giovedì 13 dicembre 2007

l’Unità 13.12.07
Gramsci, il distacco dal mito dell’Urss
di Silvio Pons


Un legame forte con l’Ottobre progressivamente sottoposto a critica specialmente sul punto della costruzione statale Proprio nelle note carcerarie e dopo lo scontro con Togliatti del 1926 prende forma un’analisi disincantata del nuovo Stato
IL CONVEGNO Al via oggi a Bari tre giornate di studio sul pensatore dei «Quaderni del carcere» a cura della Fondazione intitolata al suo nome. Una esplorazione integrale del suo pensiero con particolare riferimento al ruolo del 1917

Gramsci condivise una visione mitica della dittatura bolscevica, diffusa nel movimento comunista. Parte essenziale di tale mito furono l’idea che l’unità della «vecchia guardia» leninista fosse una risorsa spendibile e l’idea che le politiche del bolscevismo al potere coincidessero con una effettiva realizzazione di libertà, consenso e socializzazione. Ma la sua irremovibile convinzione che lo Stato rivoluzionario costituisse non soltanto un punto di forza materiale e organizzativo, bensì anche simbolico sul piano internazionale, centrava una questione cruciale: senza quella risorsa strategica, anche la più raffinata concezione rivoluzionaria occidentale era destinata alla marginalità. Il suo arresto rimosse la questione stessa dal campo ottico dei comunisti italiani. Privo delle «bellicose certezze» distintive di Lenin, e però inevitabilmente portato a caricare di aspettative l’opera dei gruppi dirigenti sovietici dinanzi alla fine del «tempo della rivoluzione» in occidente, Gramsci non doveva più liberarsi degli interrogativi e dei principi enunciati nel carteggio con Togliatti del 1926. Le note del carcere recano il segno di una siffatta eredità e costituiscono, in questa luce, un solitario tentativo intellettuale di venire a capo dell’evoluzione nel frattempo conosciuta dall’Urss tornando sulle proprie fonti originarie dell’esperienza sovietica, senza liquidarle. Vale la pena di svolgere, a questo riguardo, alcune considerazioni conclusive .
In primo luogo, si deve sottolineare il legame di Gramsci con la Nep, affermato nella lettera dell’ottobre 1926 e variamente presente nei Quaderni. Gramsci restò legato all’idea che l’evoluzione dell’Urss si dovesse svolgere in forme graduali e non violente, e ciò lo portò ad esprimere una critica della dissoluzione della Nep nella Rivoluzione dall’alto promossa da Stalin dopo il 1928: quest’ultima gli apparve una rottura del sistema di equilibri sociali derivante dalle alleanze di classe. Ma la Nep era per Gramsci un «sistema di equilibri» ancor più articolato, in quanto di natura anche politico-istituzionale: in questo contesto deve essere letta la sua insistenza sul carattere vitale della dialettica di partito nelle note del carcere. Di qui, tra l’altro, la sua critica trasparente della liquidazione dell’opposizione di sinistra in Urss, che egli svolse nell’ambito del concetto di «parlamentarismo nero». La dissoluzione di questo «sistema di equilibri» sembrò portare Gramsci ad interrogarsi sulle prospettive autentiche di un superamento della fase «economico-corporativa» in Urss e sui pericoli insiti nel debole sviluppo delle sovrastrutture. In questo contesto egli sviluppò la sua critica della «statolatria», quando ormai le tendenze della Rivoluzione dall’alto erano pienamente in atto, nell’aprile 1932.
In secondo luogo, il nesso esistente nei Quaderni tra «guerra di posizione» e «rivoluzione passiva» deve essere applicato anche all’Urss. La nozione di «guerra di posizione» non riguardava soltanto la strategia del movimento comunista, ma anche la «costruzione del socialismo» in Urss, che Gramsci vedeva come un’altra faccia del medesimo problema. Di conseguenza, Gramsci si interrogava sull’idoneità alla «guerra di posizione» degli scelte compiute dal gruppo dirigente sovietico alla fine degli anni Venti. D’altro lato, la Grande trasformazione sovietica e il suo carattere di mutamento dall’alto si inserivano necessariamente nel contesto della «rivoluzione passiva» che, a suo giudizio, caratterizzava l’epoca postbellica. È difficile dubitare del fatto che nei Quaderni fosse operante un nesso interpretativo sul regime sovietico come regime autoritario di massa. La sua distinzione tra totalitarismo «regressivo» e «progressivo» rivelava un lampante riferimento, rispettivamente, al regime fascista e al regime sovietico. Ma dal 1933 in avanti, Gramsci condusse una riflessione assai più sulle analogie che non sulle differenze tra i regimi totalitari. Non si può non vedere un simile approccio operante nelle note sull’interazione partito-Stato, sul rapporto politica-organizzazione e sulle funzioni di polizia dei regimi autoritari di massa. In altre parole, la riflessione presente nei Quaderni sull’autoritarismo sovietico si spinse molto oltre la questione industrialismo-bonapartismo.
In terzo luogo, l’unico passaggio dei Quaderni dove compare un esplicito riferimento a Stalin, risalente al febbraio 1933, ci si presenta sotto un’angolatura diversa da quella, solitamente rilevata, dell’adesione di Gramsci al «socialismo in un solo paese». Senza dubbio, egli mantenne un’adesione di principio all’idea: ma non può sfuggire il fatto che la sua polemica antitrockista era ormai un espediente per criticare in realtà il corso politico di Stalin e, verosimilmente, anche la linea settaria del Comintern. In altre parole, Gramsci delineò una critica del nesso nazionale-internazionale nella politica dell’Urss, nelle forme assunte dopo il 1928.
Nei Quaderni il nesso guerra di posizione-rivoluzione passiva conduce a una visione più ampia della dimensione statuale della Rivoluzione russa, e alla sua collocazione nei processi internazionali del dopoguerra. L’interrogativo generale di Gramsci era se il dopoguerra del XX secolo potesse seguire uno svolgimento analogo a quello del dopoguerra del XIX, nel senso di un parallelo tra l’espansione della rivoluzione borghese e quella della rivoluzione socialista. Questo interrogativo investiva direttamente il problema delle possibilità e delle capacità egemoniche dell’Urss: sulle quali, la visione di Gramsci si fece nel 1932-34 chiaramente pessimistica e negativa. Il senso ultimo delle sue linee di domanda e di ragionamento sembra essere che la Russia postrivoluzionaria non fosse in grado di svolgere quel ruolo di Stato egemone che, a suo giudizio, era stato assolto nel secolo precedente dalla Francia postrivoluzionaria. Il segno della «rivoluzione passiva» dominava anche l’evoluzione dell’Urss: questo appare il tormentato approdo del pensiero di Gramsci sull’esperienza sovietica, e anche il carattere originale della sua visione, a confronto di altre visioni critiche coeve, nate all’interno del comunismo e del socialismo internazionale.
Non per questo si deve smarrire il legame del pensiero di Gramsci con la tradizione bolscevica. Dopo la morte di Lenin, Gramsci non stabilì un rapporto univoco con alcuna delle correnti nelle quali si divise il bolscevismo, ma neppure si distaccò mai completamente dalle categorie di pensiero bolsceviche. La sua visione della Nep come sistema di equilibri, sviluppata nei Quaderni, presentava un’evidente inclinazione «buchariniana», oltre che un’ovvia derivazione dagli ultimi scritti di Lenin, e si nutriva di una concezione della dialettica interna di partito di chiara matrice trockista. Negli anni del carcere, Gramsci si mostrò consapevole del nucleo bonapartista operante nel pensiero di Trockij, ma vide anche in Bucharin lo specchio di un’ideologia ufficiale attardata nella fase «economico-corporativa». Non meno multiforme appare il suo rapporto con le concezioni internazionali del bolscevismo. Gramsci rivelò una sintonia evidente con Bucharin attorno all’idea che fosse davvero possibile conciliare il processo di «State building» sovietico con un ruolo attivo del comunismo internazionale, entro un orizzonte disegnato sulla centralità dell’Urss, ma ancorato alla tradizione rivoluzionaria. La sua interpretazione del «socialismo in un solo paese» non limitava però il ruolo del movimento comunista alla difesa dell’Urss e assumeva quale criterio essenziale di valutazione la capacità di esercitare un’egemonia ideale. L’orientamento isolazionistico dell’Urss e settario del Comintern sotto la direzione di Stalin dovettero perciò apparire a Gramsci in carcere l’inveramento di un pericolo già individuato.
Proprio su questa problematica, tuttavia, Gramsci si doveva allontanare dai riferimenti originari, nel tentativo di darsi conto dei caratteri di fondo dell’evoluzione dell’Urss sotto Stalin. Dopo il 1929 il suo pensiero non seguì né il percorso di Trockij, incardinato sulla categoria della «degenerazione», né quello di Bucharin, fino all’ultimo incline a presentare la dittatura di Stalin come una risposta necessaria al contesto internazionale. La critica di Gramsci contro la svolta dettata da Stalin alla fine degli anni 20 presentava invece la centralità del nesso tra interno ed esterno: attraverso il prisma di tale interazione vide nella Russia postleniniana l’assenza dei caratteri indispensabili all’esercizio dell’egemonia. Non è fuori luogo ipotizzare che l’elaborazione stessa della categoria di «rivoluzione passiva» nei Quaderni, applicata all’intero dopoguerra, sia stata influenzata in Gramsci anche dalla sua valutazione sempre più disincantata del ruolo dell’Urss. Così la drammatica questione posta nel 1926 non trovava la sua composizione, ma generava soltanto una serie di angosciosi e sconfortati interrogativi, orientati verso una risposta irrimediabilmente pessimistica. In un suo scritto sull’«utopia bolscevica», Edward H. Carr indicò nelle note di Gramsci sulla distinzione tra governanti e governati una «malinconica riflessione» assai lontana sia dallo slancio ideale dei bolscevichi subito dopo la rivoluzione, sia dalla coscienza sovietica dell’epoca successiva . Forse il celebre storico britannico coglieva nel segno, più di quanto egli stesso non fosse consapevole, circa la distanza psicologica e intellettuale che ormai separava Gramsci in carcere dal mondo della sua formazione.

l’Unità 13.12.07
Montale. Il «Diario postumo» è una trovata d’autore
di Alberto Casadei


SEMBRA PROPRIO OPERA DI EUGENIO MONTALE la discussa raccolta uscita dopo la morte del poeta che venne attribuita ad Annalisa Cima. Un racconto del ’46 ne anticipò l’idea

Forse c’è qualcosa di nuovo riguardo al Diario postumo, la discussa raccolta di Eugenio Montale uscita appunto postuma sotto la sorveglianza dell’amica scrittrice Annalisa Cima. Bisogna innanzitutto ricordare che sono ormai passati dieci anni da quando, poco dopo la pubblicazione integrale delle poesie di questo Diario (a cura di Rosanna Bettarini, Mondadori 1996), si è scatenata una polemica quanto mai accesa tra filologi e critici della letteratura italiana. A dare il via alla discussione è stato il critico Dante Isella: in vari articoli pubblicati nel 1997, questo autorevole commentatore delle Occasioni ha sostenuto che i testi erano di pessima fattura e pieni di autocitazioni addirittura goffe. Inoltre, a Isella e a vari specialisti gli autografi noti sino a quel momento non sembravano di mano di Montale. Tanto bastava per ipotizzare che l’intera operazione del Diario, ovvero la pubblicazione prima a piccoli gruppi e poi in un unico libro di oltre ottanta inediti, non fosse stata architettata dal poeta bensì proprio da Annalisa Cima, che gli era stata vicina sin dalla fine degli anni Sessanta e che, secondo alcune disposizione testamentarie, avrebbe dovuto curare le edizioni montaliane postume.
A difesa della Cima si schierarono Rosanna Bettarini e, con qualche ritardo, Maria Corti, che dichiarò di essere stata messa a conoscenza del progetto dal poeta stesso. Tuttavia parecchi dubbi permanevano, nonostante le continue aggiunte di dettagli e nonostante una mostra dei presunti autografi, seguita dalla loro riproduzione in un volume di concordanze del Diario, curato da Giuseppe Savoca (Olschki, 1997). Dopo un periodo di fuochi più o meno fatui, si arrivò a una sorta di armistizio, e negli ultimi anni l’intera questione non è stata più ripresa direttamente, benché non siano mancati vari contributi critici che mostravano, se non altro, che l’autocitazione era un tratto tipico dell’ultimo Montale, e quindi molti degli esempi di banali riprese segnalati da Isella non costituivano automaticamente una prova a carico della falsificazione.
Ma altri elementi potevano essere considerati, se si fosse allargato un po’ l’obiettivo al di là delle sole poesie. E qui vengono le novità. Perché non è stato sinora esaminato con attenzione un racconto montaliano, In un albergo scozzese, che era pochissimo noto prima della sua ripubblicazione nel Meridiano delle Prose (Mondadori 1995): edito sul Corriere della sera del 28 agosto 1946 non era stato raccolto nella Farfalla di Dinard né aveva attirato particolari attenzioni da parte degli specialisti prima della morte dell’autore, nel 1981. Dunque, era abbastanza improbabile che qualcun altro, a parte Montale, fosse a conoscenza di questo raccontino umoristico. Ma, significativamente, in esso si parla di un commerciante di Aberdeen il quale, dopo aver sostenuto che «chi scrive deve farsi avanti in vita, non dopo morto», alla fine si ritira «nell’abbazia di Montrose per curarvi le sue opere “postume”». La scelta, sottolineata sia dal cambiamento di opinione tra l’inizio e la fine del racconto, sia dalle virgolette assegnate all’aggettivo «postume», è adeguatamente paradossale, e quindi Montale, approvandola, può senz’altro aver pensato di metterla in pratica anche per sé. L’idea di un Diario postumo, insomma, è molto affine al gusto ironico tipico dei racconti degli anni Quaranta e poi dell’ultima fase della produzione montaliana.
Del resto, l’idea di preparare opere da pubblicarsi postume ricorre qualche altra volta, benché in forme meno esplicite, in scritti o interviste, anch’esse difficilmente reperibili prima della riedizione nei Meridiani. Ma ancor più interessante è che pure un espediente stilistico molto particolare, però usato di sicuro almeno una volta da Montale, si ritrova in un componimento del Diario: si tratta di L’inafferrabile tua amica…, in cui il nome dell’anglista Bulgheroni, Marisa, viene indicato con una perifrasi («Oppure quel suo nome che muove / da incertezza e finisce in risa»), che assomiglia molto, per tipologia, a una usata in un testo montaliano minore, Ventaglio per S.F., dove il nome di Sandra (Fagiuoli) viene indicato in questo modo: «chi col suo nome decapitò Cassandra». Si tratterebbe insomma del riuso di uno stilema unicum nella produzione d’autore, e perciò difficilmente individuabile da un sia pur abile falsario.
Tutto risolto, dunque? Ancora no. Perché in effetti qualche zona d’ombra rimane riguardo alla realizzazione dell’intero progetto. I presunti autografi, per esempio, non assomigliano a quelli autentici coevi, dalla scrittura molto più faticosa e tremolante. Questo aspetto sconcerta, perché non si capisce quale ragione ci sarebbe stata di falsificare dei testi montaliani tardi usando la grafia del poeta all’epoca degli Ossi di seppia. In effetti, molto più economico sarebbe stato procurarsi una macchina da scrivere simile a quella con cui spesso Montale componeva direttamente i suoi testi negli ultimi anni. D’altra parte, perché non è mai stato dichiarato da nessuno che il poeta si è fatto aiutare a scrivere le poesie del Diario, come sembrerebbe plausibile?
Le ipotesi si potrebbero sprecare (e sull’intera questione sarà pubblicato su Italianistica un intervento del giovane montalista Niccolò Scaffai che parla di «apocrifo d’autore»). Tuttavia, un paio di considerazioni possono ormai emergere. Da un lato, sarebbe importante che venissero resi noti anche gli indizi minimi, sinora magari trascurati da conoscenti di Montale che abbiano avuto modo di visitarlo nei suoi ultimi anni, dato che pure con queste piccole prove si potrebbe comporre un quadro più chiaro. Da un altro, sembra evidente che Montale ha chiuso la sua parabola poetica con Altri versi, raccolta per tanti aspetti ricapitolativa, nata durante la realizzazione dell’Opera in versi montaliana a cura di Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini, edita nel 1980 da Einaudi e tuttora punto di riferimento imprescindibile. Il Diario postumo, al di là del valore che si vuole assegnare all’insieme delle poesie o ai singoli testi, è comunque un’appendice autonoma, una «trovata d’autore» che però, in ogni caso, non cambia nel profondo la nostra percezione della poesia montaliana: sulla quale, dopo un periodo di minore interesse (specie da parte dei poeti delle ultime generazioni), sarebbe il caso di tornare per nuove interpretazioni.

