martedì 11 dicembre 2007



In occasione dell’Assemblea della sinistra e degli ecologisti che si è svolta nelle date 8 e 9 dicembre alla Nuova Fiera di Roma, un primo gruppo di soggetti, sia individuali sia collettivi, ha promosso un confronto aperto e pubblico su: FORME, PRATICHE, LINGUAGGI E NUOVE SOGGETTIVITÀ DELLA POLITICA.
Ci siamo riuniti nella sala C, quella dove si era svolto il workshop "Democrazia, etica pubblica, rappresentanza, nuove forme della partecipazione", che è stato gentilmente interrotto un’ora e mezza prima del previsto per lasciare a noi uno spazio per riunirci. Poiché abbiamo sottratto al workshop “Democrazia” alcune ore di lavoro, desideriamo quindi ringraziare i partecipanti e i relatori per averci permesso di utilizzare uno spazio e un tempo che era stato riservato per loro.
In effetti il tema dei due incontri era comune e al “nostro” workshop abbiamo registrato una grande partecipazione. Purtroppo non tutti coloro sono riusciti a pronunciare il loro intervento, perché infine avevamo solo due ore a disposizione. Chi non è riuscito a parlare in quella sede, però, ha già un posto riservato nel primo incontro pubblico, che organizzeremo a gennaio.
Abbiamo chiesto e ottenuto che il documento conclusivo del workshop autogestito fosse letto in plenaria domenica mattina, subito prima dell’intervento di Pietro Ingrao.

Hanno parlato al workshop autogestito Riolo – Ginsborg – Folena – A. Pizzo – Pesacane – F. Curzi – Andrea (Action) – Bruno – Salvato – Scarparo - Gaddi – Massai – Amura – Hannachi – Labucci – Rozza – Caserta – Foglia – Cugusi.
A questo punto Folena ha dato lettura di una prima BOZZA del documento conclusivo, alla quale i presenti sono stati invitati a portare degli emendamenti, che sono stati inseriti a conclusione dell’incontro.
Hanno quindi parlato Ingrosso – Tommasello – Bonfanti – Molinari – Sullo – Filipponi – Somma – Tamino

Sono già automaticamente iscritti a parlare al primo seminario di gennaio, salvo che desiderino diversamente, tutti coloro che si erano iscritti al workshop autogestito ma non hanno fatto in tempo a parlare. Nel dettaglio: Giunti – Lavaggi - Fattori – Di Francesco – Carradori – Peciola – Tamino – GP Pizzo – Galeota – Bonaiuti – Iorio – Beltrame – Bonaiuti – Calabresi

Se mi è sfuggito qualcuno, mi scuso e vi chiedo di segnalarmelo.


Valeria Noli 339 3417256
valerianoli@gmail.com


Dichiarazione conclusiva dell’incontro autoconvocato dell’otto dicembre
Presso l’Assemblea della Sinistra e degli Ecologisti – Nuova Fiera di Roma, 8-9 dicembre 2007

WORKSHOP AUTOGESTITO
SU FORME, PRATICHE, LINGUAGGI
E NUOVE SOGGETTIVITÀ DELLA POLITICA

www.autogestiti.org – info@autogestiti.org


L’incontro autoconvocato e autogestito delle associazioni, dei laboratori territoriali, dei movimenti, dei comitati e dei network, riunitosi in occasione dell’Assemblea della sinistra e degli ecologisti, decide di dare vita ad una rete aperta attorno all’idea che, oggi, la sinistra o è democrazia, o non è.
Vogliamo essere parte di un vero processo costituente di un nuovo soggetto politico, unitario e plurale, che, muovendo dalle prime importanti decisioni prese in questi giorni dai partiti promotori dell’Assemblea, veda il popolo della sinistra davvero sovrano. Non ci accontentiamo di una federazione di partiti e di stati maggiori né tantomeno di un fragile cartello elettorale. Pensiamo di poter dare un contributo positivo perché si realizzino questi obiettivi.
In questi anni e negli ultimi mesi, in questa direzione unitaria, si sono moltiplicate esperienze e pratiche innovative, mosse dalla constatazione che la crisi della rappresentanza politica, dei partiti e dei soggetti organizzati, appare irreversibile. Le pratiche femministe, che mettono in discussione il modello patriarcale e gerarchico che innerva il sistema politico e il potere; le pratiche della disobbedienza e dell’autogestione, cresciute nei centri sociali e nei movimenti, che rimettono in questione la relazione tra il dire e il fare; le pratiche nonviolente e pacifiste, animate dal convincimento che l’opposizione alla guerra e alle armi mette in discussione anche chi sei e come ti comporti con l’altro; le pratiche radicalmente democratiche nelle relazioni sindacali e sociali che consegnano sempre ai lavoratori e alle lavoratrici il potere di decidere sugli accordi; le pratiche di condivisione della conoscenza e di produzione di cultura libera e indipendente, come bene comune creativo, che rompono la forma autoritaria della produzione di senso; le pratiche di critica al consumismo e al dominio delle merci, che propongono nuovi stili e nuova qualità della vita; le pratiche di liberazione dai territori dalle mafie e dal dominio criminale, volte a proporre nuovi comportamenti civili; le pratiche di contrasto sui territori della precarizzazione del lavoro e della vita, e quelle di relazione tra i migranti e i nativi, volte a praticare nuove forme universali di cittadinanza; le forme più partecipate di volontariato e di associazionismo, tutte queste pratiche e tante altre raccontano una parte di questa ricerca.
Queste pratiche e queste culture devono invadere pacificamente e positivamente la nuova soggettività della sinistra.
Vogliamo, come rete, in un prossimo incontro seminariale nel mese di gennaio 2008, raccogliere queste buone pratiche ed esperienze e definire le nostre proposte che, dalle radici e dalle fondamenta, creino le premesse perché la Sinistra sia la prima, grande costruzione politica integralmente partecipativa e democratica.
La consultazione popolare della sinistra proposta dall’Assemblea di questi giorni deve diventare l’occasione di una larga legittimazione democratica del processo costituente (simbolo, carta degli intenti, prime regole democratiche, coordinamenti territoriali e nazionale).

Vogliamo una sinistra che, muovendo dal lavoro e dalla vita degli uomini e delle donne, sia:
• antipatriarcale, fondata sui generi
• antirazzista e inclusiva dei migranti
• nonviolenta e pacifista
• libera e libertaria, portatrice di laicità, di diritti e di libertà, a partire da quelli proposti dal movimento GLBTQ
• strumento di una generazione colpita dalla precarietà nella vita e nel lavoro
• orizzontale, dei territori, dei posti di lavoro, organizzatrice dei precari, della lotta per la casa, dei quartieri, dei comuni
• connessa intrinsecamente coi conflitti sociali, sindacali, ambientali e dei territori
• luogo di incontro per produrre e diffondere cultura, conoscenza, comunicazione, beni comuni in quanto incidono direttamente nella sfera sociale, nel lavoro e nell’esistenza
• a rete, aperta sempre ai movimenti e alle associazioni
• di trasformazione, attraverso un radicale superamento dell’attuale modello di sviluppo, contrastando le politiche centrate sulla competitività che dominano questa globalizzazione a favore di un nuovo paradigma ambientale volto alla tutela e valorizzazione dei beni comuni e alla giustizia tra le specie viventi e incentrato su pratiche democratiche e partecipative
• europea e mediterranea, contro il fondamentalismo atlantico e capace di proporre un’alternativa fondata su un modello cooperativo
• dalla parte dei diversamente abili, dei diritti di chi è recluso, di chi è malato, e di tutti coloro che soffrono per qualsiasi ragione una discriminazione

Intendiamo promuovere nei territori luoghi comuni dei partiti e delle realtà associate e di lotta come le case della sinistra, i laboratori sociali e altre modalità analoghe.
Vogliamo una sinistra a cui si possa aderire direttamente, e non solo attraverso i partiti.
Ci proponiamo, con la rete, di costruire una mappa comune delle associazioni, dei laboratori, dei movimenti, dei comitati interessati alla sinistra, e di raccogliere, anche attraverso un comune sito web accessibile a tutti, le idee e le proposte che vengono dal basso.


Hanno promosso l’incontro dell’8 e hanno finora aderito:

Adesioni di associazioni e reti: Uniti a Sinistra, Forum per la Sinistra Europea - Socialismo XXI, Network Comunità in Movimento, Associazione per il rinnovamento della Sinistra, Liberassociazione aderenti individuali SE, Rete Femminista SE, Rossoverde–SE, Il Cantiere, Per la Sinistra, Associazione per una Sinistra Unita e Plurale Firenze, Unaltralombardia, Sinistra RossoVerde, Nodo Ambientalista SE, Sinistra Euromediterranea, Rete Netleft Innovazione e Comunicazione SE, Rete Giovani Comunisti, Nodo Glbtq, Associazione Culturale Punto Rosso, Sinistra Romana, Forum Sinistra Europea Alpe Adria, Unione a Sinistra Liguria, Movimento Sardista, Sinistra in Movimento, Sinistra Ecoanimalista Piemontese, Laboratorio Politico, Socialismo XXI Genova, Associazione Luigi Longo, Associazione Bella Ciao, Movimenti Rete per una Cultura Indipendente e Sostenibile, Nodo precarietà per la salute e la sicurezza del lavoro, ArticoloUno, Associazione Culturale Monte Verde Roma, Associazione Petroselli, Associazione Mobilità, Rete della Decrescita, Associazione Avda, Associazione Altera Generatori di Pensieri e Movimenti, NuestraAmerica per il Socialismo del secolo XXI, Associa! Per il Socialismo del XXI secolo, Libera Università Popolare, Sinistra Europea Mantova, Megachip, democrazia nella comunicazione.

Prime adesioni individuali: Paul Ginsborg (storico), Emilio Molinari (Pres. Contratto Italiano Acqua), Marco Bersani (Cons. Naz. Attac-Italia), Gianni Tamino (biologo), Raffaele K. Salinari (Università di Urbino), Padre Giuseppe Pirola (gesuita, Istituto Aloisianum), Tommaso Fattori (Social Forum Firenze), Gianfranco Bettin (scrittore), Antonio Bruno (Comitato Verità e Giustizia Genova), Andrea Morniroli (Coop. Dedalus Napoli), Oscar Marchisio (saggista), Giacomo Casarino (Università di Genova), Francesco Surdich (Università di Genova), Roberto Giannini (insegnante), Ennio Cirnigloairo (Forum sociale della Valpocevera, Genova), Giulietto Chiesa (Megachip, democrazia nella comunicazione), Matteo Cresti (Comitati contro inceneritore, Genova)

Questo testo è stato scritto con Abiword, un Software Libero per il word processing, su un sistema GNU/Linux
l’Unità 11.12.07
Sinistra-l'Arcobaleno, primi passi verso l'unità
qui

l’Unità 11.12.07
O il profitto o la vita
di Luigi Cancrini


La sicurezza sui luoghi di lavoro? Una legge c’è mancano i decreti: che devono rivedere sanzioni, responsabilità dinamica degli appalti

La morte orribile degli operai di Torino ci ripropone l’evidenza di un fatto di cui troppo spesso ci si dimentica. La violenza che uccide gli operai è quella, disarmante, di una organizzazione del lavoro per cui il profitto conta più della loro vita. È esperienza diretta di un conflitto che esiste ancora, anche in un Paese democratico, fra capitale e lavoro, fra chi sta dalla parte in cui si guadagna molto e chi deve mettere a rischio la sua salute e la sua vita per portare a casa un salario appena sufficiente, spesso, per vivere modestamente. L’azienda che nega ogni addebito è, di questo conflitto e della sua gravità, la prova più diretta e più evidente.
Qualche precisazione va fatta, tuttavia, nel momento in cui una intera città e il cuore di molti di noi si fermano per ricordare quelli che non ci sono più, sulla questione della legge di cui, si dice, abbiamo bisogno.
Per dire subito, con chiarezza, che la legge n. 123 sulla salute e sulla sicurezza sui luoghi di lavoro c’è. Fortemente voluta da questo Governo e da questa maggioranza essa è stata approvata, infatti, il 1 agosto 2007. Essa non è ancora completamente in vigore, tuttavia, perché si tratta di una legge delega: una legge, cioè, che impone al Governo di emanare, entro nove mesi dall’approvazione (entro l’aprile, dunque, del 2008) i decreti che concretamente determineranno un sistema nuovo di tutela dei lavoratori. Provvedendo, in particolare, ad una riformulazione e razionalizzazione dell'apparato sanzionatorio, amministrativo e penale, per la violazione delle norme vigenti e per le infrazioni alle disposizioni contenute nei nuovi decreti: tenendo conto della responsabilità e delle funzioni svolte da ciascuno dei soggetti coinvolti, con riguardo in particolare alla responsabilità dei titolari dell’azienda o dell’impresa, nonché della natura sostanziale o formale della violazione. Ma provvedendo anche (il grande tema della prevenzione) ad una revisione sostanziale del sistema degli appalti che ha dato un contributo decisivo in questo paese alla frequenza delle morti bianche soprattutto, ma non soltanto, nel settore dell’edilizia.
Toccherà ai decreti rendere pienamente solidale, infatti, le responsabilità civile e penale, degli appaltatori (che non potranno più liberarsi delle loro responsabilità) e degli appaltanti. Così come toccherà ai decreti modificare il sistema di assegnazione degli appalti pubblici al massimo ribasso, garantendo che l’assegnazione all’uno anziché all'altro non sia determinata, come tanto spesso accade oggi, da una diminuzione del livello di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Modificando, ancora, la disciplina dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, dove i costi relativi alla sicurezza dovranno essere specificamente indicati nei bandi di gara e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture oggetto di appalto.
Rivisitando con cura, infine, le modalità di attuazione della sorveglianza sanitaria, adeguandole alle differenti modalità organizzative del lavoro, ai particolari tipi di lavorazioni ed esposizioni (quello che è evidentemente mancato, mi pare, nella ThyssenKrupp di Torino), nonché ai criteri ed alle linee guida scientifiche più avanzate, anche con riferimento al prevedibile momento di insorgenza dell’incidente o della malattia.
Ricordarlo è importante, credo, per due motivi. Per dare conto a questo Governo e a questa maggioranza, prima di tutto, di aver affrontato sul serio questo problema nel primo anno della legislatura. Per ottenere, in secondo luogo, che i decreti siano all’altezza delle aspettative dei lavoratori e che arrivino presto. Anche se non piaceranno a chi, da destra e dal centro, di lavori usuranti e/o pericolosi non vuole sentir parlare. Quello su cui dobbiamo riflettere oggi, infatti, è che anche questi morti potevano essere evitati se la legge e i decreti fossero stati approvati prima quando il paese era nelle mani delle destre.

l’Unità 11.12.07
Il 90% degli stupri commesso da italiani
L’Istat spazza via il luogo comune dello straniero: solo il 6% delle violenze alle donne fuori dalla cerchia dei conoscenti
di Virginia Lori


I NUMERI
69,7% DEGLI STUPRI AVVIENE IN FAMIGLIA Le mura domestiche si confermano come il luogo più pericoloso per le donne.
17,4% LO STUPRATORE È UN CONOSCENTO e quindi una persona sempre intima alla donna.
6,2% DEI VIOLENTATORI SONO DEL TUTTO ESTRANEI alla vittima. Il cosiddetto stupro da strada.
95% DEGLI STUPRI NON SONO DENUNCIATI proprio perché “domestici”, quindi ci sono più remore a farlo. Per questo iIl record delle denunce è in Inghilterra con 13.721 stupri effettivamente denunciati, ma il Guardian stima in un anno circa 47.000 stupri (quindi uno su 4 è denunciato). Segue la Francia con 9.993 casi nel 2006 anche se solo l'8% delle donne francesi denuncia lo stupro. Al terzo posto la Germania, con 8.133 stupri, quasi tutti denunciati.

