venerdì 7 dicembre 2007

l’Unità 7.12.07
«Prodi è tenace, ma Bertinotti non sbaglia»
Il senatore Cossutta: vorrei una sinistra nuova, ampia e forte che punti al 15%
di Eduardo Di Blasi


Seduto fuori dall’aula del Senato mentre è appena iniziata la lunga maratona pomeridiana sulla conversione del decreto sulla sicurezza, il senatore comunista Armando Cossutta ragiona: «Il voto di fiducia che il governo è stato costretto a porre su questo provvedimento mette in evidenza le difficoltà nelle quali, soprattutto qui al Senato, si trovano maggioranza e governo». Parte da qui, dal risultato elettorale: «Avremmo dovuto, di fronte al pari e patta, tentare di rinegoziare il patto elettorale col quale ci siamo presentati agli elettori, per valutare insieme quelle questioni che riteniamo necessarie e di possibile realizzazione». Per questo le dichiarazioni di Bertinotti, dal quale si separò nel ‘98 quando cadde il primo governo Prodi, «hanno un loro fondamento nella realtà. Prodi è persona molto tenace. È riuscito a superare ed evitare tanti scogli, ma ha abbinato questa sua tenacia a un metodo un po’ paternalistico. Tentando di risolvere i contrasti con qualche telefonata, qualche incontro di vertice all’ultimo minuto. Invece era necessario, e lo è ancora, sciogliere i nodi con spirito realistico. Credo che Bertinotti questo voglia porre. Da questo punto di vista la cosa mi convince».
Per Cossutta «l’errore della sinistra dello schieramento, nel suo insieme, è stato quello di sostenere che ci fossero le condizioni per realizzare cose che viceversa non si potevano realizzare. Non c’è niente di peggio che indicare obiettivi, sbandierarli, sostenerli con forza, battersi per realizzarli e non riuscire a farlo. Perché questo crea negli elettori disillusione, distacco».
Bertinotti, afferma «pone il problema del salario, delle pensioni, del precariato. Mette le questioni sociali al centro. E poi pone un’altra questione: la legge elettorale. Lo sostengo anche su questo. Che sia proporzionale, senza premio di maggioranza e con uno sbarramento di almeno il 5%. Un partito politico, che non supera il 5% non incide, non conta. Fa testimonianza ma non fa avanzare la società. Sono comunista, lo sono sempre stato, continuerò ad esserlo fino alla fine della mia vita. Ma ho imparato che non basta essere comunista, difendere la mia identità. Continuo a pensare che la società per la quale varrebbe la pena di vivere è quella in cui ciascuno riceve quello che è necessario e dà quello che è in grado di dare. Sono del parere ancora che la libertà di ognuno deve essere la condizione della libertà di tutti. Ma il compito di un comunista non è quello di sventolare il proprio nome e il proprio vessillo, ma quello di agire».
La Sinistra di Bertinotti, Mussi, Giordano, Pecoraro e Diliberto «nasce tardi e nasce male perchè la vedo concepita da parte di alcuni dei contraenti come una confederazione di partiti, un’alleanza volta solo a superare il rischio dello sbarramento. Non si va da nessuna parte così. La sinistra che vorrei vedere rinascere e allora pesare e contare, è una sinistra che non è fatta di migliaia ma di milioni di persone, che sono la grande massa dei lavoratori, le loro famiglie, intellettuali, giovani, donne, popolo. Di un popolo che pensa di essere di sinistra ma che non è adeguatamente rappresentato. Una sinistra che non deve superare il 5%, ma il 15%». I simboli? «Falce e martello è un simbolo carissimo, molto importante. Ma se vogliamo tener conto di tutti quelli che vogliono aderire, che si vogliono riconoscere, non può avere il simbolo soltanto di un aspetto di questa sinistra. Oggi Rifondazione è di sinistra, il Pdci è di sinistra, la Sd è di sinistra, ma non sono «la Sinistra», la sinistra è qualche cosa che va oltre loro stessi». E su eventuali scissioni di Rizzo e Sinistra Critica? «Mi auguro di no, ma vedo che agiscono come se già fossero separati. Ma che cosa contano? Che cosa pensano di rappresentare?».

l’Unità 7.12.07
Diciamo sì al Dalai Lama
di Pietro Folena


Caro direttore,
l’articolo di Gabriel Bertinetto («Dalai Lama, perché no?») mi induce a chiederti la parola. La Camera dei Deputati riceverà, in forma ufficiale, il Dalai Lama, che potrà parlare ai parlamentari nella Sala della Lupa, con il Presidente Bertinotti. È la prima volta che accade.
Di fronte a questo avvenimento, nel momento in cui cioè il Parlamento decide di dare il maggior risalto possibile, sia pure compatibilmente con la procedura e la consuetudine, alla visita del Dalai Lama, non arrivano dal governo notizie dello stesso segno. Semmai di segno opposto. Arriveremmo al paradosso: la Camera stenderà i tappeti rossi mentre l’esecutivo chiuderà (speriamo di no) la porta.
Il silenzio assordante del governo non può essere taciuto e tollerato. È necessario, è giusto, è doveroso che il Dalai Lama venga ricevuto con tutti gli onori del caso anche da Romano Prodi e dal ministro degli Esteri D’Alema. E che l’Italia si impegni con i fatti e non a parole per la causa tibetana.
Conosco la politica estera e so bene che non si tratta di una scelta facile. Che la Cina è un paese potente e che si mette in moto ogni volta che il Dalai Lama visita un qualunque stato.
Ma davvero sarebbe stridente la differenza tra noi e gli Stati Uniti, certo non campioni di diritti umani, sarebbe davvero inaccettabile sottostare ai consigli di Pechino.
L’Italia, come Paese fondatore dell’Unione europea, deve confermare la sua vocazione ad essere tra i campioni dei diritti umani, come ha fatto con la moratoria sulla pena di morte. Non ci è consentito fare altrimenti, fare di meno.
Tanto più con un governo di centrosinistra. Nel 1994 Berlusconi lo ricevette. E lo stesso fece Scalfaro. Essere da meno di Berlusconi, su questo terreno, non è accettabile.
www.pietrofolena.net

l’Unità Firenze 7.12.07
Le belle domande della scienza
di Renzo Cassigoli


Nel momento in cui, con l'enciclica di Papa Ratzinger, si torna a discutere di Fede e Ragione, Leggere per non dimenticare presenta oggi un altro libro di grande attualità: Perché la scienza. (Mondadori 2007), che sarà introdotto da Marcello Buiatti. Avvincente come un romanzo, il libro è scritto a due mani: da Luca Cavalli Sforza, lo scienziato che narra la sua lunga avventura di ricercatore, e dal figlio Francesco, filosofo, autore e regista tv. Una sorta di autobiografia sui generis lunga sessant'anni la maggior parte dei quali trascorsi dallo scienziato a ricostruire la storia dell'umanità. Le oltre 370 pagine, sono fitte di interrogativi che aiutano a scoprire come si fa scienza, a capire come nascono le conoscenze, di quali strumenti disponiamo per scavare in un passato le cui tracce visibili sono per lo più scomparse, ma che è rimasto impresso nel nostro patrimonio genetico. Già nell'introduzione lo scienziato si chiede: «Come e perché cambiamo? cosa ci fa diversi di generazione in generazione? Com'è che poche migliaia di individui, muniti di pietre e bastoni sono oggi miliardi ed esplorano il sistema solare?». Cercando di rispondere a domande epocali il libro presenta buona parte di quanto siamo venuti a sapere finora sulla nostra storia più remota. «E in tutto questo tempo cosa hanno fatto i batteri», si chiede lo scienziato? L'interrogativo può apparire strano ma non lo è. Nella prima parte del libro, infatti, si parla di ricerche e di esperimenti compiuti su topi, su moscerini della frutta e su batteri, sapendo che la vita è un fenomeno unico e da quando è comparsa sul pianeta non si è più arrestata. La seconda parte affronta la ricostruzione dell'evoluzione umana, e gli strumenti per indagare la nostra biologia e la nostra cultura. E poi la domanda essenziale: «Cos'è la scienza, perché la si fa? A volte - scrive Luca Cavalli-Sforza - mi sembra che l'umanità sia condannata a conoscere».
Vengono alla mente le parole di Giuliano Toraldo di Francia: «La vita dell'uomo è un apprendimento continuo», scrive il filosofo della scienza. «Crede di tendere a sapere, ma in realtà tende a imparare. Non abbiamo bisogno di essere, ma di crescere. L'uomo "non è", ma "diviene". Ed è non solo capace di "imparare", ma anche di riflettere sull'apprendimento».

Repubblica Firenze 7.12.07
Cavalli-Sforza, luminare della genetica, oggi a "Leggere per non dimenticare"
Indagine sulla natura al di sopra di ogni dogma
di Gregorio Moppi

Chiuso il libro, verrebbe voglia di passare la vita tra laboratori, microrganismi, calcoli matematici. Applicarsi alle scienze per trovare risposte sensate, lucide, soddisfacenti agli interrogativi che attanagliano da sempre l´umanità: dall´origine della vita alle tematiche di bioetica più calde sul piano sociale e politico. Ormai, infatti, a tali quesiti sembrano rispondere piuttosto gli scienziati, la loro intelligenza pragmatica forgiata dal metodo galileiano, che non i filosofi. Il volume in questione è l´autobiografia professionale di un luminare della genetica quale Luca Cavalli-Sforza, professore emerito a Stanford classe 1922, scritto a quattro mani con il figlio Francesco, carriera trentennale di autore e regista cinetelevisivo dopo una laurea in filosofia: Perché la scienza. L´avventura di un ricercatore (Mondadori) viene presentato oggi alle 17.30 presso la biblioteca delle Oblate nell´ambito di «Leggere per non dimenticare». In sala, con il coautore, il genetista dell´ateneo fiorentino Marcello Buiatti. Cavalli-Sforza racconta i suoi successi di investigatore della natura ottenuti grazie all´ausilio di varie discipline (paleoantropologia, demografia, statistica, linguistica). Dalla scoperta della sessualità batterica alla ricostruzione dell´albero genealogico dell´umanità moderna. C´è ovviamente anche la vita privata; e gustosi quadri d´ambiente come le case di tolleranza frequentate nell´adolescenza o la spiegazione del meccanismo dei concorsi universitari pilotati.
Malvezzi nostrani che tuttavia farebbero passare la voglia di fare il ricercatore. A meno di non possedere una bruciante, innata curiosità intellettuale unita al divertimento di cimentarsi nella risoluzione di problemi nuovi. Fattori che traducono la pratica quotidiana della scienza, con la sua condotta rigorosa e priva di pregiudizi, in visione del mondo. Capace di replicare con cognizione di causa e spirito laico a chi vorrebbe imporre a tutti comportamenti dettati da credenze religiose, da prese di posizione ideologiche, da concezioni antiscientifiche. Perciò non soltanto soluzioni in questo libro, ma anche domande. Perché dare credito alla lettera biblica pretendendo, come fanno certe potenti sette cristiane degli States, che gli organismi viventi siano stati creati fin dal principio in forme immutabili? Perché opporsi all´interruzione della gravidanza quando ciò può evitare sofferenze indicibili a un nascituro malato e alla sua famiglia?
Perché contrastare un uso giudizioso degli Ogm, visto che il miglioramento genetico viene praticato da diecimila anni?

Repubblica 7.12.07
Dimenticare è necessario
Piccolo manuale dell'arte di dimenticare
di Umberto Eco


"Dall'albero al Labirinto", un nuovo libro di Eco
L’oblio salva la cultura
Borges aveva immaginato un uomo che ricordava tutto persino lo stormire di una foglia sentita dieci anni prima e questo eccesso lo annientava
Della battaglia di Waterloo non conosciamo certo i nomi di tutti i partecipanti
Il vero problema non è ciò che non sappiamo ma ciò che non possiamo più recuperare

Il problema della necessità di dimenticare nasce nello stesso periodo in cui sin dall´antichità classica si elaborano le mnemotecniche onde ricordare il massimo numero di informazioni possibili (...). Cicerone per esempio citava il caso di Temistocle, dotato di memoria straordinaria, a cui qualcuno propone di apprendere un´ars memorandi. Temistocle risponde che costui «gli avrebbe fatto opera gradita se gli avesse insegnato a dimenticare più che a ricordare» (...). La preoccupazione di Temistocle anticipa (e forse ispira a Borges) l´angoscia di Funes el Memorioso, il quale ricordava in modo talmente ossessivo e insopportabile ciascuna delle sue esperienze, anche il solo stormire di una foglia percepito decenni prima, da essere praticamente un minus habens (...).
Il complesso di Temistocle ritorna varie volte nel corso della storia della cultura, e una delle manifestazioni più drammatiche è certamente la Seconda considerazione inattuale di Nietzsche, sull´utilità e sul danno degli studi storici per la vita. Il testo si apre proprio con una dichiarazione che sembra essere un´altra delle fonti del Funes borgesiano: «(...) Un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l´una dall´altra tutte le cose in punti mossi e si perderebbe in questo fiume del divenire: alla fine, da vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare il dito» (...).
Uno degli elementi d´interesse di questo testo è che esso, dopo queste dichiarazioni che sembrano riferite alle necessità di sopravvivenza di un individuo, sposta il discorso alla necessità di un oblio sistematico per le culture.
Questo spostamento è d´importanza capitale perché, se è stata dimostrata l´impossibilità di dimenticare volontariamente quello che la memoria individuale ha registrato, le culture si presentano proprio come dispositivi che non soltanto servono a conservare e tramandare le informazioni utili alla loro sopravvivenza in quanto culture, ma anche a cancellare l´informazione giudicata eccellente (...).
Si studiano oggi le dimenticanze che una cultura mette in opera attraverso vari tipi di cancellazione, che possono andare dalla censura vera e propria (abrasione di manoscritti, rogo di libri, damnatio memoriae, falsificazione delle fonti documentarie, negazionismo) a fenomeni di oblio per pudore, inerzia, rimorso, sino a quei procedimenti in atto nelle scienze esatte dove si decide che non solo le idee provate errate ma persino gli sforzi e i procedimenti messi in opera per arrivare a quelle considerate giuste, vengono espulsi dall´enciclopedia specializzata di quella tale scienza perché inutili (cfr. Paolo Rossi 1988 e 1998) (...).
Se sono soggette a processi di dimenticanza le Enciclopedie Specializzate altrettanto e ancor più accade con l´Enciclopedia Media di una data cultura. Essa ci garantisce il ricordo dei grandi fatti storici o dei principi della fisica, ma lascia cadere un´infinità d´informazioni che la collettività ha rimosso in quanto non le giudicava utili o pertinenti. (...) Ci fornisce dettagli preziosi sull´andamento della battaglia di Waterloo ma non ci dice il nome di tutti coloro che vi hanno partecipato (...).
Più che di dimenticanza si può parlare di «latenza» del sapere (Cevolini 2006: 99). Non è che le informazioni eccedenti (...) vengano dimenticate. Esse sono per così dire «surgelate» e basta che l´esperto le vada a prelevare e le metta nel forno a microonde ed esse si riattualizzano, almeno ai fini della comprensione di un dato contesto. Questa latenza è rappresentata in fondo dal modello della libreria, o dell´archivio (e persino del museo) come contenitori di un sapere sempre attualizzabile anche se nessuno lo sta attualizzando, o se si è smesso di attualizzare da secoli (cfr. Esposito 2001) (...).
Si è detto che l´Enciclopedia Media non ricorda i nomi di tutti coloro che hanno partecipato alla battaglia di Waterloo. Cosa accadrebbe se uno studioso volesse ora ricostruire questa lista? Ammettiamo che abbia accesso ad archivi rimasti sino ad ora inesplorati, o che venga in possesso di un testo simile all´elenco dei Mille garibaldini partiti da Quarto con Garibaldi (ora disponibilissimo persino in Wikipedia). Questo studioso farebbe ricorso a porzioni dimenticate e rimosse dall´Enciclopedia Media ma che appartengono pur sempre all´Enciclopedia Massimale.
Tuttavia sappiamo che Aristotele nella Poetica cita tragedie di cui non abbiamo mai avuto conoscenza. A quale Enciclopedia appartengono questi testi? Per ora fa parte dell´Enciclopedia Media (o di una Enciclopedia Specializzata) solo la notizia che Aristotele ha citato il mero titolo di queste opere. Se un giorno (come è avvenuto per i manoscritti di Nag Hammadi) si reperissero alcuni di questi testi in una giara, risulterebbe che essi facevano parte dell´Enciclopedia Massimale, anche se nessuno prima di allora avrebbe potuto asserirlo, e che da quel momento faranno parte di una o più Enciclopedie Specialistiche. Ma cosa accadrebbe se invece essi non venissero mai reperiti e continuassimo a conoscerli solo attraverso i loro titoli? Per il fatto stesso che ci sono buone ragioni per credere che siano esistiti, continueremmo a pensare che essi potrebbero far parte dell´Enciclopedia Massimale, anche se per ora ne fanno parte solo in modo virtuale e ottativo (...).
(Anche) un testo (oltre che uno strumento per inventare o ricordare) è uno strumento per dimenticare, o almeno per rendere latente qualcosa (...). Il caso più esplicito di dimenticanza incoraggiata è dato dal romanzo giallo. Per riferirci ad uno dei più famosi di essi, The murder of Roger Ackroyd di Agatha Christie, è noto che il racconto intende colpire alla fine il lettore con la rivelazione che l´assassino è il narratore. Per rendere più gustosa la sorpresa, l´autrice deve convincere il lettore che esso è caduto nella trappola non per malizia sua, di lei, ma per propria insipienza (...). Ed ecco che il narratore, e con lui l´autrice, rielencano una serie di brevi accenni, tutti testualmente presenti, che il lettore non può che aver dimenticato a causa della loro irrilevanza strategica, e che se fossero stati interpretati secondo una sindrome del sospetto, avrebbero pre-rilevato la verità (...).
C´è una serie di racconti scritti da Borges e Casares, e cioè le storie di Don Isidro Parodi, che sembrano basati sullo stesso procedimento, ma portato all´esasperazione e, direi, alla parodia metafisica. Don Isidro Parodi dall´interno di un carcere, e sempre ascoltando racconti e rapporti di personaggi stravaganti o pochissimo attendibili, alla fine arriva sempre a sciogliere l´enigma e vi arriva perché ha ritenuto pertinente un certo dato di cui il racconto parlava. Tal che alla fine il lettore è tentato di chiedersi perché anch´egli non è pervenuto a vincere, dato che aveva in mano le stesse carte di Isidro Parodi. La malizia di Borges sta nel fatto che i particolari che si accumulano nel racconto sono tanti, e tutti egualmente enfatizzati (ovvero tutti raccontati a uno stato enfatico zero), e dunque non c´era alcuna ragione per cui il lettore dovesse memorizzare il particolare A piuttosto che il particolare B (...).
Si potrebbero analizzare le varie culture considerando quei testi che hanno contribuito a cancellare una serie di nozioni dalla loro Enciclopedia Media (...). Se le culture sopravvivono è anche perché hanno saputo alleggerirsi ponendo in latenza tante nozioni, garantendo ai proprie membri una sorta di vaccinazione dalla Vertigine del Labirinto e dal complesso di Temistocle/Fuens. Ma il vero problema non è che le culture alleggeriscano le proprie enciclopedie (il che, si è visto, è fenomeno fisiologico) bensì che si possa sempre ricuperare quello che esse hanno posto in latenza. Per questo l´idea regolativa di Enciclopedia Massimale è ausilio potente per l´Advancement of Learning.

