sabato 8 dicembre 2007

l’Unità 8.12.07
Stati generali. Una sinistra troppe sinistre
di Gianfranco Pasquino


Gli Stati Generali convocati da Rifondazione Comunista, Pdci, Verdi e Sinistra Democratica costituiscono un appuntamento impegnativo. Si svolge all’ombra del segnale un po’ inquietante, lanciato da Fausto Bertinotti, tempestivamente e non casualmente, di certo inteso a segnare i confini e a indicare le prospettive. Secondo il loquace Presidente della Camera, il governo guidato da Prodi è come un “poeta morente”, anche se la sua morte effettiva può tardare. La eventuale costruzione di una sinistra tipo arcobaleno si inserisce in una situazione nella quale il centro-destra si è spappolato e il PD si è, invece, aggregato, ma è ancora nella fase di risoluzione dei problemi che qualsiasi partito deve affrontare.
Problemi come statuto, struttura, manifesto dei valori, codice etico, e si è lanciato verso riforme, istituzionali, elettorali, regolamentari che incideranno anche sulle fortune della sinistra arcobaleno. In queste condizioni e con la prospettiva di doversi prepararsi ad una eventuale e vicina campagna elettorale, la Sinistra arcobaleno deve offrire non soltanto una risposta organizzativa, comunque, di notevole importanza, ma, in special modo, una risposta politica che non sia egoistica e esclusivamente mirata alla sopravvivenza di ceti politici e di sigle.
Sarebbe ingeneroso, ma anche fattualmente sbagliato, sostenere che nel 2005-2006 e, finora, al governo, nel suo insieme la variegata Sinistra non abbia dato un contributo di impegno e di disciplina nei momenti significativi, ovvero di rischio per la durata in carica del governo. Nella maggior parte dei casi, ad eccezione della crisetta del febbraio 2007, i pericoli per il governo hanno fatto piuttosto la loro comparsa nei pressi del centro, fra i centristi più o meno di tipo “demdem” (molto “democristiani”) e teodem.
Tuttavia, quello che i partiti di sinistra che tentano finalmente una qualche forma di riorganizzazione non hanno voluto e probabilmente saputo fare riguarda la modernizzazione della loro cultura politica. Non si tratta soltanto di partecipare all’azione di governo e di sostenerla, anche se Rifondazione lo fa con grande esibita sofferenza. Si tratta soprattutto di aprire un confronto di tipo pedagogico con quella parte di elettorato che questi piccoli partiti di sinistra rappresentano e che sembrano volere, da un lato, incapsulare, dall’altro, blandire in maniera persino troppo ossequiosa. Eppure, che debba essere il partito, anche se piccolo, a guidare le “masse” è sicuramente un principio di azione politica alquanto noto alla maggior parte dei loro dirigenti politici (e praticato con vigore nel passato). Proprio per questo la Sinistra che verrà fuori dalla nuova aggregazione dovrebbe rispondere con precisione e approfonditamente alla domanda relativa ai suoi rapporti con quell’elettorato: ascoltarlo passivamente, sapendo che le giunge soltanto la voce dei più militanti di quei settori, oppure interloquire spiegando quali sono le prospettive di un’organizzazione politica che si definisce di sinistra in Italia, oggi e domani?
È comprensibile che la Sinistra arcobaleno cerchi di mantenere una sua presenza adeguata in Parlamento e che, di conseguenza, rifugga da un sistema elettorale proporzionale che abbia forti dosi di “disproporzionalità” come ha, più o meno incautamente, rivelato Veltroni a proposito della sua idea di legge elettorale. Il dilemma, però, non può essere accantonato. Consiste nella chiara alternativa tra ottenere rappresentanza parlamentare, ma trovarsi all’opposizione, potendo esprimere con tutte le mani libere le proprie preferenze economiche, sociali, politiche, con scarsissima capacità di incidere sulle scelte effettive, oppure contrattare quelle preferenze per conciliarle in un programma di governo che potrà essere attuato d’intesa con il Partito Democratico, ovviamente sapendo che non è il programma massimo di nessuno. Il rischio è che le varie componenti della Sinistra arcobaleno che sta per nascere preferiscano salvare la loro consistenza percentuale, probabilmente neppure tutta, senza affrontare nella teoria i nodi del loro compito politico e rifiutando nella pratica (cosa che rarissimamente avviene nelle altre sinistre radicali europee) di sporcarsi quelle mani libere nell’ardua opera di governare, in coalizione con il Partito Democratico, le contraddizioni di una società frammentata, individualista, egoista. Allora, il morente non sarà soltanto il governo, ma la stessa prospettiva di cambiamento che pure dentro quella sinistra molti vorrebbero suscitare e fare progredire.
D’altronde, anche nella ipotesi, che viene sollevata da alcune dichiarazioni e da alcuni comportamenti dei dirigenti della sinistra (e anche delle confederazioni sindacali), di un possibile ravvicinato ritorno alle urne, è augurabile che il centro-sinistra vi arrivi con il minimo di tensioni fra le sue componenti e soprattutto, contrariamente a quanto avvenne per un lungo anno dopo la netta sconfitta del 2001, pronto fin da subito a fare un’opposizione politica e programmatica di alto livello e di grande qualità. Insomma, anche se non si vuole e non si sa stare al governo, la Sinistra arcobaleno, e no, dovrebbe prepararsi culturalmente persino a stare all’opposizione nella maniera più efficace per rappresentare, non soltanto a parole, il suo composito elettorato.

l’Unità 8.12.07
La prima volta della Sinistra arcobaleno. Protesta annunciata dei «No Dal Molin»


Giordano: è il primo grande evento sulla scena politica, difenderemo le ragioni del mondo del lavoro e la laicità

Ferrero, Mussi, Bianchi Pecoraro: decisivo per un governo progressista discutere con chi si oppone alla base di Vicenza

I quattro ministri scrivono a Prodi: sulla base di Vicenza ripensiamoci. Ma la contestazione ci sarà. Non ci sarà invece l’Ernesto, corrente del Prc
Oggi e domani gli stati generali della Sinistra arcobaleno, ormai ex Cosa Rossa, si riuniscono alla nuova Fiera di Roma. Il sogno accarezzato dal presidente della Camera Fausto Bertinotti, si avvicina? Per Franco Giordano, segretario del Prc, non ci sono dubbi: «Si tratta del vero grande evento sulla scena politica del Paese che così potrà contare su una sinistra che difende le ragioni del mondo del lavoro e su una sinistra laica, una risorsa ben scarsa di questi tempi». Insomma da oggi, secondo Giordano, «non c'è più solo il Pd ma anche la sinistra».
A chi gli chiede se la federazione della sinistra si presenterà unita sotto lo stesso simbolo alle prossime elezioni, spiega che c'è «un simbolo comune, un segno grafico comune che ci impegniamo ad utilizzare nelle elezioni delle realtà più «rappresentative». E sui litigi di questi ultimi mesi, sdrammatizza: «Abbiamo espresso una dialettica viva, vivace, ma abbiamo anche compiuto tanto lavoro ed espresso il bisogno di unità che la gente ci chiede».
I nodi restano tanti: la forma-partito, ma anche il rapporto con il governo. Verifica sì, ma se per Mussi e Pecoraro Scanio, dovrà rilanciare l'azione del governo e le sue priorità, per Franco Giordano meglio consultare prima la base e dopo la verifica fare un referendum.
Ala Fiera di Roma hanno preannunciato la loro rumorosa presenza anche i comitati «No Dal Molin», in lotta contro l’allargamento della base Usa a Vicenza. Così i quattro ministri della Sinistra arcobaleno - Paolo Ferrero, Fabio Mussi, Alessandro Bianchi e Alfonso Pecoraio Scanio - hanno scritto a Prodi: «Ripensiamoci», «non abbiamo mai condiviso la decisione di dare il via libera all'ampliamento della base. Ma la questione è il rapporto tra governo e popolazione di Vicenza; riteniamo non sia possibile continuare come se nulla fosse, in una situazione in cui la sacrosanta richiesta dei cittadini vicentini di avere un referendum popolare sull'opportunità o meno di ampliare la base, è stata disattesa da chi aveva il potere di organizzare la consultazione». I ministri ricordano che nei primi sei mesi del 2008 si organizzerà una Conferenza nazionale sulle Servitù militari: «ti chiediamo di prendere ogni iniziativa utile per ricercare una soluzione rispettosa della dignità, della qualità della vita e dei diritti dei cittadini vicentini».
Bene, commentano dal presidio davanti al Dal Molin, ma «alle parole, però, devono seguire fatti concreti in grado di riaprire la questione politica e di far diventare la vicenda del Dal Molin una discriminante». Dunque i manifestanti confermano: verranno a Roma perché «le promesse fatte al movimento vicentino vengano mantenute: le nostre pentole suoneranno per pretendere questo, il rispetto degli impegni».
Intanto all’assemblea della Sinistra arcobaleno non mancano le defezioni, come l’Ernesto. Che chiede al Prc di ritirare i ministri dal governo «perché non ci sono più le condizioni». A Gianluigi Pegolo non piace il nuovo segno grafico né l’evanescenza del nuovo soggetto. Non ci saranno, ma non escono dal Prc.
I grassiani, invece ci saranno. Alberto Burgio, Essere Comunisti, aspira a una «gestione collegiale» del partito, dove comunque ognuno mantenga la propria collocazione. Ma intanto slitta il congresso che doveva farsi a marzo del 2008. Burgio mette le mani avanti sulle amministrative 2008. Liste comuni? «Non sta scritto da nessuna parte». Fa fede il documento della conferenza di organizzazione del Prc, che già parlava di un’unità di azione tra le forze di sinistra. Ma senza inficiare la sovranità dei partiti. Anche perché presentarsi uniti «in alcuni casi può essere conveniente, in altri un suicidio politico», come alle europee, «dopo le quali per altro gli eletti dovrebbero dividersi in tre gruppi: Gue, Verdi europei e Pse».

l’Unità 8.12.07
Il potere e gli impostori
di Carlo Alberto Viano


Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento di Carlo Alberto Viano nell’ultimo numero di “Micromega” in edicola da oggi. Il volume, intitolato «Per una riscossa laica», contiene 20 saggi dedicati al tema della laicità firmati anche da Gian Enrico Rusconi, Alessandro Dal Lago, Telmo Pievani, Marco Revelli, Eugenio Lecaldano, Gianfranco Pellizzetti e altri.

La parola “impostura” è quasi del tutto scomparsa dalla pubblicistica come dalla letteratura dotta, e al massimo viene usata nella conversazione privata, per indicare chi millanta capacità e posizioni fittizie allo scopo di ricavarne qualche vantaggio. Eppure quella parola è stata largamente presente in scritti che hanno contribuito a trasformare i nostri modi di pensare e di essere, usata da intellettuali si erano proposti di smascherare imposture collettive, prese sul serio nella vita pubblica. Fin dall’antichità storici come Erodoto o scrittori come Luciano di Samosata avevano svelato i trucchi, simili a quelli dei prestigiatori da fiera, di personaggi che esibivano poteri eccezionali. Perfino un moderato come Cicerone parlava degli inganni degli indovini, figure ufficiali della società antica, un po’ come i ministri delle religioni moderne. E Tito Livio, pur tutto preso dalla restaurazione augustea, mostrava come gli indovini manipolassero il sacro per adattarlo alle decisioni pubbliche più opportune. Machiavelli, che vedeva in Livio una buona guida per capire come nascono e funzionano le società, sosteneva che per metter su uno Stato bisogna ricorrere a imposture religiose.
Erano stati alcuni filosofi arabi a dire che la fede rivelata va bene per i semplici, mentre ai dotti bastano le verità razionali; e Maometto non aveva certamente parlato ai dotti. Finché il sospetto di aver forgiato una religione a fini politici toccava Maometto, la cosa andava bene ai cristiani; ma il contagio poteva diffondersi. Come soltanto con Romolo, senza le imposture religiose di Numa Pompilio, i romani non si sarebbero trasformati da banda di briganti a popolo civile, non si poteva dire che anche Mosè aveva escogitato credenze e pratiche religiose necessarie per costruire l’unità politica degli ebrei?
E Gesù? E se, quando si litiga sulle radici cristiane dell’Europa, la cosa più pratica fosse riconoscere in Gesù l’equivalente di Mosè, anche lui un grande impostore, le cui trovate potrebbero dare un’anima comune ai paesi europei? Non sarebbe neppure una novità, perché nella cultura europea ha circolato l’idea dei tre grandi impostori, Mosè appunto, Gesù e Maometto, i fondatori di quelle che oggi vengono chiamate, con una certa albagia, le religioni monoteistiche. (...)
Eppure storici e filosofi si affrettano a dichiarare che non è il caso di andare a discutere della reale possibilità degli eventi miracolosi, come se fosse disdicevole perfino rifiutarsi di credere che le case si spostino nei cieli. Ma non è un po’ ridicolo che chi fa la storia del miracolo di Loreto dica di non voler discutere se sia davvero avvenuto, come se una casa che vola nei cieli fosse un evento sul quale è prudente astenersi?
Recentemente si è parlato sui giornali e in trasmissioni televisive di Padre Pio, un personaggio che la stessa Chiesa aveva guardato con ostilità o sospetto; si è detto che ci sono prove che acquistasse di nascosto una sostanza urticante, ma si è subito sentito dire che non c’erano prove che la usasse per procurarsi le stimmate. I papi continuano a proclamare santi, riconoscendo un numero enorme di miracoli, e i giornali, anche quelli che pretendono di avere dignità culturale, ne danno notizia come se si trattasse di eventi accertati. Anzi ogni tanto viene annunciato che questo o quel personaggio, da Giovanni Paolo II a Teresa di Calcutta, ha fatto il miracolo, quasi sempre una guarigione, senza che nessuno batta ciglio, come se si trattasse di un normale fatto di cronaca. Il massimo che si senta a proposito delle imposture religiose è una posizione di tipo agnostico: per essere prudenti, rispettosi e di buon gusto bisognerebbe dire che non si è obbligati a credere nei miracoli come non si è obbligati a credere in Dio, ma non si può neppure escludere che i miracoli avvengano o che un essere divino esista. Oggi l’agnosticismo teologico incomincia ad apparire come una forma di reticenza, sostenuta da una filosofia piuttosto rozza, mentre l’ateismo sta riconquistando prestigio; e non c’è ragione di essere reticenti sui prodotti derivati delle credenze religiose, quali sono appunto le imposture.
Ma tant’è. Quando, alla fine del secolo scorso, le ideologie ottocentesche e novecentesche che avevano tenuto viva la critica illuministica alle imposture sono entrate in crisi, i movimenti che si rifacevano a quelle ideologie hanno dovuto andare in cerca del consenso senza fare affidamento sul valore intrinseco delle proprie idee, e ciò li ha spinti a cercare l’appoggio delle istituzioni religiose: la fine della critica religiosa è stato il prezzo che hanno dovuto pagare. Ho fatto una piccola ricerca personale, che vale quello che vale, sulle ricorrenze della parola “impostura” nel dibattito contemporaneo: non soltanto ho constatato che la si usa pochissimo, ma ho visto che le sue rare comparse sono molto istruttive. Come c’era da aspettarsi, è del tutto assente negli scritti di conservatori e tradizionalisti, mentre compare qualche volta in interventi assegnabili alla sinistra. La “grande impostura” è la ricostruzione ufficiale dell’attentato dell’11 settembre e della distruzione delle torri gemelle a New York. Imposture sono le teorie economiche di carattere matematico, messe sempre insieme ai programmi liberistici e attribuite sempre alla scuola di Chicago. Non c’è nulla di male nel mettere in dubbio la ricostruzione ufficiale di un evento, ché anzi si dovrebbe sempre vigilare sugli atti pubblici di un paese; ma allo stato delle conoscenze è difficile dire che quella ricostruzione sia una impostura o che lo sia più delle ricostruzioni alternative, tutte ispirate a posizioni ideologiche. E il mettere indiscriminatamente insieme scuola di Chicago, teorie economiche matematiche e liberismo è piuttosto imprudente; e comunque quelle teorie e quei programmi adducono ragioni che nessuno pretende di sottrarre alla discussione pubblica. Ma è significativo che negli ambienti nei quali pudicamente si tace sulle imposture religiose si consideri l’economia neoclassica come una religione (e il termine assume un senso negativo solo in questo caso) e come un insieme di imposture. Anche Hobsbawm, che nel Secolo breve si intrattiene assai poco sulle religioni storiche del ventesimo secolo, bolla l’economia matematica contemporanea come una vera e propria teologia e condanna i suoi cultori come adepti di una setta. Che l’economia matematica sia una disciplina scientifica e che, come tale, possa essere discussa e criticata con gli strumenti propri della ricerca scientifica e, in particolare, con quegli stessi strumenti che essa adopera, non viene mai preso in considerazione, né si tien conto del fatto che invece le imposture religiose e politiche pretendano di giustificarsi con strumenti straordinari, diversi da quelli dei quali si avvale qualsiasi accertamento scientifico. In conclusione le vere imposture sarebbero creature del capitalismo americano. Le superstizioni diffuse e gli stregoni che le sostengono possono stare tranquilli: non sta bene escludere guarigioni miracolose, stimmate e case che volano, perché bisogna essere rispettosi e poi non si sa mai; ma Chicago e New York, questi sono i luoghi delle imposture. (...)
La cultura contemporanea si è trovata così disarmata di fronte alle imposture, indotta a tacere sulle loro falsità. Si può capire benissimo che preti e politici abbiano bisogno di imposture, che debbano promettere ciò che non possono fare e tacere su ciò che effettivamente fanno. Si capisce anche che manipolatori di idee e produttori di convinzioni li aiutino; ma qualcuno potrebbe pur dire che certe cose sono false, anche se si invoca il rispetto dovuto a istituzioni e credenze religiose per far tacere chiunque dica che i libri sacri sono pieni di imposture, che i preti sono anche impostori, che quello di san Gennaro è un imbroglio. Ma la verità non è rispettosa, e le imposture non sono faccende complicate, di quelle per le quali viene da dire "chissà dove sta la verità?". Sono banali falsità: sospendere il giudizio su risurrezione dei morti o case che volano è soltanto ridicolo. I filosofi teneri con le imposture invocano l’incertezza delle nostre conoscenze, il carattere soggettivo delle stesse conoscenze scientifiche, la non corrispondenza tra discorsi veri e realtà, magari invocano Gödel per liberarsi dal vecchio adagio che la matematica non è un’opinione e non smettono di proclamare che le parole vengono prima delle cose. Il telescopio per guardarsi i piedi: per difendere le imposture va messo in campo un bagaglio onerosissimo, mentre per confutarle basta pochissimo. La Verità chissà dov’è, ma ci sono alcune cose vere e alcun false: tanto basta per mettere a nudo le imposture, almeno quelle diffuse e grossolane.

l’Unità Roma 8.12.07
Coppie di fatto
Cambia il nome, ma la delibera va avanti
di ma.ge.


Che siano pure “Unioni solidali” e non “Unioni civili”. Ma sul riconoscimento delle coppie di fatto Sinistra e Rnp non hanno intenzione di fare marcia indietro. Ribadiscono che porteranno in aula la delibera per l’istituzione del Registro, iscritta all'ordine del giorno dei lavori, ma già bocciata da Pd e Udeur. Con alcune modifiche al testo. La prima, appunto, sta nel nome del Registro che sarà “delle Unioni solidali» e non «civili». La seconda sta nelle premesse, che, interamente riscritte nel maxi-emendamento, fanno ora riferimento sia alla “tutela assegnata alla famiglia dall'articolo 29 della Costituzione”, sia al programma elettorale di Veltroni, che Il nuovo testo riprende e reinterpreta parlando di un “registro amministrativo e anagrafico che consenta all'amministrazione di svolgere azioni positive” verso le coppie di fatto, laddove il programma si limitava a rivendicare e rilanciare la scelta di erogare servizi in base alle “famiglie anagraficamente conviventi, prendendo così atto delle forme liberamente adottate dai cittadini e dalle cittadine per le scelte di convivenza e di registrazione anagrafica”.
Il fatto è che nella delibera resta il punto che divide la Sinistra e il Pd. Ovvero: “Che la presente proposta assume valore di “libero impegno” tra i contraenti in quanto promessa di affetto e solidarietà”. Insomma il riconoscimento dei “vincoli affettivi”. Cosa che secondo il Pd non compete al Comune: “Specie ora che in parlamento c'è un testo di legge per il riconoscimento delle coppie di fatto”.
Il Pd, pronto a presentare un odg che rivendichi la politica non “discriminatoria” del comune e anticipi la delibera quadro proposta da D'Ubaldo per risistemare la materia anagrafica e istituire un “Registro delle Solidarietà”, ha già detto che voterà contro la delibera (“puramente simbolica e senza conseguenze pratiche se non quelle di dividere la maggioranza”). E fa pressing perché Sinistra e Rnp la ritirino.
Ma dai capigruppo di Rnp, Sd, Prc, Verdi e Pdci, arriva un secco no: “Abbiamo presente la simbolicità dell'atto, ma qui si tratta di decidere se la mettersi in ginocchio davanti ai poteri di oltretevere o meno”.

