lunedì 10 dicembre 2007

l'Unità 10.12.07
La Sinistra unita c’è e chiede spazio a Prodi
Nasce Sinistra e l’Arcobaleno
Mussi: non contiamo meno di Binetti e Dini. Il premier: alleanza coraggiosa, stimolerà il governo
di Marcella Ciarnelli


LE NOTE intense di ”Bella ciao” segnano la conclusione dell’assemblea generale della Sinistra Arcobaleno. All’inizio della mattinata con un minuto di silenzio, nella sala con le luci abbassate, è stato reso omaggio ai morti sul lavoro. Cantano i leader dei quattro
partiti che hanno deciso di cominciare insieme un percorso non facile, ma di certo affascinante, sulla traccia della “dichiarazione d’intenti” che è stata letta poco prima in cui è stato delineato il carattere dell’aggregazione di sinistra fondata sui principi di «uguaglianza, giustizia, libertà, pace, valore del lavoro e del sapere, centralità dell’ambiente, laicità dello Stato, critica dei modelli patriarcali e maschilisti». L’ambizione è quella di «costruire non una forza minoritaria, ma una forza grande e autonoma, capace di competere per l’egemonia», una forza «pronta ad assumersi oggi e in futuro responsabilità di governo o esercitare la sua funzione dall’opposizione», che intende «presentarsi unita alle prossime aministrative» che può puntare «al 15 per cento».
La neonata formazione, che si sente di lotta ma è nei fatti di governo, non lesina avvertimenti all’esecutivo. La verifica chiesta per gennaio viene indicata come uno spartiacque. Bisogna riprendere in mano il programma dell’Unione e stabilire un’agenda di priorità. Fabio Mussi, il suo uno degli interventi più appaluditi, si è rivolto direttamente a Prodi: «Caro Romano, noi votiamo la Finanziaria, non lavoriamo per far cadere il governo, però così non si va avanti, ci si logora. Serve rispetto per tutti ma questa forza che nasce ha 150 parlamentari che non possono contare meno di Dini, Manzione, Binetti o Bordon». Diliberto ricorda Enrico Berlinguer, convinto che «sarebbe alla nostra guida» e difende con foga la norma contro l’omofobia «una norma di civiltà su cui non si torna indietro». Comincia il cammino. Che è già confronto con la realtà del Paese. Ad un certo punto hanno fatto irruzione, con fischietti e campanacci, i manifestanti del comitato “No Dal Molin” che chiedono la moratoria sull’allargamento della base Usa di Vicenza ed un maggiore impegno della Sinistra Arcobaleno. Nonostante sia stato deciso in un altro modo dall’esecutivo, il ministro Pecoraro Scanio promette. Un altro punto dolente per l’omogeneità dell’esecutivo. E il segretario di Rifondazione, Franco Giordano addita le fibrillazioni centriste dell’Unione: «Non possiamo più accettare che il voltagabbana di turno conti più di un terzo della coalizione. Noi a discutere e gli altri, dal centro del Pd, votano contro il governo. Chi lo danneggia di più noi o loro?». Arriva la risposta di Prodi. Un augurio alla nuova «coraggiosa» alleanza che sarà «capace di generare nuovi stimoli alla democrazia del Paese e all’azione di governo che avete sempre sostenuto con coerenza in questo primo anno e mezzo di legislatura. Il vostro cammino comincia ora. Il nostro continua ancora più convintamente perché basato su un dialogo che non viene mai meno».
Il coro finale è davvero convinto e gioioso nel padiglione numero 1 della nuova Fiera di Roma. Si fa festa. Tutti insieme, alleggeriti dal viatico che Pietro Ingrao non ha rinunciato a portare di persona emozionando la platea come ha fatto Nichi Vendola.
«È una bellissima giornata» sintetizza soddisfatto il presidente della Camera, Fausto Bertinotti che è rimasto al suo posto in prima fila, evitando il palco, per non dar luogo a pretestuose polemiche. «Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua e mi pare che quello di oggi sia un grande tuffo» aggiunge «contento, molto contento» per com’è andata la due giorni. Fuori piove a dirotto.

l'Unità 10.12.07
INGRAO: UNITEVI SUBITO
«Fate presto, l’unità è urgente»
Lunghissimo l’applauso per Pietro Ingrao
che incalza: avanti per il riscatto del lavoro
di A.C.


FAUSTO BERTINOTTI assicura che lui «era certissimo» che, alla fine, Pietro ingrao sarebbe arrivato. Eppure alle 11 di mattina, quando l’anziano leader si materializza sul maxischermo dell’assemblea della Sinistra, mentre parla Nichi Vendola, l’emozione della platea è grandissima. Una sorpresa. Tutti in piedi ad applaudire. Ingrao, giaccone blu e sciarpa rossa, passo lento aiutato dal bastone e voce ferma, sale sul palco con l’aiuto della sorella Giulia. Porta il suo «saluto caldo, pieno di speranza». Auspica che «da qui esca rafforzata l’unità della sinistra». Dice: «Facio una raccomandazione, i vecchi fanno sempre le prediche: fate presto perché la vostra unità urge e il Paese ne ha bisogno. Abbiamo davanti agli occhi la condizione tragica del lavoro in Italia. In nome dei morti di Torino, cui mando un saluto commosso, lancio da qui un grido: unitevi, unitevi e fate presto. Non possiamo attendere ancora. Avanti insieme per il riscatto del lavoro». Aggiunge Ingrao: «C’è una destra reazionaria e odiosa e voi uniti dovete sconfiggere i nemici fino alla libertà». Gli applausi coprono la sua voce. Lui conclude con il pugno chiuso: «Viva l’Italia e viva la passione di quelli che chiedono liberazione e salvezza».
Ingrao scende dal palco, gli si fanno incontro, tra gli altri, Armando Cossutta e Achille Occhetto, che stavano seduti vicini in prima fila. «Sei sempre giovane!», gli dice Cossutta, che di anni ne ha solo 81 contro i 92 di Ingrao. E così, in una foto di famiglia, al battesimo della Cosa Rossa si ricompone il trio di leader del Pci che guidava le tre mozioni del congresso di Bologna del 1990, quello che chiuse il Pci per dar vita alla Cosa. Questa volta sono tutti e tre d’accordo per fare un nuovo partito unito subito. «La federazione finisce in una sommatoria di partiti», ha detto Cossutta.

l'Unità 10.12.07
Un leader c’è: Nichi Vendola
di Gianfranco Pasquino


«Unita, plurale, federata»: è una prospettiva della sinistra che, altrove, ovvero nella vicina Francia, grazie al coraggio, alla leadership, all’azione di François Mitterrand è stata coronata da successo. A tale proposito, mi fa piacere ricordare agli esponenti della sinistra-arcobaleno che il successo della gauche plurielle è stato notevolmente facilitato dal semipresidenzialismo, con elezione diretta del presidente della Repubblica
Ma anche dal sistema elettorale a doppio turno che premia le aggregazioni, incoraggia le coalizioni, garantisce il bipolarismo, consente l’alternanza, dà molto potere agli elettori. Probabilmente, gli elettori italiani, almeno quelli della variegata galassia di sinistra, vogliono, come scrive il Manifesto approvato a conclusione degli Stati Generali della Sinistra, non disdegnando la governabilità, più autorevolezza e legittimità (che, in democrazia, sono sempre e soprattutto la conseguenza delle consultazioni elettorali), ma desiderano anche che la rappresentanza politica abbia stretti rapporti con la rappresentanza sociale. Dunque, qualche indicazione in più sul ruolo dei sindacati, che non possono continuare a trincerarsi dietro un muro di sdegnosa autonomia, risulterebbe utile. In Francia, la CFDT costituì deliberatamente uno straordinario organismo di sostegno e di legittimazione delle politiche della sinistra governante. Se, qui, in Italia, le diverse sensibilità di sinistra e ambientaliste sapranno, in tempi che, inevitabilmente, debbono essere molto ristretti, dare vita ad un’unica organizzazione attraverso ampi processi di consultazione, di coinvolgimento, di partecipazione incisiva, anche il Partito Democratico e il governo Prodi saranno obbligati a tenerne conto.
Questa sinistra-arcobaleno rimette al centro dell’attenzione politica e governativa due temi che, per ragioni diverse, sono egualmente importanti: il lavoro e la laicità. È giusto che sia così, ma molto conta come i due temi verranno concretamente declinati nella consapevolezza che, dentro il Partito Democratico, entrambi costituiscono frequente occasione di scontro. In quanto “arcobaleno” questa sinistra dà notevole e opportuno rilievo all’ambiente che, anche preso a sé, potrebbe informare da solo tutto un programma di governo. Particolarmente importante è la dichiarazione esplicita della disponibilità ad assumersi responsabilità di governo (nonché, appena un po’ sibillinamente, l’impegno a sostenere l’attuale governo «per il tempo della legislatura che resta»).
I Manifesti contano, soprattutto quando sono scritti in maniera partecipata e appassionata e sono trasparentemente discussi e approvati. Tuttavia, molto spesso nell’interpretazione del pensiero e delle possibilità di un’organizzazione politica bisogna guardare anche ai simboli e agli umori.
Pietro Ingrao merita applausi per il suo percorso, peraltro tutto, senza ripensamenti, comunista, ma, sicuramente, mai di accettazione di responsabilità di governo e della conseguente necessità di tenere conto delle compatibilità fra le forze da “mettere in campo” e gli obiettivi da perseguire. Icona del passato, Ingrao non può certamente assumere il ruolo di padre nobile di una sinistra che voglia governare.
Sono assolutamente consapevole della litania classica di molti settori di molte sinistre per le quali prima viene il programma poi il resto e, talvolta, da ultimo, la leadership. Incidentalmente, non è stato questo il percorso delineato e completato dal leader del Partito Democratico. Ma la sinistra-arcobaleno ha effettivamente un grande bisogno di leadership. Se sarà quella del presidente della regione Puglia, Nichi Vendola, accolto con ripetuti e intensi applausi, rappresenterà, da un lato, l’innovazione, dall’altro, la capacità di trasformare una sinistra sociale in una leadership di governo (a suo tempo, incoronata da primarie vere). Prudente (e, finalmente, “misurato”), Bertinotti si è limitato a dichiarare che con questi Stati Generali la sinistra-arcobaleno si è tuffata, immagino, nel mare di una difficile politica, lasciando intuire che il problema è imparare a nuotare. Poiché non erano pochi i presenti agli Stati Generali che avevano già avuto oppure occupano attualmente cariche di governo, il problema della sinistra-arcobaleno si trova piuttosto, penso, nelle propensioni dei suoi dirigenti a differenziarsi, per ricerca di visibilità, e a blandire qualsiasi gruppo che si muova nei loro dintorni dai no global al “no Dal Molin” quando, invece, dovrebbero interloquire, educare, guidare, spiegare come risolvere le contraddizioni. In definitiva, però, anche coloro che sanno nuotare debbono porsi delle mete e indicare degli approdi. Mentre la sinistra-arcobaleno nuota mi parrebbe opportuno segnalare che, senza il suo apporto, non soltanto il Partito Democratico non avrebbe abbastanza voti-seggi per governare, ma pezzi di società italiana rimarrebbero privi di rappresentanza sociale e politica.

l'Unità 10.12.07
Il leader? Ancora non c’è. Ma quegli applausi a Nichi Vendola...
di Andrea Carugati


Potrebbe esser scelto con le primarie, come il presidente della Puglia. In Sicilia e Friuli il nuovo soggetto si presenterà unito alle amministrative del 2008

Ingrao arriva in sala mentre il governatore parla. Qualcuno sussurra: sembra un passaggio di consegne

Questo è un parto, dice, forse un partito
Si esca da noi stessi per non essere un Bignami di ciò che fummo

L’applausometro della Fiera di Roma non lascia dubbi: ci sono due possibili leader nel futuro della Sinistra arcobaleno. Tutti e due vengono dal Pci, il primo alla Svolta di Occhetto disse un no convinto, il secondo ne fu uno dei principali sostenitori. Ora stanno insieme nella Cosa Rossa, e infiammano la platea parlando della sinistra del XXI secolo, dei suoi valori, dei suoi sì e dei suoi no. Quello che ha preso più applausi è Nichi Vendola, Fabio Mussi lo segue a una certa distanza ma in fondo non poteva aspettarsi di più: Vendola è il delfino incoronato da Bertinotti, e in questa sala, pur composita, il Prc la fa da padrone. Una ventina gli applausi per Vendola, cui una accorta regia ha regalato l’arrivo di Pietro Ingrao nel mezzo del suo discorso. «Quasi un passaggio di consegne», si sussurrava nelle prime file. Appena sceso dal palco, il presidente della Puglia corre ad abbracciare il vecchio leader. Discorso poetico il suo, a volte barocco, perfetta la citazione di Pasolini («Piange ciò che muta anche per farsi migliore», a proposito del nuovo soggetto della sinistra), intriso di dolente speranza. Di indignazione per i «roghi in cui bruciano i boschi, i bimbi Rom, la carne giovane del nuovo proletariato». Ma bruciano anche «la storia e la coscienza operaia», mentre «la sfera politico-istituzionale pare una replica dell’Isola dei famosi». Vendola strappa applausi a scena aperta quando descrive l’Italia che indigna la sua coscienza di sinistra, quella della «religione della competitività», quella che ha sepolto «l’ideologia della speranza», dove «l’orribile morte proletaria fa meno audience dei delitti di provincia nati dalla noia adolescenziale». Per questo invoca il «coraggio di una nuova nascita», un «ricominciamento» della sinistra, che dia risposte «alle domande di senso e al dolore sociale». «È necessario uscire da se stessi», avverte. E per questo i quattro partiti non possono più essere «custodi fallimentari delle proprie bandiere», un «Bignami di ciò che fummo». Vendola parla al cuore e alla pancia di una platea che vuole unità e subito: «Questo è un parto, un partire, non so se un partito. E come un parto c’è il dolore e la gioia». Anche Mussi punta dritto alla voglia di unità del popolo rosso. «Travolgeteci!», dice alla fine del suo intervento. «Voglio una sinistra unita, unita, unita», insiste. La sua performance è un po’ una sorpresa, nonostante i 40 anni di vita politica, e anche dalle parti di Rifondazione si ammette che «tra i segretari Fabio è quello che ha preso più applausi». Il suo discorso è nettamente di sinistra, si ricollega a un concetto che ha più volte sostenuto: «Quando facemmo la Svolta dell’89, l’idea era una sinistra che rompesse la continuità con la storia del Pci, ma fosse anche più radicale nei contenuti». Dunque non stupisce la frase forte: «Il capitalismo, nelle sue forme attuali, è incompatibile con il pianeta terra». Come non stupisce la radicalità su tv e conflitto di interessi e anche l’attacco a Bendetto XVI: «Se si cancellano l’illuminismo e il marxismo, di questo passo restano solo l’assolutismo e il processo a Galilei». Non c’è dubbio: alla fiera di Roma hanno vinto due entusiasti del soggetto unitario. E il terzo classificato negli applausi, il leader del Prc Giordano (Ingrao è fuori quota), è sulla stessa linea. E tuttavia, di leadership ancora non si parla. Bisognerà aspettare le amministrative del 2008, vedere se l’Arcobaleno, dove si presenterà unito (certamente in Sicilia e Friuli, in bilico la Provincia di Roma), avrà un buon risultato. «Solo in quel caso», dice Alfonso Gianni, sottosegretario del Prc, «il processo avrà davvero un’accelerazione». Si passerà, cioè, dalla federazione a un soggetto davvero unitario. Con la reale necessità di un leader. «Una leadership a rotazione alla lunga non funziona», dice Gianni. «C’è bisogno di un catalizzatore delle speranze». Un leader scelto con le primarie? «Non le demonizzo affatto», dice Gianni. «È una sciocchezza dire che è un modello da partito americano. In fondo nel 2005 abbiamo partecipato anche noi con Bertinotti, e recentemente abbiamo vinto a quelle di Fiumicino».

l'Unità 10.12.07
Archivi. Il settimanale tedesco Spiegel pubblica le prove del sostegno di Guglielmo II al movimento rivoluzionario e scrive: «Fu la Germania a dettare a Lenin la strategia»
La Rivoluzione d’Ottobre pagata con il denaro del Kaiser
di Valeria Trigo


Ci furono le casse tedesche e la strategia del cancelliere Hindenburg dietro il successo della Rivoluzione d’Ottobre: a finanziare Lenin fu il Kaiser Guglielmo II. Una storia nota, ma finora mancavano le prove. Ora ci sono: dopo una lunga ricerca negli archivi britannici, svedesi, russi e prussiani, un gruppo di giornalisti dello Spiegel, hanno trovato estratti conto di banche svizzere e le ricevute con cui i bolscevichi attestavano di aver ricevuto il denaro tedesco. Era già noto che Lenin tornò in Russia salendo, a Zurigo, su un vagone piombato che attraversò tutta la Germania con il beneplacito tedesco. I documenti trovati dallo Spiegel aggiungono ora che i fili della Rivoluzione vennero tirati a Berlino, con Lenin pronto a seguire le direttive rivoluzionarie impartite.
Il 17 aprile 1917 il capo dello spionaggio tedesco telegrafava a Berlino da Stoccolma: «L’ingresso di Lenin in Russia è riuscito. Lavora completamente come desiderato». L’ambasciatore tedesco in Danimarca, Brockdorff-Rantzau, scriveva invece in un dispaccio con il timbro «Eilt-Streng geheim» (urgente, top secret): «la vittoria e la conquista del primato nel mondo sono nostre, se riusciamo a provocare una rivoluzione in Russia nel momento opportuno». Il segretario di Stato tedesco Kuehlmann riferiva invece al cancelliere Hindenburg e al Kaiser che il movimento bolscevico «senza il totale e costante sostegno (del ministero degli Esteri tedesco) non avrebbe mai raggiunto l’influenza che esercita adesso», mentre i soldi tedeschi «hanno permesso di far stampare la Pravda».
Lo Spiegel riporta che per quattro anni il Kaiser foraggiò il movimento rivoluzionario fornendo soldi, munizioni, armi ed esplosivi per compiere attentati. Solo il ministero degli Esteri versò 26 milioni di marchi dell’epoca, un valore attuale di 75 milioni di euro. Dagli archivi della polizia di Pietrogrado è venuto fuori che una parte del denaro ricevuto dai tedeschi fu usato da Lenin per pagare i dimostranti che scendevano in piazza ed i salari degli operai in sciopero, con il risultato di condurre al collasso l’economia russa ed affrettare lo scoppio della rivoluzione. Il finanziamento del movimento rivoluzionario era iniziato già qualche mese dopo lo scoppio della Grande Guerra e aveva come obiettivo di far uscire dal conflitto la Russia, schierata a fianco di Francia e Inghilterra. A due personaggi di «grande influenza», destinati a scatenare «una rivoluzione in tutta la Russia» il ministero degli Esteri tedesco pagò 50 mila marchi oro già nel settembre 1914, con la promessa di versare altri due milioni di marchi al momento dello scoppio dell’insurrezione. Nei piani dei generali del Kaiser la guerra lampo sul fronte occidentale doveva durare solo pochi mesi e la rivoluzione doveva evitare di combattere su due fronti.
Inizialmente il rovesciamento dello zar non rientrava nei piani di Berlino, fu deciso oper garantire la fine di quella che era diventata una sanguinosa e lunghissima guerra di trincea. Così avvenne dopo il successo della Rivoluzione, con Lenin che fece firmare la pace separata di Brest-Litovsk il 3 marzo 1918.

