sabato 15 dicembre 2007

Repubblica 15.12.07
Polemiche per il testo sui valori anticipato da Repubblica. Divergenze anche sul congresso e sulle primarie per i parlamentari
Pd, laici in allarme: non sarà quello il manifesto
di Goffredo De Marchis


ROMA - Il presidente della commissione Manifesto Alfredo Reichlin taglia corto: «Un fatto è certo: non sarà quella la Carta dei valori del Partito democratico». Perché il documento preparato dal filosofo cattolico Mauro Ceruti è solo la prima bozza, ma anche perché sono numerose le voci che gli chiedono di aggiustare il tiro. Questo testo provvisorio appare troppo sbilanciato verso un campo valoriale dove al centro c´è soprattutto la religione. Che significa: paletti per la scienza, limiti della politica davanti ai temi etici, la famiglia come nucleo della vita di ognuno. Alla fine, sugli argomenti più delicati, in un partito che dovrebbe fare la sintesi tra laici e cattolici, a prevalere sarebbe la libertà di coscienza. «Che è una formula prevista anche negli statuti dei gruppi parlamentari del Pd», osserva Giorgio Tonini, senatore cattolico molto vicino a Walter Veltroni. «Detto questo - ammette - la libertà di coscienza non può essere una proposta politica».
L´offensiva dei laici non si è fatta attendere anche se per il momento si nasconde nelle pieghe delle mail che Ceruti riceve ogni giorno e nella risposta secca di Reichlin. Il filosofo, insieme con il presidente del gruppo di lavoro, si prepara a rimettere le mani sulla bozza in vista della prossima riunione, il 12 gennaio. «Accoglierò i contributi che stanno arrivando». Ma non condivide l´idea di uno stravolgimento. «Quando parlo di limiti della scienza non voglio introdurre un divieto o mettere un bavaglio - spiega -. Ma il governo della scienza non è mica un problema ideologico, siamo di fronte a questioni inedite ed è in gioco la responsabilità della politica». Nella visione di Ceruti, perciò, la laicità «non è agnosticismo, non può essere uno spazio vuoto privo di simboli, bensì ascolto di tutte le culture». E «che la cultura religiosa sia tornata nell´agorà della politica è un dato di fatto - avverte -. Del resto, rappresenta milioni di uomini».
Tra le tante osservazioni critiche, solo una, racconta il relatore, demolisce l´impianto del suo testo alla radice. Gliel´ha spedita il matematico Piergiorgio Odifreddi (che nei suoi libri sostiene "il cristianesimo è una religione per letterali cretini"). «Lui non si pèuò nemmeno definire un laico - dice Ceruti - Diciamo che non è proprio interessato all´incontro con una cultura spirituale, laicità per lui è sinonimo di diniego assoluto della religione. Ma il suo è un retaggio del passato».
Più prosaica ma anche più animata è la discussione sullo statuto, le regole del Pd. Il comitato incaricato di scrivere il testo si è dovuto aggiornare a lunedì. Niente intesa sui punti chiave, a cominciare dal congresso. Per Salvatore Vassallo non deve proprio esistere uno strumento che gli assomigli. Bisogna rivolgersi volta per volta agli elettori. Ds, Popolari e lettiani invece prevedono almeno una fase congressuale in cui sono gli iscritti a indicare per le primarie liste, candidati, piattaforme politiche. Ma si è aperto anche un nuovo fronte. Gli ex Ds e Dl chiedono primarie per scegliere non solo sindaci e governatori, ma anche i parlamentari. Vassallo risponde di no, per deputati e senatori no. Il confronto sui parlamentari infatti può diventare un´altra strada per misurare i pesi delle correnti dentro il Partito democratico. Anche perché con la legge attuale sono i vertici dei partiti a decidere chi inserire nelle liste senza preferenze.

Repubblica 15.12.07
Niemeyer "I miei 100 anni". Se l’architetto inventa il paesaggio
di Achille Bonito Oliva


Oscar Niemeyer, uno dei più grandi architetti contemporanei, compie cent´anni. E racconta il suo lavoro, il suo rapporto con la natura e le sue opere. «Un giorno - spiega il maestro - Lùcio Costa disse che il paesaggio di Brasilia era la mia architettura. Ed aveva ragione: era una regione triste, vuota e senza rilievi che, in contrasto, richiedeva un´architettura più agile, più disinvolta che esige l´uso del cemento armato che io preferisco». Tra i suoi progetti anche quello del nuovo auditorium di Ravello.
Oscar Niemeyer, la sua architettura ha sempre cercato una relazione con la natura, non un´integrazione ingenua e ottimistica ma piuttosto dialettica e complessa. I suoi progetti sono una ricerca della naturalezza intesa come concetto?
«L´architettura deve adattarsi alla natura senza modificarla. Nel progetto della casa di Canoas, per esempio, ho lavorato rispettando i dislivelli del terreno».
Il suo rapporto con Burle Marx costituisce un esempio di sodalizio quasi «rinascimentale» tra due architetti, uno della costruzione e uno dei giardini. Che relazione ha avuto con lui?
«Burle Marx è stato un grande paesaggista. Prendendo lo spunto dai giardini giapponesi ha fatto sua l´idea che la natura deve prevalere, come se la mano dell´uomo vi fosse appena intervenuta. Dei giardini portoghesi, realizzati in Brasile, ha mantenuto il concetto di creare livelli differenti ricreando così gli spazi più intimi che li caratterizzavano. Pampulha è stato il mio primo progetto e, probabilmente anche il primo giardino disegnato dal Burle. Era senza alcun dubbio un paesaggista esperto, che rispettava e amava la natura e sapeva così bene coltivarla e difenderla».
Ritengo che con Brasilia lei abbia costruito un nuovo tipo di natura in cui artificio e organico coesistono. E´ d´accordo?
«Un giorno Lùcio Costa disse che il paesaggio di Brasilia era la mia architettura. Ed aveva ragione: era una regione triste, vuota e senza rilievi che, in contrasto, richiedeva un´architettura più agile, più disinvolta che esige l´uso del cemento armato che io preferisco».
L´architettura moderna non è sempre occupazione di spazio o progettualità contro il caos della natura. Può avere anzi una funzione ecologica.
«Ho già parlato del rapporto tra l´architettura e la natura. Di come l´ho concepito osservando la natura piana, l´orizzonte infinito di Brasilia. Adesso preferisco trattare dello spazio nell´architettura; non solo dello spazio che la racchiude, ma di quello che l´architetto crea nell´elaborare un progetto. E´ un compito così importante che nel disegnare due edifici il progettista deve per prima cosa definire lo spazio esistente tra di essi. L´architetto deve affrontare il problema dello spazio durante tutto lo sviluppo dei suoi progetti. Comincia con la distribuzione dei suoi edifici sul terreno, cercando di creare un buon rapporto tra volumi pieni e spazi vuoti. Poi questo problema si ripropone esternamente e internamente in ciascuno dei suoi progetti. Nel disegnare, ad esempio, un colonnato, l´architetto dovrà creare e proporzionare lo spazio fra le colonne, altrettanto importante delle colonne stesse. E, se per caso ha letto Rilke, lei ricorderà con piacere questa frase: "Come gli alberi sono magnifici, però ancor più magnifico è lo spazio sublime e commovente che esiste tra loro". Se tuttavia considera l´invenzione architettonica come sua parola d´ordine, il problema dello spazio si moltiplica. Quando progettai il colonnato per la sede di Mondadori a Milano, evitai di creare spazi uguali tra le colonne. Ispirato dall´invenzione architettonica ho progettato spazi diversi tra loro, variandoli da quindici a tre metri in una sequenza che mi sembrava musicale».
Il suo Museo di Niteròi costituisce la prova di una vitalità creativa senza limiti. L´idea di piantare un contenitore di arte contemporanea su uno scoglio è il segno della relazione esistente tra le sue forme e il mare. L´architettura, dunque, è matrice di energia e modello di movimento?
«Il mare, un lago, un semplice specchio d´acqua sono sufficienti per dare all´architettura un´altra dimensione e bellezza. Ed è quello che ho scoperto nel progettare il Museo di Arte Contemporanea di Niteròi, affacciato sulla baia di Guanabara. Il terreno era esiguo, l´edificio doveva assolutamente essere in posizione centrale, e da ciò l´architettura si è sviluppata naturalmente. Per preservare il paesaggio, doveva galleggiare nello spazio, sotto al quale si distendeva un panorama magnifico. Non volevo che la soluzione si limitasse a due volumi sovrapposti, come avviene di solito, ma puntavo verso una forma che sorgesse dal terreno e ne ricalcasse il profilo con rette e curve. Ed ecco che il mio Museo è lì ad arricchire il paesaggio, destando, grazie alla sua forma inconsueta, quella curiosità che un´opera architettonica come quella dovrebbe sempre suscitare».
Noi tutti festeggiamo i primi suoi cento anni. Il XX secolo le appartiene per intero. L´ha attraversato tutto, sfondando il 2000 ed entrando nel Terzo millennio. Suoi compagni di strada sono stati protagonisti della modernità. Eppure in Brasile esiste una cultura autoctona, frutto di una sensibilità tropicale e della lezione delle avanguardie storiche europee.
«Sono completamente d´accordo. Questo è avvenuto per tutte le arti. Pensa in letteratura a Mario de Andrade ed alla Lispector, alla poesia concreta con il gruppo Noisgrandes (Decio Pignatari e i fratelli De Campos), alle arti visive Ligia Clark, Antonio Dias fino a Ernesto Neto. Insomma una cultura senza complessi edipici o di inferiorità capace di coniugare insieme sensibilità tropicale e rigore concettuale, vitalismo e progettualità».
Come è nata l´illuminazione del suo segno che ha portato al progetto del nuovo auditorium di Ravello?
«Dai lunghi colloqui in tanti anni con il mio amico Domenico De Masi, Presidente del Festival di Ravello. Fantasticando sul luogo mitico, toccato da Nietzsche e Wagner, sede di concerti prestigiosi. Ho pensato allora ad un opificio del bello, capace di ospitare tutte le arti più avanzate, funzionante per tutto l´anno, ben bilanciato architettonicamente tra le bellezze di un paesaggio incomparabile, quello della costiera amalfitana. Così il mare di Rio de Janeiro arriva fino a Ravello».
Cosa pensa dell´ultima generazione di architetti? Troppo autoreferenziale e performativa?
«L´architettura deve bilanciare le sue forme innovative con la funzione. Non è una disciplina che può fermarsi al piacere dell´involucro, alla sorpresa delle apparenze. Credo che debba ecologicamente promuovere una nuova ospitalità all´uomo moderno e trovare un equilibrio tra il naturale e l´artificiale, tra l´organico e il costruire. Un´armonia difficile da raggiungere ma verso cui tendere».

Corriere della Sera 15.12.07
Sette giorni Il presidente della Camera e l'intesa con il Cavaliere
E Fausto sfida «i benpensanti» della sinistra
di Francesco Verderami


Porgendo la mano a Silvio Berlusconi, aveva messo tutto in conto. Ora Fausto Bertinotti è diventato bersaglio di critiche e censure.