Repubblica 13.12.07
L'orco È in casa
di Attilio Bolzoni


Sono mille i piccoli spariti nell´ultimo anno, sono sempre di più: casi famosi come Denise e altri che restano nell´ombra

Sono i piccoli fantasmi d´Italia. Tutti insieme, fanno gli abitanti di un paese intero come Broni in provincia di Pavia o come Capaci in provincia di Palermo. I minori che da trent´anni non si trovano più sono 9347. Si chiamano Riccardo, Silvio, Radhouane, Veronica. E si chiamano Pasqualino, Ester, Alì, Andrea, Giovanni, Sara, Adan, Corneliu, Hajar, Annamaria, Diego e Sebastian. Sono spariti tutti. Come altri mille dall´inizio di questo 2007 che sta per finire. Scompaiono all´improvviso, nelle grandi città del Nord e nelle campagne del Sud. E´ un esercito di bimbi e di ragazzini invisibili. I maschi sono quasi il doppio delle femmine.
E aumentano, aumentano sempre i piccoli che non tornano più a casa. Erano 440 nel 2004, 671 nel 2005, 884 nel 2006. Dal primo gennaio al 4 ottobre scorso sono già diventati 984. Quattro bambini al giorno inghiottiti in qualche parte d´Italia. Uno su quattro è nato qui, gli stranieri sono per lo più albanesi o magrebini o romeni. I più piccini hanno pochi mesi, i più grandi diciassette anni. In fuga o rapiti. Comprati o venduti. Vivi o morti. Su ogni cento che spariscono ne riappaiono per fortuna ottanta. Qualche mese prima, in un´altra città italiana, un operaio albanese, o forse polacco, comunque extracomunitario, intento alla manutenzione di una strada, era scampato miracolosamente a una folla inferocita che minacciava di giustiziarlo sul posto. L´avevano preso per un pedofilo per aver scambiato due battute e un sorriso con un ragazzino che gli si era avvicinato, incuriosito dagli attrezzi da lavoro.
Ciò che colpisce, in questi episodi, è la sproporzione evidentissima fra il fatto e la reazione. La zingara e l´operaio sono vittime in senso classico: non hanno fatto niente, e rischiano la libertà, se non la pelle, sotto la pressione di una folla che vibra di sdegno e di paura. Paura degli orchi. Che, se esistono, devono essere puniti.
Ma esistono davvero gli orchi?
Sul fenomeno dei minori scomparsi circolano, da anni, statistiche altamente attendibili. Il Servizio Minori della Polizia di Stato ha censito 984 minori scomparsi nell´anno in corso; 719 sono stranieri. Nell´80% dei casi si tratta di allontanamento volontario. Molti dei minori fanno poi ritorno in famiglia, ma non sempre i genitori vanno a raccontarlo agli inquirenti: forse perché sono troppo felici e non ci pensano più, forse perché si sentono responsabili e provano vergogna. Tutte le inchieste, anche a livello internazionale, su presunte reti pedofile, raramente hanno prodotto esiti convincenti. Quanto al traffico di organi umani, non esistono, a tutt´oggi, prove dell´esistenza di organizzazioni dedite a simili attività.
L´amara verità che emerge dal lavoro incessante degli specialisti è che nella stragrande maggioranza dei casi la scomparsa dei minori è da ricondursi a fatti di natura familiare. Sono gli affetti e gli amori che sequestrano, fanno sparire, troppo spesso sopprimono. Statistiche, o, peggio, fatti. Le une e gli altri possono essere maledetti, persino offensivi: mettono al muro i nostri consolidati luoghi comuni e li fucilano impietosamente. Ci privano dell´illusione di una mostruosità tanto più paradossalmente rassicurante quanto aliena da noi. Non è facile rassegnarsi all´idea che l´orco zannuto e la strega di Hansel e Gretel sollevino la terrificante maschera per mostrare il sorriso distorto di mamma e papà. Ma, purtroppo, è quanto quasi sempre accade. E anche le lamentazioni contro l´imbarbarimento della società lasciano il tempo che trovano. Da quando la criminologia ha preso a darsi solide basi scientifiche, gli annali sono pieni di racconti raccapriccianti popolati da padri stupratori, madri omicide, zii affettuosi che improvvisamente si trasformano in orridi aguzzini. La casistica registrata centoventi anni fa da Cesare Lombroso è agghiacciante: "Mezz´ora prima di ucciderla io non ci pensavo affatto" confessa madame George, affettuosa nonnina settantenne, dopo aver ucciso la nipotina. Un tal Bouillard, padre tenero ed esemplare, dopo aver sterminato la sua famiglia, si precipita da un vicino e lo esorta a vedere di persona: "Io non so perché li abbia uccisi, io che li amavo tutti e si viveva in ottima armonia".
Sì, gli orchi esistono. Ma non hanno il volto della zingara e dell´operaio. Quella zingara e quell´operaio pagano un clima di crescente paranoia sociale. Sono, in quanto stranieri, in quanto "altri", capri espiatori ideali della nostra paura. Se esistono gli orchi che ci portano via i figli, si saranno detti la madre angosciata e gli improvvisati giustizieri, devono avere il volto di quei due.
La paura dell´orco che viene da lontano... ma che cosa nasconde, in fondo, se non la paura di scoprire che l´orco ce lo portiamo dentro, che ha il nostro aspetto, che potrebbe esplodere da un momento all´altro?

Corriere della Sera 13.12.07
Il caso Il quotidiano comunista: sì a Cusani, ma niente profitto
E «il manifesto» si fa azienda «Usciamo dall'adolescenza»
di Angela Frenda


MILANO — Il manifesto «deve essere anche un'azienda». E fa niente che «tanti, come noi, possono storcere il naso perché abituati a concepire l'azienda come organismo predatorio del lavoro e dell'intelligenza collettiva. Combattere questo modello resta una delle ragioni principali del nostro lavoro e della nostra vita. Ma l'azienda alla quale pensiamo è l'insieme di persone e cose organizzate economicamente per il conseguimento di uno scopo determinato».
Nel quotidiano di via Tomacelli (ma da gennaio traslocano nella nuova sede di via Bargoni, in zona Porta Portese) si cambia registro. E si introduce il concetto, finora poco amato, di azienda. L'annuncio è stato dato ieri ai lettori in un lungo e sofferto articolo di prima pagina, che è stato il frutto dell'assemblea di martedì tra i giorna-listi, la direzione, e Sergio Cusani. L'ex finanziere è stato infatti contattato dai vertici del manifesto perché stili un piano di risanamento dei conti economici, da anni oramai in rosso.
Il manifesto ha affidato le proprie sorti, quindi, all'uomo che trent'anni fa era considerato un genio della Borsa, che poi ha lavorato per Raul Gardini e che infine è divenuto famoso nelle cronache giudiziarie per aver gestito la maxi tangente Enimont ai partiti. Oggi Cusani però ha cambiato vita: si occupa di problemi dei detenuti e collabora con i sindacalisti della Fiom-Cgil, per i quali svolge attività di monitoraggio delle aziende in crisi. E martedì ha illustrato il suo progetto di risanamento ai redattori del manifesto.
In sintesi, Manifesto spa, titolare delle testata, ha adesso sulle sue spalle il debito di 12 milioni di euro a fronte di un patrimonio di 20 milioni di euro. Secondo il piano di Cusani la Spa concederebbe per durata pluridecennale la testata alla cooperativa Manifesto Cearl ricevendo un canone annuo. Così la Cearl sarebbe libera di agire come impresa competitiva non più oberata dai debiti.
Un'«aziendalizzazione», spiega il direttore Gabriele Polo, «sofferta ma necessaria. È ora di diventare grandi e abbandonare la fase adolescenziale. Vanno bene le sottoscrizioni, e siamo sempre stupiti dalla generosità dei nostri lettori. Ma non possiamo continuare a sopravvivere girando con il cappello in mano. Dobbiamo diventare adulti e porre fine alla fase post '68. Quindi serve anche una struttura aziendale. Basta incarichi confusi e scarsa responsabilizzazione nel gestire il patrimonio ». L'azienda a cui pensa Polo, però, «sarà diversa. Perché non punta ai profitti ma all'indipendenza del giornale». Pensiero, questo, in sintonia con la maggior parte della redazione. Come conferma Andrea Fabozzi, membro del Cdr: «Quasi tutti noi crediamo che non ci farebbe male l'introduzione di criteri aziendali. Nessuna demonizzaIl caso Il quotidiano comunista: sì a Cusani, ma niente profittozione, insomma. Perché l'alternativa è rimanere assistiti a vita. Semmai il problema è spiegare bene questa cosa ai nostri lettori, alcuni dei quali potrebbero non capire». Di qui, il fondo di ieri. Dopo un'assemblea che si è conclusa con il voto per acclamazione della proposta di Cusani. Il quale spiega soddi-sfatto: «Il progetto si deve e si può fare. La trasformazione in azienda e l'abbandono di un'organizzazione non competitiva? I giornalisti l'hanno capita. Come? Ho spiegato che anche loro dovevano fare uno sforzo, adesso, rispetto alle proprie ideologie. Così come i loro lettori avevano fatto tanti sforzi finora».

Corriere della Sera 13.12.07
Le critiche al «Dizionario» dell'Utet
Fede, relativismo e diritti umani
di Marco Ventura


Oggi per la Chiesa il rigore dottrinale è diventato il metro della giustizia

«Pensare i diritti umani senza cristianesimo » è la colpa dell'opera in sei volumi che la Utet ha consacrato di recente proprio ai diritti umani. L'Osservatore Romano stigmatizza le «colpevoli omissioni» di un dizionario incerto sui principi e reticente su vita, embrione ed eutanasia. Il giornale della Santa Sede critica soprattutto lo scarso rilievo riservato alla Chiesa cattolica. La prova provata: l'opera dedica soltanto una voce di sei «discutibili » pagine a «Cristianesimo e diritti umani».
Mentre a Strasburgo l'Unione Europea proclama la propria Carta dei diritti fondamentali, l'intervento dell'Osservatore
Romano dell'11 dicembre va al cuore del problema. Per decenni i cattolici hanno cercato di pesare per la propria testimonianza più che per la propria dottrina: singoli fedeli, associazioni e Chiese sul terreno; la Santa Sede con quel capolavoro di sintesi tra ideali e pragmatismo che è la diplomazia vaticana. L'approccio è oggi cambiato. Dottrina e ortodossia prendono la scena. La Chiesa cattolica vuol pesare contrapponendo alla politica e al diritto — freddi, fragili e relativisti — il proprio patrimonio di valori, fondamenti, etica. I diritti umani sono in crisi perché l'uomo non confessa la propria verità. L'uomo non sa confessare la propria verità perché non sa credere. Gli unici diritti umani solidamente posti sono quelli giusti: e come ha scritto Benedetto XVI, il diritto è giusto quando fede e politica «si toccano» nell'etica. L'asse si sposta dalla fatica del cattolico in politica verso l'ortodossia del cattolico in dottrina. Su questo piano, cosa possono gli autori di un Dizionario? E cosa possono i deputati del Parlamento europeo? Ogni confronto con un magistero religioso è perso in partenza. Quale dizionario potrebbe accontentare L'Osservatore Romano citando come si deve «studiosi cattolici» oppure tenendo nel «dovuto conto la Dottrina sociale della Chiesa»: soltanto un dizionario cattolico può riuscirvi, dizionario peraltro già esistente nel Catechismo del 1992 e persino nel Codice di diritto canonico del 1983.
Criticando chi «pensa i diritti umani senza cristianesimo » L'Osservatore Romano si diverte a parodiare la voce da me firmata su «Cristianesimo e diritti umani», in cui appunto scrivo che «è impossibile pensare i diritti umani senza cristianesimo». Allo stesso modo si critica chi non dice che è cattolica «l'unica voce chiara ed inequivocabile in difesa dei diritti». Proprio ciò che affermo — con un pizzico di prudenza in più — nella mia voce: «La Chiesa cattolica si è affermata quale indiscusso protagonista della lotta globale per i diritti umani». Sembrano giochi di parole, scaramucce di altri tempi tra cattolici e liberali. Non è così.
Nel Dizionario Utet duecento esperti confessano la fragilità del proprio sapere «discutibile». A sua volta L'Osservatore Romano rivela la fragilità della propria salda dottrina: salda come è la religione di fronte alla politica e al diritto. Ma fragile nell'arena degli interessi. Dove il cattolico è diviso tra la precarietà della cittadinanza e l'assoluto della fede.

Il Sole 24 Ore 12.12.07
La doppia anima della sinistra radicale
di Piero Ignazi


La costituzione de La sinistra-L'arcobaleno, federazione di Rifondazione, Verdi, Pdci e Sinistra democratica, sembra invertire la direzione di marcia se­guita fin qui dalla storia della sinistra italia­na. Pietro Ingrao, acclamato domenica come padre nobile del nuovo partito, era tal­mente consapevole dell'irrequietezza e del­la litigiosità della sinistra italiana - un tem­po quella socialista poi quella estrema - da aver formulato un solo, significativo auspicio dal palco della riunione fondativa alla nuova Fiera di Roma: «Unitevi». E Fausto Bertinotti, mentre echeggiavano le note di "Bella ciao", ha sintetizzato l'evento con l'espressione «una bellissima giornata». Animano la Sinistra-Arcobaleno Franco Giordano, Oliviero Diliberto, Alfonso Pecoraro Scanio e Fabio Mussi.

Ma la storia della sinistra italiana è fatta di innumerevoli scissioni. Incompatibilità teo-riche, scomuniche ideologiche, irrigidimen­ti sulla purezza rivoluzionaria, ma anche faide personali e tatticismi di bassa lega hanno piagato la vita del socialismo e del comuni­smo italiano. Non è vero che il Pci fosse un monolite: al suo interno scoppiavano assai di frequente forti contrasti; il fatto che si concludessero invariabilmente con l'espul­sione dei dissidenti serviva a salvare la fac­cia, ma non per questo la diaspora dei "rivoluzionari" o dei "revisionisti" si arrestava. Se questo movimento avveniva sottotrac­cia, per quell'incapsulamento ideologico e fideistico che faceva digerire tutto agli ex­compagni pur di non danneggiare la causa del proletariato e della rivoluzione, come ci ha magistralmente descritto Arthur Koestler nel suo Buio a Mezzogiorno, nel mondo socialista invece era tutto palese, aperto, e quindi più distruttivo. A rileggere le vicen­de del socialismo italiano, dalla scissione saragattiana di palazzo Barberini (1947) in poi, per almeno un decennio ci si perde in un labirinto di sigle e formazioni che si scin­dono, si accorpano e si dividono ancora. Lo stesso fenomeno, in scala molto più ridotta, si ritrova lungo tutti gli anni 70 quando la ventata neo-marxista produce una infinità di gruppuscoli "rivoluzionari", tutti rigorosamente alla sinistra del Pci: Potere opera­io, Partito comunista marxista-leninista, Lotta continua, Manifesto, Pdup, Movimen­to lavoratori per il socialismo, Avanguardia operaia, per non citare che i più noti. Il pro­gressivo isterilimento politico-ideologico della sinistra extraparlamentare, e la con­correnza nel mondo giovanile del Partito ra­dicale prima e dei Verdi poi, hanno portato quelle formazioni politiche a un processo di aggregazione "residuale" in un unico conte­nitore, Democrazia Proletaria, al fine di mantenere un minimo di visibilità.