Repubblica 10.12.07
"Prodi viri a sinistra, stop ai centristi"
Nasce la Cosa Rossa. A sorpresa arriva Ingrao, ma è gelo con Bertinotti
Si rivede Occhetto, che con Cossutta abbraccia l´ex presidente della Camera
di Umberto Rosso


ROMA - Orizzonte primavera 2009. Nascono, pronti a concedere una lunga tregua al governo, ma avvertono: caro Romano così non si va avanti, datti una mossa e fai qualcosa di sinistra, oppure la spina possiamo staccarla anche prima. Firmato: Cosa rossa. I quattro della Sinistra-Arcobaleno celebrano, davanti a Pietro Ingrao che ricompare a sorpresa, a migliaia di militanti e sulle note di "Bella ciao" (che molti cantano e qualcuno no) il sogno impossibile. Prende vita il partito dei 150 parlamentari, che pensa di portare a casa «fino al 15 per cento» degli elettori italiani, che lancia «la sfida dell´egemonia» al Pd, che alle amministrative sarà in pista con il proprio simbolo, e che perciò vuole contare di più nel governo e non accetterà oltre un Prodi «subalterno ai centristi». Avverte Fabio Mussi, e lo ribadiscono gli altri segretari: ««La fiducia la votiamo ma non accada mai più che una Binetti, un Manzione, un Dini o un Bordon valgano più di un terzo dei parlamentari dell´Unione». Dietro questa linea, e cioè la Cosa rossa di lotta e di governo che prende forma alla Fiera di Roma, una tregua siglata fra Prodi, Bertinotti e Veltroni. Il presidente della Camera - che non rompe il silenzio se non per dire che «oggi è una giornata bellissima, di gioia, di festa, fate voi» - dopo l´affondo e la frenata sul governo, avrebbe raggiunto con il Professore e il segretario del Pd una mediazione: avanti con la riforma elettorale, senza che Prodi faccia scudo ai «piccoli», in cambio la promessa di evitare rotture immediate. L´arco temporale di Rifondazione per il voto, come conferma il capogruppo Russo Spena, diventa «la primavera 2009». Poi liberi tutti e la parola alle urne. Con gli altri soci della nuova avventura politica può esserci qualche differenza tempistica, Sinistra democratica e Verdi ancora non abbandonano la speranza del governo di legislatura, ma tutti uniti nella precondizione: cambiare la rotta politica dell´esecutivo.
«Il Pd è un partito elitario, neocentrista, tecnocratico. E il governo non sia più ostaggio del voltagabbana di turno» accusa Giordano. «E delle telefonate di Montezemolo» incalza Pecoraro Scanio, che poi avverte: «Senza valutazione di impatto ambientale non si raddoppierà la base di Vicenza». Oliviero Diliberto: «Il Pd non può essere equidistante fra la ThissenKrupp e gli operai uccisi a Torino. Oggi Enrico Berlinguer sarebbe al nostro fianco». Ovazioni a pugno chiuso al nome del vecchio segretario del Pci.
Ma c´è un pezzo di quella stagione che in carne e ossa si presenta in sala, Pietro Ingrao che, con voce ferma a dispetto dell´età, è arrivato per chiedere ai compagni di stringere i tempi. Un appello accorato, «fate presto, unitevi, unitevi, contro questa destra», accolto da una standing ovation. Lo abbracciano anche Cossutta e Occhetto. Peccato che in sala in quel momento Bertinotti non ci sia, i tempi del cerimoniale non coincidono, e i due non fanno in tempo a stringersi la mano. Invece quando il grande vecchio arriva, coincidenza sta parlando Niki Vendola, numero uno nell´applausometro della convention, e pare proprio come un passaggio del testimone dal padre nobile al giovane leader in pectore della Sinistra. Eppure il governatore della Puglia ha rischiato di non parlare per obiezioni sulla scaletta sollevate, pare, dal Pdci.
Come quell´altra scaramuccia scoppiata sull´inno finale del congresso. I Verdi avevano chiesto una play-list con Patti Smith, Ennio Morricone, Bertoli. Invece ecco risuonare solo "Bella Ciao", nella versione pop. «Si è rotto il registratore», si sono giustificati gli altri con il ministro del Sole che ride. Pecoraro l´ha canticchiata lo stesso, il capogruppo Bonelli no, «io le parole non le conosco».

Repubblica 10.12.07
Il governatore della Puglia applaudito come probabile futuro leader. "Nella mia storia i sentimenti sempre decisivi"
Vendola superstar cita Pasolini "Necessario piangere per migliorarci"
di Alessandra Longo


ROMA - La Cosa Rossa, la «nuova soggettività a sinistra», la gauche plurielle, o come si chiamerà, non c´è ancora ma il nuovo leader quello sì, c´è già. Parla Niki Vendola, presidente di Regione, cioè uomo di governo, comunista, gay, e viene giù la sala. E´ Niki che intercetta il cuore dei militanti. Vendola inizia il suo intervento, improvvisamente la sala sbanda, si distrae. Lui si ferma, si emoziona. Quasi un segno del destino: Pietro Ingrao, il Padre Nobile, è arrivato a benedire laicamente ciò che sta per nascere. «La nostra è la storia di un grande amore. L´ho conosciuto quando avevo otto anni. Ci ho messo un´infinità di tempo per dargli del tu, ricordo che stavo già nel Comitato Centrale del Pci».
Ingrao e Vendola si abbracciano. Ecco il passaggio del testimone, sussurrano i compagni. Il vecchio e il giovane. La sinistra di ieri e quella «in gestazione», come la definisce l´erede più accreditato. Riprende il suo discorso, un po´ parla a braccio, un po´ legge un testo scritto. Il linguaggio è sideralmente lontano dai suoi colleghi di partito. Lo interrompono per venti volte. Alla fine sarà standing ovation.
Vendola, l´ha sentito il calore? Suonava oggettivamente come un´investitura. «Certo che l´ho sentito. Nella mia vicenda politica c´è sempre stato un elemento di forte connessione sentimentale con la gente. La mia vittoria in Puglia è stata vissuta come un evento nazionale da tutta l´Italia democratica, hanno fatto un tifo da campionato del mondo. Questo spiega l´ascolto di oggi». Pronto ad una nuova avventura? «Mi sembra un discorso prematuro. E poi io non mi sento e non mi comporto da leader, sono un non-leader».
Sarà, ma il non-leader piace ai compagni della Cosa Rossa che hanno bisogno di affidarsi a un timoniere nuovo. Lui li incoraggia: «Usciamo da noi stessi. So che può essere doloroso, ma oggi serve il coraggio di un nuovo incominciamento, di una nuova nascita». Cita Pier Paolo Pasolini, «piange ciò che muta anche per farsi migliore». Fare in fretta, dice Ingrao e il «giovane» Niki è d´accordo. Trova parole tutte sue, dirette, crude, per descrivere «la deriva in cui viviamo»: «Non ci sono né una visione della società italiana, né una missione per cambiarla. I nostri pensieri, il nostro fare, abitano sul ciglio di un crepaccio, la morte di un proletario fa meno audience di un delitto di provincia, bruciano i bambini rom, brucia la carne di giovani lavoratori in fabbrica ed emerge tutto il vuoto della politica che si rifugia nei talk show, che dibatte di riforma elettorale usando solo astratte formule alchemiche».
Una fase di «bassa marea», la chiama Vendola. Il mare si è ritirato e sulla spiaggia «ci sono le scorie, i detriti, le alghe secche». No, non lo convince il Pd che, su temi come la precarietà, «si limita a vaghi richiami etici». Ecco a che cosa servirebbe lo sforzo di partorire una nuova creatura, «a creare una sinistra che non sia un riassunto bignami di ciò che fummo, che sia capace di ospitare domande di libertà, di leggere nel cuore della gente, di sondare fondali melmosi, di cogliere il dolore e le domande di senso che arrivano dalla società». E´ un discorso strutturato, il manifesto di un leader, o di un non-leader, come ama definirsi. La platea capisce, vibra, lo ferma, plaude a scena aperta. «In ogni parto c´è dolore ma anche gioia per una nascita». Ingrao lo segue con gli occhi dalla prima fila. Il «ragazzo» è bravo, farà strada, si è già fatto strada. Il «ragazzo», soprattutto, ha un´idea «alta» della politica, e perciò detesta «la nuova ideologia dei partiti di cassa che guardano al cittadino consumatore, alle corporazioni, alle lobbies, quel mondo lontano dalla realtà che alimenta il blob quotidiano, che dà lavoro agli esperti di banalità». Sarà lui a guidare la Sinistra Arcobaleno? Si schermisce emozionato, va a baciare il Grande Vecchio, poi si fuma una sigaretta con i fedelissimi galvanizzati. «E´ una bella giornata - dice - una giornata di attesa, un inizio di gestazione. Sento finalmente un clima frizzante, allegro, battesimale. Finalmente qualcosa di diverso dal rito funebre che troppe volte celebriamo a sinistra».

Repubblica 10.12.07
"Sinistra critica", scissione dal Prc


ROMA - "Sinistra critica" è, da ieri, movimento autonomo, all´opposizione del governo Prodi. Lo ha annunciato Franco Turigliatto, leader del gruppo politico che, nato nel vivo del Prc, si rifà ad una pluralità di riferimenti, dal Che Guevara a Rosa Luxemburg, da Trotsky a Marcos. "Sinistra critica" ufficializzerà al comitato nazionale di Rifondazione, domenica prossima, la sua scelta di separazione e avvierà da subito la costituzione di circoli territoriali oltre a una campagna nazionale di adesione e autofinanziamento che culminerà in una «manifestazione nazionale nella prossima primavera».

Repubblica 10.12.07
Il "tesoretto" comunista e gli accorti utopisti
di Mario Pirani


Eugenio Scalfari ha analizzato criticamente i motivi che hanno suggerito a Fausto Bertinotti la sua dirompente intervista. Anche altri fatti e fattarelli della quotidianità politica – l´uscita del libro di Marco Rizzo, «Perché ancora comunisti» (ed. Baldini Castoldi Dalai) o la disputa sulla presenza o meno della falce e martello nel logo della Cosa Rossa – ci dicono che tra le pieghe della cronaca sta inaspettatamente rispuntando un paradossale richiamo al comunismo. Ma se per Marx questo segnava «il passaggio del socialismo dall´utopia alla scienza», l´ultimo ripescaggio viene declinato all´inverso, come ritorno all´utopia. Vale, comunque, la pena aggiungere qualche altra riflessione partendo dal risvolto che già Scalfari ha indicato laddove ha detto che «non c´era altra alternativa per la sinistra radicale che tornare al suo vecchio ruolo di testimonianza antagonista». L´arduo tentativo bertinottiano di trasformarla in una componente stimolante ma compatibile di una coalizione di governo di centro sinistra si sta, infatti, dimostrando impossibile.
Riemerge l´antica coazione a ripetere dell´ala estremista della sinistra italiana che già aprì la strada al fascismo. In questo tenace zoccolo minoritario (oggi si aggirerà attorno al 10% degli elettori) permane il rifiuto della realtà sociale ed economica alimentato da una inguaribile idiosincrasia per ogni ipotesi di governo. Di qui le tante scissioni che facilitarono l´ascesa del fascismo e che dalla Liberazione fino ad oggi hanno decimato le forze della sinistra. Ma, se questo è vero, ne consegue che nel mercato politico esiste un "tesoretto", piccolo ma sicuro, a disposizione di chi sappia rappresentarlo, esaltando e non contrastando le pulsioni che emana, per quanto irragionevoli e dannose esse siano per l´assieme della sinistra e per il bene comune. In un paese come l´Italia questo non presenta pericoli né eccessive scomodità: i privilegi del ceto politico valgono sia stando al governo che all´opposizione. L´importante è non uscire dal mercato.
Condizione indispensabile perché ciò non accada, soprattutto nelle file della sinistra, è il saper incarnare e rappresentare i valori di riferimento del proprio elettorato. E se questo ha una propensione per l´utopia comunista è d´uopo assecondarla con sincerità di accenti. La malafede è, infatti, sconsigliabile in quanto facilmente intuibile. Occorre, per contro, credere fermamente alle proprie bugie e usarle come antidoto alla sgradevolezza della realtà. Il fondamentalismo è per sua natura irrazionale e il comunismo, con la sua presunzione luciferina di costruire la storia, di sconvolgere il mondo e di ricrearne uno nuovo di liberi e di eguali altro non è che un fondamentalismo, che tutto giustifica e assolve pur di raggiungere un fine così "buono". La fallacia dell´assunto è stata dimostrata senza possibilità d´appello dal fallimento dell´Urss, ma per i neocomunisti quel crollo non basta. Il libretto di Marco Rizzo rappresenta un test da laboratorio sul rifiuto di elaborarne il lutto e di riflettere a fondo sul perché di una implosione che ha evidenziato a quali disastri possa condurre quel finalismo fondamentalista. I convincimenti di Rizzo, del resto, non sono isolati. Alla presentazione del testo sia il leader della Fiom, Cremaschi, che Valentino Parlato del "Manifesto" erano su posizioni analoghe. Come tanti o pochi loro seguaci. Certo – dicevano – «bisognerebbe aprire una discussione lunga e complessa sul giudizio da dare sulla rivoluzione bolscevica» (cosa aspettano?) ma questa ha comunque rappresentato un grande impulso di lotta all´oppressione e per l´emancipazione dei popoli. Il fallimento è, se mai, da ascrivere alle condizioni di estrema povertà e arretratezza da cui è partita.
Nel quadro lungo della Storia quel primo tentativo non è riuscito ma l´umanità potrà ritentarlo. E quindi ai riformisti si deve rispondere: «Se la sinistra non sarà di classe e anticapitalista a cosa servirà? E se quelli che ancora vogliono cambiare il mondo e superare il capitalismo non avranno forza, quali prospettive ci saranno?». Il dilemma non sarebbe rilevante in una democrazia funzionante. A Londra per chi avanza simili quesiti è riservato uno spazio ad Hyde Park Corner dove è consentito a chiunque, persino a chi giura sul sistema tolemaico, salire su una sedia e propinare ai passanti le proprie idee, per bislacche che siano. Nel bailamme partitico italiano, invece, il loro peso, per quanto marginale, può essere determinante in Parlamento.

