giovedì 6 dicembre 2007

l’Unità 6.12.07
«La sinistra e l’arcobaleno», il nome della Cosa rossa
di Andrea Carugati


C’è il simbolo, ma è considerato solo un segno grafico. Vigilia di Stati generali all’insegna della discordia

ERA IL 1991, nasceva il Pds e Cuore titolava: «Un grande partito, basta che non si parli di politica». Dicembre 2007, nasce la «Sinistra e l’arcobaleno», e quel titolo sarebbe perfetto. Già, perché a due giorni dagli Stati generali della ex Cosa Rossa, che da ieri ha il suo nome e anche il suo «segno grafico» (parlare di «simbolo» è prematuro), l’unica cosa certa è che la Grande assemblea ci sarà sabato e domenica, e che il processo costituente partirà. Hanno dato il via libera al nome ieri i quattro segretari di Prc, Pdci, Verdi e Sinistra democratica, in un vertice mattutino a Montecitorio. In cui si è discusso, eccome, dell’intervista di Bertinotti. Mussi e Diliberto hanno ribadito senza sfumature l’intenzione di dar vita a una forza che non abbia come obiettivo l’opposizione. Giordano ha invece tirato dritto sulla linea del presidente della Camera. Ma si è deciso di passare oltre le divisioni. Diliberto la spiega così: «Abbiamo evitato le polemiche e gli argomenti che ci dividono». E Mussi: «La sinistra unita non sarà una caserma, i passi da compiere devono essere sempre più condivisi». Uno degli argomenti caldi è il simbolo. Che è stato retrocesso a «segno grafico», proprio perché ancora non è chiaro quale uso ne verrà fatto. Lo stesso «segno», nel corso della giornata, è passato da una forma circolare a una quadrata, proprio per perdere la connotazione di simbolo pronto per le schede elettorali. Così come, sempre in giornata, i grafici hanno provveduto a ingrandire la scritta in verde «l’arcobaleno», che rischiava di finire troppo schiacciata dalla rossa «sinistra» e ai Verdi la cosa non andava giù. E così, mentre sulle liste unitarie per le amministrative di primavera ancora non c’è accordo, anche il simbolo soffre. Per Rifondazione (e Mussi), laddove ci saranno liste unitarie, sulle schede ci dovrà essere l’arcobaleno. Non così per il Pdci, che teme una sua scarsa riconoscibilità e preme ancora per inserire all’interno del logo anche i simboletti dei quattro partiti. E in fondo preferirebbe correre ognun per sé, almeno per ora.
Altro nodo della discordia è il referendum che il Prc intende proporre al popolo della sinistra al termine della verifica di gennaio, per decidere se restare o meno nell’esecutivo. Ieri Giordano ha ribadito: «Rifondazione la farà e la proporrà alle altre forze». Ma il Pdci rimanda la proposta al mittente: niente referendum nella nostra base sul governo Prodi.
Discussioni accese anche sull’ordine dei lavori della convention dell’8 e 9 dicembre. A chi tocca aprire? E a chi chiudere? Alla fine si è deciso che i segretari parleranno domenica mattina. Nell’ordine: Pecoraro, Diliberto, Mussi e Giordano. Bertinotti ci sarà ma non prenderà la parola, si è limitato a mandare i suoi «auguri». In pista anche l’ipotesi di una chiusura affidata a Pietro Ingrao, che per ora non trova conferma, anche se la presenza dello storico leader comunista è assicurata. Per l’apertura sono stati scelti due artisti: il comico Andrea Rivera e l’attore Peppe Barra.
Intanto in Rifondazione e anche nel Pdci si levano voci contrarie all’addio alla falce e martello. La minoranza di «Sinistra critica», guidata da Salvatore Cannavò, è già pronta a fare le valigie, lancia la sua costituente anticapitalista proprio per sabato (tra gli ospiti Cremaschi e Casarini) e assicura che, dove potrà, utilizzerà falce e martello alle prossime elezioni. Il gruppo dell’Ernesto, con Claudio Grassi, assicura: «L’arcobaleno tornerà nel cassetto dei quattro segretari. È improponibile unire due partiti diversi come noi e i Verdi». Marco Rizzo del Pdci: «I comunisti sono la maggioranza, è sbagliato cancellare i simboli del lavoro. Lotterò per cambiare questa scelta».
La legge elettorale, infine. Tutti assicurano che al vertice di ieri la questione non è stata affrontata. E che non sarà un tema di discussione neppure nel fine settimana. Certo è che, allo stato attuale, solo Rifondazione spinge decisa per il sistema tedesco. Dunque la vigilia è nervosa. Si punta, tutti uniti, sui cavalli di battaglia della verifica. «Salari, precarietà, ricerca», elenca Mussi. La Sinistra parte da qui.

Corriere della Sera 6.12.07
Testimonianze Per la prima volta in italiano i «Contributi alla filosofia», l'opera che rinnovò la metafisica del pensatore tedesco
La sfida all'eternità
Heidegger rifiuta una Verità al di sopra della Storia ma così nega che l'uomo e il mondo siano necessari
di Emanuele Severino


«Non vi sono tesi somme », ossia «principi », «verità eterne» che sovrastino la storia, il tempo, il divenire. A esprimere questo rifiuto, ormai, non sono soltanto le forme filosofiche del nostro tempo, ma anche la scienza: non soltanto la filosofia — che riferisce tale rifiuto a ogni pensiero e azione dell'uomo, dunque anche a se stessa —, ma anche, e da tempo, la scienza, nella misura in cui essa si libera dall'illusione di essere, oltre che potente, assolutamente vera.
La frase riportata all'inizio è contenuta nei Contributi alla filosofia ( Beiträge zur Philosophie), la grande opera composta da Heidegger tra il 1936 e il 1938, ma mai da lui data alle stampe, e pubblicata postuma nel 1989 per il centenario della nascita del filosofo. L'opera appare ora presso Adelphi, a cura di Franco Volpi, che insieme ad Alessandra Iadicicco ha portato a termine il difficile compito della traduzione.
Nonostante le profonde e suggestive innovazioni rispetto al capolavoro del 1927, Essere e tempo, anche nei Contributi la struttura di fondo del pensiero di Heidegger rimane immutata. A cominciare, appunto, da quel rifiuto di ogni «tesi somma » e di ogni verità eterna e soprastorica. In Essere e tempo si dice: «Che ci siano delle "verità eterne" potrà essere concesso come dimostrato solo se sarà stata fornita la prova che l'Esserci era è e sarà per tutta l'eternità. Fin che questa prova non sarà stata fornita, continueremo a muoverci nel campo delle fantasticherie ». Heidegger sta dicendo che, fino a quando non si proverà che l'uomo (cioè l'«Esserci ») è eterno — eterno, non semplicemente immortale —, sarà solo una fantasticheria parlare di «verità eterne».
Ma per Heidegger è del tutto ovvio che l'uomo (come ogni cosa del mondo) non è eterno e che quindi quella prova non potrà mai esser data— per Heidegger, dico, come per tutti coloro che in qualsiasi campo hanno pensato ed agito da quando, all'inizio della storia dell'Occidente, è apparso il senso del tempo e dell'eterno.
Che nessuna cosa con cui l'uomo abbia a che fare sia eterna è diventata ormai la convinzione più profonda e scontata anche presso la gente comune, tanto che starvi a riflettere sembra una pura perdita di tempo.
Il tempo perduto — che fortunatamente ha forme diverse — i miei scritti l'hanno aumentato di molto, mostrando invece che lo splendore delle cose (anche di quelle terribili) è infinitamente più luminoso di quanto si sia disposti ad ammettere. Hanno cioè indicato, quegli scritti, la necessità che non solo l'uomo, ma tutte le cose siano eterne. Tutte le cose: situazioni, configurazioni, modi di essere, relazioni, attimi, ombre, universi, pensieri, affetti, decisioni, stati visibili e invisibili, nessuna esclusa. Il tempo, la storia, e il comparire e lo scomparire degli eterni. E la necessità che ogni cosa sia eterna è qualcosa di essenzialmente più radicale di quella «prova» dell'eternità dell'uomo che per Heidegger non potrà mai esser data.
Dall'inizio alla fine il tema di questo pensatore è stato «la domanda dell'Essere» ( Seinsfrage).
La domanda — che continua ad attendere la risposta, ma che in questa attesa mostra, per Heidegger, tutta la propria grandezza. L'«Essere » non è l'«ente», non è alcuno degli «enti» (case, fiumi, stelle, pensieri, azioni, uomini, dèi), di ognuno dei quali si dice tuttavia che «è» e che «è» questo e quest'altro. Qual è il senso di questo «è» — ecco la «domanda dell'Essere» —, da cui tutto in qualche modo dipende? Dai Greci a Nietzsche la filosofia è stata riflessione sul senso dell' «ente», ossia è stata «pensiero metafisico», e ha quindi velato la «domanda dell'Essere», pur dando vita alla storia dell'Occidente.
Quella domanda sta, per Heidegger, al di sopra di ogni asserire. Si trova alla sommità del pensare, ma non per questo è una «tesi somma », una «verità assoluta». Essa è «storica ». Anzi, come Nietzsche non ritiene di esser già lui il «super uomo», ma di esserne il profeta, così Heidegger, nei
Contributi, non attribuisce al proprio discorso nemmeno la capacità di costituirsi come l'autentica «domanda dell'Essere », ma solo il carattere di un «pensiero transitorio», che «ai fini della comunicazione deve spesso procedere ancora lungo il tracciato del pensiero metafisico», e i cui «sforzi» «saranno un giorno superflui e ricadranno nell'accidentale » (p. 419). In una conferenza pubblicata nel 1964 e intitolata La fine della filosofia e il compito del pensiero, Heidegger aggiungerà che al proprio pensiero «non può esser riconosciuta alcuna azione immediata o mediata sulla dimensione pubblica dell'epoca industriale, improntata dalla scienza-tecnica», e che «il suo compito ha solo un carattere preparatorio e nient'affatto fondante », giacché «gli basta risvegliare una disponibilità dell'uomo per una possibilità, i cui tratti restano oscuri e il cui avvenire incerto».
Va tuttavia anche detto che queste affermazioni non sono affatto, come Heidegger esplicitamente dichiara, espressione di una «falsa modestia », giacché quell'oscurità e incertezza, quella incapacità di influire sul mondo della tecnica, quel carattere preparatorio e non fondante non sono, per lui, semplici caratteri della scrittura dell'individuo Heidegger, ma sono insieme, e addirittura primariamente, il modo in cui l'«Essere» stesso si vela e si ritrae dall'epoca presente. E lo stesso si può dire di quella «superfluità » e «accidentalità» che nei Contributi Heidegger attribuisce al proprio pensiero. I Contributi sono pertanto grandi prove di una filosofia che vorrebbe allontanarsi dalla tradizione metafisica, pur riconoscendo tutte le difficoltà a cui questo tentativo va incontro, ma insieme essendo convinta che tali difficoltà non sono dovute alle carenze di un certo individuo umano, ma sono le difficoltà in cui le cose stesse si trovano e secondo le quali si costituiscono.
D'altra parte destano sorpresa molte delle tesi, peraltro suggestive, che si incontrano nei Contributi. Sembrano andare troppo più in là di quanto secondo lo stesso Heidegger sia lecito. Ad esempio le tesi dei «venturi», dell'«ultimo Dio» («quello del tutto diverso rispetto agli dèi già stati, specie rispetto al Dio cristiano»), del modo in cui l'«Essere », «vibrando», «oscillando», «fendendosi », si appropria del mondo. Heidegger intende «rovesciare» la metafisica senza abolirla (e il timbro della sua filosofia risulta fortemente neoplatonico), senza cioè abolire la fede di cui parlavo e che guida l'Occidente e ormai il Pianeta: la fede che l'uomo e le cose non sono eterne. Tra i temi più in vista e operanti, nei Contributi, quello del «creare», che è concetto essenzialmente «metafisico». («Quanto è lontano da noi il Dio, quello che ci nomina fondatori e creatori, perché di costoro ha bisogno la sua essenza?»). Ma — dico — nessuna cosa creata è eterna. È creata proprio perché non è eterna. Nessun creatore crea l'eterno. E dell'«Essere» stesso Heidegger esclude che sia eterno. L'«Essere » stesso è «storico».
Ma questa fede nella non eternità di ciò che è non esprime forse la follia estrema? non pensa forse che ciò che è non è (giacché non è eterno)? che il non niente è niente? che cioè gli essenti sono il nulla? certo questa non è come la domanda di Heidegger. Qui è la Risposta — positiva e già da sempre data e non da uno di noi, ma dalla necessità — a sorreggere la domanda.