CHI È? «L’assassino non bussa, ha le chiavi di casa», c’era scritto su uno striscione che il 24 novembre attraversò Roma, portato dalle donne che manifestavano contro la violenza. Ha le chiavi di casa perché è il marito, il fidanzato, l’ex marito o l’ex fidanzato. E parla italiano, come dimostra una ricerca dell’Istat: secondo le stime, non più del 10% degli stupri commessi in Italia sono attribuibili a stranieri contro un 69% di violenze domestiche commesse ad opera di partner, mariti e fidanzati.
E così viene spazzato via il luogo comune tanto diffuso nell’immaginario collettivo e nelle pagine di cronaca nera, che associa l’immigrazione a una diminuzione della sicurezza nelle città italiane. Almeno contro le donne. Anche fra gli immigrati le violenze sono spesso entro le mura domestiche, tanto che allargando alla cerchia familiare o alle conoscenze più strette, solo il 6% degli stupri in Italia è commesso da persone estranee alla vittima: «Se anche considerassimo che di questi autori estranei la metà sono immigrati - ha spiegato Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell’istituto di statistica - si arriverebbe al 3% degli stupri; se ci aggiungessimo il 50% dei conoscenti, al massimo si arriverebbe al 10% del totale degli stupri ad opera di stranieri». «Il problema sono i mariti, non gli immigrati», fa la senatrice Giovanna Capelli.
«Nell’immaginario collettivo - continua Laura Sabbadini - gli stupri per le strade sono quasi sempre opera di immigrati. Ma non fare i conti con le statistiche può portare ad orientare in modo errato le priorità e il tipo di politiche».
Qusta statistica avvalora anche il nuovo corso che l’Istat si è dato. Il presidente dell'istituto, Luigi Biggeri, ha ricordato che si vuole continuare il processo di riforma delle statistiche ufficiali. L'obiettivo è quello di fare luce sui temi caldi che fanno discutere il Paese e sfatare i luoghi comuni che in certi casi dominano l'opinione pubblica. «Ma il nostro lavoro non si ferma qui: dovremo porre l'attenzione anche su altre tematiche come la discriminazione, terreno difficilissimo ma che ormai necessita di essere misurato in tutte le sue manifestazioni». Come ha spiegato la Sabbadini in apertura del Global Forum «Le statistiche di genere dovrebbero essere sempre una priorità. Se nella progettazione delle indagini siano esse sociali o economiche l'approccio di genere viene tenuto nella dovuta considerazione, migliora l'intera produzione statistica, non solo le statistiche di genere». Ma, sottolinea Sabbadini, «è fondamentale che in un piano di rilancio delle statistiche di genere si ponga al centro anche la misurazione delle discriminazione e ciò venga fatto con un approccio di genere, perchè la discriminazione di genere potrebbe essere traversale a tutte le discriminazioni».

l’Unità 11.12.07
l'assemblea della redazione:

Mentre il futuro de l'Unità appare quantomai inquietante, di fronte ai ripetuti allarmi della redazione preoccupata dalla prospettiva di vedere la famiglia Angelucci, già editore di Libero, acquisire entro brevissimo tempo il pacchetto di maggioranza del giornale, la presidente della Nie, Marialina Marcucci, preferisce mettere la testa nella sabbia e fornire un'immagine poco rispettosa della realtà. In un'intervista sulle prospettive de l'Unità, la presidente ha dichiarato: "Non credo che vi siano malumori (nella redazione, ndr) (...). Sicuramente ci sarà anche in loro la problematica relativa ad affrontare l'ingresso di un nuovo socio ed eventuali cambiamenti. Ma io non ho alcun documento né ufficiale, né ufficioso di protesta".
Evidentemente dobbiamo supporre che la presidente della Nie non legga la corrispondenza, né il giornale di cui è azionista, non ascolti quello che le viene detto negli incontri ufficiali e nemmeno veda gli articoli su l'Unità usciti ripetutamente su altri organi di stampa. Numerose volte il cdr e l'assemblea dei redattori di questo giornale hanno prodotto documenti e lettere aperte ed iniziative pubbliche con prese di posizione anche durissime sul ventilato cambio di proprietà, sulle prospettive riguardo all'autonomia e la collocazione de l'Unità, sul tema delle garanzie.
Ed è proprio per questo motivo che il Cdr ha chiesto un incontro con la presidente della Nie: la questione, per noi ineludibile, è quella delle garanzie, a partire dall'utilizzo di tutto il tempo necessario per consentire una significativa articolazione azionaria. La redazione chiede altresì che la proprietà del giornale si faccia carico fino in fondo della proposta della istituzione di un comitato dei garanti, a tutela del radicamento della testata nella sua storia e nei suoi principi fondanti, nonché di una carta dei valori e dei diritti (la cui stesura è affidata a Clara Sereni, Furio Colombo e Alfredo Reichlin), che dovrà essere assunta anche dall'azienda. Intorno a queste richieste attendiamo dalla presidente risposte precise e non più rinviabili.

l’Unità 11.12.07
Niemeyer, la morbidezza del cemento armato
di Roberto Dulio


IL CELEBRE ARCHITETTO brasiliano sabato compirà 100 anni. Conosciuto soprattutto per aver progettato la nuova Brasilia, ha lavorato in tutto il mondo proponendo opere che trasfigurano i modelli della tradizione architettonica

Nel ’64, dopo il colpo di Stato militare, lavora soprattutto all’estero
A Parigi realizza la sede del Pcf, a Dacca quella del Parlamento

Tra le opere ideate in Italia, la sede Mondadori a Segrate e il non ancora realizzato Auditorium di Ravello

Oscar Niemeyer Soares nasce il 15 dicembre 1907 a Rio de Janeiro, dove nel 1929 si iscrive alla sezione di architettura dell’Escola Nacional de Belas Artes, diretta dal 1930 da Lúcio Costa, che le imprime una forte connotazione modernista. Nel 1936 sarà lo stesso Costa a invitare Niemeyer a far parte del gruppo di progettisti che collaborerà con Le Corbusier all’ideazione del Ministero dell’Educazione e della Sanità di Rio, poi realizzato autonomamente dal giovane architetto (1936-43). Nel 1939 Niemeyer collabora con Costa alla realizzazione del padiglione brasiliano all’Esposizione internazionale di New York; tre anni dopo Juscelino Kubitschek, sindaco di Belo Horizonte, gli commissione la realizzazione del complesso di Pampulha: il casinò, il club, il dancing (1942) e la cappella di San Francesco (1943) sanciscono il riconoscimento internazionale dell’architetto.
Nel 1947 fa parte del gruppo di architetti incaricati della realizzazione della nuova sede delle Nazioni Unite a New York, portata poi a compimento da Wallace Harrison e Max Abramovitz utilizzando i progetti di Le Corbusier e di Niemeyer. L’edificio Copan a San Paolo (1950) declina a grande dimensione le forme libere e le superfici curve che arricchiscono l’impostazione funzionalista dei progetti di Niemeyer. Nel 1950 Stamo Papadaki gli dedica il primo studio monografico: The Work of Oscar Niemeyer.
A partire dal 1957 Kubitschek, divenuto presidente della Repubblica brasiliana, gli affida il progetto degli edifici pubblici della nuova capitale Brasilia. Il palazzo dell’Alvorada (1957), ossia la residenza ufficiale del presidente della Repubblica, quello del Planalto (1958-60), sede del Governo, la Corte Suprema Federale (1958-60), il Congresso Nazionale (1958), il palazzo degli archi (Itamaraty, 1962), sede del Ministero degli Esteri, il Ministero della Difesa (1968), oltre alla Cattedrale (1959-70), coniugano a scala monumentale l’opzione urbanistica che Niemeyer elabora per la nuova capitale.
La notorietà di Niemeyer è assoluta ma dopo il colpo di stato militare del 1964 l’architetto, che non rinnega le proprie convinzioni politiche, trova difficoltà nel continuare la propria attività in Brasile, per cui intraprende frequenti viaggi in Europa, soprattutto a Parigi, dove realizza la sede del Partito Comunista francese (1965-67) e la Casa della Cultura a Le Havre (1972-82). In Italia porta a compimento il palazzo Mondadori di Segrate (1968-75), la sede della Fata Engineering a Pianezza (1976-81) e delle officine Burgo a San Mauro torinese (1975). Un corposo fervore plastico torna a caratterizzare gli ultimi lavori dell’architetto, tornato in Brasile negli anni ottanta, tra i quali la Passarela do Samba a Rio de Janeiro (1983-84) e il Museo d’arte contemporanea a Niterói (1991-96).
Nell’itinerario progettuale di Niemeyer la tensione verso la virtuosistica modellazione del cemento armato è evidente fin dal palazzo de la Alvorada, con la copertura sorretta da eleganti archi parabolici capovolti e specchiati in archi di uguale luce ma minore altezza. In essi traspare quell’assoluta eleganza che trova una scarnificata declinazione nel Planalto, in cui l’analogo motivo dei sostegni è dimezzato e non si sviluppa più sul piano di facciata ma trasversalmente a esso. La stessa soluzione, ancora più semplificata, emerge nel Tribunale Federale Supremo, fino ad approdare ad una quasi classicheggiante formulazione nel ministero di Giustizia, dove archi rampanti e a tutto sesto prefigurano le forme del regolare diaframma cementizio di Itamaraty, nel quale però la rastremazione degli archi recupera l’elegante tensione formale de la Alvorada.
Un’altra caratteristica tipica dell’architettura di Niemeyer è la contrapposizione di diverse logiche compositive e geometriche, che sottolineano differenti destinazioni funzionali, come risulta evidente nel palazzo del Congresso Nazionale di Brasilia, una delle opere forse più note dell’architetto brasiliano. Nel complesso Copan, all’alto edificio ondulato degli appartamenti è giustapposto il blocco stereometrico più basso dell’albergo (poi trasformato in banca e realizzato da un altro architetto); nelle sede parigina del partito comunista francese, davanti al fluente corpo degli uffici, emerge dal suolo la cupola dell’auditorium ipogeo; alla Mondadori, ai volumi principali degli uffici soggiacciono i bassi corpi della redazione e dei servizi. Anche l’idea della sospensione dell’edificio, attuata in maniera letterale a Segrate (appendendo il volume degli uffici alla scocca in cemento armato), nelle sede del Partito Comunista francese è perseguita appoggiando tutto il corpo per uffici a una poderosa soletta in cemento armato, sorretta a sua volta da brevi setti trasversali, che sostanzia il virtuosismo statico dell’edificio.
La straordinaria capacità espressiva del brasiliano si esercita spesso sugli elementi strutturali dei suoi edifici, plasmandoli in termini sensazionali. Deliberatamente Niemeyer aspira a derogare dalle gabbie prescrittive del funzionalismo più rigoroso, obbiettivo del resto perseguito anche dallo stesso Le Corbusier, con cui aveva collaborato. L’insofferenza normativa del maestro svizzero sfocerà nell’eversivo capolavoro di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp (1950-55); Niemeyer ferisce l’ortodossia della critica militante non solo inserendo nelle proprie opere elementi estranei, per geometria e forma, a una rigorosa impostazione razionale, ma squassando tutto l’impianto compositivo con figure provocatorie ed esuberanti.
Cristallini volumi stereometrici sono intaccati da inserti fluidi e filanti; le limpide superfici piane si contaminano con morbidi gusci; i pilastri si rimodellano in plastici sostegni. Ricondurre questa poetica alle presunte linee morbide del paesaggio brasiliano, come pure a generiche suggestioni dell’architettura barocca latinoamericana (come hanno proposto alcuni critici nel tentativo di reintegrare la figura di Niemeyer nel novero di un più ampio e problematico orizzonte modernista) implica la legittimazione di suggestioni più letterarie che sostanziali, spesso alimentate dallo stesso architetto.
Non pare invece azzardato ricondurre l’origine della fascinazione che alimenta l’esuberanza plastica di Niemeyer, più che nel paesaggio o nella tradizione neolatina, alle poderose opere d’ingegneria in cemento armato realizzate nel XX secolo. E sono ancora alcune allusioni dello stesso architetto che, più sottilmente delle dichiarazioni d’amore per le chiese barocche, il sensuale corpo femminile o il paesaggio di Rio, fanno trasparire tale interesse. Niemeyer (La forma nell’architettura, Milano 1978) afferma che «la forma plastica ha potuto evolversi grazie alle nuove tecniche e ai nuovi materiali che le danno aspetti differenti e innovatori», o che ai vecchi tempi, «limitato da una tecnica ancora ai primordi, l’architetto penetrava coraggioso lungo il cammino del sogno e della fantasia». E proprio nel presentare su Espansione (70, agosto-settembre 1975) l’appena ultimato complesso Mondadori l’architetto legittima «il ritmo variato degli archi con quella sinfonia degli appoggi che Auguste Perret proclama», chiamando in causa il geniale pioniere della poetica del cemento armato nell’architettura.
Ma non è tanto l’architettura civile di Perret a influenzare l’immaginario del brasiliano. Lo attraggono, probabilmente, le opere più avanzate dell’ingegneria: quelle forme che la critica militante non contesta, in quanto eccentriche al campo stretto dell’architettura, piuttosto che per un loro presunto determinismo scientifico. Se l’Europa aveva sempre mantenuto un ruolo di assoluto prestigio nel campo dell’ingegneria edile, all’indomani della seconda guerra mondiale l’Italia occupa un posto di primo piano nel campo della sperimentazioni sul cemento armato e le sue figure di spicco - Pier Luigi Nervi e Riccardo Morandi - sono ben conosciute oltre i confini nazionali, così come le loro opere strabilianti, che potrebbero ascriversi a luoghi generativi del composito immaginario formale di Niemeyer.
La Mondadori rappresenta uno degli esiti più maturi di questo processo, nel quale sin dagli schizzi iniziali, Niemeyer cerca la perfetta coincidenza tra forma e struttura. L’edificio di Segrate si afferma felicemente come un punto di svolta nell’opera del brasiliano. Ma il suo valore espressivo e programmatico sfugge alla critica, resa diffidente, oltre che dal virtuosismo compositivo del complesso, dall’ostentata trasgressione di altri due tabù modernisti: l’impianto simmetrico e monumentale e l’uso dell’arco. Due elementi idealizzati, che l’architetto ripropone senza nessuna enfasi conservatrice, e del tutto trasfigurati dai modelli della tradizione, vengono invece frettolosamente classificati come imbarazzanti sintomi reazionari.
Singolarmente l’utilizzo di tali elementi (in maniera del tutto autonoma dal punto di vista compositivo ed espressivo), e la relativa incomprensione critica, lo accomunano a Louis Kahn, al cui Parlamento del Bangladesh a Dacca (1962-73) sono riconducibili alcuni scorci degli edifici di Brasilia e della coeva sede Mondadori, nei quali forme senza tempo si riflettono nelle acque da cui emergono. All’architetto americano lo associa inoltre l’esperienza progettuale di una nuova capitale, e le esigenze (non ultima il ricorso alla monumentalità e agli archetipi di forme classiche) che forse l’esperienza di Brasilia aveva innescato in Niemeyer, e quella di Dacca cristallizzato in Kahn.
L’armoniosa coincidenza tra l’assetto formale e la logica strutturale raggiunta con la Mondadori è ribadita poco dopo dall’architetto nella sede della Fata, realizzata proprio in collaborazione con Morandi, la cui immaginazione costruttiva è probabilmente una delle fonti ispiratrici del brasiliano. Lo schema statico intuito da Niemeyer e sviluppato da Morandi non subisce variazioni rispetto alla proposta iniziale, dando luogo a un’altra architettura sbalorditiva. Si tratta ancora di una scocca in cemento armato, questa volta precompresso, che regge un volume virtuosisticamente sospeso. Nuovamente il dispositivo di sospensione si configura geometricamente sulle forme di una serie di archi, di cui però viene ribaltato il funzionamento statico. Quelli che istintivamente sono identificati come esili pilastri troncati prima di toccare terra sono in realtà dei tiranti a cui viene sospeso il volume vetrato degli uffici, mentre solo in corrispondenza di quattro più grandi pilastri la scocca poggia a terra.
L’attività di Niemeyer rivela una complessità di pensiero e di riferimenti che rendono davvero ingenerosa la sua collocazione nell’ambito di un presunto «modernismo brasiliano» e ne accreditano la cittadinanza in un orizzonte culturale e artistico - Le Corbusier, Nervi, Morandi, Kahn; il Brasile, la Francia, L’Italia - sfaccettato e cosmopolita. L’armoniosa fusione tra tecnica ed espressione delle sue opere ha saputo stringere una feconda alleanza con il tempo, che misura la bellezza di tutte le cose.

Saggi e eventi
Oscar Niemeyer Houses di Alan Weintraub e Alan Hess, Rizzoli International, New York 2006
Oscar Niemeyer. Il palazzo Mondadori di Roberto Dulio, Electa, Milano 2007
Oscar Niemeyer, Routledge, London-New York, (in uscita, marzo 2008)
Oscar Niemeyer. Curves of Irreverence di Styliane Philippou, Yale University Press, London, in uscita nel maggio 2008
A Obra de Oscar Niemeyer, Seminario internazionale, Museu Nacional do Conjunto Cultural da República, 6 e 7 dicembre 2007
Una vita da Oscar (allegato a Interni, dicembre 2007), presentazione del dvd oggi, ore 20.00, Headquarter PirelliRE, viale Sarca 214, Milano


l’Unità 11.12.07
Religioni senza pace
di Mario Soares


Teoricamente la religione si oppone alla violenza, nasce dall’amore per Dio e dovrebbe promuovere la pace. Ma nella storia le cose non sono andate così, e a regnare è stata l’intolleranza. Senza tolleranza e senza rispetto per i diritti di chi è diverso da noi, i conflitti e le guerre sono inevitabili. In passato le cose sono andate così, e probabilmente andranno così anche in futuro, come Samuel Huntington ha profetizzato nel suo libro «Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale»; a meno che, per la sopravvivenza dell’umanità e attraverso una rivoluzione delle mentalità delle religioni, a prevalere siano il dialogo e la convivenza pacifica.
Le grandi religioni monoteistiche sono caratterizzate dall’amore nei confronti di un Dio che a quanto pare è lo stesso per tutte loro, e tutte parlano dell’amore per il prossimo. Ma chi si deve intendere per “prossimo”? Anche gli infedeli e gli eretici?
Dato che si tratta di religioni rivelate, ognuna è portatrice di una sua verità. È per questo che a volte il dialogo interreligioso è difficile - ma non impossibile, come è stato dimostrato dalla storia più recente.
I fedeli di una religione possono essere gli infedeli per chi professa un altro credo. E poi ci sono gli eretici. Ancora più difficile è il dialogo tra credenti e non credenti, che si tratti di agnostici o di atei.
In passato si ricorreva regolarmente ai conflitti interreligiosi o alle guerre per “convertire gli infedeli”, come nel caso delle crociate. Ovviamente ci furono anche eccezioni, tra cui il califfato di Cordova, in cui nel XII e XIII secolo cristiani, ebrei e musulmani convivevano e dialogavano in pace.
La separazione tra Stati e chiese e la difesa del pluralismo religioso sono idee moderne che risalgono alla nascita degli Stati secolari in Europa.
La cultura dei diritti umani e della pace come beni supremi è fondamentale in un mondo globalizzato per assicurare il rispetto per gli altri e mettere freno al fanatismo e alla violenza religiosa.
In passato i vinti di una religione, in Europa e negli altri continenti, erano obbligati a una falsa conversione. Oggi il fondamentalismo religioso - islamico, evangelico o ebraico - scatena guerre “sante” per eliminare chi non professa il suo credo.
Razionalmente non esistono né potranno mai esistere “guerre sante”. D’altro canto è chiaro che anche se le guerre sono chiamate “sante” a scatenarle non sono solo ragioni religiose: ci sono altri motivi, come la povertà, le disuguaglianze sociali, i nazionalismi, i ritardi culturali, l’umiliazione dei dominati.
È qui che si inserisce il problema dell’unilateralismo e in particolare il tentativo di emarginare l’Onu e la controcultura delle guerre preventive. Si è detto che è stata una risposta al terrorismo islamico emerso brutalmente l’11 settembre 2001, che ha dimostrato la vulnerabilità della superpotenza dominante. Ma indubbiamente è stata la risposta meno intelligente e meno adatta per un fenomeno complesso come il terrorismo. Il terrorismo deve essere combattuto, ma senza mettere in questione i diritti umani e la loro universalità.
La coscienza di muoversi su un terreno scivoloso e irto di pericoli per la pace mondiale ha spinto il presidente spagnolo Rodríguez Zapatero e il primo ministro turco Erdogan, con il sostegno del segretario generale delle Nazioni Unite, a lanciare l’iniziativa dell’Alleanza delle civiltà (che era stata precedentemente suggerita dall’ex presidente iraniano Kathami).
Nonostante tutte le iniziative di buona volontà e i dialoghi ecumenici nati in diversi orizzonti, i fanatismi religiosi si sono esacerbati e non lasciano presagire un futuro di pace.
Per questo è un dovere morale lottare contro qualsiasi espressione di violenza e imparare a costruire, globalmente, una cultura di pace. Le religioni devono dialogare per aprire strade di comprensione e coesistenza pacifica.
La violenza è nefasta per le religioni, a breve e a lungo termine, è lo è anche per il rapporto tra credenti e non credenti che per forza di cose convivono nelle nostre società moderne.
È importante ricordare come l’anticlericalismo abbia perso la sua aggressività di pari passo con l’affermazione della separazione tra lo Stato e le chiese.
Un mondo senza violenza: potremmo cominciare ad avvicinarci a questa magnifica utopia del ventunesimo secolo se solo fossimo capaci di controllare tutte le espressioni di violenza che ogni giorno entrano nelle nostre case con la televisione, i film e internet, e se le chiese, tutte le chiese, si convincessero che la lotta per la pace, per i diritti umani e per il rispetto per la diversità, in un quadro di multiculturalismo e di multilateralismo, è il modo migliore per esprimere il proprio amore per Dio.