Repubblica 10.12.07
La Rivoluzione "comprata" così il Kaiser finanziò Lenin
di Andrea Tarquini


I documenti di Der Spiegel: Guglielmo II voleva rovesciare lo zar suo nemico
La Berlino imperiale "I bolscevichi sono bravi ragazzi"

Non solo la Germania imperiale consentì a Lenin di raggiungere la Russia dalla Svizzera, passando dal suolo tedesco, per scatenarvi la rivoluzione. La Berlino del Kaiser finanziò i bolscevichi con milioni di marchi, allo scopo di rovesciare lo zar e liberarsi così da uno dei suoi nemici nella prima guerra mondiale. È quanto narrano documenti finora segreti, di cui Der Spiegel è venuto in possesso. Alla scoperta, il settimanale di Amburgo dedica la storia di copertina: «Die gekaufte Revolution», la rivoluzione comprata. E in un altro titolo-shock, all´interno, definisce Lenin «Il rivoluzionario di Sua Maestà».
La Corte imperiale, la diplomazia, i servizi segreti, non temevano che il crollo dello zarismo e una vittoria rivoluzionaria avrebbe messo in pericolo anche gli Hohenzollern. «Al momento giusto convinceremo elementi del movimento a collaborare con noi», scrisse l´ambasciatore a Copenhagen, conte Ulrich von Brockdorff- Rantzau. E il piano per lasciar passare Lenin dal territorio tedesco, nell´aprile 1917, non sollevò obiezioni, né da parte del Cancelliere del Reich Bethmann Hollweg, né dal comandante in campo delle forze armate Paul von Hindenburg. Max Hofmann, un alto ufficiale vicinissimo a Hindenburg, scrisse: «Così come faccio sparare granate o lanciare gas contro il nemico, ho il diritto di usare i mezzi della propaganda contro la sua occupazione».
Il nemico del mio nemico è mio amico, fu il motto del Kaiser nella scelta di finanziare Lenin. Scelta senza la quale, osserva Der Spiegel, forse il comunismo non si sarebbe imposto come sistema mondiale, e forse non ci sarebbe stato il Gulag con i suoi milioni di morti.
Al di là dei "se", restano i dossier. Alexander Helphand, socialista rivoluzionario amico di Trockij, commerciante, residente nell´Impero ottomano perché ricercato dalla polizia tedesca, già conosceva Lenin e gli aveva presentato Rosa Luxemburg. Egli contattò l´ambasciata imperiale a Costantinopoli. «Gli interessi del governo tedesco sono identici a quelli dei rivoluzionari russi», disse. A fine febbraio 1915, era pronto un piano di 23 pagine, stilato da Helphand: suggeriva finanziamenti in marchi e forniture di esplosivi per organizzare scioperi, attentati, sabotaggi. A fine maggio 1915, Helphand incontrò Lenin a Berna.
Più volte, scrive Spiegel citando i documenti finora riservati, il Reichsschatzant (Ministero del Tesoro imperiale) fornì allo Auswaertiges Amt (ministero degli Esteri) cospicui pagamenti per «la propaganda rivoluzionaria in Russia». Due milioni di marchi l´11 marzo 1915, quindi poco dopo il piano di 23 pagine. Poi cinque milioni di marchi il 9 luglio 1915, e di nuovo cinque milioni il 3 aprile 1917, pochi giorni prima della partenza di Lenin dall´esilio elvetico alla volta di Pietrogrado. Su un vagone extraterritoriale, nota Der Spiegel, «ma non è vero che fosse un vagone tutto piombato come si è detto finora: aveva tre porte piombate, ma una libera».
I bolscevichi «hanno fornito utili informazioni sulla situazione nella Russia zarista», scrisse allora Walter Nicolai, capo del servizio segreto del Kaiser. A Helphand, ufficialmente ricercato dalla polizia politica imperiale, fu concesso un passaporto di polizia con cui poteva muoversi liberamente nel Reich, in territori occupati o paesi neutrali. Helphand si stabilì in Svezia, e dalla città di confine di Haparanda esportò o contrabbandò in Russia merci di ogni genere. Non si sa quanto, ma certo parte del ricavato finì ai bolscevichi. Che vi finanziarono propaganda, scioperi, proteste. Helphand pare organizzò anche attentati e sabotaggi.
Quando, con la rivoluzione di febbraio, lo zar abdicò, fu l´inizio della sua fine. Von Brockdorff-Rantzau nelle sue note lodò Helphand, «uno dei primi ad aver lavorato per questo successo ora conseguito». Dopo la rivoluzione d´ottobre, Lenin firmò con Berlino la dura pace di Brest-Litowsk. Le potenze dell´Intesa sostenevano la «controrivoluzione» anticomunista. Ma l´Impero di Guglielmo II continuò ad aiutarli. «I bolscevichi sono bravi ragazzi, finora si sono comportati benissimo», scrisse Kurt Riezler, responsabile della politica verso la Russia allo Auswaertiges Amt, chiedendo nuovi soldi per loro. Un anno dopo la rivoluzione bolscevica, e dopo la disfatta militare, a Berlino il Kaiser cadde e fu proclamata la Repubblica, la fragile democrazia di Weimar. Una ventina d´anni dopo Hitler e Stalin risuscitarono seppur temporaneamente il legame, col Patto Molotov-Ribbentrop.

Corriere della Sera 10.12.07
Parte la Cosa rossa, tregua con il governo
Sul palco Vendola e Ingrao. Bertinotti: è un giorno di gioia. Il messaggio di Prodi
I leader di Prc, Pdci, Verdi e Sd hanno dato vita alla «Sinistra, l'Arcobaleno», che raccoglie le forze radicali
di Andrea Garibaldi


Il nuovo soggetto «La Sinistra, l'arcobaleno »: 93 deputati e 46 senatori

ROMA — Mentre parla Nichi Vendola, a grande sorpresa entra in sala Pietro Ingrao e questo istante fissa lo stato della Cosa rossa, o meglio della federazione tra Rifondazione, Comunisti italiani, Sinistra democratica e Verdi. Vendola è il nuovo: sentimento, emozione, con una lingua fatta di retorica, dolore, sogno e poesia, diversa dalle consumate parole politiche. Ingrao è l'antico: dubbio, sofferenza, anche lui sogno e poesia, anche lui pieno di pathos, tanto è vero che non voleva venire, ma poi ha ceduto. Il neonato «soggetto politico» di sinistra e d'arcobaleno vorrebbe tenere assieme il nuovo e il miglior antico (che qui si somigliano). Per adesso è iniziata appena la traversata, con i leader che c'erano. In primo piano, il rapporto di questa sinistra con il governo di cui è parte. Dice Pecoraro Scanio che Prodi deve durare una legislatura, ma senza ascoltare le telefonate dei poteri forti. E Diliberto: «Non abbiamo tentazioni di nicchia». Qualche opzione in più per Mussi («Non lavoriamo per la caduta di Prodi, ma così ci si logora tutti...») e Giordano («La verifica sarà vera, sapendo che l'opposizione non è un disvalore »). Poche ore più tardi, Prodi manda un messaggio di riconoscimento: «Vi auguro di costruire un percorso capace di generare nuovi stimoli alla democrazia e all'azione di governo, che avete sempre sostenuto con coerenza in questo primo anno e mezzo di legislatura». La tregua è completa, dopo la frattura per le dichiarazioni di Bertinotti («L'Unione ha fallito ») e la «correzione» («Il governo è per la intera legislatura »).
Vendola, governatore di Puglia, è sussurrato come il giovane (49 anni) che potrebbe guidare la nuova imbarcazione. Lui fa un'analisi dura, parla della «perdita di autorevolezza della sfera politico- istituzionale, che pare la replica dell'Isola dei famosi ». E poi dei «ragazzini che riprendono col telefonino il coetaneo che si toglie la vita» e i lavoratori, diventati «materiale rottamabile, infiammabile ». Dunque? Serve «una nuova nascita, una sinistra che non sia riassunto di ciò che fummo, ma capace di ospitare domande di libertà, di leggere nel cuore della società, di sondare fondali melmosi». Insomma, «un parto, un partire, non so se un partito...». Chiude con Pasolini: «Piange ciò che muta anche per farsi migliore». Applauso, è il ventesimo, lui abbraccia Ingrao.
Tocca proprio ad Ingrao, 92 anni, sciarpa rossa: «Fate presto! La vostra unità urge. Unitevi in nome di quei caduti di Torino! Non sono chiare le cose in questo Paese e nemmeno come viene condotto il governo...». Applauso enorme e incontro mancato con Bertinotti. Ingrao aveva espresso perplessità su un presidente della Camera che critica il governo. Bertinotti arriva dopo che Ingrao va via. L'applauso è meno scrosciante, ma poi davanti alla sua sedia c'è un flusso continuo. «Oggi è un giorno di gioia», dice, salutando la «sua» creatura rossa.
Ecco i segretari. Pecoraro accredita un possibile 15 per cento ai 4 partiti assieme, anche se difende la sua identità. Diliberto evoca Enrico Berlinguer, «sarebbe alla nostra guida ». Mussi insiste su laicità e disarmo. Giordano vuole liste, programmi e segno grafico comuni fin dalle ammini-strative di primavera. Sul tavolo c'è questo problema, e quello della riforma elettorale, e quello del leader. Ora però è più difficile la marcia indietro.

Corriere della Sera 10.12.07
Il caso Duello sulla canzone
«Bella ciao», i verdi non cantano
di A. Gar.


Pugno chiuso. Si è alzato soltanto un braccio sinistro col pugno chiuso, quello del leader pdci Oliviero Diliberto

ROMA — Colonna sonora finale, nessuna sorprendente novità. Partono le note di "Bella ciao", la canzone dei partigiani emiliani. Sul palco ci sono i quattro leader e numerosi esponenti dei quattro partiti. S'alza soltanto un braccio sinistro col pugno chiuso, quello di Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti italiani, e si nota che i Verdi, in gran parte, non s'uniscono al coro.
È già polemica? Magari è il sintomo delle due ben distinte anime della nuova federazione. Da una parte mondo comunista, Giordano, Mussi, Diliberto, dall'altra ambientalismo, "la Sinistra" e "l'arcobaleno". La prima che parla soprattutto di lavoro, il secondo che rivendica le proprie battaglie per il clima, l'acqua, la biodiversità.
Pecoraro Scanio non conosce "Bella ciao"? «Ma figuriamoci! — risponde il leader Verde —. Me l'hanno insegnata a scuola, a Salerno, quando ero bambino. "Bella ciao" fa parte della tradizione antifascista, appartiene a tutti. E io ho cantato per un po'... Poi mi sono distratto, perché qualcuno mi spiegava che la canzone che doveva venire dopo, "Eppure soffia" di Pierangelo Bertoli, non sarebbe stata diffusa per un guasto al generatore.
E a me dispiaceva». Non ha proprio aperto bocca, invece, il capogruppo dei Verdi alla Camera, Angelo Bonelli: «Vengo da una cultura diversa, anche se ho molto rispetto per i valori della Resistenza. Alcune parole di "Bella ciao" non le so. È un reato? Io comunque avrei messo anche "Sunday bloody sunday" degli U2». Quel pezzo ricorda una strage di manifestanti nordirlandesi, gennaio 1972.
L'organizzazione dell'assemblea di sinistra e d'arcobaleno alla nuova Fiera di Roma ha comportato complesse trattative a quattro. Sul segno grafico innanzitutto, sull'ordine di intervento dei segretari, sulla Carta dei valori, naturalmente sulle canzoni. Diliberto, che ha accettato con fatica un simbolo comune privo di falce e martello, ci teneva a "Bella ciao". I Verdi avrebbero preferito guardare avanti, ma poi hanno proposto Bertoli e un pezzo regalato al partito da Ennio Morricone, intitolato "Eco". Rifondazione dentro di sé ha una corrente musicofila rock e ha proposto "People have the power", Patty Smith, la musica meno lontana dai molti giovani presenti.
Insomma, andò così. "Bella ciao" sì, con le conseguenze descritte. Bertoli ("...uccelli che volano a stento malati di morte... il falso progresso ha voluto provare una bomba...") saltato per motivi tecnici. Patty Smith e Morricone sì, in chiusura. Alla fine, è partita — imprevista — anche l'Internazionale, ma i militanti scivolavano via, sotto la pioggia.

Corriere della Sera 10.12.07
L'ex partigiano Massimo Rendina
È il presidente dell'Associazione nazionale partigiani di Roma e del Lazio
«Indica valori ancora attuali»


ROMA — (m.ca.) «Che cos'è: una voglia di esibirsi come se si fosse al di sopra delle parti?», domanda disincantato Massimo Rendina, già capo di stato maggiore della Prima divisione Garibaldi e oggi presidente dell'Associazione nazionale partigiani di Roma e Lazio. Alla riunione di «La sinistra l'Arcobaleno» Rendina non c'era: si trovava con Napolitano alla camera ardente per Pietro Amendola. «Mi dispiace», dice del silenzio dei verdi durante una delle canzoni diventate simbolo della Resistenza.
Il verde Angelo Bonelli ha dichiarato di non sapere alcune parole di «Bella ciao» e ha chiesto «se è un reato». Che effetto le fa?
«Pur ritenendo che Bella ciao sia posteriore alla guerra di Liberazione, è diventata in Italia il simbolo della libertà e del riscatto della persona umana. Non averla cantata non è una presa di distanze dalla Resistenza, è non aver capito che i valori di questa non si riferiscono soltanto a un periodo, ma sono utili anche adesso». Utili come? «Sono fondamentali per l'idea di patria, davanti all'immigrazione, per le missioni internazionali sul crinale tra pace e guerra. Dove si prendono i valori necessari se non dalla Costituzione, figlia della Resistenza?».

Corriere della Sera 10.12.07
Classici La vita del condottiero narrata dal poeta
Dai dubbi agli elogi: Petrarca conquistato dal romanzo di Cesare
di Cesare Segre


Giulio Cesare era un civilizzatore o un imperialista? Voleva riportare la pace e la legge a Roma, o assoggettarla a una dittatura? Il suo assassinio ad opera di Bruto e altri fu tirannicidio o tradimento? Oggi sarebbe difficile appassionarsi a questo dibattito; ma nel Trecento era all'ordine del giorno. Cesare fu in ogni caso il fondatore dell'impero romano, nel quale e tramite il quale si diffuse il cristianesimo (lo sottolineava Dante); perciò gli sarebbe spettato un posto di rilievo nel disegno della Provvidenza. La letteratura latina, che si stava studiando con passione, celebrava la sua magnanimità, pur dando voce ai molti detrattori (il massimo dei quali fu il poeta epico Lucano) e narrando aneddoti poco commendevoli. Petrarca, nella
Vita di Giulio Cesare, scritta nei suoi ultimi anni, dopo il 1366, tiene conto della polemica. Ma la sua prospettiva è diversa: non gl'interessa tanto il disegno escatologico, quanto la grandezza di Roma che in Cesare riluce. Guarda con nostalgia verso la Roma dei suoi scrittori prediletti: al punto di individuare nel tribuno Cola di Rienzo, di cui seguì partecipe l'avventura, un restauratore della Roma classica e dell'unità d'Italia. In complesso, come diceva il Fueter, «dalla disgregazione politica dell'Italia contemporanea si rifugiò nella gloriosa storia dell'antica Roma».
Scrivendo la Vita, Petrarca si sente forte delle sue conoscenze degli storici antichi, da Livio a Svetonio a Floro. Ma se riconosce che il famoso passaggio del Rubicone («il dado è tratto...») fu l'inizio di una guerra civile, alla fine dà di Cesare un giudizio favorevole, ammirativo. Il filologo Guido Martellotti ritiene anzi che Petrarca sia passato da una posizione negativa su Cesare ad una positiva proprio scrivendo quest'opera, e lasciandosi suggestionare dagli storici romani. È poi un fatto che Cesare sovrastava ogni possibile rivale per la forza della propria scrittura, dato che ha narrato lui stesso, da maestro, la guerra di Gallia e quella contro Pompeo. E Petrarca non può non fondarsi ampiamente su queste opere, oltre che su qualche lettera di Cesare trascritta da Cicerone. La magnanimità del condottiero colpisce comunque, anche se sullo sfondo rimangono violenze e atti di crudeltà. Petrarca si rivela un grande narratore. È efficace nel racconto di azioni diplomatiche (ambascerie e trattati), retoriche (esortazioni alle truppe) e belliche, nella descrizione dei luoghi e delle strategie, nella pittura dei caratteri; da vero storico, sa considerare dall'alto, al di sopra della contingenza, gli avvenimenti che narra; e volentieri si lascia sfuggire qualche accenno alla situazione del suo tempo e alla propria vita. A fondere gli orizzonti del passato e del presente lo facilitava il suo gusto preumanistico. Però la Vita di Giulio Cesare sta al termine di un'attività iniziata verso il 1343 e culminata, verso il 1353, nell'incompiuto De viris illustribus. E utilmente le due opere vengono ora proposte assieme, tradotte e prefate da Ugo Dotti ( Gli uomini illustri. Vita di Giulio Cesare, Einaudi), e ornate da tavole con i famosi nove «Trionfi» di Mantegna. Anche negli Uomini illustri Petrarca è medievale: nell'allineare prima eroi biblici e poi eroi classici, sino a Scipione (inverso però l'ordine di stesura); ma è umanista nel far riferimento alla fame di sapere dei lettori, e non a un qualunque disegno provvidenziale.
Nelle due opere Cesare e Scipione l'Africano (eroe dell'Africa, poema dello stesso Petrarca) prendono rispettivamente rilievo come massimi condottieri, con parallelismi significativi. Perché all'omicidio di Cesare corrisponde il volontario esilio di Scipione a Literno, dove morì. In entrambi i casi pare che odio e invidia siano, in una prospettiva morale, il contrappeso, talora vincente, della fama; ma è pure chiaro che queste reazioni si collegano, nel profondo della coscienza politica, con l'insofferenza verso condottieri che sembrano mettere in pericolo le libertà repubblicane. Per questo la storiografia rinascimentale celebrerà in Bruto il difensore delle istituzioni di Roma.
Come personaggio letterario, Scipione è poco interessante perché troppo perfetto, fiero della propria temperanza; meglio, molto meglio Cesare, con i suoi vizi e le sue debolezze. Ma in compenso, nella vita di Scipione, come la narra Petrarca, s'incastonano episodi vivi, emozionanti, come un incendio notturno scoppiato tra le tende dell'accampamento, o come traversate del Mediterraneo e incontri con i cartaginesi infidi. Famoso, e caro a tragediografi e compositori, l'episodio in cui Scipione convince Massinissa a interrompere il suo rapporto sentimentale con Sofonisba, e questa riceve dall'amante una coppa di veleno, che beve impavidamente. Una scena degna di Shakespeare, ed evocata dallo stesso Petrarca nei Trionfi.