Repubblica 8.12.07
Il Bene, il Male e il Bello


L'arte è un patto con il diavolo o con Dio? Che la grande ispirazione, quella che mette le ali all'immaginazione e alla creatività, abbia bisogno di qualcosa di soprannaturale per elevare l'artista oltre la dimensione domestica e tranquilla della quotidianità, è un motivo ricorrente nella rappresentazione culturale dell'Occidente, e la vicenda di Faust che stringe un patto di sangue con Mefistofele è lì a ricordarcelo.
Ma dato che il Bene è pienezza d'essere, pleroma compiuto, pacioso e sazio di sé, il Male invece torsione e tormento, c'è chi è incline a credere che sia più il Maligno a generare quella inquietudine profonda, quella tensione intensa, che l'artista sublima nel grande capolavoro.
Insomma, c'è una fosforescenza del Male che attrae l'occhio più che la luce del Bene.
Ne era probabilmente convinto l'indimenticato Enrico Castelli (1900-1977), pensatore originale e di ampie vedute, che per trent'anni fu docente di filosofia della Religione nell'università La Sapienza di Roma e che in questo splendido libro Il demoniaco nell'arte si dedica alla categoria di cui si era innamorato e che era diventata la sua grande passione: il demoniaco.
Ma che cos'è e quando insorge questa deforme torsione dell'Essere e della Vita? Quando - ecco l'illuminante risposta di Castelli - «è definitivamente perduto l'essere di cui è impossibile rintracciare il principio e la fine. Il demoniaco è questo non-essere che si manifesta come aggressione pura: lo stravolto». Il demoniaco è l'abissale tentazione della finitudine, che può essere superata soltanto in un modo: partecipando al divino. L'arte che ha cercato di rappresentare con le sue risorse simboliche la tentazione del demoniaco ha dovuto lottare con il mostruoso per raffigurarlo e per dare corpo alla disgregazione dell'Essere: «A questo senso dell'orribile indefinito; il senso di ciò che non ha natura, anzi, ciò che è peggio, che è definitivamente snaturato».
Scritto oltre mezzo secolo fa, all'indomani di quel "trionfo della morte" che fu la Seconda guerra mondiale, Il demoniaco nell'arte è una «filosofia dell'arte sacra» di cui oggi siamo in grado di apprezzare ancor meglio l'originalità, la profondità e lo straordinario interesse, grati all'editore che l'ha ripubblicata.
Come osserva acutamente nella premessa Enrico Castelli junior, curatore della nuova edizione, una filosofia o ermeneutica dell'arte sacra è qualcosa di profondamente diverso dall'estetica: «La prima cerca il senso, mentre la seconda cerca di riconoscere le norme e i modi dell'esperienza estetica. Per l'estetica l'arte è una ragion d'essere, per la filosofia essa è una occasione».
Forte di siffatte intuizioni, Castelli dà vita a un affascinante dialogo tra arte e filosofia, fenomenologia del sacro e iconologia, storia delle idee, storia dell'arte e della cultura, raccogliendo e commentando uno sfavillante repertorio iconografico che si consulta con la curiosità e l'attrazione con cui si legge un romanzo. Il suo lavoro, le sue analisi trasversali, gli scorci arditi che apre intersecando spazi disciplinari solitamente separati ricordano da vicino il metodo di Aby Warburg, da lui messo in atto e interpretato con l'acume e la sensibilità del teoreta.
Nell'abbondante materiale esaminato campeggiano i pittori nordici, soprattutto i fiamminghi primitivi, Bruegel e Bosch. Non compare invece alcun artista moderno: quando Dio muore, o si ritira, anche l'arte abbandona il demoniaco. Ma se l'arte è la creazione che accade quando demoni o dèi si impossessano di una carne mortale e macchiano la storia con il suo sangue, vien fatto di domandare: l'arte è più vicina all'inferno o al paradiso?

Repubblica 8.12.07
Beirut
di Adonis


Beirut come non-luogo, città dell´emergenza, dove gli abitanti non convivono, ma si respingono l´un l´altro. Il più grande poeta di lingua araba delinea un ritratto in chiaroscuro della capitale libanese

Beirut, nella mancanza di una memoria comune e di una storia comune, non è disposta che a copiare e imitare - imita l´Occidente moderno. E se da Beirut togliamo i segni dell´Occidente, rimangono solo due cose: la Chiesa e la Moschea. Ma la tragedia maggiore che si profila all´orizzonte è un´epoca in cui non vi saranno nemmeno la Chiesa e la Moschea. La città sarà impotente e inadeguata a qualsiasi cosa che non sia un mercato tra i tanti già esistenti.
Beirut è un insieme di raggruppamenti religiosi. Dico religiosi per evitare la parola "confessionali" (ta´ifiya), che il frequente utilizzo ha privato di ogni senso. Ogni raggruppamento religioso crea il proprio centro, intendo dire la propria città esclusiva all´interno della stessa città. E tali raggruppamenti non si organizzano solo coi pensieri e le idee, ma anche col lavoro e l´immaginazione.
Il conflitto a Beirut non è solo scontro tra classi oppresse e classi dominanti, o tra poveri e ricchi, è anche uno scontro di valori estremi e di idealismi. Contrariamente a quanto normalmente si afferma, si potrebbe dire che si tratta dello scontro tra le profezie sulla vita e l´aldilà. Ed è questo a rinvigorire lo scontro di piaceri e di poteri. È uno scontro che diventa in certi momenti più teso e violento, che si esprime a volte silenziosamente, a volte gridando, a seconda del ritmo con cui evolve il mondo contemporaneo (dinamismo che fa capire alle parti in causa quanto siano escluse da questo movimento), ovvero assecondando la volontà di contrapporsi a esso per un desiderio di ritornare alle proprie radici e di raccogliere l´identità dispersa.
Che Beirut non sia una società coesa è, dopo quanto si è detto, abbastanza ovvio. Ed è difficile, pertanto, che possa essere una città unita. I suoi abitanti non convivono, sono uguali nei diritti come nei doveri, ma si respingono, ciascuno cercando di prevaricare l´altro. Come se l´energia di Beirut fosse preventivamente dilapidata: impiegata per metà del tempo per disperdere questa vitalità fuori dei propri centri e l´altra metà per ricomporre, nel tentativo di mettere d´accordo i componenti.
Diciamolo allora: a Beirut vi è una varietà etnica e culturale non minore di quella che troviamo nel bacino del Mediterraneo, per lo meno quello orientale. Una città come questa sarebbe destinata, in base alla sua posizione e alle sue possibili funzioni, oltre che all´unicità della sua composizione umana e culturale, a essere un luogo singolare per un incontro singolare, ossia per un´attività singolare.
Sennonché la vita reale conferma che gli esseri umani vivono in questo luogo come in un rifugio, non come in una città. Ognuno si aggrappa non alla città nella sua interezza, ma al proprio orticello, difendendolo. Volenti o nolenti, tutti esercitano le ostilità, l´opposizione reciproca, tra fermezza e letargia, ciascuno asserragliato nella sua posizione, nella sua roccaforte. Ciò che definiamo Stato non è che un´impalcatura esteriore, al cui interno si agitano dissidi e conflitti in forma legale o consuetudinaria. Tutto scorre, in questo luogo, per mezzo di un altro che viene da fuori. L´altro che è intermediario o alleato, patrono o protettore. Questo altro, lo straniero, è insieme parte organica dell´intelligenza e della fantasia. Le relazioni amichevoli con l´esterno compensano il conflitto che si svolge all´interno. Si tratta di un contrappeso sostanzialmente ambiguo.
Apparentemente, gli individui a Beirut vivono gli uni accanto agli altri. Ma tra un gruppo (fi´a) e l´altro si apre una distanza enorme e complicata. La distanza tra il quartiere di Achrafieh e quello Ras al-Nabaa, tra Ras Beirut e Burj Hammud, a titolo d´esempio, è maggiore, sul piano dei valori e delle aspirazioni, di quella che c´è fra ciascuno di loro e Parigi o Roma, il Cairo o la Mecca.
Ciò che più caratterizza una città è la sua attività, che si combina e si diversifica a seconda delle necessità, andando oltre i propri limiti geografici. L´importanza di una città si misura nella generosa intraprendenza con cui varca i propri confini in direzione dell´Altro.
Il fatto è che, quando guardiamo Beirut, ci appare come un corpo che combatte con se stesso, divorandosi. Beirut città non è affidabile né nella sua composizione umana, né in quella geografica.
La disfunzione di Beirut non dipende però dal controllo che si esercita su di essa dall´esterno. Le dichiarazioni che ci siamo abituati ad ascoltare a questo riguardo non sono che uno sviamento e una copertura: l´anomalia di Beirut deriva dalla sua incapacità di prendersi cura di sé. E essa stessa che si mobilita contro la propria realtà di città unita. Come se fosse composta di tante città, tante unità e culture. Se consideriamo le barriere che si oppongono alla sua evoluzione come città unita e combattono l´uguaglianza e la giustizia; se aggiungiamo a questo la crescita della disoccupazione e delle difficoltà che affliggono la sua gente, individualmente e collettivamente allora Beirut ci appare come una congerie di case, priva di ogni sentimento dell´ambiente e della città. Sembra che si muova in un modo che la fa esistere solo retoricamente o nella forma di iperboli.
La geografia di Beirut è quasi una mappa in miniatura dell´Oriente arabo: Siria e Iraq in particolare, ma includendo anche la Palestina e la Giordania. Leggiamo su questa carta geografica che la sola importanza della terra sta nel suo essere un "trono terrestre" o un ponte verso l´aldilà. Vi leggiamo inoltre che le relazioni tra gli esseri umani non si fondano qui su principi di cittadinanza, ma sul credo terreno o ultraterreno. Di conseguenza, ciò che definiamo società è in realtà una somma di atomi sconnessi e lo scontro avviene in nome di un trono "terrestre" a cui interessa l´unificazione di questo mondo (al-dunya), in previsione dell´unificazione della fine dei tempi (al-akira). È uno scontro che si compie con la violenza, con l´oppressione e l´ingiustizia. Leggiamo infine che senz´altro la liberazione dall´esterno è richiesta, ma lentamente e timidamente, non per stabilizzare la libertà ma perché il forte divenga ancora più forte, il potente ancora più potente, il ricco ancora più ricco. Simile processo guidato dall´esterno è una scommessa senza possibilità di riuscita, per una ragione fondamentale: un popolo può essere liberato dall´esterno solamente se già al proprio interno è libero.
Leggiamo poi in questa mappa che Beirut o l´Oriente che ho appena menzionato, è povero in ogni cosa. Una miseria che non è compensata che da due elementi: il potere e il denaro. La volontà più alta che muove gli individui e li orienta è la brama di ricchezza e di potere. Vattene, estinguiti, muori, per impossessarmi del tuo posto, così nella politica, nella religione, nella ricchezza, nell´arte, nella poesia e nella letteratura. Tutti vogliono vestire i panni di una persona che comanda, che dice la parola finale, una persona compiuta e senza difetti. È il perfetto nichilismo, rovesciato reciprocamente. Esaurisce in se stessa rapidamente l´esperienza umana, in tutti i suoi aspetti, nella cultura dell´imperativo e del divieto: nell´auto-assoluzione e nell´incriminazione dell´altro. Ci rivoltiamo alla prepotenza con un´altra prepotenza, alla religione con un´altra religione, alla tradizione con un´altra tradizione. È una semplificazione ingenua e ridicola. È la politica della morte in un mondo che appare fondato sull´annientamento reciproco.
Si tratta di un´immagine cupa di Beirut? Alcuni potranno senz´altro affermarlo. Ma Beirut, nonostante tale oscurità, poteva almeno sognare, gloriarsi delle sue chimere dopo che la propria realtà aveva provveduto a devastarla. Ecco però che il sogno anch´esso è sul punto di interrompersi, assalito da un incubo: quello della censura (raqaba) della sua lingua. In altre parole la censura non soffoca solo la realtà, ma anche il sogno. L´idea viva, l´uomo realmente vivo rifiuta di sorvegliare e di essere sorvegliato.
Accetta la sorveglianza e l´appoggia solo l´uomo che vive morto o il cui pensiero è morto. Beirut è ormai immaginata e vissuta come una città di paglia che può prendere fuoco alla minima scintilla verbale che la sfiori. Dal punto di vista politico, il regime che adotta la censura è come se dicesse alla sua gente: non avete un´intelligenza che vi dia la possibilità di distinguere il bene dal male, non avete la capacità di mutare l´ordine delle cose e di giudicarlo. Il vostro regime non sbaglia: si regge su queste priorità per il vostro bene e in vostro onore. A voi non resta che tacere, volenti o nolenti. Un regime siffatto governa una città e persone già morte. E non è che uno dei possibili travestimenti della morte.
Tuttavia, gli assertori della censura dimenticano che le idee imposte, così come l´imposizione del silenzio, sono per loro natura inefficaci. Ogni pensiero imposto all´uomo non è realmente degno dell´intelligenza e dell´uomo. E ogni idea cui si guardi come l´unica veritiera e perciò stesso eterna, non è che un cadavere, che esala e propaga l´odore della putrefazione.
Questi assertori della censura dimenticano inoltre le vicende della storia: essa ci insegna che le idee fallimentari sono cancellate dalla loro stessa diffusione, perché attraverso questo percorso sono messe alla prova e verificate, crollando sotto l´eccesso della propria forza.
Il peggio, in tale contesto, è che si guarda al pensiero come si guarderebbe a un delitto: proibire un´idea o un´opinione con il pretesto che sarebbero "nocive" o "distruttive", è una forma di disprezzo per gli uomini che le hanno divulgate e per coloro che da esse «sono riscaldati».
L´assenza di libertà d´espressione in una società non è solo indizio di una povertà giunta al grado più basso dell´umanità, ma è anche indizio della decrepitezza del pensiero e della lingua.
Sbagliamo dunque se riteniamo di poter imporre un pensiero con la forza, anche qualora esso fosse di natura religiosa.
Quale sarebbe l´utilità di prescrivere in modo coercitivo un pensiero o una religione? Ugualmente commetteremmo un errore qualora credessimo di poter vietare la diffusione di un´idea, imponendo la censura a essa e ai suoi autori. Né l´ordine, né il divieto si addicono all´uomo. Gli si addice la creazione di un clima che produca, con la libertà, la fine della bruttezza e della malvagità. La bruttezza è il riflesso di una data condizione: il suo soffocamento radicalizza questo stato. Bisogna lavorare per eliminare un fenomeno, ma attraverso l´eliminazione delle sue cause. E non vi è altra via per arrivare a questo obiettivo che la libertà.
Ed è in nome di questa libertà che mi sono permesso di formulare il seguente interrogativo: Beirut, oggi, è effettivamente una città o è soltanto un nome della storia?

Traduzione di Andrea Celli © 2005 by Dar-al-Saqi, Beirut © 2007 by Edizioni Medusa

Corriere della Sera 8.12.07
Scoperto un ritratto del grande pisano eseguito a carboncino e gesso rosso
Galileo, il genio vanitoso «Questo è il suo vero volto»
di Giovanni Caprara


L'esperto: «Il pittore lo ha dipinto senza abbellirlo»
Lo scienziato commissionò l'opera nel 1624 a Ottavio Leoni: per 18 anni la tenne esposta nella sua casa di Arcetri. L'autenticazione è avvenuta all'Università di Padova

PADOVA — E' uno sguardo che racchiude la scienza dei cieli. Non si può osservarlo indifferenti e non sentirsi scrutati. Emerge, così, dalle pieghe del tempo un nuovo ritratto finora sconosciuto di Galileo Galilei. E' un disegno a carboncino e gesso rosso che il genio pisano ha tenuto con sé nella casa di Arcetri per 18 anni e che, forse, ogni tanto sbirciava, compiaciuto della forza che emanava. «Quando l'ho visto sono rimasto impressionato» racconta emozionato William Shea, che siede sulla cattedra galileiana dell'Università di Padova. E tra le pareti dell'illustre ateneo dove Galilei raccontava e spiegava quattro secoli fa le sue scoperte e la sua rivoluzione, il prezioso ritrovamento sarà presentato lunedì.
La storia inizia per caso vent'anni fa, quando l'ingegner Giovanni Nicodano, appassionato collezionista di ritratti, arriva da Biella per visitare a Milano una mostra d'antiquariato. Con stupore tra piccoli fogli ingialliti sul tavolo dell'antiquario Pietro Scarpa riconosce i tratti del grande scienziato. Quasi non ci crede, approfondisce, tratta e con gioia se lo porta a casa. Ha con sé il certificato di autenticità ma cerca altre conferme che non trova. Finché nel marzo scorso legge sul Corriere della Sera un articolo dedicato ad un acquerello della Luna di Galileo Galilei scoperto dal professor Shea. «Lo interpellai immediatamente — ricorda Nicodano — finalmente era l'interlocutore ideale». Le indagini scavano in varie direzioni per ricostruire la vita del disegno proveniente dalla collezione del conte Holtkott di Monaco. Ma i percorsi del foglio non sono facili da tracciare. Si sa che era stato venduto dalla nobile famiglia tedesca dopo la seconda guerra mondiale con altri quadri e Marcus l'ultimo discendente lo ricordava appeso nella casa del nonno. La ricostruzione fa però pensare che prima appartenesse alle collezioni del Museo Pushkin di Mosca che i bolscevichi in parte vendettero dopo la rivoluzione. Come fosse giunto lì nessuno ancora lo spiega.
L'autore del disegno è Ottavio Leoni, nato a Padova nel 1578 ma trasferitosi presto a Roma. Alla sua origine, però, ci teneva, tanto da farsi chiamare «padovanino». Diventò celebre come ritrattista di grandi personaggi della sua epoca dei quali restituiva un'immagine quasi fotografica, veritiera e densa di vita. Così raggiunse la fama e da lui andavano a farsi il ritratto uomini famosi come il Bernini e il Caravaggio. Anche Galileo, che sempre amò oltre la scienza i piaceri dell'esistenza, si invaghì dell'idea e quando nel 1624 si recò a Roma fece visita al Leoni chiedendogli di mettersi all'opera. Di solito egli faceva due copie: una la consegnava al committente ed un'altra la teneva con sé per poter effettuare, poi, delle incisioni. In questo caso, però ne preparò tre. Una, firmata e datata maggio 1624, è al Museo del Louvre a Parigi, dove non si sa come vi sia giunta, e una seconda non firmata è alla biblioteca Marucelliana di Firenze. «Del terzo esemplare, che spunta ora, non se ne sospettava l'esistenza ma tutti gli elementi portano a credere della sua autenticità a partire dal fatto che dal 23 aprile al 16 giugno Galilei era a davvero Roma», commenta Shea che coinvolge nelle indagini il professor Horst Bredekamp, illustre storico dell'arte della Humboldt-Universität di Berlino. Lo specialista tedesco certifica l'età della carta e giudica il disegno un prodotto impossibile per un falsario notando, in particolare, la rapidità e la freschezza del tratto.
«E' un magnifico ritratto umano — aggiunge Shea —, volitivo, ben diverso dai volti artificialmente ispirati del fiammingo Joost Sustermans o di quello giovanile di Domenico Tintoretto, figlio meno bravo del grande padre. Tra i sei diversi ritratti esistenti questo mostra il vero Galileo perché Leoni non ha abbellito il suo ospite».
Il terzo esemplare, anch'esso non firmato, se lo portò ad Arcetri lo scienziato tenendolo con sé fino alla morte. «Il figlio Vincenzo che era un pigro non avvertiva il senso dell'eredità — dice Shea —. Il disegno e altri documenti, passano nelle mani delle generazioni successive finché i discendenti nella metà del Settecento vendono tutto». E da qui prende il volo in direzioni misteriose approdando, probabilmente, a Mosca. E ora è tornato è tornato nella «sua» città. «E' un'opera che ci restituisce il Galileo a cui dobbiamo il grande contributo dato alla cultura — commenta Vincenzo Milanesi, rettore dell'università patavina —. Dal momento che ciò accadeva soprattutto quando insegnava nel nostro ateneo è giusto che esponiamo questa immagine capace di farlo di nuovo rivivere tra noi».