La colpa di Bertinotti è di aver accettato il dialogo con il Cavaliere. E dinanzi all'accusa il presidente della Camera lancia una sfida di «politica culturale» agli intellettuali di sinistra benpensanti, li invita a superare «i pregiudizi», a smetterla con gli «integralismi », e a sostenere il dialogo sulle riforme, strada che è comunque intenzionato a percorrere fino in fondo. Perché la partita va al di là della trattativa sulla legge elettorale: «Possibile non si capisca? Possibile non si avverta il sentimento profondo del Paese? Possibile non si comprenda che la classe dirigente corre il rischio dell'apartheid? Possibile non si veda che se non ce la facciamo, stavolta falliamo tutti e soprattutto cade tutto?».
Bertinotti confida che attraverso questa chiave di lettura possa essere compreso il significato della sua mano tesa verso Berlusconi, descritto da molti nel centrosinistra come un «nemico» con cui non si deve parlare per non perdere la propria verginità politica. Si rende conto delle ostilità che incontra, ne parla quotidianamente al telefono con Walter Veltroni, vittima anche lui di allusioni e battute tendenziose. Ma resta fiducioso: «Sono fiducioso per disperazione». Concetto terribile, espresso di getto, quasi volesse levarsi un peso. A suo dire, d'altronde, se il dialogo fallisse, dopo non ci sarebbe nulla, tranne l'immagine del dramma di Torino alla ThyssenKrupp, dove «ho percepito una separazione, un cancello, tra gli operai che stavano dentro la fabbrica e si sentivano soli, e noi che venivamo visti come quelli che stanno fuori e non muoiono bruciati».
È il pericolo dell'«apartheid» che lo preoccupa. E se ieri, con incredibile coincidenza, Giampaolo Pansa sull'Espresso lo ha disegnato come «il grande puffo», Furio Colombo sull'Unità lo ha intruppato nello «schieramento dei super partes berlusconiani», e la senatrice comunista Manuela Palermi su Liberazione l'ha accusato di sacrificare la Cosa rossa sull'altare dell'intesa con Veltroni e il Cavaliere, Bertinotti non ha ceduto alla tentazione di voltare le spalle alle critiche. Ha preferito la fatica del confronto, che è diventata sfida: «È una sfida di politica culturale. Io penso infatti che il dialogo sia necessario per rinnovare il nostro sistema e agganciarlo al grande processo di trasformazione dei partiti che è in atto in Europa. La legge elettorale è solo un tassello, il primo passo. E per compierlo bisogna rischiare».
«Io rischio», dice Bertinotti: «Iniziamo a rischiare tutti. Iniziamo a rompere le logiche opportunistiche, a superare i settarismi, ad abbandonare interessi di piccolo cabotaggio, in base ai quali, io che sono girotondino non ci sto, io che sono un piccolo partito non ci sto, io che punto a preservare una posizione di potere non ci sto. Con la politica del "non ci sto" siamo diventati "politiglia", come ha scritto Giuseppe De Rita sul Corriere. Perciò sono convinto che sia giusto dialogare con tutti, anche con Berlusconi ». In fondo, come ha spiegato ai suoi, il dialogo porta a un processo di «auto-responsabilizzazione » del Cavaliere: la mano tesa è un segno di fiducia, toccherà a lui non dilapidarla.
È l'unica strategia per uscire dal pantano, «lo penso anch'io che sono forse il più prevenuto di tutti verso Berlusconi», dice Ciriaco De Mita, infastidito dagli «attacchi pretestuosi» al presidente della Camera: «Questa purtroppo è la prova che si fa fatica a vincere la stupidità. Perché il Cavaliere stavolta ha compiuto davvero un gesto di straordinaria intelligenza politica, prestandosi al dialogo. Finalmente accetta di confrontarsi senza sotterfugi, e apre la strada a un bipolarismo adulto. Per questo dovremmo essere tutti contenti». Bertinotti, venuto a conoscenza delle parole di De Mita, ha sorriso come a voler sottoscrivere il ragionamento dell'ex segretario democristiano.
La sfida culturale oltre che politica a sinistra è lanciata, «io ho deciso di rischiare». Bertinotti è consapevole che il fallimento non rappresenterebbe la sconfitta di qualcuno ma di tutti. E spera che, a forza di insistere, in futuro sarà buona regola tenere cordiali rapporti con l'avversario pur tenendo la distanza. Oggi qualsiasi gesto distensivo desta invece scandalo.
E figurarsi dunque cosa direbbero in quel mondo che si nutre di livore verso «il nemico », se sapessero di una telefonata che il presidente della Camera volle fare per solidarizzare con il Cavaliere. Erano i giorni in cui impazzavano su tutti i quotidiani e i settimanali le foto pruriginose che ritraevano l'ex premier in compagnia di alcune starlette, ospiti della sua villa in Sardegna, e sedute sulle sue gambe. Bertinotti lesse commenti di condanna e analisi politiche irridenti, perciò decise di alzare la cornetta: «Presidente — esordì — mi spiace molto, perché queste sono cose fastidiose. È già sgradevole che si scavi nella vita privata e si violi la privacy. Lo è ancor di più se tutto ciò viene usato come appiglio per attaccare l'avversario politico».
È collusione morale, quella di Bertinotti? E le regole di garanzia che ha chiesto per il «deputato Berlusconi» al procuratore di Napoli, sono un segno di complicità? Fabio Mussi, che pure non è del tutto convinto delle mosse di «Fausto», appoggia la sua sfida di «cultura politica»: «È ora di rifuggire dall'idea che non si parla con il nemico. E spero finiscano i tentativi di epurazione e di denigrazione. Sono retaggi che appartengono... al tempo che fu». Purtroppo sono «retaggi» che resistono.

Corriere della Sera 15.12.07
Il caso. Macaluso e Caldarola: pensino ai debiti. Colombo: contro gli Angelucci sciopero naturale
Cambia l'Unità, ex direttori divisi
Ingrao: no all'editore di destra. D'Alema: ma l'autonomia non è a rischio
di Gianna Fregonara


Veltroni e i giornalisti. Oggi l'incontro: il cdr chiede al leader pd di trovare altri soci e «diluire» la presenza di Tosinvest

ROMA — C'è Pietro Ingrao che si ribella e invita alla lotta. Lui che sull'Unità scriveva con Gillo Pontecorvo durante la Resistenza, lui che andava a vendere il giornale di porta in porta e che ne è poi diventato il direttore non può nemmeno immaginare un «approdo più infausto per un giornale comunista che finire nelle mani di un editore di un giornale di una destra estrema e fanatica ». C'è un ex direttore, il leader del Pd Walter Veltroni che questa mattina incontrerà il Cdr: i giornalisti gli hanno chiesto un incontro e lui «volentieri» ha accettato. Gli diranno di darsi da fare per trovare altri soci e «diluire» la presenza della Tosinvest del gruppo Angelucci, che è l'editore anche di Libero e del Riformista e sta per acquisire il controllo del giornale fondato da Antonio Gramsci. Una prospettiva che ieri ha provocato lo sciopero della redazione (oggi il giornale non è in edicola).
E poi c'è un altro ex direttore che oggi fa il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema, che non crede «che l'autonomia del giornale sia minacciata », come ha detto nella video chat con l'attuale direttore dell'Unità: «È giusto preoccuparsi, è giusto che i sindacati chiedano queste garanzie e di conoscere i piani editoriali». Ma sullo stravolgimento della linea editoriale è netto: «L'idea che il giornale possa essere trasformato in un foglio di destra è troppo sciocca da attribuire a chiunque».
Sembrano i tempi del periodo più doloroso del giornale, della chiusura nel 2000, di quando per un mese uscì solo su internet. «E adesso siamo da capo: perché gli editori si ritirano per i debiti. Questo dovremmo chiederci, non se questo diventa il giornale del dialogo con Berlusconi o no», commenta Emanuele Macaluso, oggi voce di primo piano del Riformista,
oltre vent'anni fa direttore dell'Unità. E invece il tema diventa proprio questo: come si adatterà il giornale alla nuova geografia politica, diventerà il giornale della sinistra riformista, benedirà il dialogo con Berlusconi o resterà sulla linea attuale? «Non credo che sarà la testata del Pd: a parte che ogni giornale ha una sua storia, ma Veltroni ha un'altra idea dei giornali, fa comunicazione con tutti, non vuole un giornale di partito », aggiunge Macaluso. Però i giornalisti vogliono attenzione: «Per questo penso che lo sciopero sia naturale », aggiunge Furio Colombo, ex direttore e oggi uno dei garanti che sta scrivendo lo statuto del giornale assieme ad Alfredo Reichlin. Naturale? «È uno sciopero preventivo, diciamolo pure », si arrabbia un altro ex direttore oggi deputato del Pd Peppino Caldarola: «Gli Angelucci comprano un giornale che altrimenti sarebbe nei guai e prima ancora che presenti un piano editoriale, gli devono fare l'esame del sangue... Bisognerebbe invece pensare che per fare i giornali ci vogliono finanziamenti, e questi si trovano sul mercato non nelle procure».
«Sarebbe un errore cambiare, l'Unità ha una fetta di mercato significativa, che non va abbandonata», suggerisce invece Furio Colombo. Ma intanto si susseguono indiscrezioni (ovviamente smentite dagli interessati) sul cambio di direzione. E ad ogni nome corrisponde una visione politica e giornalistica: «Magari Antonio Polito accettasse!», spera Caldarola, indicando l'ex direttore del Riformista oggi senatore della Margherita. «Dipende da che giornale si vuol fare. Non credo sia così semplice trasformarlo nel giornale del Pd. Una testata ha una storia e dei giornalisti», chiosa Paolo Gambescia, alla guida dell'Unità alla fine degli Anni Novanta. «Un cambio di direzione per cambiare la linea? Non è credibile, anche se Polito è un ottimo giornalista», commenta un preoccupato Alfredo Reichlin. Chi consiglia ai nuovi proprietari di non cambiare è Renzo Foa, che ora è editorialista del
Giornale: «Non condivido nulla di quello che pensano Colombo e Padellaro, ma trovo che sia una linea azzeccata: la sinistra riformista è già rappresentata da altri giornali».

Corriere della Sera 15.12.07
Il fondatore del Pds
Occhetto torna in campo e sceglie Sd: con Mussi come nell'89, sinistra nuova


MILANO — «Sono qui per riprendere un cammino. La scelta che faccio oggi è coerente con la svolta del 1989 e cioè quella di dare vita a una sinistra nuova».
Achille Occhetto, l'ultimo segretario del Pci, l'uomo della Bolognina, ha aderito ufficialmente a Sinistra democratica, il movimento creato da Fabio Mussi, e nato dalla scissione con i Ds.
In una conferenza stampa convocata alla Camera, seduto accanto al ministro dell'Università, il primo segretario del Pds si è lasciato andare a una battuta: «Veltroni ha fatto la sua campagna a favore del Pd dicendo che "se non ci fosse stato Occhetto e la svolta, io non sarei qui". Il fatto però — ha osservato ancora Occhetto — è che sono io a non essere lì». Peraltro, Occhetto ha spiegato di non essere «mai stato contrario all'idea di una grande forza che unisse socialisti, comunisti e cattolici» e i primi tentativi erano «la Carovana e l'Ulivo», ma questi erano «dal basso». Mentre il Pd nasce come «fusione e freddo» e «senza la parola sinistra». E allora bisogna «colmare un vuoto: è una questione di vita o di morte».

Corriere della Sera 15.12.07
Waterboarding. La Casa Bianca minaccia di porre il veto alla norma che proibisce gli interrogatori estremi
Sì del Congresso Usa a una legge che bandisce la tortura
di Mo. Ri. Sar.


