Perché domani non saremo in edicola
Domani l’Unità non sarà in edicola. Mancano pochi giorni alla definizione del nuovo assetto proprietario del giornale fondato da Antonio Gramsci. Le giornaliste e i giornalisti del quotidiano tornano a chiedere con forza che si esperisca ogni tentativo per giungere a un’articolazione azionaria diversa da quella in via di definizione. La prospettiva che la Tosinvest del gruppo Angelucci, che edita Libero, assuma il controllo quasi assoluto della nostra testata non può non creare inquietudine e preoccupazione. Servono garanzie precise a difesa dell’autonomia e dell’indipendenza del nostro giornale. L’Unità va sempre più in mare aperto. Per questo, indipendentemente dagli assetti editoriali futuri, occorre definire strumenti a tutela della collocazione, della storia e del radicamento della testata nella realtà democratica e della sinistra italiana. Anche per questo chiediamo con forza l’istituzione di un Comitato dei garanti d’alto profilo e la definizione di una Carta dei valori e dei diritti che costituiscano la rotta del percorso futuro di questa testata. L’identità di un giornale storicamente radicato come l’Unità non è una merce qualsiasi, ma un nodo sensibile della vita democratica del Paese.
L’Unità è un giornale vivo, capace di contribuire in modo importante al dibattito culturale e politico del nostro Paese. Le attestazioni di solidarietà che riceviamo in queste ore stanno lì a dimostrarlo. Siamo consapevoli della necessità di nuovi investimenti e di nuove iniziative che consentano a l’Unità uno sviluppo coerente con il posto che occupa nella storia e nella vita democratica italiana. Ma tutto ciò non può significare che le logiche del mercato - senza opportune garanzie - snaturino il ruolo e l’identità di questo giornale.
Il Cdr de l’Unità
l’Unità 14.12.07
Il Dalai Lama sbarca alla Camera
E Bertinotti saluta l’«amica Cina»
di Maria Zegarelli
Tutti lo accolgono come «un grande leader religioso e spirituale», segno dei tempi che cambiano, di potenze economiche più potenti di qualche anno fa, come la Cina che oggi non gradisce chi gradisce il Dalai Lama. Sua santità è come sempre avvolto nei colori dei monaci tibetani, il suo sorriso e «la grande calma della mente», fanno ingresso prima al Senato e poi alla Camera, dopo essere stato in Campidoglio. Sono i tre luoghi in cui Roma lo accoglie in forma solenne. «Siamo tutti essere umani: questa è la nostra condizione comune», dice nella Sala della Lupa a Montecitorio, davanti a deputati di maggioranza e opposizione. Parla il linguaggio semplice delle menti grandi. Nessuna controversia, dice, può essere risolta con la violenza, nessun uomo può pensare che i problemi di un popolo siano solo di quel popolo. «Quello che oggi manca è un senso di responsabilità globale, di solidarietà». Il Dalai ripete: «Noi del Tibet non chiediamo l’indipendenza dalla Cina, chiediamo l’applicazione dei diritti sanciti dalla repubblica cinese anche per il popolo tibetano. Abbiamo teso una mano, la destra, e oggi è vuota. A voi, nostri amici di sempre, tendiamo l’altra la sinistra». C’è un filo sottile che lega il dialogo tra tutti gli omini di tutte le lingue e di tutte le religioni, spiega: «È la laicità, che significa rispetto per tutte le religioni, senza preferenze e per i non credenti. Io promuovo i valori umani per le vie laiche». Calzante, anche qui. E poi, la «compassione»,una parola «straordinaria - commenta Marini - sulla quale lei si è soffermato. È un patrimonio culturale e anche storico della religione cristiana. è questo, sicuramente, che la sua presenza in questi giorni in mezzo a noi sta porgendo. E noi, santità, anche per questo la ringraziamo». Sia a Marini che a Bertinotti il Dalai Lama offre in omaggio, la kata, la sciarpa bianca tibetana. Brusii in sala quando Bertinotti dice: «Confermiamo la nostra amicizia con la Repubblica popolare cinese ma ribadiamo la difesa della autonomia culturale di un popolo che è un valore fondativo del rapporto di civiltà nel mondo contemporaneo». Gasparri commenta: «Bertinotti andrebbe bene come presidente di un centro sociale e non della Camera. Poteva evitare di ribadire al sua amicizia alla Cina davanti al Dalai Lama che lotta contro la repressione cinese». Pietro Folena, presidente della commissione Cultura della Camera, replica: «Gasparri o lo fa per una inutile polemica, oppure non ha capito cosa ha detto Bertinotti. Opterei per quest’ultima ipotesi. Bertinotti, riguardo alla Cina, ha detto le stesse cose dette dal Dalai Lama». Per il governo è presente il sottosegretario di Stato agli Esteri, Gianni Vernetti. Dice: «Ho ritenuto utile incontrare oggi il Dalai Lama in quanto grande leader spirituale di milioni di buddisti in tutto il mondo e promotore universale della cultura della nonviolenza. Abbiamo anche discusso della Cina e del Tibet. Su questi temi ho ascoltato dal Dalai Lama parole di grande moderazione. Egli ha ribadito con assoluta chiarezza che non vuole l’indipendenza del Tibet dalla Cina; che ritiene importante l’integrità territoriale della Repubblica Popolare Cinese; che auspica un Tibet dotato di una vera autonomia all’interno della Costituzione della Cina».
l’Unità 14.12.07
A volte ritornano: ecco i tesori ritrovati
di Stefano Miliani
MARTEDÌ IL QUIRINALE apre le sue stanze ai numerosi reperti archeologici che, trafugati dall’Italia, avevano trovato «casa» nei musei esteri. Molti provengono dal Getty Museum di Los Angeles
Come in una sorta di abbraccio tra civiltà greca, etrusca e romana, da martedì 18 dicembre fino al 2 marzo il Quirinale espone 77 pezzi che farebbe felice una marea di musei e collezionisti nella mostra «Nostoi. Capolavori ritrovati»: reperti di qualità spesso strabiliante, a detta degli archeologi, tornati in pianta stabile in Italia. Sebbene vedere statue, un brano d’affresco pompeiano, stupendi vasi attici in ceramica a figure nere (se dipinte su fondo rossastro) o a figure rosse (se su fondo nero), bronzetti etruschi, possa lasciare un senso di rimpianto per quanta storia e quante conoscenze sugli antenati abbiamo perduto.
