nascita del Partito democratico) è in discussione l'esistenza stessa di quel soggetto politico, culturale e sociale che siamo usi definire "sinistra". Ma pure per aggiungere che sono in cordiale disaccordo con il Bertinotti dell'intervista a Repubblica (se ho interpretato bene il suo pensiero) su un punto ancora più sostanziale. Sull'idea cioè che, per garantire alla sinistra autonomia e futuro, la strada migliore sia, in fondo ma non troppo, quella che dovrebbe riportarla (seppure sull'onda di una riforma elettorale che le garantisca il maggior numero di seggi possibile) all'opposizione. Rifiutarsi al ruolo di chi deve assicurare sempre e comunque la sopravvivenza del governo perché «altrimenti torna Berlusconi» è comprensibile e giusto. Considerare l'opposizione come una specie di terra promessa sarebbe il riconoscimento di una sconfitta politica seria e di una sconfitta "strategica" ancora più grave, perché vorrebbe dire che la sinistra è condannata a una condizione di eterna minorità.
Il dilemma è antico, lo hanno sofferto, come Fausto sa bene, prima i socialisti, poi, ancora più gravemente, i comunisti. Probabilmente si sarebbe riproposto in forme meno acute se, in questi mesi, si fosse ragionato senza steccati su come mettere in campo una sinistra larga, con un forte radicamento nel socialismo europeo, invece che procedere ciascuno, a tentoni, per la propria strada. Le cose sono andate diversamente, non solo per responsabilità di Bertinotti e di Rifondazione. Adesso il rischio concreto è che, in tanto parlare di strategia, a farla da padrona sia la tattica. Ma la tattica di sopravvivenza.

La Stampa 5.12.07
Se il papa ripassasse Galileo
di Piergiorgio Odifreddi


Caro direttore,
il 1° e il 2 dicembre il Papa ha tenuto banco su giornali e tg: dapprima con la nuova enciclica Spe Salvi, poi con due interventi, a un Forum delle Organizzazioni Non Governative Cattoliche e ai fedeli in piazza San Pietro per l’Angelus. Ripetendo, come si addice al massimo rappresentante della più antica e immutabile istituzione governativa mondiale, le stesse parole che lui e i predecessori vanno ripetendo da secoli: in particolare, attaccando la scienza e la democrazia, cioè le vere radici dell’Europa e dell’Occidente.

Cominciamo dall’enciclica sulla speranza e la fede, che il suo autore sintetizza così: «Il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino (...). L’uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze - più piccole o più grandi - diverse nei periodi della sua vita. Quando però queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era in realtà il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere».

Ma queste parole, che si presentano come il messaggio di speranza di un saggio, si rivelano nella realtà un appello all’illusione. Il Papa si accorge che non ha senso che viviamo la vita rivolti al domani, alienando il presente a un raggiungimento futuro dell’amore, del possesso, della carriera e del successo. Non propone però, come i sapienti d’ogni tempo, dai filosofi stoici ai monaci buddisti, una tranquilla accettazione dell’oggi e una serena liberazione dal desiderio. Piuttosto, azzarda un disperato rilancio che sostituisce una posta finita materiale, con un’infinita immateriale: casca dalla padella delle lusinghe dell’aldiqua reale, nella brace dell’attrazione di un aldilà immaginario. Il riferimento al buddismo non è pura provocazione. Se il Papa conoscesse un po’ meglio questa «religione» ben più saggia e umanista della sua, scoprirebbe che ha anche anticipato di due millenni uno dei problemi che sembrano assillarlo nell’enciclica: quello relativo alla possibilità di salvezza individuale o collettiva.

Storia delle religioni a parte, è difficile dire quanto il Papa conosca quella della scienza. Nell’enciclica si limita a citare Bacone, un pensatore venuto prima di qualunque teoria e pratica scientifica significativa: il che sarebbe come se uno pretendesse di criticare il Cristianesimo sulla base dei pronunciamenti di uno dei profeti del Vecchio Testamento. In ogni caso, almeno un episodio della storia della scienza Benedetto XVI dovrebbe conoscerlo, quello del processo a Galileo: se non altro, perché ha diretto per 25 anni l’organo che l’ha condannato, quella Congregazione per la Dottrina della Fede che mantiene una continuità con il Sant’Uffizio. E dovrebbe dunque sapere che la causa di quel processo fu l’irritazione di Urbano VIII nel veder messa alla berlina la propria «mirabile e angelica dottrina»: che la scienza fosse ipotetica, e non assoluta. Ovvero, il relativismo, che tanto assilla Benedetto XVI, e che lui imputa in particolare agli scienziati. Quanto Galileo concordasse con quella dottrina, e cioè per niente, è dimostrato dal fatto che nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo la fece difendere da un sempliciotto chiamato Simplicio: per questo il Papa s’infuriò. La stessa dottrina era stata enunciata quasi un secolo prima, ma solo per pararsi da possibili attacchi della Chiesa, da colui che scrisse la prefazione al libro di Copernico: quell’Osiander che Giordano Bruno chiamò «asino ignorante e presuntuoso». Da allora, in accordo con Bruno e Galileo, nessuno scienziato ha mai pensato che le verità scientifiche siano relative: al contrario, tutti sanno che esse sono assolute e definitive, nell’ambito della propria approssimazione, benché risultino spesso passibili di ulteriori miglioramenti.

Nell’Angelus di domenica il Papa proclama che «la scienza contribuisce molto al bene dell’umanità, ma non è in grado di redimerla», e ha ragione: la scienza non pensa che l’umanità sia da redimere, bensì solo da studiare, capire e servire. E benché sia vero, come dice l’enciclica, che la tecnologia (non la scienza) è andata «dalla fionda alla megabomba», aprendo «possibilità abissali di male», il Papa non può fingere di dimenticare che spesso è stata proprio la sua religione a realizzare tali possibilità nella storia. Nell’incontro con le Ogn cattoliche Benedetto XVI ha poi attaccato «una concezione del diritto e della politica in cui conta solo il consenso tra gli stati»: il principio fondamentale della convivenza internazionale e della democrazia! Il portavoce del Palazzo di Vetro, Farhan Haq, gli ha ricordato che l’Onu si fonda sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: spesso si dimentica che il Vaticano non l’ha mai firmata, perché non è disposto a permettere la libertà religiosa entro le sue mura, e che per questo non può essere membro dell’Onu, ma solo osservatore. È dunque verissimo che «l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre»: ma non oltre la democrazia e la ragione, bensì oltre l’assolutismo ideologico e l’irrazionalismo filosofico di cui la Chiesa in generale, e questo Papa in particolare, sono le voci più udibili e amplificate. Quanto alla scienza, Santità, si informi, e dopo ci informi: allora le sue parole non suoneranno come quelle di Urbano VIII, che Galileo non poté fare a meno di mettere alla berlina.

Liberazione 5.12.07
Adesso o c'è il colpo d'ala o la sinistra diventerà inutile
di Piero Sansonetti


Ci sono dei momenti - nella storia, nella politica - che purtroppo non permettono lentezze, pigrizie, reazioni burocratiche. O si trova l'intelligenza e la forza per compiere grandi svolte, per disegnare scenari futuri (senza conformismi, senza navigare col pilota automatico, senza adagiarsi nelle sicurezze del già visto) oppure si perde la propria funzione, si finisce emarginati, inutili. Scusate la crudezza di queste affermazioni, ma penso proprio che oggi sia uno di questi momenti. E perciò giudico preoccupanti, assai preoccupanti, molte delle reazioni all'intervista di Fausto Bertinotti a Repubblica . Sono reazioni col "pilota automatico", appunto, con lo sguardo rivolto all'indietro, prive di una prospettiva politica, di un progetto per il futuro. E se diventano le reazioni prevalenti a sinistra, addio sinistra. Sono terrorizzato dall'idea di un paese senza sinistra, o con una sinistra all'angolo - impotente, silenziosa - e credo che anche voi siate terrorizzati, e credo anche che non sia uno scenario del tutto improbabile se non diamo un colpo d'ala.
A me sembra che l'intervista di Bertinotti fosse una dichiarazione politica molto importante. Importante per varie ragioni. Ne elenco qualcuna. Prima, perché sancisce la fine strategica del governo Prodi e di quell'idea dell'"Unione" elaborata quasi due anni fa da alcuni partiti del centro-sinistra e poi travolta dai risultati elettorali, dalle profonde modificazioni del quadro partito, dalla scomparsa di una delle componenti organizzate più importanti del riformismo italiano, cioè il partito dei Ds. Seconda ragione: perché indica alla sinistra una strada nuova da prendere. Quale strada? Quella dell'autonomia e della ricerca di una strategia di fondo, di un progetto da presentare al paese e che sia in grado di unificare e dare risposte ad un popolo - sbandato dagli ultimi terremoti politici, compreso il fallimento del governo Prodi, compresa la nascita del Pd - e in cerca di un proprio "luogo" dove esprimersi, riconoscersi, mettersi in relazione con altri, fare politica, lottare, produrre idee. Che vuol dire ricerca dell'autonomia e del progetto? Semplicemente che si cambia il punto di partenza della linea politica della sinistra: non è più centrale la politica delle alleanze, che non ha dato grandi risultati; diventa fondamentale la formazione di un nuovo "polo" in grado di esistere in quanto tale e non in quanto alleato di qualcuno, o subalterno a un sistema di coalizione. Possibile che sia così difficile capire questo scarto di strategia, e coglierne il valore innovativo e realista?
Non è l'invenzione di un politologo pazzo, ma il risultato di una analisi. Vediamo quale analisi. Credo che non sia difficile essere d'accordo sul fatto che il governo Prodi, cioè l'alleanza chiamata "Unione", non è riuscito a riformare il paese come aveva promesso.
Andiamo all'ingrosso: lotta alla precarietà, risultato, zero; riequilibrio sociale, risultato zero virgola; diritti sociali, risultato zero virgola; diritti civili, risultato zero... E si può continuare così. Potete rispondere che quelle cifre sono di eccessiva severità, che il governo merita anche qualche 4 o qualche 5 in pagella. Va bene, forse è vero, ma capite che la questione non cambia: l'inversione di rotta nelle politiche sociali e civili non c'è stata, non ce n'è stata l'ombra. Sul fallimento del programma di governo hanno pesato i mutamenti politici avvenuti in questi mesi. L'asse Ds-sinistra, ad esempio, lungo la quale era nato il programma dell'Unione, si è sfrangiato e dissolto per via della scomparsa dei Ds. In queste condizioni è possibile concentrare le proprie forze sul tentativo di ricostruire una politica delle alleanze? Chiaro che no. Se ho capito bene quello che ha detto Fausto Bertinotti a Massimo Giannini di Repubblica , gli ha detto questo: alla politica delle alleanze bisogna sostituire una politica di grandi scelte strategiche e di ricostruzione dell'autonomia, cioè la realizzazione di una nuova soggettività, di una nuova identità, di un nuovo modo di vedere le cose, di un nuovo sistema di pensiero.
Si può rispondere a questa sfida, come fa Mussi, sostenendo che il problema è quello di capire se la sinistra nuova nascerà con una cultura di governo o con una cultura dello strepito? Se la domanda di Mussi è pensata come "domanda alta", la risposta è semplice: è l'attuale governo che non ha una cultura di governo , perché riesce solo a mediare (quando ci riesce) tra se stesso e Confindustria. Se invece la domanda di Mussi rappresenta solo una richiesta di fedeltà alla alleanza di centrosinistra, allora sta dentro quella idea burocratica della politica che dicevamo prima. Sta nell'incapacità di vedere l'urgenza e la grandezza della svolta. Archiviamola.
A me sembra che le cose stiano così. E che da domani, se vogliamo salvare la sinistra, dobbiamo lavorare a mettere in terra i pilastri del nuovo soggetto del quale c'è un bisogno assoluto e urgentissimo. Io vedo tre pilastri: 1) la lotta contro il dominio dei profitti, cioè per moderare il mercato, per bloccare l'avanzata devastante del liberismo; 2) l'impegno a riconoscere che in questo mondo ci sono, da millenni, due parti - e cioè gli uomini e le donne - che combattono tra loro, che hanno interessi e visioni diversi, e che finora una delle due parti ha dominato, e che questo dominio deve cessare, essere demolito, altrimenti nessuna società giusta è possibile, nessuna civiltà; 3) la lotta per affermare i grandi diritti sociali e civili - di libertà, di completa libertà in ogni campo: dalla politica al sesso - come qualcosa di irrinunciabile, non negoziabile, basilare, che supera ogni altro tipo di interesse privato o collettivo.
Certo che se vogliamo qualcosa di questo genere, non bastano i partiti esistenti, non basta sommarli, mediare tra loro: non perché sono piccoli, o inadeguati, o confusi, o deboli: perché non hanno al loro interno gli strumenti culturali, di conoscenza, sufficienti ad affrontare la sfida. L'apertura ai movimenti, alle correnti ideali (in particolare al femminismo) alle spinte dei pacifisti, degli ambientalisti, non è uno slogan: è il cuore del cuore del problema. Per fare tutto questo bisogna mandare prima a casa Prodi? Io penso di sì, molti altri compagni e amici (fra i quali lo stesso Bertinotti) pensano di no: credo che possiamo discuterne, non mi pare il problema decisivo.