Dopo la battaglia per un repentino ritiro dall'Iraq e quella per la condanna del genocidio degli armeni (naufragata in extremis), la Camera di Nancy Pelosi lancia una nuova sfida al presidente George W. Bush. Nell'approvare la nuova legge sul finanziamento dell'intelligence nel 2008 i deputati, ieri, hanno praticamente legato le mani alla Cia, inserendo una clausola che vieta qualsiasi tecnica di interrogatorio illegale come il waterboarding, una sorta di annegamento simulato che gli 007 hanno usato in passato per far parlare alcuni sospetti terroristi. Ora la Camera ha detto basta. Le agenzie d'intelligence, recita il testo approvato ieri con 222 voti a favore e 199 contro, dovranno seguire alla lettera le direttive del Manuale da campo dell'esercito, rispettose della Convenzione di Ginevra.
Ma c'è di più. La legge prevede anche di bloccare il 70% del budget (circa 43 miliardi di dollari, anche se la cifra è top secret) fino a quando al Congresso non arriveranno informazioni precise sul raid aereo compiuto lo scorso 6 settembre da Israele contro un presunto sito nucleare in territorio siriano. Una provocazione che alla Casa Bianca è arrivata forte e chiara. Un provvedimento del genere, ha spiegato George Bush minacciando il veto, impedirebbe agli Stati Uniti di interrogare «con metodi legali i terroristi di Al Qaeda». Parole inutili secondo il leader democratico della Camera Steny Hoyer: «Il governo — dice — ha ormai reso indistinta la linea che divide le tattiche d'interrogatorio legittime e le torture». Proprio in questi giorni La Cia ha ammesso di aver distrutto nel 2005 i nastri degli interrogatori di sospetti terroristi, condotti dal 2002 con tecniche che le organizzazioni per i diritti umani denunciano come torture.

Corriere della Sera 15.12.07
Le ricerche Con la tecnica dello scienziato giapponese nuove speranze contro la talassemia
Staminali «etiche», i primi successi
La nuova via che salva gli embrioni: create cellule pluripotenti
di Giuseppe Remuzzi


Staminali? Staminali embrionali? Staminali adulte? Cellule adulte che diventano embrionali? Ogni giorno c'è qualcosa di nuovo. Proprio ieri Cell Stem Cell ha pubblicato il lavoro di un gruppo di Milano guidato da Yvan Torrente. Hanno visto che cellule staminali prese da ammalati di distrofia muscolare si possono riparare e sono capaci di curare la distrofia in un modello animale.
E c'è un'altra notizia: topi con una grave forma di anemia guariscono con le loro stesse cellule, cellule adulte che tornano embrionali.
Ma andiamo con ordine.
Shinya Yamanaka aveva già ottenuto cellule embrionali a partire da cellule adulte nel topo, adesso l'ha fatto nell'uomo. Riportare le cellule adulte allo stato embrionale consentirà di creare in laboratorio i 220 tipi di cellule del nostro corpo. Così si ripareranno organi e tessuti e senza rigetto perché la cellula da cui si parte viene dallo stesso ammalato che si dovrà curare.
S'è detto (e scritto) che con questa tecnica non ci sarà più bisogno di cellule embrionali. Sarà davvero così? Non per ora, per lo meno. Per riprogrammare le cellule adulte gli scienziati hanno trasferito nel nucleo delle cellule della cute certi geni che si associano allo sviluppo dell'embrione. Ne bastano quattro. I quattro geni modificano la cellula da cui si è partiti che così acquisisce caratteristiche delle cellule embrionali. Nessuno però sa oggi come e perché questo succeda. Le cellule così modificate, però, hanno alta probabilità di trasformarsi in cellule tumorali.
Per trasportare i geni dentro le cellule e consentirgli di integrarsi nel Dna servono dei virus (retrovirus e lentivirus), che possono provocare tumori. E non basta: uno dei quattro geni è un oncogene, di quelli che si associano allo sviluppo di tumori. Ma proprio in questi giorni gli stessi ricercatori sono stati capaci di ottenere cellule pluripotenti senza bisogno di utilizzare oncogeni.
Questi sistemi però sono poco efficienti. I giapponesi hanno avuto bisogno di trasferire i geni che servono a riprogrammare le cellule adulte migliaia di volte per averne una che li esprimesse. È chiaro che un'attività così per ora non ha nessuna probabilità di essere usata in clinica. Ian Wilmut, che ha clonato Dolly, avrebbe dichiarato che questi studi rendono obsolete le ricerche sul trasferimento nucleare. Ma abbandonare queste ricerche sarebbe un errore. Adesso studiare gli embrioni è più importante che mai. Si dovrà capire se le cellule embrionali che derivano da quelle adulte funzionano davvero come cellule embrionali, e per quanto sono capaci di rimanere pluripotenti, e come si fa a orientarle verso gli organi che ci interessa di riparare. Fino ad allora — scrive il Lancet — la ricerca sulle cellule embrionali deve continuare.
Ed ecco un altro grande passo avanti, sempre di questi giorni. Negli Usa gli scienziati hanno reso embrionali cellule della cute di topi malati di una forma di anemia, che assomiglia alla talassemia dell'uomo. Hanno sostituito il pezzo di Dna malato con Dna normale e le hanno guidate verso il midollo osseo con un altro trasferimento di geni. Il midollo si è ripopolato di cellule normali ed è stato capace di produrre globuli rossi normali. Così gli animali sono guariti.
È davvero un risultato importante che fa sperare che un giorno si possa guarire la talassemia dell'uomo. Per ora la cura della talassemia — in Italia ci sono almeno settemila ammalati — è il trapianto di midollo, ma solo il venti percento degli ammalati ha fratelli o sorelle sani che possono essere donatori senza che questo dia luogo a gravi episodi di rigetto. E anche quando c'è un buon donatore, spesso questi trapianti non funzionano. Ci sono complicazioni gravi che possono anche portare a morte soprattutto quando il tessuto trapiantato aggredisce quelli dell'ospite.
Con il trapianto di cellule indotte a essere pluripotenti, tutto questo sarà superato. Le cellule dal punto di vista genetico sono identiche a quelle dell'ammalato, di fatto sono le sue cellule, così problemi di rigetto non ce ne saranno più. Prima di poter curare la talassemia si dovranno superare ancora molti ostacoli, ma dati così in un modello animale che riproduce bene la malattia, indicano che ci si arriverà, forse anche molto presto.

Corriere della Sera 15.12.07
Un unico progetto per le due Piramidi. La prova: i raggi del Sole al tramonto
Volute da Cheope e Chepren nel 2.500 a.C., sorgono a Giza, luogo sacro del popolo egizio legato alla creazione
di Giulio Magli, Politecnico di Milano


Un nuovo studio condotto sulle basi dell'archeoastronomia getta una luce inedita sull'unica delle «sette meraviglie » dell'antichità giunta fino a noi: le piramidi di Giza, in Egitto. Le due grandi architetture abitualmente attribuite a Cheope e a suo figlio Chepren, costruite attorno al 2500 a.C., appartengono a un unico, grandioso progetto architettonico e non a due progetti concepiti successivamente, come invece finora si è sempre pensato. Le prove di questa tesi che non contraddice nulla di quanto è appurato già dagli egittologi, sono sia di ordine tecnico che simbolico. Esse sono connesse alle relazioni esistenti tra la geometria del complesso architettonico della Piana di Giza e i suoi allineamenti astronomici.
Le piramidi sono orientate ai punti cardinali quasi perfettamente, ma con una lieve differenza da attribuirsi alla tecnica con cui le stelle venivano osservate per determinare il nord, e che mostra come la «seconda piramide» sia stata progettata per prima. Oltre a legarsi alle «stelle imperiture » (come dicevano gli Egizi) del nord, Cheope però voleva dimostrare di essere «Figlio del Sole», quindi destinato alla vita eterna. E quale modo migliore per dimostrarlo se non farlo «dire» al Sole stesso? Accade infatti che le due grandi piramidi, se osservate dalla zona della Sfinge, il giorno del solstizio d'estate diano vita a un fenomeno spettacolare. Il Sole tramonta al centro tra i due monumenti formando e ricostruendo l'immagine del geroglifico Akhet (orizzonte), che raffigura appunto il disco solare tra due montagne, simboleggiando la continuità della vita dopo la morte, destino del faraone sepolto nella piramide. Un effetto, però, che necessita anche della seconda piramide, quella del figlio di Cheope, Chepren, per realizzarsi. Dunque solo alla morte del padre questo faraone si sarebbe attribuito una parte del complesso raffigurante l'orizzonte di Cheope.
Un altro indizio che suffraga la nuova tesi è il fatto che il terreno in cui sorge la seconda piramide sia in posizione migliore rispetto a quello in cui sorge la prima, segno che, nella mente del progettista, lo spazio prima o poi sarebbe dovuto essere occupato da una struttura simile e complementare. Questa complementarità è confermata, ancora, dallo studio archeo- astronomico: infatti il giorno del solstizio d'inverno, il sole tramonta in allineamento dietro la seconda piramide se visto dalla zona del tempio alla base della prima.
C'è, infine, un altro elemento nuovo che gioca un ruolo fondamentale nella tesi. Esso riguarda l'interpretazione della skyline della piana di Giza, cioè ciò che si vede al-l'orizzonte della Piana se la si guarda dal sito in cui sorgeva Heliopo-lis, un importantissimo centro religioso solare ora inglobato nei sobborghi del Cairo. Accade infatti un fenomeno visivo curioso e spettacolare, sicuramente voluto: avvicinandosi ad Heliopolis le piramidi di Giza si sovrappongono alla vista l'una con l'altra, e alla fine la pur enorme mole della seconda piramide non risulta piu' visibile, perché coperta interamente dalla prima.
Perché, dunque, Chepren dovrebbe aver voluto che la sua piramide fosse invisibile dal luogo sacro al Sole? È più logico pensare che sia stato Cheope a voler realizzare questo «miraggio» in segno di rispetto per il tempio del sole di Heliopolis, considerato un vero e proprio ombelico del mondo egizio, un luogo associato alla creazione e alla cosmologia.

Corriere della Sera 15.12.07
Il nuovo libro di Patrick McGrath
Sesso e strizzacervelli nell'America del post Vietnam
di Giorgio Montefoschi


Ingredienti. Famiglie disinvolte, infanzie difficili e uno psicanalista assai poco affidabile