Repubblica 7.12.07
Bertinotti e il dovere del silenzio
di Eugenio Scalfari


HA ragione il capo dello Stato che si dichiara «perplesso» delle parole dedicate dal presidente della Camera a Prodi e al governo da lui presieduto, nell´intervista pubblicata qualche giorno fa dal nostro giornale. Perplesso è l´aggettivo giusto. Fossimo alla Camera dei Comuni l´aggettivo appropriato sarebbe «scandalizzato», ma qui da noi da tempo i presidenti della Camera e del Senato hanno cessato di essere considerati e da considerarsi semplicemente gli «speaker» delle rispettive assemblee. Sono uomini politici che parlano di politica dalle più alte sedi istituzionali, con la sola cautela di astenersi dalle singole votazioni.
Ma anche se questa è la prassi invalsa, questa volta Fausto Bertinotti l´ha visibilmente oltrepassata. Augurarsi, anzi prevedere, anzi dichiarare che il presidente del Consiglio «è morente», che il centrosinistra ha fallito, che l´opinione pubblica l´ha abbandonato e che il suo partito (di Bertinotti) si propone di dissociarsi dalla coalizione e avere «le mani libere», raffigurano un leader politico a tempo pieno che crea un vero e proprio conflitto istituzionale di inaudite proporzioni. Ne era consapevole il presidente della Camera? Ne aveva valutato gli effetti? Oppure si è fatto prendere la mano mettendosi in una posizione che definire imbarazzante è dire assai poco?
Ho grande stima per le capacità suggestive del suo linguaggio e per la sua immaginazione politica. Un po´ meno per quanto riguarda il suo senso delle istituzioni.
Ma il problema ora è di capire perché Bertinotti ha detto ciò che ha detto e poi vedere qual è la via – se ce n´è una – per ricomporre il devastante conflitto istituzionale che si è creato.
Capire ciò che ha detto significa anche valutare ciò che non ha detto. Non ha detto che tra gli sconfitti della situazione politica attuale il primo è proprio lui. La pretesa sconfitta del centrosinistra è in realtà l´isolamento della sinistra radicale e il suo ritorno a quel ruolo di semplice testimonianza antagonista dal quale proprio lui, Fausto Bertinotti, ha tentato di liberarla affidandole una funzione di presenza politica governante e concretamente riformatrice.
Nell´idea di Bertinotti la sua sinistra avrebbe dovuto rappresentare una sorta di affluente nel grande fiume del riformismo italiano. Un affluente di grande importanza e di ampio volume di acque, che avrebbe potuto e dovuto modificare in modo significativo il corso del fiume senza proporsi di invertirlo.
Quest´operazione era molto ambiziosa. Il suo partito era infatti nato non per affluire in un fiume riformista ma per dar vita ad un fiume autonomo. Magari parallelo per una parte del percorso, ma poi orientato verso un altro punto cardinale e sospinto da un´altra pendenza.
Superare questa concezione originaria è stato, fin dal 2004 e sempre più con l´approssimarsi delle elezioni politiche del 2006, l´obiettivo di Bertinotti. Per raggiungerlo si è «inventato» il partito transnazionale della sinistra europea. Per la stessa ragione ha accettato la leadership di Prodi, cioè di un leader senza partito; per dare corpo alla sua strategia ha chiesto la presidenza della Camera, mettendosi oggettivamente di traverso alla candidatura di Massimo D´Alema.
So (l´ho saputo dallo stesso D´Alema) che nella «spiegazione» che ci fu tra loro due, D´Alema gli manifestò il timore che Rifondazione, perdendo il suo segretario, avrebbe rischiato di sbandarsi. Fu rassicurato da Bertinotti su questo punto e – come ricordato da Benigni con l´irresistibile comicità che gli è propria – «fece un passo indietro», ma la sua diagnosi si è dimostrata giusta. Rifondazione ha accettato con molto disagio i nuovi compiti politici che gli venivano assegnati, ha accentuato la necessità di distinguersi all´interno del governo, ha alimentato lo scontro anche se alla fine di ogni «round» decideva poi di riallinearsi per evitare la caduta del governo.
La perdita di consenso di Prodi si deve in gran parte alla permanente rissosità che i ministri della sinistra radicale hanno via via accresciuto, dando agli italiani la sensazione che il governo non fosse in grado di governare. Un giudizio che non corrispondeva alla realtà: il governo in un anno e mezzo e malgrado la situazione numerica al Senato, ha governato. Ha varato due Finanziarie importanti, ha recuperato un accettabile risanamento finanziario, ha dato inizio ad una politica redistributiva non trascurabile, ha svolto un ruolo importante nella politica estera.
Eppure tutto è stato reso invisibile dalla rissa continua all´interno dell´Unione e all´interno del governo. Sui «media» non c´era giorno che non vi fossero titoli su quella rissa, se ne fornissero i retroscena, se ne raccontasse lo svolgimento. La gente ha perso progressivamente fiducia, l´opposizione ha puntato tutto sull´implosione della maggioranza. Chi si è assunto la responsabilità dei danni creati da questa continua ricerca di visibilità? Gli attori mai stanchi di rilanciare lo scontro interno sono stati i gruppi di Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi, oggettivamente coadiuvati sull´opposto versante da Mastella, Di Pietro, Dini. La nascita del Partito democratico ha accelerato questo percorso: dal momento in cui il fiume riformista veniva personificato da un partito e da un leader la situazione degli affluenti non poteva che risultare sempre più disagevole.
Concluderei su questo punto con il vecchio adagio: chi è causa del suo mal pianga se stesso. I «cespugli» della sinistra radicale e Rifondazione non si sono accontentati di correggere il corso del fiume riformista, hanno tentato di invertirne il corso o almeno di dare l´apparenza di questa operazione. Di qui l´apparenza di un governo che galleggiava anziché governare, d´un Prodi Re Travicello travolto dai marosi della sua coalizione.
C´era un´alternativa per la sinistra radicale? Non ce n´era altra che tornare al suo vecchio ruolo di testimonianza antagonista. Bertinotti ha resistito finché ha potuto, poi ha mollato. L´intervista a «Repubblica» è la testimonianza del fallimento della sua politica. Purtroppo porta con sé, a scadenza più o meno breve, la fine dell´esperimento prodiano. A meno che Bertinotti innesti ora la retromarcia. Ma il suo partito lo seguirà?
* * *
C´è un punto che va chiarito: la citazione di Riccardo Lombardi che nelle parole di Bertinotti a "Repubblica" risulta essere il modello della sua azione politica. Bertinotti come Lombardi? Rifondazione come la sinistra lombardiana?
Non posso credere che Bertinotti non conosca a fondo il pensiero e la biografia politica di Lombardi, perciò o ha travisato volutamente o vuole fornire un´immagine di sé e del suo partito che non collima con la realtà.
Lombardi apparteneva allo stesso ceppo riformista di Pietro Nenni. Veniva dal Partito d´azione. Non ebbe mai indulgenze verso l´ala filo-comunista e filo-sovietica che nel Psi era rappresentata da Vecchietti e da Valori. Aveva una solida conoscenza dell´economia, non amava il piccolo cabotaggio riformista e puntava invece sulle riforme da lui definite strutturali: quelle che potevano modificare appunto la struttura del capitalismo senza però impedirne il funzionamento ed anzi rivitalizzandone la concorrenzialità, la trasparenza, l´efficacia e rafforzando la sua scelta democratica.
Le riforme alle quali lavorò quando ebbe inizio il centrosinistra nel 1962, erano quattro: la nazionalizzazione dell´industria elettrica, la nominatività dei titoli azionari, l´abolizione del segreto bancario, la nazionalizzazione dei suoli edificabili. Conosco bene questa storia perché la seguii assai da vicino. Assistetti anche ad un incontro decisivo su tutta questa tematica tra Carli e Lombardi che avvenne in casa mia nel 1963 su richiesta di Riccardo.
La conclusione fu – per dirla molto in breve – che Carli convinse Lombardi sull´impossibilità politica, sociale ed economica di fare quattro riforme di quella portata in un breve spazio di tempo. Avrebbero provocato il panico di tutti i ceti sociali, una crisi nei depositi bancari, una gigantesca fuga di capitali e reazioni politiche di segno autoritario. L´incontro durò fino alle due del mattino. Alla fine Lombardi si convinse. Stralciò la nazionalizzazione dei suoli e l´abolizione del segreto bancario. Concentrò l´azione del Psi sulla nazionalizzazione dell´industria elettrica e sulla nominatività non dei titoli azionari ma delle cedole e dei dividendi all´incasso.
Il suo riformismo cioè riuscì a correggere il corso del fiume riformista senza precipitare in un antagonismo sistemico che serve soltanto a mantenere in vita la ditta dei cespugli grossi e piccoli.
Perciò il modello lombardiano è forse quello cui Bertinotti aspirava ma che il suo partito non ha condiviso.
* * *
Quanto alla crisi istituzionale, è evidente che essa deve essere immediatamente ricomposta. Sulla carta ci sono due modi di affrontarla: le dimissioni di Bertinotti dalla presidenza della Camera oppure una sua stagione di stretto riserbo politico nei limiti d´uno scrupoloso esercizio del suo ruolo istituzionale.
La prima soluzione – quella delle dimissioni – è di gran lunga la peggiore. Aggraverebbe drammaticamente la crisi anziché risolverla; forse sarebbe possibile in un Paese diverso e in una diversa situazione. La seconda dunque è in realtà la sola strada, ma deve avere rilievo pubblico, deve essere esplicita e non implicita.
Non si deve certamente chiedere a Bertinotti ciò che nessun politico è disposto a dare, non gli si può chiedere di smentire se stesso. Ma si ha ragione di chiedergli che dica che d´ora in avanti non farà più esternazioni politiche visto che esse provocano disagio e contrasti accrescendo la confusione.
Prenda atto del dato di fatto e cominci la sua nuova stagione di "speaker", lasciando che il suo partito e gli organi che lo guidano orientino da soli il loro cammino senza bisogno del suo patrocinio. Così avrebbe dovuto essere fin dall´inizio. Lo sia almeno da ora. E lo sia soprattutto per quanto riguarda la riforma della legge elettorale. Sarebbe grottesco e assolutamente intollerabile che il presidente della Camera fosse di fatto uno degli interlocutori degli altri partiti in causa su una materia che troverà in Parlamento la sua sorte. Mai come in questa occasione l´arbitro non può giocare in campo con i giocatori, né nella forma né nella sostanza. Perciò si turi le orecchie, si bendi gli occhi e abbia di mira esclusivamente la corretta applicazione del regolamento parlamentare.

Repubblica 7.12.07
Anticipazione/ Su "MicroMega" in edicola oggi venti saggi sulla laicità
Se tra cattolici e laici il dialogo è una finzione
di Gian Enrico Rusconi


Non si può certo dire che la Chiesa oggi manchi di influenza pubblica, anzi ci si chiede fino a che punto la situazione sia normale

In Italia il dialogo tra cattolici e laici è ormai una finzione diplomatica. E un calcolo di convenienza politica e di aritmetica elettorale. E´ impossibile persino intendersi su chi sia laico e/o cattolico (o credente - come si continua a dire per inerzia convenzionale). Tutti in Italia infatti si dichiarano laici. Anche se spesso aggiungono di esserlo in modo «sano», «nuovo» o semplicemente «vero». Sono aggettivazioni superflue che dissimulano la semplice realtà che i laici in Italia sono una minoranza. Intanto cresce la tendenza a un outing religioso affidato a dichiarazioni soggettive insindacabili, senza alcun rilievo teologico.
Sociologi (e monsignori) scambiano tutto questo come «ritorno delle religioni», dimenticando che la religione tradizionale era in grado di produrre «condotte di vita» sulla base di alcuni riferimenti dogmatici, non disinvolti «stili identitari» meramente soggettivi.
Ma la qualità del consenso che oggi la religione-di-chiesa chiede agli italiani non prevede alcuna specifica competenza teologica. Il suo punto di forza è la rivendicazione del monopolio dell´etica, basato sulla presunta «naturalità» o «razionalità» dei suoi argomenti e delle sue proposte. L´obiettivo del «discorso pubblico» della Chiesa - quello che davvero le sta a cuore per determinare l´etica pubblica - è oggi innanzitutto la difesa della famiglia «naturale» e/o della «vita», collocata in un´indiscutibile («non negoziabile») visione normativa.
Questa visione è dichiarata espressione di un ethos comune, condivisa presuntivamente da tutti gli italiani e quindi da sostenere con dispositivi di legge vincolanti per tutti. Si crea così uno stretto nesso tra una particolare dottrina della natura umana e la presunzione che essa sia condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione. Verità di natura e sentimento popolare festeggiano la loro unione felice. La religione cattolica è promossa a fattore di integrazione sociale, a surrogato di religione civile degli italiani. Naturalmente ci sono consistenti minoranze di credenti che non condividono questa impostazione, ma lo fanno con voce flebile e prudente, benevolmente tollerati dalla gerarchia. Di fatto extra romanam ecclesiam nulla vox.
Tutto questo pone la questione, che qui ci sta a cuore: il rapporto di cittadinanza tra cittadini credenti-di-chiesa e gli altri.
Prima di procedere oltre, mettiamo a fuoco il concetto di «discorso pubblico». Nel modo di parlare corrente esso è usato come sinonimo di «sfera pubblica», a sua volta fatta coincidere con «spazio mediatico». Indica l´insieme dei processi comunicativi che in una società democratica sono aperti per definizione a tutti - individui, gruppi, istituzioni e organizzazioni. Nella sfera pubblica ha luogo anche il confronto degli uomini di scienza sotto forma di interventi pubblicistici sempre più frequenti e apprezzati dalla stampa.
Su questo sfondo - a mio avviso - sarebbe opportuno riservare al concetto di «discorso pubblico» il significato più specifico di operazione che mira strategicamente (per tempi, modi e destinatari) a trasformare convinzioni di parte in norme di legge che valgono per tutti. Soltanto facendo questa distinzione si possono evitare alcuni equivoci. Ad esempio, quando la Chiesa lamenta di essere ostacolata nel suo «discorso pubblico», mescola due situazioni molto diverse.
Confonde l´accesso alla sfera pubblica e mediatica, di cui palesemente la Chiesa non soffre nel nostro paese, con la capacità di far valere senz´altro le sue dottrine presso la grande opinione pubblica e soprattutto presso la classe politica - in materia di rapporti familiari, di sessualità o sui temi scientifici che hanno significativi effetti pratici (l´insegnamento della teoria dell´evoluzione nelle scuole). Soltanto in questo secondo caso si tratta di «discorso pubblico» in senso forte, orientato a essere politicamente influente ed efficace. Ma anche a questo riguardo non si può certo dire che la Chiesa oggi manchi di influenza pubblica. Anzi sorge l´interrogativo sino a che punto la situazione italiana debba considerarsi del tutto normale per una democrazia o non nasconda invece pericoli di distorsione. O detto in altro modo: nasce l´interrogativo se appartenenze particolari, religiose non si sovrappongano, con le loro pretese identitarie, alla cittadinanza costituzionale, cedendo a tentazioni comunitariste.
Torniamo alla de-teologizzazione dell´atteggiamento religioso, di cui parlavamo sopra, fenomeno in generale trascurato o rimosso da teologi e analisti culturali. L´approccio etico-religioso oggi dominante mantiene sfocati (o semplicemente non detti) i riferimenti ai grandi dogmi teologici della colpa originale, della redenzione, della salvezza che storicamente sono (stati) tutt´uno con la dottrina morale della Chiesa. Oggi questi temi teologici sono diventati quasi incomunicabili a un pubblico religiosamente de-culturalizzato. La dottrina millenaria della «natura decaduta con il peccato», che ha sostenuto teologicamente le indicazioni morali tradizionali, viene tacitamente dichiarata obsoleta senza convincenti spiegazioni. La teologia morale è interamente assorbita dalla tematica della «vita» e della «natura» con modalità che rischiano di farla cadere in forme di bio-teologismo o di risacralizzazione naturalistica carica di risentimento verso le scienze biologiche e le teorie dell´evoluzione.
In questo contesto non è facile collocare la strategia comunicativa di papa Ratzinger che talvolta sembrerebbe muoversi in controtendenza quando insiste sui motivi del logos, della ragione e dell´«illuminismo» (Aufklarung). Ma alla fine il suo modo di argomentare attorno alla «razionalità della fede» porta anch´esso alla critica contro la scienza.