Corriere della Sera 6.12.07
Il terrorismo in Italia e Germania
Quegli anni rosso sangue
di Vittorio Grevi


Molti probabilmente avranno dimenticato (o forse non erano nemmeno nati) quali ventate di follia criminosa abbiano investito, tra gli anni 70 e gli anni 80, certi esponenti delle generazioni che avevano vissuto, nel bene e nel male, l'esperienza del Sessantotto, fino a condurli ad imboccare la strada della lotta armata contro le istituzioni dello Stato. Difetti di memoria e cortine di oblìo rispetto ad un'epoca tanto tragica per la storia del nostro Paese sono sintomi preoccupanti, anche perché sembrano riflettere una tendenza — più o meno consapevole — alla rimozione collettiva del ricordo degli "anni di piombo". Con l'ulteriore rischio della sua, spesso acritica, sostituzione con le versioni fornite dai responsabili delle gesta di quegli anni, che oggi non di rado, attraverso il veicolo di libri o di interviste, assumono (e talora si vedono riconosciuta) quasi un'aureola di protagonisti positivi. Il tutto nella più totale dimenticanza dei crimini da loro commessi e del sangue versato dalle loro vittime.
Non mancano, tuttavia, le ricerche serie e documentate dirette a descrivere il contesto storico e sociale di quella stagione, le modalità e gli sviluppi del fenomeno terroristico, i suoi collegamenti e le sue manifestazioni anche all'estero. E proprio in questa prospettiva merita di essere segnalato il saggio ( Terrorismo e società, Il Mulino, pagine 296, e 22) che la giovane storica Marica Tolomelli ha dedicato alla analisi del «pubblico dibattito in Italia e in Germania negli anni 70» sull'argomento.
La particolare angolazione dell'approccio parallelo alle realtà del terrorismo italiano e tedesco lungo il decennio considerato è giustificata dalla analogia delle organizzazioni eversive (in particolare, le Brigate Rosse e la Rote Armee Fraktion) e delle loro strategie criminali (culminate,rispettivamente, nel sequestro-omicidio Moro del 1978 e nel sequestro- omicidio Schleyer del 1977); anche se significative differenze si possono cogliere sul piano delle origini, del radicamento sociale e della dimensione politica dei due fenomeni terroristici. Su tutti questi aspetti il volume si sofferma grazie ad un accurato approfondimento delle fonti di documentazione in Italia e in Germania, dedicando bensì ampio spazio alle "campagne" di lotta armata tra l'autunno 1977 e la primavera 1978, ma preoccupandosi soprattutto di cogliere anche le tensioni del dibattito politico e culturale sviluppatosi nei due Paesi e, quindi, il senso della percezione sociale del terrorismo nelle retrostanti opinioni pubbliche. E la sensazione comune era che in entrambi gli Stati il terrorismo avesse lanciato una sfida fatale per la stessa "tenuta" dei due ancor giovani sistemi democratici.
Quello dei rapporti tra ordinamenti democratici e strumenti di difesa sociale contro l'offensiva terroristica è uno dei capitoli centrali del moderno costituzionalismo. Si tratta di un problema di fondo, com'è stato ampiamente documentato anche in un volume di Paolo Bonetti («Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche», il Mulino, pp. 332, e 20), con riferimento al quale si misurano le capacità di ogni ordinamento di resistere all'attacco della violenza eversiva, salvaguardando però le garanzie proprie delle moderne democrazie.
In particolare, per quanto riguarda il nostro Paese, la sfida del terrorismo fu respinta senza far ricorso a leggi eccezionali, ma rimanendo all'interno dei confini definiti dalla Carta costituzionale. E, semmai, facendo leva su interventi legislativi che, pur ispirati alla obiettiva peculiarità delle indagini e dei processi per fatti terroristici, si limitarono a ”sfruttare” per quanto possibile i margini di ragionevole elasticità di quei confini. Al di là della esperienza italiana, tuttavia, è di estremo interesse poter analizzare e verificare attraverso quali strumenti i diversi sistemi democratici siano in grado di affrontare gli attacchi del terrorismo, pur restando "democrazie". Ed è questo, per l'appunto, uno dei grandi pregi dello studio di Bonetti, che — anche mediante opportune comparazioni — offre al lettore un quadro compiuto e aggiornato della questione.

Repubblica 6.12.07
Se la violenza sulle donne viene dalla legge
di Stefano Rodotà


VI SONO forme di violenza insistita e continua che si impadroniscono della vita delle persone, ma sono pure rivelatrici dell´ipocrisia e dell´inadeguatezza delle istituzioni pubbliche. I fatti ce lo ricordano quasi ogni giorno, e quelli più recenti sono particolarmente inquietanti e rivelatori. Mi riferisco ai nuovi dati sulla fuga all´estero delle coppie che cercano di liberarsi dalle maglie proibizioniste della legge sulla procreazione assistita; all´inadeguatezza drammatica delle terapie contro il dolore; alle ruspe che abbattono ciecamente povere baracche in desolate periferie urbane. Sono tutte manifestazioni di una violenza pubblica che genera tensioni, conflitti, sfiducia, e dalla quale non è possibile distogliere lo sguardo o, peggio, allontanarsi progressivamente con una sorta di rassegnata accettazione.
Negli stessi giorni in cui le donne tornavano in piazza non per "manifestare", ma per cercar di ricostruire una consapevolezza comune di quanta sia la violenza che si esercita sul corpo femminile, si è avuta la conferma di una serie di effetti negativi della legge 40, riferiti questa volta al calo delle nascite, all´aumento delle gravidanze plurime, ai nuovi itinerari del "turismo procreativo". Tutte vicende che rientrano proprio in quella categoria della violenza che il 24 novembre si è voluto ricordare, figlia dell´espropriazione del potere femminile di autodeterminarsi, della rinnovata considerazione del corpo della donna come "luogo pubblico" sul quale i legislatori possono impunemente intervenire. E, come sempre accade in questi casi, emergono contraddizioni, ipocrisie.
Dagli stessi luoghi politici ed istituzionali nei quali si esprimeva preoccupazione per la caduta della natalità sono venute regole che hanno avuto come effetto la riduzione dei tentativi di gravidanza con esito positivo (dal 24.8% al 21.2%) ed una diminuzione delle nascite stimata nel 3.6% dal giorno dell´entrata in vigore della legge 40, che dunque sarebbe bene cominciare a definire come quella della "non procreazione" assistita.
I convinti avversari dell´aborto hanno innescato un meccanismo pericoloso che, a causa soprattutto dell´obbligo di impiantare tutti gli embrioni prodotti, ha fatto crescere le gravidanze trigemine (2.7% contro una media dell´1.1% nel restante mondo occidentale) e quindi le interruzioni parziali di gravidanza, aumentate del 100%. Quelli che hanno tuonato contro un enfatizzato far west procreativo sono i responsabili del vero far west nel quale sono state spinte nel solo 2007 già seimila coppie, obbligate ad aggirarsi per l´Europa alla ricerca di cliniche "low cost" per aver accesso a quelle tecniche di procreazione assistita proibite in Italia.
Anche questa è violenza domestica, quella contro la quale sono scese in piazza le donne. Ma questa volta, tra le mura domestiche, l´aggressione non viene dagli uomini lì presenti. Arriva da un legislatore che incarna la logica del potere maschile, quella stessa che in alcuni stati americani aveva fatto nascere i "guardiani della mezzanotte", che entravano nelle case delle donne sole beneficiarie di un sussidio pubblico e, se le trovavano a letto con un uomo, cancellavano il sussidio, considerandole automaticamente "mantenute" da quell´uomo, e non esseri liberi che esercitavano la loro libertà sessuale. Dall´agenda politica questi temi sono stati espulsi. Troppo scottanti per una maggioranza divisa, che sta sacrificando la realtà al realismo politico ed alla presa delle ideologie? Poco redditizi sul piano del consenso, perché le persone interessate sono poche migliaia? Le persone in carne ed ossa, dunque, sono cancellate quando non sono parte di grandi numeri?
Le speranze residue di questo tempo difficile sono affidate alle nuove direttive che, per la procreazione assistita, dovranno venire dal ministero della Salute. Ci si deve attendere che scompaiano almeno le forzature imposte alle linee direttive precedenti, prima tra tutte quella riguardante il divieto della diagnosi preimpianto, la cui illegittimità è stata dimostrata in modo chiarissimo da una bella ordinanza del tribunale di Cagliari. Questa decisione, e quelle altrettanto eloquenti del tribunale di Roma sul legittimo comportamento dell´anestesista nel caso Welby e della Cassazione sul diritto all´interruzione dei trattamenti per le persone in stato vegetativo permanente, indicano la strada dei principi costituzionali come l´unica legittima quando si vuol fare riferimento ai valori che devono ispirare l´azione di Parlamento e Governo. Un grande interrogativo è davanti a noi. La nuova stagione costituzionale consisterà soltanto nella "manutenzione" dei meccanismi istituzionali o, come dovrebbe, rimetterà al centro dell´attenzione la dimensione delle libertà e dei diritti, offuscata in questi anni?
Se questo non avverrà, violenze e ipocrisie continueranno a tenere il campo. Con toni perentori, a chi parla di dignità del morire si oppone la necessità di considerare piuttosto le cure palliative, le terapie antidolore. Ora, a parte il fatto che le due cose non sono affatto incompatibili, guardiamo di nuovo ad una realtà che ci parla di un´Italia ultima nell´Unione europea proprio nelle terapie antidolore, come risulta da un rapporto dell´Organizzazione mondiale della sanità. I calcoli fatti portano a concludere che ogni anno muoiono novantamila malati di cancro senza terapie del dolore, e questa cifra sale assai se si considera che il numero dei sofferenti di patologie diverse dal cancro oscilla tra il 15% e il 20% della popolazione. "La tragica condizione in cui versa la terapia del dolore in Italia è paragonabile alla tortura per omissione" – è stato il commento. La dignità della persona, tanto citata nella chiacchiera pubblica, è negata nei fatti dall´inadeguatezza delle strutture, dalla resistenza dei pregiudizi contro l´uso degli oppiacei, dal persistere di argomentazioni che guardano al dolore quasi che fosse un valore che dà un senso più profondo all´esistenza. Dolore privato e indifferenza pubblica? In quale agenda politica riusciremo a cogliere la consapevolezza dell´immoralità di questa violenza continua, anch´essa domestica, che colpisce alla radice l´umanità stessa di ciascuno e di tutti?
Se seguiamo il filo dei numeri, dei drammi dell´esistere, della violenza sociale, incontriamo le persone, milioni ormai, che vivono la condizione della marginalità, dell´"altro" che accettiamo come produttore di servizi e allontaniamo come essere umano, che confiniamo lontano da noi, in condizioni di vita intollerabili che scopriamo quando producono violenza e per le quali l´unica attenzione istituzionale diventa allora quella dell´ordine pubblico. Delle ruspe che spianano i rifugi dove si sopravvive, dove torna un bambino e scopre che con la sua misera abitazione sono scomparsi anche i suoi libri di scuola. Il caso singolo viene magari risolto felicemente, e il libro "Cuore" torna tra noi. Ma rimane una condizione umana, così ben raccontata da Citto Maselli nell´ultimo suo film, che fin dal titolo, Civico 0, ci parla appunto dell´azzeramento della cittadinanza in un mondo dove, al di là delle singole storie, l´umanità è negata in radice, messa ai margini di strade incessantemente percorse dal fragore del traffico, ridotta a scoria e rifiuto, quasi indistinguibile dai cassonetti nei quali fruga.
Da qui, da questi diversi aspetti della condizione umana, dovrebbe pure muovere una politica che si vuole umana, che aspira a produrre una "agenda" riconoscibile dalle persone, che cerca e trova protagonisti diversi dalle maschere fisse che compaiono nei salotti televisivi. Non è retorica, populismo, buonismo. E´ semplicemente la vita. Se la politica la perde, perde se stessa.