Costruito a tavolino — come gli altri suoi libri, del resto — Trauma, l'ultimo romanzo di Patrick McGrath, lo scrittore inglese autore del fortunatissimo Follia, ha tutti gli ingredienti del bestseller: il personaggio principale che fa lo psicanalista, e quindi è un ottima chiave d'ingresso, senza che ci si debbano porre troppe giustificazioni di racconto, nelle più svariate ed eclatanti psicologie degli altri personaggi (che dunque, possono entrare e uscire dalla trama a piacimento); traumi psicologici di ogni tipo (ferma restando l'immancabile devastazione femminile dovuta alle torbide attenzioni paterne); famiglie disinvolte, componibili e ricomponibili come i pezzi del Lego; molto sesso, ancorché non crudissimo, però sempre negli ambienti giusti, e talvolta, anche «catartico»; gli Stati Uniti d'America subito dopo la guerra del Vietnam, dimora scomoda e amara di reduci ridotti a larve umane; parecchia New York, bellissima, in estati soffocanti, in autunno, sotto la neve; finalmente, il climax, e cioè il meccanismo narrativo per il quale si comincia cauti e poi, pian piano, i colpi di scena crescono, e son davvero botte da orbi. McGrath avrebbe certamente suscitato la simpatia di Nabokov, che due cose detestava nella vita: la psicanalisi e il comunismo, perché, a bene vedere, non fa con questo libro una gran pubblicità agli psicanalisti. In che senso? Nel senso che Charlie Weir, lo strizzacervelli newyorkese protagonista di Trauma,
non risulta a lungo andare affidabilissimo: si guadagna da vivere affrontando i demoni altrui, infatti, ma il vero traumatizzato è lui. Uno potrebbe dire: che c'entra, è per caso vietato a uno strizzacervelli avere i problemi suoi? Certo che no. Però, ed è pure questo comprensibile, uno (se sapesse certe cose del signore che ti siede quieto alle spalle) andrebbe a distendersi sul lettino?
Andiamo con ordine, comunque. La situazione è la seguente. Charlie Weir ha avuto un'infanzia problematicissima, con un fratello, Walter, pittore, semiodiato in quanto preferito dalla madre, un padre ubriacone e nullafacente, una madre scrittrice dalla quale ha avuto un grosso trauma sepolto (che non è la separazione dal marito, e neppure il fatto di averla scoperta bambino mentre leggeva il «New York Times» sulla tazza del gabinetto). Ora svolge la sua attività medica occupandosi di persone che hanno subito grossi traumi e deve curare facendo in modo che, rivivendo o razionalizzando il trauma, se ne liberino.
Tra i suoi pazienti c'è, anzi c'è stato, Danny, reduce dal Vietnam. È un cadavere ambulante, al limite della pazzia. Danny è il fratello di Agnes (pure lei figlia di ubriaconi molestatori), la affascinante moglie dalla quale Charlie ha avuto una figlia, Cassie, e si è separato, essendosi lei messa con un pompiere (mentre, in fondo a Manhattan, guarda caso, stanno finendo di costruire le Due Torri). Qual è il problema? Il problema è che Charlie non si riesce a distaccare da Agnes. Anzi, lei, dopo la morte della madre di lui, la scrittrice, va provocatoriamente a soccorrerlo. Così i due fanno sesso e cominciano segretamente a rivedersi: alle spalle del pompiere.
Senonché, «dopo il sesso» — la frase idiomatica alla quale non ebbero sfortunatamente possibilità di accedere Bassani per i Finzi-Contini
e Gadda per il Pasticciaccio —i due parlano moltissimo. E — cresce il climax, fra un flash back e un altro — da queste conversazioni, viene fuori il motivo per il quale c'è stata la separazione coniugale. C'è stata, perché, a detta di Agnes, Charlie è stato incapace di salvare Danny dal suicidio. E perché Danny si è suicidato? Perché nel Sud Est asiatico aveva raggiunto il massimo degli orrori: mangiato carne umana. Sventatamente, anche senza saperlo, Charlie gli aveva rinfrescato la memoria. Intanto, è entrata in scena una donnetta piccola, attraentissima, tale Nora Chiara, che fa stare sempre il Nostro diciamo in... eccitazione. Lei, lo scopriremo presto, è anche l'amante del fratello Walter.
Comunque, la cosa importante è che, presto, «dopo il sesso», si rivelerà traumatizzata pure lei: furibondi incubi notturni. Vorrebbe farsi curare da Charlie: lui, eticamente, non può. Poi, ci ripensa. Ma a quel punto, ci ripensa lei. Intanto, il pompiere, che doveva subire un trapianto di cuore, è morto. Charlie vorrebbe ricomporre il nucleo familiare, visto che fino adesso, anche mentre c'era Nora Chiara, con Agnes «facevano sesso». Però, lei non vuole. Allora, e qui è il gran finale che non riveliamo per non togliere l'opportuna emozione al lettore, Charlie se ne va da New York e scopre qual è stato il vero trauma della sua vita: inflittogli da sua madre, ovviamente. Sì, Trauma ha tutti gli ingredienti del bestseller. E, certamente, ne faranno un film.

Corriere della Sera 15.12.07
Lobby cattolica tentazione perdente
di Marco Ventura


La Chiesa cattolica italiana si è trasformata «da pilastro culturale in lobby», scrive il «New York Times» del 13 dicembre. Un giudizio molto drastico, ma non campato per aria. Da anni vediamo svilupparsi in Italia un cattolicesimo minoritario, cenerentola, inquieto per la propria irrilevanza. Molti cattolici si sono convinti che essere lobby sia l'unica via per rimanere, o tornare a essere, pilastro culturale. Non dunque «da pilastro culturale a lobby», come scrivono a New York, ma «lobby per restare pilastro culturale». Uno scenario impegnativo per i cattolici che fanno cultura: per quelli che la fanno dalle pagine dell'«Osservatore Romano », per quelli che la fanno scrivendo senza imprimatur. E ovviamente per i non cattolici. Come dar conto adeguatamente del Cristianesimo in un'opera scientifica? Qual è la misura del tanto, del poco, del giusto? E cosa conta davvero: quanto se ne parla o come se ne parla?
Nel cattolicesimo lobby minoritaria, come lo vedono da New York, prevalgono compattezza dottrinale e tensione missionaria. È però tutt'altro che morto un cattolicesimo italiano maggioritario. Caotico, libero, difficile da capire e da raccontare. Invisibile agli occhi tanto dell'«Osservatore Romano» che del «New York Times», ma ben reso da Massimo Leone nell'opera Utet incriminata: quaranta pagine sulla religione purtroppo del tutto sfuggite all'«Osservatore Romano». Esiste un cattolicesimo maggioritario che fa cultura diversamente da come la fa una lobby.
Ed esiste soprattutto un cattolicesimo per cui fare i diritti umani è più importante che fondarli filosoficamente.

venerdì 14 dicembre 2007

l’Unità 14.12.07
Perché domani non saremo in edicola


Domani l’Unità non sarà in edicola. Mancano pochi giorni alla definizione del nuovo assetto proprietario del giornale fondato da Antonio Gramsci. Le giornaliste e i giornalisti del quotidiano tornano a chiedere con forza che si esperisca ogni tentativo per giungere a un’articolazione azionaria diversa da quella in via di definizione. La prospettiva che la Tosinvest del gruppo Angelucci, che edita Libero, assuma il controllo quasi assoluto della nostra testata non può non creare inquietudine e preoccupazione. Servono garanzie precise a difesa dell’autonomia e dell’indipendenza del nostro giornale. L’Unità va sempre più in mare aperto. Per questo, indipendentemente dagli assetti editoriali futuri, occorre definire strumenti a tutela della collocazione, della storia e del radicamento della testata nella realtà democratica e della sinistra italiana. Anche per questo chiediamo con forza l’istituzione di un Comitato dei garanti d’alto profilo e la definizione di una Carta dei valori e dei diritti che costituiscano la rotta del percorso futuro di questa testata. L’identità di un giornale storicamente radicato come l’Unità non è una merce qualsiasi, ma un nodo sensibile della vita democratica del Paese.
L’Unità è un giornale vivo, capace di contribuire in modo importante al dibattito culturale e politico del nostro Paese. Le attestazioni di solidarietà che riceviamo in queste ore stanno lì a dimostrarlo. Siamo consapevoli della necessità di nuovi investimenti e di nuove iniziative che consentano a l’Unità uno sviluppo coerente con il posto che occupa nella storia e nella vita democratica italiana. Ma tutto ciò non può significare che le logiche del mercato - senza opportune garanzie - snaturino il ruolo e l’identità di questo giornale.
Il Cdr de l’Unità

l’Unità 14.12.07
Il Dalai Lama sbarca alla Camera
E Bertinotti saluta l’«amica Cina»
di Maria Zegarelli


Tutti lo accolgono come «un grande leader religioso e spirituale», segno dei tempi che cambiano, di potenze economiche più potenti di qualche anno fa, come la Cina che oggi non gradisce chi gradisce il Dalai Lama. Sua santità è come sempre avvolto nei colori dei monaci tibetani, il suo sorriso e «la grande calma della mente», fanno ingresso prima al Senato e poi alla Camera, dopo essere stato in Campidoglio. Sono i tre luoghi in cui Roma lo accoglie in forma solenne. «Siamo tutti essere umani: questa è la nostra condizione comune», dice nella Sala della Lupa a Montecitorio, davanti a deputati di maggioranza e opposizione. Parla il linguaggio semplice delle menti grandi. Nessuna controversia, dice, può essere risolta con la violenza, nessun uomo può pensare che i problemi di un popolo siano solo di quel popolo. «Quello che oggi manca è un senso di responsabilità globale, di solidarietà». Il Dalai ripete: «Noi del Tibet non chiediamo l’indipendenza dalla Cina, chiediamo l’applicazione dei diritti sanciti dalla repubblica cinese anche per il popolo tibetano. Abbiamo teso una mano, la destra, e oggi è vuota. A voi, nostri amici di sempre, tendiamo l’altra la sinistra». C’è un filo sottile che lega il dialogo tra tutti gli omini di tutte le lingue e di tutte le religioni, spiega: «È la laicità, che significa rispetto per tutte le religioni, senza preferenze e per i non credenti. Io promuovo i valori umani per le vie laiche». Calzante, anche qui. E poi, la «compassione»,una parola «straordinaria - commenta Marini - sulla quale lei si è soffermato. È un patrimonio culturale e anche storico della religione cristiana. è questo, sicuramente, che la sua presenza in questi giorni in mezzo a noi sta porgendo. E noi, santità, anche per questo la ringraziamo». Sia a Marini che a Bertinotti il Dalai Lama offre in omaggio, la kata, la sciarpa bianca tibetana. Brusii in sala quando Bertinotti dice: «Confermiamo la nostra amicizia con la Repubblica popolare cinese ma ribadiamo la difesa della autonomia culturale di un popolo che è un valore fondativo del rapporto di civiltà nel mondo contemporaneo». Gasparri commenta: «Bertinotti andrebbe bene come presidente di un centro sociale e non della Camera. Poteva evitare di ribadire al sua amicizia alla Cina davanti al Dalai Lama che lotta contro la repressione cinese». Pietro Folena, presidente della commissione Cultura della Camera, replica: «Gasparri o lo fa per una inutile polemica, oppure non ha capito cosa ha detto Bertinotti. Opterei per quest’ultima ipotesi. Bertinotti, riguardo alla Cina, ha detto le stesse cose dette dal Dalai Lama». Per il governo è presente il sottosegretario di Stato agli Esteri, Gianni Vernetti. Dice: «Ho ritenuto utile incontrare oggi il Dalai Lama in quanto grande leader spirituale di milioni di buddisti in tutto il mondo e promotore universale della cultura della nonviolenza. Abbiamo anche discusso della Cina e del Tibet. Su questi temi ho ascoltato dal Dalai Lama parole di grande moderazione. Egli ha ribadito con assoluta chiarezza che non vuole l’indipendenza del Tibet dalla Cina; che ritiene importante l’integrità territoriale della Repubblica Popolare Cinese; che auspica un Tibet dotato di una vera autonomia all’interno della Costituzione della Cina».

l’Unità 14.12.07
A volte ritornano: ecco i tesori ritrovati
di Stefano Miliani


MARTEDÌ IL QUIRINALE apre le sue stanze ai numerosi reperti archeologici che, trafugati dall’Italia, avevano trovato «casa» nei musei esteri. Molti provengono dal Getty Museum di Los Angeles