La nascita di Rifondazione comunista dalla costala cossuttiana del Pci, al momen­to della sua trasformazione in Pds, offre un rifugio sicuro agli ultimi epigoni della sta­gione movimentista degli anni 70.1 succes­si elettorali di Rifondazione e la sua solidità organizzativa (nei primi anni reclutava più di 100 mila iscritti suddivisi in più di 2mila sezioni) avrebbero potuto sedare le inquietudini ideologiche. Invece no: fin da subito il partito si rivela irrequieto, in parte riproponendo antiche fratture ereditate dalle precedenti esperienze dei leader (Cossutta ex-Pci contro Magri ex-Pdup, ad esem­pio), in parte lasciando libero corso alle va­riegate espressioni della sinistra antagoni­sta. Un quadro che viene ulteriormente ar­ricchito, e frammentato, all'inizio degli an­ni 2000, dall'apertura del partito ai movi­menti, dai pacifisti ai no-global. Con una ta­le cacofonia, peraltro mai sanzionata all'in­terno, in linea con la grande apertura e tolle­ranza praticata dal partito, diventa quasi ir­resistibile riprendere l'antica strada delle divisioni: nel 1995 con l'uscita del gruppo dei Comunisti italiani poi confluiti nei Ds, e nel 1998 con la scissione che da vita al Parti­to dei comunisti italiani (Pdci) di Cossutta, Diliberto e Rizzo. A completare cronologi­camente il quadro arriva infine la "non ade­sione" al Partito Democratico da parte di una cospicua minoranza dei Ds guidata da Mussi e Salvi che promuovono il gruppo di Sinistra democratica.

Il soggetto politico nato domenica scorsa è, tuttavia, un (ulteriore) ircocervo italico. Non perché sia implausibile l'aggregazione di componenti paleo-comuniste, movimentiste, antagoniste ed ecologiste. Di esperi­menti simili se ne sono visti anche in altri Paesi, dall'Olanda al Portogallo, ma con esiti poco brillanti. Piuttosto è la collocazione politi­ca che differenzia la formazione di Diliberto, Giordano, Mussi e Pecoraro Scanio. Si tratta infatti di partiti che, benché si collochino all'estrema sinistra, sono tutti al Governo. Laddove si è compiuto un passo analogo, co­me in Germania con la fusione tra il vecchio Pds di Gregor Gysi e il Wasg di Oskar Lafontaine, si trattava di due partiti all'opposizio­ne e antagonisti rispetto al fratello maggiore socialdemocratico. Tanto che la loro indi­sponibilità a trattare con gli altri partiti (pe­raltro ricambiata anche dalla Spd) ha fatto naufragare ogni ipotesi di un governo rosso-rosa-verde dopo le elezioni del 2005. In più, e questo è un aspetto rilevante, i Griinen tede­schi di Joschka Fischer non hanno nemme­no preso in considerazione l'ipotesi di aggre­garsi alla nuova formazione, ritenendo la propria agenda politica "post-materialista" ben lontana da quella arcaicizzante di Die Linke. Quindi in Germania si configura una sinistra di opposizione tuttora divisa tra una componente (Die Linke) tutto sommato tra­dizionale e indisponibile al compromesso e una (i Verdi) più moderna e già arricchita dall'esperienza governativa.

Lo stesso quadro si ritrova in Francia. L'esperienza della gauche plurielle degli an­ni del governo Jospin, poi tenuta in vita a fati­ca dopo la sconfitta alle presidenziali del 2002, non comprendeva tutta i partiti a sini­stra del partito socialista. Vi erano esclusi trotzkisti e massimalisti di vario colore. Co­me in Germania, la sinistra radicale si suddi­vide in una piccola ma agguerrita fazione estremista e irriducibile a logiche coalizionali e in un raggruppamento "governativo" che comprende il vecchio, consunto Pcf, i Verdi e altri piccoli movimenti. In Italia tro­viamo qualcosa di inedito: La sinistra-L'arcobaleno raccoglie tutta la sinistra radicale ma è tutta al governo e, anzi, si proclama tut­ta "governativa". Nulla a che vedere con i to­ni di Lutte Ouvriére o della Linke.

Come ricordava giustamente tempo fa Tommaso Padoa-Schioppa, l'accettazione, per quanto protestando ed obtorto collo, di tanti provvedimenti di rigore finanziario e di messa in ordine dei conti pubblici da par­te di tutta la sinistra estrema è un fatto uni­co nella politica europea. La costituzione del nuovo soggetto politico rinforzerà que­sto atteggiamento responsabile o sollecite­rà nuove avventure massimaliste?

il manifesto 12.12.07
Ehi!
di Rossana Rossanda


Come siamo frettolosi e snob davanti al primo ten­tativo della galassia delle si­nistre di mettersi assieme. Pare che i più scafati manco siano andati a vedere. Eppure non ci sono alternative, o si lascia la sfera politi­ca a Veltroni, e noi ci contentiamo di essere, se va bene, frammenti interessanti e intelligenze o mozioni, o si ricomincia a parlarsi «per». Per fare assieme qualche cosa che freni la de­riva alla centralizzazione sfrenata del dominio del denaro e delle merci che ci frantumano ciascuno nel sin­golo e nei pochi. Raramente in transi­torie masse.

Si dirà: ma in fondo da questa par­te del mondo ce la caviamo, perlo­più abbiamo un tetto sopra la testa, un piatto da mangiare, un po' di compassione per gli esclusi. E vero, mettere un freno al meccanismo mondialmente in atto è impellente dove esso produce subito morte, e non è il nostro caso. Non per l'assolu­ta maggioranza di noi, e delle minoranze miserabiliste chi se ne frega? Così alla cancellazione della Cosa Rossa - espressione cretina - da par­te delle maggiori testate (eccezione Rai1) sì è aggiunta la freddezza no­stra, coperta dai quattro morti della Thyssen, come se un incidente del la­voro di questa natura non fosse un evento messo in conto dal meccani­smo oggi dominante.

Non sono d'accordo. Per quel che so, la riunione di sabato e domenica non ha dato che una risposta, la deci­sione di lavorare assieme, obiettivo minimo non andare dispersi alle prossime elezioni, non molto ma me­glio di niente, obiettivo massimo, ma poco interrogato, diventare un partito. Per dir la verità, oggi è lo stes­so, e lo sarà fin che manca una elaborazione comune sul punto in cui sia­mo e un tentativo comune di inter-pretazione delle diverse soggettività presentì, di quel che ciascuna mette nelle diverse sigle o movimenti, per cui uno o una stanno in questo e non in quello. Ma una cosa è starci come un tassello di un mosaico com­plesso, sulla cui natura e destino si moltiplicano gli interrogativi, un'al­tra è starci in soddisfatta autosufficienza. Se questa sembra finita - an­che per le insigni zuccate prese - un lavoro assieme può cominciare. Anche con le femministe, che vengono da molto lontano e in questo primo incontro hanno contrapposto a un ri­tuale un altro loro rituale, facendosi rispondere da rituali parole, ma che per pesare davvero dovranno dimo­strare come non ci sia cespuglio del paesaggio politico in cui siamo che non sia traversato dal conflitto fra i sessi, anch'esso in via di mutamen­to. Conflitto che - ha ragione Dominijanni - non va ridotto a preferenze sessuali, che appartengono e devo­no restare all'individuale libertà. La­sciamo l'elenco al Vaticano. Fame delle figure o tipologie sociali condu­ce dritti, credenti o non credenti, a qualche Malleus Maleficarum (alias caccia alle streghe).

Per conto mio, la prima urgenza è garantire un'area, un perimetro, una disponibilità dentro alle quali parlar­si, rispondersi, cercar di costruire una piattaforma che conti sulla sce­na delle idee, su quella sociale e su quella istituzionale. Dei limiti di que­st'ultima si può dire molto, ma sen­za di essa conta di meno, così come ridursi a essa significa tagliarsi radici e canali di alimentazione.

Tema prioritario? Secondo me capire come i soggetti singoli e collettivi siano prodotti o intaccati o condizionati, o resi meno liberi, dal meccanismo economico-politico dei po­teri oggi mondialmente dominanti. Meccani­smo articolato, in mutazione, produttore di lacerazioni anche interne, ineludibile. Ma a sua volta condizionato dalle soggettività che innesta o con le quali si scontra.

La vecchia storia, Mane sì Marx no, si misu­ra su questo criterio. Non è riconducibile, co­me si usa, alla «questione del lavoro». Per contro, una soggettività non si misura su un'altra soggettività, ma tutte e due con, per così dire, la pesantezza del mondo.

Non vedo difficoltà per chi sta oggi attor­no a Rc o al Pdci, salvo finirla con la negazio­ne o riaffermazione di un «da dove venia­mo» (che sarebbe l'ora di guardare in faccia invece che celebrare o esecrare). Né vedrei difficoltà negli ecologisti: come O'Connor, ma anche senza di lui, sanno bene quanto delle razzie contro gli equilibri naturali o am­bientali dipenda dal denaro e dalla mercifi­cazione generale.

La battaglia per l'ecosistema non ha avversari diversi da quelle per/contro il lavoro sa­lariato e contro le guerre. Quanto ai movi­menti, la loro filosofia rende più semplice aderire a tutto o a questo o a quello mantenendo un'indipendenza. Lo stesso vale per la causa delle donne, che peraltro non si esauri­rà mai neanche nella più complessa e raffina­ta delle politiche - il femminismo sa bene che non è «una delle» esperienze, è costituiva della specie umana. Credo infine che anche i nostri giornali dovrebbero mettere a dispo­sizione non la loro autonomia ma le loro te­ste.

Dimenticavo la questione del leader. Beh, il leader viene ultimo. E dovrebbe lavorare come lo stato, alla propria estinzione ... è il peggio del famoso partito. Per ora non me ne occuperei.

La Stampa.it 12.12.07 Psicofarmaci e bambini, troppi dilemmi di Gabriel Levi

Come ridurre il consumo di psicofarmaci per i bambini e per i ragazzi? Ma anche: quando e come gli psicofarmaci possono essere utili e necessari in età evolutiva? E qual è il progetto terapeutico complessivo che garantisce, per ogni caso, un uso limitato ed efficace degli psicofarmaci?

Anche definito in questi termini il discorso rimane solo un frammento di discorso, che va inserito in un contesto. Qual è il livello minimale di psicoterapia (o di lavoro psicologico mirato) che i servizi di neuropsichiatria infantile o di psicologia clinica dell’età evolutiva debbono e possono assicurare alla massa dei bambini che chiedono un intervento? La psicoterapia è uno strumento abilitativo per il superamento di traumi? Per la soluzione di conflitti? Per lo sviluppo della personalità? La psicoterapia lavora sui nuclei psicopatologici dei disturbi, sulle immagini di Sé e dell’Altro che il bambino fabbrica con le proprie risorse e con gli investimenti affettivi ricevuti?

Molti bambini crescono con difficoltà, perché non riescono ad impadronirsi nei modi e nei tempi giusti degli strumenti mentali che la società e la cultura dovrebbe mettere a loro disposizione. Vale a dire: molti bambini hanno difficoltà nell’imparare a pensare ed a ragionare (il famoso metodo) o a comprendere ed a scambiare il lessico e la sintassi delle emozioni (i famosi valori).

Certamente la relazione interpersonale, la logica ed il diritto sono gli obiettivi di ogni educazione civile. Famiglia e scuola collaborano, bene o male, al conseguimento di questi obiettivi di crescita mentale e personazione. Tutto questo mentre sostengono i bambini a muovere i primi passi, ad esplorare il mondo, a curiosare sulle identità, a leggere e scrivere i codici che viaggiano nello spazio sociale, a calcolare programmi, misure e valutazioni scientifiche.

Molti bambini hanno difficoltà scolastiche e cioè difficoltà nell’acquisire gli strumenti dell’apprendimento e difficoltà nell’individuare e nel conquistare gli obiettivi degli apprendimenti. Come abilitiamo questi bambini? Come e cosa insegniamo (e cioè come offriamo con chiarezza dei segni e dei codici)?

Il discorso che ho cercato di portare avanti sembra proprio pazzo. Che cosa c’entra la terapia farmacologica con la psicoterapia? E che cosa c’entra la riabilitazione delle funzioni neuropsicologiche (quand’anche superiori) con la pedagogia? Il punto è proprio questo. Il nostro discorso sembra dissociato perché cerchiamo di collegare delle strade che diventano senza senso, quando restano separate. Con alternanze di ipertrofie e paralisi.

L’intervento psicofarmacologico tende ad aumentare quando gli spazi di un lavoro psicologico costruttivo si restringono. Le psicoterapie possono diventare giochetti inutili, se e quando si propongono di curare dei traumi, senza considerare qual è il terreno delle vulnerabilità e dei conflitti. Le psicoterapie diventano panacee retoriche, quando affrontano i disturbi psicopatologici dei singoli come fossero questioni sindacali. O al contrario, quando affrontano problemi di ricambio generazionale come fossero disturbi psichiatrici. La riabilitazione in età evolutiva confonde spesso l’abilitazione all’uso di strumenti precisi con l’abilitazione a padroneggiare i programmi che questi strumenti consentono di sviluppare.

E allora? Tanti psicofarmaci ai bambini che non possono ricevere un appoggio psicologico e terapeutico? Tante psicoterapie ai bambini che non sappiamo educare e costruiscono disturbi di comportamento o disturbi di internalizzazione? Tante riabilitazioni miracolistiche ai bambini che hanno un handicap e debbono ridefinire gli obiettivi di uso dei loro strumenti, ma non i loro obiettivi di vita?

Forse conviene che riflettiamo meglio sulle contraddizioni che la società degli adulti mantiene verso la società dei bambini. E ci interroghiamo sul rapporto tra psicoterapia e psicofarmacologia. In Parlamento esistono tre proposte di legge sulla psicoterapia. Sarebbe bene che sul tema psicoterapia in età evolutiva ci fosse un dibattito pubblico ed ampio.

martedì 11 dicembre 2007



In occasione dell’Assemblea della sinistra e degli ecologisti che si è svolta nelle date 8 e 9 dicembre alla Nuova Fiera di Roma, un primo gruppo di soggetti, sia individuali sia collettivi, ha promosso un confronto aperto e pubblico su: FORME, PRATICHE, LINGUAGGI E NUOVE SOGGETTIVITÀ DELLA POLITICA.
Ci siamo riuniti nella sala C, quella dove si era svolto il workshop "Democrazia, etica pubblica, rappresentanza, nuove forme della partecipazione", che è stato gentilmente interrotto un’ora e mezza prima del previsto per lasciare a noi uno spazio per riunirci. Poiché abbiamo sottratto al workshop “Democrazia” alcune ore di lavoro, desideriamo quindi ringraziare i partecipanti e i relatori per averci permesso di utilizzare uno spazio e un tempo che era stato riservato per loro.
In effetti il tema dei due incontri era comune e al “nostro” workshop abbiamo registrato una grande partecipazione. Purtroppo non tutti coloro sono riusciti a pronunciare il loro intervento, perché infine avevamo solo due ore a disposizione. Chi non è riuscito a parlare in quella sede, però, ha già un posto riservato nel primo incontro pubblico, che organizzeremo a gennaio.
Abbiamo chiesto e ottenuto che il documento conclusivo del workshop autogestito fosse letto in plenaria domenica mattina, subito prima dell’intervento di Pietro Ingrao.