Repubblica 6.12.07
Scompare l'ultima falce e martello
di Filippo Ceccarelli


«Falce martello e la stella d´Italia/ ornano nuovi la sala. Ma quanto/ dolore per quel segno su quel muro». Così Umberto Saba, al teatro degli Artigianelli, «quale lo vide il poeta nel mille/ novecentoquarantaquattro, un giorno», nella Firenze appena liberata, dove ancora «rombava il cannone». La lirica resta commovente, ma da oggi la falce e il martello spariscono dalla vita pubblica italiana.
Al termine di una intricata e defatigante controversia di natura non del tutto allegorica, i rappresentanti di un´entità ancora provvisoriamente nominata come "la Cosa rossa" hanno deciso di fare a meno dell´antico simbolo del lavoro. Il quale venne adottato dal Partito socialista nel 1919, al congresso di Bologna, ordine del giorno a firma di Nicolino Bombacci (che poi ebbe una vita assai complicata), quando tutto spingeva a «fare come la Russia».
Di pura utensileria bolscevica in effetti si trattava. Nel dopoguerra si presero la falce e martello i diversi partiti della sinistra, senza che questo creasse problemi di copyright. Fu Renato Guttuso, con la consulenza di Antonello Trombadori, a disegnare l´emblema stilizzato del Pci, mentre Nenni depose quei due strumenti, graficamente già allora un po´ antiquati, su un libro, Il Capitale; e dietro poi spuntò anche un sole nascente.
All´inizio degli anni ottanta, con un blitz semantico orchestrato dallo scenografo Panseca, Bettino Craxi prima miniaturizzò la falce e martello e poi la fece definitivamente cancellare, con alti lamenti e risentimenti dei tradizionalisti, tra cui Pertini. Quindi prese di nuovo in pugno quei due strumenti, ma per scagliarli addosso ai comunisti, che per qualche anno fecero i superiori. E tuttavia, divenuti «ex» e «post», questi ultimi si lacerarono anche sulla falce e sul martello, chi rivendicandone anche in competizione giudiziaria la piena visibilità (Rifondazione e poi Pdci) e chi (Pds e Ds) attuando un astuto e tutto sommato indolore processo di rimpiazzamento e rimpicciolimento.
Il guaio dei simboli, se di guaio di tratta, e non di una regolarità che ha a che fare con la storia, è che non rimangono tali per sempre. Pensieri, poesie, canzoni, oggetti, pitture, bandiere, variazioni di fede e di propaganda: per quasi un secolo la falce e il martello hanno alimentato e a volte anche incendiato l´immaginario di quattro generazioni. Ma poi arriva un momento in cui il simbolo non penetra più il cuore nascosto, né parla più all´inconscio del militante: e allora è come se avesse perso la sua prodigiosa energia.
Che la fine della falce e martello, circostanza per tanti aspetti epocale, si sia ieri rivelata grazie alla tacita certificazione degli onorevoli Diliberto, Giordano, Mussi e Pecoraro Scanio, tanto per cambiare chiusi dentro una stanza, attorno a un tavolo, è questione che conferma questa perdita, ormai, di potere ideale e di significato psichico. Così come era del tutto prevedibile che qualcun altro si sia già offerto di raccogliere e riutilizzare l´emblema: un po´ per autentica nostalgia, ma forse anche con l´ideuzza che quel residuo sacramentale gli possa far guadagnare qualche voto nel piccolo mondo antico delle abitudini e dei sentimenti. Ovviamente, i dignitari della «Cosa rossa» si sono ben cautelati: e perciò, come sempre in Italia, ci sarà lavoro per gli avvocati.
Ma forse c´è anche da dire che falce e martello, da simbolo nel senso più pieno della parola («Ma quanto dolore per quel segno»!), era inesorabilmente degradato a stemma, marchio, logo, contrassegno. Pretesto di audaci stilisti trasgressivi o spiritosamente impresso sulle mattonelle del bagno del compagno «G», Primo Greganti. Spilletta regalata da Pierferdy Casini a Nichi Vendola. Un giorno lo si immaginò addirittura tatuato sul seno di una sedicente nipotina di Bertinotti. E insomma, addio, senza rancori.
Nel frattempo i maggiorenti della «Cosa rossa» hanno scelto l´arcobaleno. Che ha il vantaggio di essere un logo omologabile fin dall´inizio, ma la curiosa controindicazione di essere stato usato da Prodi e da tutto il centrosinistra, compreso Mastella, alle elezioni del 2005. Poi lo cambiarono, o se ne scordarono: com´è logico in un paese dove tutto sembra sempre così uguale e così diverso.

Liberazione 6.12.07
Intervista all'ex di Potop: «L'Unione è fallita, è vero, ma anche la Cosa rossa non sta bene»
Piperno: «Bertinotti massimalista?
Io vedo solo minimalisti»
di Checchino Antonini


«Ho apprezzato le cose dette da Bertinotti. Ho avuto a lungo il timore di una sua timidezza per il fatto che è incastonato in una carica istituzionale». All'altro capo del filo, da Cosenza, Franco Piperno commenta la dichiarazione di fallimento dell'Unione pronunciata dal presidente della Camera su Repubblica . «Ora, sulla stampa, questo suo giro viene bollato di massimalismo: ma qui vedo solo minimalisti. I massimalisti volevano la rivoluzione subito, qui, invece, si discute se i turni per la qualifica di lavoro usurante debbano essere 79 anziché 80. La sinistra radicale ha finito per far trincea su rivendicazioni minime che non sono passate ma anche se lo fossero sarebbero state un'aspirina».
Sostiene Piperno che lo stesso difetto aveva viziato la costruzione del 20 ottobre: «Lo dico senza offesa, ma quell'evento è stato concepito nel modo più tradizionale, per rafforzare i "nostri" emissari in Parlamento nella polemica contro Dini», spiega il leader sessantottino di Potere operaio, ora docente di Astronomia percettiva ad Arcavacata, l'università della Calabria. Da sempre vicino ai movimenti, Piperno, a cavallo del millennio, ha anche fatto l'assessore alla Cultura di Cosenza. Dopo due anni di Unione si registra un «clima pazzesco» rispetto allo «slancio vitale registrato persino alle ultime elezioni segnate da elementi di speranza, meglio, da elementi di attesa. Tutto ciò viene reso centesimale nella battaglia istituzionale».
Dunque «meglio tardi che mai» le parole di Bertinotti: «Ha avuto il merito di rendere chiara una cosa già avvenuta da mesi» ma il "pessimismo" politico di Piperno non sembra essere smussato dai nuovi avvenimenti: «Se posso esprimere un parere - dice - l'Unione è fallita ma anche la Cosa rossa non sta bene: sempre più cromatica, con il rosso ridotto a uno dei sette colori. Il nuovo simbolo serve a tradurre il bisogno di indeterminatezza dei ceti dirigenti, cancella ogni determinazione anche delle sconfitte che abbiamo vissuto. Si pensi all'allentamento semantico del Partito democratico: alla prossima fusione si chiameranno "Umani". Si chiamavano comunisti e, quand'ero giovane, venni cacciato perché gli dicevo che non lo erano più. Proprio come ha sempre sostenuto Veltroni». Il processo unitario, per Piperno, nasce «condizionato» da una presenza parlamentare squilibrata». In sintesi, l'ex sinistra ds ha oggi un peso improbabile in caso di nuove elezioni. «Questo accentua una sorta di chimica dei partiti - continua - una composizione della burocrazia, la mia impressione è che, così costruita, si infili nel budello delle riforme istituzionali perdendo i canali di comunicazione col movimento. Eppure, solo qualche anno fa, Bertinotti aveva accennato l'idea di un partito che fosse un "pesce nel mare dei movimenti". Sembrava attribuire ai movimenti un carattere strategico, poi una marcia di allontanamento, un rinserrarsi nella dimensione di partito. Invece, il ruolo di Rifondazione, della Fiom, è interessante perché rappresentano la tradizione del movimento operaio. E ai movimenti non è possibile prescindere dal movimento che li ha generati. Non è possibile una rottura senza un processo autocritico. Proprio questo rapporto con la sconfitta del movimento operaio è l'antidoto a elementi di nichilismo e distruttivi presenti in alcuni settori dei movimenti».
E, se è «preoccupante» la «blindatura burocratica» della Cosa rossa, non meno «spettrale» appare, agli occhi di Piperno la Sinistra europea che ha osservato nell'assemblea nazionale, lo scorso week end a Lametia Terme. «Ho assistito a un atto di morte più che di vita - dice - un'assemblea che alludeva soprattutto a una spartizione frettolosa nell'organigramma della futura cosa rossa».
«In gran parte dipende dallo stesso movimento», chiarisce intendendo per movimento non solo la galassia no global e quella dei centri sociali ma «tutti i luoghi dove si forma comunità, dove si produce una socialità diversa dai rapporti mediati dal denaro». Il movimento è soprattutto locale e, a livello nazionale, per Piperno «si rappresenta come ceto politico. Non è che uno è salvo se non valica il luogo "mostruoso" di un'istituzione. Però questa mancanza di strutturazione (Piperno propone un'organizzazione per delegati su mandati vincolanti, una «dimensione soviettista») blocca a chi si impegna su «pratiche differenti da quelle di delega e rappresentanza» un rapporto diverso con i partiti, il Prc, in primis. «Ma unirsi perché anche il Pd lo fa mi pare una cosa di grande astrattezza. Sono più interessato al serbatoio vitale che sono i giovani di Rifondazione, specie nel Sud, spesso l'unico serbatoio aggregativo che nasce da una dimensione sociale piuttosto che libresca, magari estranei al partito degli adulti. Ci trovo lo stesso tipo di inquietudine che spinge a mettere in gioco i propri corpi, lo vedi quando accadono le insorgenze di paese, che riscoprono l'identità dei luoghi, la comunità».