Liberazione 5.12.07
Comitato di Bioetica allo sbando
Non esiste nessuna pluralità
di Carlo Flamigni


La crisi di un'istituzione che, chiamata a orientare la società sulle questioni della vita e della morte, non è più in grado di farlo.
Ma il presidente Casavola, dopo avere sostituito con un colpo di mano i vicepresidenti, prosegue sulla stessa, cattiva, strada

Quando si parla del Comitato Nazionale per la Bioetica c'è sempre qualcuno che finisce col dichiarare che il conflitto (anzi, il "presunto" conflitto) tra laici e cattolici si deve considerare superato, obsoleto e antistorico. Ne debbo dedurre che le dichiarazioni del papa sulla ricerca scientifica, sulla laicità, sulle altre religioni e i suoi continui richiami alla verità (unica e, naturalmente, sua) , le sue ripetute interferenze con la vita politica di questo (nostro, non suo) paese, i suoi "non possumus", tutto quello che ci ammannisce quotidianamente nel silenzio beota della nostra classe politica, dobbiamo interpretarlo come una laica e affettuosa offerta di pace e di mediazione, l'invito a percorrere insieme il cammino della vita. Ma per favore!
Nel CNB lo scontro tra laici e cattolici c'è sempre stato e gli scontri recenti dei quali si è letto sui giornali (ma nessuno legge l'Avvenire ?) ne sono prova concreta. Ne riferirò brevemente, riservando il resto dell'articolo a una breve analisi delle prove che attendono il Comitato nei prossimi mesi. Come è noto il Comitato ha un nuovo Presidente, il professor Casavola, che è certamente uomo di notevoli meriti ma inesperto dei problemi della bioetica italiana. Questa scarsa frequentazione dei conflitti tra laici e cattolici lo ha indotto a fare alcune scelte (o a commettere alcuni errori, dipende dal punto di vista), che hanno suscitato lo stupore di alcuni di noi. Per tre volte consecutive Casavola ha scelto un cattolico per compiti importanti e delicati: ad esempio ha indicato il professor Dallapiccola come membro della commissione che ha preparato le linee guida della legge 40 sulla fecondazione assistita: ora, il prof. Dallapiccola è anche, per caso, presidente di Scienza e vita e si è battuto come un leone per il fallimento del referendum, cosa che non fa di lui, dal punto di vista di un laico, il consulente ideale, per un incarico tanto delicato. La lettera che abbiamo mandato al Presidente gli chiedeva ragione di queste scelte, non voleva essere né offensiva né malevola, esprimeva le nostre perplessità. Da questo momento è successo di tutto e se debbo trovare una spiegazione per una serie tanto inattesa di reazioni esagerate la indico in una crisi di ipersensibilità generale con tendenza alla cronicizzazione. E' intervenuto persino Prodi, che ho scoperto essere un uomo di cattivo carattere, che come reazione alla lettera che avevamo scritto Corbellini, Neri ed io, ha "licenziato" i tre ignari e inconsapevoli vicepresidenti e li ha sostituiti. Questa decisione non è stata priva di conseguenze (uno dei vicepresidenti dismessi ha fatto un ricorso al Tar, Elena Cattaneo ha dato le dimissioni motivandole con parole molto energiche) e solo l'avvenire dirà se ci saranno altre ripercussioni sul Comitato: al momento sembra prevalere l'intenzione di non infierire sull'Istituzione, ma l'avvenire (con la a minuscola) non è sgombro di nuvole.
Anzitutto c'è il problema, che io considero fondamentale, della definizione del ruolo del Comitato, che sino ad oggi ha svolto un compito prescrittivo, indicando una e solo una soluzione normativa e giungendo a questa definizione con strumenti che ben poco hanno a che fare con i problemi delle scelte morali, come la definizione di maggioranze e minoranze, il voto e la pubblicazione di un documento "vincente", l'opinione dei perdenti essendo relegata in codicilli di scarsa o nessuna visibilità. Secondo la maggioranza dei laici, che da oltre 15 anni si battono per modificare questa regola, si dovrebbe invece privilegiare un paradigma descrittivo, che parta dal principio che non si possono costruire gerarchie delle varie posizioni morali, che debbono essere invece illustrate e chiarite per dar modo al Parlamento di svolgere il compito che è proprio della politica, cioè mediare e decidere. Il paradigma descrittivo è certamente quello che dà maggior rilievo all'aspetto razionale dell'etica, con il risultato di sostenere una pluralità di valori. Quello che il Comitato deve fare è mostrare come, nella nostra società, su problemi complessi come quelli della bioetica, esistano differenti soluzioni, alcune sostenute da motivazioni razionali, altre francamente inaccettabili: in questo modo il Comitato diverrebbe il luogo autorevole in cui si chiariscono i principali dilemmi bioetici del nostro tempo, senza avere la pretesa di possedere la chiave della verità, una pretesa che del resto non dovrebbe trovare domicilio in un paese laico. Sarebbe comunque una scelta di civiltà, capace di migliorare la comprensione reciproca e il rispetto per le posizioni degli altri. In altri termini, mi pare che siamo di fronte alla possibilità di scegliere tra un precetto e un consiglio: se si sceglie il precetto, bisogna poi giustificare il fatto che il Comitato non è stato eletto e non ha alcun titolo per stabilire ipotetiche verità in nome di maggioranze assolutamente casuali; d'altra parte la prescrittività di un consiglio si affida alla forza della ragione e non ha alcuna necessità di ricorrere al voto per individuare la maggioranza che impone, con un atto di imperio, valori che invece sono destinati a prevalere per libera adesione.
Purtroppo il clima non è favorevole a una discussione pacata. L'etica della verità sta pervadendo tutte le forme dello scibile e ci sono temi, certamente destinati a essere discussi nel Comitato, che vengono trattati in modo talmente supponente, arrogante e superficiale da indurmi al più nero pessimismo. Scelgo, tra i molti possibili, quello che ha riempito di più, nei giorni passati, le pagine dei giornali, quello delle cellule staminali di tipo embrionale ottenute da cellule adulte.
Pierluigi Battista ( Corriere della Sera , 3 dicembre) scrive che dai miei scritti «traspare un tale risentimento, una amarezza così incontenibile… da alimentare il sospetto che quelle ricerche lo abbiano reso orfano di un argomento formidabile da adoperare nella crociata contro la bieca piovra clericale..» Il dottor Batttista è digiuno di scienza (lo dice lui stesso) e non si adonterà se mi permetto di correggerlo, perché anche questa volta (c'è un precedente) non ha capito molto (o io mi sono spiegato molto male). In realtà, molti di noi hanno espresso, su questo tema, le seguenti opinioni (che pregherei il dottor Battista di non deformare, non sta bene):
- la ricerca dimostra l'importanza fondamentale delle staminali embrionali e perciò ci riempie di soddisfazione;
- ciò non significa che gli studi sugli embrioni debbano cessare (è anche l'opinione dei due ricercatori, prego controllare)
- è possibile che le cellule ottenute siano simili ai blastomeri: in questo caso si tratterebbe di embrioni e saremmo da capo a quindici;
- deve essere ancora affrontato il problema della complicità tra le due linee di ricerca (embrionali e adulte) un problema sul quale abbiamo interpellato inutilmente, almeno sino a questo momento, i teologi;
- molti ricercatori, in avvenire, sceglieranno la strada più semplice e più utile, e nella scelta non saranno influenzati da aprioristiche interpretazioni relative allo statuto dell'embrione: per molti di noi l'embrione non è una persona e il rispetto che gli si deve è relativo, non lo riguarda direttamente e ha a che fare all'attenzione dovuta alle opinioni altrui; l'allusione al principio di precauzione non mi tocca né da vicino né da lontano: ci sono principi molto più importanti da rispettare, come quello di responsabilità (che riguarda tutti coloro che sono impegnati nella ricerca scientifica).
Al problema che ho appena descritto se ne aggiungeranno altri che il Comitato dovrà trattare, come quello delle terapie intensive destinate ai bambini molto prematuri, e le molte riguardanti la fine della vita. Mi piacerebbe che i giornalisti più prestigiosi non si ricordassero della bioetica solo eccezionalmente e vorrei molto che evitassero di accodarsi al corteo salmodiante dei malati di una fastidiosa sindrome, la lordosi di accettazione, che sta mietendo vittime tra gli uomini politici e, temo, gli uomini di penna. Personalmente, poi, ammetto di essere un anticlericale, ma immagino che questo sia dovuto al fatto che ci sono troppi clericali in giro: non ho invece alcuna simpatia per le crociate, incluse quelle dei laici deferenti.

martedì 4 dicembre 2007

Repubblica 4.12.07
Parla Bertinotti: perché il centrosinistra ha fallito
intervista di Massimo Giannini


"Il progetto del governo è fallito noi siamo già oltre l'Unione"
Bertinotti: per Prodi l’ultimo appello sarà sui salari

«Dobbiamo prenderne atto: questo centrosinistra ha fallito. La grande ambizione con la quale avevamo costruito l´Unione non si è realizzata...». Alle cinque del pomeriggio, nel suo ufficio a Montecitorio, Fausto Bertinotti sorseggia un caffè d´orzo, e traccia un bilancio amaro di questo primo anno e mezzo di governo. È presidente della Camera, ci tiene a mantenere il suo profilo istituzionale, non vuole entrare in campo da giocatore. Ma le sue parole, quelle del vero leader della sinistra radicale, alla vigilia del meeting della Cosa Rossa di sabato prossimo, lasciano un solco profondo nel cammino della legislatura e nel destino delle riforme.
Bertinotti non fa previsioni, sulla durata del governo. «Non posso, non voglio», dice. Ma fa un ragionamento politico per molti versi «definitivo», sullo stato della maggioranza. «Voglio premetterlo: non ci deve essere nervosismo, da parte di Prodi. Usciamo da questa prigione mentale: io non so quanto andrà avanti, può anche darsi che duri fino alla fine della legislatura, e non ho nulla in contrario che questo accada. Ma per favore, prendiamo atto di una realtà: in questi ultimi due mesi tutto è cambiato». È nato il Pd, e la Cosa Rossa viaggia verso lidi inesplorati. Nel frattempo, Prodi ha accontentato i «moderati», sia sulla Finanziaria, sia sul Welfare.
Per il capo di Rifondazione ce n´è abbastanza per dire che «una stagione si è chiusa». Ora niente sarà più come prima: «Un governo nuovo, riformatore, capace di rappresentare una drastica alternativa a Berlusconi, e di stabilire un rapporto profondo con la società e con i movimenti, a partire dai grandi temi della disuguaglianza, del lavoro, dei diritti delle persone: ecco, questo progetto non si è realizzato. Già questo ha creato un forte disagio a sinistra. Poi si sono verificati fatti che lo hanno acuito. Ne potrei citare centomila...». Risultato: «Abbiamo un governo che sopravvive, fa anche cose difendibili, ma che lentamente ha alimentato le tensioni e accresciuto le distanze dal popolo e dalle forze della sinistra».
Questa, per Fausto il Rosso, è «la condizione reale». E forse irreversibile. Bertinotti cita Lenin, e la differenza tra strategia e tattica. «Il grande tema, per la sinistra radicale, è uno solo: l´autonomia. Torna una grande questione, che nacque nel ‘56, con i fatti di Ungheria, con la rottura nel Pci, con lo scontro Nenni-Togliatti. Lì nasce una grande cultura politica, una storia enorme, Riccardo Lombardi. È l´autonomia di un progetto, che da allora la sinistra ha cancellato, rimosso. Oggi, per la sinistra radicale, il tema si ripropone. Devi vivere nello spazio grande e nel tempo lungo, per creare una grande forza europea per il 21° secolo. Se questa è l´ambizione, allora tutto va ripensato. Essere o meno alleati del Pd, stare o meno dentro questo governo: tutto va riposizionato in chiave strategica».
Questo riposizionamento strategico, secondo Bertinotti, è appena iniziato. «Alla fine del percorso - chiarisce il leader - io voglio riconoscere al Pd il diritto a trovarsi gli alleati che vuole, ma voglio garantire a noi il diritto di tornare all´opposizione». Dunque la stagione dell´Unione è al capolinea? «Intellettualmente io sono già proiettato oltre. Ma politicamente ancora no». E qui torna Lenin. Fissata la strategia del tempo lungo, c´è da occuparsi di tattica «hic et nunc», come dice il presidente della Camera. La tattica impone di combattere, ancora, dentro il quadro delle alleanze consolidate, e dentro il perimetro del governo in carica. Ma ad alcune condizioni irrinunciabili: «So bene, e ho persino orrore a pronunciare il termine: "verifica". Ma è chiaro che a gennaio serve un confronto vero, che prende atto del fallimento del progetto iniziale ma che, magari in uno spettro meno largo di obiettivi, rifissa l´agenda su alcune emergenze oggettive. E viene incontro alle domande della società italiana, con scelte che devono avere una chiara leggibilità "di sinistra". So altrettanto bene che queste scelte devono essere assunte dall´intera coalizione. Ma stavolta, davvero hic Rhodus hic salta. Sul Welfare, come si è visto, la sinistra radicale non ha aperto nessuna crisi. Ciò non toglie che il governo ha ormai molto meno credito a sinistra di quanto non lo avesse qualche mese fa...».
Bertinotti rinuncia a fare l´elenco delle «centomila cose» su cui il centrosinistra ha rinunciato a imporre la sua visione («dalla laicità dello Stato alla politica estera»). «Ma se si vuole tentare una nuova fase della vita del governo, vedo due terreni irrinunciabili: i salari e la precarietà». È soprattutto sui primi, che il «padre nobile» del Prc fonda il suo ultimo avviso a Prodi: «Dai sindacalisti a Draghi, tutti dicono che la questione salariale è intollerabile. Ebbene, io mi chiedo: questa denuncia induce il governo a prendere qualche iniziativa, oppure no? Il 65% dei lavoratori italiani è senza contratto: posso sapere se questo per il governo è un problema, oppure no? In Francia Sarkozy ha aperto un confronto molto aspro, lanciando l´abolizione delle 35 ore e dicendo che se lavori di più guadagni di più: posso sapere se in Italia, dai metalmeccanici ai giornalisti, il governo ritiene ancora difendibili i contratti nazionali di categoria, oppure no? Non c´è più la scala mobile, ma intanto i prezzi stanno aumentando in modo esponenziale: tu, governo, non solo non vuoi indicizzazioni, ma con la fissazione dell´inflazione programmata hai contribuito pesantemente a tenere bassi i salari. Dunque c´entri, eccome se c´entri. E allora, in attesa di sapere cosa farai sui prezzi, posso sapere cosa pensi del problema dei salari? E attenzione: qui non basta più ripetere banalmente che "bisogna rinnovare i contratti". Io voglio sapere se il governo ritiene giuste o meno le rivendicazioni. Voglio sapere se ritiene opportuno restituire il fiscal drag, o se invece si vuole assumere la responsabilità di continuare a non farlo. Insomma, io voglio una bussola. Voglio decisioni che rimettano il centrosinistra in sintonia con la parte più sofferente del Paese. Che altro devo dire? Ridateci Donat Cattin...».
Dunque, appuntamento a gennaio. Se Prodi non raccoglie, questo invito potrebbe essere davvero l´ultimo. Questione di tattica, che per la Cosa Rossa, prima o poi, dovrà necessariamente coincidere con la strategia. Ma allo stesso modo, per Bertinotti, la tattica offre un´altra formidabile opportunità, stavolta a tutto il sistema politico: il dialogo sulle riforme. Stavolta l´accordo è «una possibilità reale». Nei due poli «si è affermata una larga condivisione su due punti essenziali. Primo: l´attuale sistema istituzionale ed elettorale è un fattore di riproduzione della crisi politica. Dalla Finanziaria al Welfare, tutto dimostra che il bicameralismo perfetto non funziona più. Secondo: la lunga transizione dalla Prima Repubblica è fallita. La barca si è messa in moto nel ‘93, ma non ha raggiunto l´altra riva, è in mezzo al fiume e va alla deriva con un duplice difetto: le maggioranze coatte (buone per vincere ma non per governare) e il trasformismo endemico. Insomma, questo sistema bipolare è fallito, e tutte le forze politiche hanno capito che se non va in porto una riforma, la crisi istituzionale diventa inevitabile, e travolge tutto. Si apre un panorama da Quarta Repubblica francese».
Di qui la convergenza possibile su un nuovo sistema elettorale. «Il sistema proporzionale, con clausola di sbarramento e senza premio di maggioranza, è una soluzione ragionevole», sostiene Bertinotti. «Soprattutto, è coerente con l´evoluzione del quadro politico: il Pd, il Partito del popolo del Cavaliere, la Cosa Rossa, lo spazio al centro. Siamo in una fase costituente di nuove soggettività politiche. La legge elettorale che scegli non è più levatrice del cambiamento, ma è una sua conseguenza. Con il proporzionale torni alla ricostituzione di alcuni fondamenti di democrazia attiva, che sentiamo ormai vacillare. Torni alla radice della Costituzione di 40 anni fa, torni a individuare nei partiti il cardine del sistema. Sei dentro la nervatura della democrazia, che non può non fondarsi sulla rappresentanza».
A Rifondazione il ritorno al proporzionale è sempre piaciuto. Normale che il suo leader lo benedica. Meno normale, in questo clima di sospetti, è che benedica anche l´apertura del tavolo con Berlusconi: «Senta, qui bisognerà prima o poi che un certo centrosinistra decida se il Cavaliere è un protagonista della politica italiana, oppure no. Io, che al contrario di Blair considero quanto mai attuale il cleavage destra/sinistra, penso che lo sia. Penso che sia un animale politico, che muove da processi reali di una parte della società, che incorpora l´antipolitica ma dentro una soggettività politica, chiaramente di destra. E penso che Berlusconi abbia preso atto della crisi del sistema e della crisi del centrodestra. Dunque, se rileggo le sue mosse, considero attendibile che anche lui, stavolta, cerchi un accordo per rinnovare il quadro politico-istituzionale».
Via libera alle riforme, via libera alla trattativa con il Cavaliere. Anche in questo caso, Prodi non deve innervosirsi. Finalmente è passata l´idea che il dibattito sulla legge elettorale non pregiudica l´esistenza del governo. «Non ci sono due maggioranza diverse, una per il governo, una per la riforma, che si escludono l´una con l´altra». Ma certo, se vuole durare, il Professore deve imprimere una svolta fin dai primi giorni del 2008. In caso contrario, sarà davvero la fine. L´ultima battuta di Fausto dice tutto: «Come vedo Prodi, mi chiede? Con tutto il rispetto, di lui mi viene da dire quello che Flaiano disse di Cardarelli: è il più grande poeta morente... Visse ancora alcuni anni. Ma gli ultimi furono terribili».