Hanno parlato al workshop autogestito Riolo – Ginsborg – Folena – A. Pizzo – Pesacane – F. Curzi – Andrea (Action) – Bruno – Salvato – Scarparo - Gaddi – Massai – Amura – Hannachi – Labucci – Rozza – Caserta – Foglia – Cugusi.
A questo punto Folena ha dato lettura di una prima BOZZA del documento conclusivo, alla quale i presenti sono stati invitati a portare degli emendamenti, che sono stati inseriti a conclusione dell’incontro.
Hanno quindi parlato Ingrosso – Tommasello – Bonfanti – Molinari – Sullo – Filipponi – Somma – Tamino

Sono già automaticamente iscritti a parlare al primo seminario di gennaio, salvo che desiderino diversamente, tutti coloro che si erano iscritti al workshop autogestito ma non hanno fatto in tempo a parlare. Nel dettaglio: Giunti – Lavaggi - Fattori – Di Francesco – Carradori – Peciola – Tamino – GP Pizzo – Galeota – Bonaiuti – Iorio – Beltrame – Bonaiuti – Calabresi

Se mi è sfuggito qualcuno, mi scuso e vi chiedo di segnalarmelo.


Valeria Noli 339 3417256
valerianoli@gmail.com


Dichiarazione conclusiva dell’incontro autoconvocato dell’otto dicembre
Presso l’Assemblea della Sinistra e degli Ecologisti – Nuova Fiera di Roma, 8-9 dicembre 2007

WORKSHOP AUTOGESTITO
SU FORME, PRATICHE, LINGUAGGI
E NUOVE SOGGETTIVITÀ DELLA POLITICA

www.autogestiti.org – info@autogestiti.org


L’incontro autoconvocato e autogestito delle associazioni, dei laboratori territoriali, dei movimenti, dei comitati e dei network, riunitosi in occasione dell’Assemblea della sinistra e degli ecologisti, decide di dare vita ad una rete aperta attorno all’idea che, oggi, la sinistra o è democrazia, o non è.
Vogliamo essere parte di un vero processo costituente di un nuovo soggetto politico, unitario e plurale, che, muovendo dalle prime importanti decisioni prese in questi giorni dai partiti promotori dell’Assemblea, veda il popolo della sinistra davvero sovrano. Non ci accontentiamo di una federazione di partiti e di stati maggiori né tantomeno di un fragile cartello elettorale. Pensiamo di poter dare un contributo positivo perché si realizzino questi obiettivi.
In questi anni e negli ultimi mesi, in questa direzione unitaria, si sono moltiplicate esperienze e pratiche innovative, mosse dalla constatazione che la crisi della rappresentanza politica, dei partiti e dei soggetti organizzati, appare irreversibile. Le pratiche femministe, che mettono in discussione il modello patriarcale e gerarchico che innerva il sistema politico e il potere; le pratiche della disobbedienza e dell’autogestione, cresciute nei centri sociali e nei movimenti, che rimettono in questione la relazione tra il dire e il fare; le pratiche nonviolente e pacifiste, animate dal convincimento che l’opposizione alla guerra e alle armi mette in discussione anche chi sei e come ti comporti con l’altro; le pratiche radicalmente democratiche nelle relazioni sindacali e sociali che consegnano sempre ai lavoratori e alle lavoratrici il potere di decidere sugli accordi; le pratiche di condivisione della conoscenza e di produzione di cultura libera e indipendente, come bene comune creativo, che rompono la forma autoritaria della produzione di senso; le pratiche di critica al consumismo e al dominio delle merci, che propongono nuovi stili e nuova qualità della vita; le pratiche di liberazione dai territori dalle mafie e dal dominio criminale, volte a proporre nuovi comportamenti civili; le pratiche di contrasto sui territori della precarizzazione del lavoro e della vita, e quelle di relazione tra i migranti e i nativi, volte a praticare nuove forme universali di cittadinanza; le forme più partecipate di volontariato e di associazionismo, tutte queste pratiche e tante altre raccontano una parte di questa ricerca.
Queste pratiche e queste culture devono invadere pacificamente e positivamente la nuova soggettività della sinistra.
Vogliamo, come rete, in un prossimo incontro seminariale nel mese di gennaio 2008, raccogliere queste buone pratiche ed esperienze e definire le nostre proposte che, dalle radici e dalle fondamenta, creino le premesse perché la Sinistra sia la prima, grande costruzione politica integralmente partecipativa e democratica.
La consultazione popolare della sinistra proposta dall’Assemblea di questi giorni deve diventare l’occasione di una larga legittimazione democratica del processo costituente (simbolo, carta degli intenti, prime regole democratiche, coordinamenti territoriali e nazionale).

Vogliamo una sinistra che, muovendo dal lavoro e dalla vita degli uomini e delle donne, sia:
• antipatriarcale, fondata sui generi
• antirazzista e inclusiva dei migranti
• nonviolenta e pacifista
• libera e libertaria, portatrice di laicità, di diritti e di libertà, a partire da quelli proposti dal movimento GLBTQ
• strumento di una generazione colpita dalla precarietà nella vita e nel lavoro
• orizzontale, dei territori, dei posti di lavoro, organizzatrice dei precari, della lotta per la casa, dei quartieri, dei comuni
• connessa intrinsecamente coi conflitti sociali, sindacali, ambientali e dei territori
• luogo di incontro per produrre e diffondere cultura, conoscenza, comunicazione, beni comuni in quanto incidono direttamente nella sfera sociale, nel lavoro e nell’esistenza
• a rete, aperta sempre ai movimenti e alle associazioni
• di trasformazione, attraverso un radicale superamento dell’attuale modello di sviluppo, contrastando le politiche centrate sulla competitività che dominano questa globalizzazione a favore di un nuovo paradigma ambientale volto alla tutela e valorizzazione dei beni comuni e alla giustizia tra le specie viventi e incentrato su pratiche democratiche e partecipative
• europea e mediterranea, contro il fondamentalismo atlantico e capace di proporre un’alternativa fondata su un modello cooperativo
• dalla parte dei diversamente abili, dei diritti di chi è recluso, di chi è malato, e di tutti coloro che soffrono per qualsiasi ragione una discriminazione

Intendiamo promuovere nei territori luoghi comuni dei partiti e delle realtà associate e di lotta come le case della sinistra, i laboratori sociali e altre modalità analoghe.
Vogliamo una sinistra a cui si possa aderire direttamente, e non solo attraverso i partiti.
Ci proponiamo, con la rete, di costruire una mappa comune delle associazioni, dei laboratori, dei movimenti, dei comitati interessati alla sinistra, e di raccogliere, anche attraverso un comune sito web accessibile a tutti, le idee e le proposte che vengono dal basso.


Hanno promosso l’incontro dell’8 e hanno finora aderito:

Adesioni di associazioni e reti: Uniti a Sinistra, Forum per la Sinistra Europea - Socialismo XXI, Network Comunità in Movimento, Associazione per il rinnovamento della Sinistra, Liberassociazione aderenti individuali SE, Rete Femminista SE, Rossoverde–SE, Il Cantiere, Per la Sinistra, Associazione per una Sinistra Unita e Plurale Firenze, Unaltralombardia, Sinistra RossoVerde, Nodo Ambientalista SE, Sinistra Euromediterranea, Rete Netleft Innovazione e Comunicazione SE, Rete Giovani Comunisti, Nodo Glbtq, Associazione Culturale Punto Rosso, Sinistra Romana, Forum Sinistra Europea Alpe Adria, Unione a Sinistra Liguria, Movimento Sardista, Sinistra in Movimento, Sinistra Ecoanimalista Piemontese, Laboratorio Politico, Socialismo XXI Genova, Associazione Luigi Longo, Associazione Bella Ciao, Movimenti Rete per una Cultura Indipendente e Sostenibile, Nodo precarietà per la salute e la sicurezza del lavoro, ArticoloUno, Associazione Culturale Monte Verde Roma, Associazione Petroselli, Associazione Mobilità, Rete della Decrescita, Associazione Avda, Associazione Altera Generatori di Pensieri e Movimenti, NuestraAmerica per il Socialismo del secolo XXI, Associa! Per il Socialismo del XXI secolo, Libera Università Popolare, Sinistra Europea Mantova, Megachip, democrazia nella comunicazione.

Prime adesioni individuali: Paul Ginsborg (storico), Emilio Molinari (Pres. Contratto Italiano Acqua), Marco Bersani (Cons. Naz. Attac-Italia), Gianni Tamino (biologo), Raffaele K. Salinari (Università di Urbino), Padre Giuseppe Pirola (gesuita, Istituto Aloisianum), Tommaso Fattori (Social Forum Firenze), Gianfranco Bettin (scrittore), Antonio Bruno (Comitato Verità e Giustizia Genova), Andrea Morniroli (Coop. Dedalus Napoli), Oscar Marchisio (saggista), Giacomo Casarino (Università di Genova), Francesco Surdich (Università di Genova), Roberto Giannini (insegnante), Ennio Cirnigloairo (Forum sociale della Valpocevera, Genova), Giulietto Chiesa (Megachip, democrazia nella comunicazione), Matteo Cresti (Comitati contro inceneritore, Genova)

Questo testo è stato scritto con Abiword, un Software Libero per il word processing, su un sistema GNU/Linux
l’Unità 11.12.07
Sinistra-l'Arcobaleno, primi passi verso l'unità
qui

l’Unità 11.12.07
O il profitto o la vita
di Luigi Cancrini


La sicurezza sui luoghi di lavoro? Una legge c’è mancano i decreti: che devono rivedere sanzioni, responsabilità dinamica degli appalti

La morte orribile degli operai di Torino ci ripropone l’evidenza di un fatto di cui troppo spesso ci si dimentica. La violenza che uccide gli operai è quella, disarmante, di una organizzazione del lavoro per cui il profitto conta più della loro vita. È esperienza diretta di un conflitto che esiste ancora, anche in un Paese democratico, fra capitale e lavoro, fra chi sta dalla parte in cui si guadagna molto e chi deve mettere a rischio la sua salute e la sua vita per portare a casa un salario appena sufficiente, spesso, per vivere modestamente. L’azienda che nega ogni addebito è, di questo conflitto e della sua gravità, la prova più diretta e più evidente.
Qualche precisazione va fatta, tuttavia, nel momento in cui una intera città e il cuore di molti di noi si fermano per ricordare quelli che non ci sono più, sulla questione della legge di cui, si dice, abbiamo bisogno.
Per dire subito, con chiarezza, che la legge n. 123 sulla salute e sulla sicurezza sui luoghi di lavoro c’è. Fortemente voluta da questo Governo e da questa maggioranza essa è stata approvata, infatti, il 1 agosto 2007. Essa non è ancora completamente in vigore, tuttavia, perché si tratta di una legge delega: una legge, cioè, che impone al Governo di emanare, entro nove mesi dall’approvazione (entro l’aprile, dunque, del 2008) i decreti che concretamente determineranno un sistema nuovo di tutela dei lavoratori. Provvedendo, in particolare, ad una riformulazione e razionalizzazione dell'apparato sanzionatorio, amministrativo e penale, per la violazione delle norme vigenti e per le infrazioni alle disposizioni contenute nei nuovi decreti: tenendo conto della responsabilità e delle funzioni svolte da ciascuno dei soggetti coinvolti, con riguardo in particolare alla responsabilità dei titolari dell’azienda o dell’impresa, nonché della natura sostanziale o formale della violazione. Ma provvedendo anche (il grande tema della prevenzione) ad una revisione sostanziale del sistema degli appalti che ha dato un contributo decisivo in questo paese alla frequenza delle morti bianche soprattutto, ma non soltanto, nel settore dell’edilizia.
Toccherà ai decreti rendere pienamente solidale, infatti, le responsabilità civile e penale, degli appaltatori (che non potranno più liberarsi delle loro responsabilità) e degli appaltanti. Così come toccherà ai decreti modificare il sistema di assegnazione degli appalti pubblici al massimo ribasso, garantendo che l’assegnazione all’uno anziché all'altro non sia determinata, come tanto spesso accade oggi, da una diminuzione del livello di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Modificando, ancora, la disciplina dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, dove i costi relativi alla sicurezza dovranno essere specificamente indicati nei bandi di gara e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture oggetto di appalto.
Rivisitando con cura, infine, le modalità di attuazione della sorveglianza sanitaria, adeguandole alle differenti modalità organizzative del lavoro, ai particolari tipi di lavorazioni ed esposizioni (quello che è evidentemente mancato, mi pare, nella ThyssenKrupp di Torino), nonché ai criteri ed alle linee guida scientifiche più avanzate, anche con riferimento al prevedibile momento di insorgenza dell’incidente o della malattia.
Ricordarlo è importante, credo, per due motivi. Per dare conto a questo Governo e a questa maggioranza, prima di tutto, di aver affrontato sul serio questo problema nel primo anno della legislatura. Per ottenere, in secondo luogo, che i decreti siano all’altezza delle aspettative dei lavoratori e che arrivino presto. Anche se non piaceranno a chi, da destra e dal centro, di lavori usuranti e/o pericolosi non vuole sentir parlare. Quello su cui dobbiamo riflettere oggi, infatti, è che anche questi morti potevano essere evitati se la legge e i decreti fossero stati approvati prima quando il paese era nelle mani delle destre.

l’Unità 11.12.07
Il 90% degli stupri commesso da italiani
L’Istat spazza via il luogo comune dello straniero: solo il 6% delle violenze alle donne fuori dalla cerchia dei conoscenti
di Virginia Lori


I NUMERI
69,7% DEGLI STUPRI AVVIENE IN FAMIGLIA Le mura domestiche si confermano come il luogo più pericoloso per le donne.
17,4% LO STUPRATORE È UN CONOSCENTO e quindi una persona sempre intima alla donna.
6,2% DEI VIOLENTATORI SONO DEL TUTTO ESTRANEI alla vittima. Il cosiddetto stupro da strada.
95% DEGLI STUPRI NON SONO DENUNCIATI proprio perché “domestici”, quindi ci sono più remore a farlo. Per questo iIl record delle denunce è in Inghilterra con 13.721 stupri effettivamente denunciati, ma il Guardian stima in un anno circa 47.000 stupri (quindi uno su 4 è denunciato). Segue la Francia con 9.993 casi nel 2006 anche se solo l'8% delle donne francesi denuncia lo stupro. Al terzo posto la Germania, con 8.133 stupri, quasi tutti denunciati.