Liberazione 6.12.07
Il decreto anti-rom e il sogno del pastore nero americano
Rileggetevi quel discorso di Luther King...
di Piero Sansonetti


«Ho un sogno: che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo: che tutti gli uomini sono stati creati uguali...»
«Ho un sogno, che un giorno, sulle rosse colline della Georgia, i figli degli antichi schiavi e i figli degli antichi proprietari di schiavi riusciranno a sedersi insieme al tavolo della fratellanza...»
«Ho un sogno oggi! Ho un sogno, che un giorno, giù in Alabama, con i suoi razzisti immorali, con il suo governatore le cui labbra gocciolano delle parole "interposizione" e "annientamento" - un giorno proprio là in Alabama bambini neri e bambine nere possano prendersi per mano con bambini bianchi e bambine bianche come sorelle e fratelli...»
«Ho un sogno oggi! Ho un sogno, che un giorno ogni valle sia colmata, e ogni monte e colle siano abbassati, i luoghi tortuosi vengano resi piani e i luoghi curvi raddrizzati. Allora la gloria del Signore sarà rivelata ed ogni carne la vedrà...».
Le avete riconosciute, vero, queste righe? Lo sapete chi le ha scritte, e le ha urlate in una piazza di Washington più di quaranta anni fa? E' stato un pastore battista americano, nero, geniale, mite e forte, incrollabile, dialogante e testardo, che i fascisti americani, razzisti e reazionari, uccisero a fucilate in una mattina di aprile del 1968. Lo sapete che si chiamava Martin Luther King jr, e che è stato il padre della non violenza moderna e uno dei leader della lotta di massa degli afro-americani. Provate a sostituire - in quel discorso da brividi - alla parola nero la parola rom, o la parola straniero, o migrante, o extracomunitario; pensate per un attimo, invece che al governatore dell'Alabama - il feroce George Wallace - a un governatore di qualche regione italiana o sindaco o roba del genere, provate a immaginare che le parole «colline», e «luoghi curvi e tortuosi», si possano sostituire con la parola «confine di stato» - o di razza, o di popolo - perché è esattamente in quel senso che il dottor King adoperava quelle metafore. E poi ditemi se il sogno di King ha ancora un senso, se riguarda anche noi, se riguarda l'Italia del 2007 e le sue istituzioni.
Io - che non credo in Dio, e tantomeno credo alla gloria del Signore - ho il sogno che stamattina tutti i senatori della Repubblica italiana, di destra e di sinistra, prima di votare il decreto sulla sicurezza (il decreto anti-rom) leggano il discorso di King e ci riflettano su un paio di minuti. Penso che se lo fanno, il decreto verrà davvero stravolto dagli emendamenti, oppure verrà bocciato.
Naturalmente io so benissimo cosa è la realpolitik. Conosco le sue leggi, la necessità talvolta di anteporre le relazioni politiche ad altre considerazioni, di accettare i compromessi, di valutare tutte le conseguenze di ogni atto politico - e non solo il merito, la specificità di quell'atto. E quindi capisco che in queste ore il Parlamento (ieri ed oggi il Senato e poi la Camera) sia impegnato in una battaglia politica delicatissima, con l'obiettivo, o la speranza, di ridurre i danni che questo decreto anti-rom porterà ai grandi principi della civiltà, e di impedire al tempo stesso la caduta del governo. E quindi non posso che apprezzare lo sforzo titanico che i senatori della sinistra stanno compiendo, e insieme a loro anche alcuni parlamentari ex-Ds e alcuni cattolici.
Però - lo ammetterete - è difficile non fremere di rabbia di fronte a quello che sta avvenendo in questo paese: cioè alla freddezza cinica con la quale sono stati mandati al macero i principi fondamentali della civiltà (quel sogno di King: la consapevolezza che gli esseri umani sono tutti uguali, cioè sono fatti della stessa carne e anima ed hanno gli stessi diritti) per calcoli elettorali, per piccole manovre che stanno dentro un gioco che consiste nella conquista (o nella speranza di conquista) di qualche pezzo di opinione pubblica e di elettorato conservatori e xenofobi.
Da parte della destra e da parte di settori significativi anche del centrosinistra.
Lo so che molte parti di questo decreto - anche alcune delle parti peggiori - erano state anticipate da un precedente decreto governativo (del gennaio di quest'anno) che poneva dei limiti ai diritti dei cittadini stranieri, basati sulla loro ricchezza (cioè escludeva i più poveri da questi diritti, ed escludeva le persone sfruttate con il lavoro nero dagli imprenditori italiani). Nessuno si era accorto dell'esistenza di questo decreto, finché non lo ha scovato, e usato, il sindaco leghista di Cittadella, in Veneto, suscitando una indignazione generale - dei politici, dei giornali - che è durata quasi 48 ore filate e poi si è spenta. Ma non era meglio cancellarlo questo decreto assurdo, feudale, invece di rafforzarlo e rilanciarlo? Certe volte mi chiedo: ma per quale ragione l'abbiamo fatta l'Europa, per quale ragione abbiamo buttato via i confini? Per qualche ragione ideale? Temo che in realtà non abbiamo cancellato i confini ma solo le dogane, e che l'Europa è un affare che riguarda i mercati, non i principi, i diritti, gli esseri umani.
Lo so che è impensabile una crisi di governo su un decreto di bandiera, voluto per motivi di bandiera, per motivi elettorali, da alcuni partiti e da alcuni leader, e che non modifica gli interessi e i diritti degli italiani, ma si limita a colpire solo gli immigrati più poveri, e in modo speciale i rom, cioè la popolazione più ininfluente politicamente d'Europa, e la più perseguitata. Che risultati si avrebbero da una crisi di governo aperta così? L'ira della stragrande maggioranza della popolazione e basta. In cambio di qualcosa? In cambio della semplice affermazione teorica di uno dei modestissimi principi della rivoluzione francese... Che ancora deve arrivare sulle rosse colline della Georgia, e che forse è già scomparso anche dagli Appennini e dalle Alpi.

Liberazione 5.12.07
Revelli: «Stupisce tanto stupore, Bertinotti dà un nome alle cose»
di Anubi D'Avossa Lussurgiu


Intervista sull'intervista: «Sento da certi demiurghi della "Cosa rossa" una preoccupante sottovalutazione del contesto
E solo l'ipocrisia può attribuire al presidente della Camera la liquidazione di Prodi, dopo la bomba atomica del Piddì»

Marco Revelli, ci risentiamo: cosa pensi, professore, di quest'intervista a la Repubblica di Fausto Bertinotti? E soprattutto come ti spieghi le reazioni di repulsa nei confronti del suo bilancio sul centrosinistra che ha «fallito»?
La mia impressione, da outsider rispetto alla "macchina" politica, è che mi stupisce... lo stupore. Mi pare che Bertinotti abbia detto cose di assoluto buon senso e che stanno sotto gli occhi di tutti. Semplicemente ha dato un nome alle cose. Che questo anno e mezzo di esperienza sia, usando l'eufemismo più dolce che riesco ad immaginare, deludente; e tanto più deludente quanto più si considera che era stato visto da tanta parte del Paese come una sorta di "ultima occasione": bene, questo bilancio è sotto gli occhi di tutti. Appunto come dice Bertinotti, c'è un elenco intero di riprove: dal terreno della guerra alla giustizia, dal terreno dei diritti dei migranti alla questione sociale, dalle politiche di contrasto alla povertà al welfare.

C'è però chi evoca lo spettro del 1998, quasi peccato originale bertinottiano; non sembra invece l'ombra di Banco d'una politica - specificamente questa formula di centrosinistra - sott'assedio da sé stessa, dalla voragine di crisi democratica della quale abbiamo già parlato?
Bertinotti distingue opportuntamente - direi dando prova di nervi saldissimi, nella condizione attuale - il piano della tattica da quello della strategia. Dicendo che su quest'ultimo siamo «oltre». Qui, ripeto quel che ho già avuto modo d'osservare altre volte: se vogliamo dire le cose come stanno una forza politica centrale, da cui si levano tante delle voci che accusano ora Bertinotti, quale è il Partito democratico, si è già posta oltre. E sul piano della strategia e su quello della tattica. La vera liquidazione di Prodi, su entrambi i piani, l'hanno operata i fondatori del Pd. Unilateralmente si è scelto di modificare la struttura stessa del sistema politico italiano; in maniera tale che chiunque poteva vedere come si trattasse, anche, d'una liquidazione di Prodi.

Ma è lo stesso Walter Veltroni, adesso, a stigmatizzare la «messa in crisi» del governo come portato delle parole di Bertinotti. Presunzione d'ipocrisia a parte, non si vuole forse rimarcare una cifra di fondo del Piddì: il "taglio dell'ala", quella sinistra?
Sì, ma così, in queste circostanze concrete, lo si fa sotto un profilo di puro illusionismo politico. Cioè ad uso e consumo esclusivi della "corte" che fa finta d'essere ingenua quando questi trucchi li conosce perfettamente. Sostenere che lo strappo è quello di Bertinotti dopo aver lanciato una bomba atomica sul governo Prodi, a me pare solo un'operazione di cattiva retorica politica.

C'è un problema: prendono le distanze anche protagonisti del tentativo unitario a sinistra. Un refrain è che una sinistra «più grande» non può nascere se non con «una vocazione di governo», ergo non può fare "strappi" con quello del quale le sue componenti oggi fanno parte...
Ho l'impressione che a sinistra, nelle variegate sinistre, ci sia una preoccupante sottovalutazione del grado di pericolo della situazione attuale. Colgo come una sensazione che si sia ai preliminari d'una partita a scacchi molto lunga e senza una posta precisa o quanto meno immediata. Io, invece, sono terrorizzato. E non vedo questa preoccupazione tra certi demiurghi della "Cosa rossa". Percepisco anzi una sorta di approccio ragionieristico: che è perfettamente non all'altezza della situazione. Perché in atto c'è lo sciogliemento delle due coalizioni, che è in atto concretamente, e insieme la fine del bipolarismo conosciuto. Ma c'è contemporaneamente la liquefazione in un processo molto confuso da una parte di Ds e Margherita e dall'altra di Forza Italia: con Veltroni e Berlusconi entità magmatiche e gassose, leader di partiti-non partiti o che stanno per partire, che si pongono in una funzione costituente. Le consultazioni di Veltroni sono al di fuori di qualsiasi procedura istituzionale controllata e controllabile: il leader del partito che non c'è ancora si fa perno di un sistema di negoziazione sul futuro istituzionale. E' una situazione di assoluta anomalia: c'è una politica liquida, non solo la società. Si cambiano nel corso del gioco le sue regole, da parte di giocatori mutanti. Sullo sfondo d'una situazione economica e sociale preoccupante, con una società che cova veleni e pericoli orribili.

E dunque?
Dunque, ben venga qualcuno che parla chiaro. Se no, a carte coperte si arriverà a quel che i giocatori invisibili vogliono: far ridisegnare le regole dal referendum, assegnando all'uno o all'altro dei partiti non-partiti il premio di maggioranza. In un contesto nel quale i "piccolini" pensano alla riforma elettorale esclusivamente in funzione di quel che succederà al loro singolo "patrimonio" nel prossimo voto.

Ti pare che quest'ultima immagine ricorra anche tra gli interlocutori al tavolo della "sinistra unitaria e plurale" che si riunisce il prossimo week-end?
Francamente, è difficile capire certi discorsi. Lo è soprattutto se bisogna crede che davvero si vuole, in questa situazione, mettere in piedi un'area che con un minimo di serietà - fin qui non in vista - possa far da riferimento a quanti dalla situazione sono preoccupati.

E' una riserva di dubbio o un giudizio di inaffidabilità?
Ascolta: io non riesco ancora a capire perché sei mesi fa non abbiano annunciato la nascita, non dico d'una forma-partito che non è praticabile, ma di un'area istituzionale - strutturata magari con un progetto anche dal punto di vista di mezzi di comunicazione, d'informazione, di produzione culturale coordinati - che fosse in grado di contrastare questa liquefazione isterica del sistema politico italiano. Un'area del 10-15 per cento d'una sinistra minimamente consapevole di sé avrebbe potuto e dovuto costituire la precondizione d'un percorso: gli "Stati generali" sarebbero potuti venire dopo. Insomma: che dirti? Da ora in poi leggerò i giornali, per capire. Ma resto dell'idea che giocare a carte coperte ci porta soltanto alla dissoluzione.