Qualche esemplare della mostra invita a citare una tavola cerimoniale in marmo policromo con due grifoni che divorano una cerva del IV secolo a.C., già al Getty Museum di Los Angeles; una statua in marmo di Apollo con grifone del I-II secolo d.C., proveniente sempre dall’istituto californiano; un’anfora etrusca con serpente dipinto, riconsegnata dal Fine Arts di Boston; una raffinata e piccola Nike (una vittoria alata) a opera etrusca rubata nel ’75 alla soprintendenza archeologica di Ercolano e restituita di sua «spontanea» volontà dal gallerista newyorkese Jerome Eisenberg; il Cratere del pittore Eufronio, vaso attico a figure rosse già al Metropolitan di New York e in arrivo a gennaio al Quirinale. Sono alcune delle 77 opere elaborate tra il VII secolo a.C. e il II d.C. provienienti dall’Etruria, dal Lazio, dal territorio, dalla Puglia che il palazzo presidenziale, luogo simbolicamente significativo, espone su iniziativa del ministro per i beni culturali Rutelli. E non espone i reperti solo perché «belli»: li espone perché a suo tempo trafugati e restituiti all’Italia nell’ultimo anno o due, dopo lunghe trattative e accordi diplomatici il cui culmine è stato l’intesa siglata con il Getty. Un inciso: il museo riconsegna 40 pezzi, 39 vanno al Quirinale, il 40esimo, la cosiddetta Venere di Morgantina, rientrerà nel 2010, negli intendimenti, per tornare da dove è partita, la Sicilia. Altro e ancor più importante inciso: nelle intenzioni, ogni opera tornerà nei territori d’origine o nel museo più competente.
Con questa rassegna il ministero cosa vuole? È un’azione di propaganda politica? «Piuttosto propaganda culturale - risponde Maurizio Fiorilli, che per l’avvocatura dello Stato presiede la commissione ministeriale e conduce la battaglia legale del dicastero con i vari musei -. Da un lato si dà conto di quanto ottenuto: come i compagni di Ulisse erano dei “ritornanti”, così queste opere hanno compiuto il loro viaggi di ritorno. Dall’altro lato vogliamo sensibilizzare l’opinione pubblica, far capire che il nostro patrimonio va tutelato. Aggiungo che questa ricchezza è stata scavata e rubata da cittadini italiani ed è stata oggetto di mercimonio da parte di cittadini italiani». Che fa, straccia il mito degli italiani brava gente? «E bisogna anche sfatare il mito dei tombaroli come dei poveretti. Non sono affatto dei poveri Cristi».
«L’emorragia di materiali archeologici non è mai cessata - interviene Stefano De Caro, già soprintedente in Campania e ora direttore generale del ministero per il patrimonio archeologico -. Anzi ha conosciuto nel dopoguerra nell’intero Mezzogiorno, in Sicilia, nel Lazio e nella Toscana, un’accelerazione disperante». Un saccheggio sotterraneo in piena regola. Reso possibile da più fattori: «L’agricoltura meccanizzata e gli insediamenti urbani hanno moltiplicato le occasioni di rinvenimenti fortuiti; l’insufficiente capacità di controllo delle soprintendenze; l’insinuarsi negli scavi clandestini della malavita organizzata in collegamento con mercanti stranieri; l’accresciuta richiesta di musei e collezionisti…». La Mafia ha fatto affari d’oro. E all’estero troppi erano pronti a pagare profumatamente simili sforzi attingendo a complicate ed elaborate reti di commercio nascosto. Adesso però, annota De Caro, qualcosa è cambiato: musei e archeologi e Stati sono consapevoli che depredare l’arte è un crimine. Però qualcuno a volte ha obiettato: meglio esporre e studiare un’antichità all’estero che lasciarla interrata. «Non è una visione nazionalistica dell’archeologia», osserva in catalogo De Caro, a far rivendicare il maltolto. «È una visione scientifica, soprattutto eticamente legittimata, del rispetto del contesto di provenienza senza il quale i reperti, al di là della seduzione volatile della loro bellezza, diventano muti». Guardiamo l’anfora di Eutimide che cita un grande atleta della Magna Grecia, Faillo, strappata al sepolcro d’origine: «A chi apparteneva?», domanda De Caro. O ancora: chi accompagnò nell’al di là la misteriosa religiosità di un cratere con divinità minori di un Olimpo greco che forse guardava ad altre sponde del Mediterraneo? «Forse se avessimo avuto il corredo per intero, avremmo potuto rispondere a queste domande. Purtroppo dobbiamo solo accontentarci della pur grande bellezza e rimpiangere che quei barlumi di storia non possano risplendere più. Mai più».
l’Unità 14.12.07
In «Non ho l’arma che uccide il leone» lo psichiatra Peppe Dell’Acqua rievoca l’apertura del manicomio di Trieste
Quello che va ricordato di Basaglia trent’anni dopo Basaglia
di Nico Pitrelli
«È una cosa seria la follia: è vita, tragedia, tensione. La malattia mentale invece è il vuoto, il ridicolo». Inizia con una presentazione inedita di Franco Basaglia il libro Non ho l’arma che uccide il leone, appena ripubblicato da Stampa Alternativa e scritto da Peppe Dell’Acqua, che di Basaglia fu discepolo, amico, compagno di viaggio di quell’avventura straordinaria che alla fine degli anni ’70 a Trieste portò all’abbattimento del manicomio e all’approvazione della legge 180. Trent’anni sono ormai quasi passati da quando Basaglia, nelle sue parole sulla follia e sulla malattia mentale, forniva non solo la cifra significativa del suo pensiero, ma una lucida chiave di lettura per le vicende del manicomio triestino riproposte, in versione ampliata e aggiornata, da Dell’Acqua.