Corriere della Sera 8.12.07
L'orgoglio di mostrarsi senza maschera
di Giulio Giorello


Attenti a «coloro che vanno in maschera: o son persone vili che sotto quell'abito vogliono farsi stimar signori e gentiluomini», oppure si celano per poter godere della licenza di «motteggiare e contender senza rispetto» degli interlocutori e della verità. Invece, Galileo Galilei si piccava di polemizzare a viso aperto (come mostra quella sua battuta tratta dal "Saggiatore", 1623, rivolta contro l'avversario «Lotario Sarsi», ovvero il potente gesuita e matematico Orazio Grassi). Possiamo capire perché, pressoché nello stesso periodo, Galileo si fosse fatto ritrarre da un artista eccezionale come Ottavio Leoni. Vanità? Può darsi; ma anche spregiudicatezza e forza di volontà dell'uomo che, appoggiando l'occhio al "tubo ottico" (o cannocchiale), non aveva esitato a mandare in pezzi la cosmologia aristotelica. Poteva dunque sentirsi orgoglioso di quella sua faccia, lui a cui sarebbe toccato (processo e abiura del 1633), contemplare anche «la testa di Medusa», volto inesorabile del potere che pietrifica mente e cervello.

Corriere della Sera Roma 8.12.07
La polemica. Nuovo emendamento
Registro unioni civili Sinistra, Verdi e Rc scelgono la «terza via»
di Adriana Spera


Per la capogruppo di Rc «va rispettato il programma con il quale ci siamo presentati»

«Cerchiamo di venire incontro al Pd ma non accetteremo ordini del giorno che rimandano le decisioni alla giunta». Questo hanno ribadito ieri i capigruppi consiliari (Pdci, Prc, Socalisti, Sinista europea, Verdi e Sd) chiedendo che la discussione per istituire un registro delle unioni di fatto approdi in aula prima del bilancio.
Un nuovo emendamento sulle unioni civili si andrà ad affiancare a quello della vice sindaco Maria Pia Garavaglia. Accolta la proposta dell'assessore al Personale Lucio D'Ubaldo (che parla di unioni di solidarietà, cita il programma di Veltroni sulle unioni civili e toglie riferimento al sesso dei maggiorenni che contraggono l'unione), i capigruppo consiliari hanno sottolineato la loro disponibilità a percorrere «una terza via». Commentando la conferenza di giovedì del capogruppo del Pd Pino Battaglia e del coordinatore Riccardo Milana, il capogruppo del Partito socialista, Gianluca Quadrana ha detto: «Dal Pd o non capiscono o fanno finta di non capire. Nessuno di noi - ha aggiunto - fa riferimento alla famiglia anagrafica o mette in discussione quanto fatto di buono in termini di servizi dall'amministrazione comunale per le famiglie anagrafiche. Quello che vogliamo è il riconoscimento dei diritti e dei doveri e, quindi, il riconoscimento della coppia ». La capogruppo del Prc Adriana Spera ha invece sottolineato che va rispettato «il programma con cui ci siamo presentati ai romani».
«Rispetto le posizioni di chi voterà contro - ha detto - ma non chi, come è avvenuto giovedì, arriva a dire che danneggiamo le persone conviventi. Lo fa invece chi porta avanti una posizione attendista». A sostenere Spera anche il capogruppo del Pdci, Fabio Nobile: «I poteri forti come il Vaticano non devono imporsi sulle istituzioni». E il capo dei Verdi, Nando Bonessio ha citato un cartellone della fiaccolata di tre giorni fa: «Pd = Poi decidiamo. Non vorremmo che accada proprio così. Aspettiamo ancora di conoscere la posizione ufficiale del sindaco - ha concluso Roberto Giulioli di Sd - e chiediamo ai cittadini romani di partecipare alla discussione della delibera giovedì prossimo in aula Giulio Cesare.»

Aprileonline.info 7.12.07
Bertinotti verso la leadership a Sinistra?
di Giovanni Perrino


Dibattito. Il presidente della Camera ha dettato la linea politica con lo sguardo rivolto non solo al presente ma anche, e soprattutto al futuro, incoronandosi leader anche del nuovo soggetto unitario. Si inserisce dunque nella dinamica degli Stati Generali e chiede un cambio di passo rispetto a quello stanco e burocratico che ci sta portando ad essi. Spiace che socialdemocratici di Sd, veterocomunismi di Pdci e di una parte del Prc, e i riformisti del Pd non lo abbiano capito

L'intervista di Fausto Bertinotti a La Repubblica può essere ovviamente analizzata da vari punti di vista, ma l'imminenza dell'appuntamento dell'8 e del 9 dicembre induce a concentrare l'attenzione di chi sta cercando l'unità della sinistra sul significato apparentemente più nascosto, e dunque sulla relazione tra l'immediata scadenza e le prospettive strategiche che da essa dovrebbero aprirsi.

Il presidente della Camera, in buona sostanza, detta la linea - sono convinto che tutti a sinistra, contenti o risentiti, abbiano pensato questo- e lo fa - aggiungo io- con lo sguardo rivolto al presente ma anche, e forse soprattutto al futuro, incoronandosi perciò leader politico anche del nuovo soggetto.

Non siamo però di fronte ad una novità: la manifestazione del 20 ottobre era stata pensata dal gruppo dirigente bertinottiano di Rifondazione Comunista proprio per dare immediatamente -rispetto agli iniziali tentativi di coesione dei quattro partiti - il segno distintivo di una identità politica in sintonia con istanze di giustizia sociale, di libertà e di pace emerse dal panorama sociale per chiedere una svolta coraggiosa alla politica della sinistra e certamente non subalterna ad una concezione governista, inaccettabile in se, ma per giunta inadeguata, paradossalmente, al governo della società contemporanea; insomma era la conseguenza della scelta di perseguire l'unità non cedendo ai rigurgiti socialdemocratici (presenti in Sinistra Democratica) o veterocomunisti (presenti nel PDCI e nella minoranza di Rifondazione) che avrebbero bloccato qualsiasi ricerca di nuove identità e che avrebbero fatto del rapporto con i movimenti e con la cultura un mero sostrato elettorale.

Nella visione di un percorso di rinnovamento senza annullamento, né delle tradizioni storiche della sinistra, né del lavoro recente di ricollocazione strutturale della parte diessina contraria al PD, il discorso di Bertinotti dovrebbe dunque risultare positivamente integrato: pur tuttavia esso rappresenta, per volontà non detta, un altro momento di cesura importante, e un emblematico richiamo ad una pratica politica non disgiunta dalla teoria, ad una strategia non disgiunta dalla tattica, ad una capacità di leggere il lavoro quotidiano nelle istituzioni - e il governo è solo una di queste - in rapporto ai movimenti sociali e ideali, che non sembra avere tanti estimatori nei gruppi dirigenti degli altri partiti.

Eppure l'intervista si inserisce nella dinamica degli Stati Generali e chiede un cambio di passo rispetto a quello stanco e burocratico che ci stava portando ad essi. Spiace che le reazioni siano di sostanziale incomprensione da parte di una sinistra socialdemocratica o riformista chiusa in uno schema invalidato dalla fine del XX secolo - dato un potere economico che prescinde sempre di più da un vincolo sociale di appartenenza ad un mondo libero e democratico che per questa via dimostrava una sana contrapposizione alla dittatura sovietica - e da quella di un comunismo di maniera totalmente slegato dalle pratiche rivoluzionarie del presente. Spiace che non si comprenda la posta in gioco.

Oggi, di fronte all'autoritarismo del nuovo capitalismo, diventa necessario, vitale, proporre un'alternativa, una fuoriuscita dalla logica della competizione che inevitabilmente porta alla guerra autodistruttiva. Ed è possibile che tale proposta non sia come al solito religiosa, ma politica, e di sinistra, e che per questa via si dia sostanza e attuabilità ai valori della libertà, della uguaglianza, della solidarietà, della differenza di genere, del pacifismo, dell'ecologia...del Socialismo. Questa prospettiva, a me sembra evidente, può esplicitarsi solo in una autonoma elaborazione culturale non disgiunta da una altrettanto autonoma pratica politica, meno preoccupata dalla scelta tra governo e opposizione, più proiettata sul lungo periodo.
A che servono insomma gli Stati generali della sinistra? Semplicemente a decidere il posizionamento politico della sinistra rispetto a Prodi, Veltroni e Berlusconi? O a mettere in campo qualcos'altro?

il Riformista 8.12.07
Stati generali 1. Prc e maggioranza
Conflitti e politica non sono autonomi
E l'opposizione non è un disvalore
Bertinotti vuole superare il bipolarismo coatto
di Salvatore Buonadonna


La sfida che lancia Bertinotti è molto ambiziosa, guarda oltre il governo Prodi e punta sulla capacità e possibilità della sinistra di costituirsi come forza autonoma, portatrice di un programma e di un modello di sviluppo di alternativa. La nascita del Partito democratico ha destabilizzato la maggioranza e il governo e con ciò, anche per la responsabilità del presidente del Consiglio, è stato accantonato il programma, mettendo in mora il progetto dell'Unione.
Il protocollo del welfare prima, il rifiuto di accogliere le modifiche concordate e approvate alla commissione Lavoro dalla Camera poi, hanno mostrato come tra la tenuta dell'Unione e il ricatto del patto corporativo il governo ha preferito far pesare sul Parlamento il diktat della Confindustria. Da qui la necessaria separazione della dimensione tattica che attiene alla permanenza del governo da quella strategica che riguarda il quadro istituzionale e politico. La forzatura polemica che Paolo Franchi colloca all'interno di un articolo molto acuto e, soprattutto "oltre" la congiuntura, assume il carattere di una giusta sollecitazione a discutere della questione del governo e dell'opposizione. Su questo punto del «cordiale disaccordo» vale la pena soffermarsi anche per il modo dialogico con cui è stato posto. Giustamente Paolo Franchi non si pone il problema del «distacco della spina» quanto piuttosto quello della definizione della sinistra. Io penso che sia chiaro nel ragionamento di Bertinotti che non si tratta di guadagnare l'opposizione come la terra promessa; ma certo come condizione per ridefinire l'autonomia necessaria affinché una forza politica di sinistra possa decidere liberamente la collocazione al governo o all'opposizione sulla base delle scelte politiche e dei mandati elettorali.
Si tratta, in sostanza, di superare il bipolarismo coatto che per quasi quindici anni ha alimentato la formazione di coalizioni "contro" piuttosto che alleanze politiche, magari di compromesso, finalizzate a guadagnare il governo in funzione di obiettivi programmatici condivisi. Questo bipolarismo ha reso possibile al partito di maggioranza della coalizione e al presidente del Consiglio di far valere la stabilità di governo come cemento della coalizione. Per di più dovendo acquisire la maggioranza dei consensi, dato il sistema elettorale, ogni coalizione è attratta verso posizioni sempre più indifferenziate, che vengono definite «centrali», «moderate» o «riformiste», comunque omologate nella funzione di amministrazione dell'esistente. Da questo punto di vista valuto con diffidenza alcune affermazioni che, prendendo le distanze da Bertinotti, dichiarano che occorre preventivamente definirsi «forza di governo». Se questa forza di governo non dovesse vincere le elezioni perderebbe dunque la propria ragion d'essere?
Forse non andrei lontano dal vero se penso alla mobilità con cui taluni esponenti politici si ricollocano in funzione delle coalizioni vincenti e dall'altra parte se si riflette alla forte spinta a superare la politica verso una amministrazione caratterizzata dal ruolo dei tecnici assunti come portatori di efficienza non condizionata dalla rappresentanza dei bisogni e degli interessi che segnano la politica. Occorre uscire dall'approccio definitorio per cui esistono forze votate al governo e altre votate all'opposizione e riscoprire così il valore del conflitto sociale e della battaglia delle idee come cardini di progetti di società. Si tratta di superare la regressione culturale, alimentata da tanta interessata letteratura e giornalismo, per cui l'opposizione sociale, politica, parlamentare sia un "disvalore", una sorta di "non politica". Questa regressione è stata funzionale alla delegittimazione delle ipotesi politiche della sinistra, alla riduzione della politica a fattore "tecnico" agito da un ceto separato, alimentando la nascita e lo sviluppo di formazioni politiche disancorate dalla rappresentanza sociale.
È evidente che una forza politica quale quella che intende mettersi in moto oggi con la riunione degli Stati generali della Sinistra, proprio in quanto intenda dare soggettività politica al lavoro e alle donne e agli uomini che lo incarnano, non può non porsi l'obiettivo di acquisire ed esercitare potere in ragione del perseguimento dei propri obiettivi in quanto questi corrispondono agli interessi di questi soggetti. In questo senso è forza di governo e lo rimane anche se, in ragione dei risultati elettorali, dovesse svolgere il ruolo di opposizione. Ha ragione Franchi a dire che il dilemma è antico; ma è pur vero che solo con l'affermarsi del pensiero unico la funzione di governo si è progressivamente "autonomizzata" rispetto agli interessi in conflitto nella società e ha subito una torsione tecnicistica.
Da questo punto di vista, proprio perché Paolo Franchi riconosce che non è certo responsabilità di Bertinotti e di Rifondazione la perdita di fisionomia della sinistra larga, bisogna investire sulla strategia basata sulla costruzione di alleanze tra forze autonome e con pari dignità. Se per giungere a questo serve la tattica di sopravvivenza costruita all'opposizione ciò è certamente preferibile rispetto alla possibile liquidazione di ogni ipotesi di sinistra politica.

il Riformista 8.12.07
Stati generali 2 Dini utile furbo
Abbiamo baciato parecchi rospi. Ora un nuovo patto di governo
di Pietro Folena


L'intervista di Repubblica a Fausto Bertinotti ha suscitato una serie di reazioni, a mio parere, ben poco giustificate. Alcune, penso a quella di Enrico Micheli, persino materialmente infondate: in tutto il mondo occidentale gli speaker delle Camere parlano di politica, del governo in carica, per criticarlo o per appoggiarlo. Sono ben pochi gli esempi di presidenti del parlamento che non siano protagonisti della politica. L'apice è rappresentato dagli Usa, dove il presidente del Senato è il vicepresidente federale e dove nessun sottosegretario si sognerebbe di contestare a Nancy Pelosi di non avere «senso dello Stato».
Fatta questa doverosa premessa di diritto costituzionale comparato, passiamo al merito. Bertinotti ha detto alcune cose che sono davanti agli occhi di tutti. Solo una politica lontana dal sentire comune e dalla realtà sociale del paese (quella politica che genera l'antipolitica) può negare che non esista più il patto di governo con il quale ci siamo presentati alle elezioni e che si sia incrinato un "sentire comune" con gli elettori delle primarie. In questo anno e mezzo, non molto di quel patto (un patto non tra noi, ma con i nostri elettori) è stato realizzato. Di contro, sono state portate avanti, e a volte si sono realizzate, proposte che in quel patto non c'erano o erano persino in perfetta contraddizione con il patto stesso.
Negare questa banale verità mi pare impossibile.
Sul piano più squisitamente politico, si è rotto l'accordo tra le forze moderate e la sinistra. Dalla base di Vicenza, all'Afghanistan, dal protocollo sul welfare che lascia aperta, spalancata, la porta alla precarietà, fino alla stessa riforma delle pensioni che parte da presupposti inesatti sul piano economico ma esattissimi su quello ideologico.
Progressivamente, l'esecutivo si è allontanato sempre di più da parte della sua maggioranza e dal popolo della sinistra. Per fare ancora un esempio, latita la legge sull'immigrazione, mentre il governo vara un decreto sulla sicurezza i cui contenuti suscitano il richiamo preoccupato e formale del parlamento europeo al rispetto dei trattati.
Sui temi economici il governo sembra ostaggio di pochi senatori il cui obiettivo principale pare essere l'accanimento contro i precari e la difesa dei supermanager.
La sinistra, con responsabilità, ha accettato di baciare molti rospi. Ma non si può pretendere da essa di essere - come si dice - cornuta e contenta.
Fin qui cose note a tutti. E allora che senso hanno le critiche a Bertinotti? Ci si aspettava forse un applauso entusiastico?
La seconda cosa che Bertinotti ha sottolineato è l'autonomia della sinistra. E questo alla vigilia dell'assemblea di oggi e domani, che speriamo dia il via ad un percorso verso una vera e propria nuova forza politica. E alla vigilia di una verifica di governo. Le tre cose sono chiaramente legate. La verifica ha senso se è un confronto tra il Pd e la sinistra, nel loro insieme, non tra Rifondazione e Prodi. L'assemblea della Sinistra è utile se da essa nasce una nuova sinistra, non ancillare rispetto al Pd, ma concorrente. Quindi autonoma. Quindi non pregiudizialmente "al governo", purché sia. Ma al governo sulla base di un nuovo patto su salari e precarietà. Aggiungo io: su scuola, saperi, diritti della persona. Tutto si tiene.
Il terzo aspetto evidenziato da Bertinotti è la riforma del sistema politico, a partire dalla legge elettorale. È del tutto evidente che si tratta di una precondizione. Non è accettabile una legge, come quella che uscirebbe dal referendum, il cui effetto sarebbe la cancellazione dell'autonoma presenza della sinistra.
Tutto ciò però, non è il frutto di un destino cinico e baro. Ma di una operazione politica, quella del Partito democratico, che oggettivamente ha avuto finora successo nell'imporre un "timone riformista-moderato" alla coalizione. Dini è solo un fortunato accidente, un "utile furbo" (perché certo idiota non è) che facilita la torsione moderata della politica del centrosinistra.
E qui arriviamo alle insufficienze della sinistra. Perché di fronte a questa operazione la nostra risposta è stata inadeguata. Sul welfare abbiamo marciato divisi. Sulla legge elettorale pure. Per non parlare del 20 ottobre. Diamo continuamente motivo ai nostri elettori di vederci disuniti. Non voglio fare la parte del professore di politica, ma in tutta onestà credo che occorra pure dire che si tratta di errori che sarebbe stato meglio evitare.
Così come, oggi e domani, va evitato l'errore di ridurre tutto ad un patto elettorale, come vorrebbe qualcuno. O alla presentazione di un "segno grafico" (simbolo è una parola troppo impegnativa?) per le elezioni. Se così fosse, ha ragione Armando Cossutta, sarebbe un suicidio politico per tutti. Non mi illudo che dall'assemblea esca fuori l'annuncio di un partito unico. Magari. Anche al di là della volontà dei singoli. Per questo le associazioni di sinistra hanno lanciato un appello e si vedranno stasera in un workshop autogestito per elaborare delle proposte comuni da portare al confronto con i partiti e spronarli a mollare gli ormeggi.