Come in una sorta di abbraccio tra civiltà greca, etrusca e romana, da martedì 18 dicembre fino al 2 marzo il Quirinale espone 77 pezzi che farebbe felice una marea di musei e collezionisti nella mostra «Nostoi. Capolavori ritrovati»: reperti di qualità spesso strabiliante, a detta degli archeologi, tornati in pianta stabile in Italia. Sebbene vedere statue, un brano d’affresco pompeiano, stupendi vasi attici in ceramica a figure nere (se dipinte su fondo rossastro) o a figure rosse (se su fondo nero), bronzetti etruschi, possa lasciare un senso di rimpianto per quanta storia e quante conoscenze sugli antenati abbiamo perduto.
Qualche esemplare della mostra invita a citare una tavola cerimoniale in marmo policromo con due grifoni che divorano una cerva del IV secolo a.C., già al Getty Museum di Los Angeles; una statua in marmo di Apollo con grifone del I-II secolo d.C., proveniente sempre dall’istituto californiano; un’anfora etrusca con serpente dipinto, riconsegnata dal Fine Arts di Boston; una raffinata e piccola Nike (una vittoria alata) a opera etrusca rubata nel ’75 alla soprintendenza archeologica di Ercolano e restituita di sua «spontanea» volontà dal gallerista newyorkese Jerome Eisenberg; il Cratere del pittore Eufronio, vaso attico a figure rosse già al Metropolitan di New York e in arrivo a gennaio al Quirinale. Sono alcune delle 77 opere elaborate tra il VII secolo a.C. e il II d.C. provienienti dall’Etruria, dal Lazio, dal territorio, dalla Puglia che il palazzo presidenziale, luogo simbolicamente significativo, espone su iniziativa del ministro per i beni culturali Rutelli. E non espone i reperti solo perché «belli»: li espone perché a suo tempo trafugati e restituiti all’Italia nell’ultimo anno o due, dopo lunghe trattative e accordi diplomatici il cui culmine è stato l’intesa siglata con il Getty. Un inciso: il museo riconsegna 40 pezzi, 39 vanno al Quirinale, il 40esimo, la cosiddetta Venere di Morgantina, rientrerà nel 2010, negli intendimenti, per tornare da dove è partita, la Sicilia. Altro e ancor più importante inciso: nelle intenzioni, ogni opera tornerà nei territori d’origine o nel museo più competente.
Con questa rassegna il ministero cosa vuole? È un’azione di propaganda politica? «Piuttosto propaganda culturale - risponde Maurizio Fiorilli, che per l’avvocatura dello Stato presiede la commissione ministeriale e conduce la battaglia legale del dicastero con i vari musei -. Da un lato si dà conto di quanto ottenuto: come i compagni di Ulisse erano dei “ritornanti”, così queste opere hanno compiuto il loro viaggi di ritorno. Dall’altro lato vogliamo sensibilizzare l’opinione pubblica, far capire che il nostro patrimonio va tutelato. Aggiungo che questa ricchezza è stata scavata e rubata da cittadini italiani ed è stata oggetto di mercimonio da parte di cittadini italiani». Che fa, straccia il mito degli italiani brava gente? «E bisogna anche sfatare il mito dei tombaroli come dei poveretti. Non sono affatto dei poveri Cristi».
«L’emorragia di materiali archeologici non è mai cessata - interviene Stefano De Caro, già soprintedente in Campania e ora direttore generale del ministero per il patrimonio archeologico -. Anzi ha conosciuto nel dopoguerra nell’intero Mezzogiorno, in Sicilia, nel Lazio e nella Toscana, un’accelerazione disperante». Un saccheggio sotterraneo in piena regola. Reso possibile da più fattori: «L’agricoltura meccanizzata e gli insediamenti urbani hanno moltiplicato le occasioni di rinvenimenti fortuiti; l’insufficiente capacità di controllo delle soprintendenze; l’insinuarsi negli scavi clandestini della malavita organizzata in collegamento con mercanti stranieri; l’accresciuta richiesta di musei e collezionisti…». La Mafia ha fatto affari d’oro. E all’estero troppi erano pronti a pagare profumatamente simili sforzi attingendo a complicate ed elaborate reti di commercio nascosto. Adesso però, annota De Caro, qualcosa è cambiato: musei e archeologi e Stati sono consapevoli che depredare l’arte è un crimine. Però qualcuno a volte ha obiettato: meglio esporre e studiare un’antichità all’estero che lasciarla interrata. «Non è una visione nazionalistica dell’archeologia», osserva in catalogo De Caro, a far rivendicare il maltolto. «È una visione scientifica, soprattutto eticamente legittimata, del rispetto del contesto di provenienza senza il quale i reperti, al di là della seduzione volatile della loro bellezza, diventano muti». Guardiamo l’anfora di Eutimide che cita un grande atleta della Magna Grecia, Faillo, strappata al sepolcro d’origine: «A chi apparteneva?», domanda De Caro. O ancora: chi accompagnò nell’al di là la misteriosa religiosità di un cratere con divinità minori di un Olimpo greco che forse guardava ad altre sponde del Mediterraneo? «Forse se avessimo avuto il corredo per intero, avremmo potuto rispondere a queste domande. Purtroppo dobbiamo solo accontentarci della pur grande bellezza e rimpiangere che quei barlumi di storia non possano risplendere più. Mai più».

l’Unità 14.12.07
In «Non ho l’arma che uccide il leone» lo psichiatra Peppe Dell’Acqua rievoca l’apertura del manicomio di Trieste
Quello che va ricordato di Basaglia trent’anni dopo Basaglia
di Nico Pitrelli


«È una cosa seria la follia: è vita, tragedia, tensione. La malattia mentale invece è il vuoto, il ridicolo». Inizia con una presentazione inedita di Franco Basaglia il libro Non ho l’arma che uccide il leone, appena ripubblicato da Stampa Alternativa e scritto da Peppe Dell’Acqua, che di Basaglia fu discepolo, amico, compagno di viaggio di quell’avventura straordinaria che alla fine degli anni ’70 a Trieste portò all’abbattimento del manicomio e all’approvazione della legge 180. Trent’anni sono ormai quasi passati da quando Basaglia, nelle sue parole sulla follia e sulla malattia mentale, forniva non solo la cifra significativa del suo pensiero, ma una lucida chiave di lettura per le vicende del manicomio triestino riproposte, in versione ampliata e aggiornata, da Dell’Acqua.
In tutto questo periodo c’è da chiedersi quanto, di quella storia, sia sopravvissuto nelle pratiche e nell’immaginazione degli operatori della salute mentale odierna. A detta dello stesso dell’Acqua, poco. Molto di più si è affermata, nelle esperienza di medici, infermieri e psicologi attuali la logica «di una psichiatria che continua ad anteporre malattie, farmacologie, negazioni, sottrazioni e porte chiuse, alle persone, alla cura, alle relazioni». O che costringe i giovani a mortificarsi nel vuoto organizzativo e nell’ottusità burocratica.
Ecco perché Dell’Acqua ha sentito il bisogno di ritornare a narrare, a comunicare quello che è successo dal 1971 al 1979 a Trieste. E lo ha fatto ridando voce ai principali protagonisti di quella stagione di cambiamenti. A Ondina, a Giovanni Doz, a Rosina, a Enzo. Nelle storie di Non ho l’arma che uccide il leone, gli schizofrenici, i sudici, gli agitati ritornano insperabilmente ad avere un nome, un indirizzo, una professione. Le cartelle cliniche si trasformano in persone. L’operazione di Dell’Acqua è tutto tranne che un’apologia buonista di una stagione mitica e irripetibile. Con le storie del manicomio di San Giovanni, l’attuale direttore del dipartimento di salute mentale triestino, ci vuole parlare di oggi e lo fa ripercorrendo quello che gli è successo, poco più che trentenne, quando ha capito cosa significava instaurare una relazione autentica con l’internato in manicomio. Dell’Acqua ci fa capire che la comunicazione è soprattutto un rischio, che implica confondersi, perdersi, lasciarsi scompaginare dalle parole. Le presunte certezze della psichiatria manicomiale si frantumano di fronte a quelle storie «fragili, ma vere», come scrive Pieraldo Rovatti nella prefazione al libro. Dell’Acqua ci racconta delle vicende «come le ha vissute da psichiatra che fortunatamente non capiva cosa volesse dire essere psichiatra». Ci dice, in altre parole, cosa sigifica attivare una comunicazione depurata dall’ansia di voler vedere confermati nell’altro i propri schemi infarciti di classificazioni e definizioni aprioristiche. La comunicazione non è atto di svelamento della scienza, della psichiatria manicomiale, ma è una messa in crisi di ruoli, uno scatenamento di significati attraverso l’ascolto autentico dell’altro. Si impone allora, pur nella loro fragilità, la verità di quelle voci che diventano vita, tragedia, tensione, amore e non parole da essere interpretate e analizzate da un’unica ragione. A trent’anni di distanza la forza di quelle voci rimane intatta. E mai come adesso, sembra più urgente ripercorrere il percorso di Dell’Acqua, ritornare a forzare le retoriche dell’ascolto e dei discorsi sulla follia e sulla malattia mentale, dietro i quali si nascondono, neanche troppo velatamente, nuove e più subdole istituzioni.

Repubblica 14.12.07
Pronta la bozza della "Carta dei valori". Al relatore già arrivate numerose osservazioni critiche

Il manifesto Pd elogia la religione "Fatto vitale della democrazia"
di Goffredo De Marchis


Citato l´appello ai "liberi e forti" di don Sturzo, fondatore del Partito popolare
Oggi si riunisce la commissione statuto. Vassallo: basta congressi. Ma sarà battaglia

ROMA - Il manifesto del Partito democratico si richiama all´appello di don Sturzo: «Vogliamo assicurare all´Italia una democrazia libera e forte». Parla di laicità, ma la declina così: «Riconoscimento della rilevanza nella sfera pubblica, e non solo privata, delle religioni e delle varie forme di spiritualità». Perché «le energie morali che scaturiscono dall´esperienza religiosa, quando riconoscono il valore del dialogo, rappresentano un elemento vitale della democrazia». È solo la prima bozza della Carta dei Valori, chiamata a ispirare l´azione del partito per gli anni a venire. Ma sul punto-chiave della sintesi tra laici e cattolici è destinata ad aprire un primo fronte di polemica sui contenuti e sul baricentro valoriale del Pd.
Qualcuno dirà che un testo come questo potrebbe funzionare anche per la Cosa bianca. E che vengono confermati i timori di uno schiacciamento delle ragioni laiche. Le prime osservazioni critiche stanno già intasando le caselle di posta elettronica del professor Mauro Ceruti, cattolico, 54 anni, preside della facoltà di Scienze della formazione all´università di Bergamo, docente di epistemologia. Ceruti è il relatore della commissione per il manifesto, nonché l´autore del testo-base dal quale si parte per dare un´identità al partito. Nel gruppo di lavoro affianca il presidente Alfredo Reichlin.
Otto pagine, una Carta non divisa per capitoli ma dove in neretto sono segnalati i "titoli" degli argomenti. Il nodo è quello legato alla laicità, ancora più dirimente dopo il no della teodem Paola Binetti alla fiducia sul decreto sicurezza), strappo rimasto in sonno proprio perché il Pd è nella fase di gestazione. Ha un segretario, Walter Veltroni, legittimato dal voto di milioni di cittadini, ma pochi altri riferimenti organizzativi.
I leader, in questi giorni, si concentrano sullo statuto (le regole del partito), ma chi ha cuore le sorti del Pd e gli augura lunga vita non può non guardare al manifesto. I problemi delle coppie di fatto, dell´eutanasia, della fecondazione, dei progressi scientifici, i temi della vita e della morte (mai citati in maniera esplicita) vanno risolti, secondo la bozza-Ceruti con lo strumento inedito della «democrazia cognitiva, che aiuti i cittadini a comprendere le implicazioni degli sviluppi tecnico-scientifici e i dilemmi etici che essi possono sollevare». Davanti alla scienza vengono piantati paletti molto rigidi: «La libertà di ricerca si deve conciliare con il principio per cui non tutto ciò che tecnicamente è possibile è moralmente lecito e nemmeno conveniente dal punto di vista sociale ed economico».
Il presupposto prepara quindi dei muri invalicabili anche per la politica. Che deve diventare «pienamente consapevole dei suoi limiti. Non può proporsi di controllare la varietà delle tendenze sociali, delle opinioni e dei bisogni individuali e collettivi». Messa così, la Carta prefigura, per gli aderenti, una libertà di coscienza con ampi margini di manovra. Naturalmente, la famiglia «è il luogo relazionale, formativo e affettivo primario», dove si sviluppa «la dignità della persona». E nell´ambito dei diritti umani vengono condannate «le forme di persecuzione per motivi razziali, politici e religiosi», senza parlare della discriminazione sessuale. Proprio nell´ultima riunione della commissione (sabato scorso) un gruppo di laici aveva proposto, per esempio, di inserire nella carta l´articolo anti-omofobia contenuto nel decreto sicurezza.
Il testo-base adesso si apre ai contributi, agli emendamenti, alle correzioni. La commissione Manifesto si riunisce di nuovo il 12 gennaio. Oggi invece si incontra il comitato di redazione della commissione Statuto. Il presidente Salvatore Vassallo ha scritto un testo in cui è stata cancellata la parola "congresso", luogo principe della vita dei partiti, il nucleo democratico delle vecchie organizzazioni politiche. Ma il nuovo strumento di decisione nel Pd sarà la consultazione diretta dei cittadini. Contro il "taglio" voluto dal costituzionalista si però è saldato un asse Ds-Popolari ora benedetto anche dal coordinatore Goffredo Bettini. Perciò Vassallo non avrebbe i numeri per far passare la sua "rivoluzione". Ma non è detto che pure in minoranza sia disposto a mollare.