Rainews24 4.12.07
Fausto Bertinotti


Il presidente della Camera Fausto Bertinotti, a margine di un incontro a Montecitorio, commenta intano l'esito del vertice del Pd di ieri sera: i tempi per la riforma della legge elettorale, sostiene, sono ormai "maturi" e "auspico che la parola passi subito alle istituzioni". La terza carica dello Stato premette di non voler entrare "nel merito degli orientamenti, ma in ogni caso quello che emerge è che ormai si consolida l'idea che bisogna fare la riforma". "Siamo in una fase ormai operativa, - dice - non alle petizioni di principio. Siamo al fare. E' la conferma che siamo in una fase diversa". Bertinotti auspica che "in questa settimana la parola passi alle istituzioni" a cominciare dalla commissione Affari costituzionali del Senato dove la legge elettorale è già calendarizzata. "Mi sembra del tutto evidente - aggiunge il presidente della Camera - una propensione maggioritaria ad andare verso il proporzionale con soglia di sbarramento". Bertinotti osserva che il vincolo di coalizione "sarebbe incompatibile con un sistema proporzionale". "Al massimo - spiega il presidente della Camera a margine di un incontro istituzionale a Montecitorio - ci può essere una dichiarazione di alleanze prima del voto che però, come accade in Germania, non sarebbe vincolante. I partiti si presentano nell'arena delle elezioni e dicono qual è la loro indicazione e qual è il loro programma, poi decidono gli elettori". Riforma elettorale e poi voto? "No, su questo si sono manifestate tesi contrapposte tra me e Veltroni - dice Berlusconi - Noi abbiamo detto prima e ripetuto nel corso dell'incontro con i vertici del Pd: si fa la nuova legge elettorale e poi si va a elezioni anticipate. Ma Veltroni invece vuole, prima di andare al voto, non solo la riforma elettorale, ma anche le riforme istituzionali e dei regolamenti parlamentari".

l’Unità 4.12.07
Rifondazione farà decidere gli iscritti
Referendum in primavera sulla permanenza nel governo. Stati generali della Cosa rossa l’8 e 9 dicembre
di Marcella Ciarnelli


UN’AGENDA di lotta e di governo. Rifondazione Comunista ne ha fissato le scadenze dei prossimi tre mesi al termine dei lavori della direzione del partito. Una road map che comincerà con la verifica di governo in gennaio e della cui esigenza il segretario Franco Giordano ha discusso anche con il Presidente della Repubblica nel corso di un recente colloquio al Quirinale. E che si concluderà con un referendum tra gli elettori della sinistra per decidere, a verifica avvenuta, se ci sono ancora le condizioni per Rifondazione resti nella compagine di governo.
Al tavolo della trattativa il segretario Giordano ci vuole arrivare «con un mandato preciso». Per ottenerlo partirà una consultazione tra gli iscritti, ma sarebbe bene partecipassero quanti si riconoscono nella “cosa rossa” che dovrà fissare le priorità per «ricontrattare politicamente» quel programma «su cui siamo andati alle elezioni e che adesso non c’è più». Toccherà quindi al popolo della sinistra, una volta fatta la verifica, valutare con un sì o con un no se i punti stabiliti sono stati rispettati. Il prevalere dei no farà prendere in considerazione l’uscita della maggioranza. Il percorso fissato da Rifondazione sarà uno degli argomenti al centro dei Stati generali della sinistra che si terranno a Roma l’8 e il 9 dicembre ed a cui parteciperà anche Fausto Bertinotti. «Un’occasione per proporre rapidamente un’alternativa al Partito Democratico in stile americano e al populismo del Partito delle libertà». Che Prodi abbia fatto sapere di essere lui il garante della coalizione in tema di riforma elettorale a Giordano è sembrato troppo poco. «Ha scelto il tema meno indicato. Avremmo preferito lo avesse fatto nei passaggi delicati che abbiamo affrontato, a partire dai temi sociali».
L’itinerario in due tempi, che ha il sapore di una “fiducia a tempo” per Prodi ed il suo esecutivo, potrebbe avere come conseguenza lo slittamento del congresso previsto per marzo. Ma lo deciderà il Comitato politico nazionale, già convocato per il 16 di dicembre. Prima di questa data saranno consultati tutti segretari regionali e di federazione. «Se qualcuno agita lo spettro del rinvio come il segno di un deficit di democrazia nel partito, il congresso» si farà ha detto Giordano cui già sono arrivate le prime fibrillazioni.
Non è stata una assemblea facile quella di Rifondazione, un partito stretto tra la lealtà verso il governo e la necessità di non perdere la propria identità, specialmente dopo le ultime scelte dell’escutivo che l’hanno messo all’angolo. Lo strappo sul welfare, per alcuni una sconfitta senza mezzi termini, ha pesato sull’intera discussione. C’è stato spazio per la riflessione e per l’autocritica. C’è stato chi ha sottolineato l’inefficacia dell’azione politica e chi ha cercato di mettere in luce più i risultati positivi dell’azione di governo. Impotenza o risultati.
Rifondazione, almeno nella maggioranza dei suoi dirigenti, non è ancora un partito contro. Lo strappo dal governo è di là da venire. La scelta di aver votato la fiducia non è stata sconfessata dal segretario. Anzi difese «perché se facciamo cadere il governo non possiamo farlo peggiorando le condizioni dei lavoratori come sarebbe accaduto con l’entrata in vigore dello scalone Maroni». Ma questo non toglie che il vincolo politico di maggioranza ormai è andato in frantumi. La parola deve passare ai militanti, possibilmente a tutti quelli con cui lavorare per cercare di raggiungere «l’unità a sinistra». E il referendum è la strada scelta.

Corriere della Sera 4.12.07
Il progetto veltroniano costretto a fare i conti con gli alleati in rivolta
di Massimo Franco


Il dialogo fra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi non si ferma. Ma l'impressione è che quello fra maggioranza e opposizione non sia ancora neppure cominciato. Il segretario del Pd e il leader di FI inseguono un'intesa destinata per ora a suscitare sospetti e non solo entusiasmi. «Fra noi», sostiene il Cavaliere, «c'è coincidenza di vedute ». Forse. Il problema, però, non è di trovare un accordo sul sistema elettorale fra loro, ma di farlo accettare ai propri alleati. Pesano la diffidenza atavica dell'Unione verso il Cavaliere; il fantasma del patto a due; e l'atteggiamento guardingo di Romano Prodi, nervoso per i contraccolpi della trattativa sul governo. Così, quattro giorni dopo l'incontro Pd-FI alla Camera, i protagonisti sono costretti a convincere gli altri della bontà dell'operazione.
Impresa difficile. Veltroni non ha nessuna intenzione di fermarsi. E ha cominciato a indicare il Parlamento come il luogo dove si dovranno confrontare posizioni che non coincidono con l'appartenenza ad uno schieramento. Ma più il sindaco di Roma insiste sul valore storico di quanto sta accadendo, più si rizzano orecchie scettiche e allarmate. E più Berlusconi accentua l'esigenza di un'intesa fra i due grandi partiti, più le forze minori recalcitrano e si smarcano. L'atteggiamento della Lega, di An e in parte dell'Udc non costituisce un viatico incoraggiante: come minimo, fanno resistenza passiva.
Al Cavaliere che invita ad avvicinarsi al futuro partito delle libertà, pena l'irrilevanza e l'isolamento, Umberto Bossi replica con durezza: «La Lega non ha paura di restare isolata. I voti li pigliamo comunque». Il timore è quello di sempre: una riforma elettorale «che brucia la Lega». Una simile prospettiva spinge i lumbard a prendere le distanze da Berlusconi; e ad avvertirlo che il loro sodalizio può essere messo a rischio. Si tratta di resistenze che si saldano con quelle di un fronte eterogeneo ma agguerrito, che sta prendendo corpo nel centrosinistra. Apparentemente, Romano Prodi è solo uno spettatore interessato. Minimizza le polemiche, arrivando a dire che il centrodestra litiga più dell'Unione. Eppure, non nasconde di fidarsi di Berlusconi «un po', fino a prova contraria».
E intanto accetta di organizzare un vertice di maggioranza per discutere di riforma elettorale. «Si tratta di un obbligo politico, oltre che di buona educazione», ha spiegato ieri dall'Albania, dove si trovava in visita ufficiale. Anzi, è «un incontro scontato e necessario», perché «i grandi problemi si discutono insieme». La riunione si dovrebbe tenere la settimana prossima. E a occhio, per il segretario del Pd non sarà proprio una marcia trionfale. Prodiani come Arturo Parisi e Rosy Bindi lo accusano di tradire il maggioritario. Ieri si sono riuniti come «ulivisti» per dire no a quella che considerano «una deriva proporzionalista». Eppure i settori comunisti della coalizione rivolgono a Veltroni una critica opposta. Lo accusano di puntare ad un sistema bipartitico di fatto, con FI dirimpettaia; e dunque di parlare di proporzionale per imporre una logica che, a sentire Oliviero Diliberto del Pdci, mira a «sterminare gli alleati».
Insomma, Veltroni viene raffigurato come il sabotatore di un'alleanza che già gode di salute precaria. Ma l'ostilità contro di lui è esagerata strumentalmente anche per il ruolo che ricopre: attaccarlo serve a colpire il Pd. Il dialogo viene visto dunque come il cavallo di Troia di una fase che parte dell'Unione non vuole, e dunque combatte. Per Prc, Pdci e Verdi, come per l'Udeur di Clemente Mastella, Veltroni lavora per l'egemonia sul centrosinistra. È una strategia considerata foriera di intese con FI, con la conseguenza di far cadere Prodi; e dopo le elezioni, di una resa dei conti con i partiti piccoli. Per questo si riconosce il ruolo di garante della coalizione al premier in quanto tale, non come padre nobile del Pd. Per lo stesso motivo, nelle intenzioni di qualcuno il vertice a palazzo Chigi dovrebbe trasformarsi in una sorta di tribunale chiamato a processare i progetti veltroniani.