FRANCESCO PETRARCA, Gli uomini illustri. Vita di Giulio Cesare EINAUDI pp. XII-788, € 85

Corriere della Sera 10.12.07
Celebrazioni Cento anni fa nasceva la Bonanni, scrittrice abruzzese da riscoprire
Laudomia, la provocatrice amata da Montale
di Marco Nese


Fu definita erede del realismo verghiano. La colmarono di premi. La accostarono perfino a Virginia Woolf. Poi, di colpo, l'oblio. Oggi Laudomia Bonanni è una sconosciuta. Ma un gruppo di tenaci ammiratori della scrittrice, capeggiati da Pietro Zullino, considera assurda e ingiusta questa damnatio memoriae. Si sono messi a ripubblicare le sue opere. E all'Aquila, dove la Bonanni vide la luce nel 1907, hanno appena aperto le celebrazioni per il centenario della nascita di questa autrice che sviluppò temi sorprendentemente moderni e auspicò la liberazione femminile con decenni di anticipo rispetto a Betty Friedan.
In effetti, già in epoca fascista, Laudomia descriveva l'ambito femminile con incredulo stupore. Osservava le bambine della classe elementare dove insegnava e già le vedeva avviarsi a diventare uguali alle madri, con gli stessi sogni ingenui e ripetitivi di generazione in generazione, con la stessa prospettiva di vita, sposarsi, avere figli, preparare il cibo per il marito, lavorare fino a sfiancarsi, in omaggio alla retorica mussoliniana che celebrava la mamma come angelo del focolare. Scriveva pagine aspre su queste donnine senz'anima e sui loro scialbi uomini.
Irrompe sulla scena letteraria nel dopoguerra: fa centro con Il fosso, uscito da Mondadori. Ammirati, i rigorosi intellettuali del Bagutta nel 1950 assegnano a lei il premio, che per la prima volta va a una donna, meritevole, secondo Eugenio Montale, di «essere tolta dall'ombra». Nel 1960 si aggiudica il Viareggio con il romanzo L'imputata e nel '64 riceve il premio Selezione Campiello per L'adultera, un'impietosa raffigurazione della realtà umana.
Laudomia non è mai tenera. Concepisce il libro «come un sasso». Duro, in grado di provocare uno choc. Denuncia lo squallore della piccola borghesia, mette a nudo il mondo allucinante della delinquenza minorile, con Vietato ai minori, finalista allo Strega nel '75. Ma subisce le rampogne del mondo cattolico, che non apprezza la sua lettura del sociale.

Corriere della Sera 10.12.07
La timidezza di Antonioni colpì al cuore il regime cinese


Doveva essere l'incontro tra un grande regista e uno dei Paesi più «segreti» del pianeta. Rischiò di diventare un caso diplomatico con il regista attaccato dalla stampa e il nostro ministero degli Esteri coinvolto nella polemica (per via del produttore: la televisione di Stato). Eppure, nonostante queste premesse «scandalistiche» il film in questione è rimasto per anni un mistero, legato solo al ricordo che i cinefili avevano di poche, e a volte avventurose, proiezioni passate.
Oggi, finalmente, Feltrinelli Real Cinema mette a disposizione di tutti Chung Kuo — Cina, il documentario di quasi quattro ore che Michelangelo Antonioni aveva girato nel 1972 nell'«impero di centro» (traduzione letterale di Chung Kuo e sinonimo di Cina) e che scatenò contro il regista ferrarese le ire della «banda dei quattro », che tentavano di attaccare attraverso il documentario il primo ministro Zhou Enlai (ma questo lo si scoprì più tardi).
Mandato in onda in tre puntate sulla Rai (nel gennaio- febbraio '73 in bianco e nero, perché così trasmetteva il Programma Nazionale e replicato nell'agosto del '79 su Rai 2 nella versione originale a colori) il film vuole essere un reportage di prima mano su un Paese che negli anni precedenti, con il mito della Rivoluzione culturale, era stato al centro di sogni e condanne di mezzo mondo.
Antonioni mette subito le mani avanti e «riduce» il suo reportage (realizzato con la collaborazione di Andrea Barbato per i testi e di Franco Arcalli per il montaggio) a una serie di semplici «appunti di viaggio»: troppo complessa la realtà cinese e troppo limitato il tempo per scoprirla (una quarantina di giorni, con molti condizionamenti e censure «politiche »), ma sufficienti per mostrare alcune scene che non si dimenticano facilmente, come un parto cesareo con l'anestesia fatta attraverso la sola agopuntura.
Allora in molti — da sinistra e da destra — attaccarono il regista per essersi fermato alla superficie delle cose. Oggi quell'occhio timoroso ma anche curioso riesce a mostrarci cose che lo scontro ideologico di allora finiva per cancellare. E se a volte la cinepresa sembra indugiare troppo e il regista compiacersi di troppo lunghi silenzi, è indubbio che Antonioni ha una curiosità (e un'anima) da documentarista che rendono i 207 minuti del film una visione che non si può evitare.
Peccato che il libro allegato al dvd contenga solo pagine generiche sulla Cina e non aiuti a collocare storicamente (e cinematograficamente) il film. Molto meglio ascoltare l'intervista a Marco Bellocchio negli extra.

il Riformista 10.12.07
La base sta con Nichi, i partiti frenano
di Alessandro De Angelis


L’evento, dal punto di vista mediatico e - perché no - anche dal punto di vista emotivo c’è stato, eccome. L’entusiasmo pure, e nemmeno poco. Ma la Cosa rossa (o arcobaleno) non è nata, almeno per ora. Gli stati generali hanno mostrato, più della Cosa che verrà, le quattro cose che ci sono: Rifondazione, i Verdi, il Pdci, Sd. Che parlano un linguaggio simile («unità» è stata la parola più usata) ma che su questioni dirimenti tanto d’accordo non sembrano proprio: dal rapporto col governo e con i sindacati alla forma organizzativa che dovrà assumere il «soggetto unitario e plurale». E così è stata proprio la politica, quella con la “P” maiuscola, la parte debole di una due giorni in cui, però, due evidenze si sono manifestate in modo quasi dirompente: la passione dei militanti e l’appeal di Nichi Vendola, un leader poco amato dalle burocrazie di partito, ma notoriamente caro a Fausto Bertinotti e già carissimo al popolo della sinistra-sinistra.
Il popolo. Migliaia di militanti (più di cinquemila) hanno partecipato con passione a una due giorni di politica-politica, nei workshop tematici prima (su lavoro, welfare, diritti, laicità pace, ambiente) e nell’assemblea generale poi, in un clima da seminario autogestito il primo giorno, quasi da campagna elettorale ieri. E hanno espresso nei dibattiti di sabato, anche in quelli più iniziatici e vecchio stile, e nelle standing ovation di ieri un unico bisogno: quello di un soggetto unitario. Ma anche di un leader che li guidi.
Il leader. Venti applausi e un’ovazione finale hanno incoronato Vendola, costretto a parlare alle undici di mattina (un orario sciagurato), dopo un’estenuante trattativa all’interno delle segreterie dei partiti del giorno prima (il Pdci non lo voleva, Mussi sì). Vendola ha osato con un discorso “diverso”. E c’è riuscito. Lui, che sulle sue diversità ha costruito, non solo in Puglia, consenso e simpatia, ha usato un linguaggio forse più poetico che politico per lanciare un messaggio chiaro: la federazione non basta, bisogna andare oltre. E, buttando alle ortiche il politichese, ha chiuso così il suo intervento: «Serve una costituente, non l’equilibrio precario dei corpi costituiti, non un bignami di ciò che fummo. Dobbiamo avere il coraggio di uscire da noi stessi. Non è facile. Diceva Pasolini: “Piange chi muta anche per farsi migliore”». Difficile fermare uno così relegandolo in quota «amministratori locali» come nella scaletta di ieri e come dissero i leader del Prc il 20 ottobre. L’investitura di Vendola - se la scena fosse stata costruita a tavolino non sarebbe riuscita così bene - è stata suggellata, quasi simbolicamente, dall’ingresso in sala, a braccetto di Sandro Curzi, di Pietro Ingrao, sciarpa rossa e bastone in mano, che ne ha interrotto il discorso (causa acclamazione): una visita inaspettata, visto che la Stampa sabato ne aveva annunciato la defezione (causa dissenso). Ma nel suo intervento, salutato con commozione dalla platea, il grande vecchio della sinistra italiana ha spinto nella stessa direzione di Vendola: «La mia raccomandazione è una sola: fate presto. Lo impone la condizione tragica del lavoro in Italia».
I segretari. Fin qui i leader antichi e (chissà) nuovi, e il popolo, che hanno chiesto un’accelerazione. In mezzo, i segretari di ciò che c’è hanno stabilito un percorso che pare uno slalom (o una corsa a ostacoli). A gennaio si svolgerà un seminario su come dovrà essere il soggetto che verrà: federazione o confederazione, se ci si “iscrive” o si “aderisce”. A febbraio sarà invece promossa una consultazione. Su cosa? Su quello che si è deciso al seminario, ma anche sul simbolo e sulla carta d’intenti presentata ieri. Nel frattempo Rifondazione - ma non gli alleati - svolgerà un’altra consultazione, sui temi della verifica di governo.
Ed è proprio sul governo che si registrano accenti diversi. Giordano ha insistito sul confronto con Prodi: «A gennaio serve una verifica vera su salari, precarietà, prezzi, diritti». Gli altri la parola verifica non l’hanno nemmeno nominata. Pecoraro Scanio ha chiesto «rispetto per il programma dell’Unione siglato con gli elettori». Mussi ha invece usato una formula di mediazione: «Caro Romano, così non si va avanti, dobbiamo sederci al tavolo, stabilire poche priorità, un programma di cose chiare che parli alla nostra gente». Diliberto ha evitato l’argomento. I sindacati. E i sindacati? Sull’assenza della Cgil la linea è stata: facciamo finta di non vedere. Ma le polemiche sul Protocollo sono riemerse, ad esempio, nell’intervento di Rinaldini che ha detto tra gli applausi: «La concertazione non può prefigurare un assetto istituzionale neocorporativo». E candidandosi al ruolo di motore sociale della Cosa rossa, non ha mostrato poi troppo dispiacere per la rottura con il grosso della Cgil. Anzi, ha tenuto a precisare polemicamente: «Il sindacato non può essere una lobby nei confronti delle forze politiche». La Cgil no, ma la Fiom, a quanto pare, sì.

domenica 9 dicembre 2007

Liberazione 9.12.07
Ingrao: sinistra, basta divisioni
devi essere una forza compatta
Intervista al "leader" di tante battaglie: auguri agli Stati generali
Bertinotti? Io ero più timido, ma non mi sembra un sovversivo
di Piero Sansonetti


Ingrao, dicono che tu sia contrario agli Stati Generali della sinistra, cioè alla costruzione di quella che i giornali chiamano "Cosa Rossa", la nuova sinistra arcobaleno. E' vero?
Smentisco queste profezie di sventura e mi auguro che l'assemblea che si tiene alla Fiera di Roma vada nel modo migliore possibile. Naturalmente poi io ho le mie convinzioni sul cammino da compiere
Quali sono le tue convinzioni?
Innanzitutto io credo che lì siano presenti forze che sono essenziali per questo cammino. Però penso che sia necessario dare vita ad una forza compatta che scavalchi le divisioni e la frantumazione dei soggetti. Serve qualcosa che unifichi. E' essenziale superare i processi di frantumazione che non hanno aiutato le lotte della sinistra. E subito dopo questa osservazione ne faccio un'altra: se questo nuovo soggetto vuole nascere bene, prima di ogni altra cosa deve affrontare i mali grandi e crudeli che feriscono il mondo del lavoro. Io dico che la tragedia di Torino parla più di tante analisi e commenti...
Domani a Torino ci sarà lo sciopero generale. Otto ore i metalmeccanici e due ore le altre categorie. E ci sarà un corteo, credo che sarà un corteo molto grande...
Spero ardentemente che sia il punto di partenza di una nuova fase di lotte e di tutela del mondo del lavoro: di morti e di bare ne abbiamo visti troppi in Italia.
Il ministro del lavoro ha detto che bisogna cambiare la cultura del lavoro. A me sembra che sarebbe piuttosto necessario cambiare la cultura dell'impresa, non credi?
Io, nella mia modestia e ostinazione, penso che bisogna far ripartire le lotte di massa. E mettere al centro di queste lotte l'antico e cruciale tema su cui è cresciuto in questo paese un secolo di lotte. Quale tema? Quello del quale parlava una vecchia canzone che ancora ho nell'orecchio: «il riscatto del lavoro dei suoi figli opra sarà...». Vorrei sottolineare la parola figli . Io, da vecchietto, ho sempre in mente quella canzone. E mi brucia che la redenzione invocata in quei versi tardi ancora così tanto a venire...
Delle dichiarazioni di Bertinotti che hanno provocato tante polemiche, cosa pensi?
Quando era presidente della Camera io ero più timido. Sono passati tanti anni. Non mi pare poi che Fausto sia quel terribile sovversivo che hanno raccontato i giornali borghesi...

sabato 8 dicembre 2007

l’Unità 8.12.07
Stati generali. Una sinistra troppe sinistre
di Gianfranco Pasquino


Gli Stati Generali convocati da Rifondazione Comunista, Pdci, Verdi e Sinistra Democratica costituiscono un appuntamento impegnativo. Si svolge all’ombra del segnale un po’ inquietante, lanciato da Fausto Bertinotti, tempestivamente e non casualmente, di certo inteso a segnare i confini e a indicare le prospettive. Secondo il loquace Presidente della Camera, il governo guidato da Prodi è come un “poeta morente”, anche se la sua morte effettiva può tardare. La eventuale costruzione di una sinistra tipo arcobaleno si inserisce in una situazione nella quale il centro-destra si è spappolato e il PD si è, invece, aggregato, ma è ancora nella fase di risoluzione dei problemi che qualsiasi partito deve affrontare.
Problemi come statuto, struttura, manifesto dei valori, codice etico, e si è lanciato verso riforme, istituzionali, elettorali, regolamentari che incideranno anche sulle fortune della sinistra arcobaleno. In queste condizioni e con la prospettiva di doversi prepararsi ad una eventuale e vicina campagna elettorale, la Sinistra arcobaleno deve offrire non soltanto una risposta organizzativa, comunque, di notevole importanza, ma, in special modo, una risposta politica che non sia egoistica e esclusivamente mirata alla sopravvivenza di ceti politici e di sigle.
Sarebbe ingeneroso, ma anche fattualmente sbagliato, sostenere che nel 2005-2006 e, finora, al governo, nel suo insieme la variegata Sinistra non abbia dato un contributo di impegno e di disciplina nei momenti significativi, ovvero di rischio per la durata in carica del governo. Nella maggior parte dei casi, ad eccezione della crisetta del febbraio 2007, i pericoli per il governo hanno fatto piuttosto la loro comparsa nei pressi del centro, fra i centristi più o meno di tipo “demdem” (molto “democristiani”) e teodem.
Tuttavia, quello che i partiti di sinistra che tentano finalmente una qualche forma di riorganizzazione non hanno voluto e probabilmente saputo fare riguarda la modernizzazione della loro cultura politica. Non si tratta soltanto di partecipare all’azione di governo e di sostenerla, anche se Rifondazione lo fa con grande esibita sofferenza. Si tratta soprattutto di aprire un confronto di tipo pedagogico con quella parte di elettorato che questi piccoli partiti di sinistra rappresentano e che sembrano volere, da un lato, incapsulare, dall’altro, blandire in maniera persino troppo ossequiosa. Eppure, che debba essere il partito, anche se piccolo, a guidare le “masse” è sicuramente un principio di azione politica alquanto noto alla maggior parte dei loro dirigenti politici (e praticato con vigore nel passato). Proprio per questo la Sinistra che verrà fuori dalla nuova aggregazione dovrebbe rispondere con precisione e approfonditamente alla domanda relativa ai suoi rapporti con quell’elettorato: ascoltarlo passivamente, sapendo che le giunge soltanto la voce dei più militanti di quei settori, oppure interloquire spiegando quali sono le prospettive di un’organizzazione politica che si definisce di sinistra in Italia, oggi e domani?
È comprensibile che la Sinistra arcobaleno cerchi di mantenere una sua presenza adeguata in Parlamento e che, di conseguenza, rifugga da un sistema elettorale proporzionale che abbia forti dosi di “disproporzionalità” come ha, più o meno incautamente, rivelato Veltroni a proposito della sua idea di legge elettorale. Il dilemma, però, non può essere accantonato. Consiste nella chiara alternativa tra ottenere rappresentanza parlamentare, ma trovarsi all’opposizione, potendo esprimere con tutte le mani libere le proprie preferenze economiche, sociali, politiche, con scarsissima capacità di incidere sulle scelte effettive, oppure contrattare quelle preferenze per conciliarle in un programma di governo che potrà essere attuato d’intesa con il Partito Democratico, ovviamente sapendo che non è il programma massimo di nessuno. Il rischio è che le varie componenti della Sinistra arcobaleno che sta per nascere preferiscano salvare la loro consistenza percentuale, probabilmente neppure tutta, senza affrontare nella teoria i nodi del loro compito politico e rifiutando nella pratica (cosa che rarissimamente avviene nelle altre sinistre radicali europee) di sporcarsi quelle mani libere nell’ardua opera di governare, in coalizione con il Partito Democratico, le contraddizioni di una società frammentata, individualista, egoista. Allora, il morente non sarà soltanto il governo, ma la stessa prospettiva di cambiamento che pure dentro quella sinistra molti vorrebbero suscitare e fare progredire.
D’altronde, anche nella ipotesi, che viene sollevata da alcune dichiarazioni e da alcuni comportamenti dei dirigenti della sinistra (e anche delle confederazioni sindacali), di un possibile ravvicinato ritorno alle urne, è augurabile che il centro-sinistra vi arrivi con il minimo di tensioni fra le sue componenti e soprattutto, contrariamente a quanto avvenne per un lungo anno dopo la netta sconfitta del 2001, pronto fin da subito a fare un’opposizione politica e programmatica di alto livello e di grande qualità. Insomma, anche se non si vuole e non si sa stare al governo, la Sinistra arcobaleno, e no, dovrebbe prepararsi culturalmente persino a stare all’opposizione nella maniera più efficace per rappresentare, non soltanto a parole, il suo composito elettorato.