Repubblica 14.12.07
Tesori, miracoli e misteri è la fabbrica di San Gennaro
di Luca Villoresi


Nel Duomo di Napoli tutto è pronto per il rito dei riti: domenica il sangue si scioglierà? Tra liturgia e scaramanzia: identikit di un santo che da settecento anni stupisce il mondo

L´anno scorso, nonostante invocazioni e rimbrotti, il prodigio non ci fu
C´è chi dice che il martire venne ucciso alla Solfatara, dove ora c´è un camping

Diciamolo. Lui potrebbe stupirvi, da subito, con gli effetti speciali. Buttare lì uno scenario infernale, fuoco, fumo ed esplosioni, per poi placare il cataclisma con un gesto della mano. Oppure esibire qualche miracolo spettacolare, estratto a caso dall´antologia dei pittori e dei cantastorie: eccolo che esce indenne dalla fornace accesa, che calma gli orsi dell´arena, che mette in fuga i saraceni, che cura la peste. O ancora - per andare sul materiale - potrebbe farvi balenare sotto gli occhi lo scintillìo di un tesoro che, si sostiene, vale più di quello della corona inglese. Ma San Gennaro, a Napoli, è qualcosa in più di tutto questo. E´ una persona di famiglia, una scritta sul muro, un santino sul cruscotto... l´attesa perenne di una grazia, o di una sciagura che, comunque, prima o poi, certamente arriverà, ma non sarà così sciagurata grazie all´intervento in extremis del vecchio Compare. Atteso, domenica prossima, a uno dei tre appuntamenti annuali con il prodigio del sangue. Il primo sabato di maggio, e poi, il 19 settembre, tutto è andato come doveva. Buon segno. Ma il 16 dicembre (è tradizione) Gennaro è più bizzoso del solito. E l´anno scorso, nonostante le invocazioni e i rimbrotti, il sangue non si è liquefatto.
San Gennaro ha la residenza ufficiale nel Duomo; nonché una rappresentanza (almeno un quadro, un altarino, qualche candela) in tutte le chiese napoletane. Lui però, sì è detto, non è uno di quei santi che non escono mai di casa; anzi, sta sempre a girare per i vicoli e ad aleggiare nell´intero golfo di Napoli. A partire da Pozzuoli, dove, nel 305, l´allora vescovo di Benevento venne decapitato dai soldati di Diocleziano. Sull´esatta ubicazione del luogo della morte girano comunque varie indicazioni. Secondo alcuni il santo è stato ucciso proprio nella Solfatara, nell´area di un camping; secondo altri un po´ più in là, dove c´è la pizzeria. La pietra che ha fatto da ceppo (si dice; ma si dice anche che non è vero; però chissà) sarebbe infine incastonata in un muro della vicina chiesetta di San Gennaro alla Solfatara, tra le lapidi che celebrano i prodigi dell´«ebullitione liquescente».
La prima liquefazione di cui si abbia notizia certa - il 17 agosto del 1389, a Napoli - è ricordata da una testa del martire collocata ad Antignano, in cima a via Salvator Rosa. Proprio sotto il naso del Santo è piazzato, come fosse un´offerta votiva, un bidone di immondezza che stracolma su tutto il marciapiede. Non sarà un gran segno di devozione; ma nemmeno uno sfregio. San Gennaro è abituato a condividere tutto con i napoletani, anche l´immondezza. Un rapporto particolare, che risale al Cinquecento.
A dirla dall´inizio, la carriera del vescovo beneventano comincia già nel 432, quando viene proclamato protettore della città. Quell´anno c´era una terribile eruzione. Sant´Agrippino, il vecchio patrono, non riusciva a placare il Vesuvio. Si prova con Gennaro, che compie il miracolo; detronizzando Agrippino. Per quasi mille anni, tuttavia, anche Lui rimane un santo come tanti altri. A un certo punto si perdono perfino le tracce delle ossa, rubate nel 831 da un principe longobardo, portate a Benevento, nascoste e dimenticate per secoli sotto un altare. Verranno ritrovate solo alla fine del Quattrocento, per essere ricongiunte trionfalmente alle ampolle con il sangue.
Nella navata destra del Duomo, sul pavimento, una striscia di marmi bianchi delimita i confini di un piccolo Stato nello Stato della Chiesa. Un passo. E si entra nel territorio della Deputazione della Real cappella. La cappella, con l´annessa sacrestia e l´oratorio, sono esclusi dalla giurisdizione della Curia e amministrati da un consiglio cittadino, istituito nel 1527. Anche quell´anno, a Napoli, era stato davvero disgraziato: la peste, la guerra tra Francia e Spagna, un´eruzione. San Gennaro si era dato da fare. E l´intera città, per ringraziarlo, aveva votato la costruzione di una nuova cappella, affidata alle cure di dodici rappresentati, due per il popolo, dieci per i nobili. Nelle ampolle, conservate in un grande armadio d´argento, c´è il sangue del martire. Raccolto, narra una voce popolare, da alcune pie donne («Come no?! Erano in tre, due del Vomero e una di Mergellina»): le antenate, si presuppone, delle attuali «parenti» del Santo, titolari di un filo diretto con il protettore e custodi del canto - «Jesce e facce grazia» - che invoca il miracolo della liquefazione.
Ketchup? Sì, proprio il ketchup. E´ l´esempio più facile per capire cosa sia la tissotropia, il fenomeno per cui una materia diventa più fluida se sottoposta alla sollecitazione di qualche piccola scossa, per tornare poi più solida se lasciata indisturbata. Insomma, un prodotto da agitare prima dell´uso. Il Cicap, Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale, dubbioso su quello che la Chiesa non considera proprio un miracolo, ma pur sempre un «fatto mirabolante», ha ricostruito un gel tissotropico che ha l´aspetto e i comportamenti del sangue di San Gennaro. La ricetta del Cicap, basata su materiali reperibili anche nel Medioevo, contempla carbonato di calcio (sotto forma di guscio d´uovo), cloruro di sodio (come dire sale comune), un pizzico di cloruro ferrico (presente in un minerale reperibile sul Vesuvio), acqua quanto basta. Non è il sangue di San Gennaro, ma qualcosa che gli assomiglia: qualche scossetta e il solido diventa liquido. Il preparato del Cicap, tuttavia, ha una data di scadenza che non supera i due anni. San Gennaro va avanti da settecento. E questo spiega, tra l´altro, lo sfarzo dei suoi tesori.
Accanto al Duomo è in corso una mostra dove è possibile ammirare una parte del tesoro accumulato da sette secoli di donazioni. C´è la mitra, che conta 3.328 diamanti, 198 smeraldi, 168 rubini... la collana, un malloppo di catenoni d´oro e di croci stracariche di zaffiri e smeraldi... calici e pissidi... Un patrimonio immenso. Inalienato. E inalienabile, anche quando ci sono i conti da pagare e i finanziamenti del Comune non bastano più. Il principe Fabio Albertini di Cimitile, attuale vice presidente della Deputazione (presidente onorario è il sindaco di Napoli), non sempre riesce a far fronte agli affreschi da restaurare e agli infissi da risistemare. Anche adesso nella cappella stanno montando i ponteggi: «Una ripulitura: 40 mila euro». La Deputazione, così, cerca di adeguarsi ai tempi, percorrendo nuove strade, come questa esibizione del tesoro, una novità che proietta San Gennaro dall´era delle donazioni a quella delle sponsorizzazioni.
Il culto di San Gennaro è evidentemente anche un po´ pagano. E il patrono di Napoli siede simbolicamente al centro di un Pantheon di 51 compatroni, ognuno con la sua specialità. In materia di Protezione civile, ad esempio, il protettore si appoggia a Sant´Emidio, per i terremoti, e a Sant´Irene, per i fulmini. Sempre rispettando le altrui competenze. Come l´ultima volta che è uscito dalla cappella per affrontare una situazione d´emergenza - nel 1944, sul Vesuvio - ed è rimasto in seconda linea, nascosto sotto un telo, mimetizzato, pronto a entrare in azione solo se il collega deputato alla protezione del paese minacciato dalla lava, San Sebastiano, si fosse trovato in difficoltà. Per sapere che faccia possa avere un santo simile non basta così rivolgersi ai dipinti di Luca Giordano o del Domenichino. San Gennaro è anche quello delle pitture naif, che tiene sulle ginocchia Maradona: il patriarca di una religiosità sintetica, tutta espressa da una preghiera da quattro parole - San Gennaro, pensaci tu - e da una summa teologica affidata, in antitesi ai latinismi della Chiesa romana che arzigogolava di un suo possibile declassamento nel calendario ecclesiastico, a una semplice scritta murale: «San Gennà, futtatenne».
Tragedia e commedia, liturgia e scaramanzia: una fede esportata dagli emigranti in tutto il mondo. A ricordare il luogo dell´ultima preghiera prima dell´imbarco sui bastimenti che portavano tanti Gennari a New York, Toronto, Melbourne, San Paolo, è rimasta, davanti all´ingresso del vecchio porto, una colonna sepolta dal traffico e ignorata da tutti. Come nessuno, del resto, sembra badare alla lapide che a Santa Caterina a Formellio rievoca un´eruzione del 1631. Il Vesuvio era davvero incazzato. Il santo, portato in processione al cospetto del vulcano (che ora, coperto dai palazzi non si vede più), era però riuscito a far cambiare direzione alla nube nera che minacciava la città. Sul monumento, invasati in una mezza bottiglia di minerale, ci sono, quantomeno, due fiori appassiti. Poi tre fiori di plastica, quattro bottiglie vuote di birra nazionale, i cartoni del poveraccio che dorme sull´altare di questo marciapiede. San Gennaro, però, non si offende. Risiede nell´alto dei cieli, ma vive nei bassi. Coabita. «Pe lu Pate, e lu Figlie e lu Spiritussante».