Mario Soares è stato presidente e primo ministro del Portogallo, e attualmente presiede la Commissione per la libertà religiosa del Portogallo
copyright IPS traduzione di Sara Bani

Repubblica 11.12.07
Chiarezza sulle intese tra Pd e Cosa Rossa a partire dai programmi
di Goffredo Bettini


Caro direttore, la situazione politica italiana è quanto mai difficile e confusa; tuttavia è in movimento e a certe condizioni presenta nuove possibilità. La nascita del PD ha cambiato tutto. Mantenere il bandolo della matassa non è cosa da poco e abbraccia diversi compiti. In primo luogo: mantenere in vita il governo Prodi e sostenerlo con tutte le forze. Oggi, rappresenta politicamente e socialmente il compromesso più avanzato. E´ evidente che Berlusconi continuerà a giocare la sua partita per avere le elezioni presto. Ma per ora la spallata non gli è riuscita e si trova, anzi, nel mezzo di un centro-destra terremotato e senza progetto. Dunque non è affatto impossibile serrare le fila e mettere in campo da gennaio una agenda di governo di lungo respiro e durata. Il pensare all´oggi, non ci può vedere indifferenti sulle incognite del domani. La crisi del sistema politico è sotto gli occhi di tutti.
Urge la stagione delle riforme. Veltroni ha avuto coraggio di aprirla con decisione. L´attuale maggioritario produce il massimo dell´indecisione. Spinge a coalizioni che si raggruppano per combattere qualcuno. Berlusconi. I comunisti. Si vince ma poi non si governa. Possiamo avere l´ambizione di aprire una nuova storia politica? All´odio improduttivo, si può sostituire una più «mite», ma concreta e ferma, competizione tra progetti diversi?
Un proporzionale corretto da uno sbarramento che semplifichi il sistema dei partiti e realizzi un nuovo bipolarismo, un ritorno alla possibilità di scelta dei cittadini dei propri rappresentanti, sono principi che, oggi, potrebbero trovare il consenso dei più. Anche per evitare un referendum che imporrebbe ammucchiate «coatte» e che per il PD sarebbe il massimo della contraddizione rispetto alla sua «vocazione» maggioritaria e nazionale.
La «vocazione» maggioritaria, non significa l´illusione sciocca di poter far tutto da soli. Allude ad un´analisi dello stato della Repubblica. Al tentativo del PD di intrecciare modernità e inclusione. Modernità significa far crescere il Paese e renderlo competitivo nello scenario internazionale. Inclusione significa qualcosa di molto più profondo che una semplice solidarietà a chi non ce la fa. Significa ristabilire quella misura della giustizia che motiva lo stare insieme di una comunità. Non credo ad un nuovo centro politico, che raccolga solitariamente un moderatismo tecnocratico e razionalizzatore. Sarebbe un progetto rinsecchito e senza popolo. Vedo invece un grande spazio per una inedita alleanza tra un ceto produttivo, creativo e combattivo, soprattutto di medie e piccole imprese (che ha già preso da solo le misure alla globalizzazione ed è allarmato dallo spezzarsi dell´Italia), la sinistra democratica e quella parte del mondo cattolico socialmente responsabile e impegnata.
Cementare queste convergenze è l´obiettivo del PD per competere nel mondo ricostruendo lo Stato; per crescere ritrovando nella giustizia e nelle regole la ragione profonda dell´essere nazione europea. Ma se questo è: comprendo che Rifondazione rivendichi una sua autonomia. Semplicemente perché non pensa che i due termini, modernità e inclusione, possano andare credibilmente insieme. La sua è una critica radicale alla modernità. Ingrao ha detto: ho vissuto la sconfitta del Comunismo e la fine del Leninismo. Occorre aprire una pagina nuova, riflettendo anche sul perché quelle nostre antiche parole si sono accompagnate a tante morti, uccisioni e dolori. Auguro alla nuova formazione radicale e di sinistra di imboccare questa strada di riflessione, piuttosto che quella della giustapposizione di ceti politici che vivono di rendita sulle vecchie bandiere.
Questo nuovo quadro significa che il PD si lascia mani libere? No. Significa che il PD gioca più direttamente la sua partita nel Paese. E cercherà le alleanze a partire dalle intese sui programmi. E se farà compromessi nel centro sinistra (anche con la nuova «cosa rossa»), li farà a partire dalla posizione e dalla forza che gli avranno dato gli elettori e il Paese; in modo, dunque, chiaro e compatibile con la strada maestra che oggi indica per l´Italia.
(* coordinatore del Partito democratico)

Repubblica 11.12.07
I dati Istat: nel 69% dei casi si tratta di violenze domestiche commesse dai partner
Stupri, in Italia solo il 10% è commesso da stranieri
di Alessandra Retico


ROMA - Si annida nelle case, ha l´arroganza del potere (maschile), serpeggia nel silenzio delle relazioni amorose o presunte tali. È trasversale per ceto e censo, si nutre dell´omertà di chi subisce. Lo stupro non è la violenza dell´estraneo, ma del marito e del compagno. Non è l´abuso barbarico dello straniero che violenta nel vicolo buio, è la tirannia sessuale che si esercita nella normalità domestica. Viene detto da anni, eppure non passa, fa male e paura ammetterlo. Lo stereotipo è invece più facile e comodo, «sarà stato un immigrato». «Ma è un riflesso condizionato falso e può portare ad orientare in modo sbagliato le priorità e il tipo di politiche». Linda Laura Sabbadini, direttore centrale per le indagini su condizione e qualità della vita dell´Istat, lo ha ricordato ieri al "Global Forum on gender statistics", organizzato dall´Istituto di statistica in collaborazione con il dipartimento delle Pari Opportunità, il ministero degli Esteri e della Banca Mondiale. Ha ribadito come la violenza contro le donne sia invisibile nella maggior parte dei Paesi, lo è anche in Italia dove «non più del 10% degli stupri commessi sono attribuibili a stranieri contro un 69% di violenze domestiche commesse ad opera di partner, mariti e fidanzati».
I luoghi comuni reggono nell´immaginario, sempre e troppo. Le cronache anche recenti fanno scattare nell´opinione pubblica e anche nei media la tipica sentenza «non può essere stato uno di noi». E invece solo il 6% degli stupri in Italia è commesso da persone estranee alla vittima. «Se anche considerassimo che di questi autori estranei la metà sono immigrati si arriverebbe al 3% degli stupri; se ci aggiungessimo il 50% dei conoscenti, al massimo si arriverebbe al 10% del totale degli stupri ad opera di stranieri». Secondo Sabbadini bisogna rifare i conti, l´Istat infatti ha avviato il processo di riforma delle statistiche ufficiali per far rientrare i temi che riguardano il genere.
Dunque è la prossimità affettiva, parentale, familiare a generare mostri. I partner, attuali ed ex, sono responsabili della quota più elevata di tutte le forme di violenza fisica rilevate e di alcuni tipi di violenza sessuale come lo stupro e i rapporti sessuali non desiderati, ma subiti per paura delle conseguenze. Il 69,7% degli stupri, infatti, è opera di partner, il 55,5% degli ex e il 14,3% dagli attuali: prima durante e dopo insomma. Nel 17,4% il colpevole è un conoscente, nel 6,2% estranei e gli sconosciuti che commettono soprattutto molestie fisiche sessuali, seguiti da conoscenti colleghi e amici. Inoltre, gli sconosciuti commettono stupri nello 0,9% dei casi e tentati stupri nel 3,6% contro, rispettivamente il 13,9% e l´11,8% degli ex partner. Fanno più male i maschi in casa che quelli fuori.
È il silenzio che aiuta la menzogna: le vittime di abusi sessuali dentro le mura domestiche non denunciano. Solo il 27,3% di chi ha subito uno stupro dal partner ritiene quella violenza un reato, le altre tacciono e incassano. La quasi totalità non solo non ci pensa affatto a rivolgersi alle autorità (91,6%) ma neanche ne parla a un´amica (33,9%). Vince ancora troppo spesso il timore e il pudore, forse anche la rassegnazione: solo il 28% dei compagni denunciati sono stati imputati e appena l´8% condannati. I mariti e i fidanzati se la cavano, rimangono impuniti. La violenza sessuale nell´ufficialità del matrimonio e delle relazioni stabili è tacitamente, se non ammessa, tollerata. Se è insopportabile, è stato qualcun altro.

Repubblica 11.12.07
Flores d'Arcais, Vattimo e Onfray a confronto sull’ateismo
Se dio diventa soltanto storia
Come per Nietzsche i greci furono costretti a diventare razionali, per altre culture la fede potrebbe rispondere alla necessità di darsi un orizzonte di senso
di Umberto Galimberti


Ha ancora senso discutere al giorno d´oggi dell´esistenza o della non esistenza di Dio? Pare di sì, se è vero che tre teste pensanti come Paolo Flores d´Arcais direttore di MicroMega, Gianni Vattimo tra i più noti filosofi internazionali, e Michel Onfray fondatore dell´Università popolare di Caen, un bel giorno si sono riuniti intorno a un tavolo per discutere, senza infingimenti e quindi in un incontro-scontro aperto, intorno all´esistenza di Dio, con tutto ciò che ne segue in termini di morale, di politica, di istruzione, di atteggiamento da tenere nei confronti della scienza e delle altre religioni, ciascuna delle quali si sente depositaria della verità. Quanto si sono detti, oggi è raccolto in un libro Atei o credenti? (Fazi Editore, pagg. 180, euro 15).
Paolo Flores d´Arcais osserva che se la filosofia è amore per il sapere accertabile, e quindi critica di ogni superstizione, di ogni pensiero magico, di ogni religione tramandata, se è una ininterrotta attività di disincanto, la filosofia non può che essere atea. Accade però che non tutte le filosofie lo sono, anzi oggi si assiste a un significativo contributo della filosofia a una volontà di rivincita delle religioni, con conseguente egemonia di correnti filosofiche che rifiutano il disincanto e, a braccetto con le religioni, non escludono una destinazione ultraterrena alla condizione umana.
Eppure, scrive Paolo Flores d´Arcais, tutti i misteri e gli interrogativi che un tempo trovavano la loro soluzione in Dio oggi sono stati sufficientemente chiariti. A ciò si deve aggiungere che tutte le religioni pretendono di essere le uniche a possedere la verità e di conseguenza ciascuna rifiuta la pretesa verità delle altre. Logica vuole che in un conflitto di questo genere le religioni dimostrano di essere dei prodotti antropologici, sociologici, psicologici, quindi prodotti umani, dovuti al fatto che tra tutti gli animali l´uomo è l´unico ad avere consapevolezza della propria morte e, rifiutando questo destino, si aggrappa a credenze che gli promettono un mondo sovraterreno.
A queste considerazioni di Paolo Flores d´Arcais, Gianni Vattimo obietta che non si dà una sola Ragione con la maiuscola, ma tante "ragioni" quante sono le culture all´interno delle quali una certa "ragione" si è costituita, garantendo a quella cultura la propria sopravvivenza e la propria tradizione da trasmettere alle generazioni future. Non c´è un canone razionale al di fuori dell´orizzonte storico-culturale entro cui esso è nato e si è solidificato, e nessuno può porsi fuori dal suo orizzonte storico-culturale. La stessa logica "rigorosa" a cui fa appello la scienza appartiene a questo orizzonte, e se non introduciamo questo principio relativistico, se davvero ci fosse una ragione capace di verità "oggettive", sarebbe inutile la democrazia e più in generale la discussione tra gli uomini.
Se la ragione lavora in base a una logica che è interna a una determinata cultura, assolutizzare la ragione, prescindendo dalla cultura che l´ha generata, è commettere lo stesso errore delle religioni che pretendono ciascuna per sé la verità assoluta. Questa pretesa non ha a che fare con il problema della verità, ma con quello del dominio: il nostro Dio è più forte, dicono le religioni: che si tratti del Dio degli ebrei, dei musulmani, dei cristiani, ma anche la ragione illuminista, propria della scienza, che assolutizza se stessa, dimenticando il mito fondatore dell´Occidente come ci viene raccontato nella Bibbia, nella sua pretesa di verità dimentica di essere solo una costellazione di questo mito.
Onfray, che si professa ateo, su questo punto conviene con Vattimo che difende la matrice cristiana della nostra cultura. Non si dà una sola ragione che porta, per sua natura, direttamente all´ateismo, ma tante "ragioni" attive nel disordine della nostra tradizione filosofica occidentale. Ma soprattutto, e questo è l´argomento di Onfray, la ragione funziona come uno strumento "a posteriori" rispetto a una psicofisiologia, quando non a una psicobiografia che, prima dell´intervento della ragione, ci ha portato a credere o a non credere. La logica della ragione subentra dopo, ma molto dopo, a giustificare quella "decisione esistenziale" pre-logica e pre-razionale a cui Sartre ha dedicato pagine essenziali.
Detto ciò, l´onere della prova spetta a chi afferma l´esistenza di qualcosa, non a quelli che dicono che qualcosa non esiste. La ragione per la quale gli uomini credono in Dio - conclude Onfray - è che, dopo aver constatato la propria impotenza e la propria finitezza, immaginano una potenza che permetta loro di ottenere sicurezza e pace intellettuale. E di fronte a questa potenza si mettono in ginocchio, chiedendo aiuto per poter vivere, restando quelli che sono.
Dopo aver ascoltato i tre filosofi in un aperto, vivace e davvero istruttivo confronto, a me viene da pensare che come Nietzsche dice che fu per necessità che i greci furono costretti a diventare razionali per andare oltre la loro dimensione tragica, così altre culture per necessità hanno creduto in Dio per darsi un orizzonte di senso, in una parola per poter sopravvivere. E allora il problema della fede e della ragione è un problema di verità o di sopravvivenza di una comunità, di una cultura, di una civiltà?
Forse Nietzsche, più di tutti, si è avvicinato al vero nocciolo della questione, e proprio per questo ha avuto la possibilità di spostare la domanda: non più se Dio esiste o non esiste, ma se Dio è ancora vivo o invece è morto.
Quando nel Medioevo la letteratura era inferno, purgatorio, paradiso, l´arte era arte sacra, persino la donna era donna-angelo, Dio c´era, perché se tolgo la parola "Dio" non comprendo nulla di quell´epoca. Ma posso dire la stessa cosa oggi? Il nostro mondo ruota ancora intorno a Dio o intorno ad altre parole come "economia", "tecnica"? In questo caso Dio, che un tempo esisteva, ora è davvero morto. Di Lui si può raccontare solo la sua storia.

Corriere della Sera 11.12.07
Cambio di proprietà
L'«Unità» agli Angelucci. I giornalisti: inquietante
di G. Ca.


ROMA — È il regalo di Natale che i 70 giornalisti dell'Unità non vorrebbero ricevere: la firma definitiva del contratto con cui la Nie presieduta da Marialina Marcucci cede (in tutto o in gran parte) le quote del quotidiano fondato nel 1924 da Antonio Gramsci alla famiglia Angelucci.
Ovvero alla Tosinvest, forziere di un piccolo impero della sanità privata capitolina (26 cliniche, 3500 posti letto). E già editore di Libero e del Riformista.
Un affare da 20 milioni di euro che ufficiosamente parrebbe già chiuso. «Gli Angelucci acquisiranno soltanto una parte della società che edita l'Unità e non il 100 per 100», ha precisato ieri la Marcucci che dice di attendere ancora i risultati della verifica affidata a una società terza (la due diligence). E minimizza le tensioni interne: «Non credo vi siano malumori». Mentre invece la redazione, che vede davanti a sé «un futuro inquietante» e la accusa di «mettere la testa sotto la sabbia come uno struzzo» e di non «aver letto il suo stesso giornale», chiede risposte più precise e garanzie. Una su tutte: «Consentire una significativa articolazione azionaria». Tradotto: cercare altri soci. E ieri anche la Velina Rossa dava per quasi certo anche il cambio di direzione (anche questo smentito dalla Marcucci): Antonio Polito, senatore dell'Ulivo ed ex direttore del Riformista al posto di Antonio Padellaro.
Pronosticando un conseguente calo di 12/20 mila copie. L'Unità potrebbe diventare il quotidiano del Pd. «Non ne so nulla, al momento faccio un altro mestiere, se mi venisse proposto, allora valuterei un cambio di vita», dichiara Polito.
«Sono voci beneauguranti che mi accompagnano da 7 anni, quando entrai all'Unità con Furio Colombo», commenta Padellaro. «Un mese dopo ci davano per spacciati, siamo ancora qui».