Repubblica 4.12.07
La consultazione aumenta però la tensione con i partner della Cosa Rossa. Sd: può diventare un siluro a Prodi
Il Prc vara il referendum sul governo "E sul decreto espulsioni niente sconti"
L’iniziativa si svolgerà dopo la verifica. Il Pdci: una mossa del tutto inutile
di Umberto Rosso


ROMA - Un "referendum" sul governo. L´idea porta la firma di Franco Giordano, e su questa base il segretario è riuscito a rimettere sostanzialmente d´accordo Rifondazione. Oltre che agli iscritti del Prc, Giordano lancia la proposta agli altri soci della Cosa rossa (nel prossimo week end a conclave a Roma per gli stati generali), ma le prime reazioni sono fredde. Si chiamano fuori i comunisti italiani, «ci pare inutile la verifica, figuriamoci una consultazione sulla verifica», mentre nelle fila della Sinistra democratica serpeggia la preoccupazione che un referendum possa tradursi solo in un siluro per Prodi. Un timore che circola anche fra i Verdi. In ogni caso, prima ancora di mettersi sulla strada della consultazione della base, a sinistra resta alto l´allarme sul decreto sicurezza, da oggi all´esame dell´aula del Senato (tour de force sugli emendamenti, con voto finale previsto per giovedì). Fra Rifondazione e il ministro Amato (attraverso il sottosegretario Marcella Lucidi) l´intesa di massima c´è: superamento, sia pure non definitivo, dei Cpt. Ma non tutti nel Pd, secondo quel che risulta alla sinistra radicale, gradiscono il testo frutto del compromesso. Il pericolo, allora, è che su alcune modifiche presentate dal centrodestra (in particolare da An) possa saldarsi un fronte che comprenda anche esponenti della maggioranza e la pattuglia dei diniani. «Ma se in questo modo il decreto espulsioni sarà peggiorato - avverte il capogruppo del Prc, Giovanni Russo Spena - sia chiaro che noi voteremo contro».
Una volta superato lo scoglio-sicurezza (e quindi la seconda lettura della Finanziaria), ecco allora aprirsi lo scenario della verifica di governo. Che Franco Giordano, ieri davanti allo stato maggiore del suo partito, ha arricchito con l´idea del sondaggio di massa fra i militanti. Ai dettagli stanno ancora lavorando ma il piano dovrebbe scattare in due tempi: una consultazione "in uscita" e una in "entrata". Un po´ sul modello sindacale, che chiama i lavoratori a pronunciarsi prima sulla piattaforma e poi sull´accordo raggiunto. Dunque, primo passaggio a gennaio con la richiesta agli iscritti di un mandato forte per trattare con il governo. Sul tappeto il segretario ha messo quattro temi caldi, da sottoporre appunto alla base: svolta sul precariato (secondo il progetto del giuslavorista Alleva), detassazione degli aumenti contrattuali, sblocco della Amato-Ferrero sull´immigrazione, pace e disarmo. Alla fine delle trattative con Prodi, più o meno nella prossima primavera, ecco il secondo tempo: il nuovo sondaggio, stavolta sui risultati incassati. E´ proprio questa, naturalmente, la parte più delicata dell´intera operazione: una vittoria dei no vincola il Prc a staccare la spina di Palazzo Chigi. E se il presidente Napolitano dovesse ipotizzare altre soluzioni? O se, nel frattempo, si fosse sul punto di chiudere un´intesa sulla legge elettorale? Ecco perché all´interno del Prc stanno ancora valutando con molta attenzione l´ipotesi di un referendum-capestro. In ogni caso, il combinato disposto verifica-consultazione degli iscritti quasi certamente farà slittare il congresso del partito, previsto in marzo. Rinvio che provoca qualche malumore, sospettando un qualche congelamento della battaglia interna. Ma il ministro Ferrero (uno dei nomi più accreditati per un´eventuale candidatura alternativa) decide di aspettare gli eventi. E non affonda il colpo neanche Ramon Mantovani, ala dei duri, che pure il referendum anti-Prodi lo vorrebbe, e subito.

l’Unità 4.12.07
All'Alpheus. La sinistra unita «consulta» Roma
«Partiamo dai temi della città per costruire il nuovo soggetto»


Una consultazione popolare nella città intorno ai lavori, ai contenuti e alle forme di una sinistra nuova, unitaria ed ecologista e la costituzione, sul territorio di Roma, di Comitati che trovino all'interno delle «Case della sinistra» i luoghi in cui si superino le divisioni.
Questi i punti della bozza programmatica elaborata dall’assemblea della «Sinistra unita» che si è svolta ieri all'Alpheus. Tanti i militanti, le associazioni e gli esponenti della società civile, ma anche gli assessori regionali al Bilancio e alla Cultura, rispettivamente Luigi Nieri e Giulia Rodano, il consigliere provinciale, Massimo Cervellini, che hanno riposto all'appello partito dal sito www.sinistraunita.info e che porterà all'Assemblea della sinistra e degli ecologisti convocata per l'8 e il 9 dicembre prossimo.
«Dobbiamo dirci la verità, è una grande occasione per superare anche la debolezza della sinistra. È un percorso anche difficile che però stenta a decollare». Lo ha detto l'assessore capitolino alla semplificazione, Cecilia D'Elia partecipando all'assemblea.
«C'è una grande domanda di unità e di partecipazione - ha affermato D'Elia - oggi nello spazio pubblico non c'è più spazio per la vita collettiva o mettiamo in campo un'altra idea o saremo perdenti».
«Si deve costruire una via che sia alternativa al protagonismo personale e alla partecipazione dall'alto per una sinistra unita e nuova», ha ricordato il presidente del Consiglio provinciale, Adriano Labbucci aprendo i lavori.

Repubblica Roma 4.12.07
L’assemblea dell’Alpheus
"Cosa rossa" la prima sfida alle provinciali
di Gabriele Isman

Non soltanto il Partito democratico, non solo la formazione che nascerà dalle ceneri di Forza Italia, o la lista La Destra di Storace. Le elezioni provinciali del 2008 potrebbero vedere anche il debutto della "Cosa Rossa", «il soggetto unitario della sinistra» come lo chiama l´assessore regionale Luigi Nieri, «un modo per non rimanere nelle proprie trincee» come ribadisce il presidente del Consiglio provinciale, Adriano Labbucci. Ieri è stato proprio lui ad aprire i lavori dell´assemblea Sinistra unita all´Alpheus. Amministratori ma a anche cittadini, associazioni, eletti di Rifondazione, Verdi e Pdci, che hanno risposto all´appello del sito www. sinistraunita. info - che conta già 700 firme, tra cui Ascanio Celestini, Achille Occhetto, ma anche gli assessori comunali Cecilia D´Elia e Dante Pomponi, e il delegato del Sindaco alla Memoria, Sandro Portelli - in vista dell´Assemblea della sinistra e degli ecologisti convocata per l´8 e il 9 dicembre prossimi al Palazzo dei Congressi dell´Eur. «Serve una nuova sinistra - ha detto Labbucci - altrimenti il rischio è l´emarginazione. Dare vita ad un soggetto unitario altrimenti ognuno rimane nelle proprie trincee. La federazione è un passo avanti ma non un approdo perché le federazioni non reggono a livello politico. L´obbiettivo è presentare una lista unica e gruppi unici ai consigli a partire dalle prossime provinciali. Roma è un laboratorio, qui si scaricano le problematiche nazionali».
All´assemblea c´erano, tra gli altri, lo storico Paul Ginsborg («Se dall´assemblea del prossimo week end verrà fuori l´idea che i partiti consulteranno la base, mi sentirò offeso. Io voglio partecipare attivamente alla costruzione della sinistra»), Aldo Tortorella, il segretario romano di Rifondazione Comunista Massimiliano Smeriglio. «Citando Paolo Conte - spiega il presidente del municipio X Sandro Medici all´Alpheus - si muore un po´ per poter vivere. Ovvero bisogna lasciare quelle identità che si rivelano steccati per rilanciare un´idea di sinistra in questo Paese».
Per tutti, l´appuntamento è al week end, al Palazzo dei congressi.

l’Unità 4.12.07
A Roma le Unioni civili avranno un altro nome?
Compromesso linguistico del Campidoglio per non urtareil Vaticano
Si chiamerà «Registro delle solidarietà»
di Mariagrazia Gerina


Dove non è riuscita la cattolicissima vicesindaco Maria Pia Garavaglia, si cimenta ora il “popolarissimo” (nel senso di ex Ppi) Lucio D’Ubaldo. Ovvero: trovare la formula che non offenda le sensibilità cattoliche, presenti dentro e soprattutto fuori dall’Aula Giulio Cesare. Registro sì, dunque, ma «delle Solidarietà» e non «delle Unioni civili». È questa l’ultima mediazione simbolico-linguistica messa in campo per ricucire le spaccature all’interno della maggioranza alla vigilia della fiaccolata radicale. A suggerirla è stato l’assessore al personale (già segretario cittadino del Ppi) Lucio D’Ubaldo e il capogruppo del Pd Pino Battaglia l’ha fatta propria esponendola nel vertice di maggioranza convocato ieri mattina dal sindaco Walter Veltroni per tentare di sciogliere la matassa e disinnescare le due delibere già all’ordine del giorno che chiedono appunto l’istituzione di un «Registro delle Unioni civili» e rischiano di far deflagrare le divisioni nella maggioranza e nel Pd. Sia quella di iniziativa popolare promossa dai radicali, sia quella consigliare (firmata dai capigruppo di Rnp, Verdi, Prci, Pdci), hanno infatti già raccolto il no compatto dell’Udeur, quello del vicecapogruppo del Pd, Amedeo Piva e di altri ex Dl, di un pezzo di lista civica per Veltroni, spaccata quanto il Pd. Soprattutto si è fatto sentire chiaramente il no del Vaticano, contrario al Registro anche qualora fosse istituito presso la Commissione Immigrazione Nuovi Diritti e Multietnicità (la mediazione tentata dalla vicesindaco) piuttosto che presso l’Anagrafe, come prevede la delibera di iniziativa popolare.
Per ora le forze che hanno portato avanti la battaglia (Verdi, Prc, Rnp e Pdci) hanno preso del tempo. E lo stesso Veltroni ha suggerito a tutti una pausa di riflessione. «La sostanza è il Registro e non come si chiamerà», ragionano intanto tra loro i capigruppo lasciando la stanza del sindaco. C’è chi è più possilista, come il Verde Nando Bonessio, chi più pessimista, come la Prc Adriana Spera: «La verità è che in questo paese non si può pronunciare la parola Unioni civili». Il più riflessivo di tutti è il pasdaran di Sinistra democratica Roberto Giulioli, di solito molto irruento. Che ci sia un «registro», comunque si chiami, e che il tema sia affrontato «in una delibera» sono i punti su cui non vogliono cedere. Il capogruppo del Pd, però, ha parlato di un ordine del giorno, in cui si ribadisca prima di tutto che già da tempo il Comune di Roma non discrimina le famiglie di fatto, prendendo come criterio di accesso al Welfare la famiglia anagrafica. Poi: che sulla materia delle Unioni civili è il parlamento che deve legiferare. Infine: che presto in giunta verrà portata una delibera che riordini il settore dell’anagrafe e istituisca il Registro delle Solidarietà. In attesa di capire meglio tempi e rischi della proposta, «le due delibere restano all’ordine del giorno», dice Gianluca Quadrana (Rnp). Ci sarà anche lui alla fiaccolata promossa dai radicali per questa sera, insieme a Pannella e a Grillini e Boselli, che pure hanno aderito per scandire il termine del 5 dicembre (sei mesi dopo la consegna delle 10mila firme a sostegno della delibera). «Termine perentorio», concorda Quadrana: «Anche se poi c’è la saggezza politica di essere flessibili sui tempi visto che stiamo cercando di raggiungere una mediazione». Mediazione o no, almeno la delibera di iniziativa popolare, con ogni probabilità, andrà avanti. E al momento del voto la spaccatura sarà inevitabile. Ma il punto è evitare che faccia troppo male. A questo servirebbe aver già dato il via libera a un «Registro B», quello delle «Solidarietà».

l’Unità 4.12.07
Unioni civili, la battaglia di Roma
di Andrea Benedino


La questione del registro delle unioni civili è diventato un caso: attenzione il rischio è di perdere in credibilità politica per chi ancora si batte per affermare il principio di laicità come «valore guida» nel futuro Pd