il Riformista 8.12.07
Due Blocchi oltre il socialismo
di Emanuele Macaluso


Dai giornali ho appreso che oggi l'atto di nascita della Cosa rossa sarà firmato anche da Achille Occhetto e Pietro Ingrao. Al quale - data la sua età e la sua storia - rivolgo un saluto affettuoso. Del resto questo è un approdo coerente con la sua scelta fatta nell'89 quando si oppose alla svolta di Occhetto. Il quale, invece, dopo un viaggio tortuoso e accidentato si ritrova "ingraiano" cioè torna al punto di partenza giovanile.
In queste mie osservazioni non c'è nessun richiamo morale alla coerenza, c'è invece la lettura di un processo politico che il Partito democratico ha accelerato e messo a nudo, chiudendo un cerchio: da una parte c'è il partito di Veltroni e dall'altro la coalizione rossa in cui si ritrovano Ingrao, Cossutta, Occhetto, Bertinotti, Mussi, Diliberto, e altri. Due blocchi che hanno sempre teso a "superare" il riformismo socialista. E infatti in Europa entrambi vogliono andare "oltre" il Partito del socialismo europeo.
Non mi stupirei se in futuro saranno questi i due poli che si incontreranno per formare una maggioranza di governo. È triste vedere come tanti esponenti del riformismo socialista, da Amato a Ruffolo, da Ranieri a Morando, siano coinvolti in questo approdo. Ne riparleremo.

il Riformista 8.12.07
Cosa Rossa Oggi gli Stati generali
Ancora non nasce, ed è già verifica
Sul governo, ancora divisioni tra Rifondazione, Pdci, Verdi e Sd
di Alessandro De Angelis


Che la Cosa rossa ("la Sinistra-l'Arcobaleno") nasca oggi, tecnicamente, ancora non si può dire. Ma che almeno provi a mettersi in cammino, questo sì. Gli stati generali della sinistra che si svolgono questo fine settimana a Roma saranno, innanzi tutto, un tentativo di partire uniti e, perché no, di rianimare le truppe dopo un periodo certo non facile per la sinistra dell'Unione: «Va che è una meraviglia. Ci sarà una marea di gente da tutta Italia. Questo è il fatto politico» afferma il deputato di Sd Carlo Leoni. Eppure, per essere un battesimo vero e proprio, c'è ancora qualcosa di più di un'incertezza: su tutte, non si sa ancora se il simbolo che verrà presentato (quello con l'arcobaleno) sarà usato alle prossime amministrative. Per ora viene definito un «segno grafico», non politico. Non solo. Non si sa neppure se quello elettorale, una volta ufficializzato, sarà presentato ovunque o, come sembra, valutando caso per caso. E poi, ad oggi, la Carta dei valori non scioglie né il nodo della collocazione internazionale dei soggetti costitutivi (il Prc rimarrà nella Sinistra europea, Sd nel Pse, i Verdi con il gruppo ambientalista, il Pdci nella Sinistra unitaria europea) né la forma organizzativa, visto che i vari partiti dovranno svolgere, su questi temi, i propri congressi. Fin qui nome e carta d'identità.
Se queste sono le premesse, oggi Prc, Pdci, Verdi e Sd cercheranno soprattutto una spinta a intraprendere un cammino, il più unitario possibile. Per andare dove? Questo è difficile da prevedere, ma una cosa sembra assai probabile: l'annunciata verifica di governo rappresenterà - paradossalmente ma non troppo - una sorta di verifica anche della nascente Cosa rossa. In che senso? Rifondazione vuole una verifica «vera», il cui esito è tutt'altro che scontato, dal momento che l'incrocio tra legge elettorale e confronto con Prodi rappresenta un passaggio assai stretto. E gli alleati? Sd balbetta, il Pdci valuterà i singoli provvedimenti ma non vuole rompere e i Verdi fanno quadrato attorno al Prof anche a costo di uscire dalla Cosa rossa. Ma Rifondazione, sul punto, non cede. Spiega Alfonso Gianni: «Così non si può andare avanti ed è evidente che bisogna decidere cosa fare per la parte restante della legislatura. Le priorità della verifica devono essere i temi della precarietà e la questione salariale. Sul primo punto bisogna ad esempio modificare la norma della legge 30 sulla cessione dei rami d'azienda. Sul secondo vanno prese misure, si chiamino fiscal drag o abbassamento delle aliquote, che portino più soldi nelle tasche dei lavoratori. D'altronde sono anche le proposte dei sindacati. Il governo deve battere un colpo». Tradotto: rispetto all'intervista di Bertinotti il giudizio su Prodi, dalle parti di Rifondazione, non è mutato.
Nella consapevolezza che i numeri sono incerti (vai alla voce: Senato) il Prc proverà ad alzare l'asticella per ottenere qualcosa che considera più realistico: farà battaglia sul disegno di legge Alleva contro la precarietà per ottenere ritocchi alla legge 30. E ancora, chiederà una diversa strategia per l'Afghanistan per ottenere un taglio alle spese militari. E proverà a far approvare la Amato-Ferrero. La permanenza al governo, dicono in via del Policlinico, è subordinata a questi obiettivi. Ma la questione principale è la legge elettorale. Afferma Gianni: «Il problema è sul tappeto nonostante i nervosismi di Prodi e Pecoraro Scanio. Noi insistiamo sul modello tedesco. Se dura Prodi bene altrimenti serve un governo istituzionale per le riforme».
Di tutt'altro parere i Verdi, che all'asse col Prof proprio non rinunciano e che, nonostante abbiano incassato l'arcobaleno nel nome e nel simbolo, qualcosa di più di un retropensiero sulla Cosa rossa lo mantengono. Il capogruppo alla Camera Angelo Bonelli dice: «La verifica? Per noi questo governo va sostenuto, certo va anche rilanciato ma se dovesse cadere non appoggeremo governi istituzionali. L'alternativa sono le elezioni anticipate. E aggiungo che ovviamente non parteciperemo alla consultazione che promuoverà Rifondazione per decidere se rimanere o meno al governo». Poi chiarisce la proposta dei Verdi: «Il bipolarismo va mantenuto e il modello di legge elettorale cui facciamo riferimento è quello delle regionali, sia pur riveduto e corretto. Il che significa dichiarazione delle alleanze prima del voto e premio di maggioranza».
E Sd? La capogruppo alla Camera Titti Di Salvo sulla verifica mette i paletti: «Non si può negare la crisi politica in atto. E per questo dobbiamo, come maggioranza, chiarirci le idee e ristabilire le priorità programmatiche a partire dal lavoro e dalla lotta alla precarietà. L'ottica però è rafforzare il nostro rapporto col paese. Non vogliamo decretare la morte di Prodi e nemmeno andare verso un esecutivo istituzionale». Oggi comincia la verifica nella Cosa rossa. A gennaio quella col governo.

il Riformista 8.12.07
I laiconi, gli atei devoti e la fine perversa della modernità
La teologia di Benedetto XVI pretende il monopolio dell'umano
di Orlando Franceschelli


Il ritorno alla sfiducia antropologica di Agostino

Il garbo è il sale del confronto. Non solo perché - di questi tempi! - preserva il bene dell'urbanità. C'è di più: nasce dall'onestà con cui si sanno raccogliere le sfide e persino le inquietudini che le ragioni altrui recano alle nostre. È appunto con questo garbo riconosciuto da Giuliano Ferrara ( Il Foglio , 5 dicembre) che va soddisfatta anche la cortesia da lui chiesta a «laiconi» come Scalfari o il sottoscritto: provate a capire l'enciclica sulla speranza. Senza pretendere che il papa dica ciò che vorreste sentirvi dire. Magari «nella forma rassicurante di un compromesso o dialogo all'insegna dello scambio» con una Chiesa costretta, per accogliere «furbamente» la modernità, a rinunciare all'intemporalità della propria missione.
Sgombriamo pure il sospetto di scambi e furbizie. Sollevato forse con garbo, ma certo ancor più con innegabile ironia da parte di un ateo assurto agli onori della gerarchia. Spesso ricambiata con una devozione più zelante di quella dei credenti che le prove della fede le patiscono davvero. Stiamo ai fatti: niente rinunce o inciuci compromissori. Né pretesi e né subiti. Forse non ne sarò personalmente all'altezza, ma è di dialogo che stiamo parlando. Tra una coscienza moderna che al mondo e all'uomo guarda col disincanto dell'emancipazione illuministica da verità e valori della tradizione teologica. E una fede impegnata a testimoniare se stessa riconoscendo però anche la plausibilità scientifica, filosofica ed etica di un simile approdo. Né scientista e né ideologico, ma critico.
È di questo dialogo alto, rispettoso e costruttivo - ce n'è un altro? - che anche la recente enciclica non riesce ad essere fermento. Essa infatti conferma la «fine perversa» cui sarebbe condannata la modernità che dalla grazia, fede e speranza donate da Dio - «Dal dono della grazia consegue che l'uomo abbia speranza in Dio» (Tommaso) - è passata alla loro alternativa: scienza, filosofia postmetafisica, saggezza terrena, solidarietà civile. Una conferma appunto. Giacchè una simile condanna ad una deriva di «nichilismo paralizzante e sterile» il papa l'aveva già pronunciata: «Privo del suo riferimento a Dio», l'uomo non solo non può rispondere alle domande che agitano «il suo cuore riguardo al fine e al senso della sua esistenza». Egli - non ha esitato a concludere Benedetto XVI - non può neppure «immettere nella società quei valori etici che soli possono garantire una convivenza degna dell'uomo» (3-11- 2006 ).
Nessuna pretesa di suggerire ai pastori come adempiere alla loro missione. E ancor meno che si facciano promotori delle ragioni e dei valori dell'incredulità moderna. Ma perchè ridurli a «desolazione dell'angoscia che conduce alla disperazione»? (ibidem). Questa è più di una mancata promozione. È una parodia denigratoria che quasi si stenta a capire. È antitetica ad altre - e alte - sensibilità teologiche: «L'uomo ha imparato a badare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l'ausilio dell'"ipotesi di lavoro: Dio" (…) ed è semplicemente falso che solo il cristianesimo abbia una soluzione» (Bonhoeffer).
Di più: è una teologia che finisce per alimentarsi delle ceneri di ciò che è umano. Perdendo così almeno un po' di quel «qualcosa di amabile (…) conforme alla peculiare natura del cristianesimo» che proprio Kant, nello scritto citato dall'enciclica, ammoniva comunque a non smarrire. È la teologia che induce a vedere nei Dico la minaccia alla dignità umana. E a tenere la salma di Welby fuori dal tempio. Non senza ragioni giuridiche, certo. Ma anche senza slancio di carità umana e ancor meno profetica.
Certo: chi fa parte del popolo di Dio saprà giudicare con senso della fede e della Chiesa ben più avvertito. Ma forse non si deve stentare poi molto per rinvenire in questa teologia non tanto il «dialogo leale» col mondo innegabilmente annunciato dal Vaticano II, quanto un ritorno ad Agostino. Alla sua pretesa che, grazie al circolo vizioso che presuppone già per fede ciò che poi la ragione trova, Cristo sia - come si legge anche nell'enciclica - il «vero filosofo». Nonché alla sua sfiducia antropologica, che lo induceva persino ad irridere come superba vanità la non sottomissione all'autorità delle Scritture e della Chiesa. Mentre lui, proprio e solo mediante questa sottomissione, riusciva a placare la disperante angoscia ( desperatio ) in cui si sentiva precipitare di fronte alle domande filosofiche sul senso della nostra vita.
Come la teologia agostiniana, anche quella del papa nega alla mente e al cuore dell'uomo ogni sapere-saggezza capace di evitare il naufragio interiore ed etico-politico. Vuole tutto per sé: la vera filosofia, la vera scienza, il vero illuminismo. In breve: il monopolio di ciò che è autenticamente umano. Un lusso che ormai nessuna teologia adulta può concedersi. Giacché la modernità è precisamente questo: l'epoca in cui la fede ha di fronte le plausibili ragioni dell'emancipazione dalla tradizione platonico-cristiana. E chi coltiva con sobrietà critica e saggezza solidale un simile approdo, si trova di fronte non solo fanatismo religioso o culto esteriore, ma anche una fede sorretta da sollecitudine di carità e giustizia, nonché dallo spessore e dal travaglio di una teologia pensosa che con la modernità si confronta in modo autentico.
Vogliamo provare veramente a sgombrare il campo da ogni parodia dell'incredulità e della fede? Dagli estremismi integralisti o ideologici che offendono la realtà? Questa è la precondizione del dialogo tra le ragioni plausibili che credenti e non credenti sanno portare nella sfera pubblica. Quello che papa Ratzinger - per tacere dei cardinali Ruini e Schönborn - sono tutt'altro che intenzionati a praticare. E che invece la rettitudine intellettuale e la laicità non temono. Anzi: ci educano a coltivare.
Un dialogo rispetto al quale - sia detto sempre col garbo di chi sa che ognuno fa seriamente con la propria ricerca - un'alternativa particolarmente perspicace non sembra offrirla neppure l'ateismo devoto. Un accostamento magari suggestivo. Ma destinato, se non a smarrire, certo a svilire le testimonianze più alte e feconde che sia l'incredulità che la fede - e proprio nella modernità - hanno saputo e sanno ispirare.
Post scriptum. Ferrara teme non a torto i passi di danza spesso eseguiti, anche da illustri politici, intorno a temi religiosi. Bene: niente giri di valzer. Ma qualche volta, direttore, ci piacerebbe dibattere non solo della sua devozione, ma anche del suo ateismo. Non lo escluda: se testimoniato con onestà, spesso si rivela un fuoco purificatore e bene accetto anche per chi, con onestà non minore, chiede a Dio di rivelargli il Suo volto.

venerdì 7 dicembre 2007

l’Unità 7.12.07
«Prodi è tenace, ma Bertinotti non sbaglia»
Il senatore Cossutta: vorrei una sinistra nuova, ampia e forte che punti al 15%
di Eduardo Di Blasi


Seduto fuori dall’aula del Senato mentre è appena iniziata la lunga maratona pomeridiana sulla conversione del decreto sulla sicurezza, il senatore comunista Armando Cossutta ragiona: «Il voto di fiducia che il governo è stato costretto a porre su questo provvedimento mette in evidenza le difficoltà nelle quali, soprattutto qui al Senato, si trovano maggioranza e governo». Parte da qui, dal risultato elettorale: «Avremmo dovuto, di fronte al pari e patta, tentare di rinegoziare il patto elettorale col quale ci siamo presentati agli elettori, per valutare insieme quelle questioni che riteniamo necessarie e di possibile realizzazione». Per questo le dichiarazioni di Bertinotti, dal quale si separò nel ‘98 quando cadde il primo governo Prodi, «hanno un loro fondamento nella realtà. Prodi è persona molto tenace. È riuscito a superare ed evitare tanti scogli, ma ha abbinato questa sua tenacia a un metodo un po’ paternalistico. Tentando di risolvere i contrasti con qualche telefonata, qualche incontro di vertice all’ultimo minuto. Invece era necessario, e lo è ancora, sciogliere i nodi con spirito realistico. Credo che Bertinotti questo voglia porre. Da questo punto di vista la cosa mi convince».
Per Cossutta «l’errore della sinistra dello schieramento, nel suo insieme, è stato quello di sostenere che ci fossero le condizioni per realizzare cose che viceversa non si potevano realizzare. Non c’è niente di peggio che indicare obiettivi, sbandierarli, sostenerli con forza, battersi per realizzarli e non riuscire a farlo. Perché questo crea negli elettori disillusione, distacco».
Bertinotti, afferma «pone il problema del salario, delle pensioni, del precariato. Mette le questioni sociali al centro. E poi pone un’altra questione: la legge elettorale. Lo sostengo anche su questo. Che sia proporzionale, senza premio di maggioranza e con uno sbarramento di almeno il 5%. Un partito politico, che non supera il 5% non incide, non conta. Fa testimonianza ma non fa avanzare la società. Sono comunista, lo sono sempre stato, continuerò ad esserlo fino alla fine della mia vita. Ma ho imparato che non basta essere comunista, difendere la mia identità. Continuo a pensare che la società per la quale varrebbe la pena di vivere è quella in cui ciascuno riceve quello che è necessario e dà quello che è in grado di dare. Sono del parere ancora che la libertà di ognuno deve essere la condizione della libertà di tutti. Ma il compito di un comunista non è quello di sventolare il proprio nome e il proprio vessillo, ma quello di agire».
La Sinistra di Bertinotti, Mussi, Giordano, Pecoraro e Diliberto «nasce tardi e nasce male perchè la vedo concepita da parte di alcuni dei contraenti come una confederazione di partiti, un’alleanza volta solo a superare il rischio dello sbarramento. Non si va da nessuna parte così. La sinistra che vorrei vedere rinascere e allora pesare e contare, è una sinistra che non è fatta di migliaia ma di milioni di persone, che sono la grande massa dei lavoratori, le loro famiglie, intellettuali, giovani, donne, popolo. Di un popolo che pensa di essere di sinistra ma che non è adeguatamente rappresentato. Una sinistra che non deve superare il 5%, ma il 15%». I simboli? «Falce e martello è un simbolo carissimo, molto importante. Ma se vogliamo tener conto di tutti quelli che vogliono aderire, che si vogliono riconoscere, non può avere il simbolo soltanto di un aspetto di questa sinistra. Oggi Rifondazione è di sinistra, il Pdci è di sinistra, la Sd è di sinistra, ma non sono «la Sinistra», la sinistra è qualche cosa che va oltre loro stessi». E su eventuali scissioni di Rizzo e Sinistra Critica? «Mi auguro di no, ma vedo che agiscono come se già fossero separati. Ma che cosa contano? Che cosa pensano di rappresentare?».

l’Unità 7.12.07
Diciamo sì al Dalai Lama
di Pietro Folena


Caro direttore,
l’articolo di Gabriel Bertinetto («Dalai Lama, perché no?») mi induce a chiederti la parola. La Camera dei Deputati riceverà, in forma ufficiale, il Dalai Lama, che potrà parlare ai parlamentari nella Sala della Lupa, con il Presidente Bertinotti. È la prima volta che accade.
Di fronte a questo avvenimento, nel momento in cui cioè il Parlamento decide di dare il maggior risalto possibile, sia pure compatibilmente con la procedura e la consuetudine, alla visita del Dalai Lama, non arrivano dal governo notizie dello stesso segno. Semmai di segno opposto. Arriveremmo al paradosso: la Camera stenderà i tappeti rossi mentre l’esecutivo chiuderà (speriamo di no) la porta.
Il silenzio assordante del governo non può essere taciuto e tollerato. È necessario, è giusto, è doveroso che il Dalai Lama venga ricevuto con tutti gli onori del caso anche da Romano Prodi e dal ministro degli Esteri D’Alema. E che l’Italia si impegni con i fatti e non a parole per la causa tibetana.
Conosco la politica estera e so bene che non si tratta di una scelta facile. Che la Cina è un paese potente e che si mette in moto ogni volta che il Dalai Lama visita un qualunque stato.
Ma davvero sarebbe stridente la differenza tra noi e gli Stati Uniti, certo non campioni di diritti umani, sarebbe davvero inaccettabile sottostare ai consigli di Pechino.
L’Italia, come Paese fondatore dell’Unione europea, deve confermare la sua vocazione ad essere tra i campioni dei diritti umani, come ha fatto con la moratoria sulla pena di morte. Non ci è consentito fare altrimenti, fare di meno.
Tanto più con un governo di centrosinistra. Nel 1994 Berlusconi lo ricevette. E lo stesso fece Scalfaro. Essere da meno di Berlusconi, su questo terreno, non è accettabile.
www.pietrofolena.net

l’Unità Firenze 7.12.07
Le belle domande della scienza
di Renzo Cassigoli


Nel momento in cui, con l'enciclica di Papa Ratzinger, si torna a discutere di Fede e Ragione, Leggere per non dimenticare presenta oggi un altro libro di grande attualità: Perché la scienza. (Mondadori 2007), che sarà introdotto da Marcello Buiatti. Avvincente come un romanzo, il libro è scritto a due mani: da Luca Cavalli Sforza, lo scienziato che narra la sua lunga avventura di ricercatore, e dal figlio Francesco, filosofo, autore e regista tv. Una sorta di autobiografia sui generis lunga sessant'anni la maggior parte dei quali trascorsi dallo scienziato a ricostruire la storia dell'umanità. Le oltre 370 pagine, sono fitte di interrogativi che aiutano a scoprire come si fa scienza, a capire come nascono le conoscenze, di quali strumenti disponiamo per scavare in un passato le cui tracce visibili sono per lo più scomparse, ma che è rimasto impresso nel nostro patrimonio genetico. Già nell'introduzione lo scienziato si chiede: «Come e perché cambiamo? cosa ci fa diversi di generazione in generazione? Com'è che poche migliaia di individui, muniti di pietre e bastoni sono oggi miliardi ed esplorano il sistema solare?». Cercando di rispondere a domande epocali il libro presenta buona parte di quanto siamo venuti a sapere finora sulla nostra storia più remota. «E in tutto questo tempo cosa hanno fatto i batteri», si chiede lo scienziato? L'interrogativo può apparire strano ma non lo è. Nella prima parte del libro, infatti, si parla di ricerche e di esperimenti compiuti su topi, su moscerini della frutta e su batteri, sapendo che la vita è un fenomeno unico e da quando è comparsa sul pianeta non si è più arrestata. La seconda parte affronta la ricostruzione dell'evoluzione umana, e gli strumenti per indagare la nostra biologia e la nostra cultura. E poi la domanda essenziale: «Cos'è la scienza, perché la si fa? A volte - scrive Luca Cavalli-Sforza - mi sembra che l'umanità sia condannata a conoscere».
Vengono alla mente le parole di Giuliano Toraldo di Francia: «La vita dell'uomo è un apprendimento continuo», scrive il filosofo della scienza. «Crede di tendere a sapere, ma in realtà tende a imparare. Non abbiamo bisogno di essere, ma di crescere. L'uomo "non è", ma "diviene". Ed è non solo capace di "imparare", ma anche di riflettere sull'apprendimento».