Corriere della Sera 11.12.07
Interpretazioni Una lezione dall'antichità, Atene e Sparta caddero perché non ci fu la cooptazione
L'impero salvato dagli immigrati
Da stranieri a cittadini: ecco il segreto della forza di Roma
di Luciano Canfora


Fu l'avvento di Ottaviano Augusto come padrone assoluto di Roma, dopo la vittoria di Azio su Cleopatra e Antonio, che segnò la fine delle guerre civili, ma anche della Repubblica

Venti giorni prima della capitolazione della Germania, il 19 ottobre 1918, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff pubblicò nell'edizione berlinese del quotidiano Der Tag un breve e molto efficace articolo intitolato «Untergang Karthagos ». Nella situazione drammatica di quei giorni convulsi, la breve rievocazione della distruzione di Cartagine fortemente voluta dal Senato romano parla in realtà del presente, della prevedibile catastrofe tedesca, della resa incondizionata che gli occidentali pretendono dai tedeschi dopo aver inventato una «colpa tedesca». La rievocazione, in tratti essenziali, dell'imperialismo rapace praticato dai romani non potrebbe essere più efficace.
Un dettaglio va aggiunto a tale descrizione: che la decisione, presa a freddo, di annientare Cartagine quantunque vinta e da tempo non più pericolosa, era stata presa esattamente nel momento stesso in cui i cartaginesi saldavano l'ultima pesantissima rata delle cinquanta annualità di tributi cui li aveva sottomessi il trattato di pace (cioè di capitolazione) del 201 a.C.
«Il bottino e i tributi — scrive lo storico dell'antichità Jérôme Carcopino — vennero prelevati dapprincipio al solo fine di rimarcare la soggezione dei vinti e perpetuarla, ma finirono ben presto per piacere in quanto tali: arricchirono i capi e, al tempo stesso, innalzarono il livello di vita del popolo». Così, ad esempio, a partire dal 167 il popolo poté non più pagare un'imposta che i tributi inflitti sine die alla Macedonia rendevano inutili.
Oro e schiavi erano la posta in gioco nelle guerre del mondo antico. Nel caso delle guerre di conquista romane si trattava di tonnellate d'oro e di eserciti di schiavi. E quando il bottino già fatto — nonostante il sistema di scientifico sfruttamento delle province — cominciava ad esaurirsi, si profilavano nuovi obiettivi di conquista: la decisione di Traiano di attaccare il regno di Decebalo, cioè la Dacia, e di annetterlo, nasce da tale spinta. L'impero che non punta ad espandersi deperisce: ciò è inerente al modo di produzione antico che impone che la guerra si risolva nella spoliazione del vinto. Ecco perché la strategia imperiale difensiva a suo tempo adottata da Pericle contro Sparta risultò perdente. Ecco perché nel «discorso di guerra» L'impero mondiale di Augusto Wilamowitz indica nella Pax Augusta l'inizio della decadenza dell'impero.
Eppure per secoli, la reazione a questo sistema — spoliazione del vinto nel momento della conquista e oppressione spietata dopo la sua trasformazione in provincia — non fu quella che ci si poteva aspettare. Per lo meno, le voci a noi giunte di critica all'imperialismo di rapina sono poche. La lettera di Mitridate ad Arsace che Sallustio inserì nelle Historiae rielaborandola sulla base forse di un documento autentico, e il discorso del capo britannico Calgaco («ubi solitudinem faciunt pacem appellant »), reso eterno dalla scelta di Tacito di darne conto con rilievo nell'Agricola non sono che eccezioni.
I Romani seppero però anche, dopo aver tratto dai vinti tutti i vantaggi possibili, dividerli e creare una élite provinciale filoromana da cooptare persino, in alcuni casi, con l'immissione in Senato. È sempre Tacito che coglie l'importanza e l'efficacia di questa arte di governare l'impero, quando dà alle parole di Claudio in favore dell'immissione in Senato dei primores Galliae il valore di risposta a distanza delle parole di Calgaco.
Il segreto della durevolezza dell'impero — spiega Claudio — è nell'aver saputo cooptare. Se Atene e Sparta decaddero, ciò deriva dall'uso geloso e miope che esse fecero della cittadinanza. Romolo — prosegue Claudio — sin dalle origini aprì ad una «feccia» di stranieri la città appena sorta e li fece cittadini optimo iure. Per Claudio, e si può dire anche per Tacito, è nella gestione della cittadinanza, nella sua progressiva estensione, il segreto dell'impero. Quando Caracalla (212 d.C.) la estese a tutte le civitates dell'impero, parve che esso ne trasse nuova e durevole linfa. Se, com'è probabile, l'estensione della cittadinanza introdotta da Caracalla («constitutio antoniniana») era limitata appunto alle popolazioni urbane, fu il mondo rurale a provocare di lì a poco una crisi quasi mortale per l'impero: quella sommersione delle civitates ad opera delle masse di contadini-soldati che diede a Mikhail Rostovcev la spinta ad immaginare una suggestiva analogia tra la crisi del III secolo e la Russia dell'ottobre 1917.
La crisi invece fu superata grazie al formarsi di una nuova autocrazia, non più temperata dal conflitto col ceto senatorio. È la teocrazia dioclezianea e poi cristiano-costantiniana che rendeva tutti pari di fronte all'autocrate, il quale, grazie all'intuizione geniale di Costantino, seppe assicurarsi il formidabile appoggio della nuova, popolarissima, religione di salvezza della quale egli stesso si impose come leader. Incominciava allora un altro genere di impero, che facendo perno sulla «Seconda Roma» durò per un millennio.

Corriere della Sera 11.12.07
Elkann e Veronesi, dialogo laico sul «senso della vita»
di Stefano Bucci


Qualche anno fa, era il 1969, l'oncologo francese Leon Schwarzenberg (ministro della Sanità sotto la presidenza Mitterrand) aveva affidato le sue riflessioni di medico e di uomo ad un bellissimo libro, Changer la mort (Cambiare la morte). In certi momenti questo dialogo di Umberto Veronesi con Alain Elkann (Essere laico, Tascabili Bompiani, pp.128, e9) ricorda il libro di Leon Schwarzenberg (forse perché entrambi si ritrovano a combattere lo stesso nemico, forse perché entrambi non disdegnano l'impegno politico). Come quando, ad esempio, raccontano «il rifiuto, la rabbia, lo stupore, la rassegnazione, l'accettazione, la speranza» che si possono leggere negli occhi del malato.
Seguendo le tracce dei suoi precedenti dialoghi con il rabbino Elio Toaff (Essere ebreo), con il Cardinale Carlo Maria Martini (Cambiare il cuore), con il principe El Hassan Bin Talal (Essere musulmano), Alain Elkann incalza stavolta con il consueto garbo il pioniere della lotta contro i tumori in Italia nonché attuale direttore dell'Istituto europeo di oncologia (il ricavato delle vendite del libro è destinato all'associazione «... Sottovoce... » che sostiene i pazienti dello Ieo e le loro famiglie) . Contribuendo a metterne in luce aspetti privati che si trasferiscono in maniera ineluttabile nel suo «modo» di essere medico e di affrontare quotidianamente( «dalla parte di chi cura ») un male terribile.
«Essere laico» per lui (scrive Ferruccio de Bortoli nella prefazione) è credere in una «immortalità che non è quella dei miracoli della fede ma la proiezione illuministica della ragione e della conoscenze, l'immortalità racchiusa nella famiglia, nei figli ai quali consegniamo eredità morali e testimonianze civili». Ma questa convinzione parte da lontano da quel «bambino» che Veronesi è stato e che «condiziona ancora adesso la sua vita». Al pari della figura di una madre «intensamente religiosa, cattolica, che recitava il rosario tutte le sere » (e sarà proprio la sua adorazione per la madre a spingerlo a «proteggere il mondo femminile»).
Il «professore» di oggi si ritrova così nella memoria di una infanzia nella cascina «dove a volte al mattino trovavano il bicchiere dell'acqua ghiacciato». Dopo la guerra abbandona la religione per Marx, ma la vita lo obbliga a confrontarsi con il suo vecchio parroco don Giovanni ammalato di tumore che «lo ringrazierà per la sua carità senza fede». Libertà, tolleranza e solidarietà nei riguardi dei più deboli: questi i principi di Veronesi (che non dimentica nel suo dialogo con Elkann nemmeno le citazioni da Le invasioni barbariche di Denys Arcand e da L'albero degli zoccoli di Ermanno Olmi), uomo convinto che «le religioni siano espressioni e proiezioni dei bisogni politici e culturali delle popolazioni. Ma che non ama però essere definito ateo («perché non posso negare l'esistenza di Dio, piuttosto agnostico»): «Essere laico — per lui — vuol dire essere liberi ma eticamente responsabili, non più nei riguardi di Dio, ma nei riguardi dell'umanità».

CITATO AL LUNEDI:
Repubblica 11.12.07
"I gay sono bimbi mai cresciuti conservano creatività e fantasia"
Fa discutere la tesi dell'etologo Desmond Morris
di Enrico Franceschini


"Il loro sviluppo si interrompe prima del tempo". Gli scienziati: "Una stupidaggine"
La nuova teoria pubblicata nell´ultimo libro dello scienziato, "The naked man"

Londra - I gay sono eterni bambini. O meglio, adulti non del tutto cresciuti, che hanno conservato «da grandi» la fantasia, la spontaneità e la meravigliosa ingenuità dei più piccini. A formulare questa inedita teoria è Desmond Morris, il celebre etologo e zoologo inglese, in un nuovo libro pubblicato in questi giorni in Gran Bretagna, dal titolo «The naked man» (L´uomo nudo), e subito fonte di discussioni e polemiche. È un completo ribaltamento delle idee in materia che lo studioso aveva espresso nelle sue opere e lezioni precedenti.
Il professor Morris aveva creduto a lungo, infatti, che le tendenze omosessuali fossero dovute soprattutto alla mancanza di una forte figura paterna in famiglia, insomma a un padre debole. Ma adesso ha cambiato opinione, sostenendo che a rendere gay le persone è la neotonia, un termine usato in zoologia per identificare il momento in cui lo sviluppo di una determinata specie si arresta prima del tempo e l´animale conserva allora in età adulta alcuni tratti infantili, adolescenziali, giovanili.
Da sempre scettico sulla possibilità che l´omosessualità abbia una qualche base genetica, nel nuovo libro Morris sottolinea il fatto che i gay sono in genere «più inventivi e creativi degli eterosessuali, proprio perché posseggono l´agilità mentale e la giocosità dell´infanzia».
La prova di questa teoria non viene dal regno animale, come in passato, quando Morris ha sempre cercato di spiegare e studiare i comportamenti umani servendosi della zoologia come modello, e in particolare analizzando le numerose somiglianze di comportamento fra le scimmie e gli umani.
Stavolta lo scienziato trova la sua dimostrazione nel mondo dell´arte e dell´intelletto umano. «In generale i gay hanno contribuito alla vita culturale e all´arte in modo proporzionatamente molto maggiore degli eterosessuali. Conservare in età adulta la giocosità dell´infanzia è un fattore molto positivo per chi opera in settori creativi».
L´autore del best seller «La scimmia nuda» (ossia l´uomo, inteso come una scimmia che ha perso il pelo), il best-seller del 1967 che lo rese famoso in tutto il mondo, cita nel suo libro ad esempio della maggiore creatività dei gay personaggi come Socrate, Leonardo da Vinci, Ciakowskij, Oscar Wilde, Lawrence d´Arabia: ma a parte che non tutti i biografi concordano con l´omosessualiutà di tutti i personaggi citati, Morris tralascia di considerare il gran numero di artisti eterosessuali, a cominciare da donnaioli impenitenti come Picasso e Norman Mailer, per citarne solo un paio frai tanti.
I gruppi e le associazioni omosessuali in Gran Bretagna non hanno comunque reagito alla tesi che li descrive come eterni fanciulli, forse perché, dimostrabile o meno che sia, l´autore attribuisce comunque un attestato di grande creatività ai gay di ogni tempo, dall´antichità ai giorni nostri, osserva il Sunday Times, che ha pubblicato ieri un´anticipazione del libro di Morris.
Meno convinta è la comunità scientifica: «Dove sono le prove?», commenta il professor Steve Jones, docente di genetica alla University City London. «È un´idea stupida, non sorretta da alcuna dimostrazione scientifica».

Liberazione 11.12.07
La prima scommessa è vinta
C'è la sinistra. Il resto verrà
di Stefano Bocconetti


Ognuno con la sua critica, in un contesto meno rituale, più aperto e in via di definizione continua. Ma tutti erano d'accordo
E' iniziato un percorso, necessario. Ecco cosa raccontano le due giornate degli Stati generali de "la Sinistra, l'Arcobaleno"

Cosa raccontano le due giornate degli Stati generali a Roma

Intanto è partito. Sì, ma avrebbe dovuto mettersi in moto tempo fa, quando tutto già sembrava pronto. E magari i binari erano anche un po' più sgombri. Però, quel treno è partito. Sì, ma ancora non si sa se ce la farà a portare a destinazione tutti i vagoni. Ancora non si sa, se e come i passeggeri troveranno posto a bordo. Però, intanto, è partito. Nel parterre della Fiera di Roma - della nuova Fiera di Roma, a metà strada fra la città e l'aeroporto, anche bella col suo profilo ondulato ma che sembra fatta apposta per ridare attualità alla vecchia definizione di cattedrale nel deserto -, nel parterre della Fiera di Roma, si diceva, dove domenica è nata "la Sinistra l'Arcobaleno", potevi parlare con chiunque e avevi le stesse conclusioni. Base, dirigenti, quadri intermedi, gente senza tessera, semplici curiosi (pochi, scoraggiati dalla difficoltà di raggiungere la Nuova Fiera). Ognuno aveva la sua critica da fare. Tutte legittime e - sarebbe sciocco negarlo - tutte abbastanza fondate. Che le assemblee di sabato e domenica sono arrivate tardi, che sono state anche un po' rituali. Meno, comunque, molto meno di quel che si possa pensare. Per capire: non è stato un congresso del Pci degli anni '70. Congressi importanti per la storia di questo paese ma che comunque dovevano finire con una sintesi. Su ogni singolo problema. Con una posizione ufficiale. Qui, bastava girare per i seminari per accorgersi che il metodo era un altro. Si proponevano temi, si apriva una ricerca. In una sinistra che da troppo tempo aveva smesso di cercare. Ci si parlava, ci si conosceva in una sinistra che da troppo tempo aveva smesso di parlarsi. Si diceva tutto questo nel parterre. E si aggiungevano anche preoccupazioni più contingenti: legate alle diverse valutazioni sull'attualità politica delle quattro forze politiche promotrici. Sulla riforma elettorale, sul giudizio da dare di quest'anno e mezzo di governo Prodi. E chi più ne ha, più ne metta. Ma i discorsi raccolti in quell'enorme sala, finivano tutti allo stesso modo: vabbè, l'importante è comunque aver cominciato. Il resto verrà.
Lo dicevano tutti ma proprio tutti-tutti. Un concetto sussurrato, però, più che dichiarato esplicitamente. Perché se ci si pensa non è uno di quelle affermazioni che possano essere inserite nella categoria del "politicamente corretto". In questo capitolo, la formazione di un nuovo soggetto si fa partendo dai programmi, scegliendo le modalità del far politica, gli obiettivi. Se ci si trova d'accordo, si comincia. Stavolta non è stato così. C'è una base comune, è ovvio. Non dettagliatissima ma neanche banale. Ci sono obiettivi comuni e c'è un impegno a lavorare insieme. C'è molto, ma non tutto. Ma c'è soprattutto la consapevolezza che c'è bisogno di sinistra. Che avrà un futuro solo se si unisce e si ripensa.
E' l'invocazione di Ingrao, insomma. Quella richiesta che nasce dalle cose, dalla tragedia della ThyssenKrupp. Il resto verrà. Ma intanto il treno si è messo in moto.
E allora non resta che raccontare le impressioni di questa partenza. Una, è apparsa evidente a chi aveva voglia di ascoltare i discorsi dal palco, domenica mattina. Meno scontati di quello che hanno poi raccontato i giornali. Accorgendosi così che ci sono due velocità. Metafora che si adatta malissimo a quella del treno, ma tant'è. Due velocità. Una è quella imposta da chi è venuto qui a raccontare le proprie esperienze. A raccontare le proprie storie. Non solo di vertenze, non solo di "lotte". Ma anche racconti di un modo diverso di governare, di amministrare. Addirittura, nelle parole dell'amministratore provinciale di Napoli, il racconto di come la sinistra possa inventarsi un proprio progetto per far quadrare i conti pubblici. Tutte insieme queste storie, "narrano" - per usare le parole di Nichi Vendola - di una "cosa" che c'è già. Già esiste. Che addirittura sembra molto solida. Fatta dallo stesso modo di sentire, fatta dalla stessa passione, dallo stesso altruismo. Fatta dalle stesse denunce, dalle stesse analisi.
C'è poi l'altra velocità. Quella assai più lenta che segna il rapporto fra i quattro partiti. Anche questa velocità era "visibile" ascoltando i discorsi dei leader. Non c'era la stessa fretta, non c'era la stessa urgenza nelle parole dei segretari. C'è chi si è impegnato, ha chiesto agli altri analoghi impegni. Ma c'è stato anche chi ha preferito utilizzare questa tribuna per riaffermare le ragioni della propria identità. O microidentità. Chi ha preferito la citazione alla firma di un patto. Fosse anche simbolico. E c'è chi si è messo a metà fra queste due posizioni.
Diverse velocità, allora. Che hanno fatto dire a qualcuno che forse, alla fine del percorso, non ci saranno tutte e quattro le forze politiche che hanno organizzato gli Stati generali. Qualcuna avrà la tentazione di tirarsi da parte. Di inchiodarsi ai suoi simboli o magari di appellarsi ad esigenze di visibilità. Il rischio c'è. Ma non è detto che vada così. Il problema, delle prossime settimane non dei prossimi mesi, forse è tutto qui. Come "rompere gli argini", cosa inventarsi perché la prima velocità irrompa nella seconda. La trascini, le imponga un altro ritmo.
E a Rifondazione - anche di questo nel parterre erano convinti tutti, militanti o semplici "alleati" - spetta un compito ancora più difficile che agli altri. Anche qui una sensazione, una semplice sensazione. Che svela però molto di cosa sia davvero questo partito. Di come sia percepito, di come sia riuscito a trasformarsi durante questi anni. La sensazione nasce dall'ingresso rumoroso dei "no Dal Molin" durante l'assemblea. Chi ha assistito alla scena dal pubblico, ha potuto vedere in sala le reazioni più diverse. Interesse, tanto, ma anche ostilità. Addirittura in qualcuno ostilità preconcetta. Comunque scarsa dimestichezza col problema. Ma in ogni caso, gli Stati Generali non hanno vissuto alcuna tensione. Sono proseguiti aprendosi al confronto con quel movimento, con quelle istanze radicali che sosteneva. E questo, lo si è dovuto solo ai dirigenti, ai militanti di Rifondazione. A chi da anni ha scelto non solo di confrontarsi ma di essere "dentro" i movimenti. Questo lo si è dovuto a chi da anni ha dimestichezza con la spontaneità delle mille associazioni che difendono il territorio, che si oppongono alla guerra, che provano a imporre nuovi diritti. Questo è stato possibile con un partito, con un gruppo dirigente e di militanti, che parlava con persone, con uomini, donne, ragazzi, con cui poi si fanno cortei, occupazioni. Presidi. I "No Dal Molin" sono così riusciti a parlare all'assemblea, hanno chiesto più sinistra, hanno chiesto impegni. Qualcuno è stato sottoscritto, per altri si è rimasti nel vago. Resta il dato che anche chi non è completamente d'accordo, sceglie innanzitutto di interloquire con questa "cosa" nata domenica. E forse anche così può arrivare la spinta a superare le due velocità. E da quel che si è visto alla Fiera di Roma è un lavoro che graverà quasi solo sulle spalle di Rifondazione. Buon lavoro.