Un logo perfetto per credenti e non
di Marino Niola

Il vero Dio di Napoli. Così Alessandro Dumas definì San Gennaro. Un´esagerazione che coglie però una profonda verità. Perché il patrono partenopeo è da sempre il signore incontrastato della devozione dei napoletani. Ma è anche uno straordinario emblema civico. E lo è a tal punto che le ampolle che contengono il suo sangue sono ancora oggi affidate a una deputazione laica nominata dal Presidente della repubblica e guidata dal sindaco. La centralità di San Gennaro non è dunque solo religiosa, ma anche politica. Il martire napoletano è un´icona, un protettore e un simbolo identitario. Un logo ad alta definizione. Al punto che negli anni ´80 Moschino lanciò in tutto il mondo una t-shirt con l´immagine del santo e la scritta "I love San Gennaro". Un perfetto pittogramma glocal.
Tutto questo grazie al sangue miracoloso che il santo dei napoletani continua a "versare" generosamente. È anche per questa sua capacità di rappresentare l´identità collettiva, al di là delle divisioni tra credenti e non, che nei secoli la vox populi ha sempre letto il miracolo come un avvertimento soprannaturale alla città intera. Da interpretare alla stregua di un antico oracolo. Se non si scioglie è cattivo segno. Se si scioglie San Gennaro ha detto sì. Certo, il prodigio è molto vicino al confine tra religione e magia. E i migliori spiriti d´Europa, da Montesquieu a Goethe a Nietszche, si sono interrogati sul mistero del sangue che rivive. Ma per i napoletani la questione non è mai stata l´autenticità del fenomeno. Perché per i credenti la sua verità è fuori discussione. Per i non credenti invece lo è la sua falsità. In fondo la liquefazione resta un grande gioco sociale che unisce scettici e devoti. Forse è questo il vero miracolo.

Corriere della Sera 14.12.07
L'intervista. Giordano: verifica vera No al voltagabbana Dini
«Nessuno ci condizioni, il governo rischia»
di Paola Di Caro


ROMA — A Lamberto Dini che minaccia di far cadere il governo se Prodi seguirà «ancora le politiche della sinistra», Franco Giordano — segretario del Prc — replica con altrettanta durezza: «Nessuno può chiederci di volgere la testa dall'altra parte davanti alla realtà drammatica del Paese. Andremo a una verifica vera, avvieremo una consultazione reale del nostro popolo, e la proporremo a tutta la Sinistra ». Una verifica necessaria perché «quando, come a Torino, si fischia un leader sindacale che rappresenta al massimo livello la condizione operaia, la crisi da politica diventa sociale, e non c'è più tempo per parole e giravolte ma solo per i fatti. Ne va della nostra dignità».
Quali saranno allora le questioni che porrete al tavolo della verifica di gennaio?
«Senza dubbio il tema dei salari, perché in Italia 7 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.000 euro al mese; quello dei prezzi, visto che in 5 anni si è perso grande potere di acquisto; la lotta alla precarietà, problema enorme per i giovani; le condizioni, i ritmi, la sicurezza del lavoro. E poi, esigiamo chiarezza su temi come i diritti civili, che sono stati accantonati, sulle alternative al conflitto bellico, sul disarmo, sull'ambiente. Ed è anche ora che si torni a parlare di una moratoria per la base del Dal Molin».
Onorevole Giordano, lei sa che Dini porrà richieste pressoché opposte alle sue...
«Dini non può chiederci di non muoverci partendo da quella che è la realtà del Paese, nè di volgere lo sguardo dall'altra parte, perché è impossibile».
Vi diranno che siete i soliti estremisti irragionevoli.
«Estremisti? Noi abbiamo aperto discussioni, chiesto chiarimenti, mosso critiche anche aspre all'operato del governo, ma abbiamo sempre votato a favore».
Con chi ce l'ha?
«Le forze di centro, interne o esterne al Pd, spesso non discutono e poi alla fine votano contro. Beh, chi danneggia più il governo, noi o loro? Adesso basta, non tollereremo più che il voltagabbana di turno condizioni le decisioni di tutti e gli accordi presi».
Su questa posizione, il rischio è che cada il governo e magari che si rompa l'alleanza tra la Sinistra e il Pd.
«Certo, è un rischio. Ma devo dire che su questo specifico punto sono in dissenso da Nichi Vendola: per me infatti non è detto che il Pd debba essere il nostro interlocutore fondamentale. E non è detto che il nuovo soggetto unitario possa vivere e morire solo all'interno del governo».
Se mette in conto anche questo, la caduta del governo non è ipotesi così lontana.
«Noi lavoriamo per un accordo, sia chiaro, non perché la situazione precipiti. Ma la verifica deve essere vera, e non sono in grado di prevedere come finirà».
E se il governo cade, si deve tornare a votare o andare ad un esecutivo istituzionale?
«La legge elettorale sarà decisiva a questo fine. Noi siamo per il tedesco puro, ma la realtà è che, se non si parte da questo modello, non ce ne sono altri: c'è solo il referendum».
Che per voi è il male assoluto.
«È devastante, perché determina un meccanismo di proliferazione delle forze politiche, perché annega l'autonomia del soggetto unitario e plurale visto che l'obbligata confluenza in un listone lo fa venire meno».
Per questo siete tra i pochi ad apparire disponibili sulla bozza Bianco?
«Quella bozza, che pure non è più lo spagnolo e nemmeno il Vassallum, presenta ancora problemi rispetto al tedesco. Due per noi sono decisivi: serve il voto disgiunto tra collegio e lista, e serve il riparto nazionale. Con queste modifiche, potremmo garantire una pluralità di rappresentanza e assieme andare incontro al bisogno di governabilità».
Ma i vostri alleati Verdi e Pdci sono contrari.
«Lo capisco, ma le divisioni sono ovunque: nel Pd c'è contrapposizione netta, basta vedere come la pensa Parisi, e anche Prodi non so bene cosa voglia sulla legge elettorale...».
È previsto un vertice per fare chiarezza.
«Già, e mi sembra paradossale si faccia un vertice per l'unica materia che non riguarda la politica del governo ma la libera espressione del Parlamento, e non lo si faccia sul protocollo sul welfare: lo definirei un metodo di confronto osé».
Però c'è chi, come Mastella, minaccia di far cadere il governo sulla legge elettorale.
«Trovo singolare che il governo possa cadere non su temi come guerra, lavoro, diritti civili, ma per l'autoriproduzione di sé. Non è un bello spettacolo».

il Riformista 14.12.07
La Cosa Rossa filosofica
FILOSOFIE. L’ORIGINALE BIOGRAFIA DI MICHELE CILIBERTO EVIDENZIA I LEGAMI DI PENSIERO E VITA
di Livia Profeti


Il materialismo di chi non divide «natura naturata», cioè umana, e «natura naturans», cioè divina, offre radici culturali ben salde per i temi di bioetica. Viene negato il peccato originale e messo al centro della civiltà il corpo, in ottica post-cristiana

Negli ultimi tempi, l’ambiente culturale legato al PD ha proposto la figura e il pensiero del filosofo razionalista Baruch Spinoza tra i propri riferimenti culturali, quale portatore di valori democratici, moderazione, sicurezza, ordine. Molto prima Remo Bodei ne aveva evidenziato la carica politica nel suo Geometria delle passioni, e recentemente ha chiarito che a suo parere la genialità del filosofo olandese consiste nell’idea che gli uomini siano «malvagi perché infelici» a causa del loro dibattersi nelle passioni; compito della filosofia spinoziana è dunque quello di liberarli «dai prodotti dell’immaginazione» fornendo loro un «mondo sicuro» (Left n.37/07). Spontaneo cogliere in queste frasi l’eco dell’insistenza di molti esponenti del PD sul problema della sicurezza, sebbene il primato della razionalità sulle emozioni non sarebbe comunque sufficiente, secondo Spinoza, a garantire l’ordine. A tale scopo bisognerebbe raggiungere la «saggezza» dell’amor dei intellectualis, ovvero quell’amore per Dio proposto come valore dalla importante componente cattolica del PD, riluttante sui temi della libertà sessuale e della bioetica. Vista da questa prospettiva, effettivamente la filosofia di Spinoza sembra fornire lo sfondo valoriale ideale per il “compromesso storico” sancito con la nascita del PD.
La scorsa settimana è nata la Sinistra l’arcobaleno, e la domanda che sorge spontanea è se anche per questo nuovo soggetto politico Spinoza potrebbe essere considerato un filosofo di riferimento. La risposta sembra essere negativa, ed in primo luogo a causa dell’algido stile spinoziano, così diverso dalla passione e dalla dimensione utopica che hanno sempre abitato il miglior pensiero di sinistra. Volevo la luna è il titolo della recente autobiografia di Pietro Ingrao; «la politica è anche emozioni, sentimenti», ha dichiarato Fausto Bertinotti entrando agli Stati generali: espressioni che corrispondono al modo di sentire più genuino del loro popolo.
Se rimaniamo nell’ambito della filosofia pre-illuministica, è piuttosto un’altra la figura maggiormente vicina a questo modo di rapportarsi al mondo: quella di Giordano Bruno. Un’ipotesi che emerge rafforzata dalla lettura di Giordano Bruno, il teatro della vita (Mondandori, 2007), originale biografia filosofica elaborata da Michele Ciliberto, uno dei massimi studiosi di Rinascimento. In questo testo molti sono gli aspetti della persona e del pensiero bruniano dai quali emerge quest’affinità elettiva, a partire dalla sua «prospettiva tesa a congiungere riforma individuale e riforma universale del mondo», tendenza che in controluce si può intravedere in tutte le figure più limpide della genealogia di sinistra, giovane Marx compreso.
Ma è soprattutto al materialismo bruniano che la Cosa rossa potrebbe far riferimento per trovare radici culturali che offrono sponde ben più salde alle sue posizioni sui temi bioetici. In Bruno infatti non c’è la distinzione spinoziana tra natura naturata (umana) e natura naturans (divina) da cui la prima deriva, perché nel Nolano è la materia stessa ad essere “divina”, in senso tutt’altro che ascetico o asessuato. Come spiega Ciliberto, alla base del suo rifiuto «del ‘peccato della carne’ c’è la sua concezione della natura, dalla quale discende in modo diretto la sua negazione del peccato originale. A Bruno era radicalmente estranea l’idea di una natura radicalmente corrotta (…) Nella concezione della natura Bruno si mosse, con coerenza, in una prospettiva nettamente post-cristiana, proclamando il primato del corpo e della corporeità, intesi, l’uno e l’altra, come principio di verità». Lontanissimo dalle ossessioni ecclesiastiche, Bruno non nega né le donne né la sessualità, e la sua “verità”, che non separa il pensiero dall’intuizione/immaginazione, è ancorata ad un corpo sessuato e non esiste al di fuori di questo: facile comprendere perché la Chiesa non l’abbia mai riabilitato.
Anche le tematiche ambientali arcobaleno possono trovare il loro antenato nella concezione bruniana della natura, perché un pensiero che si riconosce nella materia è intrinsecamente impossibilitato a distruggerla; Ciliberto sostiene infatti che secondo Bruno con la natura occorre «cooperare».
Dunque si potrebbe ipotizzare che Spinoza stia al PD come Bruno alla Cosa rossa? Forse si, e se questo piccolo/grande genio fosse ancora vivo, probabilmente lo sentiremmo proclamare: non uno, ma infiniti altri mondi sono possibili.

il manifesto 14.12.07
Quell'antipolitico principio di maggioranza
Incontri Critica alla democrazia. Un seminario di Mario Tronti apre un ciclo di autoformazione alla Sapienza di Roma
di Francesco Brancaccio e Luca Cafagna