Repubblica Firenze 7.12.07
Cavalli-Sforza, luminare della genetica, oggi a "Leggere per non dimenticare"
Indagine sulla natura al di sopra di ogni dogma
di Gregorio Moppi

Chiuso il libro, verrebbe voglia di passare la vita tra laboratori, microrganismi, calcoli matematici. Applicarsi alle scienze per trovare risposte sensate, lucide, soddisfacenti agli interrogativi che attanagliano da sempre l´umanità: dall´origine della vita alle tematiche di bioetica più calde sul piano sociale e politico. Ormai, infatti, a tali quesiti sembrano rispondere piuttosto gli scienziati, la loro intelligenza pragmatica forgiata dal metodo galileiano, che non i filosofi. Il volume in questione è l´autobiografia professionale di un luminare della genetica quale Luca Cavalli-Sforza, professore emerito a Stanford classe 1922, scritto a quattro mani con il figlio Francesco, carriera trentennale di autore e regista cinetelevisivo dopo una laurea in filosofia: Perché la scienza. L´avventura di un ricercatore (Mondadori) viene presentato oggi alle 17.30 presso la biblioteca delle Oblate nell´ambito di «Leggere per non dimenticare». In sala, con il coautore, il genetista dell´ateneo fiorentino Marcello Buiatti. Cavalli-Sforza racconta i suoi successi di investigatore della natura ottenuti grazie all´ausilio di varie discipline (paleoantropologia, demografia, statistica, linguistica). Dalla scoperta della sessualità batterica alla ricostruzione dell´albero genealogico dell´umanità moderna. C´è ovviamente anche la vita privata; e gustosi quadri d´ambiente come le case di tolleranza frequentate nell´adolescenza o la spiegazione del meccanismo dei concorsi universitari pilotati.
Malvezzi nostrani che tuttavia farebbero passare la voglia di fare il ricercatore. A meno di non possedere una bruciante, innata curiosità intellettuale unita al divertimento di cimentarsi nella risoluzione di problemi nuovi. Fattori che traducono la pratica quotidiana della scienza, con la sua condotta rigorosa e priva di pregiudizi, in visione del mondo. Capace di replicare con cognizione di causa e spirito laico a chi vorrebbe imporre a tutti comportamenti dettati da credenze religiose, da prese di posizione ideologiche, da concezioni antiscientifiche. Perciò non soltanto soluzioni in questo libro, ma anche domande. Perché dare credito alla lettera biblica pretendendo, come fanno certe potenti sette cristiane degli States, che gli organismi viventi siano stati creati fin dal principio in forme immutabili? Perché opporsi all´interruzione della gravidanza quando ciò può evitare sofferenze indicibili a un nascituro malato e alla sua famiglia?
Perché contrastare un uso giudizioso degli Ogm, visto che il miglioramento genetico viene praticato da diecimila anni?

Repubblica 7.12.07
Dimenticare è necessario
Piccolo manuale dell'arte di dimenticare
di Umberto Eco


"Dall'albero al Labirinto", un nuovo libro di Eco
L’oblio salva la cultura
Borges aveva immaginato un uomo che ricordava tutto persino lo stormire di una foglia sentita dieci anni prima e questo eccesso lo annientava
Della battaglia di Waterloo non conosciamo certo i nomi di tutti i partecipanti
Il vero problema non è ciò che non sappiamo ma ciò che non possiamo più recuperare

Il problema della necessità di dimenticare nasce nello stesso periodo in cui sin dall´antichità classica si elaborano le mnemotecniche onde ricordare il massimo numero di informazioni possibili (...). Cicerone per esempio citava il caso di Temistocle, dotato di memoria straordinaria, a cui qualcuno propone di apprendere un´ars memorandi. Temistocle risponde che costui «gli avrebbe fatto opera gradita se gli avesse insegnato a dimenticare più che a ricordare» (...). La preoccupazione di Temistocle anticipa (e forse ispira a Borges) l´angoscia di Funes el Memorioso, il quale ricordava in modo talmente ossessivo e insopportabile ciascuna delle sue esperienze, anche il solo stormire di una foglia percepito decenni prima, da essere praticamente un minus habens (...).
Il complesso di Temistocle ritorna varie volte nel corso della storia della cultura, e una delle manifestazioni più drammatiche è certamente la Seconda considerazione inattuale di Nietzsche, sull´utilità e sul danno degli studi storici per la vita. Il testo si apre proprio con una dichiarazione che sembra essere un´altra delle fonti del Funes borgesiano: «(...) Un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l´una dall´altra tutte le cose in punti mossi e si perderebbe in questo fiume del divenire: alla fine, da vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare il dito» (...).
Uno degli elementi d´interesse di questo testo è che esso, dopo queste dichiarazioni che sembrano riferite alle necessità di sopravvivenza di un individuo, sposta il discorso alla necessità di un oblio sistematico per le culture.
Questo spostamento è d´importanza capitale perché, se è stata dimostrata l´impossibilità di dimenticare volontariamente quello che la memoria individuale ha registrato, le culture si presentano proprio come dispositivi che non soltanto servono a conservare e tramandare le informazioni utili alla loro sopravvivenza in quanto culture, ma anche a cancellare l´informazione giudicata eccellente (...).
Si studiano oggi le dimenticanze che una cultura mette in opera attraverso vari tipi di cancellazione, che possono andare dalla censura vera e propria (abrasione di manoscritti, rogo di libri, damnatio memoriae, falsificazione delle fonti documentarie, negazionismo) a fenomeni di oblio per pudore, inerzia, rimorso, sino a quei procedimenti in atto nelle scienze esatte dove si decide che non solo le idee provate errate ma persino gli sforzi e i procedimenti messi in opera per arrivare a quelle considerate giuste, vengono espulsi dall´enciclopedia specializzata di quella tale scienza perché inutili (cfr. Paolo Rossi 1988 e 1998) (...).
Se sono soggette a processi di dimenticanza le Enciclopedie Specializzate altrettanto e ancor più accade con l´Enciclopedia Media di una data cultura. Essa ci garantisce il ricordo dei grandi fatti storici o dei principi della fisica, ma lascia cadere un´infinità d´informazioni che la collettività ha rimosso in quanto non le giudicava utili o pertinenti. (...) Ci fornisce dettagli preziosi sull´andamento della battaglia di Waterloo ma non ci dice il nome di tutti coloro che vi hanno partecipato (...).
Più che di dimenticanza si può parlare di «latenza» del sapere (Cevolini 2006: 99). Non è che le informazioni eccedenti (...) vengano dimenticate. Esse sono per così dire «surgelate» e basta che l´esperto le vada a prelevare e le metta nel forno a microonde ed esse si riattualizzano, almeno ai fini della comprensione di un dato contesto. Questa latenza è rappresentata in fondo dal modello della libreria, o dell´archivio (e persino del museo) come contenitori di un sapere sempre attualizzabile anche se nessuno lo sta attualizzando, o se si è smesso di attualizzare da secoli (cfr. Esposito 2001) (...).
Si è detto che l´Enciclopedia Media non ricorda i nomi di tutti coloro che hanno partecipato alla battaglia di Waterloo. Cosa accadrebbe se uno studioso volesse ora ricostruire questa lista? Ammettiamo che abbia accesso ad archivi rimasti sino ad ora inesplorati, o che venga in possesso di un testo simile all´elenco dei Mille garibaldini partiti da Quarto con Garibaldi (ora disponibilissimo persino in Wikipedia). Questo studioso farebbe ricorso a porzioni dimenticate e rimosse dall´Enciclopedia Media ma che appartengono pur sempre all´Enciclopedia Massimale.
Tuttavia sappiamo che Aristotele nella Poetica cita tragedie di cui non abbiamo mai avuto conoscenza. A quale Enciclopedia appartengono questi testi? Per ora fa parte dell´Enciclopedia Media (o di una Enciclopedia Specializzata) solo la notizia che Aristotele ha citato il mero titolo di queste opere. Se un giorno (come è avvenuto per i manoscritti di Nag Hammadi) si reperissero alcuni di questi testi in una giara, risulterebbe che essi facevano parte dell´Enciclopedia Massimale, anche se nessuno prima di allora avrebbe potuto asserirlo, e che da quel momento faranno parte di una o più Enciclopedie Specialistiche. Ma cosa accadrebbe se invece essi non venissero mai reperiti e continuassimo a conoscerli solo attraverso i loro titoli? Per il fatto stesso che ci sono buone ragioni per credere che siano esistiti, continueremmo a pensare che essi potrebbero far parte dell´Enciclopedia Massimale, anche se per ora ne fanno parte solo in modo virtuale e ottativo (...).
(Anche) un testo (oltre che uno strumento per inventare o ricordare) è uno strumento per dimenticare, o almeno per rendere latente qualcosa (...). Il caso più esplicito di dimenticanza incoraggiata è dato dal romanzo giallo. Per riferirci ad uno dei più famosi di essi, The murder of Roger Ackroyd di Agatha Christie, è noto che il racconto intende colpire alla fine il lettore con la rivelazione che l´assassino è il narratore. Per rendere più gustosa la sorpresa, l´autrice deve convincere il lettore che esso è caduto nella trappola non per malizia sua, di lei, ma per propria insipienza (...). Ed ecco che il narratore, e con lui l´autrice, rielencano una serie di brevi accenni, tutti testualmente presenti, che il lettore non può che aver dimenticato a causa della loro irrilevanza strategica, e che se fossero stati interpretati secondo una sindrome del sospetto, avrebbero pre-rilevato la verità (...).
C´è una serie di racconti scritti da Borges e Casares, e cioè le storie di Don Isidro Parodi, che sembrano basati sullo stesso procedimento, ma portato all´esasperazione e, direi, alla parodia metafisica. Don Isidro Parodi dall´interno di un carcere, e sempre ascoltando racconti e rapporti di personaggi stravaganti o pochissimo attendibili, alla fine arriva sempre a sciogliere l´enigma e vi arriva perché ha ritenuto pertinente un certo dato di cui il racconto parlava. Tal che alla fine il lettore è tentato di chiedersi perché anch´egli non è pervenuto a vincere, dato che aveva in mano le stesse carte di Isidro Parodi. La malizia di Borges sta nel fatto che i particolari che si accumulano nel racconto sono tanti, e tutti egualmente enfatizzati (ovvero tutti raccontati a uno stato enfatico zero), e dunque non c´era alcuna ragione per cui il lettore dovesse memorizzare il particolare A piuttosto che il particolare B (...).
Si potrebbero analizzare le varie culture considerando quei testi che hanno contribuito a cancellare una serie di nozioni dalla loro Enciclopedia Media (...). Se le culture sopravvivono è anche perché hanno saputo alleggerirsi ponendo in latenza tante nozioni, garantendo ai proprie membri una sorta di vaccinazione dalla Vertigine del Labirinto e dal complesso di Temistocle/Fuens. Ma il vero problema non è che le culture alleggeriscano le proprie enciclopedie (il che, si è visto, è fenomeno fisiologico) bensì che si possa sempre ricuperare quello che esse hanno posto in latenza. Per questo l´idea regolativa di Enciclopedia Massimale è ausilio potente per l´Advancement of Learning.

Repubblica 7.12.07
Bertinotti e il dovere del silenzio
di Eugenio Scalfari


HA ragione il capo dello Stato che si dichiara «perplesso» delle parole dedicate dal presidente della Camera a Prodi e al governo da lui presieduto, nell´intervista pubblicata qualche giorno fa dal nostro giornale. Perplesso è l´aggettivo giusto. Fossimo alla Camera dei Comuni l´aggettivo appropriato sarebbe «scandalizzato», ma qui da noi da tempo i presidenti della Camera e del Senato hanno cessato di essere considerati e da considerarsi semplicemente gli «speaker» delle rispettive assemblee. Sono uomini politici che parlano di politica dalle più alte sedi istituzionali, con la sola cautela di astenersi dalle singole votazioni.
Ma anche se questa è la prassi invalsa, questa volta Fausto Bertinotti l´ha visibilmente oltrepassata. Augurarsi, anzi prevedere, anzi dichiarare che il presidente del Consiglio «è morente», che il centrosinistra ha fallito, che l´opinione pubblica l´ha abbandonato e che il suo partito (di Bertinotti) si propone di dissociarsi dalla coalizione e avere «le mani libere», raffigurano un leader politico a tempo pieno che crea un vero e proprio conflitto istituzionale di inaudite proporzioni. Ne era consapevole il presidente della Camera? Ne aveva valutato gli effetti? Oppure si è fatto prendere la mano mettendosi in una posizione che definire imbarazzante è dire assai poco?
Ho grande stima per le capacità suggestive del suo linguaggio e per la sua immaginazione politica. Un po´ meno per quanto riguarda il suo senso delle istituzioni.
Ma il problema ora è di capire perché Bertinotti ha detto ciò che ha detto e poi vedere qual è la via – se ce n´è una – per ricomporre il devastante conflitto istituzionale che si è creato.
Capire ciò che ha detto significa anche valutare ciò che non ha detto. Non ha detto che tra gli sconfitti della situazione politica attuale il primo è proprio lui. La pretesa sconfitta del centrosinistra è in realtà l´isolamento della sinistra radicale e il suo ritorno a quel ruolo di semplice testimonianza antagonista dal quale proprio lui, Fausto Bertinotti, ha tentato di liberarla affidandole una funzione di presenza politica governante e concretamente riformatrice.
Nell´idea di Bertinotti la sua sinistra avrebbe dovuto rappresentare una sorta di affluente nel grande fiume del riformismo italiano. Un affluente di grande importanza e di ampio volume di acque, che avrebbe potuto e dovuto modificare in modo significativo il corso del fiume senza proporsi di invertirlo.
Quest´operazione era molto ambiziosa. Il suo partito era infatti nato non per affluire in un fiume riformista ma per dar vita ad un fiume autonomo. Magari parallelo per una parte del percorso, ma poi orientato verso un altro punto cardinale e sospinto da un´altra pendenza.
Superare questa concezione originaria è stato, fin dal 2004 e sempre più con l´approssimarsi delle elezioni politiche del 2006, l´obiettivo di Bertinotti. Per raggiungerlo si è «inventato» il partito transnazionale della sinistra europea. Per la stessa ragione ha accettato la leadership di Prodi, cioè di un leader senza partito; per dare corpo alla sua strategia ha chiesto la presidenza della Camera, mettendosi oggettivamente di traverso alla candidatura di Massimo D´Alema.
So (l´ho saputo dallo stesso D´Alema) che nella «spiegazione» che ci fu tra loro due, D´Alema gli manifestò il timore che Rifondazione, perdendo il suo segretario, avrebbe rischiato di sbandarsi. Fu rassicurato da Bertinotti su questo punto e – come ricordato da Benigni con l´irresistibile comicità che gli è propria – «fece un passo indietro», ma la sua diagnosi si è dimostrata giusta. Rifondazione ha accettato con molto disagio i nuovi compiti politici che gli venivano assegnati, ha accentuato la necessità di distinguersi all´interno del governo, ha alimentato lo scontro anche se alla fine di ogni «round» decideva poi di riallinearsi per evitare la caduta del governo.
La perdita di consenso di Prodi si deve in gran parte alla permanente rissosità che i ministri della sinistra radicale hanno via via accresciuto, dando agli italiani la sensazione che il governo non fosse in grado di governare. Un giudizio che non corrispondeva alla realtà: il governo in un anno e mezzo e malgrado la situazione numerica al Senato, ha governato. Ha varato due Finanziarie importanti, ha recuperato un accettabile risanamento finanziario, ha dato inizio ad una politica redistributiva non trascurabile, ha svolto un ruolo importante nella politica estera.
Eppure tutto è stato reso invisibile dalla rissa continua all´interno dell´Unione e all´interno del governo. Sui «media» non c´era giorno che non vi fossero titoli su quella rissa, se ne fornissero i retroscena, se ne raccontasse lo svolgimento. La gente ha perso progressivamente fiducia, l´opposizione ha puntato tutto sull´implosione della maggioranza. Chi si è assunto la responsabilità dei danni creati da questa continua ricerca di visibilità? Gli attori mai stanchi di rilanciare lo scontro interno sono stati i gruppi di Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi, oggettivamente coadiuvati sull´opposto versante da Mastella, Di Pietro, Dini. La nascita del Partito democratico ha accelerato questo percorso: dal momento in cui il fiume riformista veniva personificato da un partito e da un leader la situazione degli affluenti non poteva che risultare sempre più disagevole.
Concluderei su questo punto con il vecchio adagio: chi è causa del suo mal pianga se stesso. I «cespugli» della sinistra radicale e Rifondazione non si sono accontentati di correggere il corso del fiume riformista, hanno tentato di invertirne il corso o almeno di dare l´apparenza di questa operazione. Di qui l´apparenza di un governo che galleggiava anziché governare, d´un Prodi Re Travicello travolto dai marosi della sua coalizione.
C´era un´alternativa per la sinistra radicale? Non ce n´era altra che tornare al suo vecchio ruolo di testimonianza antagonista. Bertinotti ha resistito finché ha potuto, poi ha mollato. L´intervista a «Repubblica» è la testimonianza del fallimento della sua politica. Purtroppo porta con sé, a scadenza più o meno breve, la fine dell´esperimento prodiano. A meno che Bertinotti innesti ora la retromarcia. Ma il suo partito lo seguirà?
* * *
C´è un punto che va chiarito: la citazione di Riccardo Lombardi che nelle parole di Bertinotti a "Repubblica" risulta essere il modello della sua azione politica. Bertinotti come Lombardi? Rifondazione come la sinistra lombardiana?
Non posso credere che Bertinotti non conosca a fondo il pensiero e la biografia politica di Lombardi, perciò o ha travisato volutamente o vuole fornire un´immagine di sé e del suo partito che non collima con la realtà.
Lombardi apparteneva allo stesso ceppo riformista di Pietro Nenni. Veniva dal Partito d´azione. Non ebbe mai indulgenze verso l´ala filo-comunista e filo-sovietica che nel Psi era rappresentata da Vecchietti e da Valori. Aveva una solida conoscenza dell´economia, non amava il piccolo cabotaggio riformista e puntava invece sulle riforme da lui definite strutturali: quelle che potevano modificare appunto la struttura del capitalismo senza però impedirne il funzionamento ed anzi rivitalizzandone la concorrenzialità, la trasparenza, l´efficacia e rafforzando la sua scelta democratica.
Le riforme alle quali lavorò quando ebbe inizio il centrosinistra nel 1962, erano quattro: la nazionalizzazione dell´industria elettrica, la nominatività dei titoli azionari, l´abolizione del segreto bancario, la nazionalizzazione dei suoli edificabili. Conosco bene questa storia perché la seguii assai da vicino. Assistetti anche ad un incontro decisivo su tutta questa tematica tra Carli e Lombardi che avvenne in casa mia nel 1963 su richiesta di Riccardo.
La conclusione fu – per dirla molto in breve – che Carli convinse Lombardi sull´impossibilità politica, sociale ed economica di fare quattro riforme di quella portata in un breve spazio di tempo. Avrebbero provocato il panico di tutti i ceti sociali, una crisi nei depositi bancari, una gigantesca fuga di capitali e reazioni politiche di segno autoritario. L´incontro durò fino alle due del mattino. Alla fine Lombardi si convinse. Stralciò la nazionalizzazione dei suoli e l´abolizione del segreto bancario. Concentrò l´azione del Psi sulla nazionalizzazione dell´industria elettrica e sulla nominatività non dei titoli azionari ma delle cedole e dei dividendi all´incasso.
Il suo riformismo cioè riuscì a correggere il corso del fiume riformista senza precipitare in un antagonismo sistemico che serve soltanto a mantenere in vita la ditta dei cespugli grossi e piccoli.
Perciò il modello lombardiano è forse quello cui Bertinotti aspirava ma che il suo partito non ha condiviso.
* * *
Quanto alla crisi istituzionale, è evidente che essa deve essere immediatamente ricomposta. Sulla carta ci sono due modi di affrontarla: le dimissioni di Bertinotti dalla presidenza della Camera oppure una sua stagione di stretto riserbo politico nei limiti d´uno scrupoloso esercizio del suo ruolo istituzionale.
La prima soluzione – quella delle dimissioni – è di gran lunga la peggiore. Aggraverebbe drammaticamente la crisi anziché risolverla; forse sarebbe possibile in un Paese diverso e in una diversa situazione. La seconda dunque è in realtà la sola strada, ma deve avere rilievo pubblico, deve essere esplicita e non implicita.
Non si deve certamente chiedere a Bertinotti ciò che nessun politico è disposto a dare, non gli si può chiedere di smentire se stesso. Ma si ha ragione di chiedergli che dica che d´ora in avanti non farà più esternazioni politiche visto che esse provocano disagio e contrasti accrescendo la confusione.
Prenda atto del dato di fatto e cominci la sua nuova stagione di "speaker", lasciando che il suo partito e gli organi che lo guidano orientino da soli il loro cammino senza bisogno del suo patrocinio. Così avrebbe dovuto essere fin dall´inizio. Lo sia almeno da ora. E lo sia soprattutto per quanto riguarda la riforma della legge elettorale. Sarebbe grottesco e assolutamente intollerabile che il presidente della Camera fosse di fatto uno degli interlocutori degli altri partiti in causa su una materia che troverà in Parlamento la sua sorte. Mai come in questa occasione l´arbitro non può giocare in campo con i giocatori, né nella forma né nella sostanza. Perciò si turi le orecchie, si bendi gli occhi e abbia di mira esclusivamente la corretta applicazione del regolamento parlamentare.