In tutto questo periodo c’è da chiedersi quanto, di quella storia, sia sopravvissuto nelle pratiche e nell’immaginazione degli operatori della salute mentale odierna. A detta dello stesso dell’Acqua, poco. Molto di più si è affermata, nelle esperienza di medici, infermieri e psicologi attuali la logica «di una psichiatria che continua ad anteporre malattie, farmacologie, negazioni, sottrazioni e porte chiuse, alle persone, alla cura, alle relazioni». O che costringe i giovani a mortificarsi nel vuoto organizzativo e nell’ottusità burocratica.
Ecco perché Dell’Acqua ha sentito il bisogno di ritornare a narrare, a comunicare quello che è successo dal 1971 al 1979 a Trieste. E lo ha fatto ridando voce ai principali protagonisti di quella stagione di cambiamenti. A Ondina, a Giovanni Doz, a Rosina, a Enzo. Nelle storie di Non ho l’arma che uccide il leone, gli schizofrenici, i sudici, gli agitati ritornano insperabilmente ad avere un nome, un indirizzo, una professione. Le cartelle cliniche si trasformano in persone. L’operazione di Dell’Acqua è tutto tranne che un’apologia buonista di una stagione mitica e irripetibile. Con le storie del manicomio di San Giovanni, l’attuale direttore del dipartimento di salute mentale triestino, ci vuole parlare di oggi e lo fa ripercorrendo quello che gli è successo, poco più che trentenne, quando ha capito cosa significava instaurare una relazione autentica con l’internato in manicomio. Dell’Acqua ci fa capire che la comunicazione è soprattutto un rischio, che implica confondersi, perdersi, lasciarsi scompaginare dalle parole. Le presunte certezze della psichiatria manicomiale si frantumano di fronte a quelle storie «fragili, ma vere», come scrive Pieraldo Rovatti nella prefazione al libro. Dell’Acqua ci racconta delle vicende «come le ha vissute da psichiatra che fortunatamente non capiva cosa volesse dire essere psichiatra». Ci dice, in altre parole, cosa sigifica attivare una comunicazione depurata dall’ansia di voler vedere confermati nell’altro i propri schemi infarciti di classificazioni e definizioni aprioristiche. La comunicazione non è atto di svelamento della scienza, della psichiatria manicomiale, ma è una messa in crisi di ruoli, uno scatenamento di significati attraverso l’ascolto autentico dell’altro. Si impone allora, pur nella loro fragilità, la verità di quelle voci che diventano vita, tragedia, tensione, amore e non parole da essere interpretate e analizzate da un’unica ragione. A trent’anni di distanza la forza di quelle voci rimane intatta. E mai come adesso, sembra più urgente ripercorrere il percorso di Dell’Acqua, ritornare a forzare le retoriche dell’ascolto e dei discorsi sulla follia e sulla malattia mentale, dietro i quali si nascondono, neanche troppo velatamente, nuove e più subdole istituzioni.
Repubblica 14.12.07
Pronta la bozza della "Carta dei valori". Al relatore già arrivate numerose osservazioni critiche
Il manifesto Pd elogia la religione "Fatto vitale della democrazia"
di Goffredo De Marchis
Citato l´appello ai "liberi e forti" di don Sturzo, fondatore del Partito popolare
Oggi si riunisce la commissione statuto. Vassallo: basta congressi. Ma sarà battaglia
ROMA - Il manifesto del Partito democratico si richiama all´appello di don Sturzo: «Vogliamo assicurare all´Italia una democrazia libera e forte». Parla di laicità, ma la declina così: «Riconoscimento della rilevanza nella sfera pubblica, e non solo privata, delle religioni e delle varie forme di spiritualità». Perché «le energie morali che scaturiscono dall´esperienza religiosa, quando riconoscono il valore del dialogo, rappresentano un elemento vitale della democrazia». È solo la prima bozza della Carta dei Valori, chiamata a ispirare l´azione del partito per gli anni a venire. Ma sul punto-chiave della sintesi tra laici e cattolici è destinata ad aprire un primo fronte di polemica sui contenuti e sul baricentro valoriale del Pd.
Qualcuno dirà che un testo come questo potrebbe funzionare anche per la Cosa bianca. E che vengono confermati i timori di uno schiacciamento delle ragioni laiche. Le prime osservazioni critiche stanno già intasando le caselle di posta elettronica del professor Mauro Ceruti, cattolico, 54 anni, preside della facoltà di Scienze della formazione all´università di Bergamo, docente di epistemologia. Ceruti è il relatore della commissione per il manifesto, nonché l´autore del testo-base dal quale si parte per dare un´identità al partito. Nel gruppo di lavoro affianca il presidente Alfredo Reichlin.
Otto pagine, una Carta non divisa per capitoli ma dove in neretto sono segnalati i "titoli" degli argomenti. Il nodo è quello legato alla laicità, ancora più dirimente dopo il no della teodem Paola Binetti alla fiducia sul decreto sicurezza), strappo rimasto in sonno proprio perché il Pd è nella fase di gestazione. Ha un segretario, Walter Veltroni, legittimato dal voto di milioni di cittadini, ma pochi altri riferimenti organizzativi.