Liberazione 11.12.07
La sinistra pianta il suo seme unitario
Prc, Sd, Pdci, Verdi compiono il primo passo del soggetto federativo
Presentata la carta d'intenti comune: lavoro, ambiente, pace, diritti
di Angela Mauro


Una domenica mattina di dicembre, cielo plumbeo e pioggerellina, sei praticamente in mezzo al nulla, tra campi incolti e cantieri aperti. Precisamente davanti alla Fiera di Roma, struttura nuova di zecca tra la capitale e Fiumicino. La sinistra sceglie una cattedrale nel deserto per piantare il suo fiore, l'atto costitutivo di una federazione che d'ora in poi - promettono i leader del Prc, Sd, Pdci e Verdi - si muoverà come una cosa sola. Situazione logistica decisamente un po' scomoda, fuori mano ma - alla fine - altamente evocativa dello sforzo che si deve compiere per incidere in una società in crisi, in un governo soffocato dai poteri forti.
Compito non semplice, ma nel deserto, in una fredda mattina di dicembre, c'è vita. Per la prima assemblea unitaria de "La Sinistra, l'Arcobaleno" il risultato è palpabile. E' a portata di mano, quando arrivando vieni accolto dal "cacerolazo" dei No dal Molin, i vicentini che stazionano davanti al complesso fieristico distribuendo volantini e preparandosi a irrompere in plenaria per chiedere alla sinistra di impegnarsi sulla moratoria dei lavori di realizzazione della nuova base Usa. Lo faranno, alcune ore più tardi, mentre dallo "spazio della presidenza" (concezione logistica volutamente più informale del solito "tavolo dei relatori") sta parlando Aurelio Mancuso dell'Arcigay. Tutta la rappresentanza dei No dal Molin arrivata a Roma occupa il palco: bandiere, fischietti e ancora rumore di pentole usate come percussioni (di protesta). E' un altro risultato palpabile dell'assemblea: lasciarsi attraversare dai movimenti senza barriere, senza timori. E sono due, di risultati. Immediati.
Un altro è la carta d'intenti unitaria, che indica la rotta: partecipazione, impegno contro la «svalorizzazione del lavoro umano e delle risorse naturali», per la pace, le libertà individuali e collettive. Parole d'ordine che aspettano di entrare nel merito alla prova dei fatti. Un primo "fatto" accadrà a gennaio, quando la sinistra andrà alla verifica programmatica con il governo Prodi. Si lavora per fare in modo che l'esito della verifica garantisca un altro risultato unitario: restare al governo se Palazzo Chigi dà risposte concrete su precarietà, pace, immigrazione, diritti; uscire se quelle condizioni non ci sono. Il bivio non è proprio chiaro per tutti e forse non potrebbe esserlo, adesso, a quadro politico più che terremotato su tutti i fronti. Ma, per il futuro e l'oltre-Prodi, se fa testo la carta di intenti unitaria, il bivio c'è, è contemplato: «La sinistra è pronta ad assumersi responsabilità di governo o esercitare la sua funzione all'opposizione». Dipende dalle condizioni programmatiche. Si vedrà.
Quello che conta è il passo compiuto in una unanime direzione nel fine settimana. Se ne sono accorti anche i sondaggisti, che ieri giocavano a scommettere sulle percentuali di consenso della sinistra unita (si va dal 18-19 per cento per Nexus ad una forbice tra il 9 e il 14 per la Swg, al 15 per cento di Piepoli). Se fuori c'è il deserto e il fiore, dentro, in fiera, è caos produttivo e fermento. Sul palco si alternano esponenti delle associazioni della società civile e leader di partito. La platea (posti a sedere volutamente scomposti davanti, file di sedie dietro) non è solo un classico punto di ascolto, ma luogo di incontro e scambio. Eppure si muove unita nell'applauso quando i leader lanciano i loro messaggi al governo. «Non possiamo più accettare che il voltagabbana di turno conti più di un terzo della coalizione», urla al microfono Franco Giordano. «Caro Romano, noi votiamo la Finanziaria e non lavoriamo per la caduta del governo, ma così non si va avanti...», è chiaro Fabio Mussi. Oliviero Diliberto avverte che - checchè ne dica la Binetti - sulle norme anti-omofobia votate nel ddl espulsioni al Senato «non si può tornare indietro». Poi fa proprio Berlinguer e la questione morale. Alfonso Pecoraro Scanio, chiamato in causa direttamente dai No dal Molin, fornisce la sua replica: «Senza la valutazione di impatto ambientale non si va da nessuna parte». Insomma, no alla nuova base Usa, progetto sul quale i quattro ministri della sinistra hanno chiesto un ripensamento a Prodi in una lettera spedita proprio alla vigilia dell'assemblea unitaria.
Dal palco parla poi chi leader non è (ma viene immaginato tale, a giudicare dalle ovazioni che ottiene) e parla chi leader lo è stato, di una corposa storia di sinistra che ancora entusiasma. Sono le 11 circa, prende la parola il governatore della Puglia Nichi Vendola. E checchè ne dica lui - attentissimo a sottolineare di essere stato «eletto in Regione due anni fa, il mio posto è là» - parla da leader, di quelli "non leaderisti" che piacciono a sinistra. Non si vergogna di citare l'argomento "riforma della legge elettorale": non è cosa sporca, ma strumento per costruire un «argine contro la frammentazione della società in corporazioni». Ammette lo «spaesamento, lo smottamento» che per forza di cose caratterizza il processo unitario. Esorta ad andare oltre la federazione dei partiti: «Costituente, non equilibrio precario di corpi costituiti». Il tutto è doloroso, come «un parto». Perchè quando si esce da se stessi si ha «paura di perdere la propria identità, il sentimento. Ma è necessario». La dice con Pasolini, senza leggere, a memoria: «Piange ciò che muta per farsi migliore». Ma prima che ci arrivi, è lui che si commuove, come tutta la sala. Caos sempre più produttivo: arriva Pietro Ingrao, 92 anni e non li dimostra. «Unitevi e fate presto!». Sul palco, prende la parola e non la molla per più di un quarto d'ora. «Fate presto perchè la situazione urge e i problemi davanti alla vita quotidiana bruciano e non possiamo attendere ancora. Serve uno sforzo, uno scatto in piú che segni un mutamento di clima». La platea ha i brividi, applausi anche da Achille Occhetto e Armando Cossutta, seduti in prima fila. E lo stesso concetto, quello dell'andare oltre la federazione, lo sviscera Gianni Rinaldini, leader della Fiom che non ha problemi a dire che «fare il modello Flm non basta se non porta all'unità». Fausto Bertinotti arriva dopo e non parla, per scelta dopo le polemiche seguite all'ultima intervista a Repubblica sul governo e sulla sinistra. «Bellissima giornata», si limita, un «tuffo».
La rotta infatti è in mare aperto, i porti da raggiungere uniti sono diversi. C'è quello dei «linguaggi e delle forme nuove della politica» indicato dalle "femministe autoconvocate" che domenica volevano trasformare la plenaria in assemblea autogestita, non ci sono riuscite e se ne sono andate in protesta. C'è quello del «protagonismo dei movimenti nei processi decisionali», invocato dal palco da Paul Ginsborg a nome dei "movimenti autoconvocati". E c'è l'approdo ad una cultura plurale e unitaria che non si incastri sulle preferenze musicali-identitarie. Affinchè non sia un dramma se Pecoraro alla fine non ha cantato Bella ciao.

lunedì 10 dicembre 2007

l'Unità 10.12.07
La Sinistra unita c’è e chiede spazio a Prodi
Nasce Sinistra e l’Arcobaleno
Mussi: non contiamo meno di Binetti e Dini. Il premier: alleanza coraggiosa, stimolerà il governo
di Marcella Ciarnelli


LE NOTE intense di ”Bella ciao” segnano la conclusione dell’assemblea generale della Sinistra Arcobaleno. All’inizio della mattinata con un minuto di silenzio, nella sala con le luci abbassate, è stato reso omaggio ai morti sul lavoro. Cantano i leader dei quattro
partiti che hanno deciso di cominciare insieme un percorso non facile, ma di certo affascinante, sulla traccia della “dichiarazione d’intenti” che è stata letta poco prima in cui è stato delineato il carattere dell’aggregazione di sinistra fondata sui principi di «uguaglianza, giustizia, libertà, pace, valore del lavoro e del sapere, centralità dell’ambiente, laicità dello Stato, critica dei modelli patriarcali e maschilisti». L’ambizione è quella di «costruire non una forza minoritaria, ma una forza grande e autonoma, capace di competere per l’egemonia», una forza «pronta ad assumersi oggi e in futuro responsabilità di governo o esercitare la sua funzione dall’opposizione», che intende «presentarsi unita alle prossime aministrative» che può puntare «al 15 per cento».
La neonata formazione, che si sente di lotta ma è nei fatti di governo, non lesina avvertimenti all’esecutivo. La verifica chiesta per gennaio viene indicata come uno spartiacque. Bisogna riprendere in mano il programma dell’Unione e stabilire un’agenda di priorità. Fabio Mussi, il suo uno degli interventi più appaluditi, si è rivolto direttamente a Prodi: «Caro Romano, noi votiamo la Finanziaria, non lavoriamo per far cadere il governo, però così non si va avanti, ci si logora. Serve rispetto per tutti ma questa forza che nasce ha 150 parlamentari che non possono contare meno di Dini, Manzione, Binetti o Bordon». Diliberto ricorda Enrico Berlinguer, convinto che «sarebbe alla nostra guida» e difende con foga la norma contro l’omofobia «una norma di civiltà su cui non si torna indietro». Comincia il cammino. Che è già confronto con la realtà del Paese. Ad un certo punto hanno fatto irruzione, con fischietti e campanacci, i manifestanti del comitato “No Dal Molin” che chiedono la moratoria sull’allargamento della base Usa di Vicenza ed un maggiore impegno della Sinistra Arcobaleno. Nonostante sia stato deciso in un altro modo dall’esecutivo, il ministro Pecoraro Scanio promette. Un altro punto dolente per l’omogeneità dell’esecutivo. E il segretario di Rifondazione, Franco Giordano addita le fibrillazioni centriste dell’Unione: «Non possiamo più accettare che il voltagabbana di turno conti più di un terzo della coalizione. Noi a discutere e gli altri, dal centro del Pd, votano contro il governo. Chi lo danneggia di più noi o loro?». Arriva la risposta di Prodi. Un augurio alla nuova «coraggiosa» alleanza che sarà «capace di generare nuovi stimoli alla democrazia del Paese e all’azione di governo che avete sempre sostenuto con coerenza in questo primo anno e mezzo di legislatura. Il vostro cammino comincia ora. Il nostro continua ancora più convintamente perché basato su un dialogo che non viene mai meno».
Il coro finale è davvero convinto e gioioso nel padiglione numero 1 della nuova Fiera di Roma. Si fa festa. Tutti insieme, alleggeriti dal viatico che Pietro Ingrao non ha rinunciato a portare di persona emozionando la platea come ha fatto Nichi Vendola.
«È una bellissima giornata» sintetizza soddisfatto il presidente della Camera, Fausto Bertinotti che è rimasto al suo posto in prima fila, evitando il palco, per non dar luogo a pretestuose polemiche. «Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua e mi pare che quello di oggi sia un grande tuffo» aggiunge «contento, molto contento» per com’è andata la due giorni. Fuori piove a dirotto.

l'Unità 10.12.07
INGRAO: UNITEVI SUBITO
«Fate presto, l’unità è urgente»
Lunghissimo l’applauso per Pietro Ingrao
che incalza: avanti per il riscatto del lavoro
di A.C.


FAUSTO BERTINOTTI assicura che lui «era certissimo» che, alla fine, Pietro ingrao sarebbe arrivato. Eppure alle 11 di mattina, quando l’anziano leader si materializza sul maxischermo dell’assemblea della Sinistra, mentre parla Nichi Vendola, l’emozione della platea è grandissima. Una sorpresa. Tutti in piedi ad applaudire. Ingrao, giaccone blu e sciarpa rossa, passo lento aiutato dal bastone e voce ferma, sale sul palco con l’aiuto della sorella Giulia. Porta il suo «saluto caldo, pieno di speranza». Auspica che «da qui esca rafforzata l’unità della sinistra». Dice: «Facio una raccomandazione, i vecchi fanno sempre le prediche: fate presto perché la vostra unità urge e il Paese ne ha bisogno. Abbiamo davanti agli occhi la condizione tragica del lavoro in Italia. In nome dei morti di Torino, cui mando un saluto commosso, lancio da qui un grido: unitevi, unitevi e fate presto. Non possiamo attendere ancora. Avanti insieme per il riscatto del lavoro». Aggiunge Ingrao: «C’è una destra reazionaria e odiosa e voi uniti dovete sconfiggere i nemici fino alla libertà». Gli applausi coprono la sua voce. Lui conclude con il pugno chiuso: «Viva l’Italia e viva la passione di quelli che chiedono liberazione e salvezza».
Ingrao scende dal palco, gli si fanno incontro, tra gli altri, Armando Cossutta e Achille Occhetto, che stavano seduti vicini in prima fila. «Sei sempre giovane!», gli dice Cossutta, che di anni ne ha solo 81 contro i 92 di Ingrao. E così, in una foto di famiglia, al battesimo della Cosa Rossa si ricompone il trio di leader del Pci che guidava le tre mozioni del congresso di Bologna del 1990, quello che chiuse il Pci per dar vita alla Cosa. Questa volta sono tutti e tre d’accordo per fare un nuovo partito unito subito. «La federazione finisce in una sommatoria di partiti», ha detto Cossutta.

l'Unità 10.12.07
Un leader c’è: Nichi Vendola
di Gianfranco Pasquino


«Unita, plurale, federata»: è una prospettiva della sinistra che, altrove, ovvero nella vicina Francia, grazie al coraggio, alla leadership, all’azione di François Mitterrand è stata coronata da successo. A tale proposito, mi fa piacere ricordare agli esponenti della sinistra-arcobaleno che il successo della gauche plurielle è stato notevolmente facilitato dal semipresidenzialismo, con elezione diretta del presidente della Repubblica
Ma anche dal sistema elettorale a doppio turno che premia le aggregazioni, incoraggia le coalizioni, garantisce il bipolarismo, consente l’alternanza, dà molto potere agli elettori. Probabilmente, gli elettori italiani, almeno quelli della variegata galassia di sinistra, vogliono, come scrive il Manifesto approvato a conclusione degli Stati Generali della Sinistra, non disdegnando la governabilità, più autorevolezza e legittimità (che, in democrazia, sono sempre e soprattutto la conseguenza delle consultazioni elettorali), ma desiderano anche che la rappresentanza politica abbia stretti rapporti con la rappresentanza sociale. Dunque, qualche indicazione in più sul ruolo dei sindacati, che non possono continuare a trincerarsi dietro un muro di sdegnosa autonomia, risulterebbe utile. In Francia, la CFDT costituì deliberatamente uno straordinario organismo di sostegno e di legittimazione delle politiche della sinistra governante. Se, qui, in Italia, le diverse sensibilità di sinistra e ambientaliste sapranno, in tempi che, inevitabilmente, debbono essere molto ristretti, dare vita ad un’unica organizzazione attraverso ampi processi di consultazione, di coinvolgimento, di partecipazione incisiva, anche il Partito Democratico e il governo Prodi saranno obbligati a tenerne conto.
Questa sinistra-arcobaleno rimette al centro dell’attenzione politica e governativa due temi che, per ragioni diverse, sono egualmente importanti: il lavoro e la laicità. È giusto che sia così, ma molto conta come i due temi verranno concretamente declinati nella consapevolezza che, dentro il Partito Democratico, entrambi costituiscono frequente occasione di scontro. In quanto “arcobaleno” questa sinistra dà notevole e opportuno rilievo all’ambiente che, anche preso a sé, potrebbe informare da solo tutto un programma di governo. Particolarmente importante è la dichiarazione esplicita della disponibilità ad assumersi responsabilità di governo (nonché, appena un po’ sibillinamente, l’impegno a sostenere l’attuale governo «per il tempo della legislatura che resta»).
I Manifesti contano, soprattutto quando sono scritti in maniera partecipata e appassionata e sono trasparentemente discussi e approvati. Tuttavia, molto spesso nell’interpretazione del pensiero e delle possibilità di un’organizzazione politica bisogna guardare anche ai simboli e agli umori.
Pietro Ingrao merita applausi per il suo percorso, peraltro tutto, senza ripensamenti, comunista, ma, sicuramente, mai di accettazione di responsabilità di governo e della conseguente necessità di tenere conto delle compatibilità fra le forze da “mettere in campo” e gli obiettivi da perseguire. Icona del passato, Ingrao non può certamente assumere il ruolo di padre nobile di una sinistra che voglia governare.
Sono assolutamente consapevole della litania classica di molti settori di molte sinistre per le quali prima viene il programma poi il resto e, talvolta, da ultimo, la leadership. Incidentalmente, non è stato questo il percorso delineato e completato dal leader del Partito Democratico. Ma la sinistra-arcobaleno ha effettivamente un grande bisogno di leadership. Se sarà quella del presidente della regione Puglia, Nichi Vendola, accolto con ripetuti e intensi applausi, rappresenterà, da un lato, l’innovazione, dall’altro, la capacità di trasformare una sinistra sociale in una leadership di governo (a suo tempo, incoronata da primarie vere). Prudente (e, finalmente, “misurato”), Bertinotti si è limitato a dichiarare che con questi Stati Generali la sinistra-arcobaleno si è tuffata, immagino, nel mare di una difficile politica, lasciando intuire che il problema è imparare a nuotare. Poiché non erano pochi i presenti agli Stati Generali che avevano già avuto oppure occupano attualmente cariche di governo, il problema della sinistra-arcobaleno si trova piuttosto, penso, nelle propensioni dei suoi dirigenti a differenziarsi, per ricerca di visibilità, e a blandire qualsiasi gruppo che si muova nei loro dintorni dai no global al “no Dal Molin” quando, invece, dovrebbero interloquire, educare, guidare, spiegare come risolvere le contraddizioni. In definitiva, però, anche coloro che sanno nuotare debbono porsi delle mete e indicare degli approdi. Mentre la sinistra-arcobaleno nuota mi parrebbe opportuno segnalare che, senza il suo apporto, non soltanto il Partito Democratico non avrebbe abbastanza voti-seggi per governare, ma pezzi di società italiana rimarrebbero privi di rappresentanza sociale e politica.