CHI È? «L’assassino non bussa, ha le chiavi di casa», c’era scritto su uno striscione che il 24 novembre attraversò Roma, portato dalle donne che manifestavano contro la violenza. Ha le chiavi di casa perché è il marito, il fidanzato, l’ex marito o l’ex fidanzato. E parla italiano, come dimostra una ricerca dell’Istat: secondo le stime, non più del 10% degli stupri commessi in Italia sono attribuibili a stranieri contro un 69% di violenze domestiche commesse ad opera di partner, mariti e fidanzati.
E così viene spazzato via il luogo comune tanto diffuso nell’immaginario collettivo e nelle pagine di cronaca nera, che associa l’immigrazione a una diminuzione della sicurezza nelle città italiane. Almeno contro le donne. Anche fra gli immigrati le violenze sono spesso entro le mura domestiche, tanto che allargando alla cerchia familiare o alle conoscenze più strette, solo il 6% degli stupri in Italia è commesso da persone estranee alla vittima: «Se anche considerassimo che di questi autori estranei la metà sono immigrati - ha spiegato Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell’istituto di statistica - si arriverebbe al 3% degli stupri; se ci aggiungessimo il 50% dei conoscenti, al massimo si arriverebbe al 10% del totale degli stupri ad opera di stranieri». «Il problema sono i mariti, non gli immigrati», fa la senatrice Giovanna Capelli.
«Nell’immaginario collettivo - continua Laura Sabbadini - gli stupri per le strade sono quasi sempre opera di immigrati. Ma non fare i conti con le statistiche può portare ad orientare in modo errato le priorità e il tipo di politiche».
Qusta statistica avvalora anche il nuovo corso che l’Istat si è dato. Il presidente dell'istituto, Luigi Biggeri, ha ricordato che si vuole continuare il processo di riforma delle statistiche ufficiali. L'obiettivo è quello di fare luce sui temi caldi che fanno discutere il Paese e sfatare i luoghi comuni che in certi casi dominano l'opinione pubblica. «Ma il nostro lavoro non si ferma qui: dovremo porre l'attenzione anche su altre tematiche come la discriminazione, terreno difficilissimo ma che ormai necessita di essere misurato in tutte le sue manifestazioni». Come ha spiegato la Sabbadini in apertura del Global Forum «Le statistiche di genere dovrebbero essere sempre una priorità. Se nella progettazione delle indagini siano esse sociali o economiche l'approccio di genere viene tenuto nella dovuta considerazione, migliora l'intera produzione statistica, non solo le statistiche di genere». Ma, sottolinea Sabbadini, «è fondamentale che in un piano di rilancio delle statistiche di genere si ponga al centro anche la misurazione delle discriminazione e ciò venga fatto con un approccio di genere, perchè la discriminazione di genere potrebbe essere traversale a tutte le discriminazioni».

l’Unità 11.12.07
l'assemblea della redazione:

Mentre il futuro de l'Unità appare quantomai inquietante, di fronte ai ripetuti allarmi della redazione preoccupata dalla prospettiva di vedere la famiglia Angelucci, già editore di Libero, acquisire entro brevissimo tempo il pacchetto di maggioranza del giornale, la presidente della Nie, Marialina Marcucci, preferisce mettere la testa nella sabbia e fornire un'immagine poco rispettosa della realtà. In un'intervista sulle prospettive de l'Unità, la presidente ha dichiarato: "Non credo che vi siano malumori (nella redazione, ndr) (...). Sicuramente ci sarà anche in loro la problematica relativa ad affrontare l'ingresso di un nuovo socio ed eventuali cambiamenti. Ma io non ho alcun documento né ufficiale, né ufficioso di protesta".
Evidentemente dobbiamo supporre che la presidente della Nie non legga la corrispondenza, né il giornale di cui è azionista, non ascolti quello che le viene detto negli incontri ufficiali e nemmeno veda gli articoli su l'Unità usciti ripetutamente su altri organi di stampa. Numerose volte il cdr e l'assemblea dei redattori di questo giornale hanno prodotto documenti e lettere aperte ed iniziative pubbliche con prese di posizione anche durissime sul ventilato cambio di proprietà, sulle prospettive riguardo all'autonomia e la collocazione de l'Unità, sul tema delle garanzie.
Ed è proprio per questo motivo che il Cdr ha chiesto un incontro con la presidente della Nie: la questione, per noi ineludibile, è quella delle garanzie, a partire dall'utilizzo di tutto il tempo necessario per consentire una significativa articolazione azionaria. La redazione chiede altresì che la proprietà del giornale si faccia carico fino in fondo della proposta della istituzione di un comitato dei garanti, a tutela del radicamento della testata nella sua storia e nei suoi principi fondanti, nonché di una carta dei valori e dei diritti (la cui stesura è affidata a Clara Sereni, Furio Colombo e Alfredo Reichlin), che dovrà essere assunta anche dall'azienda. Intorno a queste richieste attendiamo dalla presidente risposte precise e non più rinviabili.

l’Unità 11.12.07
Niemeyer, la morbidezza del cemento armato
di Roberto Dulio


IL CELEBRE ARCHITETTO brasiliano sabato compirà 100 anni. Conosciuto soprattutto per aver progettato la nuova Brasilia, ha lavorato in tutto il mondo proponendo opere che trasfigurano i modelli della tradizione architettonica

Nel ’64, dopo il colpo di Stato militare, lavora soprattutto all’estero
A Parigi realizza la sede del Pcf, a Dacca quella del Parlamento

Tra le opere ideate in Italia, la sede Mondadori a Segrate e il non ancora realizzato Auditorium di Ravello

Oscar Niemeyer Soares nasce il 15 dicembre 1907 a Rio de Janeiro, dove nel 1929 si iscrive alla sezione di architettura dell’Escola Nacional de Belas Artes, diretta dal 1930 da Lúcio Costa, che le imprime una forte connotazione modernista. Nel 1936 sarà lo stesso Costa a invitare Niemeyer a far parte del gruppo di progettisti che collaborerà con Le Corbusier all’ideazione del Ministero dell’Educazione e della Sanità di Rio, poi realizzato autonomamente dal giovane architetto (1936-43). Nel 1939 Niemeyer collabora con Costa alla realizzazione del padiglione brasiliano all’Esposizione internazionale di New York; tre anni dopo Juscelino Kubitschek, sindaco di Belo Horizonte, gli commissione la realizzazione del complesso di Pampulha: il casinò, il club, il dancing (1942) e la cappella di San Francesco (1943) sanciscono il riconoscimento internazionale dell’architetto.
Nel 1947 fa parte del gruppo di architetti incaricati della realizzazione della nuova sede delle Nazioni Unite a New York, portata poi a compimento da Wallace Harrison e Max Abramovitz utilizzando i progetti di Le Corbusier e di Niemeyer. L’edificio Copan a San Paolo (1950) declina a grande dimensione le forme libere e le superfici curve che arricchiscono l’impostazione funzionalista dei progetti di Niemeyer. Nel 1950 Stamo Papadaki gli dedica il primo studio monografico: The Work of Oscar Niemeyer.
A partire dal 1957 Kubitschek, divenuto presidente della Repubblica brasiliana, gli affida il progetto degli edifici pubblici della nuova capitale Brasilia. Il palazzo dell’Alvorada (1957), ossia la residenza ufficiale del presidente della Repubblica, quello del Planalto (1958-60), sede del Governo, la Corte Suprema Federale (1958-60), il Congresso Nazionale (1958), il palazzo degli archi (Itamaraty, 1962), sede del Ministero degli Esteri, il Ministero della Difesa (1968), oltre alla Cattedrale (1959-70), coniugano a scala monumentale l’opzione urbanistica che Niemeyer elabora per la nuova capitale.
La notorietà di Niemeyer è assoluta ma dopo il colpo di stato militare del 1964 l’architetto, che non rinnega le proprie convinzioni politiche, trova difficoltà nel continuare la propria attività in Brasile, per cui intraprende frequenti viaggi in Europa, soprattutto a Parigi, dove realizza la sede del Partito Comunista francese (1965-67) e la Casa della Cultura a Le Havre (1972-82). In Italia porta a compimento il palazzo Mondadori di Segrate (1968-75), la sede della Fata Engineering a Pianezza (1976-81) e delle officine Burgo a San Mauro torinese (1975). Un corposo fervore plastico torna a caratterizzare gli ultimi lavori dell’architetto, tornato in Brasile negli anni ottanta, tra i quali la Passarela do Samba a Rio de Janeiro (1983-84) e il Museo d’arte contemporanea a Niterói (1991-96).
Nell’itinerario progettuale di Niemeyer la tensione verso la virtuosistica modellazione del cemento armato è evidente fin dal palazzo de la Alvorada, con la copertura sorretta da eleganti archi parabolici capovolti e specchiati in archi di uguale luce ma minore altezza. In essi traspare quell’assoluta eleganza che trova una scarnificata declinazione nel Planalto, in cui l’analogo motivo dei sostegni è dimezzato e non si sviluppa più sul piano di facciata ma trasversalmente a esso. La stessa soluzione, ancora più semplificata, emerge nel Tribunale Federale Supremo, fino ad approdare ad una quasi classicheggiante formulazione nel ministero di Giustizia, dove archi rampanti e a tutto sesto prefigurano le forme del regolare diaframma cementizio di Itamaraty, nel quale però la rastremazione degli archi recupera l’elegante tensione formale de la Alvorada.
Un’altra caratteristica tipica dell’architettura di Niemeyer è la contrapposizione di diverse logiche compositive e geometriche, che sottolineano differenti destinazioni funzionali, come risulta evidente nel palazzo del Congresso Nazionale di Brasilia, una delle opere forse più note dell’architetto brasiliano. Nel complesso Copan, all’alto edificio ondulato degli appartamenti è giustapposto il blocco stereometrico più basso dell’albergo (poi trasformato in banca e realizzato da un altro architetto); nelle sede parigina del partito comunista francese, davanti al fluente corpo degli uffici, emerge dal suolo la cupola dell’auditorium ipogeo; alla Mondadori, ai volumi principali degli uffici soggiacciono i bassi corpi della redazione e dei servizi. Anche l’idea della sospensione dell’edificio, attuata in maniera letterale a Segrate (appendendo il volume degli uffici alla scocca in cemento armato), nelle sede del Partito Comunista francese è perseguita appoggiando tutto il corpo per uffici a una poderosa soletta in cemento armato, sorretta a sua volta da brevi setti trasversali, che sostanzia il virtuosismo statico dell’edificio.
La straordinaria capacità espressiva del brasiliano si esercita spesso sugli elementi strutturali dei suoi edifici, plasmandoli in termini sensazionali. Deliberatamente Niemeyer aspira a derogare dalle gabbie prescrittive del funzionalismo più rigoroso, obbiettivo del resto perseguito anche dallo stesso Le Corbusier, con cui aveva collaborato. L’insofferenza normativa del maestro svizzero sfocerà nell’eversivo capolavoro di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp (1950-55); Niemeyer ferisce l’ortodossia della critica militante non solo inserendo nelle proprie opere elementi estranei, per geometria e forma, a una rigorosa impostazione razionale, ma squassando tutto l’impianto compositivo con figure provocatorie ed esuberanti.
Cristallini volumi stereometrici sono intaccati da inserti fluidi e filanti; le limpide superfici piane si contaminano con morbidi gusci; i pilastri si rimodellano in plastici sostegni. Ricondurre questa poetica alle presunte linee morbide del paesaggio brasiliano, come pure a generiche suggestioni dell’architettura barocca latinoamericana (come hanno proposto alcuni critici nel tentativo di reintegrare la figura di Niemeyer nel novero di un più ampio e problematico orizzonte modernista) implica la legittimazione di suggestioni più letterarie che sostanziali, spesso alimentate dallo stesso architetto.
Non pare invece azzardato ricondurre l’origine della fascinazione che alimenta l’esuberanza plastica di Niemeyer, più che nel paesaggio o nella tradizione neolatina, alle poderose opere d’ingegneria in cemento armato realizzate nel XX secolo. E sono ancora alcune allusioni dello stesso architetto che, più sottilmente delle dichiarazioni d’amore per le chiese barocche, il sensuale corpo femminile o il paesaggio di Rio, fanno trasparire tale interesse. Niemeyer (La forma nell’architettura, Milano 1978) afferma che «la forma plastica ha potuto evolversi grazie alle nuove tecniche e ai nuovi materiali che le danno aspetti differenti e innovatori», o che ai vecchi tempi, «limitato da una tecnica ancora ai primordi, l’architetto penetrava coraggioso lungo il cammino del sogno e della fantasia». E proprio nel presentare su Espansione (70, agosto-settembre 1975) l’appena ultimato complesso Mondadori l’architetto legittima «il ritmo variato degli archi con quella sinfonia degli appoggi che Auguste Perret proclama», chiamando in causa il geniale pioniere della poetica del cemento armato nell’architettura.
Ma non è tanto l’architettura civile di Perret a influenzare l’immaginario del brasiliano. Lo attraggono, probabilmente, le opere più avanzate dell’ingegneria: quelle forme che la critica militante non contesta, in quanto eccentriche al campo stretto dell’architettura, piuttosto che per un loro presunto determinismo scientifico. Se l’Europa aveva sempre mantenuto un ruolo di assoluto prestigio nel campo dell’ingegneria edile, all’indomani della seconda guerra mondiale l’Italia occupa un posto di primo piano nel campo della sperimentazioni sul cemento armato e le sue figure di spicco - Pier Luigi Nervi e Riccardo Morandi - sono ben conosciute oltre i confini nazionali, così come le loro opere strabilianti, che potrebbero ascriversi a luoghi generativi del composito immaginario formale di Niemeyer.
La Mondadori rappresenta uno degli esiti più maturi di questo processo, nel quale sin dagli schizzi iniziali, Niemeyer cerca la perfetta coincidenza tra forma e struttura. L’edificio di Segrate si afferma felicemente come un punto di svolta nell’opera del brasiliano. Ma il suo valore espressivo e programmatico sfugge alla critica, resa diffidente, oltre che dal virtuosismo compositivo del complesso, dall’ostentata trasgressione di altri due tabù modernisti: l’impianto simmetrico e monumentale e l’uso dell’arco. Due elementi idealizzati, che l’architetto ripropone senza nessuna enfasi conservatrice, e del tutto trasfigurati dai modelli della tradizione, vengono invece frettolosamente classificati come imbarazzanti sintomi reazionari.
Singolarmente l’utilizzo di tali elementi (in maniera del tutto autonoma dal punto di vista compositivo ed espressivo), e la relativa incomprensione critica, lo accomunano a Louis Kahn, al cui Parlamento del Bangladesh a Dacca (1962-73) sono riconducibili alcuni scorci degli edifici di Brasilia e della coeva sede Mondadori, nei quali forme senza tempo si riflettono nelle acque da cui emergono. All’architetto americano lo associa inoltre l’esperienza progettuale di una nuova capitale, e le esigenze (non ultima il ricorso alla monumentalità e agli archetipi di forme classiche) che forse l’esperienza di Brasilia aveva innescato in Niemeyer, e quella di Dacca cristallizzato in Kahn.
L’armoniosa coincidenza tra l’assetto formale e la logica strutturale raggiunta con la Mondadori è ribadita poco dopo dall’architetto nella sede della Fata, realizzata proprio in collaborazione con Morandi, la cui immaginazione costruttiva è probabilmente una delle fonti ispiratrici del brasiliano. Lo schema statico intuito da Niemeyer e sviluppato da Morandi non subisce variazioni rispetto alla proposta iniziale, dando luogo a un’altra architettura sbalorditiva. Si tratta ancora di una scocca in cemento armato, questa volta precompresso, che regge un volume virtuosisticamente sospeso. Nuovamente il dispositivo di sospensione si configura geometricamente sulle forme di una serie di archi, di cui però viene ribaltato il funzionamento statico. Quelli che istintivamente sono identificati come esili pilastri troncati prima di toccare terra sono in realtà dei tiranti a cui viene sospeso il volume vetrato degli uffici, mentre solo in corrispondenza di quattro più grandi pilastri la scocca poggia a terra.
L’attività di Niemeyer rivela una complessità di pensiero e di riferimenti che rendono davvero ingenerosa la sua collocazione nell’ambito di un presunto «modernismo brasiliano» e ne accreditano la cittadinanza in un orizzonte culturale e artistico - Le Corbusier, Nervi, Morandi, Kahn; il Brasile, la Francia, L’Italia - sfaccettato e cosmopolita. L’armoniosa fusione tra tecnica ed espressione delle sue opere ha saputo stringere una feconda alleanza con il tempo, che misura la bellezza di tutte le cose.