Il Consiglio Comunale di Roma si sta apprestando, in un clima di scontro tra guelfi e ghibellini, a discutere dell’approvazione del Registro delle Unioni Civili, a seguito di una delibera di iniziativa popolare sottoscritta da oltre 10.000 cittadini. Questa discussione e le decisioni che ne seguiranno stanno diventando sempre più emblematiche di come il Pd a guida Veltroni saprà affrontare i nodi delle questioni relative ai diritti civili, e più in generale di quanto il Pd e il suo leader sapranno decidere su temi di questa portata resistendo alle invadenze di campo e ai condizionamenti delle gerarchie vaticane e quindi di quanta fermezza ci sarà nell’affermazione piena del valore della laicità dello stato come valore guida di tutto il partito.
Un accordo che sembrava a portata di mano, a seguito di una faticosa mediazione portata avanti dal vicesindaco Maria Pia Garavaglia, sta rischiando di naufragare in queste ore a seguito dell’accensione dei riflettori sul «caso Roma» da parte delle solite gerarchie di Oltretevere: in primis un articolo di avvertimento di Avvenire nei giorni scorsi, poi l’incontro tra Veltroni e il cardinal Tarcisio Bertone, e poi ancora le dichiarazioni della senatrice teodem Paola Binetti secondo cui «il registro civile a Roma è una cosa inaccettabile. Benedetto XVI si è espresso contro e se passa, qualcuno penserà che Veltroni non può governare la città del Papa». Per non parlare delle dichiarazioni offensive per la dignità delle migliaia di conviventi etero ed omosessuali romani del novello Pio IX vice-capogruppo del Pd di Roma Amedeo Piva, secondo cui quella del Registro è «una delibera inutile ed inopportuna» e chi si impunta «si scontrerà contro un muro invalicabile» (forse quello di Porta Pia?).
Tanto basta per creare un caso, ed il tutto alla vigilia della discussione in Commissione Giustizia al Senato sui Contratti di Unione Solidale, per l’approvazione dei quali Veltroni segretario ha speso in questi mesi, fin dalla campagna per le elezioni primarie, parole forti ed impegnative.
Alle parole però devono seguire dei fatti, pena il rischio forte di perdere in credibilità politica e di far perdere la faccia a quanti ancora si battono per affermare pienamente il principio di autonomia e laicità dello stato come «valore guida» del futuro Pd. E i fatti non possono certo essere il baratto tra la bocciatura esplicita del registro e l’approvazione di un blando documento che scarica al Parlamento la patata bollente dei diritti dei conviventi, come si vocifera in queste ore. Anche perché la Roma di Veltroni, rispetto a tanti altri comuni italiani - da ultimo Ancona - che da anni hanno varato strumenti di questo tipo, anziché svolgere un ruolo tra i comuni capofila, rischierebbe di essere semplicemente l’ultima ruota del carro. E questo di certo il Pd veltroniano, amante dei primati e dell’eccellenza, è l’unica cosa che non può permettersi.
Personalmente sono consapevole del valore prettamente simbolico dell’approvazione di un Registro a Roma e del fatto che la vera battaglia sarà quella che si svolgerà in Senato. Ma è anche del tutto evidente come le due questioni si tengano strettamente assieme per il fatto che la figura del Sindaco di Roma coincide con quella del segretario del Pd e con quella del probabile futuro candidato premier del centrosinistra. Questo mi porta a dire che è ormai indubbiamente arrivato il momento del redde rationem per la leadership di Veltroni e per la tenuta del Partito Democratico sul tema dei diritti dei conviventi e che non ce la si potrà cavare facilmente con compromessi al ribasso che rinviino il problema sine die.
Le strade che Veltroni ha a sua disposizione per esercitare la sua leadership a mio parere non sono che due: o investirà tutto sul segnale politico che si produrrebbe nel paese e sul Parlamento con l’approvazione del Registro da parte del Consiglio Comunale capitolino (segnale che potrebbe produrre effetti anche a lungo periodo nella prospettiva della futura campagna elettorale), oppure sarà costretto ad impegnare personalmente tutta la sua credibilità di leader politico nell’incerta battaglia del Senato, col rischio che pezzi consistenti del suo gruppo parlamentare possano non seguire le sue indicazioni compromettendo l’immagine dell’intero partito. Tertium non datur, pena l’avvio di una deriva clericale che segnerebbe la perdita definitiva di credibilità del Pd verso il mondo laico del nostro Paese.
Personalmente ritengo che la seconda strada sia - in una prospettiva di lungo periodo - la più impervia e pericolosa per lo stesso Veltroni, in quanto egli rischierebbe di diventare suo malgrado l’ultimo di una lunga serie di leader politici italiani che su questo tema hanno parlato al vento, venendo poi contraddetti dalle proprie maggioranze parlamentari. Lo sarebbe perché di fatto si consegnerebbe la leadership del segretario nazionale del Pd su un tema come questo in ostaggio a quella piccola pattuglia di senatori teo-dem che finora hanno impedito con azioni efficaci ogni tipo di decisione parlamentare sull’argomento. Al tempo stesso questa sarebbe indubbiamente anche la strada che potrebbe far conseguire i risultati migliori, cioè l’approvazione di una legge da parte del Parlamento, atto ben più importante di qualsiasi registro. Questo però a condizione che Veltroni riesca a dimostrare di saper imporre una condotta parlamentare anche a quei senatori più inclini alle indicazioni delle gerarchie di Oltretevere, impresa che i più giudicherebbero alquanto ardua.
Di certo Veltroni non può pensare di limitarsi a stare zitto e fermo. La «politica del semaforo» di guzzantiana memoria, infatti, è proprio quella che è stata perseguita finora in questi anni dai vari leader del centrosinistra e che costringe l’Italia all’impossibilità di varare quelle riforme civili come i Cus, il testamento biologico o una riforma della legge sulla procreazione assistita che altri paesi hanno varato da tempo.
La nuova stagione che molti si augurano di vedere all’opera dipende molto quindi dalle scelte che farà Veltroni nelle prossime ore. Non è più il tempo del «ma anche», ma è giunto il momento delle scelte. Ci aiuti Veltroni a non deludere le speranze e i sogni di libertà di quella maggioranza di italiani che vorrebbe vivere una nuova stagione di libertà.
* Componente Commissione Manifesto dei Valori Pd

Repubblica Firenze 4.12.07
L’onorificenza concessa dal presidente della Repubblica. Finirono davanti al plotone d’esecuzione perché non vollero arruolarsi
Medaglia d’oro ai martiri dello stadio
I cinque ragazzi furono fucilati dai fascisti il 22 marzo del ‘44
di Marzio Fatucchi


Tre morirono subito, altri due urlavano "mamma, mamma": furono finiti dai repubblichini con alcuni colpi di pistola
Non avevano neanche vent´anni, furono catturati durante un rastrellamento a Vicchio

«Vigliacchi, perché li uccidete». I soldati semplici si ribellarono, urlarono, alcuni svennero. Furono necessarie le minacce con il mitra dei repubblichini perché il plotone di esecuzione eseguisse la condanna a morte in quanto «renitenti alla leva» di quei cinque ragazzi, allo stadio di Campo di Marte. Tre di loro morirono subito, due, urlando «mamma, mamma», furono finiti con la pistola dai fascisti. I cinque ragazzi, allora neanche ventenni, Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni e Guido Targetti, adesso sono cinque medaglie d´oro al valor civile, conferite dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Era il 22 marzo del 1944, i cinque ragazzi uccisi furono accusati di non voler partire con l´esercito della Repubblica di Salò. Per questo il presidente del «tribunale militare straordinario di Firenze», il comandante regionale Adamo Rossi, emise le sentenze capitali. Cinque delle 23 comminate in quei pochi mesi: giovanissimi mandati a morire, dopo una procedura sommaria. Talmente sommaria che, come ricorda Carlo Francovich nel suo "La resistenza a Firenze", «i difensori ebbero impressione che le decisioni fossero già prese in altra sede». Forse qualcosa di più di una sensazione: lo dimostrerebbe il fatto che il famigerato maggiore Carità, il torturatore di Villa Triste, «una volta entrò nella sala dei testimoni a difesa e disse: "Oggi, qui ci debbono essere della condanne a morte, altrimenti ci penso io!"». Fu il Carità, ricorda don Angelo Becherle, il sacerdote che amministrò gli ultimi sacramenti ai ragazzi, a dare il colpo di grazia con la pistola, un intero caricatore, ai due ragazzi che ebbero la sfortuna di non morire subito.
I cinque ragazzi furono catturati durante un rastrellamento nelle campagne di Vicchio, una «punizione» per la zona, dove la Resistenza stava facendo proselitismo. Cinque condanne pretestuose, hanno sostenuto gli storici, servivano sia per dare un segnale al territorio del Mugello che per intimorire gli stessi soldati. «Che questa fucilazione dovesse avere il valore di un monito la dimostra il fatto che vari reparti militari formati da coscritti tutt´altro che entusiasti, dovettero assistere all´esecuzione perché da questo episodio imparassero a temere ed a rispettare la disciplina militare della Repubblica di Salò» scrive ancora Francovich. Sempre gli storici mettono in collegamento questo assassinio con l´azione dei Gap contro l´allora ministro della Repubblica di Salò Giovanni Gentile: una decisione pare presa come risposta all´eccidio di Campo di Marte, si ipotizzò di trasportare il suo corpo nello stesso luogo dove era stati fucilati i cinque.
A Campo di Marte, è presente un monumento, ogni anno si svolge una cerimonia a cui partecipano cittadini e scolaresche. Ed è proprio questa forte partecipazione in città ed a Vicchio, a distanza di oltre 60 anni, ad aver convinto il presidente Giorgio Napolitano a concedere la medaglia al valor civile, dopo la richiesta del presidente del quartiere 2 Gianluca Paolucci, sostenuta dalla Prefettura.

Corriere della Sera 4.12.07
Il ministro. Dibattito con gli studenti
D'Alema: no alle nozze gay. Sento il fascino della fede
di Fabrizio Caccia


Con gli studenti Il vicepremier e i giovani di un istituto tecnico: «Non sono cattolico ma avverto il fascino della fede»
No di D'Alema alle nozze gay: offesa a tanti italiani

ROMA — Massimo D'Alema in un istituto tecnico. Ammette di «avvertire il fascino della fede» e spiega: «Non sono favorevole a nozze tra omosessuali perché il matrimonio tra un uomo e una donna è il fondamento della famiglia, per la Costituzione. E, per la maggioranza degli italiani, è pure un sacramento».
È un D'Alema che non t'aspetti, quello che ieri mattina, nell'Aula magna dell'istituto tecnico «Cristoforo Colombo», parla per due ore con i ragazzi. Tema del dibattito: i giovani e i partiti. Il ministro degli Esteri si apre molto con gli studenti, li preferisce chiaramente ai giornalisti. E dice cose forti. Racconta loro del fulminante incontro con il cardinal Martini a Gerusalemme («Io non sono cattolico, ma avverto il fascino della fede e il cardinal Martini ti comunica il senso di questo fascino...»).
Cita Remo Bodei e Max Weber, Leibnitz e Voltaire. Ma soprattutto risponde chiaro alle domande: «No, non sono favorevole al matrimonio tra omosessuali — dice a Francesca della V B — perché il matrimonio tra un uomo e una donna è il fondamento della famiglia, per la Costituzione. E, per la maggioranza degli italiani, è pure un sacramento. Il matrimonio tra omosessuali, perciò, offenderebbe il sentimento religioso di tanta gente. Due persone dello stesso sesso possono vivere uniti senza bisogno di simulare un matrimonio. Lo Stato, però, deve riconoscere loro diritti civili e sociali. Mi accontenterei di fare la legge...».
Martina della V E gli chiede dei benefit dei parlamentari: «Io ho sempre pagato il cinema — le risponde D'Alema — e se vado in vacanza il viaggio lo pago io, come quest'estate che sono stato ad Atene con AirOne. Se vuole le porto gli scontrini...». Risposta pronta anche quando Jacopo della V B prova l'attacco ad effetto: «Lei che è coinvolto in vicende giudiziarie...». «Guardi, la rassicuro, non sono coinvolto in alcuna vicenda...», replica il vicepremier. E l'Islam? «Il fondamentalismo non è un residuo arcaico, ma un fenomeno della globalizzazione — spiega D'Alema —. È la reazione alla paura di essere cancellati dal mondo occidentale. L'Islam per tradizione è tollerante, se non fossimo andati noi a dargli fastidio con le crociate...».
Infine, l'antipolitica: «La crisi dei partiti non vuol dire che è finita la politica». Anzi. Ma servirà «una rivoluzione che spazzi via il teatrino e riporti al centro i problemi grandi: la pace, la guerra, l'aria che respiriamo...». Come fu la sua, nel '68, quando ci fu «una radicale svolta generazionale». Ecco: servirà «una nuova generazione che arriva come un'ondata e pulisce tutto». Magari è proprio questa che oggi gli sta davanti. Ma per imporsi dovrà usare «la forza», non quella cattiva, quella buona, cioè dovrà «far sentire la propria voce», «cambiare l'agenda». I ragazzi applaudono. «È difficile che chi ha il potere lo lasci — li avverte, però, il ministro —. Dipenderà da voi».