I leader, in questi giorni, si concentrano sullo statuto (le regole del partito), ma chi ha cuore le sorti del Pd e gli augura lunga vita non può non guardare al manifesto. I problemi delle coppie di fatto, dell´eutanasia, della fecondazione, dei progressi scientifici, i temi della vita e della morte (mai citati in maniera esplicita) vanno risolti, secondo la bozza-Ceruti con lo strumento inedito della «democrazia cognitiva, che aiuti i cittadini a comprendere le implicazioni degli sviluppi tecnico-scientifici e i dilemmi etici che essi possono sollevare». Davanti alla scienza vengono piantati paletti molto rigidi: «La libertà di ricerca si deve conciliare con il principio per cui non tutto ciò che tecnicamente è possibile è moralmente lecito e nemmeno conveniente dal punto di vista sociale ed economico».
Il presupposto prepara quindi dei muri invalicabili anche per la politica. Che deve diventare «pienamente consapevole dei suoi limiti. Non può proporsi di controllare la varietà delle tendenze sociali, delle opinioni e dei bisogni individuali e collettivi». Messa così, la Carta prefigura, per gli aderenti, una libertà di coscienza con ampi margini di manovra. Naturalmente, la famiglia «è il luogo relazionale, formativo e affettivo primario», dove si sviluppa «la dignità della persona». E nell´ambito dei diritti umani vengono condannate «le forme di persecuzione per motivi razziali, politici e religiosi», senza parlare della discriminazione sessuale. Proprio nell´ultima riunione della commissione (sabato scorso) un gruppo di laici aveva proposto, per esempio, di inserire nella carta l´articolo anti-omofobia contenuto nel decreto sicurezza.
Il testo-base adesso si apre ai contributi, agli emendamenti, alle correzioni. La commissione Manifesto si riunisce di nuovo il 12 gennaio. Oggi invece si incontra il comitato di redazione della commissione Statuto. Il presidente Salvatore Vassallo ha scritto un testo in cui è stata cancellata la parola "congresso", luogo principe della vita dei partiti, il nucleo democratico delle vecchie organizzazioni politiche. Ma il nuovo strumento di decisione nel Pd sarà la consultazione diretta dei cittadini. Contro il "taglio" voluto dal costituzionalista si però è saldato un asse Ds-Popolari ora benedetto anche dal coordinatore Goffredo Bettini. Perciò Vassallo non avrebbe i numeri per far passare la sua "rivoluzione". Ma non è detto che pure in minoranza sia disposto a mollare.
Repubblica 14.12.07
Tesori, miracoli e misteri è la fabbrica di San Gennaro
di Luca Villoresi
Nel Duomo di Napoli tutto è pronto per il rito dei riti: domenica il sangue si scioglierà? Tra liturgia e scaramanzia: identikit di un santo che da settecento anni stupisce il mondo
L´anno scorso, nonostante invocazioni e rimbrotti, il prodigio non ci fu
C´è chi dice che il martire venne ucciso alla Solfatara, dove ora c´è un camping
Diciamolo. Lui potrebbe stupirvi, da subito, con gli effetti speciali. Buttare lì uno scenario infernale, fuoco, fumo ed esplosioni, per poi placare il cataclisma con un gesto della mano. Oppure esibire qualche miracolo spettacolare, estratto a caso dall´antologia dei pittori e dei cantastorie: eccolo che esce indenne dalla fornace accesa, che calma gli orsi dell´arena, che mette in fuga i saraceni, che cura la peste. O ancora - per andare sul materiale - potrebbe farvi balenare sotto gli occhi lo scintillìo di un tesoro che, si sostiene, vale più di quello della corona inglese. Ma San Gennaro, a Napoli, è qualcosa in più di tutto questo. E´ una persona di famiglia, una scritta sul muro, un santino sul cruscotto... l´attesa perenne di una grazia, o di una sciagura che, comunque, prima o poi, certamente arriverà, ma non sarà così sciagurata grazie all´intervento in extremis del vecchio Compare. Atteso, domenica prossima, a uno dei tre appuntamenti annuali con il prodigio del sangue. Il primo sabato di maggio, e poi, il 19 settembre, tutto è andato come doveva. Buon segno. Ma il 16 dicembre (è tradizione) Gennaro è più bizzoso del solito. E l´anno scorso, nonostante le invocazioni e i rimbrotti, il sangue non si è liquefatto.
San Gennaro ha la residenza ufficiale nel Duomo; nonché una rappresentanza (almeno un quadro, un altarino, qualche candela) in tutte le chiese napoletane. Lui però, sì è detto, non è uno di quei santi che non escono mai di casa; anzi, sta sempre a girare per i vicoli e ad aleggiare nell´intero golfo di Napoli. A partire da Pozzuoli, dove, nel 305, l´allora vescovo di Benevento venne decapitato dai soldati di Diocleziano. Sull´esatta ubicazione del luogo della morte girano comunque varie indicazioni. Secondo alcuni il santo è stato ucciso proprio nella Solfatara, nell´area di un camping; secondo altri un po´ più in là, dove c´è la pizzeria. La pietra che ha fatto da ceppo (si dice; ma si dice anche che non è vero; però chissà) sarebbe infine incastonata in un muro della vicina chiesetta di San Gennaro alla Solfatara, tra le lapidi che celebrano i prodigi dell´«ebullitione liquescente».