Saggi e eventi
Oscar Niemeyer Houses di Alan Weintraub e Alan Hess, Rizzoli International, New York 2006
Oscar Niemeyer. Il palazzo Mondadori di Roberto Dulio, Electa, Milano 2007
Oscar Niemeyer, Routledge, London-New York, (in uscita, marzo 2008)
Oscar Niemeyer. Curves of Irreverence di Styliane Philippou, Yale University Press, London, in uscita nel maggio 2008
A Obra de Oscar Niemeyer, Seminario internazionale, Museu Nacional do Conjunto Cultural da República, 6 e 7 dicembre 2007
Una vita da Oscar (allegato a Interni, dicembre 2007), presentazione del dvd oggi, ore 20.00, Headquarter PirelliRE, viale Sarca 214, Milano


l’Unità 11.12.07
Religioni senza pace
di Mario Soares


Teoricamente la religione si oppone alla violenza, nasce dall’amore per Dio e dovrebbe promuovere la pace. Ma nella storia le cose non sono andate così, e a regnare è stata l’intolleranza. Senza tolleranza e senza rispetto per i diritti di chi è diverso da noi, i conflitti e le guerre sono inevitabili. In passato le cose sono andate così, e probabilmente andranno così anche in futuro, come Samuel Huntington ha profetizzato nel suo libro «Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale»; a meno che, per la sopravvivenza dell’umanità e attraverso una rivoluzione delle mentalità delle religioni, a prevalere siano il dialogo e la convivenza pacifica.
Le grandi religioni monoteistiche sono caratterizzate dall’amore nei confronti di un Dio che a quanto pare è lo stesso per tutte loro, e tutte parlano dell’amore per il prossimo. Ma chi si deve intendere per “prossimo”? Anche gli infedeli e gli eretici?
Dato che si tratta di religioni rivelate, ognuna è portatrice di una sua verità. È per questo che a volte il dialogo interreligioso è difficile - ma non impossibile, come è stato dimostrato dalla storia più recente.
I fedeli di una religione possono essere gli infedeli per chi professa un altro credo. E poi ci sono gli eretici. Ancora più difficile è il dialogo tra credenti e non credenti, che si tratti di agnostici o di atei.
In passato si ricorreva regolarmente ai conflitti interreligiosi o alle guerre per “convertire gli infedeli”, come nel caso delle crociate. Ovviamente ci furono anche eccezioni, tra cui il califfato di Cordova, in cui nel XII e XIII secolo cristiani, ebrei e musulmani convivevano e dialogavano in pace.
La separazione tra Stati e chiese e la difesa del pluralismo religioso sono idee moderne che risalgono alla nascita degli Stati secolari in Europa.
La cultura dei diritti umani e della pace come beni supremi è fondamentale in un mondo globalizzato per assicurare il rispetto per gli altri e mettere freno al fanatismo e alla violenza religiosa.
In passato i vinti di una religione, in Europa e negli altri continenti, erano obbligati a una falsa conversione. Oggi il fondamentalismo religioso - islamico, evangelico o ebraico - scatena guerre “sante” per eliminare chi non professa il suo credo.
Razionalmente non esistono né potranno mai esistere “guerre sante”. D’altro canto è chiaro che anche se le guerre sono chiamate “sante” a scatenarle non sono solo ragioni religiose: ci sono altri motivi, come la povertà, le disuguaglianze sociali, i nazionalismi, i ritardi culturali, l’umiliazione dei dominati.
È qui che si inserisce il problema dell’unilateralismo e in particolare il tentativo di emarginare l’Onu e la controcultura delle guerre preventive. Si è detto che è stata una risposta al terrorismo islamico emerso brutalmente l’11 settembre 2001, che ha dimostrato la vulnerabilità della superpotenza dominante. Ma indubbiamente è stata la risposta meno intelligente e meno adatta per un fenomeno complesso come il terrorismo. Il terrorismo deve essere combattuto, ma senza mettere in questione i diritti umani e la loro universalità.
La coscienza di muoversi su un terreno scivoloso e irto di pericoli per la pace mondiale ha spinto il presidente spagnolo Rodríguez Zapatero e il primo ministro turco Erdogan, con il sostegno del segretario generale delle Nazioni Unite, a lanciare l’iniziativa dell’Alleanza delle civiltà (che era stata precedentemente suggerita dall’ex presidente iraniano Kathami).
Nonostante tutte le iniziative di buona volontà e i dialoghi ecumenici nati in diversi orizzonti, i fanatismi religiosi si sono esacerbati e non lasciano presagire un futuro di pace.
Per questo è un dovere morale lottare contro qualsiasi espressione di violenza e imparare a costruire, globalmente, una cultura di pace. Le religioni devono dialogare per aprire strade di comprensione e coesistenza pacifica.
La violenza è nefasta per le religioni, a breve e a lungo termine, è lo è anche per il rapporto tra credenti e non credenti che per forza di cose convivono nelle nostre società moderne.
È importante ricordare come l’anticlericalismo abbia perso la sua aggressività di pari passo con l’affermazione della separazione tra lo Stato e le chiese.
Un mondo senza violenza: potremmo cominciare ad avvicinarci a questa magnifica utopia del ventunesimo secolo se solo fossimo capaci di controllare tutte le espressioni di violenza che ogni giorno entrano nelle nostre case con la televisione, i film e internet, e se le chiese, tutte le chiese, si convincessero che la lotta per la pace, per i diritti umani e per il rispetto per la diversità, in un quadro di multiculturalismo e di multilateralismo, è il modo migliore per esprimere il proprio amore per Dio.

Mario Soares è stato presidente e primo ministro del Portogallo, e attualmente presiede la Commissione per la libertà religiosa del Portogallo
copyright IPS traduzione di Sara Bani

Repubblica 11.12.07
Chiarezza sulle intese tra Pd e Cosa Rossa a partire dai programmi
di Goffredo Bettini


Caro direttore, la situazione politica italiana è quanto mai difficile e confusa; tuttavia è in movimento e a certe condizioni presenta nuove possibilità. La nascita del PD ha cambiato tutto. Mantenere il bandolo della matassa non è cosa da poco e abbraccia diversi compiti. In primo luogo: mantenere in vita il governo Prodi e sostenerlo con tutte le forze. Oggi, rappresenta politicamente e socialmente il compromesso più avanzato. E´ evidente che Berlusconi continuerà a giocare la sua partita per avere le elezioni presto. Ma per ora la spallata non gli è riuscita e si trova, anzi, nel mezzo di un centro-destra terremotato e senza progetto. Dunque non è affatto impossibile serrare le fila e mettere in campo da gennaio una agenda di governo di lungo respiro e durata. Il pensare all´oggi, non ci può vedere indifferenti sulle incognite del domani. La crisi del sistema politico è sotto gli occhi di tutti.
Urge la stagione delle riforme. Veltroni ha avuto coraggio di aprirla con decisione. L´attuale maggioritario produce il massimo dell´indecisione. Spinge a coalizioni che si raggruppano per combattere qualcuno. Berlusconi. I comunisti. Si vince ma poi non si governa. Possiamo avere l´ambizione di aprire una nuova storia politica? All´odio improduttivo, si può sostituire una più «mite», ma concreta e ferma, competizione tra progetti diversi?
Un proporzionale corretto da uno sbarramento che semplifichi il sistema dei partiti e realizzi un nuovo bipolarismo, un ritorno alla possibilità di scelta dei cittadini dei propri rappresentanti, sono principi che, oggi, potrebbero trovare il consenso dei più. Anche per evitare un referendum che imporrebbe ammucchiate «coatte» e che per il PD sarebbe il massimo della contraddizione rispetto alla sua «vocazione» maggioritaria e nazionale.
La «vocazione» maggioritaria, non significa l´illusione sciocca di poter far tutto da soli. Allude ad un´analisi dello stato della Repubblica. Al tentativo del PD di intrecciare modernità e inclusione. Modernità significa far crescere il Paese e renderlo competitivo nello scenario internazionale. Inclusione significa qualcosa di molto più profondo che una semplice solidarietà a chi non ce la fa. Significa ristabilire quella misura della giustizia che motiva lo stare insieme di una comunità. Non credo ad un nuovo centro politico, che raccolga solitariamente un moderatismo tecnocratico e razionalizzatore. Sarebbe un progetto rinsecchito e senza popolo. Vedo invece un grande spazio per una inedita alleanza tra un ceto produttivo, creativo e combattivo, soprattutto di medie e piccole imprese (che ha già preso da solo le misure alla globalizzazione ed è allarmato dallo spezzarsi dell´Italia), la sinistra democratica e quella parte del mondo cattolico socialmente responsabile e impegnata.
Cementare queste convergenze è l´obiettivo del PD per competere nel mondo ricostruendo lo Stato; per crescere ritrovando nella giustizia e nelle regole la ragione profonda dell´essere nazione europea. Ma se questo è: comprendo che Rifondazione rivendichi una sua autonomia. Semplicemente perché non pensa che i due termini, modernità e inclusione, possano andare credibilmente insieme. La sua è una critica radicale alla modernità. Ingrao ha detto: ho vissuto la sconfitta del Comunismo e la fine del Leninismo. Occorre aprire una pagina nuova, riflettendo anche sul perché quelle nostre antiche parole si sono accompagnate a tante morti, uccisioni e dolori. Auguro alla nuova formazione radicale e di sinistra di imboccare questa strada di riflessione, piuttosto che quella della giustapposizione di ceti politici che vivono di rendita sulle vecchie bandiere.
Questo nuovo quadro significa che il PD si lascia mani libere? No. Significa che il PD gioca più direttamente la sua partita nel Paese. E cercherà le alleanze a partire dalle intese sui programmi. E se farà compromessi nel centro sinistra (anche con la nuova «cosa rossa»), li farà a partire dalla posizione e dalla forza che gli avranno dato gli elettori e il Paese; in modo, dunque, chiaro e compatibile con la strada maestra che oggi indica per l´Italia.
(* coordinatore del Partito democratico)

Repubblica 11.12.07
I dati Istat: nel 69% dei casi si tratta di violenze domestiche commesse dai partner
Stupri, in Italia solo il 10% è commesso da stranieri
di Alessandra Retico


ROMA - Si annida nelle case, ha l´arroganza del potere (maschile), serpeggia nel silenzio delle relazioni amorose o presunte tali. È trasversale per ceto e censo, si nutre dell´omertà di chi subisce. Lo stupro non è la violenza dell´estraneo, ma del marito e del compagno. Non è l´abuso barbarico dello straniero che violenta nel vicolo buio, è la tirannia sessuale che si esercita nella normalità domestica. Viene detto da anni, eppure non passa, fa male e paura ammetterlo. Lo stereotipo è invece più facile e comodo, «sarà stato un immigrato». «Ma è un riflesso condizionato falso e può portare ad orientare in modo sbagliato le priorità e il tipo di politiche». Linda Laura Sabbadini, direttore centrale per le indagini su condizione e qualità della vita dell´Istat, lo ha ricordato ieri al "Global Forum on gender statistics", organizzato dall´Istituto di statistica in collaborazione con il dipartimento delle Pari Opportunità, il ministero degli Esteri e della Banca Mondiale. Ha ribadito come la violenza contro le donne sia invisibile nella maggior parte dei Paesi, lo è anche in Italia dove «non più del 10% degli stupri commessi sono attribuibili a stranieri contro un 69% di violenze domestiche commesse ad opera di partner, mariti e fidanzati».
I luoghi comuni reggono nell´immaginario, sempre e troppo. Le cronache anche recenti fanno scattare nell´opinione pubblica e anche nei media la tipica sentenza «non può essere stato uno di noi». E invece solo il 6% degli stupri in Italia è commesso da persone estranee alla vittima. «Se anche considerassimo che di questi autori estranei la metà sono immigrati si arriverebbe al 3% degli stupri; se ci aggiungessimo il 50% dei conoscenti, al massimo si arriverebbe al 10% del totale degli stupri ad opera di stranieri». Secondo Sabbadini bisogna rifare i conti, l´Istat infatti ha avviato il processo di riforma delle statistiche ufficiali per far rientrare i temi che riguardano il genere.
Dunque è la prossimità affettiva, parentale, familiare a generare mostri. I partner, attuali ed ex, sono responsabili della quota più elevata di tutte le forme di violenza fisica rilevate e di alcuni tipi di violenza sessuale come lo stupro e i rapporti sessuali non desiderati, ma subiti per paura delle conseguenze. Il 69,7% degli stupri, infatti, è opera di partner, il 55,5% degli ex e il 14,3% dagli attuali: prima durante e dopo insomma. Nel 17,4% il colpevole è un conoscente, nel 6,2% estranei e gli sconosciuti che commettono soprattutto molestie fisiche sessuali, seguiti da conoscenti colleghi e amici. Inoltre, gli sconosciuti commettono stupri nello 0,9% dei casi e tentati stupri nel 3,6% contro, rispettivamente il 13,9% e l´11,8% degli ex partner. Fanno più male i maschi in casa che quelli fuori.
È il silenzio che aiuta la menzogna: le vittime di abusi sessuali dentro le mura domestiche non denunciano. Solo il 27,3% di chi ha subito uno stupro dal partner ritiene quella violenza un reato, le altre tacciono e incassano. La quasi totalità non solo non ci pensa affatto a rivolgersi alle autorità (91,6%) ma neanche ne parla a un´amica (33,9%). Vince ancora troppo spesso il timore e il pudore, forse anche la rassegnazione: solo il 28% dei compagni denunciati sono stati imputati e appena l´8% condannati. I mariti e i fidanzati se la cavano, rimangono impuniti. La violenza sessuale nell´ufficialità del matrimonio e delle relazioni stabili è tacitamente, se non ammessa, tollerata. Se è insopportabile, è stato qualcun altro.

Repubblica 11.12.07
Flores d'Arcais, Vattimo e Onfray a confronto sull’ateismo
Se dio diventa soltanto storia
Come per Nietzsche i greci furono costretti a diventare razionali, per altre culture la fede potrebbe rispondere alla necessità di darsi un orizzonte di senso
di Umberto Galimberti


Ha ancora senso discutere al giorno d´oggi dell´esistenza o della non esistenza di Dio? Pare di sì, se è vero che tre teste pensanti come Paolo Flores d´Arcais direttore di MicroMega, Gianni Vattimo tra i più noti filosofi internazionali, e Michel Onfray fondatore dell´Università popolare di Caen, un bel giorno si sono riuniti intorno a un tavolo per discutere, senza infingimenti e quindi in un incontro-scontro aperto, intorno all´esistenza di Dio, con tutto ciò che ne segue in termini di morale, di politica, di istruzione, di atteggiamento da tenere nei confronti della scienza e delle altre religioni, ciascuna delle quali si sente depositaria della verità. Quanto si sono detti, oggi è raccolto in un libro Atei o credenti? (Fazi Editore, pagg. 180, euro 15).
Paolo Flores d´Arcais osserva che se la filosofia è amore per il sapere accertabile, e quindi critica di ogni superstizione, di ogni pensiero magico, di ogni religione tramandata, se è una ininterrotta attività di disincanto, la filosofia non può che essere atea. Accade però che non tutte le filosofie lo sono, anzi oggi si assiste a un significativo contributo della filosofia a una volontà di rivincita delle religioni, con conseguente egemonia di correnti filosofiche che rifiutano il disincanto e, a braccetto con le religioni, non escludono una destinazione ultraterrena alla condizione umana.
Eppure, scrive Paolo Flores d´Arcais, tutti i misteri e gli interrogativi che un tempo trovavano la loro soluzione in Dio oggi sono stati sufficientemente chiariti. A ciò si deve aggiungere che tutte le religioni pretendono di essere le uniche a possedere la verità e di conseguenza ciascuna rifiuta la pretesa verità delle altre. Logica vuole che in un conflitto di questo genere le religioni dimostrano di essere dei prodotti antropologici, sociologici, psicologici, quindi prodotti umani, dovuti al fatto che tra tutti gli animali l´uomo è l´unico ad avere consapevolezza della propria morte e, rifiutando questo destino, si aggrappa a credenze che gli promettono un mondo sovraterreno.
A queste considerazioni di Paolo Flores d´Arcais, Gianni Vattimo obietta che non si dà una sola Ragione con la maiuscola, ma tante "ragioni" quante sono le culture all´interno delle quali una certa "ragione" si è costituita, garantendo a quella cultura la propria sopravvivenza e la propria tradizione da trasmettere alle generazioni future. Non c´è un canone razionale al di fuori dell´orizzonte storico-culturale entro cui esso è nato e si è solidificato, e nessuno può porsi fuori dal suo orizzonte storico-culturale. La stessa logica "rigorosa" a cui fa appello la scienza appartiene a questo orizzonte, e se non introduciamo questo principio relativistico, se davvero ci fosse una ragione capace di verità "oggettive", sarebbe inutile la democrazia e più in generale la discussione tra gli uomini.
Se la ragione lavora in base a una logica che è interna a una determinata cultura, assolutizzare la ragione, prescindendo dalla cultura che l´ha generata, è commettere lo stesso errore delle religioni che pretendono ciascuna per sé la verità assoluta. Questa pretesa non ha a che fare con il problema della verità, ma con quello del dominio: il nostro Dio è più forte, dicono le religioni: che si tratti del Dio degli ebrei, dei musulmani, dei cristiani, ma anche la ragione illuminista, propria della scienza, che assolutizza se stessa, dimenticando il mito fondatore dell´Occidente come ci viene raccontato nella Bibbia, nella sua pretesa di verità dimentica di essere solo una costellazione di questo mito.
Onfray, che si professa ateo, su questo punto conviene con Vattimo che difende la matrice cristiana della nostra cultura. Non si dà una sola ragione che porta, per sua natura, direttamente all´ateismo, ma tante "ragioni" attive nel disordine della nostra tradizione filosofica occidentale. Ma soprattutto, e questo è l´argomento di Onfray, la ragione funziona come uno strumento "a posteriori" rispetto a una psicofisiologia, quando non a una psicobiografia che, prima dell´intervento della ragione, ci ha portato a credere o a non credere. La logica della ragione subentra dopo, ma molto dopo, a giustificare quella "decisione esistenziale" pre-logica e pre-razionale a cui Sartre ha dedicato pagine essenziali.
Detto ciò, l´onere della prova spetta a chi afferma l´esistenza di qualcosa, non a quelli che dicono che qualcosa non esiste. La ragione per la quale gli uomini credono in Dio - conclude Onfray - è che, dopo aver constatato la propria impotenza e la propria finitezza, immaginano una potenza che permetta loro di ottenere sicurezza e pace intellettuale. E di fronte a questa potenza si mettono in ginocchio, chiedendo aiuto per poter vivere, restando quelli che sono.
Dopo aver ascoltato i tre filosofi in un aperto, vivace e davvero istruttivo confronto, a me viene da pensare che come Nietzsche dice che fu per necessità che i greci furono costretti a diventare razionali per andare oltre la loro dimensione tragica, così altre culture per necessità hanno creduto in Dio per darsi un orizzonte di senso, in una parola per poter sopravvivere. E allora il problema della fede e della ragione è un problema di verità o di sopravvivenza di una comunità, di una cultura, di una civiltà?
Forse Nietzsche, più di tutti, si è avvicinato al vero nocciolo della questione, e proprio per questo ha avuto la possibilità di spostare la domanda: non più se Dio esiste o non esiste, ma se Dio è ancora vivo o invece è morto.
Quando nel Medioevo la letteratura era inferno, purgatorio, paradiso, l´arte era arte sacra, persino la donna era donna-angelo, Dio c´era, perché se tolgo la parola "Dio" non comprendo nulla di quell´epoca. Ma posso dire la stessa cosa oggi? Il nostro mondo ruota ancora intorno a Dio o intorno ad altre parole come "economia", "tecnica"? In questo caso Dio, che un tempo esisteva, ora è davvero morto. Di Lui si può raccontare solo la sua storia.