Repubblica Roma 7.12.07
Campidoglio. Unioni civili il Pd apre ma la Sinistra vuole il registro
Si profila la spaccatura dell’Unione Delibera contro Ordine del giorno
di Giovanna Vitale


«Non c´è alcuna difficoltà del Pd sulle unioni civili», sgombra subito il campo Pino Battaglia, capogruppo del neonato partito in consiglio comunale. Tant´è che «per uscire dal clima di contrapposizione che si venuto a creare in questi giorni», precisa dettando la linea, «proponiamo un percorso condiviso che faccia compiere reali passi in avanti sul tema dei diritti».
Affiancato dal coordinatore romano, Riccardo Milana, il capogruppo non lo dice esplicitamente ma è chiaro ciò che pensa: per la Sinistra le coppie di fatto sono solo un mezzo per colpire il Pd, ridimensionarlo, acquisire visibilità. E infatti «senza una legge nazionale il registro comunale sarebbe privo di qualunque conseguenza sulla vita pratica delle persone, strumento di pura battaglia politica», ribadisce. Che potrebbe, paradossalmente, trasformarsi nel cavallo di Troia di un´opposizione pronta a votare prima con un pezzo della maggioranza, poi con l´altro, pur di determinare la bocciatura di qualsiasi iniziativa sulle unioni civili. Perché «se non si dovesse trovare un accordo», insiste Battaglia, «noi porteremo in aula un nostro ordine del giorno» che riconosca le tante cose fatte in questi anni a Roma a favore dei diritti delle persone; chieda al Parlamento di legiferare in tempi rapidi; impegni gli assessori all´Anagrafe, alle Pari opportunità e alle Politiche sociali, nonché le rispettive commissioni consiliari, a costruire una delibera-quadro che riorganizzi e dia sistematicità alle garanzie e ai benefici già offerti dall´amministrazione a tutti i conviventi, a prescindere dal sesso e dai legami di parentela. Elencati dalla vicepresidente del consiglio Monica Cirinnà: «Chi risiede nella stessa abitazione gode, per esempio, dell´accesso alle graduatorie delle case popolari o degli asili nido». Il Pd non si farà trascinare in una guerra ideologica: «Il nocciolo di una politica riformista», sottolinea Milana, «è produrre fatti, non agitare drappi ideologici».
Ma la Sinistra, che oggi illustrerà le sue contromosse, insiste. «Presenteremo un emendamento alla delibera consiliare per l´istituzione di un registro delle solidarietà civili, così come proposto dal cattolico D´Ubaldo, dando mandato alla giunta di approvare un regolamento di attuazione entro 30 giorni. Il tempo delle parole è scaduto».

Corriere della Sera 7.12.07
Biografie Un saggio di Silvana D'Alessio
Meteora Masaniello: solo dieci giorni per entrare nel mito
di Giuseppe Galasso


Il 7 luglio 1647 capeggiò l'insurrezione, il 16 fu ucciso La rivolta durò altri otto mesi

Paradossale il destino di Masaniello! Sulla scena della storia egli restò solo per dieci giorni, che certo non fecero tremare il mondo. Tremò, invece, il governo spagnolo di Napoli, e tremò Madrid, alla quale Napoli apparteneva e che già era in gravi difficoltà. Tremò anche buona parte della società napoletana nella capitale e in tutto il Regno, interessata a che si chiudesse al più presto e senza danni lo sconquasso apportato dal movimento scatenatosi a Napoli il 7 luglio 1647 e subito raccoltosi intorno alla figura di quel pescivendolo (o forse meno ancora che tale), di cui nessuno sapeva gran che prima di allora, se non che aveva avuto a che fare con la giustizia e che lo si conosceva nel suo quartiere, uno dei più popolari della città, quello nel quale si trova la chiesa della Madonna del Carmine, alla quale egli era legato e che adottò un po' come tribuna della sua rivolta.
Dopo tre secoli e mezzo di studi, non molto di più si è saputo. Più di qualcosa aggiunge ora anche il libro di Silvana D'Alessio, Masaniello. La sua vita e il mito in Europa,
con prefazione di Aurelio Musi, edito da Salerno. Oscuro è anche che cosa volesse davvero fare Masaniello ritrovatosi a capo della rivolta con poteri praticamente dittatoriali, preso subito in alta considerazione dal viceré spagnolo Duca d'Arcos e da Ascanio Filomarino cardinale arcivescovo di Napoli, invitato e trattato a Corte coi massimi onori e riguardi, con la moglie, Bernardina Pisa, di cui si diceva che fosse stata una prostituta, visitata nella sua povera casa e abbracciata e baciata dalla viceregina di Napoli, ossia da una di quelle dame nobilissime che si ritenevano appartenenti a un olimpo da semidei.
In realtà, nei dieci giorni della sua vita di capo e despota della rivolta Masaniello a un certo disegno politico sembrò avviarsi. Fu chiaro subito, ad esempio, che non voleva affatto staccare Napoli dalla Spagna, e che i nemici maggiori erano per lui l'oligarchia nobiliare della capitale e, ma già un po' meno, l'aristocrazia feudale, l'una e l'altra avverse a una parte del popolo nel governo di Napoli e del Regno quale gli insorti chiedevano. Dopo pochi giorni la condotta del giovane popolano, apparsa all'inizio non priva di saggezza e avvedutezza, pur nella violenza estrema a cui si trascendeva, cominciò, però, a farsi arbitraria e tirannica. Il potere e gli onori gli avevano dato alla testa? Era stato avvelenato dagli Spagnoli? O da chi credeva di servirsene da fantoccio nella conduzione della rivolta secondo idee molto più precise dell'oscuro pescivendolo, ora tanto cresciuto di potere e di personalità? O dai suoi rivali nell'ambito popolare?
Masaniello fu così, il 16 luglio 1647, ucciso a tradimento. La morte violenta ne consacrò, tuttavia, il nome. Le sue esequie furono un'apoteosi incredibile. Cominciò allora, in effetti una sua seconda vita, postuma, per cui egli divenne subito il personaggio della storia napoletana di gran lunga più conosciuto, con ritratti, poemi, cronache, drammi, poesie, e tutto quel che si può desiderare in fatto di fortuna politica postuma. Anche in via di simbolo il suo nome divenne un archetipo, una metafora della cieca violenza rivoluzionaria di una plebe rozza e senza idee, ma molto più spesso, invece, un emblema dell'ingenua, ma forte sete di giustizia e di libertà del popolo contro le oppressioni statali e sociali, una vergine energia che dimostrava le potenzialità di grande azione storica che un simile capo alla testa dei suoi popolani, in altre condizioni, avrebbe potuto svolgere.
Di questa vita postuma di Masaniello il libro della D'Alessio ha dato il quadro migliore finora disponibile, con una grande ricchezza di particolari, così come di vari particolari ha arricchito la conoscenza dei suoi dieci giorni trionfali. Ma il problema della rivolta di Masaniello, durata, dopo il suo assassinio, altri otto mesi, non è solo quello della figura del suo eroe. È anche, e soprattutto, il problema di un moto che sembrò mettere a fiero rischio il possesso spagnolo di Napoli e influire sulle sorti dei grandi conflitti europei allora in corso. Una grande occasione perduta per il Mezzogiorno di sfuggire alla sua sorte di arretratezza? Un vano tentativo senza precisi programmi? Una conferma della debolezza storica del Mezzogiorno? O una vicenda che ebbe un suo senso e una sua corrispondente dialettica di svolgimento? Musi, che apprezza debitamente il lavoro della D'Alessio, accenna anche a tutto ciò nella sua puntuale prefazione a questo libro che si colloca degnamente nella lunga tradizione degli studi masanielliani.

Aprileonline.info 6.12.07
Bertinotti sul sentiero di Lombardi
di Carlo Patrignani


L'analisi Il presidente della Camera ha parlato di una sinistra di programma e governo che sceglie, sulla base delle alleanze possibili, se ci sono le condizioni, cioè i programmi giusti, per stare nell'esecutivo o, in loro assenza, all'opposizione. Non a caso ha citato l'ingegnere "acomunista" che elaborò l'idea del "riformismo rivoluzionario", nella convinzione che si potesse cambiare l'assetto capitalistico soltanto dal di dentro


Una nuova, imprevista ‘mossa del cavallo' con cui Fausto Bertinotti ha spiazzato tutti, alleati ed avversari; ha anche disorientato molti, ma soprattutto ha scompaginato quel campo paludoso e melmoso della Politica dove si rischia sempre di esser risucchiati.

"Il grande tema per la sinistra radicale è uno solo: l'autonomia" ruggisce alla vigilia degli Stati Generali, il presidente della Camera. "Torna una grande questione che nacque nel ‘56 con i fatti d'Ungheria, con la rottura nel Pci, con lo scontro Nenni-Togliatti. Lì nasce una grande cultura politica, una storia enorme, Riccardo Lombardi: e' l'autonomia di un progetto - aggiunge Bertinotti, l'ideatore del Socialismo del 21° secolo - che da allora la sinistra ha cancellato, rimosso". Ed oggi, "per la sinistra radicale il tema si ripropone".

Appaiono, dunque, almeno ingenerose le critiche a Bertinotti, venute anche da esponenti della cosiddetta ‘sinistra radicale', di muoversi verso una sinistra residuale, protestataria, ridotta all'opposizione per l'opposizione, priva di cultura di governo, fino al paludoso e melmoso ricatto: attento, se ti ribelli tornano la destra e Berlusconi per cui è vietato disturbare.

Quella che prefigura invece il presidente della Camera -suffragato dal ricordo a quanto pare ‘vivo' di quel che fu ‘la sinistra lombardiana', uno dei più prestigiosi laboratori di ‘ricerca', di idee e di progetti- è una 'sinistra di programma e governo', che sceglie, di volta in volta, sulla base delle alleanze possibili, se ci sono le condizioni, cioè i programmi giusti, per stare al Governo oppure, in assenza di questi, stare all'opposizione. E per tale sinistra autonoma ‘di governo e di opposizione', il riferimento storico a Lombardi è calzante ed inevitabile: non a caso fu l'ingegnere ‘acomunista' a inventare le riforme di struttura, a ideare quel ‘riformismo rivoluzionario' che non aveva nulla a che fare con il riformismo socialdemocratico o liberale che si limitava a gestire al meglio ‘lo status quo', a progettare il primo centrosinistra e la programmazione economica. E di riforme strutturali quel primo centrosinistra ne fece alcune e di gran peso, come la nazionalizzazione dell'energia elettrica, la scuola media unica, lo Statuto dei diritti dei Lavoratori.

Cambiare l'assetto capitalistico dal di dentro, anche stando al Governo, era l'assunto di Lombardi. Soprattutto, diceva, "non si puo' immaginare di fermare, neanche per un momento, la macchina produttiva per farne una diversa ma dobbiamo modificarla mantenendola in vita: non ci sono i due tempi, la rivoluzione e le riforme: la scelta è per il riformismo rivoluzionario che non ha elementi di contatto con il liberalismo".

Ma come fu l'ideatore, Lombardi fu anche l'affossatore del centrosinistra - la famosa notte di San Genesio - quando verificò che la Dc aveva di fatto svuotato e devitalizzato il programma, il progetto di riforme: a differenza di Nenni che temeva e paventava il ritorno delle destre sollecitate dalla Dc, Lombardi non si fece mai trascinare nel paludoso e melmoso campo della Politica. Allora come oggi, il solito dilemma: se stai al Governo rischi di finire nella palude e nella melma, se esci fai il gioco della destra. Per reggere un confronto così alto, occorre, appunto, un'altrettanto alta identità politica.

Socialismo del 21° secolo, autonomia, ‘riformismo rivoluzionario' sono le strade da percorrere per riappropriarsi di un metodo di fare politica basato sulla "ricerca di una via d'uscita" perché "ogni problema ha una soluzione a patto che non lo si nega". Ma è anche il modo per riscoprire un patrimonio di elaborazioni, progetti, idee il cui pregio era l'autonomia intellettuale dal Pci: in questo si concretizzò il suo ‘acomunismo', che portava Lombardi ad esser vicino e lontano dal partito, senza mai degradarsi all'anticomunismo né assurgere al filocomunismo. E a pretendere sempre ‘l'alternativa' alla Dc, e mai l'alleanza storica bensì quella politica, del momento, quando e se ci fossero state le condizioni.

Bertinotti cita il 1956, l'anno dell'invasione dell'Ungheria e delle prime crepe della politica del 'Fronte Popolare' tra il Pci di Togliatti e il Psi di Nenni. Una mossa davvero intelligente: non a caso Lombardi ben prima di Nenni comprese che il comunismo sovietico non era riformabile e lo disse alla Camera dei Deputati condannando appunto l'invasione sovietica: non vi è socialismo senza democrazia e libertà. La risposta di Togliatti arrivò qualche mese dopo, a gennaio del '57, con una lettera a Sandro Pertini finalizzata ad "attirare l'attenzione" sulla "attività del compagno R.Lombardi per disgregare o tentare di disgregare il nostro partito....E' cosa un po' umiliante per lui, vederlo ridursi a questa funzione, di colui che cerca una spaccatura in casa altrui e crede di potersene nutrire. E' cosa pero' che può portare a un antipatico inasprimento dei rapporti tra i due partiti...Mi pare che poichè Lombardi è della vostra Direzione, ci dovrebbe essere in seno a questa l'iniziativa di dargli un ammonimento".
Dava fastidio, disturbava la quiete pubblica, quell'ingegnere ‘acomunista' che voleva "una società socialista che non c'è mai stata e che permette a ciascuno di realizzare la propria identità".

L'espresso 6.12.07
Il medico ti visita ma è fuorilegge
di Monica Rubino


Diagnosi e terapia affidate a uno specializzando. Che dovrebbe soltanto imparare. E invece cura i pazienti con disturbi psichici. Fra timbri e firme false. Ecco cosa succede nel nuovo Policlinico di Roma. Perché il timbro sull'impegnativa ha un nome diverso dal suo? "Non si preoccupi, facciamo sempre così". Ore 17, ambulatorio di psichiatria del Policlinico di Tor Vergata, la nuova struttura sorta sei anni fa nella zona sud di Roma. La visita si è appena conclusa. Ma non si è visto nessun dottore specializzato nella disciplina, nessun dottore 'strutturato' come si dice nel gergo burocratico sanitario. Davanti a noi, per capire i problemi, diagnosticare una 'depressione con stato ansioso' e prescriverci degli psicofarmaci c'è soltanto una specializzanda. Ossia un medico, laureato da poco e che sta ancora perfezionando la sua formazione. La stessa cosa si ripete un mese dopo, quando alla visita ci presentiamo con una telecamera nascosta. In pratica, tutto il percorso terapeutico del paziente viene affidato a un dottore che, secondo la legge, dovrebbe solo assistere alle visite fatte dal suo tutor, lo specialista esperto. E invece cura i pazienti da sola. Non ha a che fare con influenze di stagione, ma affronta casi delicatissimi, quelli per cui l'esperienza conta più di tutto: i malati psichiatrici. Succede in gran parte delle cliniche universitarie d'Italia. Ma la situazione dell'ospedale romano fa scuola.