La prima liquefazione di cui si abbia notizia certa - il 17 agosto del 1389, a Napoli - è ricordata da una testa del martire collocata ad Antignano, in cima a via Salvator Rosa. Proprio sotto il naso del Santo è piazzato, come fosse un´offerta votiva, un bidone di immondezza che stracolma su tutto il marciapiede. Non sarà un gran segno di devozione; ma nemmeno uno sfregio. San Gennaro è abituato a condividere tutto con i napoletani, anche l´immondezza. Un rapporto particolare, che risale al Cinquecento.
A dirla dall´inizio, la carriera del vescovo beneventano comincia già nel 432, quando viene proclamato protettore della città. Quell´anno c´era una terribile eruzione. Sant´Agrippino, il vecchio patrono, non riusciva a placare il Vesuvio. Si prova con Gennaro, che compie il miracolo; detronizzando Agrippino. Per quasi mille anni, tuttavia, anche Lui rimane un santo come tanti altri. A un certo punto si perdono perfino le tracce delle ossa, rubate nel 831 da un principe longobardo, portate a Benevento, nascoste e dimenticate per secoli sotto un altare. Verranno ritrovate solo alla fine del Quattrocento, per essere ricongiunte trionfalmente alle ampolle con il sangue.
Nella navata destra del Duomo, sul pavimento, una striscia di marmi bianchi delimita i confini di un piccolo Stato nello Stato della Chiesa. Un passo. E si entra nel territorio della Deputazione della Real cappella. La cappella, con l´annessa sacrestia e l´oratorio, sono esclusi dalla giurisdizione della Curia e amministrati da un consiglio cittadino, istituito nel 1527. Anche quell´anno, a Napoli, era stato davvero disgraziato: la peste, la guerra tra Francia e Spagna, un´eruzione. San Gennaro si era dato da fare. E l´intera città, per ringraziarlo, aveva votato la costruzione di una nuova cappella, affidata alle cure di dodici rappresentati, due per il popolo, dieci per i nobili. Nelle ampolle, conservate in un grande armadio d´argento, c´è il sangue del martire. Raccolto, narra una voce popolare, da alcune pie donne («Come no?! Erano in tre, due del Vomero e una di Mergellina»): le antenate, si presuppone, delle attuali «parenti» del Santo, titolari di un filo diretto con il protettore e custodi del canto - «Jesce e facce grazia» - che invoca il miracolo della liquefazione.
Ketchup? Sì, proprio il ketchup. E´ l´esempio più facile per capire cosa sia la tissotropia, il fenomeno per cui una materia diventa più fluida se sottoposta alla sollecitazione di qualche piccola scossa, per tornare poi più solida se lasciata indisturbata. Insomma, un prodotto da agitare prima dell´uso. Il Cicap, Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale, dubbioso su quello che la Chiesa non considera proprio un miracolo, ma pur sempre un «fatto mirabolante», ha ricostruito un gel tissotropico che ha l´aspetto e i comportamenti del sangue di San Gennaro. La ricetta del Cicap, basata su materiali reperibili anche nel Medioevo, contempla carbonato di calcio (sotto forma di guscio d´uovo), cloruro di sodio (come dire sale comune), un pizzico di cloruro ferrico (presente in un minerale reperibile sul Vesuvio), acqua quanto basta. Non è il sangue di San Gennaro, ma qualcosa che gli assomiglia: qualche scossetta e il solido diventa liquido. Il preparato del Cicap, tuttavia, ha una data di scadenza che non supera i due anni. San Gennaro va avanti da settecento. E questo spiega, tra l´altro, lo sfarzo dei suoi tesori.
Accanto al Duomo è in corso una mostra dove è possibile ammirare una parte del tesoro accumulato da sette secoli di donazioni. C´è la mitra, che conta 3.328 diamanti, 198 smeraldi, 168 rubini... la collana, un malloppo di catenoni d´oro e di croci stracariche di zaffiri e smeraldi... calici e pissidi... Un patrimonio immenso. Inalienato. E inalienabile, anche quando ci sono i conti da pagare e i finanziamenti del Comune non bastano più. Il principe Fabio Albertini di Cimitile, attuale vice presidente della Deputazione (presidente onorario è il sindaco di Napoli), non sempre riesce a far fronte agli affreschi da restaurare e agli infissi da risistemare. Anche adesso nella cappella stanno montando i ponteggi: «Una ripulitura: 40 mila euro». La Deputazione, così, cerca di adeguarsi ai tempi, percorrendo nuove strade, come questa esibizione del tesoro, una novità che proietta San Gennaro dall´era delle donazioni a quella delle sponsorizzazioni.
Il culto di San Gennaro è evidentemente anche un po´ pagano. E il patrono di Napoli siede simbolicamente al centro di un Pantheon di 51 compatroni, ognuno con la sua specialità. In materia di Protezione civile, ad esempio, il protettore si appoggia a Sant´Emidio, per i terremoti, e a Sant´Irene, per i fulmini. Sempre rispettando le altrui competenze. Come l´ultima volta che è uscito dalla cappella per affrontare una situazione d´emergenza - nel 1944, sul Vesuvio - ed è rimasto in seconda linea, nascosto sotto un telo, mimetizzato, pronto a entrare in azione solo se il collega deputato alla protezione del paese minacciato dalla lava, San Sebastiano, si fosse trovato in difficoltà. Per sapere che faccia possa avere un santo simile non basta così rivolgersi ai dipinti di Luca Giordano o del Domenichino. San Gennaro è anche quello delle pitture naif, che tiene sulle ginocchia Maradona: il patriarca di una religiosità sintetica, tutta espressa da una preghiera da quattro parole - San Gennaro, pensaci tu - e da una summa teologica affidata, in antitesi ai latinismi della Chiesa romana che arzigogolava di un suo possibile declassamento nel calendario ecclesiastico, a una semplice scritta murale: «San Gennà, futtatenne».