Detto ciò, resta la questione del rapporto fra questa tentata convergenza a sinistra e il bilancio sul governo, ancor più, sulla coalizione dissolta. Non è un po' surreale che ci sia chi se ne sottrae, con i No Dal Molin fuori a chiedere conto e femministe e Glbtq dentro a protestare?
E' la domanda che mi faccio anch'io. Ma è frustrante, perché regolarmente scopro che si parla d'altro. E lo è per quel che rimane d'una soggettività collettiva, misurarsi su questo indecifrabile della politica. Devo dire che l'intervista di Bertinotti mi è parsa sottovalutare lo stato d'avanzamento della crisi della politica, fra rappresentati e rappresentanti: se questi ultimi sono così scadenti, non c'è forse oltre loro stessi una malattia della rappresentanza democratica, del politico? Provo un senso di desolazione quando sento esponenti della sinistra proclamare una vocazione governativa a priori . E' proprio questa dimensione, infatti, quella più colpita dal morbo, che fa implodere la politica. Come dimostrano proprio i pesci in faccia dati dal governo a quelle istanze che prima delle elezioni si corteggiavano. E' questo che dovrebbe diventare parte della riflessione strategica di chi si pone «oltre». Al termine d'una riflessione vera, magari si potrebbe anche concludere che Prodi è il meno peggio: ma dichiarando le cose come stanno, realmente.

mercoledì 5 dicembre 2007

Repubblica 5.12.07
Un saggio di Ludovico Incisa sul guerrigliero argentino
L'incredibile mito di Che Guevara
L'alone mistico che lo circonda contagia i movimenti giovanili e studenteschi occidentali in modo del tutto acritico
di Sandro Viola


Non fosse stato per le circostanze della sua morte, Ernesto Guevara, un giovane rivoluzionario argentino di bell´aspetto, pensoso all´accampamento e temerario in battaglia, sarebbe passato alla storia dell´America Latina per una sola ragione: la presenza del suo nome tra i compagni di Fidel Castro nei bivacchi sulla Sierra Maestra, durante i due anni e mezzo della guerriglia contro Batista. Certo: a partire dal ‘59, con la conquista dell´Avana e la nascita del regime castrista, Guevara diventa uno dei ministri di Fidel. Ma l´aver avuto un posto nel lungo elenco dei mediocri ministri cubani di questi quasi cinquant´anni, non significa che oggi sarebbe ricordato.
Come politico, come economista (il suo primo incarico fu al ministero dell´Economia), e persino come stratega della rivoluzione, Ernesto Guevara detto il Che non riuscì infatti ad illustrarsi. Forte carica morale, vita austera, grandi ideali, questo sì. Da ministro dell´Economia, per esempio, impone ai suoi funzionari di rinunciare ad ogni privilegio e lavorare il sabato nelle piantagioni o nei cantieri edili: ma tanto rigore non produce alcun effetto benefico, inutile dirlo, sulla situazione economica dell´isola.
Come pensatore rivoluzionario risulta piuttosto riduttivo, convinto com´è che per diffondere la rivoluzione cubana in America Latina basterebbe che in ogni paese ci fosse «quella forza tellurica che risponde al nome di Fidel Castro». E come marxista, tende soprattutto a sognare. Sogna per esempio la nascita «d´un nuovo tipo d´essere umano», nascita che sarà possibile congiungendo «la transizione al socialismo con la lotta contro l´alienazione». Un´altra idea tra le tante d´un «uomo nuovo», anch´essa finita come le altre nello sterminato archivio del «socialismo irrealizzato».
Persino come stratega della guerra di guerriglia, il suo idealismo, i suoi sogni, prevalgono quasi sempre su una valutazione realistica delle forze in campo. Benché molto celebrata, la sua teoria del «foco», il focolaio da cui far partire e sviluppare - con l´appoggio delle masse popolari - il processo rivoluzionario, si rivelerà infatti fallace, a volte anzi disastrosa. E in molti casi il suo ottimismo rasenta l´incoscienza. Mancano pochi giorni alla sua cattura e morte in Bolivia, il suo gruppo è incalzato sempre più da vicino dai soldati del presidente Barrientos, ma il Che scrive: «La leggenda della guerriglia cresce come spuma. Siamo già i superuomini invincibili, anche se il generale Barrientos ci definisce vipere e sorci».
Se queste erano le debolezze del politico e del capo militare, se il progetto cui Guevara sacrificherà la vita - la rivoluzione in America Latina - è andato incontro tra i Sessanta e gli Ottanta ad una serie d´irrimediabili sconfitte, come spiegare allora il mito del Che, il suo essere divenuto l´idolo d´un paio di generazioni di latino-americani e di europei, uno dei simboli della stagione storica che ha chiuso il Novecento? Come spiegare che ancora poche settimane fa, nel quarantesimo anniversario della morte di Guevara, si siano susseguite ovunque in Occidente rievocazioni e celebrazioni appassionate?
Nel suo ultimo libro, I ragazzi del Che - Storia d´una rivoluzione mancata (Corbaccio, pagg. 400, euro 20), Ludovico Incisa risponde a queste domande con la chiarezza che gli viene da una pluridecennale esperienza delle realtà latino-americane. L´analisi del fenomeno guevarista è ampia, minuziosa. Passa in rassegna i molti tentativi d´esportare la rivoluzione cubana negli altri paesi dell´America Latina: uno dopo l´altro regolarmente falliti, tanto che nel ‘93 Castro dovrà ammette che la lotta armata «non è il cammino per risolvere i problemi dei paesi latino-americani». Ma largo spazio è poi dedicato ai ricaschi che il mito della rivoluzione ebbe sulle gioventù europee.
La visione rivoluzionaria del Che, sostiene Incisa, è circondata da un alone mistico che trascinerà i movimenti giovanili, gli studenti soprattutto, prima in America Latina, poi in Europa e finanche negli Stati Uniti. Ma lì dov´era destinata nei progetti di Guevara e di Castro, vale a dire nel Terzo Mondo asiatico e africano, non solo non attecchisce politicamente, non innesca la lotta armata, ma suscita interessi sporadici o addirittura indifferenza. Si tratta dunque d´una idea della rivoluzione essenzialmente volontaristica e «occidentale».
Somiglia infatti a quel volontarismo eroico, «di guerra», impersonato dai D´Annunzio, dai Malraux, dai Lawrence, che aveva avuto un forte rilievo sulla scena della prima metà del secolo. «Nella seconda metà, il volontarismo rinasce in America Latina, in un´epica domanda di eroismo, nell´allegoria color sangue della gioventù in armi». C´è una differenza, tuttavia, con quei personaggi del passato: Guevara «dimostra un´assoluta ripugnanza per effetti letterari e gesti teatrali», anche se «è capace con la sua sola immagine di cancellare ogni sconfitta, di affascinare e commuovere».
Nessuna meraviglia quindi che quest´immagine e l´idea della rivoluzione latino-americana vengano a travasarsi direttamente nella rivolta degli studenti che l´anno dopo la morte del Che, nel ‘68, sta dilagando da un punto all´altro dell´Europa. Quella rivolta ha bisogno di esempi eroici, d´un mito. E «il fondo anarchico e poetico» del guevarismo servirà ad accendere entusiasmi, produrre slogan, nutrire illusioni. Poco importa che nei paesi europei l´internazionale studentesca non disponga di motivazioni rivoluzionarie locali: essa «farà proprie quelle del Terzo Mondo, e in particolare quelle del Vietnam». Ma a sventolare più d´ogni altra sui moti giovanili in Occidente, sarà comunque la bandiera del Che.
Quando nel maggio ‘68 gli studenti scendono nelle piazze d´Europa all´attacco delle istituzioni e delle polizie, tutti gli errori e le ingenuità commessi da Ernesto Guevara come pensatore e politico, sono infatti dimenticati. La sua morte in Bolivia, qualche mese prima, li ha infatti riscattati. Ucciso, dopo essere stato fatto prigioniero, da un sottufficiale ubriaco che gli spara una raffica di mitra contro il torace, il Che è morto con il coraggio e la dignità d´un eroe romantico. E sullo sfondo di quegli anni, la sua fine assume rapidamente i contorni della leggenda. In America Latina, dove il mito guevarista animerà le guerriglie urbane degli anni Settanta, e in tutta Europa, il Che diventa l´ultimo eroe del XX secolo.
Fioriranno poi, senza nessuna colpa del morto, l´enfasi e l´esagerazione. Per Jean Paul Sartre il Che è «l´uomo più completo del suo tempo», per il raffinato e decadente Pierre de Mandiargue «l´eroe poetico assoluto», per Miguel Angel Asturias «l´espressione d´un romanticismo autentico, del sacrificio eroico». Ma sono parole del dopo, pronunciate o scritte a molte migliaia di chilometri di distanza dall´arsa collina boliviana dove il Che ha perso la vita, e che non bastano certo ad occultare la sconfitta della causa per cui Guevara s´era battuto.

Corriere della Sera 5.12.07
La storia del dirigente pci denunciato come spia fascista da alcuni compagni: prima salvato da Gramsci, morì fucilato nel '38
Una bambina contro Stalin
Fiction sul comunista Gino De Marchi Ucciso in Urss, sua figlia «svelò» il delitto
di Valerio Cappelli


ROMA — La sua «Resistenza » è durata tutta la vita. Era una ragazzina di 13 anni, Luciana De Marchi, quando decise di cercare suo padre. Gino De Marchi era un militante del partito comunista. Nel 1921 fu arrestato con l'accusa di essere una spia fascista nell'Unione Sovietica. Liberato per intervento del suo amico Antonio Gramsci, finì di nuovo nei guai fino alla morte per fucilazione nel 1938. Fu denunciato dai comunisti italiani, alcuni erano suoi amici. La sua vita è stata un romanzo. Ne sarà tratta una fiction in due puntate che il regista Alberto Negrin col produttore Carlo Degli Esposti stanno trattando con Raiuno.
Luciana si esprime in un italiano accidentato. È una donnina minuta di 80 anni. È nata in Russia, sposata con una figlia, vive tra Mosca e Fossano, in provincia di Cuneo, il paese del padre: «Sognavo di conoscere la sua famiglia». Lo ama ancora come se fosse vivo, i ricordi sono intatti, 69 anni dopo. Mentre non sembra incuriosita su chi sarà chiamata a interpretare lei, ha le idee chiare sul volto di Gino: «Fiorello mi ricorda mio padre, spiritoso, un talento multiforme, anche lui cantava, ballava. Vorrei che fosse lui il protagonista». «Vedo bene anche Pierfrancesco Favino, il fascino, la dolcezza, l'umanità », dice il regista. Serviranno tre attrici per coprire l'intero arco di vita di Luciana. Per il periodo di mezzo, quello della ricerca ossessiva, si pensa a Nicole Grimaudo o a Raffaela Rea.
Il film è tratto dal bel libro che Gabriele Nissim ha scritto per Mondadori su questa vicenda:
Una bambina contro Stalin.
Nella trasposizione sullo schermo sarà aggiunta una parola:
Una bambina italiana contro Stalin. Nissim e Luciana sono stati ricevuti al Quirinale dal presidente Napolitano: «Aveva letto il libro, interveniva, era interessato alla questione dei delatori». Napolitano e Fassino a sinistra hanno rotto il silenzio colpevole dell'ex partito comunista.
A Torino negli anni Venti c'era stata l'occupazione delle fabbriche. Le organizzazioni giovanili comuniste avevano nascosto delle armi. Gino viene beccato, sotto torchio rivela il nascondiglio di due mitragliatrici e fa il nome di un complice sfuggito ai carabinieri. «Un errore di gioventù — dice Nissim — che va inquadrato nel clima dell'epoca. I militanti torinesi lo considerano un traditore, una spia». Si fa strada l'idea del nemico infiltrato, si monta un castello ideologico. Il partito lo manda in punizione a Mosca, dove viene subito arrestato «per ordine del partito comunista italiano». Dopo l'intervento di Gramsci viene mandato al confine nel Turkestan. Va a lavorare in una comune agricola, chiede di tornare nel partito e di essere riabilitato ma non è ritenuto affidabile, gli resta come una zecca il marchio della spia. «La tragedia umana - dice la figlia - è che mio padre era apprezzato nel suo vero lavoro, regista di documentari di propaganda socialista ».
«Racconteremo questa storia non dall'alto dei Congressi sovietici - dice Alberto Negrin ma con gli occhi di Luciana, una persona semplice. Dietro la bambina e poi la donna che cerca suo padre, si scopre la tragedia della Russia di Stalin, dalla formica esce fuori il formicaio: i tradimenti, le delazioni, il cinismo».
Alla figlia non dicono che è stato fucilato ma scomparso: «È la prassi per non creare scandalo». Luciana manda una lettera a Krusciov, la risposta è che suo padre è morto di peritonite in un gulag. Chiede il certificato di morte: impossibile trovarlo. Con la caduta del Muro, si aprono gli armadi e Luciana scopre la verità. Ma sua madre dov'era, perché l'ha lasciata sola in tutti questi anni? «Si defilò subito per paura, fu convocata dalla polizia segreta. I familiari dei nemici del popolo dovevano fare abiura. Se mia madre non prendeva le distanze poteva essere condannata. Si risposò subito con un'altra persona... A 14 anni andai a vivere da sola, mi mantenevo come maestra d'asilo. Vennero anche da me, minacciarono di rinchiudermi all'orfanotrofio». Ha fatto l'attrice, ma era sulla lista nera e non fece carriera, tenuta sotto controllo dai pretoriani del regime sovietico. Come quel Grigorij Britikov: «Cercò di sedurmi, mi creò difficoltà nel lavoro. Lo conoscevo da quando ero bambina, lo chiamavo zio; più tardi negli archivi scoprii che fu uno di quelli che al processo testimoniarono contro mio padre». Luciana doveva seguire l'esempio di Morozov, l'eroe popolare che denunciando il padre, colpevole d'aver venduto del grano ai contadini ricchi, scelse il partito. «Io rifiutai. Ogni tanto bussavano alla mia porta. Come quella volta che bruciarono la stazione della metro: ha un alibi?, dov'era quel giorno?».
Dove trovò la forza a 13 anni di combattere contro il Golia rosso? «Non ero così consapevole, ero trascinata dalla forza dell'amore. Anche se era proibito, ho tenuto tutto con me, lettere, documentazioni, foto. Mio padre era alto, bello. L'ho cercato per tutta la mia esistenza. La sua storia continua a essere rimossa».