L'ambulatorio di psichiatria di Tor Vergata serve un bacino sterminato che comprende tutta la zona sud di Roma, con le borgate che sorgono lungo la Casilina e giungono, oltre il raccordo, fino a Tor Bella Monaca e alle grandi zone residenziali dei Castelli romani. Milioni di persone, quartieri enormi e con alcune aree socialmente a rischio. Il Policlinico è stato inaugurato nel gennaio 2001 grazie anche ai fondi straordinari ottenuti per il Giubileo: una struttura nuovissima, grandi padiglioni di vetro e ferro all'americana, spazi ampi, punti informativi. Persino le casse del Cup, il Centro prenotazioni, sono impostate su un modello amichevole: niente sportelli separati da vetri, ma operatori alla scrivania che ti accolgono facendoti sedere comodamente. Sul sito Internet, ben documentato, si legge che il Policlinico "mira a realizzare un innovativo modello di assistenza: un ospedale umano, aperto e sicuro" che sottolinea la "centralità del malato e la sua dignità come persona". Insomma, all'apparenza una clinica universitaria perfetta. Ma anche l'emblema di una consuetudine fuori dalla legge, diventata ormai prassi legalizzata.
Di un sistema che, lì come nel resto d'Italia, si regge sullo sfruttamento di laureati che ricevono 800 euro al mese per imparare, mentre invece sono di fatto obbligati a esercitare la professione.

A rimetterci è la loro dignità di giovani medici e la loro capacità di perfezionarsi: non possano essere formati da maestri, ma diventano autodidatti, dal momento che vengono messi a lavorare da soli. Tra turni, guardie e ambulatorio è difficile che abbiano il tempo di frequentare corsi e dedicarsi all'approfondimento. Possono venire impiegati senza preoccuparsi degli straordinari o delle notti, perché non hanno orari precisi: il loro compito non sarebbe quello di lavorare ma solo di apprendere. Una condizione di Cenerentole della sanità che riguarda 25 mila neolaureati in tutta Italia: medici che imparano sui propri errori. A spese dei pazienti. Una situazione paradossale soprattutto nella psichiatria, una disciplina in cui l'esperienza è determinante, commettere un errore può avere conseguenze irreparabili. Scambiare una depressione grave per un banale stato d'ansia o prescrivere con troppa leggerezza psicofarmaci a soggetti malinconici, vittime di un qualunque disagio o pseudo-depressi, può essere assai rischioso.

'L'espresso' ha verificato sul campo la situazione. Siamo andati a farci visitare, come pazienti qualunque, e siamo sempre stati esaminati da una dottoressa specializzanda. Al suo fianco non un medico strutturato, ma una studentessa ancora più giovane, non ancora laureata. Una tirocinante che assisteva, per apprendere, alla visita di una specializzanda, che a sua volta stava imparando, da sola, sulla pelle di un paziente.
La dottoressa ci ha fatto alcune domande di prammatica, ha ascoltato il nostro racconto e ha emesso la sua diagnosi: "Depressione con stato ansioso". Ci ha prescritto degli psicofarmaci e ci ha anche dato l'appuntamento per una successiva visita di controllo. Ha marcato l'impegnativa con il timbro del medico di ruolo, sul quale ha vergato a penna una sigla falsa. Sul foglio bianco dove ha prescritto i farmaci, invece, ha messo il suo timbro personale e la sua vera firma. Il tutto tranquillamente, alla luce del sole. Anche se la dottoressa in questione, a differenza di quasi tutti gli altri suoi colleghi che affollano ogni reparto dell'ospedale, non aveva sul camice il cartellino con la scritta 'specializzando'.

Torniamo un mese dopo: ore 10,30, stesso luogo, seconda visita, stessa scena. Sempre lei, sempre sola, questa volta non c'è neanche un tirocinante a farle compagnia. Con noi abbiamo una telecamera nascosta. Le raccontiamo che la terapia ci ha provocato fastidiosi effetti collaterali. La dottoressa corregge le dosi e comincia a scrivere la nuova ricetta. A quel punto le chiediamo a bruciapelo: "Scusi, lei è una specializzanda?". La dottoressa risponde tranquillamente: "Sì". "Ma lei non dovrebbe visitare da sola: uno paga il ticket di una visita specialistica e si aspetta di trovare uno specialista". "Ma si sa, se uno viene in una clinica universitaria si deve aspettare di essere visitato da un medico che è ancora in formazione". Replichiamo: "Sarà pure una consuetudine, ma non è legale". "Comunque il medico strutturato è nella stanza a fianco". "Ah sì? E chi è? La dottoressa che le dà in prestito il timbro, giusto? Me la fa conoscere?". La risposta è laconica: "In questo momento ha altri impegni, ma se vuole, possiamo organizzare per la prossima volta". Noi insistiamo ancora, con determinazione, e alla fine la titolare salta fuori. La specializzanda si premura di rintracciarla e, dopo oltre mezz'ora di attesa, si presenta. Le chiediamo subito: "Mi aspettavo di trovare lei dietro la scrivania e non la sua allieva". "No, qui in ambulatorio ci siamo organizzati così per le visite. Io però sono di guardia, giro per il reparto e sono reperibile...".

Un'organizzazione lecita? Quando allo sportello del Centro prenotazione (Cup) abbiamo chiesto di pagare un ticket inferiore a quello previsto per la visita specialistica perché avevamo incontrato solo un medico specializzando, ci hanno risposto: "Ma questo non è legale, lo specializzando può soltanto assistere alle visite. Mah, che posso dirle, lì in reparto fanno come vogliono. Non posso farle pagare di meno, però se vuole può presentare un reclamo, è un suo diritto". Anche quella del ticket è una forma di truffa ai danni del cittadino, che paga una cifra per una prestazione qualificata che non ha mai ricevuto.

Ma il raggiro colpisce pure le casse della Regione Lazio, dove il deficit per la sanità continua a sprofondare. Molte comunità terapeutiche per malati psichiatrici sono costrette a chiudere per i tagli alle convenzioni sanità decisi dalla giunta Marrazzo, che ha ereditato un buco di 9,4 miliardi di euro mentre altre voragini continuano a spuntare di mese in mese, l'ultima è di 310 milioni, bruciando ogni volta le previsioni di contenimento della spesa. Eppure strutture come il Policlinico di Tor Vergata riescono a rinforzare il fatturato anche grazie ai rimborsi regionali per visite che al nosocomio costano poco o nulla, grazie all'uso disinvolto dei giovani camici bianchi.

Il meccanismo è anche una manna per i primari. A Tor Vergata il numero uno dell'Unità operativa di psichiatria è Alberto Siracusano, professore ordinario e direttore della Scuola di specializzazione. Grazie agli specializzandi, i primari possono aumentare il numero delle visite contabilizzate dalle loro divisioni: il bilancio si arricchisce e di conseguenza anche il potere contrattuale del docente all'interno della facoltà. Il tutto a danno di didattica e pazienti. Uno dei tanti meccanismi impazziti della sanità italiana. Di sicuro non l'unico. Il Policlinico Tor Vergata presenta anche un'altra anomalia: quella di un ospedale pubblico nuovo di zecca che prende in affitto due piani di una clinica privata, la Sant'Alessandro, per lezioni della facoltà di psichiatria e ricoveri di pazienti psichiatrici. Se in ospedale la stanza del primario è vuota forse è perché trascorre gran parte del suo tempo lì, a una dozzina di chilometri dall'ateneo. O perché si dedica alle visite intramoenia: al telefono la segretaria ci spiega che l'appuntamento privato costa 300 euro. Intramoenia, quindi all'interno del Policlinico? "Intramoenia, ma nel suo studio di Corso Francia". La distanza tra il Polo Universitario e lo studio è di 26,5 chilometri: in mezzo c'è tutta Roma, ma proprio tutta.

il Riformista 7.12.07
E Fausto divenne il soccorso rosso di Walter

di Stefano Cappellini

Il paradosso è che nel 1998 l’allora vicepremier Walter Veltroni, inascoltato, ammonì così Romano Prodi: «Guarda che Fausto fa sul serio». Quasi dieci anni dopo, da leader del Pd, Veltroni sta cercando da un paio di giorni di convincere Prodi che stavolta è il contrario. «Bertinotti non vuole la caduta del governo», ha giurato il sindaco di Roma al Professore. Perlomeno non subito, avrebbe forse potuto aggiungere, ma questa è una chiosa di cui Prodi non ha bisogno. Stavolta il Prof ha capito da sé. E le rassicurazioni di Veltroni, realmente impegnato a prolungare la vita dell’esecutivo quanto basta a mettere in cascina la riforma elettorale, servono solo a confermare al presidente del Consiglio che la fine della sua avventura a palazzo Chigi è vicina e che a tracciare una bella X sul calendario è stata proprio la coppia Bertinotti-Veltroni.
Tra i due, in effetti, il rapporto è ormai strettissimo. «Quasi ogni giorno la prima telefonata è con Walter», raccontano fonti vicine al presidente della Camera. «Si sentono quotidianamente», conferma l’entourage del sindaco di Roma. Non c’è bisogno di sherpa o di ufficiali di raccordo, anche perché Bertinotti si muove in solitaria, spesso spiazzando i vertici del suo stesso partito. L’intesa è sopravvissuta pure all’intervista di Bertinotti a Repubblica, che al contrario di quanto pensano in molti (Prodi compreso), non è stata concordata e ha costretto Veltroni a faticare per tenere insieme i pezzi: «Non ho condiviso l’intervento di Bertinotti, anzi alcuni passaggi li ho trovati addirittura sgradevoli», ha detto il sindaco. Bertinotti non si è però pentito di aver piazzato l’affondo, concepito per differenziarsi bene dai morbidi ultimatum del Prc su temi come welfare e sicurezza. E il monito al premier affinché non si metta in mezzo sulla riforma elettorale un effetto voluto, e gradito anche al segretario democratico, l’ha comunque sortito: il vertice dell’Unione convocato da Prodi per ritagliarsi un ruolo nella vicenda, e previsto la settimana prossima, appare adesso un’arma spuntata.
Del resto, la corrispondenza di obiettivi tra il neo-comunista Fausto e il mai-comunista Walter va avanti da tempo. Già in aprile, prima della scesa in campo del sindaco, il presidente della Camera aveva suggerito: «Veltroni può essere il futuro leader della coalizione, rappresenterebbe bene il ricambio generazionale». Quindi, a ridosso del discorso veltroniano del Lingotto, Bertinotti aveva disegnato un percorso parallelo e strigliato i suoi per il ritardo strategico accumulato sul Pd: «Occorre costruire subito una sinistra di alternativa». Il patto definitivo è stato siglato però il 9 novembre scorso, quando Veltroni, accompagnato da Dario Franceschini e Giuliano Amato, si è presentato a Montecitorio per illustrare a Bertinotti il suo piano di incontri bilaterali sulle riforme, per fargli avere in anteprima il testo del Vassallum e per giurargli che il tentativo di evitare il referendum sarebbe stato praticato con impegno e convinzione. Da quel momento il leader comunista sa che ogni mossa di Veltroni è anche finalizzata a un obiettivo che il Prc coltiva da sempre: una legge proporzionale che faciliti la nascita della Sinistra unita e le lasci il margine per non impiccarsi a raffazzonate scelte governiste. Una legge da varare, se necessario, anche con un esecutivo istituzionale in caso di caduta del Prof.
Ecco perché il soccorso rosso è garantito a Veltroni. Pronto a sua volta a ricambiare la cortesia, tanto che ieri è toccato a quest’ultimo rabbonire Fabio Mussi, alleato di Bertinotti nella neonata sinistra Arcobaleno (a proposito, il brutto simbolo e il curioso nome hanno un alto indice di sgradimento dalle parti di Montecitorio), ma molto critico su tempi e modi dell’esternazione a Repubblica. Veltroni ha garantito al vecchio compagno di partito che non c’è intenzione di staccare la spina e che si lavora ancora sull’agenda di governo per il 2008. Ma Veltroni non è riuscito a convincere Mussi che un esecutivo istituzionale rappresenti un possibile piano di riserva: «È un calcolo rischioso - ha spiegato Mussi al termine dell’incontro - perché quando un governo cade si entra in una zona oscura e complessa e le riforme entrano in una terra di nessuno».
Ammesso che non vi siano già entrate. Tanti sono i problemi senza soluzione. Manca ancora la quadra sul sistema elettorale. E proprio la difficoltà a districarsi tra le varie ipotesi in campo spiega ancora meglio perché Veltroni abbia un disperato bisogno di fare asse con Bertinotti. Il quale, a differenza di Massimo D’Alema e degli iper-tedeschi democratici, è disponibile a ibridare il modello teutonico con correttivi spagnoleggianti o maggioritari, come ad esempio un mini-premio lista al partito più votato, compromesso che ieri Veltroni ha illustrato a Mussi e che servirebbe anche a placare la rivolta dei referendari. Insomma, senza l’eterodirezione di Bertinotti il Prc si sarebbe rintanato nel motto “tedesco o niente” e per Veltroni sarebbe stato impossibile arginare il fronte dei filo-Casini. Se poi l’asse si tramuterà in futura alleanza di governo, questo si vedrà.
Per ora resta che, a differenza di Bertinotti, Veltroni qualche rammarico sull’intervista-bomba lo nutre. Perché adesso il sindaco di Roma deve passare metà del suo tempo a impedire che Prodi cominci a ragionare come una mina vagante, reazione tipica del Prof nei momenti di estrema difficoltà e che Veltroni conosce bene per averla sperimentata al suo fianco proprio nel 1998. Nuovi partiti, scomuniche, appelli, lettere aperte, scissioni: non c’è mezzo che Prodi non sia disposto a prendere in considerazione per vendere cara la pelle. L’ultima volta, in primavera, Prodi aveva fatto trapelare il proposito di candidarsi alle primarie del Pd per scongiurare il rischio di dualismi e commissariamenti. È pronto a fare altrettanto. Per questo il leader democrat non vuol concedergli appigli: «Devo esprimere un grande apprezzamento per il lavoro svolto dal governo Prodi in questo anno e mezzo, perché nelle condizioni date ha fatto un grande lavoro», ha detto ieri Veltroni in apertura del coordinamento del Pd. Nella speranza che Prodi lo prenda per un giudizio più sincero delle rassicurazioni sui piani di Bertinotti.

il Riformista 7.12.07
Una falce e un martello per la ri-Rifondazione
di Alessandro De Angelis