Tragedia e commedia, liturgia e scaramanzia: una fede esportata dagli emigranti in tutto il mondo. A ricordare il luogo dell´ultima preghiera prima dell´imbarco sui bastimenti che portavano tanti Gennari a New York, Toronto, Melbourne, San Paolo, è rimasta, davanti all´ingresso del vecchio porto, una colonna sepolta dal traffico e ignorata da tutti. Come nessuno, del resto, sembra badare alla lapide che a Santa Caterina a Formellio rievoca un´eruzione del 1631. Il Vesuvio era davvero incazzato. Il santo, portato in processione al cospetto del vulcano (che ora, coperto dai palazzi non si vede più), era però riuscito a far cambiare direzione alla nube nera che minacciava la città. Sul monumento, invasati in una mezza bottiglia di minerale, ci sono, quantomeno, due fiori appassiti. Poi tre fiori di plastica, quattro bottiglie vuote di birra nazionale, i cartoni del poveraccio che dorme sull´altare di questo marciapiede. San Gennaro, però, non si offende. Risiede nell´alto dei cieli, ma vive nei bassi. Coabita. «Pe lu Pate, e lu Figlie e lu Spiritussante».
Un logo perfetto per credenti e non
di Marino Niola
Il vero Dio di Napoli. Così Alessandro Dumas definì San Gennaro. Un´esagerazione che coglie però una profonda verità. Perché il patrono partenopeo è da sempre il signore incontrastato della devozione dei napoletani. Ma è anche uno straordinario emblema civico. E lo è a tal punto che le ampolle che contengono il suo sangue sono ancora oggi affidate a una deputazione laica nominata dal Presidente della repubblica e guidata dal sindaco. La centralità di San Gennaro non è dunque solo religiosa, ma anche politica. Il martire napoletano è un´icona, un protettore e un simbolo identitario. Un logo ad alta definizione. Al punto che negli anni ´80 Moschino lanciò in tutto il mondo una t-shirt con l´immagine del santo e la scritta "I love San Gennaro". Un perfetto pittogramma glocal.
Tutto questo grazie al sangue miracoloso che il santo dei napoletani continua a "versare" generosamente. È anche per questa sua capacità di rappresentare l´identità collettiva, al di là delle divisioni tra credenti e non, che nei secoli la vox populi ha sempre letto il miracolo come un avvertimento soprannaturale alla città intera. Da interpretare alla stregua di un antico oracolo. Se non si scioglie è cattivo segno. Se si scioglie San Gennaro ha detto sì. Certo, il prodigio è molto vicino al confine tra religione e magia. E i migliori spiriti d´Europa, da Montesquieu a Goethe a Nietszche, si sono interrogati sul mistero del sangue che rivive. Ma per i napoletani la questione non è mai stata l´autenticità del fenomeno. Perché per i credenti la sua verità è fuori discussione. Per i non credenti invece lo è la sua falsità. In fondo la liquefazione resta un grande gioco sociale che unisce scettici e devoti. Forse è questo il vero miracolo.
Corriere della Sera 14.12.07
L'intervista. Giordano: verifica vera No al voltagabbana Dini
«Nessuno ci condizioni, il governo rischia»
di Paola Di Caro
ROMA — A Lamberto Dini che minaccia di far cadere il governo se Prodi seguirà «ancora le politiche della sinistra», Franco Giordano — segretario del Prc — replica con altrettanta durezza: «Nessuno può chiederci di volgere la testa dall'altra parte davanti alla realtà drammatica del Paese. Andremo a una verifica vera, avvieremo una consultazione reale del nostro popolo, e la proporremo a tutta la Sinistra ». Una verifica necessaria perché «quando, come a Torino, si fischia un leader sindacale che rappresenta al massimo livello la condizione operaia, la crisi da politica diventa sociale, e non c'è più tempo per parole e giravolte ma solo per i fatti. Ne va della nostra dignità».
Quali saranno allora le questioni che porrete al tavolo della verifica di gennaio?
«Senza dubbio il tema dei salari, perché in Italia 7 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.000 euro al mese; quello dei prezzi, visto che in 5 anni si è perso grande potere di acquisto; la lotta alla precarietà, problema enorme per i giovani; le condizioni, i ritmi, la sicurezza del lavoro. E poi, esigiamo chiarezza su temi come i diritti civili, che sono stati accantonati, sulle alternative al conflitto bellico, sul disarmo, sull'ambiente. Ed è anche ora che si torni a parlare di una moratoria per la base del Dal Molin».
Onorevole Giordano, lei sa che Dini porrà richieste pressoché opposte alle sue...
«Dini non può chiederci di non muoverci partendo da quella che è la realtà del Paese, nè di volgere lo sguardo dall'altra parte, perché è impossibile».
Vi diranno che siete i soliti estremisti irragionevoli.
«Estremisti? Noi abbiamo aperto discussioni, chiesto chiarimenti, mosso critiche anche aspre all'operato del governo, ma abbiamo sempre votato a favore».
Con chi ce l'ha?
«Le forze di centro, interne o esterne al Pd, spesso non discutono e poi alla fine votano contro. Beh, chi danneggia più il governo, noi o loro? Adesso basta, non tollereremo più che il voltagabbana di turno condizioni le decisioni di tutti e gli accordi presi».
Su questa posizione, il rischio è che cada il governo e magari che si rompa l'alleanza tra la Sinistra e il Pd.
«Certo, è un rischio. Ma devo dire che su questo specifico punto sono in dissenso da Nichi Vendola: per me infatti non è detto che il Pd debba essere il nostro interlocutore fondamentale. E non è detto che il nuovo soggetto unitario possa vivere e morire solo all'interno del governo».