l'Unità 10.12.07
Il leader? Ancora non c’è. Ma quegli applausi a Nichi Vendola...
di Andrea Carugati


Potrebbe esser scelto con le primarie, come il presidente della Puglia. In Sicilia e Friuli il nuovo soggetto si presenterà unito alle amministrative del 2008

Ingrao arriva in sala mentre il governatore parla. Qualcuno sussurra: sembra un passaggio di consegne

Questo è un parto, dice, forse un partito
Si esca da noi stessi per non essere un Bignami di ciò che fummo

L’applausometro della Fiera di Roma non lascia dubbi: ci sono due possibili leader nel futuro della Sinistra arcobaleno. Tutti e due vengono dal Pci, il primo alla Svolta di Occhetto disse un no convinto, il secondo ne fu uno dei principali sostenitori. Ora stanno insieme nella Cosa Rossa, e infiammano la platea parlando della sinistra del XXI secolo, dei suoi valori, dei suoi sì e dei suoi no. Quello che ha preso più applausi è Nichi Vendola, Fabio Mussi lo segue a una certa distanza ma in fondo non poteva aspettarsi di più: Vendola è il delfino incoronato da Bertinotti, e in questa sala, pur composita, il Prc la fa da padrone. Una ventina gli applausi per Vendola, cui una accorta regia ha regalato l’arrivo di Pietro Ingrao nel mezzo del suo discorso. «Quasi un passaggio di consegne», si sussurrava nelle prime file. Appena sceso dal palco, il presidente della Puglia corre ad abbracciare il vecchio leader. Discorso poetico il suo, a volte barocco, perfetta la citazione di Pasolini («Piange ciò che muta anche per farsi migliore», a proposito del nuovo soggetto della sinistra), intriso di dolente speranza. Di indignazione per i «roghi in cui bruciano i boschi, i bimbi Rom, la carne giovane del nuovo proletariato». Ma bruciano anche «la storia e la coscienza operaia», mentre «la sfera politico-istituzionale pare una replica dell’Isola dei famosi». Vendola strappa applausi a scena aperta quando descrive l’Italia che indigna la sua coscienza di sinistra, quella della «religione della competitività», quella che ha sepolto «l’ideologia della speranza», dove «l’orribile morte proletaria fa meno audience dei delitti di provincia nati dalla noia adolescenziale». Per questo invoca il «coraggio di una nuova nascita», un «ricominciamento» della sinistra, che dia risposte «alle domande di senso e al dolore sociale». «È necessario uscire da se stessi», avverte. E per questo i quattro partiti non possono più essere «custodi fallimentari delle proprie bandiere», un «Bignami di ciò che fummo». Vendola parla al cuore e alla pancia di una platea che vuole unità e subito: «Questo è un parto, un partire, non so se un partito. E come un parto c’è il dolore e la gioia». Anche Mussi punta dritto alla voglia di unità del popolo rosso. «Travolgeteci!», dice alla fine del suo intervento. «Voglio una sinistra unita, unita, unita», insiste. La sua performance è un po’ una sorpresa, nonostante i 40 anni di vita politica, e anche dalle parti di Rifondazione si ammette che «tra i segretari Fabio è quello che ha preso più applausi». Il suo discorso è nettamente di sinistra, si ricollega a un concetto che ha più volte sostenuto: «Quando facemmo la Svolta dell’89, l’idea era una sinistra che rompesse la continuità con la storia del Pci, ma fosse anche più radicale nei contenuti». Dunque non stupisce la frase forte: «Il capitalismo, nelle sue forme attuali, è incompatibile con il pianeta terra». Come non stupisce la radicalità su tv e conflitto di interessi e anche l’attacco a Bendetto XVI: «Se si cancellano l’illuminismo e il marxismo, di questo passo restano solo l’assolutismo e il processo a Galilei». Non c’è dubbio: alla fiera di Roma hanno vinto due entusiasti del soggetto unitario. E il terzo classificato negli applausi, il leader del Prc Giordano (Ingrao è fuori quota), è sulla stessa linea. E tuttavia, di leadership ancora non si parla. Bisognerà aspettare le amministrative del 2008, vedere se l’Arcobaleno, dove si presenterà unito (certamente in Sicilia e Friuli, in bilico la Provincia di Roma), avrà un buon risultato. «Solo in quel caso», dice Alfonso Gianni, sottosegretario del Prc, «il processo avrà davvero un’accelerazione». Si passerà, cioè, dalla federazione a un soggetto davvero unitario. Con la reale necessità di un leader. «Una leadership a rotazione alla lunga non funziona», dice Gianni. «C’è bisogno di un catalizzatore delle speranze». Un leader scelto con le primarie? «Non le demonizzo affatto», dice Gianni. «È una sciocchezza dire che è un modello da partito americano. In fondo nel 2005 abbiamo partecipato anche noi con Bertinotti, e recentemente abbiamo vinto a quelle di Fiumicino».

l'Unità 10.12.07
Archivi. Il settimanale tedesco Spiegel pubblica le prove del sostegno di Guglielmo II al movimento rivoluzionario e scrive: «Fu la Germania a dettare a Lenin la strategia»
La Rivoluzione d’Ottobre pagata con il denaro del Kaiser
di Valeria Trigo


Ci furono le casse tedesche e la strategia del cancelliere Hindenburg dietro il successo della Rivoluzione d’Ottobre: a finanziare Lenin fu il Kaiser Guglielmo II. Una storia nota, ma finora mancavano le prove. Ora ci sono: dopo una lunga ricerca negli archivi britannici, svedesi, russi e prussiani, un gruppo di giornalisti dello Spiegel, hanno trovato estratti conto di banche svizzere e le ricevute con cui i bolscevichi attestavano di aver ricevuto il denaro tedesco. Era già noto che Lenin tornò in Russia salendo, a Zurigo, su un vagone piombato che attraversò tutta la Germania con il beneplacito tedesco. I documenti trovati dallo Spiegel aggiungono ora che i fili della Rivoluzione vennero tirati a Berlino, con Lenin pronto a seguire le direttive rivoluzionarie impartite.
Il 17 aprile 1917 il capo dello spionaggio tedesco telegrafava a Berlino da Stoccolma: «L’ingresso di Lenin in Russia è riuscito. Lavora completamente come desiderato». L’ambasciatore tedesco in Danimarca, Brockdorff-Rantzau, scriveva invece in un dispaccio con il timbro «Eilt-Streng geheim» (urgente, top secret): «la vittoria e la conquista del primato nel mondo sono nostre, se riusciamo a provocare una rivoluzione in Russia nel momento opportuno». Il segretario di Stato tedesco Kuehlmann riferiva invece al cancelliere Hindenburg e al Kaiser che il movimento bolscevico «senza il totale e costante sostegno (del ministero degli Esteri tedesco) non avrebbe mai raggiunto l’influenza che esercita adesso», mentre i soldi tedeschi «hanno permesso di far stampare la Pravda».
Lo Spiegel riporta che per quattro anni il Kaiser foraggiò il movimento rivoluzionario fornendo soldi, munizioni, armi ed esplosivi per compiere attentati. Solo il ministero degli Esteri versò 26 milioni di marchi dell’epoca, un valore attuale di 75 milioni di euro. Dagli archivi della polizia di Pietrogrado è venuto fuori che una parte del denaro ricevuto dai tedeschi fu usato da Lenin per pagare i dimostranti che scendevano in piazza ed i salari degli operai in sciopero, con il risultato di condurre al collasso l’economia russa ed affrettare lo scoppio della rivoluzione. Il finanziamento del movimento rivoluzionario era iniziato già qualche mese dopo lo scoppio della Grande Guerra e aveva come obiettivo di far uscire dal conflitto la Russia, schierata a fianco di Francia e Inghilterra. A due personaggi di «grande influenza», destinati a scatenare «una rivoluzione in tutta la Russia» il ministero degli Esteri tedesco pagò 50 mila marchi oro già nel settembre 1914, con la promessa di versare altri due milioni di marchi al momento dello scoppio dell’insurrezione. Nei piani dei generali del Kaiser la guerra lampo sul fronte occidentale doveva durare solo pochi mesi e la rivoluzione doveva evitare di combattere su due fronti.
Inizialmente il rovesciamento dello zar non rientrava nei piani di Berlino, fu deciso oper garantire la fine di quella che era diventata una sanguinosa e lunghissima guerra di trincea. Così avvenne dopo il successo della Rivoluzione, con Lenin che fece firmare la pace separata di Brest-Litovsk il 3 marzo 1918.

Repubblica 10.12.07
"Prodi viri a sinistra, stop ai centristi"
Nasce la Cosa Rossa. A sorpresa arriva Ingrao, ma è gelo con Bertinotti
Si rivede Occhetto, che con Cossutta abbraccia l´ex presidente della Camera
di Umberto Rosso


ROMA - Orizzonte primavera 2009. Nascono, pronti a concedere una lunga tregua al governo, ma avvertono: caro Romano così non si va avanti, datti una mossa e fai qualcosa di sinistra, oppure la spina possiamo staccarla anche prima. Firmato: Cosa rossa. I quattro della Sinistra-Arcobaleno celebrano, davanti a Pietro Ingrao che ricompare a sorpresa, a migliaia di militanti e sulle note di "Bella ciao" (che molti cantano e qualcuno no) il sogno impossibile. Prende vita il partito dei 150 parlamentari, che pensa di portare a casa «fino al 15 per cento» degli elettori italiani, che lancia «la sfida dell´egemonia» al Pd, che alle amministrative sarà in pista con il proprio simbolo, e che perciò vuole contare di più nel governo e non accetterà oltre un Prodi «subalterno ai centristi». Avverte Fabio Mussi, e lo ribadiscono gli altri segretari: ««La fiducia la votiamo ma non accada mai più che una Binetti, un Manzione, un Dini o un Bordon valgano più di un terzo dei parlamentari dell´Unione». Dietro questa linea, e cioè la Cosa rossa di lotta e di governo che prende forma alla Fiera di Roma, una tregua siglata fra Prodi, Bertinotti e Veltroni. Il presidente della Camera - che non rompe il silenzio se non per dire che «oggi è una giornata bellissima, di gioia, di festa, fate voi» - dopo l´affondo e la frenata sul governo, avrebbe raggiunto con il Professore e il segretario del Pd una mediazione: avanti con la riforma elettorale, senza che Prodi faccia scudo ai «piccoli», in cambio la promessa di evitare rotture immediate. L´arco temporale di Rifondazione per il voto, come conferma il capogruppo Russo Spena, diventa «la primavera 2009». Poi liberi tutti e la parola alle urne. Con gli altri soci della nuova avventura politica può esserci qualche differenza tempistica, Sinistra democratica e Verdi ancora non abbandonano la speranza del governo di legislatura, ma tutti uniti nella precondizione: cambiare la rotta politica dell´esecutivo.
«Il Pd è un partito elitario, neocentrista, tecnocratico. E il governo non sia più ostaggio del voltagabbana di turno» accusa Giordano. «E delle telefonate di Montezemolo» incalza Pecoraro Scanio, che poi avverte: «Senza valutazione di impatto ambientale non si raddoppierà la base di Vicenza». Oliviero Diliberto: «Il Pd non può essere equidistante fra la ThissenKrupp e gli operai uccisi a Torino. Oggi Enrico Berlinguer sarebbe al nostro fianco». Ovazioni a pugno chiuso al nome del vecchio segretario del Pci.
Ma c´è un pezzo di quella stagione che in carne e ossa si presenta in sala, Pietro Ingrao che, con voce ferma a dispetto dell´età, è arrivato per chiedere ai compagni di stringere i tempi. Un appello accorato, «fate presto, unitevi, unitevi, contro questa destra», accolto da una standing ovation. Lo abbracciano anche Cossutta e Occhetto. Peccato che in sala in quel momento Bertinotti non ci sia, i tempi del cerimoniale non coincidono, e i due non fanno in tempo a stringersi la mano. Invece quando il grande vecchio arriva, coincidenza sta parlando Niki Vendola, numero uno nell´applausometro della convention, e pare proprio come un passaggio del testimone dal padre nobile al giovane leader in pectore della Sinistra. Eppure il governatore della Puglia ha rischiato di non parlare per obiezioni sulla scaletta sollevate, pare, dal Pdci.
Come quell´altra scaramuccia scoppiata sull´inno finale del congresso. I Verdi avevano chiesto una play-list con Patti Smith, Ennio Morricone, Bertoli. Invece ecco risuonare solo "Bella Ciao", nella versione pop. «Si è rotto il registratore», si sono giustificati gli altri con il ministro del Sole che ride. Pecoraro l´ha canticchiata lo stesso, il capogruppo Bonelli no, «io le parole non le conosco».

Repubblica 10.12.07
Il governatore della Puglia applaudito come probabile futuro leader. "Nella mia storia i sentimenti sempre decisivi"
Vendola superstar cita Pasolini "Necessario piangere per migliorarci"
di Alessandra Longo


ROMA - La Cosa Rossa, la «nuova soggettività a sinistra», la gauche plurielle, o come si chiamerà, non c´è ancora ma il nuovo leader quello sì, c´è già. Parla Niki Vendola, presidente di Regione, cioè uomo di governo, comunista, gay, e viene giù la sala. E´ Niki che intercetta il cuore dei militanti. Vendola inizia il suo intervento, improvvisamente la sala sbanda, si distrae. Lui si ferma, si emoziona. Quasi un segno del destino: Pietro Ingrao, il Padre Nobile, è arrivato a benedire laicamente ciò che sta per nascere. «La nostra è la storia di un grande amore. L´ho conosciuto quando avevo otto anni. Ci ho messo un´infinità di tempo per dargli del tu, ricordo che stavo già nel Comitato Centrale del Pci».
Ingrao e Vendola si abbracciano. Ecco il passaggio del testimone, sussurrano i compagni. Il vecchio e il giovane. La sinistra di ieri e quella «in gestazione», come la definisce l´erede più accreditato. Riprende il suo discorso, un po´ parla a braccio, un po´ legge un testo scritto. Il linguaggio è sideralmente lontano dai suoi colleghi di partito. Lo interrompono per venti volte. Alla fine sarà standing ovation.
Vendola, l´ha sentito il calore? Suonava oggettivamente come un´investitura. «Certo che l´ho sentito. Nella mia vicenda politica c´è sempre stato un elemento di forte connessione sentimentale con la gente. La mia vittoria in Puglia è stata vissuta come un evento nazionale da tutta l´Italia democratica, hanno fatto un tifo da campionato del mondo. Questo spiega l´ascolto di oggi». Pronto ad una nuova avventura? «Mi sembra un discorso prematuro. E poi io non mi sento e non mi comporto da leader, sono un non-leader».
Sarà, ma il non-leader piace ai compagni della Cosa Rossa che hanno bisogno di affidarsi a un timoniere nuovo. Lui li incoraggia: «Usciamo da noi stessi. So che può essere doloroso, ma oggi serve il coraggio di un nuovo incominciamento, di una nuova nascita». Cita Pier Paolo Pasolini, «piange ciò che muta anche per farsi migliore». Fare in fretta, dice Ingrao e il «giovane» Niki è d´accordo. Trova parole tutte sue, dirette, crude, per descrivere «la deriva in cui viviamo»: «Non ci sono né una visione della società italiana, né una missione per cambiarla. I nostri pensieri, il nostro fare, abitano sul ciglio di un crepaccio, la morte di un proletario fa meno audience di un delitto di provincia, bruciano i bambini rom, brucia la carne di giovani lavoratori in fabbrica ed emerge tutto il vuoto della politica che si rifugia nei talk show, che dibatte di riforma elettorale usando solo astratte formule alchemiche».
Una fase di «bassa marea», la chiama Vendola. Il mare si è ritirato e sulla spiaggia «ci sono le scorie, i detriti, le alghe secche». No, non lo convince il Pd che, su temi come la precarietà, «si limita a vaghi richiami etici». Ecco a che cosa servirebbe lo sforzo di partorire una nuova creatura, «a creare una sinistra che non sia un riassunto bignami di ciò che fummo, che sia capace di ospitare domande di libertà, di leggere nel cuore della gente, di sondare fondali melmosi, di cogliere il dolore e le domande di senso che arrivano dalla società». E´ un discorso strutturato, il manifesto di un leader, o di un non-leader, come ama definirsi. La platea capisce, vibra, lo ferma, plaude a scena aperta. «In ogni parto c´è dolore ma anche gioia per una nascita». Ingrao lo segue con gli occhi dalla prima fila. Il «ragazzo» è bravo, farà strada, si è già fatto strada. Il «ragazzo», soprattutto, ha un´idea «alta» della politica, e perciò detesta «la nuova ideologia dei partiti di cassa che guardano al cittadino consumatore, alle corporazioni, alle lobbies, quel mondo lontano dalla realtà che alimenta il blob quotidiano, che dà lavoro agli esperti di banalità». Sarà lui a guidare la Sinistra Arcobaleno? Si schermisce emozionato, va a baciare il Grande Vecchio, poi si fuma una sigaretta con i fedelissimi galvanizzati. «E´ una bella giornata - dice - una giornata di attesa, un inizio di gestazione. Sento finalmente un clima frizzante, allegro, battesimale. Finalmente qualcosa di diverso dal rito funebre che troppe volte celebriamo a sinistra».