l’Unità 8.12.07
La prima volta della Sinistra arcobaleno. Protesta annunciata dei «No Dal Molin»


Giordano: è il primo grande evento sulla scena politica, difenderemo le ragioni del mondo del lavoro e la laicità

Ferrero, Mussi, Bianchi Pecoraro: decisivo per un governo progressista discutere con chi si oppone alla base di Vicenza

I quattro ministri scrivono a Prodi: sulla base di Vicenza ripensiamoci. Ma la contestazione ci sarà. Non ci sarà invece l’Ernesto, corrente del Prc
Oggi e domani gli stati generali della Sinistra arcobaleno, ormai ex Cosa Rossa, si riuniscono alla nuova Fiera di Roma. Il sogno accarezzato dal presidente della Camera Fausto Bertinotti, si avvicina? Per Franco Giordano, segretario del Prc, non ci sono dubbi: «Si tratta del vero grande evento sulla scena politica del Paese che così potrà contare su una sinistra che difende le ragioni del mondo del lavoro e su una sinistra laica, una risorsa ben scarsa di questi tempi». Insomma da oggi, secondo Giordano, «non c'è più solo il Pd ma anche la sinistra».
A chi gli chiede se la federazione della sinistra si presenterà unita sotto lo stesso simbolo alle prossime elezioni, spiega che c'è «un simbolo comune, un segno grafico comune che ci impegniamo ad utilizzare nelle elezioni delle realtà più «rappresentative». E sui litigi di questi ultimi mesi, sdrammatizza: «Abbiamo espresso una dialettica viva, vivace, ma abbiamo anche compiuto tanto lavoro ed espresso il bisogno di unità che la gente ci chiede».
I nodi restano tanti: la forma-partito, ma anche il rapporto con il governo. Verifica sì, ma se per Mussi e Pecoraro Scanio, dovrà rilanciare l'azione del governo e le sue priorità, per Franco Giordano meglio consultare prima la base e dopo la verifica fare un referendum.
Ala Fiera di Roma hanno preannunciato la loro rumorosa presenza anche i comitati «No Dal Molin», in lotta contro l’allargamento della base Usa a Vicenza. Così i quattro ministri della Sinistra arcobaleno - Paolo Ferrero, Fabio Mussi, Alessandro Bianchi e Alfonso Pecoraio Scanio - hanno scritto a Prodi: «Ripensiamoci», «non abbiamo mai condiviso la decisione di dare il via libera all'ampliamento della base. Ma la questione è il rapporto tra governo e popolazione di Vicenza; riteniamo non sia possibile continuare come se nulla fosse, in una situazione in cui la sacrosanta richiesta dei cittadini vicentini di avere un referendum popolare sull'opportunità o meno di ampliare la base, è stata disattesa da chi aveva il potere di organizzare la consultazione». I ministri ricordano che nei primi sei mesi del 2008 si organizzerà una Conferenza nazionale sulle Servitù militari: «ti chiediamo di prendere ogni iniziativa utile per ricercare una soluzione rispettosa della dignità, della qualità della vita e dei diritti dei cittadini vicentini».
Bene, commentano dal presidio davanti al Dal Molin, ma «alle parole, però, devono seguire fatti concreti in grado di riaprire la questione politica e di far diventare la vicenda del Dal Molin una discriminante». Dunque i manifestanti confermano: verranno a Roma perché «le promesse fatte al movimento vicentino vengano mantenute: le nostre pentole suoneranno per pretendere questo, il rispetto degli impegni».
Intanto all’assemblea della Sinistra arcobaleno non mancano le defezioni, come l’Ernesto. Che chiede al Prc di ritirare i ministri dal governo «perché non ci sono più le condizioni». A Gianluigi Pegolo non piace il nuovo segno grafico né l’evanescenza del nuovo soggetto. Non ci saranno, ma non escono dal Prc.
I grassiani, invece ci saranno. Alberto Burgio, Essere Comunisti, aspira a una «gestione collegiale» del partito, dove comunque ognuno mantenga la propria collocazione. Ma intanto slitta il congresso che doveva farsi a marzo del 2008. Burgio mette le mani avanti sulle amministrative 2008. Liste comuni? «Non sta scritto da nessuna parte». Fa fede il documento della conferenza di organizzazione del Prc, che già parlava di un’unità di azione tra le forze di sinistra. Ma senza inficiare la sovranità dei partiti. Anche perché presentarsi uniti «in alcuni casi può essere conveniente, in altri un suicidio politico», come alle europee, «dopo le quali per altro gli eletti dovrebbero dividersi in tre gruppi: Gue, Verdi europei e Pse».

l’Unità 8.12.07
Il potere e gli impostori
di Carlo Alberto Viano


Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento di Carlo Alberto Viano nell’ultimo numero di “Micromega” in edicola da oggi. Il volume, intitolato «Per una riscossa laica», contiene 20 saggi dedicati al tema della laicità firmati anche da Gian Enrico Rusconi, Alessandro Dal Lago, Telmo Pievani, Marco Revelli, Eugenio Lecaldano, Gianfranco Pellizzetti e altri.

La parola “impostura” è quasi del tutto scomparsa dalla pubblicistica come dalla letteratura dotta, e al massimo viene usata nella conversazione privata, per indicare chi millanta capacità e posizioni fittizie allo scopo di ricavarne qualche vantaggio. Eppure quella parola è stata largamente presente in scritti che hanno contribuito a trasformare i nostri modi di pensare e di essere, usata da intellettuali si erano proposti di smascherare imposture collettive, prese sul serio nella vita pubblica. Fin dall’antichità storici come Erodoto o scrittori come Luciano di Samosata avevano svelato i trucchi, simili a quelli dei prestigiatori da fiera, di personaggi che esibivano poteri eccezionali. Perfino un moderato come Cicerone parlava degli inganni degli indovini, figure ufficiali della società antica, un po’ come i ministri delle religioni moderne. E Tito Livio, pur tutto preso dalla restaurazione augustea, mostrava come gli indovini manipolassero il sacro per adattarlo alle decisioni pubbliche più opportune. Machiavelli, che vedeva in Livio una buona guida per capire come nascono e funzionano le società, sosteneva che per metter su uno Stato bisogna ricorrere a imposture religiose.
Erano stati alcuni filosofi arabi a dire che la fede rivelata va bene per i semplici, mentre ai dotti bastano le verità razionali; e Maometto non aveva certamente parlato ai dotti. Finché il sospetto di aver forgiato una religione a fini politici toccava Maometto, la cosa andava bene ai cristiani; ma il contagio poteva diffondersi. Come soltanto con Romolo, senza le imposture religiose di Numa Pompilio, i romani non si sarebbero trasformati da banda di briganti a popolo civile, non si poteva dire che anche Mosè aveva escogitato credenze e pratiche religiose necessarie per costruire l’unità politica degli ebrei?
E Gesù? E se, quando si litiga sulle radici cristiane dell’Europa, la cosa più pratica fosse riconoscere in Gesù l’equivalente di Mosè, anche lui un grande impostore, le cui trovate potrebbero dare un’anima comune ai paesi europei? Non sarebbe neppure una novità, perché nella cultura europea ha circolato l’idea dei tre grandi impostori, Mosè appunto, Gesù e Maometto, i fondatori di quelle che oggi vengono chiamate, con una certa albagia, le religioni monoteistiche. (...)
Eppure storici e filosofi si affrettano a dichiarare che non è il caso di andare a discutere della reale possibilità degli eventi miracolosi, come se fosse disdicevole perfino rifiutarsi di credere che le case si spostino nei cieli. Ma non è un po’ ridicolo che chi fa la storia del miracolo di Loreto dica di non voler discutere se sia davvero avvenuto, come se una casa che vola nei cieli fosse un evento sul quale è prudente astenersi?
Recentemente si è parlato sui giornali e in trasmissioni televisive di Padre Pio, un personaggio che la stessa Chiesa aveva guardato con ostilità o sospetto; si è detto che ci sono prove che acquistasse di nascosto una sostanza urticante, ma si è subito sentito dire che non c’erano prove che la usasse per procurarsi le stimmate. I papi continuano a proclamare santi, riconoscendo un numero enorme di miracoli, e i giornali, anche quelli che pretendono di avere dignità culturale, ne danno notizia come se si trattasse di eventi accertati. Anzi ogni tanto viene annunciato che questo o quel personaggio, da Giovanni Paolo II a Teresa di Calcutta, ha fatto il miracolo, quasi sempre una guarigione, senza che nessuno batta ciglio, come se si trattasse di un normale fatto di cronaca. Il massimo che si senta a proposito delle imposture religiose è una posizione di tipo agnostico: per essere prudenti, rispettosi e di buon gusto bisognerebbe dire che non si è obbligati a credere nei miracoli come non si è obbligati a credere in Dio, ma non si può neppure escludere che i miracoli avvengano o che un essere divino esista. Oggi l’agnosticismo teologico incomincia ad apparire come una forma di reticenza, sostenuta da una filosofia piuttosto rozza, mentre l’ateismo sta riconquistando prestigio; e non c’è ragione di essere reticenti sui prodotti derivati delle credenze religiose, quali sono appunto le imposture.
Ma tant’è. Quando, alla fine del secolo scorso, le ideologie ottocentesche e novecentesche che avevano tenuto viva la critica illuministica alle imposture sono entrate in crisi, i movimenti che si rifacevano a quelle ideologie hanno dovuto andare in cerca del consenso senza fare affidamento sul valore intrinseco delle proprie idee, e ciò li ha spinti a cercare l’appoggio delle istituzioni religiose: la fine della critica religiosa è stato il prezzo che hanno dovuto pagare. Ho fatto una piccola ricerca personale, che vale quello che vale, sulle ricorrenze della parola “impostura” nel dibattito contemporaneo: non soltanto ho constatato che la si usa pochissimo, ma ho visto che le sue rare comparse sono molto istruttive. Come c’era da aspettarsi, è del tutto assente negli scritti di conservatori e tradizionalisti, mentre compare qualche volta in interventi assegnabili alla sinistra. La “grande impostura” è la ricostruzione ufficiale dell’attentato dell’11 settembre e della distruzione delle torri gemelle a New York. Imposture sono le teorie economiche di carattere matematico, messe sempre insieme ai programmi liberistici e attribuite sempre alla scuola di Chicago. Non c’è nulla di male nel mettere in dubbio la ricostruzione ufficiale di un evento, ché anzi si dovrebbe sempre vigilare sugli atti pubblici di un paese; ma allo stato delle conoscenze è difficile dire che quella ricostruzione sia una impostura o che lo sia più delle ricostruzioni alternative, tutte ispirate a posizioni ideologiche. E il mettere indiscriminatamente insieme scuola di Chicago, teorie economiche matematiche e liberismo è piuttosto imprudente; e comunque quelle teorie e quei programmi adducono ragioni che nessuno pretende di sottrarre alla discussione pubblica. Ma è significativo che negli ambienti nei quali pudicamente si tace sulle imposture religiose si consideri l’economia neoclassica come una religione (e il termine assume un senso negativo solo in questo caso) e come un insieme di imposture. Anche Hobsbawm, che nel Secolo breve si intrattiene assai poco sulle religioni storiche del ventesimo secolo, bolla l’economia matematica contemporanea come una vera e propria teologia e condanna i suoi cultori come adepti di una setta. Che l’economia matematica sia una disciplina scientifica e che, come tale, possa essere discussa e criticata con gli strumenti propri della ricerca scientifica e, in particolare, con quegli stessi strumenti che essa adopera, non viene mai preso in considerazione, né si tien conto del fatto che invece le imposture religiose e politiche pretendano di giustificarsi con strumenti straordinari, diversi da quelli dei quali si avvale qualsiasi accertamento scientifico. In conclusione le vere imposture sarebbero creature del capitalismo americano. Le superstizioni diffuse e gli stregoni che le sostengono possono stare tranquilli: non sta bene escludere guarigioni miracolose, stimmate e case che volano, perché bisogna essere rispettosi e poi non si sa mai; ma Chicago e New York, questi sono i luoghi delle imposture. (...)
La cultura contemporanea si è trovata così disarmata di fronte alle imposture, indotta a tacere sulle loro falsità. Si può capire benissimo che preti e politici abbiano bisogno di imposture, che debbano promettere ciò che non possono fare e tacere su ciò che effettivamente fanno. Si capisce anche che manipolatori di idee e produttori di convinzioni li aiutino; ma qualcuno potrebbe pur dire che certe cose sono false, anche se si invoca il rispetto dovuto a istituzioni e credenze religiose per far tacere chiunque dica che i libri sacri sono pieni di imposture, che i preti sono anche impostori, che quello di san Gennaro è un imbroglio. Ma la verità non è rispettosa, e le imposture non sono faccende complicate, di quelle per le quali viene da dire "chissà dove sta la verità?". Sono banali falsità: sospendere il giudizio su risurrezione dei morti o case che volano è soltanto ridicolo. I filosofi teneri con le imposture invocano l’incertezza delle nostre conoscenze, il carattere soggettivo delle stesse conoscenze scientifiche, la non corrispondenza tra discorsi veri e realtà, magari invocano Gödel per liberarsi dal vecchio adagio che la matematica non è un’opinione e non smettono di proclamare che le parole vengono prima delle cose. Il telescopio per guardarsi i piedi: per difendere le imposture va messo in campo un bagaglio onerosissimo, mentre per confutarle basta pochissimo. La Verità chissà dov’è, ma ci sono alcune cose vere e alcun false: tanto basta per mettere a nudo le imposture, almeno quelle diffuse e grossolane.

l’Unità Roma 8.12.07
Coppie di fatto
Cambia il nome, ma la delibera va avanti
di ma.ge.


Che siano pure “Unioni solidali” e non “Unioni civili”. Ma sul riconoscimento delle coppie di fatto Sinistra e Rnp non hanno intenzione di fare marcia indietro. Ribadiscono che porteranno in aula la delibera per l’istituzione del Registro, iscritta all'ordine del giorno dei lavori, ma già bocciata da Pd e Udeur. Con alcune modifiche al testo. La prima, appunto, sta nel nome del Registro che sarà “delle Unioni solidali» e non «civili». La seconda sta nelle premesse, che, interamente riscritte nel maxi-emendamento, fanno ora riferimento sia alla “tutela assegnata alla famiglia dall'articolo 29 della Costituzione”, sia al programma elettorale di Veltroni, che Il nuovo testo riprende e reinterpreta parlando di un “registro amministrativo e anagrafico che consenta all'amministrazione di svolgere azioni positive” verso le coppie di fatto, laddove il programma si limitava a rivendicare e rilanciare la scelta di erogare servizi in base alle “famiglie anagraficamente conviventi, prendendo così atto delle forme liberamente adottate dai cittadini e dalle cittadine per le scelte di convivenza e di registrazione anagrafica”.
Il fatto è che nella delibera resta il punto che divide la Sinistra e il Pd. Ovvero: “Che la presente proposta assume valore di “libero impegno” tra i contraenti in quanto promessa di affetto e solidarietà”. Insomma il riconoscimento dei “vincoli affettivi”. Cosa che secondo il Pd non compete al Comune: “Specie ora che in parlamento c'è un testo di legge per il riconoscimento delle coppie di fatto”.
Il Pd, pronto a presentare un odg che rivendichi la politica non “discriminatoria” del comune e anticipi la delibera quadro proposta da D'Ubaldo per risistemare la materia anagrafica e istituire un “Registro delle Solidarietà”, ha già detto che voterà contro la delibera (“puramente simbolica e senza conseguenze pratiche se non quelle di dividere la maggioranza”). E fa pressing perché Sinistra e Rnp la ritirino.
Ma dai capigruppo di Rnp, Sd, Prc, Verdi e Pdci, arriva un secco no: “Abbiamo presente la simbolicità dell'atto, ma qui si tratta di decidere se la mettersi in ginocchio davanti ai poteri di oltretevere o meno”.