Rosso di Sera 5.12.07
Bertinotti, si apre una nuova fase
di Francesco Mancuso


Il presidente della Camera : “Questo centrosinistra ha fallito”. “Non si è stabilito un rapporto con la società ed i movimenti, si è invece creato un forte disagio a sinistra”. Bindi: “Se ne assuma la responsabilità!”. Mussi: “La Sinistra unita dovrà avere vocazione di governo”

Questo centrosinistra non è riuscito a realizzare “la grande ambizione”, ammette il presidente della Camera, Fausto Bertinotti a “Repubblica”, e pone la necessità, a gennaio, di un "confronto che sia vero".
"Dobbiamo prenderne atto: questo centrosinistra ha fallito... Una stagione si è chiusa, a gennaio occorrerà prendere atto del fallimento del progetto iniziale ma che... rifissi l'agenda su alcune emergenze oggettive. E venga incontro alle domande della società italiana, con scelte che devono avere una chiara leggibilità 'di sinistra'", prosegue il leader di Rifondazione.
La riflessione di Bertinotti si presta ai commenti dell’opposizione, ma è rivolta principalmente alla maggioranza. Il presidente della Camera pone l’accento sulla fine di una stagione, ma non preannuncia alcuna crisi dell’esecutivo.
Poi pone l’accento sui due "terreni irrinunciabili: i salari e la precarietà". Sui quali il governo non è riuscito a dare il meglio. In merito al rimescolamento di carte che la nascita del Pd ha portato nella politica italiana, Bertinotti, dice di voler riconoscere al partito "il diritto a trovarsi gli alleati che vuole, ma – prosegue - voglio garantire a noi il diritto di tornare all'opposizione". Infine alla domanda se la stagione dell'Unione sia al capolinea, il presidente della Camera risponde: "Intellettualmente io sono già proiettato oltre".
Com’è facilmente immaginabile le agenzie di stamani sono state letteralmente invase dalle dichiarazioni di esponenti della maggioranza e dell’opposizione che non vedevano l’ora di commentare l’intervista di Bertinotti. Ovviamente i commenti del centrodestra sono stati quelli più entusiastici. Casini, ad esempio, ha dichiarato che quello che ha detto Bertinotti lui lo sostiene da tempo, dimenticando in un lampo le sue disavventure prima con la Cdl e poi direttamente con Berlusconi.
Insomma nell’opposizione son stati tutti prontissimi nel dimenticare i propri guai, mollare il coltello tra i denti ed hanno avuto, almeno per stamattina, un momento di allegrezza.
Ma anche la maggioranza non si dimostra tenera col presidente della Camera. Per Rosi Bindi, quella di Bertinotti "è un'affermazione molto forte, della quale si assumerà tutte le responsabilità". "Penso - aggiunge la Bindi - che il centrosinistra, anche con l'apporto di Rifondazione, abbia compiuto scelte molto importanti per la vita del Paese. Questo non è un fallimento, ma sono risultati importanti".
L'intervista del presidente della Camera non è piaciuta neppure all'Italia dei Valori. "Si potrebbe ragionare a lungo sulle considerazioni espresse da Fausto Bertinotti, e potremmo anche ritrovarci d'accordo con lui su alcuni passaggi - afferma il capogruppo a Montecitorio Massimo Donadi - ma la sua più che un'analisi è un'entrata a gamba tesa nei rapporti tra maggioranza e governo che non si addice a colui che riveste il ruolo di presidente della Camera che per definizione è superpartes".
Mentre Mussi spiega all’agenzia Infoparl che “la Sinistra unita deve avere vocazione di governo”.
Insomma l’aria nella maggioranza, dopo l’intervista del presidente della Camera, si è surriscaldata.
Non che ce ne fosse particolare bisogno, ma se potrà servire per giungere ad una verifica, che sia concreta e che produca qualcosa in più rispetto ai famosi “dodici punti”, sarà valsa la pena.

Rosso di Sera 5.12.07
L'8 e 9 le pubblicazioni per il matrimonio della sinistra
di Pietro Folena


Il prossimo fine settimana può diventare l'occasione decisiva per l'unità a sinistra. Ma non ci si arriva nelle migliori condizioni. Abbiamo - riconosciamolo - subito una sconfitta sul fronte del protocollo del welfare. Certo una sconfitta che, dati gli equilibri attuali, era nelle cose. Ma, per l'appunto, ciò che è necessario modificare sono proprio gli equilibri attuali. E su questo la responsabilità è nostra, collettivamente ed individualmente.
Penso che occorra, l'8 e 9 dicembre, stabilire un vero percorso unitario. Non una vaga promessa di fidanzamento, ma le vere pubblicazioni del matrimonio a sinistra. Solo così, solo unendosi, sarà possibile evitare il ripetersi di quanto accaduto.
Non ci arriviamo, dicevo, con le condizioni migliori. Il clima, anche a sinistra, è pesante. Ci sono troppi segnali solitari. Penso al comportamento del Pdci sul voto finale al protocollo del welfare (ma anche la reazione degli altri partiti è stata al di sopra delle righe). Penso alla consultazione annunciata da Rifondazione, che sarebbe meglio, se si vuole fare l'unità, rivedere insieme agli altri partner che non possono essere solo degli invitati.
Penso all'atteggiamento della sinistra sindacale - e del sindacato nel suo complesso - preoccupato di mantenere il protocollo così com'era per non essere scavalcato a sinistra, con l'effetto di rischiare persino dei peggioramenti. Ci era stato spiegato che il protocollo non era intoccabile, alla fine invece lo è stato con il plauso delle parti sociali, anche quelle i cui rappresentati avrebbero tratto non pochi benefici dalle modifiche apportate.
Mi fermo qui perché in vista dell'8 e 9 non voglio certo alimentare polemiche. Però, guardiamoci in faccia e diciamoci le cose come stanno: da soli, contiamo davvero poco. Insieme, invece, possiamo sperare di non dover sempre subire.
Al Partito democratico va riconosciuto il dovuto. Sono stati bravi, si sono uniti con l'obiettivo di dare un "timone riformista" e ci sono riusciti. Anche troppo. L'8 e 9 tocca a noi reagire all'offensiva moderata. Ma per farlo serve che ciascuno metta da parte il protagonismo. Se si vuole fare una cosa nuova, allora, dal 10 dicembre si stabilisca che i 4 segretari smettano di dichiarare ognuno per sé e si inizi ad agire come un sol uomo. A partire dalla verifica di gennaio, ormai indispensabile.

il Riformista 5.12.07
Col mal di pancia, ma tutti dietro Fausto


Riassumendo. La carta dei valori ancora non cè, o almeno ancora non se ne discute. La forma organizzativa nemmeno, o meglio è avvolta nelle nubi del politicismo: cè chi vuole una federazione dellesistente, chi una confederazione (più blanda della federazione), chi un cartello elettorale (e poi si vedrà). Per non parlare della discussione sul simbolo, derubricato quasi a oggetto ornamentale, visto che non è chiaro se quello scelto sarà usato alle elezioni o no. A tre giorni dagli stati generali, la Cosa rossa, intesa come progetto politico, non sta tanto bene. Alcuni protagonisti fanno melina (i Verdi non sono convinti, il Pdci gioca in proprio), altri si lacerano (il Prc) e i sondaggi non sono rassicuranti.
In questo quadro non è un caso che la notizia (e la politica) - al di là delle discussioni su carta dei valori, forma organizzativa e simbolo che si trascinano da mesi - labbia sbattuta sul tavolo Faust o Bertinotti. Il quale nellintervista di ieri a Repubblica ha indicato la nuova stagione di Rifondazione (e della Cosa rossa): «Il sistema proporzionale è coerente con levoluzione del quadro politico: il Pd, il Partito del Popolo del Cavaliere, la Cosa rossa, lo spazio al centro. Siamo in una fase costituente di nuove soggettività politiche e la legge che scegli non è più la levatrice del cambiamento ma una sua conseguenza». Se questo è il quadro, ne derivano, per Bertinotti, due implicazioni. La prima riguarda il passato, ovvero il governo Prodi: «Il progetto del governo è fallito. Siamo già oltre lUnione». La seconda riguarda le priorità per lagenda del prossimo anno: «La questione salariale è intollerabile». Tradotto: per Bertinotti (e per il Prc) linterlocutore per le riforme istituzionali è Veltroni mentre la Cosa rossa deve trovare ossigeno sul piano sociale a partire da una ripresa della conflittualità (mai nominati i sindacati confederali). E la parola dordine è: «autonomia» nellazione politica.
Una presa di posizione dura (anzi durissima) che mette in conto una rottura con chi non è daccordo. Ma a chi è in disaccordo, e però non rompe, non resta che allinearsi nonostante i mal di pancia. Come in una partita di poker, per Bertinotti, è arrivato il momento di alzare la posta e dire: vedo. E che cosa ha visto Bertinotti? Qui cè la seconda notizia: la rottura non cè stata. E le reazioni degli alleati hanno dato ragione - paradossalmente ma non troppo - al subcomandante Fausto: Sd si allinea con qualche malumore, i Verdi mantengono le perplessità così come i comunisti italiani che vedono nellintervista di Bertinotti la volontà di tornare allopposizione. Rifondazione invece preme sullacceleratore e guida il processo. E sabato sarann o tutti sul palco a parlare di soggetto «unitario e plurale».
Certo, di distinguo ce ne sono stati eccome, ma nulla che abbia fatto intravedere un percorso che non andasse a rimorchio di Rifondazione. Il leader di Sd Fabio Mussi ha criticato a Bertinotti sulla linea del mi potevi almeno avvisare: «Dal punto di vista del metodo, se si vuole una sinistra nuova e unita, bisogna fin da ora confrontare per tempo posizioni e decisioni politiche, e possibilmente condividerle». E ha provato a mettere qualche distinguo: «Può capitare che una grande forza politica debba stare allopposizione, per forza di numeri o per libera scelta. Ma non esiste, voglio dirlo a Fausto Bertinotti, grande forza politica che non parta sempre da unambizione di governo». Anche tra i verdi, che allinterno della Cosa rossa hanno sempre mantenuto un profilo autonomo, non sono mancati mal di pancia. Il capogruppo alla Camera Angelo Bonelli afferma: «Non sono daccordo con Bertinotti. Questo governo non solo va sostenuto ma va rilanciato. Noi, tra laltro, non siamo favorevoli a un governo istituzionale e nemmeno ad andare alle elezioni». E aggiunge: «Sul piano più generale poi noi abbiamo in mente una sinistra di governo e una legge elettorale più o meno sul modello usato per le regioni». Ma nemmeno in questo caso si è registrata una rottura.
Ma Rifondazione non è disposta a rallentare. Spiega Alfonso Gianni: «Il punto è che si è chiusa una fase politica e se ne deve aprire unaltra. A partire dal governo. È inutile continuare a fare i bambini e dire che bisogna applicare il programma dellUnione. Bisogna fissare pochi e realizzabili obiettivi. Tra cui cè la legge elettorale. Se riusciamo a farla con questo governo bene, altrimenti amen». Ad oggi, la Cosa rossa si farà, ma, almeno per il Prc, con un nuovo schema: con chi ci sta. Parola di Fausto.