Se mette in conto anche questo, la caduta del governo non è ipotesi così lontana.
«Noi lavoriamo per un accordo, sia chiaro, non perché la situazione precipiti. Ma la verifica deve essere vera, e non sono in grado di prevedere come finirà».
E se il governo cade, si deve tornare a votare o andare ad un esecutivo istituzionale?
«La legge elettorale sarà decisiva a questo fine. Noi siamo per il tedesco puro, ma la realtà è che, se non si parte da questo modello, non ce ne sono altri: c'è solo il referendum».
Che per voi è il male assoluto.
«È devastante, perché determina un meccanismo di proliferazione delle forze politiche, perché annega l'autonomia del soggetto unitario e plurale visto che l'obbligata confluenza in un listone lo fa venire meno».
Per questo siete tra i pochi ad apparire disponibili sulla bozza Bianco?
«Quella bozza, che pure non è più lo spagnolo e nemmeno il Vassallum, presenta ancora problemi rispetto al tedesco. Due per noi sono decisivi: serve il voto disgiunto tra collegio e lista, e serve il riparto nazionale. Con queste modifiche, potremmo garantire una pluralità di rappresentanza e assieme andare incontro al bisogno di governabilità».
Ma i vostri alleati Verdi e Pdci sono contrari.
«Lo capisco, ma le divisioni sono ovunque: nel Pd c'è contrapposizione netta, basta vedere come la pensa Parisi, e anche Prodi non so bene cosa voglia sulla legge elettorale...».
È previsto un vertice per fare chiarezza.
«Già, e mi sembra paradossale si faccia un vertice per l'unica materia che non riguarda la politica del governo ma la libera espressione del Parlamento, e non lo si faccia sul protocollo sul welfare: lo definirei un metodo di confronto osé».
Però c'è chi, come Mastella, minaccia di far cadere il governo sulla legge elettorale.
«Trovo singolare che il governo possa cadere non su temi come guerra, lavoro, diritti civili, ma per l'autoriproduzione di sé. Non è un bello spettacolo».
il Riformista 14.12.07
La Cosa Rossa filosofica
FILOSOFIE. L’ORIGINALE BIOGRAFIA DI MICHELE CILIBERTO EVIDENZIA I LEGAMI DI PENSIERO E VITA
di Livia Profeti
Il materialismo di chi non divide «natura naturata», cioè umana, e «natura naturans», cioè divina, offre radici culturali ben salde per i temi di bioetica. Viene negato il peccato originale e messo al centro della civiltà il corpo, in ottica post-cristiana
Negli ultimi tempi, l’ambiente culturale legato al PD ha proposto la figura e il pensiero del filosofo razionalista Baruch Spinoza tra i propri riferimenti culturali, quale portatore di valori democratici, moderazione, sicurezza, ordine. Molto prima Remo Bodei ne aveva evidenziato la carica politica nel suo Geometria delle passioni, e recentemente ha chiarito che a suo parere la genialità del filosofo olandese consiste nell’idea che gli uomini siano «malvagi perché infelici» a causa del loro dibattersi nelle passioni; compito della filosofia spinoziana è dunque quello di liberarli «dai prodotti dell’immaginazione» fornendo loro un «mondo sicuro» (Left n.37/07). Spontaneo cogliere in queste frasi l’eco dell’insistenza di molti esponenti del PD sul problema della sicurezza, sebbene il primato della razionalità sulle emozioni non sarebbe comunque sufficiente, secondo Spinoza, a garantire l’ordine. A tale scopo bisognerebbe raggiungere la «saggezza» dell’amor dei intellectualis, ovvero quell’amore per Dio proposto come valore dalla importante componente cattolica del PD, riluttante sui temi della libertà sessuale e della bioetica. Vista da questa prospettiva, effettivamente la filosofia di Spinoza sembra fornire lo sfondo valoriale ideale per il “compromesso storico” sancito con la nascita del PD.
La scorsa settimana è nata la Sinistra l’arcobaleno, e la domanda che sorge spontanea è se anche per questo nuovo soggetto politico Spinoza potrebbe essere considerato un filosofo di riferimento. La risposta sembra essere negativa, ed in primo luogo a causa dell’algido stile spinoziano, così diverso dalla passione e dalla dimensione utopica che hanno sempre abitato il miglior pensiero di sinistra. Volevo la luna è il titolo della recente autobiografia di Pietro Ingrao; «la politica è anche emozioni, sentimenti», ha dichiarato Fausto Bertinotti entrando agli Stati generali: espressioni che corrispondono al modo di sentire più genuino del loro popolo.
Se rimaniamo nell’ambito della filosofia pre-illuministica, è piuttosto un’altra la figura maggiormente vicina a questo modo di rapportarsi al mondo: quella di Giordano Bruno. Un’ipotesi che emerge rafforzata dalla lettura di Giordano Bruno, il teatro della vita (Mondandori, 2007), originale biografia filosofica elaborata da Michele Ciliberto, uno dei massimi studiosi di Rinascimento. In questo testo molti sono gli aspetti della persona e del pensiero bruniano dai quali emerge quest’affinità elettiva, a partire dalla sua «prospettiva tesa a congiungere riforma individuale e riforma universale del mondo», tendenza che in controluce si può intravedere in tutte le figure più limpide della genealogia di sinistra, giovane Marx compreso.