Repubblica 8.12.07
Il Bene, il Male e il Bello


L'arte è un patto con il diavolo o con Dio? Che la grande ispirazione, quella che mette le ali all'immaginazione e alla creatività, abbia bisogno di qualcosa di soprannaturale per elevare l'artista oltre la dimensione domestica e tranquilla della quotidianità, è un motivo ricorrente nella rappresentazione culturale dell'Occidente, e la vicenda di Faust che stringe un patto di sangue con Mefistofele è lì a ricordarcelo.
Ma dato che il Bene è pienezza d'essere, pleroma compiuto, pacioso e sazio di sé, il Male invece torsione e tormento, c'è chi è incline a credere che sia più il Maligno a generare quella inquietudine profonda, quella tensione intensa, che l'artista sublima nel grande capolavoro.
Insomma, c'è una fosforescenza del Male che attrae l'occhio più che la luce del Bene.
Ne era probabilmente convinto l'indimenticato Enrico Castelli (1900-1977), pensatore originale e di ampie vedute, che per trent'anni fu docente di filosofia della Religione nell'università La Sapienza di Roma e che in questo splendido libro Il demoniaco nell'arte si dedica alla categoria di cui si era innamorato e che era diventata la sua grande passione: il demoniaco.
Ma che cos'è e quando insorge questa deforme torsione dell'Essere e della Vita? Quando - ecco l'illuminante risposta di Castelli - «è definitivamente perduto l'essere di cui è impossibile rintracciare il principio e la fine. Il demoniaco è questo non-essere che si manifesta come aggressione pura: lo stravolto». Il demoniaco è l'abissale tentazione della finitudine, che può essere superata soltanto in un modo: partecipando al divino. L'arte che ha cercato di rappresentare con le sue risorse simboliche la tentazione del demoniaco ha dovuto lottare con il mostruoso per raffigurarlo e per dare corpo alla disgregazione dell'Essere: «A questo senso dell'orribile indefinito; il senso di ciò che non ha natura, anzi, ciò che è peggio, che è definitivamente snaturato».
Scritto oltre mezzo secolo fa, all'indomani di quel "trionfo della morte" che fu la Seconda guerra mondiale, Il demoniaco nell'arte è una «filosofia dell'arte sacra» di cui oggi siamo in grado di apprezzare ancor meglio l'originalità, la profondità e lo straordinario interesse, grati all'editore che l'ha ripubblicata.
Come osserva acutamente nella premessa Enrico Castelli junior, curatore della nuova edizione, una filosofia o ermeneutica dell'arte sacra è qualcosa di profondamente diverso dall'estetica: «La prima cerca il senso, mentre la seconda cerca di riconoscere le norme e i modi dell'esperienza estetica. Per l'estetica l'arte è una ragion d'essere, per la filosofia essa è una occasione».
Forte di siffatte intuizioni, Castelli dà vita a un affascinante dialogo tra arte e filosofia, fenomenologia del sacro e iconologia, storia delle idee, storia dell'arte e della cultura, raccogliendo e commentando uno sfavillante repertorio iconografico che si consulta con la curiosità e l'attrazione con cui si legge un romanzo. Il suo lavoro, le sue analisi trasversali, gli scorci arditi che apre intersecando spazi disciplinari solitamente separati ricordano da vicino il metodo di Aby Warburg, da lui messo in atto e interpretato con l'acume e la sensibilità del teoreta.
Nell'abbondante materiale esaminato campeggiano i pittori nordici, soprattutto i fiamminghi primitivi, Bruegel e Bosch. Non compare invece alcun artista moderno: quando Dio muore, o si ritira, anche l'arte abbandona il demoniaco. Ma se l'arte è la creazione che accade quando demoni o dèi si impossessano di una carne mortale e macchiano la storia con il suo sangue, vien fatto di domandare: l'arte è più vicina all'inferno o al paradiso?

Repubblica 8.12.07
Beirut
di Adonis


Beirut come non-luogo, città dell´emergenza, dove gli abitanti non convivono, ma si respingono l´un l´altro. Il più grande poeta di lingua araba delinea un ritratto in chiaroscuro della capitale libanese

Beirut, nella mancanza di una memoria comune e di una storia comune, non è disposta che a copiare e imitare - imita l´Occidente moderno. E se da Beirut togliamo i segni dell´Occidente, rimangono solo due cose: la Chiesa e la Moschea. Ma la tragedia maggiore che si profila all´orizzonte è un´epoca in cui non vi saranno nemmeno la Chiesa e la Moschea. La città sarà impotente e inadeguata a qualsiasi cosa che non sia un mercato tra i tanti già esistenti.
Beirut è un insieme di raggruppamenti religiosi. Dico religiosi per evitare la parola "confessionali" (ta´ifiya), che il frequente utilizzo ha privato di ogni senso. Ogni raggruppamento religioso crea il proprio centro, intendo dire la propria città esclusiva all´interno della stessa città. E tali raggruppamenti non si organizzano solo coi pensieri e le idee, ma anche col lavoro e l´immaginazione.
Il conflitto a Beirut non è solo scontro tra classi oppresse e classi dominanti, o tra poveri e ricchi, è anche uno scontro di valori estremi e di idealismi. Contrariamente a quanto normalmente si afferma, si potrebbe dire che si tratta dello scontro tra le profezie sulla vita e l´aldilà. Ed è questo a rinvigorire lo scontro di piaceri e di poteri. È uno scontro che diventa in certi momenti più teso e violento, che si esprime a volte silenziosamente, a volte gridando, a seconda del ritmo con cui evolve il mondo contemporaneo (dinamismo che fa capire alle parti in causa quanto siano escluse da questo movimento), ovvero assecondando la volontà di contrapporsi a esso per un desiderio di ritornare alle proprie radici e di raccogliere l´identità dispersa.
Che Beirut non sia una società coesa è, dopo quanto si è detto, abbastanza ovvio. Ed è difficile, pertanto, che possa essere una città unita. I suoi abitanti non convivono, sono uguali nei diritti come nei doveri, ma si respingono, ciascuno cercando di prevaricare l´altro. Come se l´energia di Beirut fosse preventivamente dilapidata: impiegata per metà del tempo per disperdere questa vitalità fuori dei propri centri e l´altra metà per ricomporre, nel tentativo di mettere d´accordo i componenti.
Diciamolo allora: a Beirut vi è una varietà etnica e culturale non minore di quella che troviamo nel bacino del Mediterraneo, per lo meno quello orientale. Una città come questa sarebbe destinata, in base alla sua posizione e alle sue possibili funzioni, oltre che all´unicità della sua composizione umana e culturale, a essere un luogo singolare per un incontro singolare, ossia per un´attività singolare.
Sennonché la vita reale conferma che gli esseri umani vivono in questo luogo come in un rifugio, non come in una città. Ognuno si aggrappa non alla città nella sua interezza, ma al proprio orticello, difendendolo. Volenti o nolenti, tutti esercitano le ostilità, l´opposizione reciproca, tra fermezza e letargia, ciascuno asserragliato nella sua posizione, nella sua roccaforte. Ciò che definiamo Stato non è che un´impalcatura esteriore, al cui interno si agitano dissidi e conflitti in forma legale o consuetudinaria. Tutto scorre, in questo luogo, per mezzo di un altro che viene da fuori. L´altro che è intermediario o alleato, patrono o protettore. Questo altro, lo straniero, è insieme parte organica dell´intelligenza e della fantasia. Le relazioni amichevoli con l´esterno compensano il conflitto che si svolge all´interno. Si tratta di un contrappeso sostanzialmente ambiguo.
Apparentemente, gli individui a Beirut vivono gli uni accanto agli altri. Ma tra un gruppo (fi´a) e l´altro si apre una distanza enorme e complicata. La distanza tra il quartiere di Achrafieh e quello Ras al-Nabaa, tra Ras Beirut e Burj Hammud, a titolo d´esempio, è maggiore, sul piano dei valori e delle aspirazioni, di quella che c´è fra ciascuno di loro e Parigi o Roma, il Cairo o la Mecca.
Ciò che più caratterizza una città è la sua attività, che si combina e si diversifica a seconda delle necessità, andando oltre i propri limiti geografici. L´importanza di una città si misura nella generosa intraprendenza con cui varca i propri confini in direzione dell´Altro.
Il fatto è che, quando guardiamo Beirut, ci appare come un corpo che combatte con se stesso, divorandosi. Beirut città non è affidabile né nella sua composizione umana, né in quella geografica.
La disfunzione di Beirut non dipende però dal controllo che si esercita su di essa dall´esterno. Le dichiarazioni che ci siamo abituati ad ascoltare a questo riguardo non sono che uno sviamento e una copertura: l´anomalia di Beirut deriva dalla sua incapacità di prendersi cura di sé. E essa stessa che si mobilita contro la propria realtà di città unita. Come se fosse composta di tante città, tante unità e culture. Se consideriamo le barriere che si oppongono alla sua evoluzione come città unita e combattono l´uguaglianza e la giustizia; se aggiungiamo a questo la crescita della disoccupazione e delle difficoltà che affliggono la sua gente, individualmente e collettivamente allora Beirut ci appare come una congerie di case, priva di ogni sentimento dell´ambiente e della città. Sembra che si muova in un modo che la fa esistere solo retoricamente o nella forma di iperboli.
La geografia di Beirut è quasi una mappa in miniatura dell´Oriente arabo: Siria e Iraq in particolare, ma includendo anche la Palestina e la Giordania. Leggiamo su questa carta geografica che la sola importanza della terra sta nel suo essere un "trono terrestre" o un ponte verso l´aldilà. Vi leggiamo inoltre che le relazioni tra gli esseri umani non si fondano qui su principi di cittadinanza, ma sul credo terreno o ultraterreno. Di conseguenza, ciò che definiamo società è in realtà una somma di atomi sconnessi e lo scontro avviene in nome di un trono "terrestre" a cui interessa l´unificazione di questo mondo (al-dunya), in previsione dell´unificazione della fine dei tempi (al-akira). È uno scontro che si compie con la violenza, con l´oppressione e l´ingiustizia. Leggiamo infine che senz´altro la liberazione dall´esterno è richiesta, ma lentamente e timidamente, non per stabilizzare la libertà ma perché il forte divenga ancora più forte, il potente ancora più potente, il ricco ancora più ricco. Simile processo guidato dall´esterno è una scommessa senza possibilità di riuscita, per una ragione fondamentale: un popolo può essere liberato dall´esterno solamente se già al proprio interno è libero.
Leggiamo poi in questa mappa che Beirut o l´Oriente che ho appena menzionato, è povero in ogni cosa. Una miseria che non è compensata che da due elementi: il potere e il denaro. La volontà più alta che muove gli individui e li orienta è la brama di ricchezza e di potere. Vattene, estinguiti, muori, per impossessarmi del tuo posto, così nella politica, nella religione, nella ricchezza, nell´arte, nella poesia e nella letteratura. Tutti vogliono vestire i panni di una persona che comanda, che dice la parola finale, una persona compiuta e senza difetti. È il perfetto nichilismo, rovesciato reciprocamente. Esaurisce in se stessa rapidamente l´esperienza umana, in tutti i suoi aspetti, nella cultura dell´imperativo e del divieto: nell´auto-assoluzione e nell´incriminazione dell´altro. Ci rivoltiamo alla prepotenza con un´altra prepotenza, alla religione con un´altra religione, alla tradizione con un´altra tradizione. È una semplificazione ingenua e ridicola. È la politica della morte in un mondo che appare fondato sull´annientamento reciproco.
Si tratta di un´immagine cupa di Beirut? Alcuni potranno senz´altro affermarlo. Ma Beirut, nonostante tale oscurità, poteva almeno sognare, gloriarsi delle sue chimere dopo che la propria realtà aveva provveduto a devastarla. Ecco però che il sogno anch´esso è sul punto di interrompersi, assalito da un incubo: quello della censura (raqaba) della sua lingua. In altre parole la censura non soffoca solo la realtà, ma anche il sogno. L´idea viva, l´uomo realmente vivo rifiuta di sorvegliare e di essere sorvegliato.
Accetta la sorveglianza e l´appoggia solo l´uomo che vive morto o il cui pensiero è morto. Beirut è ormai immaginata e vissuta come una città di paglia che può prendere fuoco alla minima scintilla verbale che la sfiori. Dal punto di vista politico, il regime che adotta la censura è come se dicesse alla sua gente: non avete un´intelligenza che vi dia la possibilità di distinguere il bene dal male, non avete la capacità di mutare l´ordine delle cose e di giudicarlo. Il vostro regime non sbaglia: si regge su queste priorità per il vostro bene e in vostro onore. A voi non resta che tacere, volenti o nolenti. Un regime siffatto governa una città e persone già morte. E non è che uno dei possibili travestimenti della morte.
Tuttavia, gli assertori della censura dimenticano che le idee imposte, così come l´imposizione del silenzio, sono per loro natura inefficaci. Ogni pensiero imposto all´uomo non è realmente degno dell´intelligenza e dell´uomo. E ogni idea cui si guardi come l´unica veritiera e perciò stesso eterna, non è che un cadavere, che esala e propaga l´odore della putrefazione.
Questi assertori della censura dimenticano inoltre le vicende della storia: essa ci insegna che le idee fallimentari sono cancellate dalla loro stessa diffusione, perché attraverso questo percorso sono messe alla prova e verificate, crollando sotto l´eccesso della propria forza.
Il peggio, in tale contesto, è che si guarda al pensiero come si guarderebbe a un delitto: proibire un´idea o un´opinione con il pretesto che sarebbero "nocive" o "distruttive", è una forma di disprezzo per gli uomini che le hanno divulgate e per coloro che da esse «sono riscaldati».
L´assenza di libertà d´espressione in una società non è solo indizio di una povertà giunta al grado più basso dell´umanità, ma è anche indizio della decrepitezza del pensiero e della lingua.
Sbagliamo dunque se riteniamo di poter imporre un pensiero con la forza, anche qualora esso fosse di natura religiosa.
Quale sarebbe l´utilità di prescrivere in modo coercitivo un pensiero o una religione? Ugualmente commetteremmo un errore qualora credessimo di poter vietare la diffusione di un´idea, imponendo la censura a essa e ai suoi autori. Né l´ordine, né il divieto si addicono all´uomo. Gli si addice la creazione di un clima che produca, con la libertà, la fine della bruttezza e della malvagità. La bruttezza è il riflesso di una data condizione: il suo soffocamento radicalizza questo stato. Bisogna lavorare per eliminare un fenomeno, ma attraverso l´eliminazione delle sue cause. E non vi è altra via per arrivare a questo obiettivo che la libertà.
Ed è in nome di questa libertà che mi sono permesso di formulare il seguente interrogativo: Beirut, oggi, è effettivamente una città o è soltanto un nome della storia?

Traduzione di Andrea Celli © 2005 by Dar-al-Saqi, Beirut © 2007 by Edizioni Medusa

Corriere della Sera 8.12.07
Scoperto un ritratto del grande pisano eseguito a carboncino e gesso rosso
Galileo, il genio vanitoso «Questo è il suo vero volto»
di Giovanni Caprara


L'esperto: «Il pittore lo ha dipinto senza abbellirlo»
Lo scienziato commissionò l'opera nel 1624 a Ottavio Leoni: per 18 anni la tenne esposta nella sua casa di Arcetri. L'autenticazione è avvenuta all'Università di Padova

PADOVA — E' uno sguardo che racchiude la scienza dei cieli. Non si può osservarlo indifferenti e non sentirsi scrutati. Emerge, così, dalle pieghe del tempo un nuovo ritratto finora sconosciuto di Galileo Galilei. E' un disegno a carboncino e gesso rosso che il genio pisano ha tenuto con sé nella casa di Arcetri per 18 anni e che, forse, ogni tanto sbirciava, compiaciuto della forza che emanava. «Quando l'ho visto sono rimasto impressionato» racconta emozionato William Shea, che siede sulla cattedra galileiana dell'Università di Padova. E tra le pareti dell'illustre ateneo dove Galilei raccontava e spiegava quattro secoli fa le sue scoperte e la sua rivoluzione, il prezioso ritrovamento sarà presentato lunedì.
La storia inizia per caso vent'anni fa, quando l'ingegner Giovanni Nicodano, appassionato collezionista di ritratti, arriva da Biella per visitare a Milano una mostra d'antiquariato. Con stupore tra piccoli fogli ingialliti sul tavolo dell'antiquario Pietro Scarpa riconosce i tratti del grande scienziato. Quasi non ci crede, approfondisce, tratta e con gioia se lo porta a casa. Ha con sé il certificato di autenticità ma cerca altre conferme che non trova. Finché nel marzo scorso legge sul Corriere della Sera un articolo dedicato ad un acquerello della Luna di Galileo Galilei scoperto dal professor Shea. «Lo interpellai immediatamente — ricorda Nicodano — finalmente era l'interlocutore ideale». Le indagini scavano in varie direzioni per ricostruire la vita del disegno proveniente dalla collezione del conte Holtkott di Monaco. Ma i percorsi del foglio non sono facili da tracciare. Si sa che era stato venduto dalla nobile famiglia tedesca dopo la seconda guerra mondiale con altri quadri e Marcus l'ultimo discendente lo ricordava appeso nella casa del nonno. La ricostruzione fa però pensare che prima appartenesse alle collezioni del Museo Pushkin di Mosca che i bolscevichi in parte vendettero dopo la rivoluzione. Come fosse giunto lì nessuno ancora lo spiega.
L'autore del disegno è Ottavio Leoni, nato a Padova nel 1578 ma trasferitosi presto a Roma. Alla sua origine, però, ci teneva, tanto da farsi chiamare «padovanino». Diventò celebre come ritrattista di grandi personaggi della sua epoca dei quali restituiva un'immagine quasi fotografica, veritiera e densa di vita. Così raggiunse la fama e da lui andavano a farsi il ritratto uomini famosi come il Bernini e il Caravaggio. Anche Galileo, che sempre amò oltre la scienza i piaceri dell'esistenza, si invaghì dell'idea e quando nel 1624 si recò a Roma fece visita al Leoni chiedendogli di mettersi all'opera. Di solito egli faceva due copie: una la consegnava al committente ed un'altra la teneva con sé per poter effettuare, poi, delle incisioni. In questo caso, però ne preparò tre. Una, firmata e datata maggio 1624, è al Museo del Louvre a Parigi, dove non si sa come vi sia giunta, e una seconda non firmata è alla biblioteca Marucelliana di Firenze. «Del terzo esemplare, che spunta ora, non se ne sospettava l'esistenza ma tutti gli elementi portano a credere della sua autenticità a partire dal fatto che dal 23 aprile al 16 giugno Galilei era a davvero Roma», commenta Shea che coinvolge nelle indagini il professor Horst Bredekamp, illustre storico dell'arte della Humboldt-Universität di Berlino. Lo specialista tedesco certifica l'età della carta e giudica il disegno un prodotto impossibile per un falsario notando, in particolare, la rapidità e la freschezza del tratto.
«E' un magnifico ritratto umano — aggiunge Shea —, volitivo, ben diverso dai volti artificialmente ispirati del fiammingo Joost Sustermans o di quello giovanile di Domenico Tintoretto, figlio meno bravo del grande padre. Tra i sei diversi ritratti esistenti questo mostra il vero Galileo perché Leoni non ha abbellito il suo ospite».
Il terzo esemplare, anch'esso non firmato, se lo portò ad Arcetri lo scienziato tenendolo con sé fino alla morte. «Il figlio Vincenzo che era un pigro non avvertiva il senso dell'eredità — dice Shea —. Il disegno e altri documenti, passano nelle mani delle generazioni successive finché i discendenti nella metà del Settecento vendono tutto». E da qui prende il volo in direzioni misteriose approdando, probabilmente, a Mosca. E ora è tornato è tornato nella «sua» città. «E' un'opera che ci restituisce il Galileo a cui dobbiamo il grande contributo dato alla cultura — commenta Vincenzo Milanesi, rettore dell'università patavina —. Dal momento che ciò accadeva soprattutto quando insegnava nel nostro ateneo è giusto che esponiamo questa immagine capace di farlo di nuovo rivivere tra noi».