Corriere della Sera 11.12.07
Cambio di proprietà
L'«Unità» agli Angelucci. I giornalisti: inquietante
di G. Ca.


ROMA — È il regalo di Natale che i 70 giornalisti dell'Unità non vorrebbero ricevere: la firma definitiva del contratto con cui la Nie presieduta da Marialina Marcucci cede (in tutto o in gran parte) le quote del quotidiano fondato nel 1924 da Antonio Gramsci alla famiglia Angelucci.
Ovvero alla Tosinvest, forziere di un piccolo impero della sanità privata capitolina (26 cliniche, 3500 posti letto). E già editore di Libero e del Riformista.
Un affare da 20 milioni di euro che ufficiosamente parrebbe già chiuso. «Gli Angelucci acquisiranno soltanto una parte della società che edita l'Unità e non il 100 per 100», ha precisato ieri la Marcucci che dice di attendere ancora i risultati della verifica affidata a una società terza (la due diligence). E minimizza le tensioni interne: «Non credo vi siano malumori». Mentre invece la redazione, che vede davanti a sé «un futuro inquietante» e la accusa di «mettere la testa sotto la sabbia come uno struzzo» e di non «aver letto il suo stesso giornale», chiede risposte più precise e garanzie. Una su tutte: «Consentire una significativa articolazione azionaria». Tradotto: cercare altri soci. E ieri anche la Velina Rossa dava per quasi certo anche il cambio di direzione (anche questo smentito dalla Marcucci): Antonio Polito, senatore dell'Ulivo ed ex direttore del Riformista al posto di Antonio Padellaro.
Pronosticando un conseguente calo di 12/20 mila copie. L'Unità potrebbe diventare il quotidiano del Pd. «Non ne so nulla, al momento faccio un altro mestiere, se mi venisse proposto, allora valuterei un cambio di vita», dichiara Polito.
«Sono voci beneauguranti che mi accompagnano da 7 anni, quando entrai all'Unità con Furio Colombo», commenta Padellaro. «Un mese dopo ci davano per spacciati, siamo ancora qui».

Corriere della Sera 11.12.07
Interpretazioni Una lezione dall'antichità, Atene e Sparta caddero perché non ci fu la cooptazione
L'impero salvato dagli immigrati
Da stranieri a cittadini: ecco il segreto della forza di Roma
di Luciano Canfora


Fu l'avvento di Ottaviano Augusto come padrone assoluto di Roma, dopo la vittoria di Azio su Cleopatra e Antonio, che segnò la fine delle guerre civili, ma anche della Repubblica

Venti giorni prima della capitolazione della Germania, il 19 ottobre 1918, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff pubblicò nell'edizione berlinese del quotidiano Der Tag un breve e molto efficace articolo intitolato «Untergang Karthagos ». Nella situazione drammatica di quei giorni convulsi, la breve rievocazione della distruzione di Cartagine fortemente voluta dal Senato romano parla in realtà del presente, della prevedibile catastrofe tedesca, della resa incondizionata che gli occidentali pretendono dai tedeschi dopo aver inventato una «colpa tedesca». La rievocazione, in tratti essenziali, dell'imperialismo rapace praticato dai romani non potrebbe essere più efficace.
Un dettaglio va aggiunto a tale descrizione: che la decisione, presa a freddo, di annientare Cartagine quantunque vinta e da tempo non più pericolosa, era stata presa esattamente nel momento stesso in cui i cartaginesi saldavano l'ultima pesantissima rata delle cinquanta annualità di tributi cui li aveva sottomessi il trattato di pace (cioè di capitolazione) del 201 a.C.
«Il bottino e i tributi — scrive lo storico dell'antichità Jérôme Carcopino — vennero prelevati dapprincipio al solo fine di rimarcare la soggezione dei vinti e perpetuarla, ma finirono ben presto per piacere in quanto tali: arricchirono i capi e, al tempo stesso, innalzarono il livello di vita del popolo». Così, ad esempio, a partire dal 167 il popolo poté non più pagare un'imposta che i tributi inflitti sine die alla Macedonia rendevano inutili.
Oro e schiavi erano la posta in gioco nelle guerre del mondo antico. Nel caso delle guerre di conquista romane si trattava di tonnellate d'oro e di eserciti di schiavi. E quando il bottino già fatto — nonostante il sistema di scientifico sfruttamento delle province — cominciava ad esaurirsi, si profilavano nuovi obiettivi di conquista: la decisione di Traiano di attaccare il regno di Decebalo, cioè la Dacia, e di annetterlo, nasce da tale spinta. L'impero che non punta ad espandersi deperisce: ciò è inerente al modo di produzione antico che impone che la guerra si risolva nella spoliazione del vinto. Ecco perché la strategia imperiale difensiva a suo tempo adottata da Pericle contro Sparta risultò perdente. Ecco perché nel «discorso di guerra» L'impero mondiale di Augusto Wilamowitz indica nella Pax Augusta l'inizio della decadenza dell'impero.
Eppure per secoli, la reazione a questo sistema — spoliazione del vinto nel momento della conquista e oppressione spietata dopo la sua trasformazione in provincia — non fu quella che ci si poteva aspettare. Per lo meno, le voci a noi giunte di critica all'imperialismo di rapina sono poche. La lettera di Mitridate ad Arsace che Sallustio inserì nelle Historiae rielaborandola sulla base forse di un documento autentico, e il discorso del capo britannico Calgaco («ubi solitudinem faciunt pacem appellant »), reso eterno dalla scelta di Tacito di darne conto con rilievo nell'Agricola non sono che eccezioni.
I Romani seppero però anche, dopo aver tratto dai vinti tutti i vantaggi possibili, dividerli e creare una élite provinciale filoromana da cooptare persino, in alcuni casi, con l'immissione in Senato. È sempre Tacito che coglie l'importanza e l'efficacia di questa arte di governare l'impero, quando dà alle parole di Claudio in favore dell'immissione in Senato dei primores Galliae il valore di risposta a distanza delle parole di Calgaco.
Il segreto della durevolezza dell'impero — spiega Claudio — è nell'aver saputo cooptare. Se Atene e Sparta decaddero, ciò deriva dall'uso geloso e miope che esse fecero della cittadinanza. Romolo — prosegue Claudio — sin dalle origini aprì ad una «feccia» di stranieri la città appena sorta e li fece cittadini optimo iure. Per Claudio, e si può dire anche per Tacito, è nella gestione della cittadinanza, nella sua progressiva estensione, il segreto dell'impero. Quando Caracalla (212 d.C.) la estese a tutte le civitates dell'impero, parve che esso ne trasse nuova e durevole linfa. Se, com'è probabile, l'estensione della cittadinanza introdotta da Caracalla («constitutio antoniniana») era limitata appunto alle popolazioni urbane, fu il mondo rurale a provocare di lì a poco una crisi quasi mortale per l'impero: quella sommersione delle civitates ad opera delle masse di contadini-soldati che diede a Mikhail Rostovcev la spinta ad immaginare una suggestiva analogia tra la crisi del III secolo e la Russia dell'ottobre 1917.
La crisi invece fu superata grazie al formarsi di una nuova autocrazia, non più temperata dal conflitto col ceto senatorio. È la teocrazia dioclezianea e poi cristiano-costantiniana che rendeva tutti pari di fronte all'autocrate, il quale, grazie all'intuizione geniale di Costantino, seppe assicurarsi il formidabile appoggio della nuova, popolarissima, religione di salvezza della quale egli stesso si impose come leader. Incominciava allora un altro genere di impero, che facendo perno sulla «Seconda Roma» durò per un millennio.

Corriere della Sera 11.12.07
Elkann e Veronesi, dialogo laico sul «senso della vita»
di Stefano Bucci


Qualche anno fa, era il 1969, l'oncologo francese Leon Schwarzenberg (ministro della Sanità sotto la presidenza Mitterrand) aveva affidato le sue riflessioni di medico e di uomo ad un bellissimo libro, Changer la mort (Cambiare la morte). In certi momenti questo dialogo di Umberto Veronesi con Alain Elkann (Essere laico, Tascabili Bompiani, pp.128, e9) ricorda il libro di Leon Schwarzenberg (forse perché entrambi si ritrovano a combattere lo stesso nemico, forse perché entrambi non disdegnano l'impegno politico). Come quando, ad esempio, raccontano «il rifiuto, la rabbia, lo stupore, la rassegnazione, l'accettazione, la speranza» che si possono leggere negli occhi del malato.
Seguendo le tracce dei suoi precedenti dialoghi con il rabbino Elio Toaff (Essere ebreo), con il Cardinale Carlo Maria Martini (Cambiare il cuore), con il principe El Hassan Bin Talal (Essere musulmano), Alain Elkann incalza stavolta con il consueto garbo il pioniere della lotta contro i tumori in Italia nonché attuale direttore dell'Istituto europeo di oncologia (il ricavato delle vendite del libro è destinato all'associazione «... Sottovoce... » che sostiene i pazienti dello Ieo e le loro famiglie) . Contribuendo a metterne in luce aspetti privati che si trasferiscono in maniera ineluttabile nel suo «modo» di essere medico e di affrontare quotidianamente( «dalla parte di chi cura ») un male terribile.
«Essere laico» per lui (scrive Ferruccio de Bortoli nella prefazione) è credere in una «immortalità che non è quella dei miracoli della fede ma la proiezione illuministica della ragione e della conoscenze, l'immortalità racchiusa nella famiglia, nei figli ai quali consegniamo eredità morali e testimonianze civili». Ma questa convinzione parte da lontano da quel «bambino» che Veronesi è stato e che «condiziona ancora adesso la sua vita». Al pari della figura di una madre «intensamente religiosa, cattolica, che recitava il rosario tutte le sere » (e sarà proprio la sua adorazione per la madre a spingerlo a «proteggere il mondo femminile»).
Il «professore» di oggi si ritrova così nella memoria di una infanzia nella cascina «dove a volte al mattino trovavano il bicchiere dell'acqua ghiacciato». Dopo la guerra abbandona la religione per Marx, ma la vita lo obbliga a confrontarsi con il suo vecchio parroco don Giovanni ammalato di tumore che «lo ringrazierà per la sua carità senza fede». Libertà, tolleranza e solidarietà nei riguardi dei più deboli: questi i principi di Veronesi (che non dimentica nel suo dialogo con Elkann nemmeno le citazioni da Le invasioni barbariche di Denys Arcand e da L'albero degli zoccoli di Ermanno Olmi), uomo convinto che «le religioni siano espressioni e proiezioni dei bisogni politici e culturali delle popolazioni. Ma che non ama però essere definito ateo («perché non posso negare l'esistenza di Dio, piuttosto agnostico»): «Essere laico — per lui — vuol dire essere liberi ma eticamente responsabili, non più nei riguardi di Dio, ma nei riguardi dell'umanità».

CITATO AL LUNEDI:
Repubblica 11.12.07
"I gay sono bimbi mai cresciuti conservano creatività e fantasia"
Fa discutere la tesi dell'etologo Desmond Morris
di Enrico Franceschini


"Il loro sviluppo si interrompe prima del tempo". Gli scienziati: "Una stupidaggine"
La nuova teoria pubblicata nell´ultimo libro dello scienziato, "The naked man"

Londra - I gay sono eterni bambini. O meglio, adulti non del tutto cresciuti, che hanno conservato «da grandi» la fantasia, la spontaneità e la meravigliosa ingenuità dei più piccini. A formulare questa inedita teoria è Desmond Morris, il celebre etologo e zoologo inglese, in un nuovo libro pubblicato in questi giorni in Gran Bretagna, dal titolo «The naked man» (L´uomo nudo), e subito fonte di discussioni e polemiche. È un completo ribaltamento delle idee in materia che lo studioso aveva espresso nelle sue opere e lezioni precedenti.
Il professor Morris aveva creduto a lungo, infatti, che le tendenze omosessuali fossero dovute soprattutto alla mancanza di una forte figura paterna in famiglia, insomma a un padre debole. Ma adesso ha cambiato opinione, sostenendo che a rendere gay le persone è la neotonia, un termine usato in zoologia per identificare il momento in cui lo sviluppo di una determinata specie si arresta prima del tempo e l´animale conserva allora in età adulta alcuni tratti infantili, adolescenziali, giovanili.
Da sempre scettico sulla possibilità che l´omosessualità abbia una qualche base genetica, nel nuovo libro Morris sottolinea il fatto che i gay sono in genere «più inventivi e creativi degli eterosessuali, proprio perché posseggono l´agilità mentale e la giocosità dell´infanzia».
La prova di questa teoria non viene dal regno animale, come in passato, quando Morris ha sempre cercato di spiegare e studiare i comportamenti umani servendosi della zoologia come modello, e in particolare analizzando le numerose somiglianze di comportamento fra le scimmie e gli umani.
Stavolta lo scienziato trova la sua dimostrazione nel mondo dell´arte e dell´intelletto umano. «In generale i gay hanno contribuito alla vita culturale e all´arte in modo proporzionatamente molto maggiore degli eterosessuali. Conservare in età adulta la giocosità dell´infanzia è un fattore molto positivo per chi opera in settori creativi».
L´autore del best seller «La scimmia nuda» (ossia l´uomo, inteso come una scimmia che ha perso il pelo), il best-seller del 1967 che lo rese famoso in tutto il mondo, cita nel suo libro ad esempio della maggiore creatività dei gay personaggi come Socrate, Leonardo da Vinci, Ciakowskij, Oscar Wilde, Lawrence d´Arabia: ma a parte che non tutti i biografi concordano con l´omosessualiutà di tutti i personaggi citati, Morris tralascia di considerare il gran numero di artisti eterosessuali, a cominciare da donnaioli impenitenti come Picasso e Norman Mailer, per citarne solo un paio frai tanti.
I gruppi e le associazioni omosessuali in Gran Bretagna non hanno comunque reagito alla tesi che li descrive come eterni fanciulli, forse perché, dimostrabile o meno che sia, l´autore attribuisce comunque un attestato di grande creatività ai gay di ogni tempo, dall´antichità ai giorni nostri, osserva il Sunday Times, che ha pubblicato ieri un´anticipazione del libro di Morris.
Meno convinta è la comunità scientifica: «Dove sono le prove?», commenta il professor Steve Jones, docente di genetica alla University City London. «È un´idea stupida, non sorretta da alcuna dimostrazione scientifica».