Prima una guerra di posizione, ognuno nella propria trincea, si chiami Prc o Pdci. Poi, quando le condizioni lo consentiranno «oggettivamente», si aprirà il fuoco sul quartier generale. L’obiettivo: evitare che il simbolo «falce e martello», e con esso l’idea di un partito dichiaratamente comunista, «venga liquidato dall’operazione Cosa rossa». Anche perché, dicono i comunisti-comunisti, elettoralmente la falce e il martello non si possono abbandonare come se fosse un simbolo qualunque. Fin qui i dirigenti. Ma come in ogni storia che si rispetti, c’è anche un popolo che, fuori dal quartier generale, sventolerà il suo glorioso vessillo. Un po’ come accadde quando Occhetto annunciò la svolta del Pci, e gruppi di militanti accorsero a protestare con la bandiera rossa sotto Botteghe Oscure. Oggi i militanti delle minoranze di Rifondazione saranno fuori del quartier generale di via del Policlinico e lo stesso faranno domenica alla Nuova Fiera di Roma dove si terrà a battesimo la Cosa arcobaleno. Anche lì sventolando la bandiera rossa.
Oggi la minoranza dell’Ernesto si radunerà per dire no “senza se e senza ma” sia al governo che all’arcobaleno. Fosco Giannini la mette giù dura: «Il vaso è ormai colmo su tutti i fronti, dalla politica estera al welfare. Bisogna uscire dal governo e riavvicinarsi ai lavoratori e al popolo della pace». Lui, orgogliosamente leninista, nella Cosa rossa proprio non vuole andare: «È un soggetto governista, nasce complementare al Pd e rinuncia alle lotte sociali».
E soprattutto: «Falce e martello sono simboli irrinunciabili. Il martello rappresenta il movimento operaio. La falce quello contadino. Ma non solo. Hanno pure un valore filosofico: la falce, come diceva Lenin, è il simbolo che taglia un mondo vecchio e ne apre uno nuovo. Una cosa ben diversa dai simboli vegetali o dai non simboli».E aggiunge: «Anche dal punto di vista elettorale il nostro è un consenso comunista e così si perde». Poi annuncia battaglia in vista del congresso: «Questo gruppo dirigente ha fallito, per non ammettere le proprie responsabilità si è inventato questa storia della consultazione e ha pure rinviato il congresso».
Altro partito, stessi toni, sempre in nome di falce e martello. L’europarlamentare del Pdci Marco Rizzo sostiene: «L’elettorato che dovrebbe comporre questa formazione arcobaleno è, grosso modo, per l’80 per cento comunista. Bastava andare alla manifestazione del 20 ottobre per rendersene conto. È una tesi originale che per tenere quell’elettorato e quel popolo il primo passo sia togliergli il simbolo. Se la scelta è definitiva io non sono d’accordo». E aggiunge: «Vedremo alle amministrative chi avrà ragione, ma spero che Diliberto si renda conto che bisogna costruire una sinistra anticapitalista e antiliberista con al centro un partito comunista. Anche perché che cos’è questa Cosa rossa? Manca un progetto, un’anima, un cuore».
Una ri-Rifondazione comunista? Ai tempi della svolta del Pci ex filosovietici, movimentisti, ingraiani si unirono attorno a un simbolo, a una parola e a una storia da tenere in vita e rifondare. Oggi, la ri-Rifondazione comunista presenta qualche elemento di somiglianza: su tutti, il meticciato politico dei protagonisti: leninisti, trotzkisti, comunisti d’antan, no global. Dice Rizzo: «Certo che ci incontriamo, ci sentiamo con molti compagni comunisti, ci conosciamo da una vita». Ma, per ora, in pochi pronunciano la parola scissione. Chi invece romperà subito è Salvatore Cannavò dell’area Sinistra critica, che sabato presenterà il suo movimento con Casarini, Bernocchi e Cremaschi. Spiega: «A sinistra della Cosa arcobaleno deve esserci una sinistra incentrata sui movimenti». Ma soprattutto giura: «La falce e martello non scomparirà». Chi invece ha rotto da tempo col Prc e si prepara a fondare il Partito comunista dei lavoratori è Marco Ferrando che terrà il suo congresso a inizio gennaio e che, alle scorse amministrative, presentando un simbolo con una falce e martello con un mondo come sfondo ha preso l’uno per cento a Reggio Calabria, Ancona, Genova, Rieti. E afferma: «Per noi è un simbolo irrinunciabile, rappresenta le ragioni dei lavoratori e una prospettiva anticapitalista. La necessità di toglierlo è di chi sta al governo e ha votato finanziarie di sacrifici e missioni militari».
E la ri-Rifondazione comunista? La convergenza tra l’area dell’Ernesto e l’area Rizzo del Pdci c’è (molti di loro, tra l’altro, erano con Cossutta ai tempi dello scioglimento del Pci), ma, per adesso, è ancora guerra è di posizione. Per adesso.

Liberazione 7.12.07
Undici tesi contro Habermas

dov'è l'illuminista ateo materialista?
di Paolo Flores d'Arcais


Uno stralcio dal fascicolo speciale di MicroMega in edicola da oggi, dedicato alla laicità. L'articolo di Paolo Flores d'Arcais
apre la rivista: un attacco alle ultime posizioni del filosofo tedesco che vuole conciliare religione e indipendenza dello Stato


1 Da alcuni anni Habermas propone la quadratura del cerchio: tener fermi i principi democratico-liberali secondo una esigente versione repubblicana (rigorosa neutralità dello Stato rispetto a fedi, ideologie e visioni del mondo, effettiva sovranità - delegata/partecipata - di tutti e ciascuno, deliberazione per argomenti razionali universalmente accessibili, necessità di un ethos costituzionale diffuso, anzi quasi onnipervasivo), e allo stesso tempo riconoscere le "ragioni" religiose in quanto tali - cioè le argomentazioni e le motivazioni politiche che fanno ricorso a Dio - non solo come legittime, ma anzi utili, e infine imprescindibili nel quadro della convivenza democratico-liberale. […]
Di più. Il cittadino senza fede religiosa è tenuto a riconoscere «potenziale di verità alle immagini religiose del mondo». A tale possibile verità, anzi, è tenuto ad «aprirsi». Nell'escalation habermasiana di encomio civico-democratico verso le fedi, occorre tributare «alle comunità religiose il pubblico riconoscimento per il contributo funzionale che esse recano alla riproduzione di motivazioni e atteggiamenti desiderabili». La modernità deve essere normativamente vissuta dai laici come «un processo complementare di apprendimento», nel quale «per il cittadino insensibile alla religione» è tassativo l'invito «a definire il rapporto tra fede e scienza autocriticamente», abbandonando l'ateismo tradizionale. Nell'ambito del più generale «esercizio di una frequentazione autoriflessiva dei limiti dell'Illuminismo» che concluda nel «superamento autoriflessivo di una nozione di sé laicisticamente sclerotizzata della modernità».
L'esordio di patriottismo costituzionale, dove la convivenza è regolata «autonomamente e razionalmente con gli strumenti del diritto positivo», etsi Deus non daretur , quindi e inevitabilmente, viene da Habermas rovesciata nella quaresimale ascesi autocritica cui cultura, pratica politica e vissuto esistenziale della laicità illuminista vengono forzati, ad espiazione della presunta afflizione asimmetrica con cui avrebbero, da qualche secolo, angariato i credenti.
Piuttosto comprensibile che un altro autorevolissimo tedesco, Joseph Ratzinger, con questa habermasiana "ragione post-secolare" ci vada a nozze.

2 In che senso, tuttavia, il credente sopporterebbe la vessazione di una pretesa asimmetrica da parte dello Stato, la cui neutralità laica tradizionale non sarebbe dunque affatto imparziale? Innanzitutto perché verrebbe ingiustamente contestato «ai cittadini credenti il diritto di contribuire a pubbliche discussioni in linguaggio religioso». La clausola "etsi Deus non daretur" impone al credente la rinuncia all'argomento-Dio, rinuncia onerosissima che al laico ovviamente non costa nulla.
In realtà, il carattere deliberativo della democrazia liberale […]esige da tutti i cittadini, credenti o non credenti, la medesima autolimitazione: la messa in mora di ogni principio perentorio di autorità. Alla irrecusabile richiesta di argomentazione - perchè? - non è ammissibile replicare con l'assolutismo del "perché sì!" (Why? Because! Pourquoi? Parce que! Dla czego? Dla tego! ecc.). Proprio per questo «lo Stato costituzionale democratico… rappresenta una forma esigente di governo».
Non è vero, dunque, che solo il credente debba rinunciare al proprio "perché sì". L'uso pubblico della ragione esclude il fideistico "Dio lo vuole (che è sempre il proprio Dio)" esattamente come ogni altro presupposto ideologico - agnostico, pagano, ateo - dal naturalismo predatorio di terra e sangue alla radicale non-violenza pacifista, da una morale di edonismo onnipervasivo all'etica di una solidarietà fino al sacrificio. Tutti devono rinunciare ai propri presupposti di valore, credenti e non credenti. […]

3 Habermas articola il suo repubblicanesimo kantiano con una contraddizione: malgrado «ogni religione sia in origine una comprehensive doctrine » che «rivendica l'autorità per strutturare totalmente una forma di vita», i credenti «devono poter esprimere e motivare le loro convinzioni in un linguaggio religioso anche quando non trovano per esse "traduzioni" laiche». Ma il linguaggio religioso "privo di traduzioni laiche" si caratterizza essenzialmente per il carattere dirimente della risorsa "Dio lo vuole!". Dunque, esattamente per la pretesa, perennemente in agguato, di «strutturare totalmente una forma di vita» adeguando le leggi dello Stato al proprio dogma.[…]
Il credente, del resto, può anche sottrarsi all'onere della "traduzione". Per Habermas, tocca ai non credenti (asimmetricamente!) provvedere: bisogna «aspettarsi dai cittadini laicizzati che partecipino a iniziative volte a tradurre contributi rilevanti dal linguaggio religioso a un linguaggio pubblicamente accessibile». Esercizio dal quale «le ragioni religiose emergano nella forma mutata di argomentazioni universalmente accessibili».
E se, a dispetto di ogni laica "buona volontà", tale traduzione risultasse impossibile? In nome di Dio si possono imporre norme che nessuna argomentazione razionale riuscirebbe a rendere compatibile con i valori che Habermas ritiene - a ragione - costitutivi di uno Stato costituzionale democratico (dunque irrinunciabili). Sono talmente tante, queste norme antidemocratiche, che il loro nome è "legione". E si tratta di pretese niente affatto passate. Sempre più incombenti, anzi.
[…] Habermas cerca perciò di uscire dalla spirale di contraddizioni in cui si è avvitato, distinguendo tra l'ambito strettamente politico statuale e quello della pubblica opinione. Solo nel primo dovrebbe valere in modo rigoroso e senza eccezioni l'imperativo della laicità
[…] Da tale obbligo Habermas invece dispensa i cittadini in quanto tali e le loro organizzazioni politiche (oltre che di società civile), perché «estendere questo principio dal piano istituzionale alle scelte di organizzazioni e di cittadini nella sfera pubblica politica» costituirebbe «un eccesso laicistico di generalizzazione». Così si ipotizzano, però, due universi separati di comunicazione, retti da regole opposte e incompatibili. Paradossalmente, Hilary, quando chiede il voto, non potrebbe tirare in ballo Dio, suo marito Bill, che chiede identico voto per lei, sì.
[…] Habermas cerca di sfuggire alle proprie antinomie teoriche con una "soluzione" pragmatica impraticabile. Occulta un "non sequitur" con un miraggio. La realtà, del resto (e la drammaticità del problema) è che nella sfera pubblica tutti (o almeno troppi, e sempre più numerosi) invocano il nome di Dio.

5 E tuttavia, Habermas insiste sulla presunta persecuzione dei credenti: «gli oneri della tolleranza non sono ripartiti simmetricamente fra credenti e non credenti, come dimostrano le norme più o meno liberali sull'aborto». Ma è vero il contrario. Ogni legge occidentale sull'aborto, anche ispirata al più abominevole (per un credente) permissivismo, non costringe nessuna donna. Mai. La lascia libera di scegliere. E' invece Ratzinger che vuole imporre alla donna non credente, o di altra religione, un divieto penalmente sanzionato.
Ancora più evidente l'asimmetria - di segno opposto a quella lamentata da Habermas - se dall'aborto passiamo all'eutanasia. In questo caso non c'è neppure l'alibi di una seconda "persona" (il feto), i cui diritti andrebbero tutelati. […]
Insomma, e sempre: la presunta "asimmetria" laica lascia liberi i cittadini credenti di utilizzare o meno un diritto. L'imposizione del punto di vista credente attraverso la legge costringe invece il non credente a evitare ciò che per il Papa è "peccato", pena la galera.
[…] Ma per Habermas […] «lo Stato liberale non deve trasformare la debita separazione istituzionale tra religione e politica in un peso mentale e psicologico che è impossibile imporre ai suoi cittadini credenti».

6 Si faccia tuttavia attenzione. Non imporre "pesi mentali e psicologici" e tanto meno "alcun obbligo inconciliabile con la loro vita di credenti" sembra equo e ragionevole, ma può aprire un vaso di Pandora di intolleranze efferate. Dipende infatti da cosa esige la loro "vita di credenti". Se esige il rogo per gli eretici (o anche solo di una "vignetta satanica"), lo Stato non solo può, ma deve, imporre al credente il "peso mentale e psicologico" della rinuncia a questa sua religiosissima pulsione. Se esige la mutilazione sessuale delle bambine, lo Stato non solo può, ma deve, punire (con severità impietosa). […]

7 La sfera pubblica sarà perciò pubblica, spazio simmetricamente aperto a tutti i cittadini, solo se tenuta libera da ogni argomento-Dio.
E' del tutto falso, infatti, che «regole eque possono venir formulate soltanto se gli interessati imparano ad assumere di volta in volta anche le prospettive degli altri». Perché mai dovremmo imparare ad assumere - dunque fare nostre - prospettive squisitamente anti-democratiche? E metterci dal punto di vista del nazista, del razzista, del fondamentalista? Al contrario: si tratta di esiliare tutte le pretese di qualsiasi "perché sì", espressioni di mera e totalitaria "volontà di potenza", incompatibili con la democrazia (anche nell'accezione più minimalista). E l'argomento-Dio è un "perché sì" particolarmente minaccioso, che si trascina come un'ombra la tentazione troppo recente del Gott mit uns .
[…] In fondo, si tratta solo del primo comandamento: non pronunciare il nome di Dio invano. Perché utilizzarlo sulla scena pubblica significa precipitare il conflitto delle opinioni e la dialettica democratica nel rischio di una interminabile ordalia.

8 Sul piano cognitivo, tale obbligo eguale per tutti - sensibili o meno a una fede religiosa - significa la rinuncia onnilaterale a qualsiasi pretesa di Verità etica. Le "determinate premesse cognitive" che Habermas giustamente esige come conditio sine qua non perché possa «venir assolto l'obbligo dell'"uso pubblico della ragione"», mettono capo all'applicazione rigorosa del principio di Hume: non si può mai ricavare un valore da un fatto, una prescrizione da una descrizione, un dover-essere dall'essere, una legge morale da una legge scientifica.
[…] Non è vero, allora, che bastino «assunzioni deboli sul contenuto normativo della costituzione comunicativa di forme socio-culturali di vita» per sbarazzarsi della razionalità "disfattistica" di Kelsen. Forme socio-culturali di vita altamente differenziate e complesse sotto il profilo comunicativo, tecnologicamente modernissime, insomma, sono perfettamente compatibili con prassi e costituzioni politiche radicalmente anti-comunicative e illiberali. Cina docet, oggi, come il Führerprinzip ieri. […]
Relativamente alla sfera pubblica, insomma, in fatto di valori dobbiamo limitarci al minimo comun denominatore democratico del patriottismo costituzionale (che andrà precisato).
Tutte le altre Verità etico-politiche hanno pieno titolo ad essere professate, e a motivare esistenze e comportamenti, ma non possono valere come argomento.

9 Neppure la verità "scientista", naturalmente. Che per Habermas rappresenta la vera bestia nera. Il «crudo naturalismo», che è da «intendere come conseguenza delle premesse scientistiche dell'Illuminismo», secondo Habermas, tradisce «tradisce anche una segreta complicità» con «gli assertori dell'ortodossia religiosa», di modo che «mentalità fondamentalistiche e laicistiche», veri e propri opposti estremismi, «mettono a rischio la stabilità della comunità politica con la loro polarizzazione di visoni del mondo».
Il presupposto cognitivo che può salvare la democrazia contro la deriva "scientista" sarebbe per Habermas la «ragione multidimensionale, non bloccata unicamente sul rapporto col mondo oggettivo». Kant ed Hegel ne sarebbero i numi tutelari.
Vizio filosofico del «naturalismo radicale» sarebbe la «riduzione del nostro sapere alla folla di enunciati che rappresentano di volta in volta lo "stato delle scienze"». Vizio etico-politico sarebbe la conclusione sostanzialmente nichilistica di una «naturalizzazione della mente che mette in forse la nostra visione pratica di noi stessi come persone che agiscono responsabilmente e induce a richieste di revisione del diritto penale».
Questa caricatura del naturalismo costituisce una comoda testa di turco, polemizzando con la quale Habermas restaura la propria versione di cognitivismo etico e sottrae democrazia e laicità alle "premesse" cognitive del principio di Hume.
La scienza ci dice "solo" che la neocorteccia svincola la scimmia "uomo" dalla cogenza degli istinti e lo costringe a surrogarli con una norma. Non ci dice (e non pretende di dirci, fino a che rimane scienza) quale norma. Una norma qualsiasi, anzi, purché funzioni. Dunque, ci dichiara padroni e signori della norma, assolutamente responsabili verso di essa. Altro che riduzione «scientificamente oggettivata delle persone».
Piuttosto: la "Ragione" di Hegel a cui Habermas brucia incenso non è ragione, è teologia. Di più. E' restaurazione onnipervasiva della teologia contro le conquiste della moderna scepsi critico-empirica. Tanto è vero che le fantasie più-che-mai metafisiche dell' "Intelligent Design" sono puro Hegel: le vicende empiriche e contingenti dell'evoluzione del cosmo, della terra e della storia dell'uomo, raccontate come res gestae dello Spirito, finalisticamente orientate. […]

1 0 Il disincanto è però per Habermas anche (e oggi forse soprattutto e per lo più) terra desolata (waste land).
«I progressi della razionalizzazione culturale e sociale» hanno contribuito a produrre «distruzioni immani» e «un "deragliamento" laicizzante della società nel suo complesso» che inaridisce le fonti della solidarietà fra i cittadini. Solidarietà da cui «lo Stato democratico deve totalmente dipendere pur senza poterla imporre per legge».
[…] Ratzinger ha già tradotto la laicità di Habermas in linguaggio cattolico: perché la democrazia non precipiti nel nichilismo, tutti - credenti e atei - devono comportarsi "sicuti Deus daretur". Il compiuto rovesciamento della modernità.
Ma il contributo della religione è inestricabilmente double face. Nelle mani di Dietrich Bonhoeffer (o di tanti preti "di strada" che collaborano a MicroMega ) è certamente uno scrigno a disposizione per le libertà. Nelle mani di infinite altre - e più diffuse - costellazioni ermeneutiche, è tentazione certa e permanente di prevaricazione confessionale contro la democrazia. E il sostegno delle comunità religiose, una volta evocato, non è più governabile a piacere.
Di questo aiuto minaccioso non c'è d'altro canto bisogno[…]
Perché «i principi di giustizia penetrino nel più fitto intreccio degli orientamenti culturali di valore» - senza di che per Habermas, giustamente, la democrazia è a repentaglio -, basterà che lo Stato costituzionale democratico, nelle sue politiche sostantive, resti fedele al comun denominatore di valori ricavabile logicamente dal principio procedurale minimo "una testa, un voto" che neppure il conservatore più estremo contesta. E che così minimo non è, se ragionato davvero.