il Riformista 5.12.07
Caro Fausto, l'opposizione non è la terra promessa
di Paolo Franchi


Dice Fausto Bertinotti a Repubblica che questo centrosinistra ha fallito, e che la grande ambizione dell'Unione si è persa per strada. È un'affermazione importante, e potenzialmente gravida di conseguenze. Che l'Unione non esista più è un'ovvietà nota a tutti, anche a chi nega l'evidenza. Che sia Bertinotti a certificarlo, in trasparente polemica con Romano Prodi, è un altro discorso. E, per la sinistra-sinistra, divisa tra la necessità di tenere comunque in vita il governo e la tentazione di riconquistare la propria libertà di movimento, è anche una svolta. Tanto più significativa perché si colloca alla vigilia degli stati generali della Cosa Rossa.
Prodi, il governo, la verifica, e insomma le ambasce della vita quotidiana, per Bertinotti sono la tattica. Ma lui, Fausto, se dell'hic et nunc deve pure occuparsi, «intellettualmente» si sente «già proiettato oltre»: se il governo è tattica, la ridefinizione di un progetto autonomo della sinistra è strategia. E la principale chance per collegare i due piani è, secondo Bertinotti, il dialogo sulle riforme, riforma elettorale in primis. A condizione che sia la più tedesca possibile: «Alla fine del percorso, io voglio riconoscere al Pd il diritto a trovarsi gli alleati che vuole, ma voglio garantire a noi il diritto di tornare all'opposizione».
Stefano Cappellini chiarisce, qui sotto, come e perché queste affermazioni abbiano avuto, nella maggioranza, l'effetto di una bomba politica, o giù di lì. Si occupa, insomma, della «tattica». Io vorrei spendere due amichevoli parole sulla «strategia». Per dire che (non da oggi) sono d'accordo con Bertinotti su un punto sostanziale. In Italia (tanto più dopo la nascita del Partito democratico) è in discussione l'esistenza stessa di quel soggetto politico, culturale e sociale che siamo usi definire "sinistra". Ma pure per aggiungere che sono in cordiale disaccordo con il Bertinotti dell'intervista a Repubblica (se ho interpretato bene il suo pensiero) su un punto ancora più sostanziale. Sull'idea cioè che, per garantire alla sinistra autonomia e futuro, la strada migliore sia, in fondo ma non troppo, quella che dovrebbe riportarla (seppure sull'onda di una riforma elettorale che le garantisca il maggior numero di seggi possibile) all'opposizione. Rifiutarsi al ruolo di chi deve assicurare sempre e comunque la sopravvivenza del governo perché «altrimenti torna Berlusconi» è comprensibile e giusto. Considerare l'opposizione come una specie di terra promessa sarebbe il riconoscimento di una sconfitta politica seria e di una sconfitta "strategica" ancora più grave, perché vorrebbe dire che la sinistra è condannata a una condizione di eterna minorità.
Il dilemma è antico, lo hanno sofferto, come Fausto sa bene, prima i socialisti, poi, ancora più gravemente, i comunisti. Probabilmente si sarebbe riproposto in forme meno acute se, in questi mesi, si fosse ragionato senza steccati su come mettere in campo una sinistra larga, con un forte radicamento nel socialismo europeo, invece che procedere ciascuno, a tentoni, per la propria strada. Le cose sono andate diversamente, non solo per responsabilità di Bertinotti e di Rifondazione. Adesso il rischio concreto è che, in tanto parlare di strategia, a farla da padrona sia la tattica. Ma la tattica di sopravvivenza.

La Stampa 5.12.07
Se il papa ripassasse Galileo
di Piergiorgio Odifreddi


Caro direttore,
il 1° e il 2 dicembre il Papa ha tenuto banco su giornali e tg: dapprima con la nuova enciclica Spe Salvi, poi con due interventi, a un Forum delle Organizzazioni Non Governative Cattoliche e ai fedeli in piazza San Pietro per l’Angelus. Ripetendo, come si addice al massimo rappresentante della più antica e immutabile istituzione governativa mondiale, le stesse parole che lui e i predecessori vanno ripetendo da secoli: in particolare, attaccando la scienza e la democrazia, cioè le vere radici dell’Europa e dell’Occidente.

Cominciamo dall’enciclica sulla speranza e la fede, che il suo autore sintetizza così: «Il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino (...). L’uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze - più piccole o più grandi - diverse nei periodi della sua vita. Quando però queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era in realtà il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere».

Ma queste parole, che si presentano come il messaggio di speranza di un saggio, si rivelano nella realtà un appello all’illusione. Il Papa si accorge che non ha senso che viviamo la vita rivolti al domani, alienando il presente a un raggiungimento futuro dell’amore, del possesso, della carriera e del successo. Non propone però, come i sapienti d’ogni tempo, dai filosofi stoici ai monaci buddisti, una tranquilla accettazione dell’oggi e una serena liberazione dal desiderio. Piuttosto, azzarda un disperato rilancio che sostituisce una posta finita materiale, con un’infinita immateriale: casca dalla padella delle lusinghe dell’aldiqua reale, nella brace dell’attrazione di un aldilà immaginario. Il riferimento al buddismo non è pura provocazione. Se il Papa conoscesse un po’ meglio questa «religione» ben più saggia e umanista della sua, scoprirebbe che ha anche anticipato di due millenni uno dei problemi che sembrano assillarlo nell’enciclica: quello relativo alla possibilità di salvezza individuale o collettiva.

Storia delle religioni a parte, è difficile dire quanto il Papa conosca quella della scienza. Nell’enciclica si limita a citare Bacone, un pensatore venuto prima di qualunque teoria e pratica scientifica significativa: il che sarebbe come se uno pretendesse di criticare il Cristianesimo sulla base dei pronunciamenti di uno dei profeti del Vecchio Testamento. In ogni caso, almeno un episodio della storia della scienza Benedetto XVI dovrebbe conoscerlo, quello del processo a Galileo: se non altro, perché ha diretto per 25 anni l’organo che l’ha condannato, quella Congregazione per la Dottrina della Fede che mantiene una continuità con il Sant’Uffizio. E dovrebbe dunque sapere che la causa di quel processo fu l’irritazione di Urbano VIII nel veder messa alla berlina la propria «mirabile e angelica dottrina»: che la scienza fosse ipotetica, e non assoluta. Ovvero, il relativismo, che tanto assilla Benedetto XVI, e che lui imputa in particolare agli scienziati. Quanto Galileo concordasse con quella dottrina, e cioè per niente, è dimostrato dal fatto che nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo la fece difendere da un sempliciotto chiamato Simplicio: per questo il Papa s’infuriò. La stessa dottrina era stata enunciata quasi un secolo prima, ma solo per pararsi da possibili attacchi della Chiesa, da colui che scrisse la prefazione al libro di Copernico: quell’Osiander che Giordano Bruno chiamò «asino ignorante e presuntuoso». Da allora, in accordo con Bruno e Galileo, nessuno scienziato ha mai pensato che le verità scientifiche siano relative: al contrario, tutti sanno che esse sono assolute e definitive, nell’ambito della propria approssimazione, benché risultino spesso passibili di ulteriori miglioramenti.

Nell’Angelus di domenica il Papa proclama che «la scienza contribuisce molto al bene dell’umanità, ma non è in grado di redimerla», e ha ragione: la scienza non pensa che l’umanità sia da redimere, bensì solo da studiare, capire e servire. E benché sia vero, come dice l’enciclica, che la tecnologia (non la scienza) è andata «dalla fionda alla megabomba», aprendo «possibilità abissali di male», il Papa non può fingere di dimenticare che spesso è stata proprio la sua religione a realizzare tali possibilità nella storia. Nell’incontro con le Ogn cattoliche Benedetto XVI ha poi attaccato «una concezione del diritto e della politica in cui conta solo il consenso tra gli stati»: il principio fondamentale della convivenza internazionale e della democrazia! Il portavoce del Palazzo di Vetro, Farhan Haq, gli ha ricordato che l’Onu si fonda sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: spesso si dimentica che il Vaticano non l’ha mai firmata, perché non è disposto a permettere la libertà religiosa entro le sue mura, e che per questo non può essere membro dell’Onu, ma solo osservatore. È dunque verissimo che «l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre»: ma non oltre la democrazia e la ragione, bensì oltre l’assolutismo ideologico e l’irrazionalismo filosofico di cui la Chiesa in generale, e questo Papa in particolare, sono le voci più udibili e amplificate. Quanto alla scienza, Santità, si informi, e dopo ci informi: allora le sue parole non suoneranno come quelle di Urbano VIII, che Galileo non poté fare a meno di mettere alla berlina.

Liberazione 5.12.07
Adesso o c'è il colpo d'ala o la sinistra diventerà inutile
di Piero Sansonetti