Corriere della Sera 8.12.07
L'orgoglio di mostrarsi senza maschera
di Giulio Giorello


Attenti a «coloro che vanno in maschera: o son persone vili che sotto quell'abito vogliono farsi stimar signori e gentiluomini», oppure si celano per poter godere della licenza di «motteggiare e contender senza rispetto» degli interlocutori e della verità. Invece, Galileo Galilei si piccava di polemizzare a viso aperto (come mostra quella sua battuta tratta dal "Saggiatore", 1623, rivolta contro l'avversario «Lotario Sarsi», ovvero il potente gesuita e matematico Orazio Grassi). Possiamo capire perché, pressoché nello stesso periodo, Galileo si fosse fatto ritrarre da un artista eccezionale come Ottavio Leoni. Vanità? Può darsi; ma anche spregiudicatezza e forza di volontà dell'uomo che, appoggiando l'occhio al "tubo ottico" (o cannocchiale), non aveva esitato a mandare in pezzi la cosmologia aristotelica. Poteva dunque sentirsi orgoglioso di quella sua faccia, lui a cui sarebbe toccato (processo e abiura del 1633), contemplare anche «la testa di Medusa», volto inesorabile del potere che pietrifica mente e cervello.

Corriere della Sera Roma 8.12.07
La polemica. Nuovo emendamento
Registro unioni civili Sinistra, Verdi e Rc scelgono la «terza via»
di Adriana Spera


Per la capogruppo di Rc «va rispettato il programma con il quale ci siamo presentati»

«Cerchiamo di venire incontro al Pd ma non accetteremo ordini del giorno che rimandano le decisioni alla giunta». Questo hanno ribadito ieri i capigruppi consiliari (Pdci, Prc, Socalisti, Sinista europea, Verdi e Sd) chiedendo che la discussione per istituire un registro delle unioni di fatto approdi in aula prima del bilancio.
Un nuovo emendamento sulle unioni civili si andrà ad affiancare a quello della vice sindaco Maria Pia Garavaglia. Accolta la proposta dell'assessore al Personale Lucio D'Ubaldo (che parla di unioni di solidarietà, cita il programma di Veltroni sulle unioni civili e toglie riferimento al sesso dei maggiorenni che contraggono l'unione), i capigruppo consiliari hanno sottolineato la loro disponibilità a percorrere «una terza via». Commentando la conferenza di giovedì del capogruppo del Pd Pino Battaglia e del coordinatore Riccardo Milana, il capogruppo del Partito socialista, Gianluca Quadrana ha detto: «Dal Pd o non capiscono o fanno finta di non capire. Nessuno di noi - ha aggiunto - fa riferimento alla famiglia anagrafica o mette in discussione quanto fatto di buono in termini di servizi dall'amministrazione comunale per le famiglie anagrafiche. Quello che vogliamo è il riconoscimento dei diritti e dei doveri e, quindi, il riconoscimento della coppia ». La capogruppo del Prc Adriana Spera ha invece sottolineato che va rispettato «il programma con cui ci siamo presentati ai romani».
«Rispetto le posizioni di chi voterà contro - ha detto - ma non chi, come è avvenuto giovedì, arriva a dire che danneggiamo le persone conviventi. Lo fa invece chi porta avanti una posizione attendista». A sostenere Spera anche il capogruppo del Pdci, Fabio Nobile: «I poteri forti come il Vaticano non devono imporsi sulle istituzioni». E il capo dei Verdi, Nando Bonessio ha citato un cartellone della fiaccolata di tre giorni fa: «Pd = Poi decidiamo. Non vorremmo che accada proprio così. Aspettiamo ancora di conoscere la posizione ufficiale del sindaco - ha concluso Roberto Giulioli di Sd - e chiediamo ai cittadini romani di partecipare alla discussione della delibera giovedì prossimo in aula Giulio Cesare.»

Aprileonline.info 7.12.07
Bertinotti verso la leadership a Sinistra?
di Giovanni Perrino


Dibattito. Il presidente della Camera ha dettato la linea politica con lo sguardo rivolto non solo al presente ma anche, e soprattutto al futuro, incoronandosi leader anche del nuovo soggetto unitario. Si inserisce dunque nella dinamica degli Stati Generali e chiede un cambio di passo rispetto a quello stanco e burocratico che ci sta portando ad essi. Spiace che socialdemocratici di Sd, veterocomunismi di Pdci e di una parte del Prc, e i riformisti del Pd non lo abbiano capito

L'intervista di Fausto Bertinotti a La Repubblica può essere ovviamente analizzata da vari punti di vista, ma l'imminenza dell'appuntamento dell'8 e del 9 dicembre induce a concentrare l'attenzione di chi sta cercando l'unità della sinistra sul significato apparentemente più nascosto, e dunque sulla relazione tra l'immediata scadenza e le prospettive strategiche che da essa dovrebbero aprirsi.

Il presidente della Camera, in buona sostanza, detta la linea - sono convinto che tutti a sinistra, contenti o risentiti, abbiano pensato questo- e lo fa - aggiungo io- con lo sguardo rivolto al presente ma anche, e forse soprattutto al futuro, incoronandosi perciò leader politico anche del nuovo soggetto.

Non siamo però di fronte ad una novità: la manifestazione del 20 ottobre era stata pensata dal gruppo dirigente bertinottiano di Rifondazione Comunista proprio per dare immediatamente -rispetto agli iniziali tentativi di coesione dei quattro partiti - il segno distintivo di una identità politica in sintonia con istanze di giustizia sociale, di libertà e di pace emerse dal panorama sociale per chiedere una svolta coraggiosa alla politica della sinistra e certamente non subalterna ad una concezione governista, inaccettabile in se, ma per giunta inadeguata, paradossalmente, al governo della società contemporanea; insomma era la conseguenza della scelta di perseguire l'unità non cedendo ai rigurgiti socialdemocratici (presenti in Sinistra Democratica) o veterocomunisti (presenti nel PDCI e nella minoranza di Rifondazione) che avrebbero bloccato qualsiasi ricerca di nuove identità e che avrebbero fatto del rapporto con i movimenti e con la cultura un mero sostrato elettorale.

Nella visione di un percorso di rinnovamento senza annullamento, né delle tradizioni storiche della sinistra, né del lavoro recente di ricollocazione strutturale della parte diessina contraria al PD, il discorso di Bertinotti dovrebbe dunque risultare positivamente integrato: pur tuttavia esso rappresenta, per volontà non detta, un altro momento di cesura importante, e un emblematico richiamo ad una pratica politica non disgiunta dalla teoria, ad una strategia non disgiunta dalla tattica, ad una capacità di leggere il lavoro quotidiano nelle istituzioni - e il governo è solo una di queste - in rapporto ai movimenti sociali e ideali, che non sembra avere tanti estimatori nei gruppi dirigenti degli altri partiti.

Eppure l'intervista si inserisce nella dinamica degli Stati Generali e chiede un cambio di passo rispetto a quello stanco e burocratico che ci stava portando ad essi. Spiace che le reazioni siano di sostanziale incomprensione da parte di una sinistra socialdemocratica o riformista chiusa in uno schema invalidato dalla fine del XX secolo - dato un potere economico che prescinde sempre di più da un vincolo sociale di appartenenza ad un mondo libero e democratico che per questa via dimostrava una sana contrapposizione alla dittatura sovietica - e da quella di un comunismo di maniera totalmente slegato dalle pratiche rivoluzionarie del presente. Spiace che non si comprenda la posta in gioco.

Oggi, di fronte all'autoritarismo del nuovo capitalismo, diventa necessario, vitale, proporre un'alternativa, una fuoriuscita dalla logica della competizione che inevitabilmente porta alla guerra autodistruttiva. Ed è possibile che tale proposta non sia come al solito religiosa, ma politica, e di sinistra, e che per questa via si dia sostanza e attuabilità ai valori della libertà, della uguaglianza, della solidarietà, della differenza di genere, del pacifismo, dell'ecologia...del Socialismo. Questa prospettiva, a me sembra evidente, può esplicitarsi solo in una autonoma elaborazione culturale non disgiunta da una altrettanto autonoma pratica politica, meno preoccupata dalla scelta tra governo e opposizione, più proiettata sul lungo periodo.
A che servono insomma gli Stati generali della sinistra? Semplicemente a decidere il posizionamento politico della sinistra rispetto a Prodi, Veltroni e Berlusconi? O a mettere in campo qualcos'altro?

il Riformista 8.12.07
Stati generali 1. Prc e maggioranza
Conflitti e politica non sono autonomi
E l'opposizione non è un disvalore
Bertinotti vuole superare il bipolarismo coatto
di Salvatore Buonadonna


La sfida che lancia Bertinotti è molto ambiziosa, guarda oltre il governo Prodi e punta sulla capacità e possibilità della sinistra di costituirsi come forza autonoma, portatrice di un programma e di un modello di sviluppo di alternativa. La nascita del Partito democratico ha destabilizzato la maggioranza e il governo e con ciò, anche per la responsabilità del presidente del Consiglio, è stato accantonato il programma, mettendo in mora il progetto dell'Unione.
Il protocollo del welfare prima, il rifiuto di accogliere le modifiche concordate e approvate alla commissione Lavoro dalla Camera poi, hanno mostrato come tra la tenuta dell'Unione e il ricatto del patto corporativo il governo ha preferito far pesare sul Parlamento il diktat della Confindustria. Da qui la necessaria separazione della dimensione tattica che attiene alla permanenza del governo da quella strategica che riguarda il quadro istituzionale e politico. La forzatura polemica che Paolo Franchi colloca all'interno di un articolo molto acuto e, soprattutto "oltre" la congiuntura, assume il carattere di una giusta sollecitazione a discutere della questione del governo e dell'opposizione. Su questo punto del «cordiale disaccordo» vale la pena soffermarsi anche per il modo dialogico con cui è stato posto. Giustamente Paolo Franchi non si pone il problema del «distacco della spina» quanto piuttosto quello della definizione della sinistra. Io penso che sia chiaro nel ragionamento di Bertinotti che non si tratta di guadagnare l'opposizione come la terra promessa; ma certo come condizione per ridefinire l'autonomia necessaria affinché una forza politica di sinistra possa decidere liberamente la collocazione al governo o all'opposizione sulla base delle scelte politiche e dei mandati elettorali.
Si tratta, in sostanza, di superare il bipolarismo coatto che per quasi quindici anni ha alimentato la formazione di coalizioni "contro" piuttosto che alleanze politiche, magari di compromesso, finalizzate a guadagnare il governo in funzione di obiettivi programmatici condivisi. Questo bipolarismo ha reso possibile al partito di maggioranza della coalizione e al presidente del Consiglio di far valere la stabilità di governo come cemento della coalizione. Per di più dovendo acquisire la maggioranza dei consensi, dato il sistema elettorale, ogni coalizione è attratta verso posizioni sempre più indifferenziate, che vengono definite «centrali», «moderate» o «riformiste», comunque omologate nella funzione di amministrazione dell'esistente. Da questo punto di vista valuto con diffidenza alcune affermazioni che, prendendo le distanze da Bertinotti, dichiarano che occorre preventivamente definirsi «forza di governo». Se questa forza di governo non dovesse vincere le elezioni perderebbe dunque la propria ragion d'essere?
Forse non andrei lontano dal vero se penso alla mobilità con cui taluni esponenti politici si ricollocano in funzione delle coalizioni vincenti e dall'altra parte se si riflette alla forte spinta a superare la politica verso una amministrazione caratterizzata dal ruolo dei tecnici assunti come portatori di efficienza non condizionata dalla rappresentanza dei bisogni e degli interessi che segnano la politica. Occorre uscire dall'approccio definitorio per cui esistono forze votate al governo e altre votate all'opposizione e riscoprire così il valore del conflitto sociale e della battaglia delle idee come cardini di progetti di società. Si tratta di superare la regressione culturale, alimentata da tanta interessata letteratura e giornalismo, per cui l'opposizione sociale, politica, parlamentare sia un "disvalore", una sorta di "non politica". Questa regressione è stata funzionale alla delegittimazione delle ipotesi politiche della sinistra, alla riduzione della politica a fattore "tecnico" agito da un ceto separato, alimentando la nascita e lo sviluppo di formazioni politiche disancorate dalla rappresentanza sociale.
È evidente che una forza politica quale quella che intende mettersi in moto oggi con la riunione degli Stati generali della Sinistra, proprio in quanto intenda dare soggettività politica al lavoro e alle donne e agli uomini che lo incarnano, non può non porsi l'obiettivo di acquisire ed esercitare potere in ragione del perseguimento dei propri obiettivi in quanto questi corrispondono agli interessi di questi soggetti. In questo senso è forza di governo e lo rimane anche se, in ragione dei risultati elettorali, dovesse svolgere il ruolo di opposizione. Ha ragione Franchi a dire che il dilemma è antico; ma è pur vero che solo con l'affermarsi del pensiero unico la funzione di governo si è progressivamente "autonomizzata" rispetto agli interessi in conflitto nella società e ha subito una torsione tecnicistica.
Da questo punto di vista, proprio perché Paolo Franchi riconosce che non è certo responsabilità di Bertinotti e di Rifondazione la perdita di fisionomia della sinistra larga, bisogna investire sulla strategia basata sulla costruzione di alleanze tra forze autonome e con pari dignità. Se per giungere a questo serve la tattica di sopravvivenza costruita all'opposizione ciò è certamente preferibile rispetto alla possibile liquidazione di ogni ipotesi di sinistra politica.

il Riformista 8.12.07
Stati generali 2 Dini utile furbo
Abbiamo baciato parecchi rospi. Ora un nuovo patto di governo
di Pietro Folena