1 1 La democrazia liberale è autos-nomos, sovranità dei cittadini di darsi da sé la legge. Dei cittadini concretamente esistenti, di tutti e di ciascuno, non di una astratta, introvabile e a rischio totalitario "volontà generale". Un voto libero ed eguale presuppone però condizioni materiali e culturali di autonomia per tutti e per ciascuno. Il voto non è libero (una testa, un voto) in un clima di intimidazione mafiosa (una pallottola, un voto), o di corruzione (una tangente, un voto), ma neppure se il bisogno domina l'esistenza di un cittadino o la mancanza di strumenti critici e di informazioni pre-giudica la sua scelta. O se la disparità di risorse tra i candidati pre-giudica i risultati (un dollaro, un voto), o se al confronto argomentativo si sostituisce la pubblicità (uno spot, un voto).
Politiche sostantive di welfare radicale (indipendenza da bisogno), imparzialità e pluralismo televisivo, scuola repubblicana ed educazione permanente, sono perciò pre-condizioni del voto libero ed eguale. Come tali, andrebbero garantite in Costituzione, sottratte all'alea delle maggioranze.
[…] Senza condizioni socio-culturali di autonomia, il voto come strumento di democrazia scolora, si estingue (come sanno tutti i populismi e plebiscitarismi).
Habermas, anziché affrontare il problema delle democrazie attuali, cioè il deficit di democrazia prodotto da politiche anti-libertarie e/o disegualitarie e/o di conformismo culturale e sociale, cioè antidemocratiche anche se maggioritarie, chiama in soccorso le religioni per un supplemento d'anima, di senso e di solidarietà. Ma in tal modo elude la questione: la lotta per la democrazia dentro la democrazia, contro le forze del privilegio e del conformismo che la riducono a flatus vocis. […]

giovedì 6 dicembre 2007

l’Unità 6.12.07
«La sinistra e l’arcobaleno», il nome della Cosa rossa
di Andrea Carugati


C’è il simbolo, ma è considerato solo un segno grafico. Vigilia di Stati generali all’insegna della discordia

ERA IL 1991, nasceva il Pds e Cuore titolava: «Un grande partito, basta che non si parli di politica». Dicembre 2007, nasce la «Sinistra e l’arcobaleno», e quel titolo sarebbe perfetto. Già, perché a due giorni dagli Stati generali della ex Cosa Rossa, che da ieri ha il suo nome e anche il suo «segno grafico» (parlare di «simbolo» è prematuro), l’unica cosa certa è che la Grande assemblea ci sarà sabato e domenica, e che il processo costituente partirà. Hanno dato il via libera al nome ieri i quattro segretari di Prc, Pdci, Verdi e Sinistra democratica, in un vertice mattutino a Montecitorio. In cui si è discusso, eccome, dell’intervista di Bertinotti. Mussi e Diliberto hanno ribadito senza sfumature l’intenzione di dar vita a una forza che non abbia come obiettivo l’opposizione. Giordano ha invece tirato dritto sulla linea del presidente della Camera. Ma si è deciso di passare oltre le divisioni. Diliberto la spiega così: «Abbiamo evitato le polemiche e gli argomenti che ci dividono». E Mussi: «La sinistra unita non sarà una caserma, i passi da compiere devono essere sempre più condivisi». Uno degli argomenti caldi è il simbolo. Che è stato retrocesso a «segno grafico», proprio perché ancora non è chiaro quale uso ne verrà fatto. Lo stesso «segno», nel corso della giornata, è passato da una forma circolare a una quadrata, proprio per perdere la connotazione di simbolo pronto per le schede elettorali. Così come, sempre in giornata, i grafici hanno provveduto a ingrandire la scritta in verde «l’arcobaleno», che rischiava di finire troppo schiacciata dalla rossa «sinistra» e ai Verdi la cosa non andava giù. E così, mentre sulle liste unitarie per le amministrative di primavera ancora non c’è accordo, anche il simbolo soffre. Per Rifondazione (e Mussi), laddove ci saranno liste unitarie, sulle schede ci dovrà essere l’arcobaleno. Non così per il Pdci, che teme una sua scarsa riconoscibilità e preme ancora per inserire all’interno del logo anche i simboletti dei quattro partiti. E in fondo preferirebbe correre ognun per sé, almeno per ora.
Altro nodo della discordia è il referendum che il Prc intende proporre al popolo della sinistra al termine della verifica di gennaio, per decidere se restare o meno nell’esecutivo. Ieri Giordano ha ribadito: «Rifondazione la farà e la proporrà alle altre forze». Ma il Pdci rimanda la proposta al mittente: niente referendum nella nostra base sul governo Prodi.
Discussioni accese anche sull’ordine dei lavori della convention dell’8 e 9 dicembre. A chi tocca aprire? E a chi chiudere? Alla fine si è deciso che i segretari parleranno domenica mattina. Nell’ordine: Pecoraro, Diliberto, Mussi e Giordano. Bertinotti ci sarà ma non prenderà la parola, si è limitato a mandare i suoi «auguri». In pista anche l’ipotesi di una chiusura affidata a Pietro Ingrao, che per ora non trova conferma, anche se la presenza dello storico leader comunista è assicurata. Per l’apertura sono stati scelti due artisti: il comico Andrea Rivera e l’attore Peppe Barra.
Intanto in Rifondazione e anche nel Pdci si levano voci contrarie all’addio alla falce e martello. La minoranza di «Sinistra critica», guidata da Salvatore Cannavò, è già pronta a fare le valigie, lancia la sua costituente anticapitalista proprio per sabato (tra gli ospiti Cremaschi e Casarini) e assicura che, dove potrà, utilizzerà falce e martello alle prossime elezioni. Il gruppo dell’Ernesto, con Claudio Grassi, assicura: «L’arcobaleno tornerà nel cassetto dei quattro segretari. È improponibile unire due partiti diversi come noi e i Verdi». Marco Rizzo del Pdci: «I comunisti sono la maggioranza, è sbagliato cancellare i simboli del lavoro. Lotterò per cambiare questa scelta».
La legge elettorale, infine. Tutti assicurano che al vertice di ieri la questione non è stata affrontata. E che non sarà un tema di discussione neppure nel fine settimana. Certo è che, allo stato attuale, solo Rifondazione spinge decisa per il sistema tedesco. Dunque la vigilia è nervosa. Si punta, tutti uniti, sui cavalli di battaglia della verifica. «Salari, precarietà, ricerca», elenca Mussi. La Sinistra parte da qui.

Corriere della Sera 6.12.07
Testimonianze Per la prima volta in italiano i «Contributi alla filosofia», l'opera che rinnovò la metafisica del pensatore tedesco
La sfida all'eternità
Heidegger rifiuta una Verità al di sopra della Storia ma così nega che l'uomo e il mondo siano necessari
di Emanuele Severino


«Non vi sono tesi somme », ossia «principi », «verità eterne» che sovrastino la storia, il tempo, il divenire. A esprimere questo rifiuto, ormai, non sono soltanto le forme filosofiche del nostro tempo, ma anche la scienza: non soltanto la filosofia — che riferisce tale rifiuto a ogni pensiero e azione dell'uomo, dunque anche a se stessa —, ma anche, e da tempo, la scienza, nella misura in cui essa si libera dall'illusione di essere, oltre che potente, assolutamente vera.
La frase riportata all'inizio è contenuta nei Contributi alla filosofia ( Beiträge zur Philosophie), la grande opera composta da Heidegger tra il 1936 e il 1938, ma mai da lui data alle stampe, e pubblicata postuma nel 1989 per il centenario della nascita del filosofo. L'opera appare ora presso Adelphi, a cura di Franco Volpi, che insieme ad Alessandra Iadicicco ha portato a termine il difficile compito della traduzione.
Nonostante le profonde e suggestive innovazioni rispetto al capolavoro del 1927, Essere e tempo, anche nei Contributi la struttura di fondo del pensiero di Heidegger rimane immutata. A cominciare, appunto, da quel rifiuto di ogni «tesi somma » e di ogni verità eterna e soprastorica. In Essere e tempo si dice: «Che ci siano delle "verità eterne" potrà essere concesso come dimostrato solo se sarà stata fornita la prova che l'Esserci era è e sarà per tutta l'eternità. Fin che questa prova non sarà stata fornita, continueremo a muoverci nel campo delle fantasticherie ». Heidegger sta dicendo che, fino a quando non si proverà che l'uomo (cioè l'«Esserci ») è eterno — eterno, non semplicemente immortale —, sarà solo una fantasticheria parlare di «verità eterne».
Ma per Heidegger è del tutto ovvio che l'uomo (come ogni cosa del mondo) non è eterno e che quindi quella prova non potrà mai esser data— per Heidegger, dico, come per tutti coloro che in qualsiasi campo hanno pensato ed agito da quando, all'inizio della storia dell'Occidente, è apparso il senso del tempo e dell'eterno.
Che nessuna cosa con cui l'uomo abbia a che fare sia eterna è diventata ormai la convinzione più profonda e scontata anche presso la gente comune, tanto che starvi a riflettere sembra una pura perdita di tempo.
Il tempo perduto — che fortunatamente ha forme diverse — i miei scritti l'hanno aumentato di molto, mostrando invece che lo splendore delle cose (anche di quelle terribili) è infinitamente più luminoso di quanto si sia disposti ad ammettere. Hanno cioè indicato, quegli scritti, la necessità che non solo l'uomo, ma tutte le cose siano eterne. Tutte le cose: situazioni, configurazioni, modi di essere, relazioni, attimi, ombre, universi, pensieri, affetti, decisioni, stati visibili e invisibili, nessuna esclusa. Il tempo, la storia, e il comparire e lo scomparire degli eterni. E la necessità che ogni cosa sia eterna è qualcosa di essenzialmente più radicale di quella «prova» dell'eternità dell'uomo che per Heidegger non potrà mai esser data.
Dall'inizio alla fine il tema di questo pensatore è stato «la domanda dell'Essere» ( Seinsfrage).
La domanda — che continua ad attendere la risposta, ma che in questa attesa mostra, per Heidegger, tutta la propria grandezza. L'«Essere » non è l'«ente», non è alcuno degli «enti» (case, fiumi, stelle, pensieri, azioni, uomini, dèi), di ognuno dei quali si dice tuttavia che «è» e che «è» questo e quest'altro. Qual è il senso di questo «è» — ecco la «domanda dell'Essere» —, da cui tutto in qualche modo dipende? Dai Greci a Nietzsche la filosofia è stata riflessione sul senso dell' «ente», ossia è stata «pensiero metafisico», e ha quindi velato la «domanda dell'Essere», pur dando vita alla storia dell'Occidente.
Quella domanda sta, per Heidegger, al di sopra di ogni asserire. Si trova alla sommità del pensare, ma non per questo è una «tesi somma », una «verità assoluta». Essa è «storica ». Anzi, come Nietzsche non ritiene di esser già lui il «super uomo», ma di esserne il profeta, così Heidegger, nei
Contributi, non attribuisce al proprio discorso nemmeno la capacità di costituirsi come l'autentica «domanda dell'Essere », ma solo il carattere di un «pensiero transitorio», che «ai fini della comunicazione deve spesso procedere ancora lungo il tracciato del pensiero metafisico», e i cui «sforzi» «saranno un giorno superflui e ricadranno nell'accidentale » (p. 419). In una conferenza pubblicata nel 1964 e intitolata La fine della filosofia e il compito del pensiero, Heidegger aggiungerà che al proprio pensiero «non può esser riconosciuta alcuna azione immediata o mediata sulla dimensione pubblica dell'epoca industriale, improntata dalla scienza-tecnica», e che «il suo compito ha solo un carattere preparatorio e nient'affatto fondante », giacché «gli basta risvegliare una disponibilità dell'uomo per una possibilità, i cui tratti restano oscuri e il cui avvenire incerto».
Va tuttavia anche detto che queste affermazioni non sono affatto, come Heidegger esplicitamente dichiara, espressione di una «falsa modestia », giacché quell'oscurità e incertezza, quella incapacità di influire sul mondo della tecnica, quel carattere preparatorio e non fondante non sono, per lui, semplici caratteri della scrittura dell'individuo Heidegger, ma sono insieme, e addirittura primariamente, il modo in cui l'«Essere» stesso si vela e si ritrae dall'epoca presente. E lo stesso si può dire di quella «superfluità » e «accidentalità» che nei Contributi Heidegger attribuisce al proprio pensiero. I Contributi sono pertanto grandi prove di una filosofia che vorrebbe allontanarsi dalla tradizione metafisica, pur riconoscendo tutte le difficoltà a cui questo tentativo va incontro, ma insieme essendo convinta che tali difficoltà non sono dovute alle carenze di un certo individuo umano, ma sono le difficoltà in cui le cose stesse si trovano e secondo le quali si costituiscono.
D'altra parte destano sorpresa molte delle tesi, peraltro suggestive, che si incontrano nei Contributi. Sembrano andare troppo più in là di quanto secondo lo stesso Heidegger sia lecito. Ad esempio le tesi dei «venturi», dell'«ultimo Dio» («quello del tutto diverso rispetto agli dèi già stati, specie rispetto al Dio cristiano»), del modo in cui l'«Essere », «vibrando», «oscillando», «fendendosi », si appropria del mondo. Heidegger intende «rovesciare» la metafisica senza abolirla (e il timbro della sua filosofia risulta fortemente neoplatonico), senza cioè abolire la fede di cui parlavo e che guida l'Occidente e ormai il Pianeta: la fede che l'uomo e le cose non sono eterne. Tra i temi più in vista e operanti, nei Contributi, quello del «creare», che è concetto essenzialmente «metafisico». («Quanto è lontano da noi il Dio, quello che ci nomina fondatori e creatori, perché di costoro ha bisogno la sua essenza?»). Ma — dico — nessuna cosa creata è eterna. È creata proprio perché non è eterna. Nessun creatore crea l'eterno. E dell'«Essere» stesso Heidegger esclude che sia eterno. L'«Essere » stesso è «storico».
Ma questa fede nella non eternità di ciò che è non esprime forse la follia estrema? non pensa forse che ciò che è non è (giacché non è eterno)? che il non niente è niente? che cioè gli essenti sono il nulla? certo questa non è come la domanda di Heidegger. Qui è la Risposta — positiva e già da sempre data e non da uno di noi, ma dalla necessità — a sorreggere la domanda.