Repubblica 10.12.07
"Sinistra critica", scissione dal Prc


ROMA - "Sinistra critica" è, da ieri, movimento autonomo, all´opposizione del governo Prodi. Lo ha annunciato Franco Turigliatto, leader del gruppo politico che, nato nel vivo del Prc, si rifà ad una pluralità di riferimenti, dal Che Guevara a Rosa Luxemburg, da Trotsky a Marcos. "Sinistra critica" ufficializzerà al comitato nazionale di Rifondazione, domenica prossima, la sua scelta di separazione e avvierà da subito la costituzione di circoli territoriali oltre a una campagna nazionale di adesione e autofinanziamento che culminerà in una «manifestazione nazionale nella prossima primavera».

Repubblica 10.12.07
Il "tesoretto" comunista e gli accorti utopisti
di Mario Pirani


Eugenio Scalfari ha analizzato criticamente i motivi che hanno suggerito a Fausto Bertinotti la sua dirompente intervista. Anche altri fatti e fattarelli della quotidianità politica – l´uscita del libro di Marco Rizzo, «Perché ancora comunisti» (ed. Baldini Castoldi Dalai) o la disputa sulla presenza o meno della falce e martello nel logo della Cosa Rossa – ci dicono che tra le pieghe della cronaca sta inaspettatamente rispuntando un paradossale richiamo al comunismo. Ma se per Marx questo segnava «il passaggio del socialismo dall´utopia alla scienza», l´ultimo ripescaggio viene declinato all´inverso, come ritorno all´utopia. Vale, comunque, la pena aggiungere qualche altra riflessione partendo dal risvolto che già Scalfari ha indicato laddove ha detto che «non c´era altra alternativa per la sinistra radicale che tornare al suo vecchio ruolo di testimonianza antagonista». L´arduo tentativo bertinottiano di trasformarla in una componente stimolante ma compatibile di una coalizione di governo di centro sinistra si sta, infatti, dimostrando impossibile.
Riemerge l´antica coazione a ripetere dell´ala estremista della sinistra italiana che già aprì la strada al fascismo. In questo tenace zoccolo minoritario (oggi si aggirerà attorno al 10% degli elettori) permane il rifiuto della realtà sociale ed economica alimentato da una inguaribile idiosincrasia per ogni ipotesi di governo. Di qui le tante scissioni che facilitarono l´ascesa del fascismo e che dalla Liberazione fino ad oggi hanno decimato le forze della sinistra. Ma, se questo è vero, ne consegue che nel mercato politico esiste un "tesoretto", piccolo ma sicuro, a disposizione di chi sappia rappresentarlo, esaltando e non contrastando le pulsioni che emana, per quanto irragionevoli e dannose esse siano per l´assieme della sinistra e per il bene comune. In un paese come l´Italia questo non presenta pericoli né eccessive scomodità: i privilegi del ceto politico valgono sia stando al governo che all´opposizione. L´importante è non uscire dal mercato.
Condizione indispensabile perché ciò non accada, soprattutto nelle file della sinistra, è il saper incarnare e rappresentare i valori di riferimento del proprio elettorato. E se questo ha una propensione per l´utopia comunista è d´uopo assecondarla con sincerità di accenti. La malafede è, infatti, sconsigliabile in quanto facilmente intuibile. Occorre, per contro, credere fermamente alle proprie bugie e usarle come antidoto alla sgradevolezza della realtà. Il fondamentalismo è per sua natura irrazionale e il comunismo, con la sua presunzione luciferina di costruire la storia, di sconvolgere il mondo e di ricrearne uno nuovo di liberi e di eguali altro non è che un fondamentalismo, che tutto giustifica e assolve pur di raggiungere un fine così "buono". La fallacia dell´assunto è stata dimostrata senza possibilità d´appello dal fallimento dell´Urss, ma per i neocomunisti quel crollo non basta. Il libretto di Marco Rizzo rappresenta un test da laboratorio sul rifiuto di elaborarne il lutto e di riflettere a fondo sul perché di una implosione che ha evidenziato a quali disastri possa condurre quel finalismo fondamentalista. I convincimenti di Rizzo, del resto, non sono isolati. Alla presentazione del testo sia il leader della Fiom, Cremaschi, che Valentino Parlato del "Manifesto" erano su posizioni analoghe. Come tanti o pochi loro seguaci. Certo – dicevano – «bisognerebbe aprire una discussione lunga e complessa sul giudizio da dare sulla rivoluzione bolscevica» (cosa aspettano?) ma questa ha comunque rappresentato un grande impulso di lotta all´oppressione e per l´emancipazione dei popoli. Il fallimento è, se mai, da ascrivere alle condizioni di estrema povertà e arretratezza da cui è partita.
Nel quadro lungo della Storia quel primo tentativo non è riuscito ma l´umanità potrà ritentarlo. E quindi ai riformisti si deve rispondere: «Se la sinistra non sarà di classe e anticapitalista a cosa servirà? E se quelli che ancora vogliono cambiare il mondo e superare il capitalismo non avranno forza, quali prospettive ci saranno?». Il dilemma non sarebbe rilevante in una democrazia funzionante. A Londra per chi avanza simili quesiti è riservato uno spazio ad Hyde Park Corner dove è consentito a chiunque, persino a chi giura sul sistema tolemaico, salire su una sedia e propinare ai passanti le proprie idee, per bislacche che siano. Nel bailamme partitico italiano, invece, il loro peso, per quanto marginale, può essere determinante in Parlamento.

Repubblica 10.12.07
La Rivoluzione "comprata" così il Kaiser finanziò Lenin
di Andrea Tarquini


I documenti di Der Spiegel: Guglielmo II voleva rovesciare lo zar suo nemico
La Berlino imperiale "I bolscevichi sono bravi ragazzi"

Non solo la Germania imperiale consentì a Lenin di raggiungere la Russia dalla Svizzera, passando dal suolo tedesco, per scatenarvi la rivoluzione. La Berlino del Kaiser finanziò i bolscevichi con milioni di marchi, allo scopo di rovesciare lo zar e liberarsi così da uno dei suoi nemici nella prima guerra mondiale. È quanto narrano documenti finora segreti, di cui Der Spiegel è venuto in possesso. Alla scoperta, il settimanale di Amburgo dedica la storia di copertina: «Die gekaufte Revolution», la rivoluzione comprata. E in un altro titolo-shock, all´interno, definisce Lenin «Il rivoluzionario di Sua Maestà».
La Corte imperiale, la diplomazia, i servizi segreti, non temevano che il crollo dello zarismo e una vittoria rivoluzionaria avrebbe messo in pericolo anche gli Hohenzollern. «Al momento giusto convinceremo elementi del movimento a collaborare con noi», scrisse l´ambasciatore a Copenhagen, conte Ulrich von Brockdorff- Rantzau. E il piano per lasciar passare Lenin dal territorio tedesco, nell´aprile 1917, non sollevò obiezioni, né da parte del Cancelliere del Reich Bethmann Hollweg, né dal comandante in campo delle forze armate Paul von Hindenburg. Max Hofmann, un alto ufficiale vicinissimo a Hindenburg, scrisse: «Così come faccio sparare granate o lanciare gas contro il nemico, ho il diritto di usare i mezzi della propaganda contro la sua occupazione».
Il nemico del mio nemico è mio amico, fu il motto del Kaiser nella scelta di finanziare Lenin. Scelta senza la quale, osserva Der Spiegel, forse il comunismo non si sarebbe imposto come sistema mondiale, e forse non ci sarebbe stato il Gulag con i suoi milioni di morti.
Al di là dei "se", restano i dossier. Alexander Helphand, socialista rivoluzionario amico di Trockij, commerciante, residente nell´Impero ottomano perché ricercato dalla polizia tedesca, già conosceva Lenin e gli aveva presentato Rosa Luxemburg. Egli contattò l´ambasciata imperiale a Costantinopoli. «Gli interessi del governo tedesco sono identici a quelli dei rivoluzionari russi», disse. A fine febbraio 1915, era pronto un piano di 23 pagine, stilato da Helphand: suggeriva finanziamenti in marchi e forniture di esplosivi per organizzare scioperi, attentati, sabotaggi. A fine maggio 1915, Helphand incontrò Lenin a Berna.
Più volte, scrive Spiegel citando i documenti finora riservati, il Reichsschatzant (Ministero del Tesoro imperiale) fornì allo Auswaertiges Amt (ministero degli Esteri) cospicui pagamenti per «la propaganda rivoluzionaria in Russia». Due milioni di marchi l´11 marzo 1915, quindi poco dopo il piano di 23 pagine. Poi cinque milioni di marchi il 9 luglio 1915, e di nuovo cinque milioni il 3 aprile 1917, pochi giorni prima della partenza di Lenin dall´esilio elvetico alla volta di Pietrogrado. Su un vagone extraterritoriale, nota Der Spiegel, «ma non è vero che fosse un vagone tutto piombato come si è detto finora: aveva tre porte piombate, ma una libera».
I bolscevichi «hanno fornito utili informazioni sulla situazione nella Russia zarista», scrisse allora Walter Nicolai, capo del servizio segreto del Kaiser. A Helphand, ufficialmente ricercato dalla polizia politica imperiale, fu concesso un passaporto di polizia con cui poteva muoversi liberamente nel Reich, in territori occupati o paesi neutrali. Helphand si stabilì in Svezia, e dalla città di confine di Haparanda esportò o contrabbandò in Russia merci di ogni genere. Non si sa quanto, ma certo parte del ricavato finì ai bolscevichi. Che vi finanziarono propaganda, scioperi, proteste. Helphand pare organizzò anche attentati e sabotaggi.
Quando, con la rivoluzione di febbraio, lo zar abdicò, fu l´inizio della sua fine. Von Brockdorff-Rantzau nelle sue note lodò Helphand, «uno dei primi ad aver lavorato per questo successo ora conseguito». Dopo la rivoluzione d´ottobre, Lenin firmò con Berlino la dura pace di Brest-Litowsk. Le potenze dell´Intesa sostenevano la «controrivoluzione» anticomunista. Ma l´Impero di Guglielmo II continuò ad aiutarli. «I bolscevichi sono bravi ragazzi, finora si sono comportati benissimo», scrisse Kurt Riezler, responsabile della politica verso la Russia allo Auswaertiges Amt, chiedendo nuovi soldi per loro. Un anno dopo la rivoluzione bolscevica, e dopo la disfatta militare, a Berlino il Kaiser cadde e fu proclamata la Repubblica, la fragile democrazia di Weimar. Una ventina d´anni dopo Hitler e Stalin risuscitarono seppur temporaneamente il legame, col Patto Molotov-Ribbentrop.

Corriere della Sera 10.12.07
Parte la Cosa rossa, tregua con il governo
Sul palco Vendola e Ingrao. Bertinotti: è un giorno di gioia. Il messaggio di Prodi
I leader di Prc, Pdci, Verdi e Sd hanno dato vita alla «Sinistra, l'Arcobaleno», che raccoglie le forze radicali
di Andrea Garibaldi


Il nuovo soggetto «La Sinistra, l'arcobaleno »: 93 deputati e 46 senatori

ROMA — Mentre parla Nichi Vendola, a grande sorpresa entra in sala Pietro Ingrao e questo istante fissa lo stato della Cosa rossa, o meglio della federazione tra Rifondazione, Comunisti italiani, Sinistra democratica e Verdi. Vendola è il nuovo: sentimento, emozione, con una lingua fatta di retorica, dolore, sogno e poesia, diversa dalle consumate parole politiche. Ingrao è l'antico: dubbio, sofferenza, anche lui sogno e poesia, anche lui pieno di pathos, tanto è vero che non voleva venire, ma poi ha ceduto. Il neonato «soggetto politico» di sinistra e d'arcobaleno vorrebbe tenere assieme il nuovo e il miglior antico (che qui si somigliano). Per adesso è iniziata appena la traversata, con i leader che c'erano. In primo piano, il rapporto di questa sinistra con il governo di cui è parte. Dice Pecoraro Scanio che Prodi deve durare una legislatura, ma senza ascoltare le telefonate dei poteri forti. E Diliberto: «Non abbiamo tentazioni di nicchia». Qualche opzione in più per Mussi («Non lavoriamo per la caduta di Prodi, ma così ci si logora tutti...») e Giordano («La verifica sarà vera, sapendo che l'opposizione non è un disvalore »). Poche ore più tardi, Prodi manda un messaggio di riconoscimento: «Vi auguro di costruire un percorso capace di generare nuovi stimoli alla democrazia e all'azione di governo, che avete sempre sostenuto con coerenza in questo primo anno e mezzo di legislatura». La tregua è completa, dopo la frattura per le dichiarazioni di Bertinotti («L'Unione ha fallito ») e la «correzione» («Il governo è per la intera legislatura »).
Vendola, governatore di Puglia, è sussurrato come il giovane (49 anni) che potrebbe guidare la nuova imbarcazione. Lui fa un'analisi dura, parla della «perdita di autorevolezza della sfera politico- istituzionale, che pare la replica dell'Isola dei famosi ». E poi dei «ragazzini che riprendono col telefonino il coetaneo che si toglie la vita» e i lavoratori, diventati «materiale rottamabile, infiammabile ». Dunque? Serve «una nuova nascita, una sinistra che non sia riassunto di ciò che fummo, ma capace di ospitare domande di libertà, di leggere nel cuore della società, di sondare fondali melmosi». Insomma, «un parto, un partire, non so se un partito...». Chiude con Pasolini: «Piange ciò che muta anche per farsi migliore». Applauso, è il ventesimo, lui abbraccia Ingrao.
Tocca proprio ad Ingrao, 92 anni, sciarpa rossa: «Fate presto! La vostra unità urge. Unitevi in nome di quei caduti di Torino! Non sono chiare le cose in questo Paese e nemmeno come viene condotto il governo...». Applauso enorme e incontro mancato con Bertinotti. Ingrao aveva espresso perplessità su un presidente della Camera che critica il governo. Bertinotti arriva dopo che Ingrao va via. L'applauso è meno scrosciante, ma poi davanti alla sua sedia c'è un flusso continuo. «Oggi è un giorno di gioia», dice, salutando la «sua» creatura rossa.
Ecco i segretari. Pecoraro accredita un possibile 15 per cento ai 4 partiti assieme, anche se difende la sua identità. Diliberto evoca Enrico Berlinguer, «sarebbe alla nostra guida ». Mussi insiste su laicità e disarmo. Giordano vuole liste, programmi e segno grafico comuni fin dalle ammini-strative di primavera. Sul tavolo c'è questo problema, e quello della riforma elettorale, e quello del leader. Ora però è più difficile la marcia indietro.

Corriere della Sera 10.12.07
Il caso Duello sulla canzone
«Bella ciao», i verdi non cantano
di A. Gar.


Pugno chiuso. Si è alzato soltanto un braccio sinistro col pugno chiuso, quello del leader pdci Oliviero Diliberto

ROMA — Colonna sonora finale, nessuna sorprendente novità. Partono le note di "Bella ciao", la canzone dei partigiani emiliani. Sul palco ci sono i quattro leader e numerosi esponenti dei quattro partiti. S'alza soltanto un braccio sinistro col pugno chiuso, quello di Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti italiani, e si nota che i Verdi, in gran parte, non s'uniscono al coro.
È già polemica? Magari è il sintomo delle due ben distinte anime della nuova federazione. Da una parte mondo comunista, Giordano, Mussi, Diliberto, dall'altra ambientalismo, "la Sinistra" e "l'arcobaleno". La prima che parla soprattutto di lavoro, il secondo che rivendica le proprie battaglie per il clima, l'acqua, la biodiversità.
Pecoraro Scanio non conosce "Bella ciao"? «Ma figuriamoci! — risponde il leader Verde —. Me l'hanno insegnata a scuola, a Salerno, quando ero bambino. "Bella ciao" fa parte della tradizione antifascista, appartiene a tutti. E io ho cantato per un po'... Poi mi sono distratto, perché qualcuno mi spiegava che la canzone che doveva venire dopo, "Eppure soffia" di Pierangelo Bertoli, non sarebbe stata diffusa per un guasto al generatore.
E a me dispiaceva». Non ha proprio aperto bocca, invece, il capogruppo dei Verdi alla Camera, Angelo Bonelli: «Vengo da una cultura diversa, anche se ho molto rispetto per i valori della Resistenza. Alcune parole di "Bella ciao" non le so. È un reato? Io comunque avrei messo anche "Sunday bloody sunday" degli U2». Quel pezzo ricorda una strage di manifestanti nordirlandesi, gennaio 1972.
L'organizzazione dell'assemblea di sinistra e d'arcobaleno alla nuova Fiera di Roma ha comportato complesse trattative a quattro. Sul segno grafico innanzitutto, sull'ordine di intervento dei segretari, sulla Carta dei valori, naturalmente sulle canzoni. Diliberto, che ha accettato con fatica un simbolo comune privo di falce e martello, ci teneva a "Bella ciao". I Verdi avrebbero preferito guardare avanti, ma poi hanno proposto Bertoli e un pezzo regalato al partito da Ennio Morricone, intitolato "Eco". Rifondazione dentro di sé ha una corrente musicofila rock e ha proposto "People have the power", Patty Smith, la musica meno lontana dai molti giovani presenti.
Insomma, andò così. "Bella ciao" sì, con le conseguenze descritte. Bertoli ("...uccelli che volano a stento malati di morte... il falso progresso ha voluto provare una bomba...") saltato per motivi tecnici. Patty Smith e Morricone sì, in chiusura. Alla fine, è partita — imprevista — anche l'Internazionale, ma i militanti scivolavano via, sotto la pioggia.