Ci sono dei momenti - nella storia, nella politica - che purtroppo non permettono lentezze, pigrizie, reazioni burocratiche. O si trova l'intelligenza e la forza per compiere grandi svolte, per disegnare scenari futuri (senza conformismi, senza navigare col pilota automatico, senza adagiarsi nelle sicurezze del già visto) oppure si perde la propria funzione, si finisce emarginati, inutili. Scusate la crudezza di queste affermazioni, ma penso proprio che oggi sia uno di questi momenti. E perciò giudico preoccupanti, assai preoccupanti, molte delle reazioni all'intervista di Fausto Bertinotti a Repubblica . Sono reazioni col "pilota automatico", appunto, con lo sguardo rivolto all'indietro, prive di una prospettiva politica, di un progetto per il futuro. E se diventano le reazioni prevalenti a sinistra, addio sinistra. Sono terrorizzato dall'idea di un paese senza sinistra, o con una sinistra all'angolo - impotente, silenziosa - e credo che anche voi siate terrorizzati, e credo anche che non sia uno scenario del tutto improbabile se non diamo un colpo d'ala.
A me sembra che l'intervista di Bertinotti fosse una dichiarazione politica molto importante. Importante per varie ragioni. Ne elenco qualcuna. Prima, perché sancisce la fine strategica del governo Prodi e di quell'idea dell'"Unione" elaborata quasi due anni fa da alcuni partiti del centro-sinistra e poi travolta dai risultati elettorali, dalle profonde modificazioni del quadro partito, dalla scomparsa di una delle componenti organizzate più importanti del riformismo italiano, cioè il partito dei Ds. Seconda ragione: perché indica alla sinistra una strada nuova da prendere. Quale strada? Quella dell'autonomia e della ricerca di una strategia di fondo, di un progetto da presentare al paese e che sia in grado di unificare e dare risposte ad un popolo - sbandato dagli ultimi terremoti politici, compreso il fallimento del governo Prodi, compresa la nascita del Pd - e in cerca di un proprio "luogo" dove esprimersi, riconoscersi, mettersi in relazione con altri, fare politica, lottare, produrre idee. Che vuol dire ricerca dell'autonomia e del progetto? Semplicemente che si cambia il punto di partenza della linea politica della sinistra: non è più centrale la politica delle alleanze, che non ha dato grandi risultati; diventa fondamentale la formazione di un nuovo "polo" in grado di esistere in quanto tale e non in quanto alleato di qualcuno, o subalterno a un sistema di coalizione. Possibile che sia così difficile capire questo scarto di strategia, e coglierne il valore innovativo e realista?
Non è l'invenzione di un politologo pazzo, ma il risultato di una analisi. Vediamo quale analisi. Credo che non sia difficile essere d'accordo sul fatto che il governo Prodi, cioè l'alleanza chiamata "Unione", non è riuscito a riformare il paese come aveva promesso.
Andiamo all'ingrosso: lotta alla precarietà, risultato, zero; riequilibrio sociale, risultato zero virgola; diritti sociali, risultato zero virgola; diritti civili, risultato zero... E si può continuare così. Potete rispondere che quelle cifre sono di eccessiva severità, che il governo merita anche qualche 4 o qualche 5 in pagella. Va bene, forse è vero, ma capite che la questione non cambia: l'inversione di rotta nelle politiche sociali e civili non c'è stata, non ce n'è stata l'ombra. Sul fallimento del programma di governo hanno pesato i mutamenti politici avvenuti in questi mesi. L'asse Ds-sinistra, ad esempio, lungo la quale era nato il programma dell'Unione, si è sfrangiato e dissolto per via della scomparsa dei Ds. In queste condizioni è possibile concentrare le proprie forze sul tentativo di ricostruire una politica delle alleanze? Chiaro che no. Se ho capito bene quello che ha detto Fausto Bertinotti a Massimo Giannini di Repubblica , gli ha detto questo: alla politica delle alleanze bisogna sostituire una politica di grandi scelte strategiche e di ricostruzione dell'autonomia, cioè la realizzazione di una nuova soggettività, di una nuova identità, di un nuovo modo di vedere le cose, di un nuovo sistema di pensiero.
Si può rispondere a questa sfida, come fa Mussi, sostenendo che il problema è quello di capire se la sinistra nuova nascerà con una cultura di governo o con una cultura dello strepito? Se la domanda di Mussi è pensata come "domanda alta", la risposta è semplice: è l'attuale governo che non ha una cultura di governo , perché riesce solo a mediare (quando ci riesce) tra se stesso e Confindustria. Se invece la domanda di Mussi rappresenta solo una richiesta di fedeltà alla alleanza di centrosinistra, allora sta dentro quella idea burocratica della politica che dicevamo prima. Sta nell'incapacità di vedere l'urgenza e la grandezza della svolta. Archiviamola.
A me sembra che le cose stiano così. E che da domani, se vogliamo salvare la sinistra, dobbiamo lavorare a mettere in terra i pilastri del nuovo soggetto del quale c'è un bisogno assoluto e urgentissimo. Io vedo tre pilastri: 1) la lotta contro il dominio dei profitti, cioè per moderare il mercato, per bloccare l'avanzata devastante del liberismo; 2) l'impegno a riconoscere che in questo mondo ci sono, da millenni, due parti - e cioè gli uomini e le donne - che combattono tra loro, che hanno interessi e visioni diversi, e che finora una delle due parti ha dominato, e che questo dominio deve cessare, essere demolito, altrimenti nessuna società giusta è possibile, nessuna civiltà; 3) la lotta per affermare i grandi diritti sociali e civili - di libertà, di completa libertà in ogni campo: dalla politica al sesso - come qualcosa di irrinunciabile, non negoziabile, basilare, che supera ogni altro tipo di interesse privato o collettivo.
Certo che se vogliamo qualcosa di questo genere, non bastano i partiti esistenti, non basta sommarli, mediare tra loro: non perché sono piccoli, o inadeguati, o confusi, o deboli: perché non hanno al loro interno gli strumenti culturali, di conoscenza, sufficienti ad affrontare la sfida. L'apertura ai movimenti, alle correnti ideali (in particolare al femminismo) alle spinte dei pacifisti, degli ambientalisti, non è uno slogan: è il cuore del cuore del problema. Per fare tutto questo bisogna mandare prima a casa Prodi? Io penso di sì, molti altri compagni e amici (fra i quali lo stesso Bertinotti) pensano di no: credo che possiamo discuterne, non mi pare il problema decisivo.

Liberazione 5.12.07
Comitato di Bioetica allo sbando
Non esiste nessuna pluralità
di Carlo Flamigni


La crisi di un'istituzione che, chiamata a orientare la società sulle questioni della vita e della morte, non è più in grado di farlo.
Ma il presidente Casavola, dopo avere sostituito con un colpo di mano i vicepresidenti, prosegue sulla stessa, cattiva, strada

Quando si parla del Comitato Nazionale per la Bioetica c'è sempre qualcuno che finisce col dichiarare che il conflitto (anzi, il "presunto" conflitto) tra laici e cattolici si deve considerare superato, obsoleto e antistorico. Ne debbo dedurre che le dichiarazioni del papa sulla ricerca scientifica, sulla laicità, sulle altre religioni e i suoi continui richiami alla verità (unica e, naturalmente, sua) , le sue ripetute interferenze con la vita politica di questo (nostro, non suo) paese, i suoi "non possumus", tutto quello che ci ammannisce quotidianamente nel silenzio beota della nostra classe politica, dobbiamo interpretarlo come una laica e affettuosa offerta di pace e di mediazione, l'invito a percorrere insieme il cammino della vita. Ma per favore!
Nel CNB lo scontro tra laici e cattolici c'è sempre stato e gli scontri recenti dei quali si è letto sui giornali (ma nessuno legge l'Avvenire ?) ne sono prova concreta. Ne riferirò brevemente, riservando il resto dell'articolo a una breve analisi delle prove che attendono il Comitato nei prossimi mesi. Come è noto il Comitato ha un nuovo Presidente, il professor Casavola, che è certamente uomo di notevoli meriti ma inesperto dei problemi della bioetica italiana. Questa scarsa frequentazione dei conflitti tra laici e cattolici lo ha indotto a fare alcune scelte (o a commettere alcuni errori, dipende dal punto di vista), che hanno suscitato lo stupore di alcuni di noi. Per tre volte consecutive Casavola ha scelto un cattolico per compiti importanti e delicati: ad esempio ha indicato il professor Dallapiccola come membro della commissione che ha preparato le linee guida della legge 40 sulla fecondazione assistita: ora, il prof. Dallapiccola è anche, per caso, presidente di Scienza e vita e si è battuto come un leone per il fallimento del referendum, cosa che non fa di lui, dal punto di vista di un laico, il consulente ideale, per un incarico tanto delicato. La lettera che abbiamo mandato al Presidente gli chiedeva ragione di queste scelte, non voleva essere né offensiva né malevola, esprimeva le nostre perplessità. Da questo momento è successo di tutto e se debbo trovare una spiegazione per una serie tanto inattesa di reazioni esagerate la indico in una crisi di ipersensibilità generale con tendenza alla cronicizzazione. E' intervenuto persino Prodi, che ho scoperto essere un uomo di cattivo carattere, che come reazione alla lettera che avevamo scritto Corbellini, Neri ed io, ha "licenziato" i tre ignari e inconsapevoli vicepresidenti e li ha sostituiti. Questa decisione non è stata priva di conseguenze (uno dei vicepresidenti dismessi ha fatto un ricorso al Tar, Elena Cattaneo ha dato le dimissioni motivandole con parole molto energiche) e solo l'avvenire dirà se ci saranno altre ripercussioni sul Comitato: al momento sembra prevalere l'intenzione di non infierire sull'Istituzione, ma l'avvenire (con la a minuscola) non è sgombro di nuvole.
Anzitutto c'è il problema, che io considero fondamentale, della definizione del ruolo del Comitato, che sino ad oggi ha svolto un compito prescrittivo, indicando una e solo una soluzione normativa e giungendo a questa definizione con strumenti che ben poco hanno a che fare con i problemi delle scelte morali, come la definizione di maggioranze e minoranze, il voto e la pubblicazione di un documento "vincente", l'opinione dei perdenti essendo relegata in codicilli di scarsa o nessuna visibilità. Secondo la maggioranza dei laici, che da oltre 15 anni si battono per modificare questa regola, si dovrebbe invece privilegiare un paradigma descrittivo, che parta dal principio che non si possono costruire gerarchie delle varie posizioni morali, che debbono essere invece illustrate e chiarite per dar modo al Parlamento di svolgere il compito che è proprio della politica, cioè mediare e decidere. Il paradigma descrittivo è certamente quello che dà maggior rilievo all'aspetto razionale dell'etica, con il risultato di sostenere una pluralità di valori. Quello che il Comitato deve fare è mostrare come, nella nostra società, su problemi complessi come quelli della bioetica, esistano differenti soluzioni, alcune sostenute da motivazioni razionali, altre francamente inaccettabili: in questo modo il Comitato diverrebbe il luogo autorevole in cui si chiariscono i principali dilemmi bioetici del nostro tempo, senza avere la pretesa di possedere la chiave della verità, una pretesa che del resto non dovrebbe trovare domicilio in un paese laico. Sarebbe comunque una scelta di civiltà, capace di migliorare la comprensione reciproca e il rispetto per le posizioni degli altri. In altri termini, mi pare che siamo di fronte alla possibilità di scegliere tra un precetto e un consiglio: se si sceglie il precetto, bisogna poi giustificare il fatto che il Comitato non è stato eletto e non ha alcun titolo per stabilire ipotetiche verità in nome di maggioranze assolutamente casuali; d'altra parte la prescrittività di un consiglio si affida alla forza della ragione e non ha alcuna necessità di ricorrere al voto per individuare la maggioranza che impone, con un atto di imperio, valori che invece sono destinati a prevalere per libera adesione.
Purtroppo il clima non è favorevole a una discussione pacata. L'etica della verità sta pervadendo tutte le forme dello scibile e ci sono temi, certamente destinati a essere discussi nel Comitato, che vengono trattati in modo talmente supponente, arrogante e superficiale da indurmi al più nero pessimismo. Scelgo, tra i molti possibili, quello che ha riempito di più, nei giorni passati, le pagine dei giornali, quello delle cellule staminali di tipo embrionale ottenute da cellule adulte.
Pierluigi Battista ( Corriere della Sera , 3 dicembre) scrive che dai miei scritti «traspare un tale risentimento, una amarezza così incontenibile… da alimentare il sospetto che quelle ricerche lo abbiano reso orfano di un argomento formidabile da adoperare nella crociata contro la bieca piovra clericale..» Il dottor Batttista è digiuno di scienza (lo dice lui stesso) e non si adonterà se mi permetto di correggerlo, perché anche questa volta (c'è un precedente) non ha capito molto (o io mi sono spiegato molto male). In realtà, molti di noi hanno espresso, su questo tema, le seguenti opinioni (che pregherei il dottor Battista di non deformare, non sta bene):
- la ricerca dimostra l'importanza fondamentale delle staminali embrionali e perciò ci riempie di soddisfazione;
- ciò non significa che gli studi sugli embrioni debbano cessare (è anche l'opinione dei due ricercatori, prego controllare)
- è possibile che le cellule ottenute siano simili ai blastomeri: in questo caso si tratterebbe di embrioni e saremmo da capo a quindici;
- deve essere ancora affrontato il problema della complicità tra le due linee di ricerca (embrionali e adulte) un problema sul quale abbiamo interpellato inutilmente, almeno sino a questo momento, i teologi;
- molti ricercatori, in avvenire, sceglieranno la strada più semplice e più utile, e nella scelta non saranno influenzati da aprioristiche interpretazioni relative allo statuto dell'embrione: per molti di noi l'embrione non è una persona e il rispetto che gli si deve è relativo, non lo riguarda direttamente e ha a che fare all'attenzione dovuta alle opinioni altrui; l'allusione al principio di precauzione non mi tocca né da vicino né da lontano: ci sono principi molto più importanti da rispettare, come quello di responsabilità (che riguarda tutti coloro che sono impegnati nella ricerca scientifica).
Al problema che ho appena descritto se ne aggiungeranno altri che il Comitato dovrà trattare, come quello delle terapie intensive destinate ai bambini molto prematuri, e le molte riguardanti la fine della vita. Mi piacerebbe che i giornalisti più prestigiosi non si ricordassero della bioetica solo eccezionalmente e vorrei molto che evitassero di accodarsi al corteo salmodiante dei malati di una fastidiosa sindrome, la lordosi di accettazione, che sta mietendo vittime tra gli uomini politici e, temo, gli uomini di penna. Personalmente, poi, ammetto di essere un anticlericale, ma immagino che questo sia dovuto al fatto che ci sono troppi clericali in giro: non ho invece alcuna simpatia per le crociate, incluse quelle dei laici deferenti.