Corriere della Sera 6.12.07
Il terrorismo in Italia e Germania
Quegli anni rosso sangue
di Vittorio Grevi


Molti probabilmente avranno dimenticato (o forse non erano nemmeno nati) quali ventate di follia criminosa abbiano investito, tra gli anni 70 e gli anni 80, certi esponenti delle generazioni che avevano vissuto, nel bene e nel male, l'esperienza del Sessantotto, fino a condurli ad imboccare la strada della lotta armata contro le istituzioni dello Stato. Difetti di memoria e cortine di oblìo rispetto ad un'epoca tanto tragica per la storia del nostro Paese sono sintomi preoccupanti, anche perché sembrano riflettere una tendenza — più o meno consapevole — alla rimozione collettiva del ricordo degli "anni di piombo". Con l'ulteriore rischio della sua, spesso acritica, sostituzione con le versioni fornite dai responsabili delle gesta di quegli anni, che oggi non di rado, attraverso il veicolo di libri o di interviste, assumono (e talora si vedono riconosciuta) quasi un'aureola di protagonisti positivi. Il tutto nella più totale dimenticanza dei crimini da loro commessi e del sangue versato dalle loro vittime.
Non mancano, tuttavia, le ricerche serie e documentate dirette a descrivere il contesto storico e sociale di quella stagione, le modalità e gli sviluppi del fenomeno terroristico, i suoi collegamenti e le sue manifestazioni anche all'estero. E proprio in questa prospettiva merita di essere segnalato il saggio ( Terrorismo e società, Il Mulino, pagine 296, e 22) che la giovane storica Marica Tolomelli ha dedicato alla analisi del «pubblico dibattito in Italia e in Germania negli anni 70» sull'argomento.
La particolare angolazione dell'approccio parallelo alle realtà del terrorismo italiano e tedesco lungo il decennio considerato è giustificata dalla analogia delle organizzazioni eversive (in particolare, le Brigate Rosse e la Rote Armee Fraktion) e delle loro strategie criminali (culminate,rispettivamente, nel sequestro-omicidio Moro del 1978 e nel sequestro- omicidio Schleyer del 1977); anche se significative differenze si possono cogliere sul piano delle origini, del radicamento sociale e della dimensione politica dei due fenomeni terroristici. Su tutti questi aspetti il volume si sofferma grazie ad un accurato approfondimento delle fonti di documentazione in Italia e in Germania, dedicando bensì ampio spazio alle "campagne" di lotta armata tra l'autunno 1977 e la primavera 1978, ma preoccupandosi soprattutto di cogliere anche le tensioni del dibattito politico e culturale sviluppatosi nei due Paesi e, quindi, il senso della percezione sociale del terrorismo nelle retrostanti opinioni pubbliche. E la sensazione comune era che in entrambi gli Stati il terrorismo avesse lanciato una sfida fatale per la stessa "tenuta" dei due ancor giovani sistemi democratici.
Quello dei rapporti tra ordinamenti democratici e strumenti di difesa sociale contro l'offensiva terroristica è uno dei capitoli centrali del moderno costituzionalismo. Si tratta di un problema di fondo, com'è stato ampiamente documentato anche in un volume di Paolo Bonetti («Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche», il Mulino, pp. 332, e 20), con riferimento al quale si misurano le capacità di ogni ordinamento di resistere all'attacco della violenza eversiva, salvaguardando però le garanzie proprie delle moderne democrazie.
In particolare, per quanto riguarda il nostro Paese, la sfida del terrorismo fu respinta senza far ricorso a leggi eccezionali, ma rimanendo all'interno dei confini definiti dalla Carta costituzionale. E, semmai, facendo leva su interventi legislativi che, pur ispirati alla obiettiva peculiarità delle indagini e dei processi per fatti terroristici, si limitarono a ”sfruttare” per quanto possibile i margini di ragionevole elasticità di quei confini. Al di là della esperienza italiana, tuttavia, è di estremo interesse poter analizzare e verificare attraverso quali strumenti i diversi sistemi democratici siano in grado di affrontare gli attacchi del terrorismo, pur restando "democrazie". Ed è questo, per l'appunto, uno dei grandi pregi dello studio di Bonetti, che — anche mediante opportune comparazioni — offre al lettore un quadro compiuto e aggiornato della questione.

Repubblica 6.12.07
Se la violenza sulle donne viene dalla legge
di Stefano Rodotà


VI SONO forme di violenza insistita e continua che si impadroniscono della vita delle persone, ma sono pure rivelatrici dell´ipocrisia e dell´inadeguatezza delle istituzioni pubbliche. I fatti ce lo ricordano quasi ogni giorno, e quelli più recenti sono particolarmente inquietanti e rivelatori. Mi riferisco ai nuovi dati sulla fuga all´estero delle coppie che cercano di liberarsi dalle maglie proibizioniste della legge sulla procreazione assistita; all´inadeguatezza drammatica delle terapie contro il dolore; alle ruspe che abbattono ciecamente povere baracche in desolate periferie urbane. Sono tutte manifestazioni di una violenza pubblica che genera tensioni, conflitti, sfiducia, e dalla quale non è possibile distogliere lo sguardo o, peggio, allontanarsi progressivamente con una sorta di rassegnata accettazione.
Negli stessi giorni in cui le donne tornavano in piazza non per "manifestare", ma per cercar di ricostruire una consapevolezza comune di quanta sia la violenza che si esercita sul corpo femminile, si è avuta la conferma di una serie di effetti negativi della legge 40, riferiti questa volta al calo delle nascite, all´aumento delle gravidanze plurime, ai nuovi itinerari del "turismo procreativo". Tutte vicende che rientrano proprio in quella categoria della violenza che il 24 novembre si è voluto ricordare, figlia dell´espropriazione del potere femminile di autodeterminarsi, della rinnovata considerazione del corpo della donna come "luogo pubblico" sul quale i legislatori possono impunemente intervenire. E, come sempre accade in questi casi, emergono contraddizioni, ipocrisie.
Dagli stessi luoghi politici ed istituzionali nei quali si esprimeva preoccupazione per la caduta della natalità sono venute regole che hanno avuto come effetto la riduzione dei tentativi di gravidanza con esito positivo (dal 24.8% al 21.2%) ed una diminuzione delle nascite stimata nel 3.6% dal giorno dell´entrata in vigore della legge 40, che dunque sarebbe bene cominciare a definire come quella della "non procreazione" assistita.
I convinti avversari dell´aborto hanno innescato un meccanismo pericoloso che, a causa soprattutto dell´obbligo di impiantare tutti gli embrioni prodotti, ha fatto crescere le gravidanze trigemine (2.7% contro una media dell´1.1% nel restante mondo occidentale) e quindi le interruzioni parziali di gravidanza, aumentate del 100%. Quelli che hanno tuonato contro un enfatizzato far west procreativo sono i responsabili del vero far west nel quale sono state spinte nel solo 2007 già seimila coppie, obbligate ad aggirarsi per l´Europa alla ricerca di cliniche "low cost" per aver accesso a quelle tecniche di procreazione assistita proibite in Italia.
Anche questa è violenza domestica, quella contro la quale sono scese in piazza le donne. Ma questa volta, tra le mura domestiche, l´aggressione non viene dagli uomini lì presenti. Arriva da un legislatore che incarna la logica del potere maschile, quella stessa che in alcuni stati americani aveva fatto nascere i "guardiani della mezzanotte", che entravano nelle case delle donne sole beneficiarie di un sussidio pubblico e, se le trovavano a letto con un uomo, cancellavano il sussidio, considerandole automaticamente "mantenute" da quell´uomo, e non esseri liberi che esercitavano la loro libertà sessuale. Dall´agenda politica questi temi sono stati espulsi. Troppo scottanti per una maggioranza divisa, che sta sacrificando la realtà al realismo politico ed alla presa delle ideologie? Poco redditizi sul piano del consenso, perché le persone interessate sono poche migliaia? Le persone in carne ed ossa, dunque, sono cancellate quando non sono parte di grandi numeri?
Le speranze residue di questo tempo difficile sono affidate alle nuove direttive che, per la procreazione assistita, dovranno venire dal ministero della Salute. Ci si deve attendere che scompaiano almeno le forzature imposte alle linee direttive precedenti, prima tra tutte quella riguardante il divieto della diagnosi preimpianto, la cui illegittimità è stata dimostrata in modo chiarissimo da una bella ordinanza del tribunale di Cagliari. Questa decisione, e quelle altrettanto eloquenti del tribunale di Roma sul legittimo comportamento dell´anestesista nel caso Welby e della Cassazione sul diritto all´interruzione dei trattamenti per le persone in stato vegetativo permanente, indicano la strada dei principi costituzionali come l´unica legittima quando si vuol fare riferimento ai valori che devono ispirare l´azione di Parlamento e Governo. Un grande interrogativo è davanti a noi. La nuova stagione costituzionale consisterà soltanto nella "manutenzione" dei meccanismi istituzionali o, come dovrebbe, rimetterà al centro dell´attenzione la dimensione delle libertà e dei diritti, offuscata in questi anni?
Se questo non avverrà, violenze e ipocrisie continueranno a tenere il campo. Con toni perentori, a chi parla di dignità del morire si oppone la necessità di considerare piuttosto le cure palliative, le terapie antidolore. Ora, a parte il fatto che le due cose non sono affatto incompatibili, guardiamo di nuovo ad una realtà che ci parla di un´Italia ultima nell´Unione europea proprio nelle terapie antidolore, come risulta da un rapporto dell´Organizzazione mondiale della sanità. I calcoli fatti portano a concludere che ogni anno muoiono novantamila malati di cancro senza terapie del dolore, e questa cifra sale assai se si considera che il numero dei sofferenti di patologie diverse dal cancro oscilla tra il 15% e il 20% della popolazione. "La tragica condizione in cui versa la terapia del dolore in Italia è paragonabile alla tortura per omissione" – è stato il commento. La dignità della persona, tanto citata nella chiacchiera pubblica, è negata nei fatti dall´inadeguatezza delle strutture, dalla resistenza dei pregiudizi contro l´uso degli oppiacei, dal persistere di argomentazioni che guardano al dolore quasi che fosse un valore che dà un senso più profondo all´esistenza. Dolore privato e indifferenza pubblica? In quale agenda politica riusciremo a cogliere la consapevolezza dell´immoralità di questa violenza continua, anch´essa domestica, che colpisce alla radice l´umanità stessa di ciascuno e di tutti?
Se seguiamo il filo dei numeri, dei drammi dell´esistere, della violenza sociale, incontriamo le persone, milioni ormai, che vivono la condizione della marginalità, dell´"altro" che accettiamo come produttore di servizi e allontaniamo come essere umano, che confiniamo lontano da noi, in condizioni di vita intollerabili che scopriamo quando producono violenza e per le quali l´unica attenzione istituzionale diventa allora quella dell´ordine pubblico. Delle ruspe che spianano i rifugi dove si sopravvive, dove torna un bambino e scopre che con la sua misera abitazione sono scomparsi anche i suoi libri di scuola. Il caso singolo viene magari risolto felicemente, e il libro "Cuore" torna tra noi. Ma rimane una condizione umana, così ben raccontata da Citto Maselli nell´ultimo suo film, che fin dal titolo, Civico 0, ci parla appunto dell´azzeramento della cittadinanza in un mondo dove, al di là delle singole storie, l´umanità è negata in radice, messa ai margini di strade incessantemente percorse dal fragore del traffico, ridotta a scoria e rifiuto, quasi indistinguibile dai cassonetti nei quali fruga.
Da qui, da questi diversi aspetti della condizione umana, dovrebbe pure muovere una politica che si vuole umana, che aspira a produrre una "agenda" riconoscibile dalle persone, che cerca e trova protagonisti diversi dalle maschere fisse che compaiono nei salotti televisivi. Non è retorica, populismo, buonismo. E´ semplicemente la vita. Se la politica la perde, perde se stessa.

Repubblica 6.12.07
Scompare l'ultima falce e martello
di Filippo Ceccarelli


«Falce martello e la stella d´Italia/ ornano nuovi la sala. Ma quanto/ dolore per quel segno su quel muro». Così Umberto Saba, al teatro degli Artigianelli, «quale lo vide il poeta nel mille/ novecentoquarantaquattro, un giorno», nella Firenze appena liberata, dove ancora «rombava il cannone». La lirica resta commovente, ma da oggi la falce e il martello spariscono dalla vita pubblica italiana.
Al termine di una intricata e defatigante controversia di natura non del tutto allegorica, i rappresentanti di un´entità ancora provvisoriamente nominata come "la Cosa rossa" hanno deciso di fare a meno dell´antico simbolo del lavoro. Il quale venne adottato dal Partito socialista nel 1919, al congresso di Bologna, ordine del giorno a firma di Nicolino Bombacci (che poi ebbe una vita assai complicata), quando tutto spingeva a «fare come la Russia».
Di pura utensileria bolscevica in effetti si trattava. Nel dopoguerra si presero la falce e martello i diversi partiti della sinistra, senza che questo creasse problemi di copyright. Fu Renato Guttuso, con la consulenza di Antonello Trombadori, a disegnare l´emblema stilizzato del Pci, mentre Nenni depose quei due strumenti, graficamente già allora un po´ antiquati, su un libro, Il Capitale; e dietro poi spuntò anche un sole nascente.
All´inizio degli anni ottanta, con un blitz semantico orchestrato dallo scenografo Panseca, Bettino Craxi prima miniaturizzò la falce e martello e poi la fece definitivamente cancellare, con alti lamenti e risentimenti dei tradizionalisti, tra cui Pertini. Quindi prese di nuovo in pugno quei due strumenti, ma per scagliarli addosso ai comunisti, che per qualche anno fecero i superiori. E tuttavia, divenuti «ex» e «post», questi ultimi si lacerarono anche sulla falce e sul martello, chi rivendicandone anche in competizione giudiziaria la piena visibilità (Rifondazione e poi Pdci) e chi (Pds e Ds) attuando un astuto e tutto sommato indolore processo di rimpiazzamento e rimpicciolimento.
Il guaio dei simboli, se di guaio di tratta, e non di una regolarità che ha a che fare con la storia, è che non rimangono tali per sempre. Pensieri, poesie, canzoni, oggetti, pitture, bandiere, variazioni di fede e di propaganda: per quasi un secolo la falce e il martello hanno alimentato e a volte anche incendiato l´immaginario di quattro generazioni. Ma poi arriva un momento in cui il simbolo non penetra più il cuore nascosto, né parla più all´inconscio del militante: e allora è come se avesse perso la sua prodigiosa energia.
Che la fine della falce e martello, circostanza per tanti aspetti epocale, si sia ieri rivelata grazie alla tacita certificazione degli onorevoli Diliberto, Giordano, Mussi e Pecoraro Scanio, tanto per cambiare chiusi dentro una stanza, attorno a un tavolo, è questione che conferma questa perdita, ormai, di potere ideale e di significato psichico. Così come era del tutto prevedibile che qualcun altro si sia già offerto di raccogliere e riutilizzare l´emblema: un po´ per autentica nostalgia, ma forse anche con l´ideuzza che quel residuo sacramentale gli possa far guadagnare qualche voto nel piccolo mondo antico delle abitudini e dei sentimenti. Ovviamente, i dignitari della «Cosa rossa» si sono ben cautelati: e perciò, come sempre in Italia, ci sarà lavoro per gli avvocati.
Ma forse c´è anche da dire che falce e martello, da simbolo nel senso più pieno della parola («Ma quanto dolore per quel segno»!), era inesorabilmente degradato a stemma, marchio, logo, contrassegno. Pretesto di audaci stilisti trasgressivi o spiritosamente impresso sulle mattonelle del bagno del compagno «G», Primo Greganti. Spilletta regalata da Pierferdy Casini a Nichi Vendola. Un giorno lo si immaginò addirittura tatuato sul seno di una sedicente nipotina di Bertinotti. E insomma, addio, senza rancori.
Nel frattempo i maggiorenti della «Cosa rossa» hanno scelto l´arcobaleno. Che ha il vantaggio di essere un logo omologabile fin dall´inizio, ma la curiosa controindicazione di essere stato usato da Prodi e da tutto il centrosinistra, compreso Mastella, alle elezioni del 2005. Poi lo cambiarono, o se ne scordarono: com´è logico in un paese dove tutto sembra sempre così uguale e così diverso.