Liberazione 11.12.07
La prima scommessa è vinta
C'è la sinistra. Il resto verrà
di Stefano Bocconetti


Ognuno con la sua critica, in un contesto meno rituale, più aperto e in via di definizione continua. Ma tutti erano d'accordo
E' iniziato un percorso, necessario. Ecco cosa raccontano le due giornate degli Stati generali de "la Sinistra, l'Arcobaleno"

Cosa raccontano le due giornate degli Stati generali a Roma

Intanto è partito. Sì, ma avrebbe dovuto mettersi in moto tempo fa, quando tutto già sembrava pronto. E magari i binari erano anche un po' più sgombri. Però, quel treno è partito. Sì, ma ancora non si sa se ce la farà a portare a destinazione tutti i vagoni. Ancora non si sa, se e come i passeggeri troveranno posto a bordo. Però, intanto, è partito. Nel parterre della Fiera di Roma - della nuova Fiera di Roma, a metà strada fra la città e l'aeroporto, anche bella col suo profilo ondulato ma che sembra fatta apposta per ridare attualità alla vecchia definizione di cattedrale nel deserto -, nel parterre della Fiera di Roma, si diceva, dove domenica è nata "la Sinistra l'Arcobaleno", potevi parlare con chiunque e avevi le stesse conclusioni. Base, dirigenti, quadri intermedi, gente senza tessera, semplici curiosi (pochi, scoraggiati dalla difficoltà di raggiungere la Nuova Fiera). Ognuno aveva la sua critica da fare. Tutte legittime e - sarebbe sciocco negarlo - tutte abbastanza fondate. Che le assemblee di sabato e domenica sono arrivate tardi, che sono state anche un po' rituali. Meno, comunque, molto meno di quel che si possa pensare. Per capire: non è stato un congresso del Pci degli anni '70. Congressi importanti per la storia di questo paese ma che comunque dovevano finire con una sintesi. Su ogni singolo problema. Con una posizione ufficiale. Qui, bastava girare per i seminari per accorgersi che il metodo era un altro. Si proponevano temi, si apriva una ricerca. In una sinistra che da troppo tempo aveva smesso di cercare. Ci si parlava, ci si conosceva in una sinistra che da troppo tempo aveva smesso di parlarsi. Si diceva tutto questo nel parterre. E si aggiungevano anche preoccupazioni più contingenti: legate alle diverse valutazioni sull'attualità politica delle quattro forze politiche promotrici. Sulla riforma elettorale, sul giudizio da dare di quest'anno e mezzo di governo Prodi. E chi più ne ha, più ne metta. Ma i discorsi raccolti in quell'enorme sala, finivano tutti allo stesso modo: vabbè, l'importante è comunque aver cominciato. Il resto verrà.
Lo dicevano tutti ma proprio tutti-tutti. Un concetto sussurrato, però, più che dichiarato esplicitamente. Perché se ci si pensa non è uno di quelle affermazioni che possano essere inserite nella categoria del "politicamente corretto". In questo capitolo, la formazione di un nuovo soggetto si fa partendo dai programmi, scegliendo le modalità del far politica, gli obiettivi. Se ci si trova d'accordo, si comincia. Stavolta non è stato così. C'è una base comune, è ovvio. Non dettagliatissima ma neanche banale. Ci sono obiettivi comuni e c'è un impegno a lavorare insieme. C'è molto, ma non tutto. Ma c'è soprattutto la consapevolezza che c'è bisogno di sinistra. Che avrà un futuro solo se si unisce e si ripensa.
E' l'invocazione di Ingrao, insomma. Quella richiesta che nasce dalle cose, dalla tragedia della ThyssenKrupp. Il resto verrà. Ma intanto il treno si è messo in moto.
E allora non resta che raccontare le impressioni di questa partenza. Una, è apparsa evidente a chi aveva voglia di ascoltare i discorsi dal palco, domenica mattina. Meno scontati di quello che hanno poi raccontato i giornali. Accorgendosi così che ci sono due velocità. Metafora che si adatta malissimo a quella del treno, ma tant'è. Due velocità. Una è quella imposta da chi è venuto qui a raccontare le proprie esperienze. A raccontare le proprie storie. Non solo di vertenze, non solo di "lotte". Ma anche racconti di un modo diverso di governare, di amministrare. Addirittura, nelle parole dell'amministratore provinciale di Napoli, il racconto di come la sinistra possa inventarsi un proprio progetto per far quadrare i conti pubblici. Tutte insieme queste storie, "narrano" - per usare le parole di Nichi Vendola - di una "cosa" che c'è già. Già esiste. Che addirittura sembra molto solida. Fatta dallo stesso modo di sentire, fatta dalla stessa passione, dallo stesso altruismo. Fatta dalle stesse denunce, dalle stesse analisi.
C'è poi l'altra velocità. Quella assai più lenta che segna il rapporto fra i quattro partiti. Anche questa velocità era "visibile" ascoltando i discorsi dei leader. Non c'era la stessa fretta, non c'era la stessa urgenza nelle parole dei segretari. C'è chi si è impegnato, ha chiesto agli altri analoghi impegni. Ma c'è stato anche chi ha preferito utilizzare questa tribuna per riaffermare le ragioni della propria identità. O microidentità. Chi ha preferito la citazione alla firma di un patto. Fosse anche simbolico. E c'è chi si è messo a metà fra queste due posizioni.
Diverse velocità, allora. Che hanno fatto dire a qualcuno che forse, alla fine del percorso, non ci saranno tutte e quattro le forze politiche che hanno organizzato gli Stati generali. Qualcuna avrà la tentazione di tirarsi da parte. Di inchiodarsi ai suoi simboli o magari di appellarsi ad esigenze di visibilità. Il rischio c'è. Ma non è detto che vada così. Il problema, delle prossime settimane non dei prossimi mesi, forse è tutto qui. Come "rompere gli argini", cosa inventarsi perché la prima velocità irrompa nella seconda. La trascini, le imponga un altro ritmo.
E a Rifondazione - anche di questo nel parterre erano convinti tutti, militanti o semplici "alleati" - spetta un compito ancora più difficile che agli altri. Anche qui una sensazione, una semplice sensazione. Che svela però molto di cosa sia davvero questo partito. Di come sia percepito, di come sia riuscito a trasformarsi durante questi anni. La sensazione nasce dall'ingresso rumoroso dei "no Dal Molin" durante l'assemblea. Chi ha assistito alla scena dal pubblico, ha potuto vedere in sala le reazioni più diverse. Interesse, tanto, ma anche ostilità. Addirittura in qualcuno ostilità preconcetta. Comunque scarsa dimestichezza col problema. Ma in ogni caso, gli Stati Generali non hanno vissuto alcuna tensione. Sono proseguiti aprendosi al confronto con quel movimento, con quelle istanze radicali che sosteneva. E questo, lo si è dovuto solo ai dirigenti, ai militanti di Rifondazione. A chi da anni ha scelto non solo di confrontarsi ma di essere "dentro" i movimenti. Questo lo si è dovuto a chi da anni ha dimestichezza con la spontaneità delle mille associazioni che difendono il territorio, che si oppongono alla guerra, che provano a imporre nuovi diritti. Questo è stato possibile con un partito, con un gruppo dirigente e di militanti, che parlava con persone, con uomini, donne, ragazzi, con cui poi si fanno cortei, occupazioni. Presidi. I "No Dal Molin" sono così riusciti a parlare all'assemblea, hanno chiesto più sinistra, hanno chiesto impegni. Qualcuno è stato sottoscritto, per altri si è rimasti nel vago. Resta il dato che anche chi non è completamente d'accordo, sceglie innanzitutto di interloquire con questa "cosa" nata domenica. E forse anche così può arrivare la spinta a superare le due velocità. E da quel che si è visto alla Fiera di Roma è un lavoro che graverà quasi solo sulle spalle di Rifondazione. Buon lavoro.

Liberazione 11.12.07
La sinistra pianta il suo seme unitario
Prc, Sd, Pdci, Verdi compiono il primo passo del soggetto federativo
Presentata la carta d'intenti comune: lavoro, ambiente, pace, diritti
di Angela Mauro


Una domenica mattina di dicembre, cielo plumbeo e pioggerellina, sei praticamente in mezzo al nulla, tra campi incolti e cantieri aperti. Precisamente davanti alla Fiera di Roma, struttura nuova di zecca tra la capitale e Fiumicino. La sinistra sceglie una cattedrale nel deserto per piantare il suo fiore, l'atto costitutivo di una federazione che d'ora in poi - promettono i leader del Prc, Sd, Pdci e Verdi - si muoverà come una cosa sola. Situazione logistica decisamente un po' scomoda, fuori mano ma - alla fine - altamente evocativa dello sforzo che si deve compiere per incidere in una società in crisi, in un governo soffocato dai poteri forti.
Compito non semplice, ma nel deserto, in una fredda mattina di dicembre, c'è vita. Per la prima assemblea unitaria de "La Sinistra, l'Arcobaleno" il risultato è palpabile. E' a portata di mano, quando arrivando vieni accolto dal "cacerolazo" dei No dal Molin, i vicentini che stazionano davanti al complesso fieristico distribuendo volantini e preparandosi a irrompere in plenaria per chiedere alla sinistra di impegnarsi sulla moratoria dei lavori di realizzazione della nuova base Usa. Lo faranno, alcune ore più tardi, mentre dallo "spazio della presidenza" (concezione logistica volutamente più informale del solito "tavolo dei relatori") sta parlando Aurelio Mancuso dell'Arcigay. Tutta la rappresentanza dei No dal Molin arrivata a Roma occupa il palco: bandiere, fischietti e ancora rumore di pentole usate come percussioni (di protesta). E' un altro risultato palpabile dell'assemblea: lasciarsi attraversare dai movimenti senza barriere, senza timori. E sono due, di risultati. Immediati.
Un altro è la carta d'intenti unitaria, che indica la rotta: partecipazione, impegno contro la «svalorizzazione del lavoro umano e delle risorse naturali», per la pace, le libertà individuali e collettive. Parole d'ordine che aspettano di entrare nel merito alla prova dei fatti. Un primo "fatto" accadrà a gennaio, quando la sinistra andrà alla verifica programmatica con il governo Prodi. Si lavora per fare in modo che l'esito della verifica garantisca un altro risultato unitario: restare al governo se Palazzo Chigi dà risposte concrete su precarietà, pace, immigrazione, diritti; uscire se quelle condizioni non ci sono. Il bivio non è proprio chiaro per tutti e forse non potrebbe esserlo, adesso, a quadro politico più che terremotato su tutti i fronti. Ma, per il futuro e l'oltre-Prodi, se fa testo la carta di intenti unitaria, il bivio c'è, è contemplato: «La sinistra è pronta ad assumersi responsabilità di governo o esercitare la sua funzione all'opposizione». Dipende dalle condizioni programmatiche. Si vedrà.
Quello che conta è il passo compiuto in una unanime direzione nel fine settimana. Se ne sono accorti anche i sondaggisti, che ieri giocavano a scommettere sulle percentuali di consenso della sinistra unita (si va dal 18-19 per cento per Nexus ad una forbice tra il 9 e il 14 per la Swg, al 15 per cento di Piepoli). Se fuori c'è il deserto e il fiore, dentro, in fiera, è caos produttivo e fermento. Sul palco si alternano esponenti delle associazioni della società civile e leader di partito. La platea (posti a sedere volutamente scomposti davanti, file di sedie dietro) non è solo un classico punto di ascolto, ma luogo di incontro e scambio. Eppure si muove unita nell'applauso quando i leader lanciano i loro messaggi al governo. «Non possiamo più accettare che il voltagabbana di turno conti più di un terzo della coalizione», urla al microfono Franco Giordano. «Caro Romano, noi votiamo la Finanziaria e non lavoriamo per la caduta del governo, ma così non si va avanti...», è chiaro Fabio Mussi. Oliviero Diliberto avverte che - checchè ne dica la Binetti - sulle norme anti-omofobia votate nel ddl espulsioni al Senato «non si può tornare indietro». Poi fa proprio Berlinguer e la questione morale. Alfonso Pecoraro Scanio, chiamato in causa direttamente dai No dal Molin, fornisce la sua replica: «Senza la valutazione di impatto ambientale non si va da nessuna parte». Insomma, no alla nuova base Usa, progetto sul quale i quattro ministri della sinistra hanno chiesto un ripensamento a Prodi in una lettera spedita proprio alla vigilia dell'assemblea unitaria.
Dal palco parla poi chi leader non è (ma viene immaginato tale, a giudicare dalle ovazioni che ottiene) e parla chi leader lo è stato, di una corposa storia di sinistra che ancora entusiasma. Sono le 11 circa, prende la parola il governatore della Puglia Nichi Vendola. E checchè ne dica lui - attentissimo a sottolineare di essere stato «eletto in Regione due anni fa, il mio posto è là» - parla da leader, di quelli "non leaderisti" che piacciono a sinistra. Non si vergogna di citare l'argomento "riforma della legge elettorale": non è cosa sporca, ma strumento per costruire un «argine contro la frammentazione della società in corporazioni». Ammette lo «spaesamento, lo smottamento» che per forza di cose caratterizza il processo unitario. Esorta ad andare oltre la federazione dei partiti: «Costituente, non equilibrio precario di corpi costituiti». Il tutto è doloroso, come «un parto». Perchè quando si esce da se stessi si ha «paura di perdere la propria identità, il sentimento. Ma è necessario». La dice con Pasolini, senza leggere, a memoria: «Piange ciò che muta per farsi migliore». Ma prima che ci arrivi, è lui che si commuove, come tutta la sala. Caos sempre più produttivo: arriva Pietro Ingrao, 92 anni e non li dimostra. «Unitevi e fate presto!». Sul palco, prende la parola e non la molla per più di un quarto d'ora. «Fate presto perchè la situazione urge e i problemi davanti alla vita quotidiana bruciano e non possiamo attendere ancora. Serve uno sforzo, uno scatto in piú che segni un mutamento di clima». La platea ha i brividi, applausi anche da Achille Occhetto e Armando Cossutta, seduti in prima fila. E lo stesso concetto, quello dell'andare oltre la federazione, lo sviscera Gianni Rinaldini, leader della Fiom che non ha problemi a dire che «fare il modello Flm non basta se non porta all'unità». Fausto Bertinotti arriva dopo e non parla, per scelta dopo le polemiche seguite all'ultima intervista a Repubblica sul governo e sulla sinistra. «Bellissima giornata», si limita, un «tuffo».
La rotta infatti è in mare aperto, i porti da raggiungere uniti sono diversi. C'è quello dei «linguaggi e delle forme nuove della politica» indicato dalle "femministe autoconvocate" che domenica volevano trasformare la plenaria in assemblea autogestita, non ci sono riuscite e se ne sono andate in protesta. C'è quello del «protagonismo dei movimenti nei processi decisionali», invocato dal palco da Paul Ginsborg a nome dei "movimenti autoconvocati". E c'è l'approdo ad una cultura plurale e unitaria che non si incastri sulle preferenze musicali-identitarie. Affinchè non sia un dramma se Pecoraro alla fine non ha cantato Bella ciao.