Repubblica 7.12.07
Anticipazione/ Su "MicroMega" in edicola oggi venti saggi sulla laicità
Se tra cattolici e laici il dialogo è una finzione
di Gian Enrico Rusconi


Non si può certo dire che la Chiesa oggi manchi di influenza pubblica, anzi ci si chiede fino a che punto la situazione sia normale

In Italia il dialogo tra cattolici e laici è ormai una finzione diplomatica. E un calcolo di convenienza politica e di aritmetica elettorale. E´ impossibile persino intendersi su chi sia laico e/o cattolico (o credente - come si continua a dire per inerzia convenzionale). Tutti in Italia infatti si dichiarano laici. Anche se spesso aggiungono di esserlo in modo «sano», «nuovo» o semplicemente «vero». Sono aggettivazioni superflue che dissimulano la semplice realtà che i laici in Italia sono una minoranza. Intanto cresce la tendenza a un outing religioso affidato a dichiarazioni soggettive insindacabili, senza alcun rilievo teologico.
Sociologi (e monsignori) scambiano tutto questo come «ritorno delle religioni», dimenticando che la religione tradizionale era in grado di produrre «condotte di vita» sulla base di alcuni riferimenti dogmatici, non disinvolti «stili identitari» meramente soggettivi.
Ma la qualità del consenso che oggi la religione-di-chiesa chiede agli italiani non prevede alcuna specifica competenza teologica. Il suo punto di forza è la rivendicazione del monopolio dell´etica, basato sulla presunta «naturalità» o «razionalità» dei suoi argomenti e delle sue proposte. L´obiettivo del «discorso pubblico» della Chiesa - quello che davvero le sta a cuore per determinare l´etica pubblica - è oggi innanzitutto la difesa della famiglia «naturale» e/o della «vita», collocata in un´indiscutibile («non negoziabile») visione normativa.
Questa visione è dichiarata espressione di un ethos comune, condivisa presuntivamente da tutti gli italiani e quindi da sostenere con dispositivi di legge vincolanti per tutti. Si crea così uno stretto nesso tra una particolare dottrina della natura umana e la presunzione che essa sia condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione. Verità di natura e sentimento popolare festeggiano la loro unione felice. La religione cattolica è promossa a fattore di integrazione sociale, a surrogato di religione civile degli italiani. Naturalmente ci sono consistenti minoranze di credenti che non condividono questa impostazione, ma lo fanno con voce flebile e prudente, benevolmente tollerati dalla gerarchia. Di fatto extra romanam ecclesiam nulla vox.
Tutto questo pone la questione, che qui ci sta a cuore: il rapporto di cittadinanza tra cittadini credenti-di-chiesa e gli altri.
Prima di procedere oltre, mettiamo a fuoco il concetto di «discorso pubblico». Nel modo di parlare corrente esso è usato come sinonimo di «sfera pubblica», a sua volta fatta coincidere con «spazio mediatico». Indica l´insieme dei processi comunicativi che in una società democratica sono aperti per definizione a tutti - individui, gruppi, istituzioni e organizzazioni. Nella sfera pubblica ha luogo anche il confronto degli uomini di scienza sotto forma di interventi pubblicistici sempre più frequenti e apprezzati dalla stampa.
Su questo sfondo - a mio avviso - sarebbe opportuno riservare al concetto di «discorso pubblico» il significato più specifico di operazione che mira strategicamente (per tempi, modi e destinatari) a trasformare convinzioni di parte in norme di legge che valgono per tutti. Soltanto facendo questa distinzione si possono evitare alcuni equivoci. Ad esempio, quando la Chiesa lamenta di essere ostacolata nel suo «discorso pubblico», mescola due situazioni molto diverse.
Confonde l´accesso alla sfera pubblica e mediatica, di cui palesemente la Chiesa non soffre nel nostro paese, con la capacità di far valere senz´altro le sue dottrine presso la grande opinione pubblica e soprattutto presso la classe politica - in materia di rapporti familiari, di sessualità o sui temi scientifici che hanno significativi effetti pratici (l´insegnamento della teoria dell´evoluzione nelle scuole). Soltanto in questo secondo caso si tratta di «discorso pubblico» in senso forte, orientato a essere politicamente influente ed efficace. Ma anche a questo riguardo non si può certo dire che la Chiesa oggi manchi di influenza pubblica. Anzi sorge l´interrogativo sino a che punto la situazione italiana debba considerarsi del tutto normale per una democrazia o non nasconda invece pericoli di distorsione. O detto in altro modo: nasce l´interrogativo se appartenenze particolari, religiose non si sovrappongano, con le loro pretese identitarie, alla cittadinanza costituzionale, cedendo a tentazioni comunitariste.
Torniamo alla de-teologizzazione dell´atteggiamento religioso, di cui parlavamo sopra, fenomeno in generale trascurato o rimosso da teologi e analisti culturali. L´approccio etico-religioso oggi dominante mantiene sfocati (o semplicemente non detti) i riferimenti ai grandi dogmi teologici della colpa originale, della redenzione, della salvezza che storicamente sono (stati) tutt´uno con la dottrina morale della Chiesa. Oggi questi temi teologici sono diventati quasi incomunicabili a un pubblico religiosamente de-culturalizzato. La dottrina millenaria della «natura decaduta con il peccato», che ha sostenuto teologicamente le indicazioni morali tradizionali, viene tacitamente dichiarata obsoleta senza convincenti spiegazioni. La teologia morale è interamente assorbita dalla tematica della «vita» e della «natura» con modalità che rischiano di farla cadere in forme di bio-teologismo o di risacralizzazione naturalistica carica di risentimento verso le scienze biologiche e le teorie dell´evoluzione.
In questo contesto non è facile collocare la strategia comunicativa di papa Ratzinger che talvolta sembrerebbe muoversi in controtendenza quando insiste sui motivi del logos, della ragione e dell´«illuminismo» (Aufklarung). Ma alla fine il suo modo di argomentare attorno alla «razionalità della fede» porta anch´esso alla critica contro la scienza.

Repubblica Roma 7.12.07
Campidoglio. Unioni civili il Pd apre ma la Sinistra vuole il registro
Si profila la spaccatura dell’Unione Delibera contro Ordine del giorno
di Giovanna Vitale


«Non c´è alcuna difficoltà del Pd sulle unioni civili», sgombra subito il campo Pino Battaglia, capogruppo del neonato partito in consiglio comunale. Tant´è che «per uscire dal clima di contrapposizione che si venuto a creare in questi giorni», precisa dettando la linea, «proponiamo un percorso condiviso che faccia compiere reali passi in avanti sul tema dei diritti».
Affiancato dal coordinatore romano, Riccardo Milana, il capogruppo non lo dice esplicitamente ma è chiaro ciò che pensa: per la Sinistra le coppie di fatto sono solo un mezzo per colpire il Pd, ridimensionarlo, acquisire visibilità. E infatti «senza una legge nazionale il registro comunale sarebbe privo di qualunque conseguenza sulla vita pratica delle persone, strumento di pura battaglia politica», ribadisce. Che potrebbe, paradossalmente, trasformarsi nel cavallo di Troia di un´opposizione pronta a votare prima con un pezzo della maggioranza, poi con l´altro, pur di determinare la bocciatura di qualsiasi iniziativa sulle unioni civili. Perché «se non si dovesse trovare un accordo», insiste Battaglia, «noi porteremo in aula un nostro ordine del giorno» che riconosca le tante cose fatte in questi anni a Roma a favore dei diritti delle persone; chieda al Parlamento di legiferare in tempi rapidi; impegni gli assessori all´Anagrafe, alle Pari opportunità e alle Politiche sociali, nonché le rispettive commissioni consiliari, a costruire una delibera-quadro che riorganizzi e dia sistematicità alle garanzie e ai benefici già offerti dall´amministrazione a tutti i conviventi, a prescindere dal sesso e dai legami di parentela. Elencati dalla vicepresidente del consiglio Monica Cirinnà: «Chi risiede nella stessa abitazione gode, per esempio, dell´accesso alle graduatorie delle case popolari o degli asili nido». Il Pd non si farà trascinare in una guerra ideologica: «Il nocciolo di una politica riformista», sottolinea Milana, «è produrre fatti, non agitare drappi ideologici».
Ma la Sinistra, che oggi illustrerà le sue contromosse, insiste. «Presenteremo un emendamento alla delibera consiliare per l´istituzione di un registro delle solidarietà civili, così come proposto dal cattolico D´Ubaldo, dando mandato alla giunta di approvare un regolamento di attuazione entro 30 giorni. Il tempo delle parole è scaduto».

Corriere della Sera 7.12.07
Biografie Un saggio di Silvana D'Alessio
Meteora Masaniello: solo dieci giorni per entrare nel mito
di Giuseppe Galasso


Il 7 luglio 1647 capeggiò l'insurrezione, il 16 fu ucciso La rivolta durò altri otto mesi

Paradossale il destino di Masaniello! Sulla scena della storia egli restò solo per dieci giorni, che certo non fecero tremare il mondo. Tremò, invece, il governo spagnolo di Napoli, e tremò Madrid, alla quale Napoli apparteneva e che già era in gravi difficoltà. Tremò anche buona parte della società napoletana nella capitale e in tutto il Regno, interessata a che si chiudesse al più presto e senza danni lo sconquasso apportato dal movimento scatenatosi a Napoli il 7 luglio 1647 e subito raccoltosi intorno alla figura di quel pescivendolo (o forse meno ancora che tale), di cui nessuno sapeva gran che prima di allora, se non che aveva avuto a che fare con la giustizia e che lo si conosceva nel suo quartiere, uno dei più popolari della città, quello nel quale si trova la chiesa della Madonna del Carmine, alla quale egli era legato e che adottò un po' come tribuna della sua rivolta.
Dopo tre secoli e mezzo di studi, non molto di più si è saputo. Più di qualcosa aggiunge ora anche il libro di Silvana D'Alessio, Masaniello. La sua vita e il mito in Europa,
con prefazione di Aurelio Musi, edito da Salerno. Oscuro è anche che cosa volesse davvero fare Masaniello ritrovatosi a capo della rivolta con poteri praticamente dittatoriali, preso subito in alta considerazione dal viceré spagnolo Duca d'Arcos e da Ascanio Filomarino cardinale arcivescovo di Napoli, invitato e trattato a Corte coi massimi onori e riguardi, con la moglie, Bernardina Pisa, di cui si diceva che fosse stata una prostituta, visitata nella sua povera casa e abbracciata e baciata dalla viceregina di Napoli, ossia da una di quelle dame nobilissime che si ritenevano appartenenti a un olimpo da semidei.
In realtà, nei dieci giorni della sua vita di capo e despota della rivolta Masaniello a un certo disegno politico sembrò avviarsi. Fu chiaro subito, ad esempio, che non voleva affatto staccare Napoli dalla Spagna, e che i nemici maggiori erano per lui l'oligarchia nobiliare della capitale e, ma già un po' meno, l'aristocrazia feudale, l'una e l'altra avverse a una parte del popolo nel governo di Napoli e del Regno quale gli insorti chiedevano. Dopo pochi giorni la condotta del giovane popolano, apparsa all'inizio non priva di saggezza e avvedutezza, pur nella violenza estrema a cui si trascendeva, cominciò, però, a farsi arbitraria e tirannica. Il potere e gli onori gli avevano dato alla testa? Era stato avvelenato dagli Spagnoli? O da chi credeva di servirsene da fantoccio nella conduzione della rivolta secondo idee molto più precise dell'oscuro pescivendolo, ora tanto cresciuto di potere e di personalità? O dai suoi rivali nell'ambito popolare?
Masaniello fu così, il 16 luglio 1647, ucciso a tradimento. La morte violenta ne consacrò, tuttavia, il nome. Le sue esequie furono un'apoteosi incredibile. Cominciò allora, in effetti una sua seconda vita, postuma, per cui egli divenne subito il personaggio della storia napoletana di gran lunga più conosciuto, con ritratti, poemi, cronache, drammi, poesie, e tutto quel che si può desiderare in fatto di fortuna politica postuma. Anche in via di simbolo il suo nome divenne un archetipo, una metafora della cieca violenza rivoluzionaria di una plebe rozza e senza idee, ma molto più spesso, invece, un emblema dell'ingenua, ma forte sete di giustizia e di libertà del popolo contro le oppressioni statali e sociali, una vergine energia che dimostrava le potenzialità di grande azione storica che un simile capo alla testa dei suoi popolani, in altre condizioni, avrebbe potuto svolgere.
Di questa vita postuma di Masaniello il libro della D'Alessio ha dato il quadro migliore finora disponibile, con una grande ricchezza di particolari, così come di vari particolari ha arricchito la conoscenza dei suoi dieci giorni trionfali. Ma il problema della rivolta di Masaniello, durata, dopo il suo assassinio, altri otto mesi, non è solo quello della figura del suo eroe. È anche, e soprattutto, il problema di un moto che sembrò mettere a fiero rischio il possesso spagnolo di Napoli e influire sulle sorti dei grandi conflitti europei allora in corso. Una grande occasione perduta per il Mezzogiorno di sfuggire alla sua sorte di arretratezza? Un vano tentativo senza precisi programmi? Una conferma della debolezza storica del Mezzogiorno? O una vicenda che ebbe un suo senso e una sua corrispondente dialettica di svolgimento? Musi, che apprezza debitamente il lavoro della D'Alessio, accenna anche a tutto ciò nella sua puntuale prefazione a questo libro che si colloca degnamente nella lunga tradizione degli studi masanielliani.

Aprileonline.info 6.12.07
Bertinotti sul sentiero di Lombardi
di Carlo Patrignani


L'analisi Il presidente della Camera ha parlato di una sinistra di programma e governo che sceglie, sulla base delle alleanze possibili, se ci sono le condizioni, cioè i programmi giusti, per stare nell'esecutivo o, in loro assenza, all'opposizione. Non a caso ha citato l'ingegnere "acomunista" che elaborò l'idea del "riformismo rivoluzionario", nella convinzione che si potesse cambiare l'assetto capitalistico soltanto dal di dentro


Una nuova, imprevista ‘mossa del cavallo' con cui Fausto Bertinotti ha spiazzato tutti, alleati ed avversari; ha anche disorientato molti, ma soprattutto ha scompaginato quel campo paludoso e melmoso della Politica dove si rischia sempre di esser risucchiati.

"Il grande tema per la sinistra radicale è uno solo: l'autonomia" ruggisce alla vigilia degli Stati Generali, il presidente della Camera. "Torna una grande questione che nacque nel ‘56 con i fatti d'Ungheria, con la rottura nel Pci, con lo scontro Nenni-Togliatti. Lì nasce una grande cultura politica, una storia enorme, Riccardo Lombardi: e' l'autonomia di un progetto - aggiunge Bertinotti, l'ideatore del Socialismo del 21° secolo - che da allora la sinistra ha cancellato, rimosso". Ed oggi, "per la sinistra radicale il tema si ripropone".

Appaiono, dunque, almeno ingenerose le critiche a Bertinotti, venute anche da esponenti della cosiddetta ‘sinistra radicale', di muoversi verso una sinistra residuale, protestataria, ridotta all'opposizione per l'opposizione, priva di cultura di governo, fino al paludoso e melmoso ricatto: attento, se ti ribelli tornano la destra e Berlusconi per cui è vietato disturbare.

Quella che prefigura invece il presidente della Camera -suffragato dal ricordo a quanto pare ‘vivo' di quel che fu ‘la sinistra lombardiana', uno dei più prestigiosi laboratori di ‘ricerca', di idee e di progetti- è una 'sinistra di programma e governo', che sceglie, di volta in volta, sulla base delle alleanze possibili, se ci sono le condizioni, cioè i programmi giusti, per stare al Governo oppure, in assenza di questi, stare all'opposizione. E per tale sinistra autonoma ‘di governo e di opposizione', il riferimento storico a Lombardi è calzante ed inevitabile: non a caso fu l'ingegnere ‘acomunista' a inventare le riforme di struttura, a ideare quel ‘riformismo rivoluzionario' che non aveva nulla a che fare con il riformismo socialdemocratico o liberale che si limitava a gestire al meglio ‘lo status quo', a progettare il primo centrosinistra e la programmazione economica. E di riforme strutturali quel primo centrosinistra ne fece alcune e di gran peso, come la nazionalizzazione dell'energia elettrica, la scuola media unica, lo Statuto dei diritti dei Lavoratori.

Cambiare l'assetto capitalistico dal di dentro, anche stando al Governo, era l'assunto di Lombardi. Soprattutto, diceva, "non si puo' immaginare di fermare, neanche per un momento, la macchina produttiva per farne una diversa ma dobbiamo modificarla mantenendola in vita: non ci sono i due tempi, la rivoluzione e le riforme: la scelta è per il riformismo rivoluzionario che non ha elementi di contatto con il liberalismo".