L'intervista di Repubblica a Fausto Bertinotti ha suscitato una serie di reazioni, a mio parere, ben poco giustificate. Alcune, penso a quella di Enrico Micheli, persino materialmente infondate: in tutto il mondo occidentale gli speaker delle Camere parlano di politica, del governo in carica, per criticarlo o per appoggiarlo. Sono ben pochi gli esempi di presidenti del parlamento che non siano protagonisti della politica. L'apice è rappresentato dagli Usa, dove il presidente del Senato è il vicepresidente federale e dove nessun sottosegretario si sognerebbe di contestare a Nancy Pelosi di non avere «senso dello Stato».
Fatta questa doverosa premessa di diritto costituzionale comparato, passiamo al merito. Bertinotti ha detto alcune cose che sono davanti agli occhi di tutti. Solo una politica lontana dal sentire comune e dalla realtà sociale del paese (quella politica che genera l'antipolitica) può negare che non esista più il patto di governo con il quale ci siamo presentati alle elezioni e che si sia incrinato un "sentire comune" con gli elettori delle primarie. In questo anno e mezzo, non molto di quel patto (un patto non tra noi, ma con i nostri elettori) è stato realizzato. Di contro, sono state portate avanti, e a volte si sono realizzate, proposte che in quel patto non c'erano o erano persino in perfetta contraddizione con il patto stesso.
Negare questa banale verità mi pare impossibile.
Sul piano più squisitamente politico, si è rotto l'accordo tra le forze moderate e la sinistra. Dalla base di Vicenza, all'Afghanistan, dal protocollo sul welfare che lascia aperta, spalancata, la porta alla precarietà, fino alla stessa riforma delle pensioni che parte da presupposti inesatti sul piano economico ma esattissimi su quello ideologico.
Progressivamente, l'esecutivo si è allontanato sempre di più da parte della sua maggioranza e dal popolo della sinistra. Per fare ancora un esempio, latita la legge sull'immigrazione, mentre il governo vara un decreto sulla sicurezza i cui contenuti suscitano il richiamo preoccupato e formale del parlamento europeo al rispetto dei trattati.
Sui temi economici il governo sembra ostaggio di pochi senatori il cui obiettivo principale pare essere l'accanimento contro i precari e la difesa dei supermanager.
La sinistra, con responsabilità, ha accettato di baciare molti rospi. Ma non si può pretendere da essa di essere - come si dice - cornuta e contenta.
Fin qui cose note a tutti. E allora che senso hanno le critiche a Bertinotti? Ci si aspettava forse un applauso entusiastico?
La seconda cosa che Bertinotti ha sottolineato è l'autonomia della sinistra. E questo alla vigilia dell'assemblea di oggi e domani, che speriamo dia il via ad un percorso verso una vera e propria nuova forza politica. E alla vigilia di una verifica di governo. Le tre cose sono chiaramente legate. La verifica ha senso se è un confronto tra il Pd e la sinistra, nel loro insieme, non tra Rifondazione e Prodi. L'assemblea della Sinistra è utile se da essa nasce una nuova sinistra, non ancillare rispetto al Pd, ma concorrente. Quindi autonoma. Quindi non pregiudizialmente "al governo", purché sia. Ma al governo sulla base di un nuovo patto su salari e precarietà. Aggiungo io: su scuola, saperi, diritti della persona. Tutto si tiene.
Il terzo aspetto evidenziato da Bertinotti è la riforma del sistema politico, a partire dalla legge elettorale. È del tutto evidente che si tratta di una precondizione. Non è accettabile una legge, come quella che uscirebbe dal referendum, il cui effetto sarebbe la cancellazione dell'autonoma presenza della sinistra.
Tutto ciò però, non è il frutto di un destino cinico e baro. Ma di una operazione politica, quella del Partito democratico, che oggettivamente ha avuto finora successo nell'imporre un "timone riformista-moderato" alla coalizione. Dini è solo un fortunato accidente, un "utile furbo" (perché certo idiota non è) che facilita la torsione moderata della politica del centrosinistra.
E qui arriviamo alle insufficienze della sinistra. Perché di fronte a questa operazione la nostra risposta è stata inadeguata. Sul welfare abbiamo marciato divisi. Sulla legge elettorale pure. Per non parlare del 20 ottobre. Diamo continuamente motivo ai nostri elettori di vederci disuniti. Non voglio fare la parte del professore di politica, ma in tutta onestà credo che occorra pure dire che si tratta di errori che sarebbe stato meglio evitare.
Così come, oggi e domani, va evitato l'errore di ridurre tutto ad un patto elettorale, come vorrebbe qualcuno. O alla presentazione di un "segno grafico" (simbolo è una parola troppo impegnativa?) per le elezioni. Se così fosse, ha ragione Armando Cossutta, sarebbe un suicidio politico per tutti. Non mi illudo che dall'assemblea esca fuori l'annuncio di un partito unico. Magari. Anche al di là della volontà dei singoli. Per questo le associazioni di sinistra hanno lanciato un appello e si vedranno stasera in un workshop autogestito per elaborare delle proposte comuni da portare al confronto con i partiti e spronarli a mollare gli ormeggi.

il Riformista 8.12.07
Due Blocchi oltre il socialismo
di Emanuele Macaluso


Dai giornali ho appreso che oggi l'atto di nascita della Cosa rossa sarà firmato anche da Achille Occhetto e Pietro Ingrao. Al quale - data la sua età e la sua storia - rivolgo un saluto affettuoso. Del resto questo è un approdo coerente con la sua scelta fatta nell'89 quando si oppose alla svolta di Occhetto. Il quale, invece, dopo un viaggio tortuoso e accidentato si ritrova "ingraiano" cioè torna al punto di partenza giovanile.
In queste mie osservazioni non c'è nessun richiamo morale alla coerenza, c'è invece la lettura di un processo politico che il Partito democratico ha accelerato e messo a nudo, chiudendo un cerchio: da una parte c'è il partito di Veltroni e dall'altro la coalizione rossa in cui si ritrovano Ingrao, Cossutta, Occhetto, Bertinotti, Mussi, Diliberto, e altri. Due blocchi che hanno sempre teso a "superare" il riformismo socialista. E infatti in Europa entrambi vogliono andare "oltre" il Partito del socialismo europeo.
Non mi stupirei se in futuro saranno questi i due poli che si incontreranno per formare una maggioranza di governo. È triste vedere come tanti esponenti del riformismo socialista, da Amato a Ruffolo, da Ranieri a Morando, siano coinvolti in questo approdo. Ne riparleremo.

il Riformista 8.12.07
Cosa Rossa Oggi gli Stati generali
Ancora non nasce, ed è già verifica
Sul governo, ancora divisioni tra Rifondazione, Pdci, Verdi e Sd
di Alessandro De Angelis


Che la Cosa rossa ("la Sinistra-l'Arcobaleno") nasca oggi, tecnicamente, ancora non si può dire. Ma che almeno provi a mettersi in cammino, questo sì. Gli stati generali della sinistra che si svolgono questo fine settimana a Roma saranno, innanzi tutto, un tentativo di partire uniti e, perché no, di rianimare le truppe dopo un periodo certo non facile per la sinistra dell'Unione: «Va che è una meraviglia. Ci sarà una marea di gente da tutta Italia. Questo è il fatto politico» afferma il deputato di Sd Carlo Leoni. Eppure, per essere un battesimo vero e proprio, c'è ancora qualcosa di più di un'incertezza: su tutte, non si sa ancora se il simbolo che verrà presentato (quello con l'arcobaleno) sarà usato alle prossime amministrative. Per ora viene definito un «segno grafico», non politico. Non solo. Non si sa neppure se quello elettorale, una volta ufficializzato, sarà presentato ovunque o, come sembra, valutando caso per caso. E poi, ad oggi, la Carta dei valori non scioglie né il nodo della collocazione internazionale dei soggetti costitutivi (il Prc rimarrà nella Sinistra europea, Sd nel Pse, i Verdi con il gruppo ambientalista, il Pdci nella Sinistra unitaria europea) né la forma organizzativa, visto che i vari partiti dovranno svolgere, su questi temi, i propri congressi. Fin qui nome e carta d'identità.
Se queste sono le premesse, oggi Prc, Pdci, Verdi e Sd cercheranno soprattutto una spinta a intraprendere un cammino, il più unitario possibile. Per andare dove? Questo è difficile da prevedere, ma una cosa sembra assai probabile: l'annunciata verifica di governo rappresenterà - paradossalmente ma non troppo - una sorta di verifica anche della nascente Cosa rossa. In che senso? Rifondazione vuole una verifica «vera», il cui esito è tutt'altro che scontato, dal momento che l'incrocio tra legge elettorale e confronto con Prodi rappresenta un passaggio assai stretto. E gli alleati? Sd balbetta, il Pdci valuterà i singoli provvedimenti ma non vuole rompere e i Verdi fanno quadrato attorno al Prof anche a costo di uscire dalla Cosa rossa. Ma Rifondazione, sul punto, non cede. Spiega Alfonso Gianni: «Così non si può andare avanti ed è evidente che bisogna decidere cosa fare per la parte restante della legislatura. Le priorità della verifica devono essere i temi della precarietà e la questione salariale. Sul primo punto bisogna ad esempio modificare la norma della legge 30 sulla cessione dei rami d'azienda. Sul secondo vanno prese misure, si chiamino fiscal drag o abbassamento delle aliquote, che portino più soldi nelle tasche dei lavoratori. D'altronde sono anche le proposte dei sindacati. Il governo deve battere un colpo». Tradotto: rispetto all'intervista di Bertinotti il giudizio su Prodi, dalle parti di Rifondazione, non è mutato.
Nella consapevolezza che i numeri sono incerti (vai alla voce: Senato) il Prc proverà ad alzare l'asticella per ottenere qualcosa che considera più realistico: farà battaglia sul disegno di legge Alleva contro la precarietà per ottenere ritocchi alla legge 30. E ancora, chiederà una diversa strategia per l'Afghanistan per ottenere un taglio alle spese militari. E proverà a far approvare la Amato-Ferrero. La permanenza al governo, dicono in via del Policlinico, è subordinata a questi obiettivi. Ma la questione principale è la legge elettorale. Afferma Gianni: «Il problema è sul tappeto nonostante i nervosismi di Prodi e Pecoraro Scanio. Noi insistiamo sul modello tedesco. Se dura Prodi bene altrimenti serve un governo istituzionale per le riforme».
Di tutt'altro parere i Verdi, che all'asse col Prof proprio non rinunciano e che, nonostante abbiano incassato l'arcobaleno nel nome e nel simbolo, qualcosa di più di un retropensiero sulla Cosa rossa lo mantengono. Il capogruppo alla Camera Angelo Bonelli dice: «La verifica? Per noi questo governo va sostenuto, certo va anche rilanciato ma se dovesse cadere non appoggeremo governi istituzionali. L'alternativa sono le elezioni anticipate. E aggiungo che ovviamente non parteciperemo alla consultazione che promuoverà Rifondazione per decidere se rimanere o meno al governo». Poi chiarisce la proposta dei Verdi: «Il bipolarismo va mantenuto e il modello di legge elettorale cui facciamo riferimento è quello delle regionali, sia pur riveduto e corretto. Il che significa dichiarazione delle alleanze prima del voto e premio di maggioranza».
E Sd? La capogruppo alla Camera Titti Di Salvo sulla verifica mette i paletti: «Non si può negare la crisi politica in atto. E per questo dobbiamo, come maggioranza, chiarirci le idee e ristabilire le priorità programmatiche a partire dal lavoro e dalla lotta alla precarietà. L'ottica però è rafforzare il nostro rapporto col paese. Non vogliamo decretare la morte di Prodi e nemmeno andare verso un esecutivo istituzionale». Oggi comincia la verifica nella Cosa rossa. A gennaio quella col governo.

il Riformista 8.12.07
I laiconi, gli atei devoti e la fine perversa della modernità
La teologia di Benedetto XVI pretende il monopolio dell'umano
di Orlando Franceschelli


Il ritorno alla sfiducia antropologica di Agostino

Il garbo è il sale del confronto. Non solo perché - di questi tempi! - preserva il bene dell'urbanità. C'è di più: nasce dall'onestà con cui si sanno raccogliere le sfide e persino le inquietudini che le ragioni altrui recano alle nostre. È appunto con questo garbo riconosciuto da Giuliano Ferrara ( Il Foglio , 5 dicembre) che va soddisfatta anche la cortesia da lui chiesta a «laiconi» come Scalfari o il sottoscritto: provate a capire l'enciclica sulla speranza. Senza pretendere che il papa dica ciò che vorreste sentirvi dire. Magari «nella forma rassicurante di un compromesso o dialogo all'insegna dello scambio» con una Chiesa costretta, per accogliere «furbamente» la modernità, a rinunciare all'intemporalità della propria missione.
Sgombriamo pure il sospetto di scambi e furbizie. Sollevato forse con garbo, ma certo ancor più con innegabile ironia da parte di un ateo assurto agli onori della gerarchia. Spesso ricambiata con una devozione più zelante di quella dei credenti che le prove della fede le patiscono davvero. Stiamo ai fatti: niente rinunce o inciuci compromissori. Né pretesi e né subiti. Forse non ne sarò personalmente all'altezza, ma è di dialogo che stiamo parlando. Tra una coscienza moderna che al mondo e all'uomo guarda col disincanto dell'emancipazione illuministica da verità e valori della tradizione teologica. E una fede impegnata a testimoniare se stessa riconoscendo però anche la plausibilità scientifica, filosofica ed etica di un simile approdo. Né scientista e né ideologico, ma critico.
È di questo dialogo alto, rispettoso e costruttivo - ce n'è un altro? - che anche la recente enciclica non riesce ad essere fermento. Essa infatti conferma la «fine perversa» cui sarebbe condannata la modernità che dalla grazia, fede e speranza donate da Dio - «Dal dono della grazia consegue che l'uomo abbia speranza in Dio» (Tommaso) - è passata alla loro alternativa: scienza, filosofia postmetafisica, saggezza terrena, solidarietà civile. Una conferma appunto. Giacchè una simile condanna ad una deriva di «nichilismo paralizzante e sterile» il papa l'aveva già pronunciata: «Privo del suo riferimento a Dio», l'uomo non solo non può rispondere alle domande che agitano «il suo cuore riguardo al fine e al senso della sua esistenza». Egli - non ha esitato a concludere Benedetto XVI - non può neppure «immettere nella società quei valori etici che soli possono garantire una convivenza degna dell'uomo» (3-11- 2006 ).
Nessuna pretesa di suggerire ai pastori come adempiere alla loro missione. E ancor meno che si facciano promotori delle ragioni e dei valori dell'incredulità moderna. Ma perchè ridurli a «desolazione dell'angoscia che conduce alla disperazione»? (ibidem). Questa è più di una mancata promozione. È una parodia denigratoria che quasi si stenta a capire. È antitetica ad altre - e alte - sensibilità teologiche: «L'uomo ha imparato a badare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l'ausilio dell'"ipotesi di lavoro: Dio" (…) ed è semplicemente falso che solo il cristianesimo abbia una soluzione» (Bonhoeffer).
Di più: è una teologia che finisce per alimentarsi delle ceneri di ciò che è umano. Perdendo così almeno un po' di quel «qualcosa di amabile (…) conforme alla peculiare natura del cristianesimo» che proprio Kant, nello scritto citato dall'enciclica, ammoniva comunque a non smarrire. È la teologia che induce a vedere nei Dico la minaccia alla dignità umana. E a tenere la salma di Welby fuori dal tempio. Non senza ragioni giuridiche, certo. Ma anche senza slancio di carità umana e ancor meno profetica.
Certo: chi fa parte del popolo di Dio saprà giudicare con senso della fede e della Chiesa ben più avvertito. Ma forse non si deve stentare poi molto per rinvenire in questa teologia non tanto il «dialogo leale» col mondo innegabilmente annunciato dal Vaticano II, quanto un ritorno ad Agostino. Alla sua pretesa che, grazie al circolo vizioso che presuppone già per fede ciò che poi la ragione trova, Cristo sia - come si legge anche nell'enciclica - il «vero filosofo». Nonché alla sua sfiducia antropologica, che lo induceva persino ad irridere come superba vanità la non sottomissione all'autorità delle Scritture e della Chiesa. Mentre lui, proprio e solo mediante questa sottomissione, riusciva a placare la disperante angoscia ( desperatio ) in cui si sentiva precipitare di fronte alle domande filosofiche sul senso della nostra vita.
Come la teologia agostiniana, anche quella del papa nega alla mente e al cuore dell'uomo ogni sapere-saggezza capace di evitare il naufragio interiore ed etico-politico. Vuole tutto per sé: la vera filosofia, la vera scienza, il vero illuminismo. In breve: il monopolio di ciò che è autenticamente umano. Un lusso che ormai nessuna teologia adulta può concedersi. Giacché la modernità è precisamente questo: l'epoca in cui la fede ha di fronte le plausibili ragioni dell'emancipazione dalla tradizione platonico-cristiana. E chi coltiva con sobrietà critica e saggezza solidale un simile approdo, si trova di fronte non solo fanatismo religioso o culto esteriore, ma anche una fede sorretta da sollecitudine di carità e giustizia, nonché dallo spessore e dal travaglio di una teologia pensosa che con la modernità si confronta in modo autentico.
Vogliamo provare veramente a sgombrare il campo da ogni parodia dell'incredulità e della fede? Dagli estremismi integralisti o ideologici che offendono la realtà? Questa è la precondizione del dialogo tra le ragioni plausibili che credenti e non credenti sanno portare nella sfera pubblica. Quello che papa Ratzinger - per tacere dei cardinali Ruini e Schönborn - sono tutt'altro che intenzionati a praticare. E che invece la rettitudine intellettuale e la laicità non temono. Anzi: ci educano a coltivare.
Un dialogo rispetto al quale - sia detto sempre col garbo di chi sa che ognuno fa seriamente con la propria ricerca - un'alternativa particolarmente perspicace non sembra offrirla neppure l'ateismo devoto. Un accostamento magari suggestivo. Ma destinato, se non a smarrire, certo a svilire le testimonianze più alte e feconde che sia l'incredulità che la fede - e proprio nella modernità - hanno saputo e sanno ispirare.
Post scriptum. Ferrara teme non a torto i passi di danza spesso eseguiti, anche da illustri politici, intorno a temi religiosi. Bene: niente giri di valzer. Ma qualche volta, direttore, ci piacerebbe dibattere non solo della sua devozione, ma anche del suo ateismo. Non lo escluda: se testimoniato con onestà, spesso si rivela un fuoco purificatore e bene accetto anche per chi, con onestà non minore, chiede a Dio di rivelargli il Suo volto.