Corriere della Sera 4.12.07
Prematuri, nuovi confini
«Rianimazione solo dopo 23 settimane» I medici verso un documento nazionale
di Margherita De Bac


PADOVA — Non deve scendere al di sotto delle ventitré settimane l'asticella della vita. Tranne che in situazioni eccezionali, la rianimazione di creature così piccole non è indicata. Diverso invece l'intervento su un bambino che nasce dopo 24 e 25 settimane di gestazione: sì alla terapia intensiva continuata.
Parte da qui la discussione sulle cure per i prematuri di peso estremamente basso — 22-25 settimane — che condurrà a un documento nazionale. Gli esperti della medicina perinatale si vogliono dare un indirizzo a sostegno di decisioni difficili nelle ore immediatamente successive al parto. Il punto di partenza è la Carta di Firenze, elaborata nel 2004 da un gruppo coordinato dal professor Gianpaolo Donzelli, neonatologo dell'ospedale pediatrico Meyer. Il ministro della Salute Livia Turco alcuni mesi fa ha nominato una commissione per aggiornarla, dopo la vicenda del bambino destinato all'aborto terapeutico, nato sano anziché con atresia all'esofago, morto pochi giorni dopo un'inutile assistenza straordinaria.
Molti Paesi, soprattutto quelli nordici, non solo l'Olanda (la più rigida) hanno individuato uno spartiacque, una linea di confine. L'Italia non ancora perché, come dice Donzelli «la nostra realtà è particolare, non siamo calvinisti né protestanti, bisogna giungere a compromessi». Da noi prevale un'attitudine alla rianimazione.
Parliamo di bambini partoriti con ampio anticipo, ben quattro mesi e mezzo prima di quanto sia previsto per l'uomo, sui quali pesa una prognosi incerta. Oggi le tecniche impiegate per supportare le funzioni vitali si sono evolute a tal punto da consentire il «superamento dei limiti dell'agire medico» che può configurarsi come accanimento. Ci sono casi invece che suggerirebbero un'assistenza amorevole, palliativa, senza forzature. La discussione è all'inizio. Neonatologi, ginecologi, medici legali cercano una condivisione per arrivare a posizioni di massima che tengano conto dell'estrema imprevedibilità di ogni singola situazione. Si vanno delineando delle «attitudini» nella sostanza non molto distanti dalla Carta di Firenze.
A 22 settimane solo palliazione. A 23 la rianimazione non sarebbe in genere opportuna salvo i casi in cui il bambino mostri segni di vitalità (respiro, attività cardiaca, movimento). A 24 settimane «il trattamento intensivo è sempre indicato», a 25 occorrono cure intensive. Un nuovo confronto su questi temi si è svolto a Padova, nel convegno su etica in neonatologia organizzato dall'Università.
Claudio Fabris, presidente della società italiana di neonatologia, è contrario a distinzioni nette: «Non dobbiamo basarci su una valutazione statistica, ma sulla prognosi individuale. I genitori vanno coinvolti senza che però gravi su di loro il peso delle decisioni, sempre di carattere medico. Ogni bimbo ha una sua storia, una sua famiglia. Le scelte dipendono da dati ecografici, per definire l'esatta età gestazionale, dalla vitalità al momento del parto Non siamo notai».
Contrario alle raccomandazioni Mario De Curtis, primario neonatologo del Policlinico Umberto I: «Non si è mai sicuri dell'età gestazionale né si può prendere in pochi attimi la decisione di assistere un neonato che, per la sua fragilità può essere poco reattivo. Ai danni dell'estrema prematurità possono aggiungersi quelli della mancata rianimazione. Ritengo necessario scegliere solo dopo aver avviato la terapia intensiva».
All'Umberto I negli ultimi 3 anni sono nati 26 bambini sotto le 25 settimane. Dei 14 rimasti in ospedale (altri 12 sono stati trasferiti a causa dell'insufficiente ricettività delle Unità di rianimazione), 6 sono sopravvissuti (fra loro nessuno di 22) e sono in buone condizioni. Al Careggi di Firenze, nel centro di Firmino Rubaltelli, dal 2004 al 2007, ricoverati in terapia intensiva 67 bambini di 23-25 settimane, sopravvivenza del 60%.

Corriere della Sera 4.12.07
E l'ospedale di Treviso vara un codice interno
di M.D.B

PADOVA — Ospedale di Treviso. Da settembre gli operatori della neonatologia fanno riferimento a una «Carta» interna, frutto di un confronto durato un anno e mezzo che oltre a pediatri e bioetici ha coinvolto ostetriche e infermieri. «Le nostre linee guida orientative sono state già applicate e hanno trovato buona accoglienza. Soprattutto, hanno eliminato i contrasti che si creavano nell'équipe neonatale e hanno avvicinato i sanitari alle famiglie», dice Camillo Barbisan, presidente del Comitato etico. Lo «schema di lavoro» prevede che sotto le 23 settimane di gestazione si applichino solo cure compassionevoli, di conforto. Il bimbo di 23 e 24 settimane riceve intubazione e assistenza respiratoria e le cure vengono mantenute solo se le sue condizioni migliorano. Altrimenti sono sospese. Dopo la 25a settimana si fa tutto il necessario per sostenere il bimbo. I genitori vengono coinvolti dall'inizio «ma la decisione sull'avvio o la sospensione della terapia è sempre e solo un atto medico, condiviso dalla famiglia» .

Corriere della Sera 4.12.07
Le polemiche. Tonini: non è questione di fede
I cattolici si ribellano: valutare caso per caso
di Mariolina Iossa

ROMA — «Cattolico, protestante, non credente. Che cosa c'entra? Non è una questione religiosa. E neppure culturale. Quattro o cinque anni fa il Time pubblicò in copertina il volto di un feto di 23 settimane. Era splendido, già tutto delineato. Non esiste il plus e il minus della vita. La vita è il valore. Unico, universale ». Monsignor Tonini preferisce parlare di «categorie del pensiero», i suoi pensieri vanno oltre la sua incrollabile fede. Figuriamoci se ci si possa mettere a discutere con lui di un limite di 23, 24 o 25 settimane.
All'ex sindacalista cattolico Savino Pezzotta, tra i promotori del Family Day, la «linea olandese» sembra semplicemente terribile. «Diciamola con le parole giuste: in Olanda li lasciano morire. Addirittura fino a 25 settimane. Se ce la fanno bene, sennò pazienza. Ma che civiltà siamo se lasciamo morire una persona solo perché è nata prima? Se non la aiutiamo a far di tutto perché ce la faccia? La famiglia però va sostenuta, io rifiuto la visione privatistica, quel: sono affari loro. No, sono affari nostri».
È anche una questione di «frontiere della scienza» per Luigi Bobba, senatore della Margherita. «La scienza è al servizio della vita. Se oggi ci sono tecniche e strumenti che 15 o 20 anni fa erano impensabili per i medici, le linee guida del ministero dovranno tenerne conto. Interroghiamoci su questo, non facciamo finta di niente».
La giornalista vicina all'associazionismo cattolico Eugenia Roccella è convinta che «a 22 settimane si può sopravvivere. Non esistono confini netti, non è questione di settimane, magari il bambino è figlio di genitori alti, è più grande della media, può farcela. Altri no. Ma se c'è una minima possibilità, che fai, lo lasci lì? No, valutare sempre, caso per caso. Il piccolo di 22, 23 settimane va accompagnato, quello di 24, 25 intubato». Ma anche offrire «centri di eccellenza, strumenti tecnici e culturali, competenze adeguate è indispensabile», aggiunge la senatrice Paola Binetti. «All'epoca mia era rischioso nascere settimini. Adesso siamo talmente avanti. Con l'aiuto del ministro Turco siamo riusciti a far passare un piccolo emendamento nella Finanziaria per potenziare i posti letto di terapia intensiva neonatale per i prematuri negli ospedali italiani. Anche perché bisogna affrontare una realtà: è purtroppo vero che la legge 40 sulla fecondazione assistita fa nascere bambini più piccoli e prematuri. Che vanno aiutati a vivere e a crescere come tutti gli altri».

Corriere della Sera 4.12.07
L'intervista Peter Sauer. «Infanticidio? No, è amore»
di M. D. B.

In Olanda: la Carta di Groningen prevede che si assistano solo i bimbi che nascono dopo 25 settimane

PADOVA — «Ogni volta che un bambino muore è un momento doloroso. Ho 61 anni, da 25 faccio il neonatologo e sempre, quando mi è successo, ho dovuto chiudermi nella mia stanza e non parlare con nessuno, per riprendermi dall'emozione. Ora sono anziano, ma ho l'identica reazione. E invece in Italia pensate che a noi olandesi l'infanticidio piaccia».
Ci sbagliamo, professore, nel ritenervi cinici?
«Certo, vi sbagliate di grosso. Abbiamo una mentalità diversa. Noi decidiamo nell'interesse del bambino, che deve sempre prevalere. E non credo sia nel suo bene farlo sopravvivere attaccandolo a una macchina col rischio molto alto di gravi handicap. Non difendiamo la vita, ma la sua qualità».
Il nome di Peter Sauer è legato al documento di Groningen, del 2002, sul trattamento dei prematuri di 22-26 settimane. Un protocollo dove i bambini da destinare all'eutanasia (attiva, attraverso l'impiego di farmaci, o passiva con la semplice astensione da ogni sostegno artificiale) vengono suddivisi in tre gruppi. Il medico olandese, direttore del dipartimento di pediatria all'ospedale di Groningen, è stato relatore del convegno «Problemi etici in pediatria» organizzato dall'università di Padova.
Il protocollo funziona?
«Chiariamo subito. Quel documento non stabilisce l'eutanasia ma serve ai medici per non finire sotto processo. Ogni caso di bambino non rianimato viene giudicato da una commissione esterna e dal ministero della Giustizia. In 5 anni nessuno di noi è stato perseguito».
C'è vita sotto le 25 settimane?
«Sotto le 25 settimane la percentuale dei neonati che sopravvivono e hanno la prospettiva di un'infanzia qualitativamente buona è molto bassa. Noi dunque non li rianimiamo. Se poi sopravvivono senza aiuti, con le loro forze, meglio così, è una gioia per tutti».
Cosa pensa dell'atteggiamento dei medici italiani?
«Non condivido l'impostazione. Non bisogna pensare alla salute del bambino in quel momento. E' sbagliato usare a ogni costo tutte le cure oggi disponibili, meglio concentrare gli sforzi sui piccoli con maggiori capacità. Quando parlo con i colleghi italiani si dicono d'accordo con me, poi agiscono diversamente per paura».
Ritiene che questa attitudine sia dovuta all'influenza della Chiesa?
«Certamente. Consiglierei a chi parla su basi teoriche di venirli a vedere, i grandi prematuri. Creature di pochi etti, spesso sofferenti, con organi poco sviluppati, in molti casi il loro cervello è una palla di biliardo».
Lei è protestante?
«Sì, ma non significa nulla. Farei lo stesso anche se fossi cattolico. È rispetto della qualità della vita. Nel mio studio è venuta una mamma che si era opposta alla decisione di non rianimare il suo bimbo di 25 settimane. Il piccolo è sopravvissuto con gravi handicap. La donna mi ha detto: "Eccolo, lei avrebbe voluto eliminarlo". Tra me e me ho pensato alle sofferenze che il piccolo patirà da grande».

Repubblica 4.12.07
Il genoma umano intuizione italiana
di Renato Dulbecco


Vent'anni fa il progetto di ricerca fu avviato dal Cnr. Un successo non solo per la cura di malattie come i tumori, ma anche occasione di un dibattito sui limiti della scienza

Il Progetto Genoma Umano fu una felice iniziativa del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) iniziata nel 1987, ormai vent´anni or sono. L´anno prima, ad una conferenza tenutasi a Cold Spring Harbor, vicino a New York, avevo sostenuto che il sequenziamento dell´intero Genoma Umano avrebbe portato grandi vantaggi alla scienze biologiche e genetiche e avrebbe avuto notevoli ricadute in medicina, prima di tutto nel settore del cancro. Già allora infatti era chiaro che il cancro era una malattia del genoma, perché alcune alterazioni negli oncogeni erano state individuate.

Queste, però, erano state ottenute in maniera per così dire artigianale. Mi parve allora che solamente uno sforzo organizzato per decifrare tutti i possibili cambiamenti che avvengono in una cellula tumorale avrebbe potuto svelare la patogenesi del cancro e per far questo la sequenza dell´intero genoma era un prerequisito indispensabile.

La comunità scientifica non fu inizialmente favorevole al progetto: gli alti costi stimati facevano temere che le risorse necessarie al progetto sarebbero state tolte da altri settori altrettanto importanti. Inoltre si sosteneva che grandi parti del genoma fossero inutili e che in ogni caso il lavoro sarebbe stato molto ripetitivo e poco degno di un vero ricercatore. Oggi, a vent´anni di distanza, tutte queste obiezioni sono state ampiamente superate e numerosi genomi, oltre a quello umano, sono ormai disponibili. Nello stesso tempo, i geni responsabili delle principali malattie genetiche sono stati individuati e i dati sul cancro e sulle altre malattie complesse cominciano ad accumularsi.

Il Cnr mi affidò fin dall´inizio il coordinamento del Progetto, in cui fui coadiuvato da Paolo Vezzoni, un ricercatore del Cnr stesso. Malgrado fosse auspicabile, non fu possibile creare un unico Centro per lo studio del genoma, ma data la particolare situazione frammentata si scelse la via di raccogliere in un unico coordinamento una ventina di gruppi che si interessavano di genetica umana e di concentrarli su una specifica regione cromosomica, la parte terminale del cromosoma X. Posso dire che i soldi, pur non essendo molti (due miliardi di vecchie lire per anno, grosso modo un centesimo di quanto stanziato dagli americani), furono ben spesi e che il progetto fu produttivo: si era allora nella fase di mappatura del genoma e le pubblicazioni che descrissero per prime la mappa della regione terminale del braccio lungo del cromosoma X sono lì a testimoniarlo. Come conseguenza, il contributo italiano alla scoperta di numerosi geni responsabili di malattie genetiche fu notevole. Si effettuavano regolarmente riunioni semestrali in cui erano esposti gli avanzamenti ottenuti, e i gruppi più produttivi vennero incoraggiati, pratica questa assolutamente necessaria perché un progetto raggiunga gli scopi prefissati.

Per ragioni che ancora mi sfuggono, il finanziamento terminò improvvisamente nel 1995 e, malgrado le assicurazioni a livello sia di dirigenza Cnr che di Ministero, non venne più ripreso. Fu un vero peccato, perché proprio allora iniziava la fase di sequenziamento da cui l´Italia rimase esclusa. Mentre la fase di mappatura consentiva ancora il successo di un piccolo progetto indipendente, la fase di sequenziamento necessitava di un´organizzazione più rigida e di un impegno a livello internazionale che non fu possibile prendere per carenza di fondi. Per questo l´Italia rimase essenzialmente fuori dalla seconda fase del progetto che culminò con la presentazione alla Casa Bianca nel 2000 non di uno ma addirittura di due draft del genoma umano.
Malgrado questa delusione, ho avuto modo di constatare che il Progetto Genoma fece nascere per la prima volta in Italia un dibattito sulle possibilità e i limiti della scienza, in un´opinione pubblica che sino ad allora aveva completamento ignorato le grandi possibilità che in quei decenni si stavano aprendo nel settore della biologia.