Ma come fu l'ideatore, Lombardi fu anche l'affossatore del centrosinistra - la famosa notte di San Genesio - quando verificò che la Dc aveva di fatto svuotato e devitalizzato il programma, il progetto di riforme: a differenza di Nenni che temeva e paventava il ritorno delle destre sollecitate dalla Dc, Lombardi non si fece mai trascinare nel paludoso e melmoso campo della Politica. Allora come oggi, il solito dilemma: se stai al Governo rischi di finire nella palude e nella melma, se esci fai il gioco della destra. Per reggere un confronto così alto, occorre, appunto, un'altrettanto alta identità politica.

Socialismo del 21° secolo, autonomia, ‘riformismo rivoluzionario' sono le strade da percorrere per riappropriarsi di un metodo di fare politica basato sulla "ricerca di una via d'uscita" perché "ogni problema ha una soluzione a patto che non lo si nega". Ma è anche il modo per riscoprire un patrimonio di elaborazioni, progetti, idee il cui pregio era l'autonomia intellettuale dal Pci: in questo si concretizzò il suo ‘acomunismo', che portava Lombardi ad esser vicino e lontano dal partito, senza mai degradarsi all'anticomunismo né assurgere al filocomunismo. E a pretendere sempre ‘l'alternativa' alla Dc, e mai l'alleanza storica bensì quella politica, del momento, quando e se ci fossero state le condizioni.

Bertinotti cita il 1956, l'anno dell'invasione dell'Ungheria e delle prime crepe della politica del 'Fronte Popolare' tra il Pci di Togliatti e il Psi di Nenni. Una mossa davvero intelligente: non a caso Lombardi ben prima di Nenni comprese che il comunismo sovietico non era riformabile e lo disse alla Camera dei Deputati condannando appunto l'invasione sovietica: non vi è socialismo senza democrazia e libertà. La risposta di Togliatti arrivò qualche mese dopo, a gennaio del '57, con una lettera a Sandro Pertini finalizzata ad "attirare l'attenzione" sulla "attività del compagno R.Lombardi per disgregare o tentare di disgregare il nostro partito....E' cosa un po' umiliante per lui, vederlo ridursi a questa funzione, di colui che cerca una spaccatura in casa altrui e crede di potersene nutrire. E' cosa pero' che può portare a un antipatico inasprimento dei rapporti tra i due partiti...Mi pare che poichè Lombardi è della vostra Direzione, ci dovrebbe essere in seno a questa l'iniziativa di dargli un ammonimento".
Dava fastidio, disturbava la quiete pubblica, quell'ingegnere ‘acomunista' che voleva "una società socialista che non c'è mai stata e che permette a ciascuno di realizzare la propria identità".

L'espresso 6.12.07
Il medico ti visita ma è fuorilegge
di Monica Rubino


Diagnosi e terapia affidate a uno specializzando. Che dovrebbe soltanto imparare. E invece cura i pazienti con disturbi psichici. Fra timbri e firme false. Ecco cosa succede nel nuovo Policlinico di Roma. Perché il timbro sull'impegnativa ha un nome diverso dal suo? "Non si preoccupi, facciamo sempre così". Ore 17, ambulatorio di psichiatria del Policlinico di Tor Vergata, la nuova struttura sorta sei anni fa nella zona sud di Roma. La visita si è appena conclusa. Ma non si è visto nessun dottore specializzato nella disciplina, nessun dottore 'strutturato' come si dice nel gergo burocratico sanitario. Davanti a noi, per capire i problemi, diagnosticare una 'depressione con stato ansioso' e prescriverci degli psicofarmaci c'è soltanto una specializzanda. Ossia un medico, laureato da poco e che sta ancora perfezionando la sua formazione. La stessa cosa si ripete un mese dopo, quando alla visita ci presentiamo con una telecamera nascosta. In pratica, tutto il percorso terapeutico del paziente viene affidato a un dottore che, secondo la legge, dovrebbe solo assistere alle visite fatte dal suo tutor, lo specialista esperto. E invece cura i pazienti da sola. Non ha a che fare con influenze di stagione, ma affronta casi delicatissimi, quelli per cui l'esperienza conta più di tutto: i malati psichiatrici. Succede in gran parte delle cliniche universitarie d'Italia. Ma la situazione dell'ospedale romano fa scuola.

L'ambulatorio di psichiatria di Tor Vergata serve un bacino sterminato che comprende tutta la zona sud di Roma, con le borgate che sorgono lungo la Casilina e giungono, oltre il raccordo, fino a Tor Bella Monaca e alle grandi zone residenziali dei Castelli romani. Milioni di persone, quartieri enormi e con alcune aree socialmente a rischio. Il Policlinico è stato inaugurato nel gennaio 2001 grazie anche ai fondi straordinari ottenuti per il Giubileo: una struttura nuovissima, grandi padiglioni di vetro e ferro all'americana, spazi ampi, punti informativi. Persino le casse del Cup, il Centro prenotazioni, sono impostate su un modello amichevole: niente sportelli separati da vetri, ma operatori alla scrivania che ti accolgono facendoti sedere comodamente. Sul sito Internet, ben documentato, si legge che il Policlinico "mira a realizzare un innovativo modello di assistenza: un ospedale umano, aperto e sicuro" che sottolinea la "centralità del malato e la sua dignità come persona". Insomma, all'apparenza una clinica universitaria perfetta. Ma anche l'emblema di una consuetudine fuori dalla legge, diventata ormai prassi legalizzata.
Di un sistema che, lì come nel resto d'Italia, si regge sullo sfruttamento di laureati che ricevono 800 euro al mese per imparare, mentre invece sono di fatto obbligati a esercitare la professione.

A rimetterci è la loro dignità di giovani medici e la loro capacità di perfezionarsi: non possano essere formati da maestri, ma diventano autodidatti, dal momento che vengono messi a lavorare da soli. Tra turni, guardie e ambulatorio è difficile che abbiano il tempo di frequentare corsi e dedicarsi all'approfondimento. Possono venire impiegati senza preoccuparsi degli straordinari o delle notti, perché non hanno orari precisi: il loro compito non sarebbe quello di lavorare ma solo di apprendere. Una condizione di Cenerentole della sanità che riguarda 25 mila neolaureati in tutta Italia: medici che imparano sui propri errori. A spese dei pazienti. Una situazione paradossale soprattutto nella psichiatria, una disciplina in cui l'esperienza è determinante, commettere un errore può avere conseguenze irreparabili. Scambiare una depressione grave per un banale stato d'ansia o prescrivere con troppa leggerezza psicofarmaci a soggetti malinconici, vittime di un qualunque disagio o pseudo-depressi, può essere assai rischioso.

'L'espresso' ha verificato sul campo la situazione. Siamo andati a farci visitare, come pazienti qualunque, e siamo sempre stati esaminati da una dottoressa specializzanda. Al suo fianco non un medico strutturato, ma una studentessa ancora più giovane, non ancora laureata. Una tirocinante che assisteva, per apprendere, alla visita di una specializzanda, che a sua volta stava imparando, da sola, sulla pelle di un paziente.
La dottoressa ci ha fatto alcune domande di prammatica, ha ascoltato il nostro racconto e ha emesso la sua diagnosi: "Depressione con stato ansioso". Ci ha prescritto degli psicofarmaci e ci ha anche dato l'appuntamento per una successiva visita di controllo. Ha marcato l'impegnativa con il timbro del medico di ruolo, sul quale ha vergato a penna una sigla falsa. Sul foglio bianco dove ha prescritto i farmaci, invece, ha messo il suo timbro personale e la sua vera firma. Il tutto tranquillamente, alla luce del sole. Anche se la dottoressa in questione, a differenza di quasi tutti gli altri suoi colleghi che affollano ogni reparto dell'ospedale, non aveva sul camice il cartellino con la scritta 'specializzando'.

Torniamo un mese dopo: ore 10,30, stesso luogo, seconda visita, stessa scena. Sempre lei, sempre sola, questa volta non c'è neanche un tirocinante a farle compagnia. Con noi abbiamo una telecamera nascosta. Le raccontiamo che la terapia ci ha provocato fastidiosi effetti collaterali. La dottoressa corregge le dosi e comincia a scrivere la nuova ricetta. A quel punto le chiediamo a bruciapelo: "Scusi, lei è una specializzanda?". La dottoressa risponde tranquillamente: "Sì". "Ma lei non dovrebbe visitare da sola: uno paga il ticket di una visita specialistica e si aspetta di trovare uno specialista". "Ma si sa, se uno viene in una clinica universitaria si deve aspettare di essere visitato da un medico che è ancora in formazione". Replichiamo: "Sarà pure una consuetudine, ma non è legale". "Comunque il medico strutturato è nella stanza a fianco". "Ah sì? E chi è? La dottoressa che le dà in prestito il timbro, giusto? Me la fa conoscere?". La risposta è laconica: "In questo momento ha altri impegni, ma se vuole, possiamo organizzare per la prossima volta". Noi insistiamo ancora, con determinazione, e alla fine la titolare salta fuori. La specializzanda si premura di rintracciarla e, dopo oltre mezz'ora di attesa, si presenta. Le chiediamo subito: "Mi aspettavo di trovare lei dietro la scrivania e non la sua allieva". "No, qui in ambulatorio ci siamo organizzati così per le visite. Io però sono di guardia, giro per il reparto e sono reperibile...".

Un'organizzazione lecita? Quando allo sportello del Centro prenotazione (Cup) abbiamo chiesto di pagare un ticket inferiore a quello previsto per la visita specialistica perché avevamo incontrato solo un medico specializzando, ci hanno risposto: "Ma questo non è legale, lo specializzando può soltanto assistere alle visite. Mah, che posso dirle, lì in reparto fanno come vogliono. Non posso farle pagare di meno, però se vuole può presentare un reclamo, è un suo diritto". Anche quella del ticket è una forma di truffa ai danni del cittadino, che paga una cifra per una prestazione qualificata che non ha mai ricevuto.

Ma il raggiro colpisce pure le casse della Regione Lazio, dove il deficit per la sanità continua a sprofondare. Molte comunità terapeutiche per malati psichiatrici sono costrette a chiudere per i tagli alle convenzioni sanità decisi dalla giunta Marrazzo, che ha ereditato un buco di 9,4 miliardi di euro mentre altre voragini continuano a spuntare di mese in mese, l'ultima è di 310 milioni, bruciando ogni volta le previsioni di contenimento della spesa. Eppure strutture come il Policlinico di Tor Vergata riescono a rinforzare il fatturato anche grazie ai rimborsi regionali per visite che al nosocomio costano poco o nulla, grazie all'uso disinvolto dei giovani camici bianchi.

Il meccanismo è anche una manna per i primari. A Tor Vergata il numero uno dell'Unità operativa di psichiatria è Alberto Siracusano, professore ordinario e direttore della Scuola di specializzazione. Grazie agli specializzandi, i primari possono aumentare il numero delle visite contabilizzate dalle loro divisioni: il bilancio si arricchisce e di conseguenza anche il potere contrattuale del docente all'interno della facoltà. Il tutto a danno di didattica e pazienti. Uno dei tanti meccanismi impazziti della sanità italiana. Di sicuro non l'unico. Il Policlinico Tor Vergata presenta anche un'altra anomalia: quella di un ospedale pubblico nuovo di zecca che prende in affitto due piani di una clinica privata, la Sant'Alessandro, per lezioni della facoltà di psichiatria e ricoveri di pazienti psichiatrici. Se in ospedale la stanza del primario è vuota forse è perché trascorre gran parte del suo tempo lì, a una dozzina di chilometri dall'ateneo. O perché si dedica alle visite intramoenia: al telefono la segretaria ci spiega che l'appuntamento privato costa 300 euro. Intramoenia, quindi all'interno del Policlinico? "Intramoenia, ma nel suo studio di Corso Francia". La distanza tra il Polo Universitario e lo studio è di 26,5 chilometri: in mezzo c'è tutta Roma, ma proprio tutta.

il Riformista 7.12.07
E Fausto divenne il soccorso rosso di Walter

di Stefano Cappellini

Il paradosso è che nel 1998 l’allora vicepremier Walter Veltroni, inascoltato, ammonì così Romano Prodi: «Guarda che Fausto fa sul serio». Quasi dieci anni dopo, da leader del Pd, Veltroni sta cercando da un paio di giorni di convincere Prodi che stavolta è il contrario. «Bertinotti non vuole la caduta del governo», ha giurato il sindaco di Roma al Professore. Perlomeno non subito, avrebbe forse potuto aggiungere, ma questa è una chiosa di cui Prodi non ha bisogno. Stavolta il Prof ha capito da sé. E le rassicurazioni di Veltroni, realmente impegnato a prolungare la vita dell’esecutivo quanto basta a mettere in cascina la riforma elettorale, servono solo a confermare al presidente del Consiglio che la fine della sua avventura a palazzo Chigi è vicina e che a tracciare una bella X sul calendario è stata proprio la coppia Bertinotti-Veltroni.
Tra i due, in effetti, il rapporto è ormai strettissimo. «Quasi ogni giorno la prima telefonata è con Walter», raccontano fonti vicine al presidente della Camera. «Si sentono quotidianamente», conferma l’entourage del sindaco di Roma. Non c’è bisogno di sherpa o di ufficiali di raccordo, anche perché Bertinotti si muove in solitaria, spesso spiazzando i vertici del suo stesso partito. L’intesa è sopravvissuta pure all’intervista di Bertinotti a Repubblica, che al contrario di quanto pensano in molti (Prodi compreso), non è stata concordata e ha costretto Veltroni a faticare per tenere insieme i pezzi: «Non ho condiviso l’intervento di Bertinotti, anzi alcuni passaggi li ho trovati addirittura sgradevoli», ha detto il sindaco. Bertinotti non si è però pentito di aver piazzato l’affondo, concepito per differenziarsi bene dai morbidi ultimatum del Prc su temi come welfare e sicurezza. E il monito al premier affinché non si metta in mezzo sulla riforma elettorale un effetto voluto, e gradito anche al segretario democratico, l’ha comunque sortito: il vertice dell’Unione convocato da Prodi per ritagliarsi un ruolo nella vicenda, e previsto la settimana prossima, appare adesso un’arma spuntata.
Del resto, la corrispondenza di obiettivi tra il neo-comunista Fausto e il mai-comunista Walter va avanti da tempo. Già in aprile, prima della scesa in campo del sindaco, il presidente della Camera aveva suggerito: «Veltroni può essere il futuro leader della coalizione, rappresenterebbe bene il ricambio generazionale». Quindi, a ridosso del discorso veltroniano del Lingotto, Bertinotti aveva disegnato un percorso parallelo e strigliato i suoi per il ritardo strategico accumulato sul Pd: «Occorre costruire subito una sinistra di alternativa». Il patto definitivo è stato siglato però il 9 novembre scorso, quando Veltroni, accompagnato da Dario Franceschini e Giuliano Amato, si è presentato a Montecitorio per illustrare a Bertinotti il suo piano di incontri bilaterali sulle riforme, per fargli avere in anteprima il testo del Vassallum e per giurargli che il tentativo di evitare il referendum sarebbe stato praticato con impegno e convinzione. Da quel momento il leader comunista sa che ogni mossa di Veltroni è anche finalizzata a un obiettivo che il Prc coltiva da sempre: una legge proporzionale che faciliti la nascita della Sinistra unita e le lasci il margine per non impiccarsi a raffazzonate scelte governiste. Una legge da varare, se necessario, anche con un esecutivo istituzionale in caso di caduta del Prof.
Ecco perché il soccorso rosso è garantito a Veltroni. Pronto a sua volta a ricambiare la cortesia, tanto che ieri è toccato a quest’ultimo rabbonire Fabio Mussi, alleato di Bertinotti nella neonata sinistra Arcobaleno (a proposito, il brutto simbolo e il curioso nome hanno un alto indice di sgradimento dalle parti di Montecitorio), ma molto critico su tempi e modi dell’esternazione a Repubblica. Veltroni ha garantito al vecchio compagno di partito che non c’è intenzione di staccare la spina e che si lavora ancora sull’agenda di governo per il 2008. Ma Veltroni non è riuscito a convincere Mussi che un esecutivo istituzionale rappresenti un possibile piano di riserva: «È un calcolo rischioso - ha spiegato Mussi al termine dell’incontro - perché quando un governo cade si entra in una zona oscura e complessa e le riforme entrano in una terra di nessuno».
Ammesso che non vi siano già entrate. Tanti sono i problemi senza soluzione. Manca ancora la quadra sul sistema elettorale. E proprio la difficoltà a districarsi tra le varie ipotesi in campo spiega ancora meglio perché Veltroni abbia un disperato bisogno di fare asse con Bertinotti. Il quale, a differenza di Massimo D’Alema e degli iper-tedeschi democratici, è disponibile a ibridare il modello teutonico con correttivi spagnoleggianti o maggioritari, come ad esempio un mini-premio lista al partito più votato, compromesso che ieri Veltroni ha illustrato a Mussi e che servirebbe anche a placare la rivolta dei referendari. Insomma, senza l’eterodirezione di Bertinotti il Prc si sarebbe rintanato nel motto “tedesco o niente” e per Veltroni sarebbe stato impossibile arginare il fronte dei filo-Casini. Se poi l’asse si tramuterà in futura alleanza di governo, questo si vedrà.
Per ora resta che, a differenza di Bertinotti, Veltroni qualche rammarico sull’intervista-bomba lo nutre. Perché adesso il sindaco di Roma deve passare metà del suo tempo a impedire che Prodi cominci a ragionare come una mina vagante, reazione tipica del Prof nei momenti di estrema difficoltà e che Veltroni conosce bene per averla sperimentata al suo fianco proprio nel 1998. Nuovi partiti, scomuniche, appelli, lettere aperte, scissioni: non c’è mezzo che Prodi non sia disposto a prendere in considerazione per vendere cara la pelle. L’ultima volta, in primavera, Prodi aveva fatto trapelare il proposito di candidarsi alle primarie del Pd per scongiurare il rischio di dualismi e commissariamenti. È pronto a fare altrettanto. Per questo il leader democrat non vuol concedergli appigli: «Devo esprimere un grande apprezzamento per il lavoro svolto dal governo Prodi in questo anno e mezzo, perché nelle condizioni date ha fatto un grande lavoro», ha detto ieri Veltroni in apertura del coordinamento del Pd. Nella speranza che Prodi lo prenda per un giudizio più sincero delle rassicurazioni sui piani di Bertinotti.

il Riformista 7.12.07
Una falce e un martello per la ri-Rifondazione
di Alessandro De Angelis