Liberazione 6.12.07
Intervista all'ex di Potop: «L'Unione è fallita, è vero, ma anche la Cosa rossa non sta bene»
Piperno: «Bertinotti massimalista?
Io vedo solo minimalisti»
di Checchino Antonini


«Ho apprezzato le cose dette da Bertinotti. Ho avuto a lungo il timore di una sua timidezza per il fatto che è incastonato in una carica istituzionale». All'altro capo del filo, da Cosenza, Franco Piperno commenta la dichiarazione di fallimento dell'Unione pronunciata dal presidente della Camera su Repubblica . «Ora, sulla stampa, questo suo giro viene bollato di massimalismo: ma qui vedo solo minimalisti. I massimalisti volevano la rivoluzione subito, qui, invece, si discute se i turni per la qualifica di lavoro usurante debbano essere 79 anziché 80. La sinistra radicale ha finito per far trincea su rivendicazioni minime che non sono passate ma anche se lo fossero sarebbero state un'aspirina».
Sostiene Piperno che lo stesso difetto aveva viziato la costruzione del 20 ottobre: «Lo dico senza offesa, ma quell'evento è stato concepito nel modo più tradizionale, per rafforzare i "nostri" emissari in Parlamento nella polemica contro Dini», spiega il leader sessantottino di Potere operaio, ora docente di Astronomia percettiva ad Arcavacata, l'università della Calabria. Da sempre vicino ai movimenti, Piperno, a cavallo del millennio, ha anche fatto l'assessore alla Cultura di Cosenza. Dopo due anni di Unione si registra un «clima pazzesco» rispetto allo «slancio vitale registrato persino alle ultime elezioni segnate da elementi di speranza, meglio, da elementi di attesa. Tutto ciò viene reso centesimale nella battaglia istituzionale».
Dunque «meglio tardi che mai» le parole di Bertinotti: «Ha avuto il merito di rendere chiara una cosa già avvenuta da mesi» ma il "pessimismo" politico di Piperno non sembra essere smussato dai nuovi avvenimenti: «Se posso esprimere un parere - dice - l'Unione è fallita ma anche la Cosa rossa non sta bene: sempre più cromatica, con il rosso ridotto a uno dei sette colori. Il nuovo simbolo serve a tradurre il bisogno di indeterminatezza dei ceti dirigenti, cancella ogni determinazione anche delle sconfitte che abbiamo vissuto. Si pensi all'allentamento semantico del Partito democratico: alla prossima fusione si chiameranno "Umani". Si chiamavano comunisti e, quand'ero giovane, venni cacciato perché gli dicevo che non lo erano più. Proprio come ha sempre sostenuto Veltroni». Il processo unitario, per Piperno, nasce «condizionato» da una presenza parlamentare squilibrata». In sintesi, l'ex sinistra ds ha oggi un peso improbabile in caso di nuove elezioni. «Questo accentua una sorta di chimica dei partiti - continua - una composizione della burocrazia, la mia impressione è che, così costruita, si infili nel budello delle riforme istituzionali perdendo i canali di comunicazione col movimento. Eppure, solo qualche anno fa, Bertinotti aveva accennato l'idea di un partito che fosse un "pesce nel mare dei movimenti". Sembrava attribuire ai movimenti un carattere strategico, poi una marcia di allontanamento, un rinserrarsi nella dimensione di partito. Invece, il ruolo di Rifondazione, della Fiom, è interessante perché rappresentano la tradizione del movimento operaio. E ai movimenti non è possibile prescindere dal movimento che li ha generati. Non è possibile una rottura senza un processo autocritico. Proprio questo rapporto con la sconfitta del movimento operaio è l'antidoto a elementi di nichilismo e distruttivi presenti in alcuni settori dei movimenti».
E, se è «preoccupante» la «blindatura burocratica» della Cosa rossa, non meno «spettrale» appare, agli occhi di Piperno la Sinistra europea che ha osservato nell'assemblea nazionale, lo scorso week end a Lametia Terme. «Ho assistito a un atto di morte più che di vita - dice - un'assemblea che alludeva soprattutto a una spartizione frettolosa nell'organigramma della futura cosa rossa».
«In gran parte dipende dallo stesso movimento», chiarisce intendendo per movimento non solo la galassia no global e quella dei centri sociali ma «tutti i luoghi dove si forma comunità, dove si produce una socialità diversa dai rapporti mediati dal denaro». Il movimento è soprattutto locale e, a livello nazionale, per Piperno «si rappresenta come ceto politico. Non è che uno è salvo se non valica il luogo "mostruoso" di un'istituzione. Però questa mancanza di strutturazione (Piperno propone un'organizzazione per delegati su mandati vincolanti, una «dimensione soviettista») blocca a chi si impegna su «pratiche differenti da quelle di delega e rappresentanza» un rapporto diverso con i partiti, il Prc, in primis. «Ma unirsi perché anche il Pd lo fa mi pare una cosa di grande astrattezza. Sono più interessato al serbatoio vitale che sono i giovani di Rifondazione, specie nel Sud, spesso l'unico serbatoio aggregativo che nasce da una dimensione sociale piuttosto che libresca, magari estranei al partito degli adulti. Ci trovo lo stesso tipo di inquietudine che spinge a mettere in gioco i propri corpi, lo vedi quando accadono le insorgenze di paese, che riscoprono l'identità dei luoghi, la comunità».

Liberazione 6.12.07
Il decreto anti-rom e il sogno del pastore nero americano
Rileggetevi quel discorso di Luther King...
di Piero Sansonetti


«Ho un sogno: che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo: che tutti gli uomini sono stati creati uguali...»
«Ho un sogno, che un giorno, sulle rosse colline della Georgia, i figli degli antichi schiavi e i figli degli antichi proprietari di schiavi riusciranno a sedersi insieme al tavolo della fratellanza...»
«Ho un sogno oggi! Ho un sogno, che un giorno, giù in Alabama, con i suoi razzisti immorali, con il suo governatore le cui labbra gocciolano delle parole "interposizione" e "annientamento" - un giorno proprio là in Alabama bambini neri e bambine nere possano prendersi per mano con bambini bianchi e bambine bianche come sorelle e fratelli...»
«Ho un sogno oggi! Ho un sogno, che un giorno ogni valle sia colmata, e ogni monte e colle siano abbassati, i luoghi tortuosi vengano resi piani e i luoghi curvi raddrizzati. Allora la gloria del Signore sarà rivelata ed ogni carne la vedrà...».
Le avete riconosciute, vero, queste righe? Lo sapete chi le ha scritte, e le ha urlate in una piazza di Washington più di quaranta anni fa? E' stato un pastore battista americano, nero, geniale, mite e forte, incrollabile, dialogante e testardo, che i fascisti americani, razzisti e reazionari, uccisero a fucilate in una mattina di aprile del 1968. Lo sapete che si chiamava Martin Luther King jr, e che è stato il padre della non violenza moderna e uno dei leader della lotta di massa degli afro-americani. Provate a sostituire - in quel discorso da brividi - alla parola nero la parola rom, o la parola straniero, o migrante, o extracomunitario; pensate per un attimo, invece che al governatore dell'Alabama - il feroce George Wallace - a un governatore di qualche regione italiana o sindaco o roba del genere, provate a immaginare che le parole «colline», e «luoghi curvi e tortuosi», si possano sostituire con la parola «confine di stato» - o di razza, o di popolo - perché è esattamente in quel senso che il dottor King adoperava quelle metafore. E poi ditemi se il sogno di King ha ancora un senso, se riguarda anche noi, se riguarda l'Italia del 2007 e le sue istituzioni.
Io - che non credo in Dio, e tantomeno credo alla gloria del Signore - ho il sogno che stamattina tutti i senatori della Repubblica italiana, di destra e di sinistra, prima di votare il decreto sulla sicurezza (il decreto anti-rom) leggano il discorso di King e ci riflettano su un paio di minuti. Penso che se lo fanno, il decreto verrà davvero stravolto dagli emendamenti, oppure verrà bocciato.
Naturalmente io so benissimo cosa è la realpolitik. Conosco le sue leggi, la necessità talvolta di anteporre le relazioni politiche ad altre considerazioni, di accettare i compromessi, di valutare tutte le conseguenze di ogni atto politico - e non solo il merito, la specificità di quell'atto. E quindi capisco che in queste ore il Parlamento (ieri ed oggi il Senato e poi la Camera) sia impegnato in una battaglia politica delicatissima, con l'obiettivo, o la speranza, di ridurre i danni che questo decreto anti-rom porterà ai grandi principi della civiltà, e di impedire al tempo stesso la caduta del governo. E quindi non posso che apprezzare lo sforzo titanico che i senatori della sinistra stanno compiendo, e insieme a loro anche alcuni parlamentari ex-Ds e alcuni cattolici.
Però - lo ammetterete - è difficile non fremere di rabbia di fronte a quello che sta avvenendo in questo paese: cioè alla freddezza cinica con la quale sono stati mandati al macero i principi fondamentali della civiltà (quel sogno di King: la consapevolezza che gli esseri umani sono tutti uguali, cioè sono fatti della stessa carne e anima ed hanno gli stessi diritti) per calcoli elettorali, per piccole manovre che stanno dentro un gioco che consiste nella conquista (o nella speranza di conquista) di qualche pezzo di opinione pubblica e di elettorato conservatori e xenofobi.
Da parte della destra e da parte di settori significativi anche del centrosinistra.
Lo so che molte parti di questo decreto - anche alcune delle parti peggiori - erano state anticipate da un precedente decreto governativo (del gennaio di quest'anno) che poneva dei limiti ai diritti dei cittadini stranieri, basati sulla loro ricchezza (cioè escludeva i più poveri da questi diritti, ed escludeva le persone sfruttate con il lavoro nero dagli imprenditori italiani). Nessuno si era accorto dell'esistenza di questo decreto, finché non lo ha scovato, e usato, il sindaco leghista di Cittadella, in Veneto, suscitando una indignazione generale - dei politici, dei giornali - che è durata quasi 48 ore filate e poi si è spenta. Ma non era meglio cancellarlo questo decreto assurdo, feudale, invece di rafforzarlo e rilanciarlo? Certe volte mi chiedo: ma per quale ragione l'abbiamo fatta l'Europa, per quale ragione abbiamo buttato via i confini? Per qualche ragione ideale? Temo che in realtà non abbiamo cancellato i confini ma solo le dogane, e che l'Europa è un affare che riguarda i mercati, non i principi, i diritti, gli esseri umani.
Lo so che è impensabile una crisi di governo su un decreto di bandiera, voluto per motivi di bandiera, per motivi elettorali, da alcuni partiti e da alcuni leader, e che non modifica gli interessi e i diritti degli italiani, ma si limita a colpire solo gli immigrati più poveri, e in modo speciale i rom, cioè la popolazione più ininfluente politicamente d'Europa, e la più perseguitata. Che risultati si avrebbero da una crisi di governo aperta così? L'ira della stragrande maggioranza della popolazione e basta. In cambio di qualcosa? In cambio della semplice affermazione teorica di uno dei modestissimi principi della rivoluzione francese... Che ancora deve arrivare sulle rosse colline della Georgia, e che forse è già scomparso anche dagli Appennini e dalle Alpi.

Liberazione 5.12.07
Revelli: «Stupisce tanto stupore, Bertinotti dà un nome alle cose»
di Anubi D'Avossa Lussurgiu


Intervista sull'intervista: «Sento da certi demiurghi della "Cosa rossa" una preoccupante sottovalutazione del contesto
E solo l'ipocrisia può attribuire al presidente della Camera la liquidazione di Prodi, dopo la bomba atomica del Piddì»

Marco Revelli, ci risentiamo: cosa pensi, professore, di quest'intervista a la Repubblica di Fausto Bertinotti? E soprattutto come ti spieghi le reazioni di repulsa nei confronti del suo bilancio sul centrosinistra che ha «fallito»?
La mia impressione, da outsider rispetto alla "macchina" politica, è che mi stupisce... lo stupore. Mi pare che Bertinotti abbia detto cose di assoluto buon senso e che stanno sotto gli occhi di tutti. Semplicemente ha dato un nome alle cose. Che questo anno e mezzo di esperienza sia, usando l'eufemismo più dolce che riesco ad immaginare, deludente; e tanto più deludente quanto più si considera che era stato visto da tanta parte del Paese come una sorta di "ultima occasione": bene, questo bilancio è sotto gli occhi di tutti. Appunto come dice Bertinotti, c'è un elenco intero di riprove: dal terreno della guerra alla giustizia, dal terreno dei diritti dei migranti alla questione sociale, dalle politiche di contrasto alla povertà al welfare.

C'è però chi evoca lo spettro del 1998, quasi peccato originale bertinottiano; non sembra invece l'ombra di Banco d'una politica - specificamente questa formula di centrosinistra - sott'assedio da sé stessa, dalla voragine di crisi democratica della quale abbiamo già parlato?
Bertinotti distingue opportuntamente - direi dando prova di nervi saldissimi, nella condizione attuale - il piano della tattica da quello della strategia. Dicendo che su quest'ultimo siamo «oltre». Qui, ripeto quel che ho già avuto modo d'osservare altre volte: se vogliamo dire le cose come stanno una forza politica centrale, da cui si levano tante delle voci che accusano ora Bertinotti, quale è il Partito democratico, si è già posta oltre. E sul piano della strategia e su quello della tattica. La vera liquidazione di Prodi, su entrambi i piani, l'hanno operata i fondatori del Pd. Unilateralmente si è scelto di modificare la struttura stessa del sistema politico italiano; in maniera tale che chiunque poteva vedere come si trattasse, anche, d'una liquidazione di Prodi.

Ma è lo stesso Walter Veltroni, adesso, a stigmatizzare la «messa in crisi» del governo come portato delle parole di Bertinotti. Presunzione d'ipocrisia a parte, non si vuole forse rimarcare una cifra di fondo del Piddì: il "taglio dell'ala", quella sinistra?
Sì, ma così, in queste circostanze concrete, lo si fa sotto un profilo di puro illusionismo politico. Cioè ad uso e consumo esclusivi della "corte" che fa finta d'essere ingenua quando questi trucchi li conosce perfettamente. Sostenere che lo strappo è quello di Bertinotti dopo aver lanciato una bomba atomica sul governo Prodi, a me pare solo un'operazione di cattiva retorica politica.

C'è un problema: prendono le distanze anche protagonisti del tentativo unitario a sinistra. Un refrain è che una sinistra «più grande» non può nascere se non con «una vocazione di governo», ergo non può fare "strappi" con quello del quale le sue componenti oggi fanno parte...
Ho l'impressione che a sinistra, nelle variegate sinistre, ci sia una preoccupante sottovalutazione del grado di pericolo della situazione attuale. Colgo come una sensazione che si sia ai preliminari d'una partita a scacchi molto lunga e senza una posta precisa o quanto meno immediata. Io, invece, sono terrorizzato. E non vedo questa preoccupazione tra certi demiurghi della "Cosa rossa". Percepisco anzi una sorta di approccio ragionieristico: che è perfettamente non all'altezza della situazione. Perché in atto c'è lo sciogliemento delle due coalizioni, che è in atto concretamente, e insieme la fine del bipolarismo conosciuto. Ma c'è contemporaneamente la liquefazione in un processo molto confuso da una parte di Ds e Margherita e dall'altra di Forza Italia: con Veltroni e Berlusconi entità magmatiche e gassose, leader di partiti-non partiti o che stanno per partire, che si pongono in una funzione costituente. Le consultazioni di Veltroni sono al di fuori di qualsiasi procedura istituzionale controllata e controllabile: il leader del partito che non c'è ancora si fa perno di un sistema di negoziazione sul futuro istituzionale. E' una situazione di assoluta anomalia: c'è una politica liquida, non solo la società. Si cambiano nel corso del gioco le sue regole, da parte di giocatori mutanti. Sullo sfondo d'una situazione economica e sociale preoccupante, con una società che cova veleni e pericoli orribili.

E dunque?
Dunque, ben venga qualcuno che parla chiaro. Se no, a carte coperte si arriverà a quel che i giocatori invisibili vogliono: far ridisegnare le regole dal referendum, assegnando all'uno o all'altro dei partiti non-partiti il premio di maggioranza. In un contesto nel quale i "piccolini" pensano alla riforma elettorale esclusivamente in funzione di quel che succederà al loro singolo "patrimonio" nel prossimo voto.

Ti pare che quest'ultima immagine ricorra anche tra gli interlocutori al tavolo della "sinistra unitaria e plurale" che si riunisce il prossimo week-end?
Francamente, è difficile capire certi discorsi. Lo è soprattutto se bisogna crede che davvero si vuole, in questa situazione, mettere in piedi un'area che con un minimo di serietà - fin qui non in vista - possa far da riferimento a quanti dalla situazione sono preoccupati.

E' una riserva di dubbio o un giudizio di inaffidabilità?
Ascolta: io non riesco ancora a capire perché sei mesi fa non abbiano annunciato la nascita, non dico d'una forma-partito che non è praticabile, ma di un'area istituzionale - strutturata magari con un progetto anche dal punto di vista di mezzi di comunicazione, d'informazione, di produzione culturale coordinati - che fosse in grado di contrastare questa liquefazione isterica del sistema politico italiano. Un'area del 10-15 per cento d'una sinistra minimamente consapevole di sé avrebbe potuto e dovuto costituire la precondizione d'un percorso: gli "Stati generali" sarebbero potuti venire dopo. Insomma: che dirti? Da ora in poi leggerò i giornali, per capire. Ma resto dell'idea che giocare a carte coperte ci porta soltanto alla dissoluzione.

Detto ciò, resta la questione del rapporto fra questa tentata convergenza a sinistra e il bilancio sul governo, ancor più, sulla coalizione dissolta. Non è un po' surreale che ci sia chi se ne sottrae, con i No Dal Molin fuori a chiedere conto e femministe e Glbtq dentro a protestare?
E' la domanda che mi faccio anch'io. Ma è frustrante, perché regolarmente scopro che si parla d'altro. E lo è per quel che rimane d'una soggettività collettiva, misurarsi su questo indecifrabile della politica. Devo dire che l'intervista di Bertinotti mi è parsa sottovalutare lo stato d'avanzamento della crisi della politica, fra rappresentati e rappresentanti: se questi ultimi sono così scadenti, non c'è forse oltre loro stessi una malattia della rappresentanza democratica, del politico? Provo un senso di desolazione quando sento esponenti della sinistra proclamare una vocazione governativa a priori . E' proprio questa dimensione, infatti, quella più colpita dal morbo, che fa implodere la politica. Come dimostrano proprio i pesci in faccia dati dal governo a quelle istanze che prima delle elezioni si corteggiavano. E' questo che dovrebbe diventare parte della riflessione strategica di chi si pone «oltre». Al termine d'una riflessione vera, magari si potrebbe anche concludere che Prodi è il meno peggio: ma dichiarando le cose come stanno, realmente.