Repubblica 4.12.07
Vincere in nome di dio
di Maurizio Crosetti


Kakà ringrazia il Signore per il Pallone d´oro. Bush si sente parte di un disegno divino. Ecco come sportivi e potenti invocano la Provvidenza

«E´ stato Dio a volerlo» ha detto Kakà commentando la vittoria del Pallone d´Oro. Ma il goleador brasiliano non è l´unica star ad aver legato i propri successi a disegni divini. Sempre di più, nello sport come in politica, il trascendente gioca un ruolo chiave. Tutto da ostentare.
Lo ringraziano per una vittoria, e magari per quella stessa vittoria l´avevano anche pregato in ginocchio. Okay, ma per chi tifa Dio? Se poi vince l´altro, che magari è pure ateo, come la mettiamo? Indicano il cielo con un dito dopo un gol, si fanno il segno della croce prima di entrare in campo e poi si baciano la mano che andrà ad accarezzare l´erba. Va bene, ma se la moviola li pesca cinque minuti dopo nel più clamoroso dei bestemmioni?
La partita tra sport e religione è una faccenda complicata, un match a eliminazione diretta tra fede e superstizione, misticismo e magia. Ora se ne parla perché il milanista Kakà ha vinto il Pallone d´Oro («Dio lo ha voluto») e ha dichiarato che a fine carriera diventerà pastore evangelico, una specie di prete bello alla Goffredo Parise, speriamo per lui con più solida vocazione. Ma c´è chi non ha avuto bisogno di aspettare tanto, per la convocazione da parte di quel commissario tecnico imprevedibile che è Dio: Michela Amadori era una pallavolista azzurra, Fabiana Benedettini una campionessa di basket, hanno detto ciao e sono diventate suore. Stefano Albanesi non ha mai vinto il Pallone d´oro, però se la cavava mica male, nel Pescara. Via la tuta, ha indossato la tonaca. Uguale a quelle, antiche e nere, dei preti di oratorio nelle partite in mezzo alla polvere.
«Certe scelte si possono mantenere segrete, però renderle pubbliche può servire a qualcuno in difficoltà». Lo dice Antonietta Di Martino, vice campionessa del mondo nel salto in alto. «Dopo un grave infortunio stavo per abbandonare lo sport, credere in Dio mi ha aiutato molto». Il compagno segreto non cambia solo la carriera, così non vale. Cambia la vita. «Senza la mia conversione all´Islam non sarei stato così famoso in Arabia, Siria, Pakistan. Nel resto del mondo hanno conosciuto Cassius Clay». A dirlo, infatti, è Muhammad Alì. «Nel 1964 sono diventato islamico, poi ho cominciato a non mangiare carne di maiale, poi a non fumare e a non bere alcol. Tutto questo ha accresciuto la mia fede in Allah».
Di solito, Dio entra in campo nell´intervallo, quando l´atleta ha più bisogno di forza. Quando soffre, quando è stanco, quando è ferito. Ma se vi dicono che con la mano ha segnato lui e non Maradona, non credeteci. «Dopo l´infortunio al ginocchio ho avuto molto tempo per pensare, ed è lì che ho cominciato a interessarmi al buddismo». Roberto Baggio ringrazia le cicatrici sulla gamba, un uncinetto ricamato dal bisturi, per essere diventato il buddista più famoso d´Italia. Invece il terribile Mike Tyson si avvicinò all´Islam, o almeno lui dice di averci provato, nella cella di una galera, condannato per stupro. Oppure c´è chi, come Michael Schumacher, assicura di vedere Dio ai trecento all´ora. «Gli credo» commentò il cardinale Tonini. «Chi rischia la vita ogni giorno non può farlo con leggerezza, non può non interrogarsi sul senso dell´esistenza e del nostro stare al mondo».
Dio è un atleta democratico, gli piace giocare accanto ai fuoriclasse come agli sportivi normali. Sulla via di Damasco, anche se quel giorno si chiamava Allah e non Gesù, ha colpito Lew Alcidor, ovvero Kareem Abdul Jabbar, la supernova del basket americano. Ma anche Victor Claudio Vallerini, che faceva il terzino nella Lazio ed entrò in seminario. L´Altissimo chiama in tanti modi. «Non ho mai smesso di credere in lui, e così ho ripreso a giocare» dice Julio Gonzalez, l´ex attaccante del Vicenza che perse un braccio in un incidente stradale e dopo due anni è tornato in campo in Paraguay, dov´è stato tesserato dal Tacuary: non per un´esibizione ma per l´intero campionato. Oppure Kanu, il nigeriano che stava all´Inter e venne operato al cuore, valvola aortica e carriera finita? No. «Dio mi ha aiutato ad essere ancora un atleta, e la mia vita ha più senso di prima».
Il Signore chiama, e chiede. «Ho sentito la sua voce, mi diceva di non giocare più a basket, di rinunciare per lui a qualcosa che amavo davvero, e così è stato». Michael Watson, guardia statunitense che giocò a Jesi e Castelletto Ticino, si tolse canotta e scarpette per sempre. Invece Jonathan Edwars, grande triplista, nel ´91 rinunciò ai campionati del mondo per non dover gareggiare di domenica: una storia molto alla "momenti di gloria". Anche se poi la convocazione/vocazione segue strade misteriose e asimmetriche. C´è Taribo West (ricordate l´interista con le treccine colorate?) che diventa pastore pentecostale ed esercita in casa. C´è il brasiliano Muller, ex del Toro, ricordato per la sua memorabile moglie Jussara più che per le galoppate in area: oggi è pastore protestante, e del resto quasi tutto il Brasile campione del mondo 2002 s´inginocchiò a pregare dopo la finale di Yokohama, mostrando magliette con la scritta Jesus. Oppure c´è Nicola Legrottaglie che alla Juve chiamavano "il meshato" e che ora parla spesso di Gesù. Anche lui, come Kakà, è un novello evangelico: sabato scorso si sono affrontati a San Siro e chissà se si sono menati almeno un po´.
Ancora non inserito nelle sostanze proibite come doping spirituale, Dio forse c´entra qualcosa con le vittorie del ginnasta Igor Cassina o del canoista Antonio Rossi, oppure con gli spari infallibili del tiratore Giovanni Pellielo, o con le piroette sul ghiaccio di Carolina Kostner. Il portiere dell´Atalanta, Ferdinando Coppola, attaccava alla rete un santino della Madonna di Loreto, poi però ha smesso. E Moggi aveva in ufficio un quadretto di Padre Pio: non è bastato per schermargli il telefonino, e comunque la sua trinità erano arbitro e guardalinee. Anche se la migliore rimane il commento a una scritta sul muro di una chiesa di Liverpool, una ventina di anni fa: "Dio salva". Una mano anonima aggiunse "ma Rush segna sulla respinta".
Sacro o profano, qui non si gioca mai in campo neutro. Certo, il rischio dell´amuleto è forte. L´ha corso persino Trapattoni, stringendo l´ampolla con l´acqua benedetta ai mondiali asiatici: forse Budda tifava Corea.

Repubblica 4.12.07
George, Silvio e gli altri tutti i raccomandati dal Signore
di Vittorio Zucconi


È tramontata la blanda associazione con la parola «cristiano», utilizzata in contrappunto al materialismo socialista, da gruppi come la Dc di Don Sturzo o la Cdu bavarese di Joseph Strauss, che comunque mai pretesero di possedere un telefono privilegiato con la Provvidenza. L´identificazione passiva e collettiva con il Dio del Nuovo e dell´Antico Testamento deve oggi trasformarsi in ostentazione, in testimonianza attiva e individuale, fino alla proclamazione solenne della banda larga con il cielo. Lo intuì Silvio Berlusconi, la cui religiosità non sembrava ai più essere testimoniata dalla pratica di vita, trasformando negli anni ‘90 una «discesa in campo» in una allegorica «discesa dal cielo», via elicotteri, quando cominciò a giocare con formule rischiose quali «l´unto del Signore» e l´«Uomo della Provvidenza». Accolto dallo scandalo e dall´indignazione di coloro che ricordavano chi avesse già utilizzato queste false attribuzioni di titolo, ma benedetto dai cappellani della corte di Arcore, il segnale della «provvidenzialità» e dell´unzione sacra fu recepito e assimilato da coloro ai quali era diretto, dai naufraghi dei partiti cosiddetti «cristiani». In hoc signo, vinse.
Ma se in Italia la presenza a Roma di un rappresentante ufficiale del cielo limita la possibilità di vantare raccomandazioni divine, nessun Papa vieta invece agi aspiranti cesari americani di proclamarsi vicari di Dio in politica. Sfiorando il rischio di passare per folle («chi parla con Dio è una persona devota, chi sostiene che Dio parla a lui è da ricoverare») Bush seguì i consigli del proprio stratega Karl Rove e spiegò che «Dio parla attraverso di me» (16 luglio 2004). Fu Dio a dirgli, come l´arcangelo a Maria, «vai e porta la pace in Medio Oriente, dai uno stato ai palestinesi e la sicurezza agli israeliani» come riferirono stupefatti il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il suo ministro degli esteri Nabil Shaath, dopo un colloquio con lui. In La fede di George Bush, scritto da un importante leader cristianista, Stephen Mansfield, e mai smentito, il presidente spiega, tra virgolette: «Ho sempre sentito che era Dio a volere che io diventassi presidente. Non so spiegarlo, ma so che è Dio a volerlo».
Tra l´ovvio e il messianico, essendo comunque evidente per una persona di fede che «nulla avviene senza la volontà di Dio», la nuova generazione di raccomandati dal Signore mercanteggia la propria fede in voti. Il ricorso a Dio nei momenti di difficoltà politica non è nuovo né esclusivo dell´Occidente, come dimostrò Stalin riesumando dalle galere sovietiche il metropolita ortodosso di Mosca per benedire l´Armata Rossa mentre la Wehrmacht era alle porte. Ma la pretesa di essere il portatore di un endorsment divino in politica non era stata così sfacciata dalla visione di Costantino sul Ponte Milvio. Tutti i concorrenti alla Casa Bianca collassano lungo la via di Damasco. Lo fa la Clinton, la cui devozione ci era rimasta oscura per 60 anni. Barack Hussein Obama, sul quale pesano micidiali insinuazioni di frequentazioni giovanili di moschee, non si perde una funzione nella chiesa della Trinità a Chicago. E non si ricorda un candidato come il pastore battista Mike Huckabee, ex governatore dell´Arkansas, che da simpatica comparsa sta scavalcando nei sondaggi repubblicani i pezzi grossi Giuliani, Romney, McCain e Thompson sparando nei propri spot la dizione "Christian Leader". Dunque un cristiano prima che leader, per una nazione troppo spaventata e confusa dal Dio degli altri (il «Dio cattivo» secondo il generale del Pentagono Boykin) per ricordarsi della Costituzione che vieterebbe ogni test di religiosità in politica (Art VI, sez. 3). Neppure il televangelista Pat Robertson osò mai descriversi prima come «cristiano» e poi come «leader» nella sua corsa presidenziale del 1988. Il senatore Joe Libermann, arrivato a 537 voti dalla vicepresidenza, pur ebreo ortodosso praticante mai si sarebbe sognato di definirsi come un «leader ebreo».
Quello che appare chiaro, nelle nazioni dove più profonda è la diffidenza verso la politica, è che il ricorso a Dio è inversamente proporzionale alla fiducia negli uomini. L´apparentamento al divino, la fuga verso il cielo, è una sorta di bollino di garanzia trascendentale che si può rifiutare, ma non confutare. Quando le benedizioni degli uomini divengono sospette agli occhi dei cittadini, o i propri precedenti terreni sono dubbi, e lì che scatta «l´uso politico del discorso mitico» nella definizione del politologo Stephen O´Leary, l´apparentamento con l´ineffabile e l´indimostrabile. È l´equivalente mistico del leggendario «parola di re» che Farouk d´Egitto oppose agli avversari di poker che chiedevano di vedere i suoi quattro assi. Tony Blair smentì la notizia secondo cui lui e Bush si sarebbero inginocchiati insieme a pregare alla vigilia dell´invasione dell´Iraq. Ma Dio non smentisce nessuno.

l’Unità 4.12.07
Velare e svelare, la doppia vita del velo
di Elena Doni


Oggi è una linea di confine tra le islamiche e le occidentali e da noi è visto come imposizione
È invece anche un segno di identità

IN OGNI SECOLO e in ogni paese un pezzo di stoffa - insieme alla casa - sono stati gli strumenti del potere maschile: ma questo simbolo di costrizione può anche diventare un’arma tutta femminile. Una mostra e tre libri ci raccontano questa storia