Prima una guerra di posizione, ognuno nella propria trincea, si chiami Prc o Pdci. Poi, quando le condizioni lo consentiranno «oggettivamente», si aprirà il fuoco sul quartier generale. L’obiettivo: evitare che il simbolo «falce e martello», e con esso l’idea di un partito dichiaratamente comunista, «venga liquidato dall’operazione Cosa rossa». Anche perché, dicono i comunisti-comunisti, elettoralmente la falce e il martello non si possono abbandonare come se fosse un simbolo qualunque. Fin qui i dirigenti. Ma come in ogni storia che si rispetti, c’è anche un popolo che, fuori dal quartier generale, sventolerà il suo glorioso vessillo. Un po’ come accadde quando Occhetto annunciò la svolta del Pci, e gruppi di militanti accorsero a protestare con la bandiera rossa sotto Botteghe Oscure. Oggi i militanti delle minoranze di Rifondazione saranno fuori del quartier generale di via del Policlinico e lo stesso faranno domenica alla Nuova Fiera di Roma dove si terrà a battesimo la Cosa arcobaleno. Anche lì sventolando la bandiera rossa.
Oggi la minoranza dell’Ernesto si radunerà per dire no “senza se e senza ma” sia al governo che all’arcobaleno. Fosco Giannini la mette giù dura: «Il vaso è ormai colmo su tutti i fronti, dalla politica estera al welfare. Bisogna uscire dal governo e riavvicinarsi ai lavoratori e al popolo della pace». Lui, orgogliosamente leninista, nella Cosa rossa proprio non vuole andare: «È un soggetto governista, nasce complementare al Pd e rinuncia alle lotte sociali».
E soprattutto: «Falce e martello sono simboli irrinunciabili. Il martello rappresenta il movimento operaio. La falce quello contadino. Ma non solo. Hanno pure un valore filosofico: la falce, come diceva Lenin, è il simbolo che taglia un mondo vecchio e ne apre uno nuovo. Una cosa ben diversa dai simboli vegetali o dai non simboli».E aggiunge: «Anche dal punto di vista elettorale il nostro è un consenso comunista e così si perde». Poi annuncia battaglia in vista del congresso: «Questo gruppo dirigente ha fallito, per non ammettere le proprie responsabilità si è inventato questa storia della consultazione e ha pure rinviato il congresso».
Altro partito, stessi toni, sempre in nome di falce e martello. L’europarlamentare del Pdci Marco Rizzo sostiene: «L’elettorato che dovrebbe comporre questa formazione arcobaleno è, grosso modo, per l’80 per cento comunista. Bastava andare alla manifestazione del 20 ottobre per rendersene conto. È una tesi originale che per tenere quell’elettorato e quel popolo il primo passo sia togliergli il simbolo. Se la scelta è definitiva io non sono d’accordo». E aggiunge: «Vedremo alle amministrative chi avrà ragione, ma spero che Diliberto si renda conto che bisogna costruire una sinistra anticapitalista e antiliberista con al centro un partito comunista. Anche perché che cos’è questa Cosa rossa? Manca un progetto, un’anima, un cuore».
Una ri-Rifondazione comunista? Ai tempi della svolta del Pci ex filosovietici, movimentisti, ingraiani si unirono attorno a un simbolo, a una parola e a una storia da tenere in vita e rifondare. Oggi, la ri-Rifondazione comunista presenta qualche elemento di somiglianza: su tutti, il meticciato politico dei protagonisti: leninisti, trotzkisti, comunisti d’antan, no global. Dice Rizzo: «Certo che ci incontriamo, ci sentiamo con molti compagni comunisti, ci conosciamo da una vita». Ma, per ora, in pochi pronunciano la parola scissione. Chi invece romperà subito è Salvatore Cannavò dell’area Sinistra critica, che sabato presenterà il suo movimento con Casarini, Bernocchi e Cremaschi. Spiega: «A sinistra della Cosa arcobaleno deve esserci una sinistra incentrata sui movimenti». Ma soprattutto giura: «La falce e martello non scomparirà». Chi invece ha rotto da tempo col Prc e si prepara a fondare il Partito comunista dei lavoratori è Marco Ferrando che terrà il suo congresso a inizio gennaio e che, alle scorse amministrative, presentando un simbolo con una falce e martello con un mondo come sfondo ha preso l’uno per cento a Reggio Calabria, Ancona, Genova, Rieti. E afferma: «Per noi è un simbolo irrinunciabile, rappresenta le ragioni dei lavoratori e una prospettiva anticapitalista. La necessità di toglierlo è di chi sta al governo e ha votato finanziarie di sacrifici e missioni militari».
E la ri-Rifondazione comunista? La convergenza tra l’area dell’Ernesto e l’area Rizzo del Pdci c’è (molti di loro, tra l’altro, erano con Cossutta ai tempi dello scioglimento del Pci), ma, per adesso, è ancora guerra è di posizione. Per adesso.

Liberazione 7.12.07
Undici tesi contro Habermas

dov'è l'illuminista ateo materialista?
di Paolo Flores d'Arcais


Uno stralcio dal fascicolo speciale di MicroMega in edicola da oggi, dedicato alla laicità. L'articolo di Paolo Flores d'Arcais
apre la rivista: un attacco alle ultime posizioni del filosofo tedesco che vuole conciliare religione e indipendenza dello Stato


1 Da alcuni anni Habermas propone la quadratura del cerchio: tener fermi i principi democratico-liberali secondo una esigente versione repubblicana (rigorosa neutralità dello Stato rispetto a fedi, ideologie e visioni del mondo, effettiva sovranità - delegata/partecipata - di tutti e ciascuno, deliberazione per argomenti razionali universalmente accessibili, necessità di un ethos costituzionale diffuso, anzi quasi onnipervasivo), e allo stesso tempo riconoscere le "ragioni" religiose in quanto tali - cioè le argomentazioni e le motivazioni politiche che fanno ricorso a Dio - non solo come legittime, ma anzi utili, e infine imprescindibili nel quadro della convivenza democratico-liberale. […]
Di più. Il cittadino senza fede religiosa è tenuto a riconoscere «potenziale di verità alle immagini religiose del mondo». A tale possibile verità, anzi, è tenuto ad «aprirsi». Nell'escalation habermasiana di encomio civico-democratico verso le fedi, occorre tributare «alle comunità religiose il pubblico riconoscimento per il contributo funzionale che esse recano alla riproduzione di motivazioni e atteggiamenti desiderabili». La modernità deve essere normativamente vissuta dai laici come «un processo complementare di apprendimento», nel quale «per il cittadino insensibile alla religione» è tassativo l'invito «a definire il rapporto tra fede e scienza autocriticamente», abbandonando l'ateismo tradizionale. Nell'ambito del più generale «esercizio di una frequentazione autoriflessiva dei limiti dell'Illuminismo» che concluda nel «superamento autoriflessivo di una nozione di sé laicisticamente sclerotizzata della modernità».
L'esordio di patriottismo costituzionale, dove la convivenza è regolata «autonomamente e razionalmente con gli strumenti del diritto positivo», etsi Deus non daretur , quindi e inevitabilmente, viene da Habermas rovesciata nella quaresimale ascesi autocritica cui cultura, pratica politica e vissuto esistenziale della laicità illuminista vengono forzati, ad espiazione della presunta afflizione asimmetrica con cui avrebbero, da qualche secolo, angariato i credenti.
Piuttosto comprensibile che un altro autorevolissimo tedesco, Joseph Ratzinger, con questa habermasiana "ragione post-secolare" ci vada a nozze.

2 In che senso, tuttavia, il credente sopporterebbe la vessazione di una pretesa asimmetrica da parte dello Stato, la cui neutralità laica tradizionale non sarebbe dunque affatto imparziale? Innanzitutto perché verrebbe ingiustamente contestato «ai cittadini credenti il diritto di contribuire a pubbliche discussioni in linguaggio religioso». La clausola "etsi Deus non daretur" impone al credente la rinuncia all'argomento-Dio, rinuncia onerosissima che al laico ovviamente non costa nulla.
In realtà, il carattere deliberativo della democrazia liberale […]esige da tutti i cittadini, credenti o non credenti, la medesima autolimitazione: la messa in mora di ogni principio perentorio di autorità. Alla irrecusabile richiesta di argomentazione - perchè? - non è ammissibile replicare con l'assolutismo del "perché sì!" (Why? Because! Pourquoi? Parce que! Dla czego? Dla tego! ecc.). Proprio per questo «lo Stato costituzionale democratico… rappresenta una forma esigente di governo».
Non è vero, dunque, che solo il credente debba rinunciare al proprio "perché sì". L'uso pubblico della ragione esclude il fideistico "Dio lo vuole (che è sempre il proprio Dio)" esattamente come ogni altro presupposto ideologico - agnostico, pagano, ateo - dal naturalismo predatorio di terra e sangue alla radicale non-violenza pacifista, da una morale di edonismo onnipervasivo all'etica di una solidarietà fino al sacrificio. Tutti devono rinunciare ai propri presupposti di valore, credenti e non credenti. […]

3 Habermas articola il suo repubblicanesimo kantiano con una contraddizione: malgrado «ogni religione sia in origine una comprehensive doctrine » che «rivendica l'autorità per strutturare totalmente una forma di vita», i credenti «devono poter esprimere e motivare le loro convinzioni in un linguaggio religioso anche quando non trovano per esse "traduzioni" laiche». Ma il linguaggio religioso "privo di traduzioni laiche" si caratterizza essenzialmente per il carattere dirimente della risorsa "Dio lo vuole!". Dunque, esattamente per la pretesa, perennemente in agguato, di «strutturare totalmente una forma di vita» adeguando le leggi dello Stato al proprio dogma.[…]
Il credente, del resto, può anche sottrarsi all'onere della "traduzione". Per Habermas, tocca ai non credenti (asimmetricamente!) provvedere: bisogna «aspettarsi dai cittadini laicizzati che partecipino a iniziative volte a tradurre contributi rilevanti dal linguaggio religioso a un linguaggio pubblicamente accessibile». Esercizio dal quale «le ragioni religiose emergano nella forma mutata di argomentazioni universalmente accessibili».
E se, a dispetto di ogni laica "buona volontà", tale traduzione risultasse impossibile? In nome di Dio si possono imporre norme che nessuna argomentazione razionale riuscirebbe a rendere compatibile con i valori che Habermas ritiene - a ragione - costitutivi di uno Stato costituzionale democratico (dunque irrinunciabili). Sono talmente tante, queste norme antidemocratiche, che il loro nome è "legione". E si tratta di pretese niente affatto passate. Sempre più incombenti, anzi.
[…] Habermas cerca perciò di uscire dalla spirale di contraddizioni in cui si è avvitato, distinguendo tra l'ambito strettamente politico statuale e quello della pubblica opinione. Solo nel primo dovrebbe valere in modo rigoroso e senza eccezioni l'imperativo della laicità
[…] Da tale obbligo Habermas invece dispensa i cittadini in quanto tali e le loro organizzazioni politiche (oltre che di società civile), perché «estendere questo principio dal piano istituzionale alle scelte di organizzazioni e di cittadini nella sfera pubblica politica» costituirebbe «un eccesso laicistico di generalizzazione». Così si ipotizzano, però, due universi separati di comunicazione, retti da regole opposte e incompatibili. Paradossalmente, Hilary, quando chiede il voto, non potrebbe tirare in ballo Dio, suo marito Bill, che chiede identico voto per lei, sì.
[…] Habermas cerca di sfuggire alle proprie antinomie teoriche con una "soluzione" pragmatica impraticabile. Occulta un "non sequitur" con un miraggio. La realtà, del resto (e la drammaticità del problema) è che nella sfera pubblica tutti (o almeno troppi, e sempre più numerosi) invocano il nome di Dio.

5 E tuttavia, Habermas insiste sulla presunta persecuzione dei credenti: «gli oneri della tolleranza non sono ripartiti simmetricamente fra credenti e non credenti, come dimostrano le norme più o meno liberali sull'aborto». Ma è vero il contrario. Ogni legge occidentale sull'aborto, anche ispirata al più abominevole (per un credente) permissivismo, non costringe nessuna donna. Mai. La lascia libera di scegliere. E' invece Ratzinger che vuole imporre alla donna non credente, o di altra religione, un divieto penalmente sanzionato.
Ancora più evidente l'asimmetria - di segno opposto a quella lamentata da Habermas - se dall'aborto passiamo all'eutanasia. In questo caso non c'è neppure l'alibi di una seconda "persona" (il feto), i cui diritti andrebbero tutelati. […]
Insomma, e sempre: la presunta "asimmetria" laica lascia liberi i cittadini credenti di utilizzare o meno un diritto. L'imposizione del punto di vista credente attraverso la legge costringe invece il non credente a evitare ciò che per il Papa è "peccato", pena la galera.
[…] Ma per Habermas […] «lo Stato liberale non deve trasformare la debita separazione istituzionale tra religione e politica in un peso mentale e psicologico che è impossibile imporre ai suoi cittadini credenti».

6 Si faccia tuttavia attenzione. Non imporre "pesi mentali e psicologici" e tanto meno "alcun obbligo inconciliabile con la loro vita di credenti" sembra equo e ragionevole, ma può aprire un vaso di Pandora di intolleranze efferate. Dipende infatti da cosa esige la loro "vita di credenti". Se esige il rogo per gli eretici (o anche solo di una "vignetta satanica"), lo Stato non solo può, ma deve, imporre al credente il "peso mentale e psicologico" della rinuncia a questa sua religiosissima pulsione. Se esige la mutilazione sessuale delle bambine, lo Stato non solo può, ma deve, punire (con severità impietosa). […]

7 La sfera pubblica sarà perciò pubblica, spazio simmetricamente aperto a tutti i cittadini, solo se tenuta libera da ogni argomento-Dio.
E' del tutto falso, infatti, che «regole eque possono venir formulate soltanto se gli interessati imparano ad assumere di volta in volta anche le prospettive degli altri». Perché mai dovremmo imparare ad assumere - dunque fare nostre - prospettive squisitamente anti-democratiche? E metterci dal punto di vista del nazista, del razzista, del fondamentalista? Al contrario: si tratta di esiliare tutte le pretese di qualsiasi "perché sì", espressioni di mera e totalitaria "volontà di potenza", incompatibili con la democrazia (anche nell'accezione più minimalista). E l'argomento-Dio è un "perché sì" particolarmente minaccioso, che si trascina come un'ombra la tentazione troppo recente del Gott mit uns .
[…] In fondo, si tratta solo del primo comandamento: non pronunciare il nome di Dio invano. Perché utilizzarlo sulla scena pubblica significa precipitare il conflitto delle opinioni e la dialettica democratica nel rischio di una interminabile ordalia.

8 Sul piano cognitivo, tale obbligo eguale per tutti - sensibili o meno a una fede religiosa - significa la rinuncia onnilaterale a qualsiasi pretesa di Verità etica. Le "determinate premesse cognitive" che Habermas giustamente esige come conditio sine qua non perché possa «venir assolto l'obbligo dell'"uso pubblico della ragione"», mettono capo all'applicazione rigorosa del principio di Hume: non si può mai ricavare un valore da un fatto, una prescrizione da una descrizione, un dover-essere dall'essere, una legge morale da una legge scientifica.
[…] Non è vero, allora, che bastino «assunzioni deboli sul contenuto normativo della costituzione comunicativa di forme socio-culturali di vita» per sbarazzarsi della razionalità "disfattistica" di Kelsen. Forme socio-culturali di vita altamente differenziate e complesse sotto il profilo comunicativo, tecnologicamente modernissime, insomma, sono perfettamente compatibili con prassi e costituzioni politiche radicalmente anti-comunicative e illiberali. Cina docet, oggi, come il Führerprinzip ieri. […]
Relativamente alla sfera pubblica, insomma, in fatto di valori dobbiamo limitarci al minimo comun denominatore democratico del patriottismo costituzionale (che andrà precisato).
Tutte le altre Verità etico-politiche hanno pieno titolo ad essere professate, e a motivare esistenze e comportamenti, ma non possono valere come argomento.

9 Neppure la verità "scientista", naturalmente. Che per Habermas rappresenta la vera bestia nera. Il «crudo naturalismo», che è da «intendere come conseguenza delle premesse scientistiche dell'Illuminismo», secondo Habermas, tradisce «tradisce anche una segreta complicità» con «gli assertori dell'ortodossia religiosa», di modo che «mentalità fondamentalistiche e laicistiche», veri e propri opposti estremismi, «mettono a rischio la stabilità della comunità politica con la loro polarizzazione di visoni del mondo».
Il presupposto cognitivo che può salvare la democrazia contro la deriva "scientista" sarebbe per Habermas la «ragione multidimensionale, non bloccata unicamente sul rapporto col mondo oggettivo». Kant ed Hegel ne sarebbero i numi tutelari.
Vizio filosofico del «naturalismo radicale» sarebbe la «riduzione del nostro sapere alla folla di enunciati che rappresentano di volta in volta lo "stato delle scienze"». Vizio etico-politico sarebbe la conclusione sostanzialmente nichilistica di una «naturalizzazione della mente che mette in forse la nostra visione pratica di noi stessi come persone che agiscono responsabilmente e induce a richieste di revisione del diritto penale».
Questa caricatura del naturalismo costituisce una comoda testa di turco, polemizzando con la quale Habermas restaura la propria versione di cognitivismo etico e sottrae democrazia e laicità alle "premesse" cognitive del principio di Hume.
La scienza ci dice "solo" che la neocorteccia svincola la scimmia "uomo" dalla cogenza degli istinti e lo costringe a surrogarli con una norma. Non ci dice (e non pretende di dirci, fino a che rimane scienza) quale norma. Una norma qualsiasi, anzi, purché funzioni. Dunque, ci dichiara padroni e signori della norma, assolutamente responsabili verso di essa. Altro che riduzione «scientificamente oggettivata delle persone».
Piuttosto: la "Ragione" di Hegel a cui Habermas brucia incenso non è ragione, è teologia. Di più. E' restaurazione onnipervasiva della teologia contro le conquiste della moderna scepsi critico-empirica. Tanto è vero che le fantasie più-che-mai metafisiche dell' "Intelligent Design" sono puro Hegel: le vicende empiriche e contingenti dell'evoluzione del cosmo, della terra e della storia dell'uomo, raccontate come res gestae dello Spirito, finalisticamente orientate. […]

1 0 Il disincanto è però per Habermas anche (e oggi forse soprattutto e per lo più) terra desolata (waste land).
«I progressi della razionalizzazione culturale e sociale» hanno contribuito a produrre «distruzioni immani» e «un "deragliamento" laicizzante della società nel suo complesso» che inaridisce le fonti della solidarietà fra i cittadini. Solidarietà da cui «lo Stato democratico deve totalmente dipendere pur senza poterla imporre per legge».
[…] Ratzinger ha già tradotto la laicità di Habermas in linguaggio cattolico: perché la democrazia non precipiti nel nichilismo, tutti - credenti e atei - devono comportarsi "sicuti Deus daretur". Il compiuto rovesciamento della modernità.
Ma il contributo della religione è inestricabilmente double face. Nelle mani di Dietrich Bonhoeffer (o di tanti preti "di strada" che collaborano a MicroMega ) è certamente uno scrigno a disposizione per le libertà. Nelle mani di infinite altre - e più diffuse - costellazioni ermeneutiche, è tentazione certa e permanente di prevaricazione confessionale contro la democrazia. E il sostegno delle comunità religiose, una volta evocato, non è più governabile a piacere.
Di questo aiuto minaccioso non c'è d'altro canto bisogno[…]
Perché «i principi di giustizia penetrino nel più fitto intreccio degli orientamenti culturali di valore» - senza di che per Habermas, giustamente, la democrazia è a repentaglio -, basterà che lo Stato costituzionale democratico, nelle sue politiche sostantive, resti fedele al comun denominatore di valori ricavabile logicamente dal principio procedurale minimo "una testa, un voto" che neppure il conservatore più estremo contesta. E che così minimo non è, se ragionato davvero.

1 1 La democrazia liberale è autos-nomos, sovranità dei cittadini di darsi da sé la legge. Dei cittadini concretamente esistenti, di tutti e di ciascuno, non di una astratta, introvabile e a rischio totalitario "volontà generale". Un voto libero ed eguale presuppone però condizioni materiali e culturali di autonomia per tutti e per ciascuno. Il voto non è libero (una testa, un voto) in un clima di intimidazione mafiosa (una pallottola, un voto), o di corruzione (una tangente, un voto), ma neppure se il bisogno domina l'esistenza di un cittadino o la mancanza di strumenti critici e di informazioni pre-giudica la sua scelta. O se la disparità di risorse tra i candidati pre-giudica i risultati (un dollaro, un voto), o se al confronto argomentativo si sostituisce la pubblicità (uno spot, un voto).
Politiche sostantive di welfare radicale (indipendenza da bisogno), imparzialità e pluralismo televisivo, scuola repubblicana ed educazione permanente, sono perciò pre-condizioni del voto libero ed eguale. Come tali, andrebbero garantite in Costituzione, sottratte all'alea delle maggioranze.
[…] Senza condizioni socio-culturali di autonomia, il voto come strumento di democrazia scolora, si estingue (come sanno tutti i populismi e plebiscitarismi).
Habermas, anziché affrontare il problema delle democrazie attuali, cioè il deficit di democrazia prodotto da politiche anti-libertarie e/o disegualitarie e/o di conformismo culturale e sociale, cioè antidemocratiche anche se maggioritarie, chiama in soccorso le religioni per un supplemento d'anima, di senso e di solidarietà. Ma in tal modo elude la questione: la lotta per la democrazia dentro la democrazia, contro le forze del privilegio e del conformismo che la riducono a flatus vocis. […]