Corriere della Sera 10.12.07
L'ex partigiano Massimo Rendina
È il presidente dell'Associazione nazionale partigiani di Roma e del Lazio
«Indica valori ancora attuali»


ROMA — (m.ca.) «Che cos'è: una voglia di esibirsi come se si fosse al di sopra delle parti?», domanda disincantato Massimo Rendina, già capo di stato maggiore della Prima divisione Garibaldi e oggi presidente dell'Associazione nazionale partigiani di Roma e Lazio. Alla riunione di «La sinistra l'Arcobaleno» Rendina non c'era: si trovava con Napolitano alla camera ardente per Pietro Amendola. «Mi dispiace», dice del silenzio dei verdi durante una delle canzoni diventate simbolo della Resistenza.
Il verde Angelo Bonelli ha dichiarato di non sapere alcune parole di «Bella ciao» e ha chiesto «se è un reato». Che effetto le fa?
«Pur ritenendo che Bella ciao sia posteriore alla guerra di Liberazione, è diventata in Italia il simbolo della libertà e del riscatto della persona umana. Non averla cantata non è una presa di distanze dalla Resistenza, è non aver capito che i valori di questa non si riferiscono soltanto a un periodo, ma sono utili anche adesso». Utili come? «Sono fondamentali per l'idea di patria, davanti all'immigrazione, per le missioni internazionali sul crinale tra pace e guerra. Dove si prendono i valori necessari se non dalla Costituzione, figlia della Resistenza?».

Corriere della Sera 10.12.07
Classici La vita del condottiero narrata dal poeta
Dai dubbi agli elogi: Petrarca conquistato dal romanzo di Cesare
di Cesare Segre


Giulio Cesare era un civilizzatore o un imperialista? Voleva riportare la pace e la legge a Roma, o assoggettarla a una dittatura? Il suo assassinio ad opera di Bruto e altri fu tirannicidio o tradimento? Oggi sarebbe difficile appassionarsi a questo dibattito; ma nel Trecento era all'ordine del giorno. Cesare fu in ogni caso il fondatore dell'impero romano, nel quale e tramite il quale si diffuse il cristianesimo (lo sottolineava Dante); perciò gli sarebbe spettato un posto di rilievo nel disegno della Provvidenza. La letteratura latina, che si stava studiando con passione, celebrava la sua magnanimità, pur dando voce ai molti detrattori (il massimo dei quali fu il poeta epico Lucano) e narrando aneddoti poco commendevoli. Petrarca, nella
Vita di Giulio Cesare, scritta nei suoi ultimi anni, dopo il 1366, tiene conto della polemica. Ma la sua prospettiva è diversa: non gl'interessa tanto il disegno escatologico, quanto la grandezza di Roma che in Cesare riluce. Guarda con nostalgia verso la Roma dei suoi scrittori prediletti: al punto di individuare nel tribuno Cola di Rienzo, di cui seguì partecipe l'avventura, un restauratore della Roma classica e dell'unità d'Italia. In complesso, come diceva il Fueter, «dalla disgregazione politica dell'Italia contemporanea si rifugiò nella gloriosa storia dell'antica Roma».
Scrivendo la Vita, Petrarca si sente forte delle sue conoscenze degli storici antichi, da Livio a Svetonio a Floro. Ma se riconosce che il famoso passaggio del Rubicone («il dado è tratto...») fu l'inizio di una guerra civile, alla fine dà di Cesare un giudizio favorevole, ammirativo. Il filologo Guido Martellotti ritiene anzi che Petrarca sia passato da una posizione negativa su Cesare ad una positiva proprio scrivendo quest'opera, e lasciandosi suggestionare dagli storici romani. È poi un fatto che Cesare sovrastava ogni possibile rivale per la forza della propria scrittura, dato che ha narrato lui stesso, da maestro, la guerra di Gallia e quella contro Pompeo. E Petrarca non può non fondarsi ampiamente su queste opere, oltre che su qualche lettera di Cesare trascritta da Cicerone. La magnanimità del condottiero colpisce comunque, anche se sullo sfondo rimangono violenze e atti di crudeltà. Petrarca si rivela un grande narratore. È efficace nel racconto di azioni diplomatiche (ambascerie e trattati), retoriche (esortazioni alle truppe) e belliche, nella descrizione dei luoghi e delle strategie, nella pittura dei caratteri; da vero storico, sa considerare dall'alto, al di sopra della contingenza, gli avvenimenti che narra; e volentieri si lascia sfuggire qualche accenno alla situazione del suo tempo e alla propria vita. A fondere gli orizzonti del passato e del presente lo facilitava il suo gusto preumanistico. Però la Vita di Giulio Cesare sta al termine di un'attività iniziata verso il 1343 e culminata, verso il 1353, nell'incompiuto De viris illustribus. E utilmente le due opere vengono ora proposte assieme, tradotte e prefate da Ugo Dotti ( Gli uomini illustri. Vita di Giulio Cesare, Einaudi), e ornate da tavole con i famosi nove «Trionfi» di Mantegna. Anche negli Uomini illustri Petrarca è medievale: nell'allineare prima eroi biblici e poi eroi classici, sino a Scipione (inverso però l'ordine di stesura); ma è umanista nel far riferimento alla fame di sapere dei lettori, e non a un qualunque disegno provvidenziale.
Nelle due opere Cesare e Scipione l'Africano (eroe dell'Africa, poema dello stesso Petrarca) prendono rispettivamente rilievo come massimi condottieri, con parallelismi significativi. Perché all'omicidio di Cesare corrisponde il volontario esilio di Scipione a Literno, dove morì. In entrambi i casi pare che odio e invidia siano, in una prospettiva morale, il contrappeso, talora vincente, della fama; ma è pure chiaro che queste reazioni si collegano, nel profondo della coscienza politica, con l'insofferenza verso condottieri che sembrano mettere in pericolo le libertà repubblicane. Per questo la storiografia rinascimentale celebrerà in Bruto il difensore delle istituzioni di Roma.
Come personaggio letterario, Scipione è poco interessante perché troppo perfetto, fiero della propria temperanza; meglio, molto meglio Cesare, con i suoi vizi e le sue debolezze. Ma in compenso, nella vita di Scipione, come la narra Petrarca, s'incastonano episodi vivi, emozionanti, come un incendio notturno scoppiato tra le tende dell'accampamento, o come traversate del Mediterraneo e incontri con i cartaginesi infidi. Famoso, e caro a tragediografi e compositori, l'episodio in cui Scipione convince Massinissa a interrompere il suo rapporto sentimentale con Sofonisba, e questa riceve dall'amante una coppa di veleno, che beve impavidamente. Una scena degna di Shakespeare, ed evocata dallo stesso Petrarca nei Trionfi.

FRANCESCO PETRARCA, Gli uomini illustri. Vita di Giulio Cesare EINAUDI pp. XII-788, € 85

Corriere della Sera 10.12.07
Celebrazioni Cento anni fa nasceva la Bonanni, scrittrice abruzzese da riscoprire
Laudomia, la provocatrice amata da Montale
di Marco Nese


Fu definita erede del realismo verghiano. La colmarono di premi. La accostarono perfino a Virginia Woolf. Poi, di colpo, l'oblio. Oggi Laudomia Bonanni è una sconosciuta. Ma un gruppo di tenaci ammiratori della scrittrice, capeggiati da Pietro Zullino, considera assurda e ingiusta questa damnatio memoriae. Si sono messi a ripubblicare le sue opere. E all'Aquila, dove la Bonanni vide la luce nel 1907, hanno appena aperto le celebrazioni per il centenario della nascita di questa autrice che sviluppò temi sorprendentemente moderni e auspicò la liberazione femminile con decenni di anticipo rispetto a Betty Friedan.
In effetti, già in epoca fascista, Laudomia descriveva l'ambito femminile con incredulo stupore. Osservava le bambine della classe elementare dove insegnava e già le vedeva avviarsi a diventare uguali alle madri, con gli stessi sogni ingenui e ripetitivi di generazione in generazione, con la stessa prospettiva di vita, sposarsi, avere figli, preparare il cibo per il marito, lavorare fino a sfiancarsi, in omaggio alla retorica mussoliniana che celebrava la mamma come angelo del focolare. Scriveva pagine aspre su queste donnine senz'anima e sui loro scialbi uomini.
Irrompe sulla scena letteraria nel dopoguerra: fa centro con Il fosso, uscito da Mondadori. Ammirati, i rigorosi intellettuali del Bagutta nel 1950 assegnano a lei il premio, che per la prima volta va a una donna, meritevole, secondo Eugenio Montale, di «essere tolta dall'ombra». Nel 1960 si aggiudica il Viareggio con il romanzo L'imputata e nel '64 riceve il premio Selezione Campiello per L'adultera, un'impietosa raffigurazione della realtà umana.
Laudomia non è mai tenera. Concepisce il libro «come un sasso». Duro, in grado di provocare uno choc. Denuncia lo squallore della piccola borghesia, mette a nudo il mondo allucinante della delinquenza minorile, con Vietato ai minori, finalista allo Strega nel '75. Ma subisce le rampogne del mondo cattolico, che non apprezza la sua lettura del sociale.

Corriere della Sera 10.12.07
La timidezza di Antonioni colpì al cuore il regime cinese


Doveva essere l'incontro tra un grande regista e uno dei Paesi più «segreti» del pianeta. Rischiò di diventare un caso diplomatico con il regista attaccato dalla stampa e il nostro ministero degli Esteri coinvolto nella polemica (per via del produttore: la televisione di Stato). Eppure, nonostante queste premesse «scandalistiche» il film in questione è rimasto per anni un mistero, legato solo al ricordo che i cinefili avevano di poche, e a volte avventurose, proiezioni passate.
Oggi, finalmente, Feltrinelli Real Cinema mette a disposizione di tutti Chung Kuo — Cina, il documentario di quasi quattro ore che Michelangelo Antonioni aveva girato nel 1972 nell'«impero di centro» (traduzione letterale di Chung Kuo e sinonimo di Cina) e che scatenò contro il regista ferrarese le ire della «banda dei quattro », che tentavano di attaccare attraverso il documentario il primo ministro Zhou Enlai (ma questo lo si scoprì più tardi).
Mandato in onda in tre puntate sulla Rai (nel gennaio- febbraio '73 in bianco e nero, perché così trasmetteva il Programma Nazionale e replicato nell'agosto del '79 su Rai 2 nella versione originale a colori) il film vuole essere un reportage di prima mano su un Paese che negli anni precedenti, con il mito della Rivoluzione culturale, era stato al centro di sogni e condanne di mezzo mondo.
Antonioni mette subito le mani avanti e «riduce» il suo reportage (realizzato con la collaborazione di Andrea Barbato per i testi e di Franco Arcalli per il montaggio) a una serie di semplici «appunti di viaggio»: troppo complessa la realtà cinese e troppo limitato il tempo per scoprirla (una quarantina di giorni, con molti condizionamenti e censure «politiche »), ma sufficienti per mostrare alcune scene che non si dimenticano facilmente, come un parto cesareo con l'anestesia fatta attraverso la sola agopuntura.
Allora in molti — da sinistra e da destra — attaccarono il regista per essersi fermato alla superficie delle cose. Oggi quell'occhio timoroso ma anche curioso riesce a mostrarci cose che lo scontro ideologico di allora finiva per cancellare. E se a volte la cinepresa sembra indugiare troppo e il regista compiacersi di troppo lunghi silenzi, è indubbio che Antonioni ha una curiosità (e un'anima) da documentarista che rendono i 207 minuti del film una visione che non si può evitare.
Peccato che il libro allegato al dvd contenga solo pagine generiche sulla Cina e non aiuti a collocare storicamente (e cinematograficamente) il film. Molto meglio ascoltare l'intervista a Marco Bellocchio negli extra.

il Riformista 10.12.07
La base sta con Nichi, i partiti frenano
di Alessandro De Angelis


L’evento, dal punto di vista mediatico e - perché no - anche dal punto di vista emotivo c’è stato, eccome. L’entusiasmo pure, e nemmeno poco. Ma la Cosa rossa (o arcobaleno) non è nata, almeno per ora. Gli stati generali hanno mostrato, più della Cosa che verrà, le quattro cose che ci sono: Rifondazione, i Verdi, il Pdci, Sd. Che parlano un linguaggio simile («unità» è stata la parola più usata) ma che su questioni dirimenti tanto d’accordo non sembrano proprio: dal rapporto col governo e con i sindacati alla forma organizzativa che dovrà assumere il «soggetto unitario e plurale». E così è stata proprio la politica, quella con la “P” maiuscola, la parte debole di una due giorni in cui, però, due evidenze si sono manifestate in modo quasi dirompente: la passione dei militanti e l’appeal di Nichi Vendola, un leader poco amato dalle burocrazie di partito, ma notoriamente caro a Fausto Bertinotti e già carissimo al popolo della sinistra-sinistra.
Il popolo. Migliaia di militanti (più di cinquemila) hanno partecipato con passione a una due giorni di politica-politica, nei workshop tematici prima (su lavoro, welfare, diritti, laicità pace, ambiente) e nell’assemblea generale poi, in un clima da seminario autogestito il primo giorno, quasi da campagna elettorale ieri. E hanno espresso nei dibattiti di sabato, anche in quelli più iniziatici e vecchio stile, e nelle standing ovation di ieri un unico bisogno: quello di un soggetto unitario. Ma anche di un leader che li guidi.
Il leader. Venti applausi e un’ovazione finale hanno incoronato Vendola, costretto a parlare alle undici di mattina (un orario sciagurato), dopo un’estenuante trattativa all’interno delle segreterie dei partiti del giorno prima (il Pdci non lo voleva, Mussi sì). Vendola ha osato con un discorso “diverso”. E c’è riuscito. Lui, che sulle sue diversità ha costruito, non solo in Puglia, consenso e simpatia, ha usato un linguaggio forse più poetico che politico per lanciare un messaggio chiaro: la federazione non basta, bisogna andare oltre. E, buttando alle ortiche il politichese, ha chiuso così il suo intervento: «Serve una costituente, non l’equilibrio precario dei corpi costituiti, non un bignami di ciò che fummo. Dobbiamo avere il coraggio di uscire da noi stessi. Non è facile. Diceva Pasolini: “Piange chi muta anche per farsi migliore”». Difficile fermare uno così relegandolo in quota «amministratori locali» come nella scaletta di ieri e come dissero i leader del Prc il 20 ottobre. L’investitura di Vendola - se la scena fosse stata costruita a tavolino non sarebbe riuscita così bene - è stata suggellata, quasi simbolicamente, dall’ingresso in sala, a braccetto di Sandro Curzi, di Pietro Ingrao, sciarpa rossa e bastone in mano, che ne ha interrotto il discorso (causa acclamazione): una visita inaspettata, visto che la Stampa sabato ne aveva annunciato la defezione (causa dissenso). Ma nel suo intervento, salutato con commozione dalla platea, il grande vecchio della sinistra italiana ha spinto nella stessa direzione di Vendola: «La mia raccomandazione è una sola: fate presto. Lo impone la condizione tragica del lavoro in Italia».
I segretari. Fin qui i leader antichi e (chissà) nuovi, e il popolo, che hanno chiesto un’accelerazione. In mezzo, i segretari di ciò che c’è hanno stabilito un percorso che pare uno slalom (o una corsa a ostacoli). A gennaio si svolgerà un seminario su come dovrà essere il soggetto che verrà: federazione o confederazione, se ci si “iscrive” o si “aderisce”. A febbraio sarà invece promossa una consultazione. Su cosa? Su quello che si è deciso al seminario, ma anche sul simbolo e sulla carta d’intenti presentata ieri. Nel frattempo Rifondazione - ma non gli alleati - svolgerà un’altra consultazione, sui temi della verifica di governo.
Ed è proprio sul governo che si registrano accenti diversi. Giordano ha insistito sul confronto con Prodi: «A gennaio serve una verifica vera su salari, precarietà, prezzi, diritti». Gli altri la parola verifica non l’hanno nemmeno nominata. Pecoraro Scanio ha chiesto «rispetto per il programma dell’Unione siglato con gli elettori». Mussi ha invece usato una formula di mediazione: «Caro Romano, così non si va avanti, dobbiamo sederci al tavolo, stabilire poche priorità, un programma di cose chiare che parli alla nostra gente». Diliberto ha evitato l’argomento. I sindacati. E i sindacati? Sull’assenza della Cgil la linea è stata: facciamo finta di non vedere. Ma le polemiche sul Protocollo sono riemerse, ad esempio, nell’intervento di Rinaldini che ha detto tra gli applausi: «La concertazione non può prefigurare un assetto istituzionale neocorporativo». E candidandosi al ruolo di motore sociale della Cosa rossa, non ha mostrato poi troppo dispiacere per la rottura con il grosso della Cgil. Anzi, ha tenuto a precisare polemicamente: «Il sindacato non può essere una lobby nei confronti delle forze politiche». La Cgil no, ma la Fiom, a quanto pare, sì.