Ma è soprattutto al materialismo bruniano che la Cosa rossa potrebbe far riferimento per trovare radici culturali che offrono sponde ben più salde alle sue posizioni sui temi bioetici. In Bruno infatti non c’è la distinzione spinoziana tra natura naturata (umana) e natura naturans (divina) da cui la prima deriva, perché nel Nolano è la materia stessa ad essere “divina”, in senso tutt’altro che ascetico o asessuato. Come spiega Ciliberto, alla base del suo rifiuto «del ‘peccato della carne’ c’è la sua concezione della natura, dalla quale discende in modo diretto la sua negazione del peccato originale. A Bruno era radicalmente estranea l’idea di una natura radicalmente corrotta (…) Nella concezione della natura Bruno si mosse, con coerenza, in una prospettiva nettamente post-cristiana, proclamando il primato del corpo e della corporeità, intesi, l’uno e l’altra, come principio di verità». Lontanissimo dalle ossessioni ecclesiastiche, Bruno non nega né le donne né la sessualità, e la sua “verità”, che non separa il pensiero dall’intuizione/immaginazione, è ancorata ad un corpo sessuato e non esiste al di fuori di questo: facile comprendere perché la Chiesa non l’abbia mai riabilitato.
Anche le tematiche ambientali arcobaleno possono trovare il loro antenato nella concezione bruniana della natura, perché un pensiero che si riconosce nella materia è intrinsecamente impossibilitato a distruggerla; Ciliberto sostiene infatti che secondo Bruno con la natura occorre «cooperare».
Dunque si potrebbe ipotizzare che Spinoza stia al PD come Bruno alla Cosa rossa? Forse si, e se questo piccolo/grande genio fosse ancora vivo, probabilmente lo sentiremmo proclamare: non uno, ma infiniti altri mondi sono possibili.
il manifesto 14.12.07
Quell'antipolitico principio di maggioranza
Incontri Critica alla democrazia. Un seminario di Mario Tronti apre un ciclo di autoformazione alla Sapienza di Roma
di Francesco Brancaccio e Luca Cafagna
La democrazia sembra essere uno dei pochi concetti sopravvissuti alla crisi del moderno e della politica moderna. Il discorso democratico è oggi più che mai egemone, nelle discipline universitarie, nel linguaggio politico, nella «opinione pubblica». Ma ancora: nei nuovi dispositivi di guerra, nell'economia, nelle forme della governance, persino nei provvedimenti securitari.
Quando si mette in discussione la democrazia lo si fa esclusivamente in nome del suo aggettivo (rappresentativa, comunitaria, diretta, contrattuale, partecipativa). Spostare l'asse della critica sul sostantivo, criticare la democrazia sans phrase, o la democrazia politica - per dirla con Mario Tronti - questo è stato il punto di partenza del seminario organizzato dal Collettivo Sp2 di Scienze Politiche dell'Università La Sapienza di Roma. Proprio Tronti ha aperto il ciclo di autoformazione Per una critica della democrazia nel Novecento, che proseguirà affrontando le varie teorie democratiche (Arendt, Rawls, Habermas, Nozick) per poi concludersi con una lezione di Toni Negri su Spinoza.
L'obbiettivo è esplicito: indagare l'inattualità della critica alla democrazia come campo di ricerca all'altezza della nuova composizione sociale che ha innervato i movimenti degli ultimi anni. Democrazia politica significa per Tronti democrazia reale: proprio come per il socialismo, è la sua stessa realizzazione ad annullare la possibilità di un'alternativa ideale. Tronti ha ripercorso, in chiave genealogica, la costellazione concettuale che vive tra Lenin e Schmitt, focalizzando in particolare l'attenzione su tre assi critici. Innanzitutto il principio universalista basato sull'identità del popolo sovrano, versione secolarizzata del concetto teologico di «popolo di Dio». In quest'ottica anche le primarie, che oggi rimbalzano da una sponda all'altra dell'Atlantico sotto l'etichetta della partecipazione diretta, simboleggiano piuttosto l'investitura sacrale di un capo da parte del suo popolo. Dunque, in quanto neutralizzazione e spoliticizazzione del conflitto di classe, è la democrazia stessa ad essere, ab origine, antipolitica.
Inoltre, essendo fondata su un preteso universalismo, la democrazia è pensata per essere esportata, laddove è necessario attraverso la guerra. Proprio la guerra è il secondo asse di riflessione, che attraverso Lenin diviene un dispositivo ambivalente: guerra come prosecuzione della politica capitalistica ma anche come eccedenza del conflitto sociale rispetto alle istituzioni democratiche nazionali. A partire da tale ambivalenza l'azione politica rivoluzionaria è per Lenin rottura della linearità storica e, dunque, dell'immagine di uno sviluppo espansivo del processo democratico.
L'ultimo asse della «lezione» è la contrapposizione tra democrazia e libertà, quest'ultima intesa come «libertà non di dire il pensiero, ma di pensare il pensiero, che non è quello dominante». Da questa angolazione, il potere costituente - enigma e, al contempo, fattore di crisi di ogni costituzione democratica - acquista la sua pienezza in quanto potere costituente di libertà, «esercizio di legittimità che non coincide necessariamente con la legalità». Per dirla in breve: «la democrazia non è un valore», ma è al contrario basata sul principio quantitativo della maggioranza, in ciò del tutto equivalente all'economia politica.
Sostenere ciò in un'aula universitaria trova un immediato riscontro con i meccanismi di quantificazione del sapere determinati dai recenti processi di riforma. È proprio da questo punto di vista che l'autoformazione emerge con tutta la sua forza in quanto qualità contrapposta alla quantità, pratica di minoranza irriducibile al principio di maggioranza e al minoritarismo ad esso subalterno. Proprio l'assunzione di questo principio, sostiene Tronti, ha infatti rappresentato il suicidio del movimento operaio. E, potremmo aggiungere, della «sinistra reale».
Se, come dice Tronti, dopo averla radicalmente messa a critica, Marx non è però del tutto fuoriuscito dall'economia politica, allora la frontiera della ricerca si situa oggi sull'andare oltre la democrazia.