O quanti contorcimenti e giravolte, quanti ordini e contrordini nell’eterna illusione maschile di controllare le donne, di nasconderle, o magari anche cancellarle! In ogni secolo e in ogni paese la casa e un pezzo di stoffa sono stati gli strumenti del potere maschile: «il velo e le quattro mura» è un detto del sud-est asiatico in cui viene sintetizzata la vita di una donna «perbene». Ma se la casa diventa spesso, ancora oggi, una prigione il velo ha sempre avuto una doppia vita: di oscuramento e di ornamento, di cancellazione ma anche di seduzione. Comunque, di una serie di significati che nessun altro capo di abbigliamento ha mai avuto. Velo sì, velo no: nel medio Oriente pre-cristiano il velo era per le signore e c’erano frustate per le prostitute se osavano copiarle, in seguito velo per le spose di Maometto perché allora era un segno di distinzione ma quattro secoli prima, nel mondo cristiano, era velo per tutte, per omologare nella «modestia» (secondo il burbero Tertulliamo che scriveva nel 208 d.C.) fanciulle e maritate.
E poi, nell’Italia del Cinquecento velo come dichiarazione anagrafica: velo lungo fino a terra per le «matrone e donne principali», velo solo fino alle spalle per «donzelle e citelle». E quando dovevano uscire di casa, ma solo a Venezia e a Torino, velo a coprire anche il viso. Sempre nel Cinquecento, in Francia, il velo diventa dichiarazione dei redditi: nero per le vedove povere, bianco per le ricche dame e le regine (ancora oggi in Vaticano solo le regine hanno l’autorizzazione a portare il velo bianco davanti al Papa). E dall’Inghilterra di quel secolo che fu detto elisabettiano sono arrivati ritratti della grande regina in cui il velo chiaro, appuntato sulla testa, ricade fino ai piedi aprendosi a ventaglio.
Ancora oggi il velo è utilizzato per messaggi «altri» ed è diventato questione religiosa e identitaria: quindi politica. Il velo è oggi una sorta di linea di confine tra le islamiche e le occidentali e viene spesso creduto dalle donne europee e americane un’imposizione della famiglia, della tradizione e della religione. Ciò può essere vero per le donne immigrate di recente, che vedono nel velo una dichiarazione di fedeltà a quel mondo che hanno dovuto abbandonare, ma spesso il velo è invece una rivendicazione di identità di giovani donne musulmane istruite, sia residenti nei paesi d’origine sia immigrate di seconda generazione. Donne che vogliono percorrere una loro via alla conquista di diritti e di spazi civili senza scimmiottare le occidentali e senza mutuarne certi atteggiamenti che giudicano riprovevoli o anche solo sgradevoli. Non è infrequente nelle città di paesi musulmani vedere ragazze velate figlie di madri che vanno a capo scoperto: a loro le giovani rimproverano di aver accettato supinamente le mode portate dai colonizzatori, mentre le figlie reclamano i loro diritti Corano alla mano. E non sbagliano perché la volontà di condizionare le donne, di rinchiuderle e cancellarle dal consesso civile non è del Profeta ma dei suoi epigoni. Nella sura dedicata alle donne Maometto dice: «Trattatele comunque con gentilezza, ché, se le trattate con disprezzo, può darsi che voi disprezziate cosa in cui Dio ha invece posto un bene grande». Il Profeta era morto da poco che subito un califfo zelante, Umar ibn al-Khattab, ne tradì la volontà imponendo alle donne di coprirsi la testa con l’hijab e designò una figura maschile, l’imam, per fare da guida nelle preghiere, mentre Maometto nella sua casata aveva assegnato questo ruolo a una donna.
Né i cristiani si sono comportati meglio: nei Vangeli ci sono numerose testimonianze della dolcezza, della comprensione, dell’amore che Cristo manifestò sempre per le figure femminili. E se i primi cristiani ebbero un atteggiamento paritario nei confronti delle donne, ben presto arrivarono i primi interdetti, come quello di non potersi avvicinare all’altare, e poi anche la monacazione. Ecco dunque il velo come simbolo d’identità - spose di Gesù - e simbolo della reclusione che ancora oggi, in alcuni conventi di clausura, impedisce alle suore - e per tutta la vita - di essere viste da qualsiasi persona, compresi i parenti stretti. Velate e nascoste da una doppia grata: dove capita talvolta che un padre infili un dito nella speranza che la figlia lo tocchi, rispondendo così al segno d’amore paterno: la punta d’un dito per ricordarsi a una figlia cancellata da un velo. Un’esclusione dal mondo che non è stata mai prevista per il genere maschile, neppure per gli uomini più pii, votati per alcuni ordini al silenzio ma non alla cancellazione di sé.
Opportunamente dunque, a ricordare l’ondivaga storia del velo, le contraddizioni, i malintesi, l’estetica e la simbologia di questo tenue pezzo di stoffa è stata organizzata una grande mostra a Caraglio, in provincia di Cuneo sotto l’egida della Regione Piemonte. Che espone opere prestate da grandi musei e collezioni europee e americane e nel sontuoso catalogo offre saggi di studiosi di formazioni e competenze diverse. Viene passata in rassegna tutta la storia del velo in mondi diversi e la percezione che del velo hanno avuto le donne in altre culture. Che è stata ed è, a seconda dei luoghi, delle epoche e delle persone, disciplinata accettazione, sublimazione del sé, ostentazione vanitosa o anche soluzione di comodo. Perché quando il velo non è un velo, ma un drappo nero calato su tutto il viso o l’opaca prigione del burka, esso difende dalla volgarità licenziosa degli uomini dei paesi di rigida separatezza tra i sessi. Come racconta anche Lilli Gruber, scrivendo dell’Arabia Saudita nel suo ultimo documentatissimo libro Figlie dell’Islam. Curiosa poi la contradditoria percezione del velo da parte di uomini venuti da mondi lontani. Per esempio l’idea diffusa che un mondo lussurioso si nasconda dietro quei visi e quei luoghi proibiti. Lo documenta in Italia la letteratura di viaggio fin dal Quattrocento (vedi La storia velata di Anna Vanzan, Edizioni Lavoro 2006) mentre in tempi più vicini a noi - Ottocento e primo Novecento - l’ammiccamento erotico degli occhi o la lascivia immaginata negli hammam delle donne sono raccontati in Europa dalla pittura orientalistica, da vari romanzi e persino dalle cartoline esotiche di epoca coloniale.
L’ambiguità del velo, più che in queste improbabili fantasticherie si osserva in un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti, ancora oggi. Imposto per spegnere o almeno controllare la femminilità, è stato trasformato dalle donne in oggetto di grande raffinatezza, ricamato e colorato: fino a diventare nel mondo occidentale del Novecento quella contraddizione in termini che fu la veletta, fatta sì per vedere ma soprattutto per essere guardate. Il punitivo chador iraniano si è trasformato in questi anni in un breve velo colorato portato sopra una sorta di lieve passamontagna bianco mentre la tetra prigione del burka viene ricamata con punti perfetti, ton sur ton, da quelle mani destinate poi a scomparire sotto il pesante tessuto di cotone. Il dramma delle donne afgane costrette a portare questo indumento è stato ricordato proprio in questi giorni (l’Unità, 28 novembre) da una giornalista della radio e della televisione di Kabul, Jamila Mujahed, venuta in Italia in occasione dell’uscita di un libro (Burka!, Donzelli e Amnesty International) di fumetti amaramente divertenti di Simona Bassano di Tufillo con un commento, appunto, di Jamila. Ecco come lei racconta il primo giorno, dopo l’arrivo dei talebani, in cui fu costretta a mettere quella «prigione da passeggio»: «Appena indossato il burka, mi sembrò come se il mondo intero a un tratto si facesse buio e io fossi rinchiusa in una prigione strettissima. I forellini che costituivano il mio unico accesso al mondo esterno erano talmente piccoli e odiosi! Sentivo che ero costretta a entrare in una nuova era: il tempo della disgrazia, della discriminazione, dell’abuso e della subalternità, delle prepotenze e della violenza».

Liberazione 4.12.07
Cultura e pratiche della nuova formazione politica possono essere solo rosso-verdi
Un processo costituente per la sinistra
Se non accadrà oggi, non accadrà più
di Alberto Asor Rosa


Sono la persona meno adatta a parlare di "unità delle sinistre". Non sono riuscito a smaltire del tutto la delusione provata in seguito al fallimento della "Camera di consultazione della Sinistra", la quale, avviata da una grande discussione fra l'estate del 2004, e partita con un'entusiasmante Assemblea il 15 gennaio 2005 alla Fiera di Roma (auguri), aveva posto più o meno (ma forse con una maggiore apertura culturale) gli stessi problemi di oggi. Due anni persi, compagni. La delusione fu accresciuta dalla constatazione che le attività della Camera s'interruppero non per contrasti maturati all'interno (il lavoro andava benissimo), ma per una decisione freddamente presa all'esterno, in una sede politica, e per un calcolo meramente elettorale (andare da soli al voto, senza impacci di sorta): quando proprio nel voto, e poi nella successiva, difficilissima attività parlamentare, la già conseguita unità delle sinistre sarebbe stata preziosa; e per noi ci sarebbe stata un'altra storia. Doppio errore, compagni.
Altri errori sono stati commessi nella fase post-elettorale, anche più gravi di questo. Ma lasciamo stare. La questione, dicevo, oggi si ripresenta, con maggior urgenza e, - pare a me, - un po' più di disperazione di prima. Bene. Volete un'opinione? L'unità delle "sinistre radicali" (in qualche modo dobbiamo chiamarle, se non sappiamo di cosa stiamo parlando) è da considerarsi positiva in qualsiasi forma, anche in quella fortemente ambigua e contraddittoria della "sinistra unita e plurale" (formula che, in buona sostanza, significa "sinistra unita e divisa"). Positiva, ripeto, in qualsiasi forma: anche in quella dell'invito a cena o di un semplice cappuccino preso insieme a colazione. Se però si fa sul serio e non per ischerzo, cercherò d'entrare un po' più nel merito; e dirò quali siano secondo me le condizioni in base alle quali si possa passare dal giro di walzer, - un piacevole ma poco stabile e duraturo - ad una più stabile unione. Il discorso sarebbe ovviamente molto lungo. Ma io lo ridurrò qui a quattro punti, schematicamente riassunti (del che chiedo venia in partenza).
Nessuno si è seriamente chiesto finora come dovrebbe essere una formazione della sinistra radicale europea all'inizio del terzo Millennio, e quale di conseguenza (o, meglio, come premessa) la sua cultura. Basilare secondo me che essa sia, - e che la sua cultura sia - rosso-verde. Senza la sintesi di questi due colori, nessuna unità e nessuna radicalità: ossia, nessuna autentica novità nel campo delle forze politiche europee più o meno ancorate alla tradizione (oppure spencolate avventurosamente verso il prossimo futuro come il nostrano Pd, il quale potrebbe rivelarsi il contenitore destinato a produrre, se non duramente condizionato e corretto alla sua sinistra, veri e propri mostri).
Ora, questa sintesi ha dalla sua il fatto che essa corrisponda seriamente alla problematiche dominanti la scena della nostra contemporaneità (e questo è non piccolo fattore di forza): ma è maledettamente complicata e difficile da declinare. Provatevi a coniugare su due piedi sviluppo e sostenibilità, lavoro e ambiente, e vi troverete di fronte a problemi teorici e a difficoltà pratiche d'enorme portata. Che tuttavia non si potrebbe rinunciare ad affrontare se non si desiderasse d'essere riassorbiti nel processo universale della globalizzazione, il quale, da fenomeno economico e sociale, tende sempre più a diventare destino, se nessuno gli si oppone (come molti cercano di persuaderci che sia già avvenuto).
Se cultura e pratiche della nuova formazione politica possono essere solo rosso-verdi, allora è evidente che esse non possono essere più solo rosse. Forse è arrivato il momento, compagni, di archiviare la "questione comunista". Per la parte ch'essa è stata della nostra storia, non abbiamo che da vantarcene. Ma provate a cercare in essa, con animo sereno e disincantato, una risposta, una sola risposta, alle tremende questioni che ci pendono sul capo: e vi accorgerete che nei fondi di magazzino non c'è più niente da usare, se non quell'ineliminabile soffio che ispira solidarietà e spirito critico, e che ci ha fatto essere fin da ragazzi su questa sponda invece che sull'altra. Distogliendo lo sguardo dall'ipnotica fascinazione del glorioso passato, mettiamoci a studiare cosa oggi la realtà nostra e quella mondiale ci riserbano, e cosa quelle future. Tutto ciò ci costerà qualche sforzo intellettuale in più; ma anche una maggiore e più autentica fedeltà all'ispirazione dei nostri progenitori.
Quello che sto cercando di descrivere è più che un programma: è un processo. Un processo costituente. Che può durare anche un anno. Ma deve cominciare da oggi. Se non comincia da oggi, non comincerà mai. E cos'è un processo costituente, se non l'apertura al nuovo, all'inesplorato, all'inorganico? Esiste nella società italiana, - credetemi, - una ricchezza di forze, che stenta a rivelarsi per mancanza di comunicazione. Questa era la grande idea della Camera di consultazione: mettere in rapporto l'interno e l'esterno, l'organizzato e il non organizzato, il partito e l'associazione, il gruppo, il comitato, i singoli individui. Se la Costituente della sinistra radicale sarà davvero fifty-fifty, potremo aspettarci cose grosse. Se dovesse riguardare solo i gruppi politici esistenti, faremo fatica a staccarci dai blocchi di partenza. Si faccia ora il gesto di disponibilità e di apertura, che non s'è fatto allora.
Infine. Siamo proprio sicuri che il proporzionale puro giovi alla nostra causa? Pare a me ch'esso sia concepito soprattutto come il grimaldello con cui realizzare il gigantesco inciucio centrista, al quale non a caso fin da questa settimana si sta tempestivamente lavorando. Sia pure, dunque, il proporzionale: ma con la precisa indicazione del programma e dello schieramento di governo proposto al paese prima, e non dopo, il voto. Questo, ovviamente, soprattutto nell'auspicabile ipotesi che la formazione rosso-verde allora ci sia (catastrofico pensare di andare ai prossimi voti senza). Se ci fosse, una formazione politica del 15% renderebbe assai complicato al Pd (anche questo è un vecchio discorso) muoversi verso l'alleanza centrista si realizzasse, porterebbe la formazione rosso-verde oltre il 20%, sbarrandole comunque, e sia pure in questo caso a posteriori, la strada del governo. A questo proposito (e tanto per concludere con un'affermazione che mi alienerà le ultimissime simpatie): al governo bisogna cercare di restare, di andarci con le unghie e coi denti. Un governo di centro-sinistra è infatti in Italia (nelle condizioni attuali) un'opzione strategica, non tattica. Infatti, non se ne vedono altre nel corso delle prossime generazioni. Restare incollati ai moderati, strappando loro ogni giorno un frammento di potere e una scelta, è l'unica strada possibile. Se saremo più forti, più organici, più coesi, più consapevoli, strapperemo di più finché arriveremo ad essere la maggioranza del centro-sinistra, - cosa tutt'altro che impossibile, anzi tutt'altro che da escludere, anzi, da praticare consapevolmente fin d'ora (perché dovremo restare minoritari in eterno?). Se invece saremo come siamo, faranno di noi ciò che vogliono. Questa è la semplice verità del momento, che raccoglie insieme le quattro cose che volevo dire.