La democrazia sembra essere uno dei pochi concetti sopravvissuti alla crisi del moderno e della politica moderna. Il discorso democratico è oggi più che mai egemone, nelle discipline universitarie, nel linguaggio politico, nella «opinione pubblica». Ma ancora: nei nuovi dispositivi di guerra, nell'economia, nelle forme della governance, persino nei provvedimenti securitari.
Quando si mette in discussione la democrazia lo si fa esclusivamente in nome del suo aggettivo (rappresentativa, comunitaria, diretta, contrattuale, partecipativa). Spostare l'asse della critica sul sostantivo, criticare la democrazia sans phrase, o la democrazia politica - per dirla con Mario Tronti - questo è stato il punto di partenza del seminario organizzato dal Collettivo Sp2 di Scienze Politiche dell'Università La Sapienza di Roma. Proprio Tronti ha aperto il ciclo di autoformazione Per una critica della democrazia nel Novecento, che proseguirà affrontando le varie teorie democratiche (Arendt, Rawls, Habermas, Nozick) per poi concludersi con una lezione di Toni Negri su Spinoza.
L'obbiettivo è esplicito: indagare l'inattualità della critica alla democrazia come campo di ricerca all'altezza della nuova composizione sociale che ha innervato i movimenti degli ultimi anni. Democrazia politica significa per Tronti democrazia reale: proprio come per il socialismo, è la sua stessa realizzazione ad annullare la possibilità di un'alternativa ideale. Tronti ha ripercorso, in chiave genealogica, la costellazione concettuale che vive tra Lenin e Schmitt, focalizzando in particolare l'attenzione su tre assi critici. Innanzitutto il principio universalista basato sull'identità del popolo sovrano, versione secolarizzata del concetto teologico di «popolo di Dio». In quest'ottica anche le primarie, che oggi rimbalzano da una sponda all'altra dell'Atlantico sotto l'etichetta della partecipazione diretta, simboleggiano piuttosto l'investitura sacrale di un capo da parte del suo popolo. Dunque, in quanto neutralizzazione e spoliticizazzione del conflitto di classe, è la democrazia stessa ad essere, ab origine, antipolitica.
Inoltre, essendo fondata su un preteso universalismo, la democrazia è pensata per essere esportata, laddove è necessario attraverso la guerra. Proprio la guerra è il secondo asse di riflessione, che attraverso Lenin diviene un dispositivo ambivalente: guerra come prosecuzione della politica capitalistica ma anche come eccedenza del conflitto sociale rispetto alle istituzioni democratiche nazionali. A partire da tale ambivalenza l'azione politica rivoluzionaria è per Lenin rottura della linearità storica e, dunque, dell'immagine di uno sviluppo espansivo del processo democratico.
L'ultimo asse della «lezione» è la contrapposizione tra democrazia e libertà, quest'ultima intesa come «libertà non di dire il pensiero, ma di pensare il pensiero, che non è quello dominante». Da questa angolazione, il potere costituente - enigma e, al contempo, fattore di crisi di ogni costituzione democratica - acquista la sua pienezza in quanto potere costituente di libertà, «esercizio di legittimità che non coincide necessariamente con la legalità». Per dirla in breve: «la democrazia non è un valore», ma è al contrario basata sul principio quantitativo della maggioranza, in ciò del tutto equivalente all'economia politica.
Sostenere ciò in un'aula universitaria trova un immediato riscontro con i meccanismi di quantificazione del sapere determinati dai recenti processi di riforma. È proprio da questo punto di vista che l'autoformazione emerge con tutta la sua forza in quanto qualità contrapposta alla quantità, pratica di minoranza irriducibile al principio di maggioranza e al minoritarismo ad esso subalterno. Proprio l'assunzione di questo principio, sostiene Tronti, ha infatti rappresentato il suicidio del movimento operaio. E, potremmo aggiungere, della «sinistra reale».
Se, come dice Tronti, dopo averla radicalmente messa a critica, Marx non è però del tutto fuoriuscito dall'economia politica, allora la frontiera della ricerca si situa oggi sull'andare oltre la democrazia.

giovedì 13 dicembre 2007

l’Unità 13.12.07
Gramsci, il distacco dal mito dell’Urss
di Silvio Pons


Un legame forte con l’Ottobre progressivamente sottoposto a critica specialmente sul punto della costruzione statale Proprio nelle note carcerarie e dopo lo scontro con Togliatti del 1926 prende forma un’analisi disincantata del nuovo Stato
IL CONVEGNO Al via oggi a Bari tre giornate di studio sul pensatore dei «Quaderni del carcere» a cura della Fondazione intitolata al suo nome. Una esplorazione integrale del suo pensiero con particolare riferimento al ruolo del 1917

Gramsci condivise una visione mitica della dittatura bolscevica, diffusa nel movimento comunista. Parte essenziale di tale mito furono l’idea che l’unità della «vecchia guardia» leninista fosse una risorsa spendibile e l’idea che le politiche del bolscevismo al potere coincidessero con una effettiva realizzazione di libertà, consenso e socializzazione. Ma la sua irremovibile convinzione che lo Stato rivoluzionario costituisse non soltanto un punto di forza materiale e organizzativo, bensì anche simbolico sul piano internazionale, centrava una questione cruciale: senza quella risorsa strategica, anche la più raffinata concezione rivoluzionaria occidentale era destinata alla marginalità. Il suo arresto rimosse la questione stessa dal campo ottico dei comunisti italiani. Privo delle «bellicose certezze» distintive di Lenin, e però inevitabilmente portato a caricare di aspettative l’opera dei gruppi dirigenti sovietici dinanzi alla fine del «tempo della rivoluzione» in occidente, Gramsci non doveva più liberarsi degli interrogativi e dei principi enunciati nel carteggio con Togliatti del 1926. Le note del carcere recano il segno di una siffatta eredità e costituiscono, in questa luce, un solitario tentativo intellettuale di venire a capo dell’evoluzione nel frattempo conosciuta dall’Urss tornando sulle proprie fonti originarie dell’esperienza sovietica, senza liquidarle. Vale la pena di svolgere, a questo riguardo, alcune considerazioni conclusive .
In primo luogo, si deve sottolineare il legame di Gramsci con la Nep, affermato nella lettera dell’ottobre 1926 e variamente presente nei Quaderni. Gramsci restò legato all’idea che l’evoluzione dell’Urss si dovesse svolgere in forme graduali e non violente, e ciò lo portò ad esprimere una critica della dissoluzione della Nep nella Rivoluzione dall’alto promossa da Stalin dopo il 1928: quest’ultima gli apparve una rottura del sistema di equilibri sociali derivante dalle alleanze di classe. Ma la Nep era per Gramsci un «sistema di equilibri» ancor più articolato, in quanto di natura anche politico-istituzionale: in questo contesto deve essere letta la sua insistenza sul carattere vitale della dialettica di partito nelle note del carcere. Di qui, tra l’altro, la sua critica trasparente della liquidazione dell’opposizione di sinistra in Urss, che egli svolse nell’ambito del concetto di «parlamentarismo nero». La dissoluzione di questo «sistema di equilibri» sembrò portare Gramsci ad interrogarsi sulle prospettive autentiche di un superamento della fase «economico-corporativa» in Urss e sui pericoli insiti nel debole sviluppo delle sovrastrutture. In questo contesto egli sviluppò la sua critica della «statolatria», quando ormai le tendenze della Rivoluzione dall’alto erano pienamente in atto, nell’aprile 1932.
In secondo luogo, il nesso esistente nei Quaderni tra «guerra di posizione» e «rivoluzione passiva» deve essere applicato anche all’Urss. La nozione di «guerra di posizione» non riguardava soltanto la strategia del movimento comunista, ma anche la «costruzione del socialismo» in Urss, che Gramsci vedeva come un’altra faccia del medesimo problema. Di conseguenza, Gramsci si interrogava sull’idoneità alla «guerra di posizione» degli scelte compiute dal gruppo dirigente sovietico alla fine degli anni Venti. D’altro lato, la Grande trasformazione sovietica e il suo carattere di mutamento dall’alto si inserivano necessariamente nel contesto della «rivoluzione passiva» che, a suo giudizio, caratterizzava l’epoca postbellica. È difficile dubitare del fatto che nei Quaderni fosse operante un nesso interpretativo sul regime sovietico come regime autoritario di massa. La sua distinzione tra totalitarismo «regressivo» e «progressivo» rivelava un lampante riferimento, rispettivamente, al regime fascista e al regime sovietico. Ma dal 1933 in avanti, Gramsci condusse una riflessione assai più sulle analogie che non sulle differenze tra i regimi totalitari. Non si può non vedere un simile approccio operante nelle note sull’interazione partito-Stato, sul rapporto politica-organizzazione e sulle funzioni di polizia dei regimi autoritari di massa. In altre parole, la riflessione presente nei Quaderni sull’autoritarismo sovietico si spinse molto oltre la questione industrialismo-bonapartismo.
In terzo luogo, l’unico passaggio dei Quaderni dove compare un esplicito riferimento a Stalin, risalente al febbraio 1933, ci si presenta sotto un’angolatura diversa da quella, solitamente rilevata, dell’adesione di Gramsci al «socialismo in un solo paese». Senza dubbio, egli mantenne un’adesione di principio all’idea: ma non può sfuggire il fatto che la sua polemica antitrockista era ormai un espediente per criticare in realtà il corso politico di Stalin e, verosimilmente, anche la linea settaria del Comintern. In altre parole, Gramsci delineò una critica del nesso nazionale-internazionale nella politica dell’Urss, nelle forme assunte dopo il 1928.
Nei Quaderni il nesso guerra di posizione-rivoluzione passiva conduce a una visione più ampia della dimensione statuale della Rivoluzione russa, e alla sua collocazione nei processi internazionali del dopoguerra. L’interrogativo generale di Gramsci era se il dopoguerra del XX secolo potesse seguire uno svolgimento analogo a quello del dopoguerra del XIX, nel senso di un parallelo tra l’espansione della rivoluzione borghese e quella della rivoluzione socialista. Questo interrogativo investiva direttamente il problema delle possibilità e delle capacità egemoniche dell’Urss: sulle quali, la visione di Gramsci si fece nel 1932-34 chiaramente pessimistica e negativa. Il senso ultimo delle sue linee di domanda e di ragionamento sembra essere che la Russia postrivoluzionaria non fosse in grado di svolgere quel ruolo di Stato egemone che, a suo giudizio, era stato assolto nel secolo precedente dalla Francia postrivoluzionaria. Il segno della «rivoluzione passiva» dominava anche l’evoluzione dell’Urss: questo appare il tormentato approdo del pensiero di Gramsci sull’esperienza sovietica, e anche il carattere originale della sua visione, a confronto di altre visioni critiche coeve, nate all’interno del comunismo e del socialismo internazionale.
Non per questo si deve smarrire il legame del pensiero di Gramsci con la tradizione bolscevica. Dopo la morte di Lenin, Gramsci non stabilì un rapporto univoco con alcuna delle correnti nelle quali si divise il bolscevismo, ma neppure si distaccò mai completamente dalle categorie di pensiero bolsceviche. La sua visione della Nep come sistema di equilibri, sviluppata nei Quaderni, presentava un’evidente inclinazione «buchariniana», oltre che un’ovvia derivazione dagli ultimi scritti di Lenin, e si nutriva di una concezione della dialettica interna di partito di chiara matrice trockista. Negli anni del carcere, Gramsci si mostrò consapevole del nucleo bonapartista operante nel pensiero di Trockij, ma vide anche in Bucharin lo specchio di un’ideologia ufficiale attardata nella fase «economico-corporativa». Non meno multiforme appare il suo rapporto con le concezioni internazionali del bolscevismo. Gramsci rivelò una sintonia evidente con Bucharin attorno all’idea che fosse davvero possibile conciliare il processo di «State building» sovietico con un ruolo attivo del comunismo internazionale, entro un orizzonte disegnato sulla centralità dell’Urss, ma ancorato alla tradizione rivoluzionaria. La sua interpretazione del «socialismo in un solo paese» non limitava però il ruolo del movimento comunista alla difesa dell’Urss e assumeva quale criterio essenziale di valutazione la capacità di esercitare un’egemonia ideale. L’orientamento isolazionistico dell’Urss e settario del Comintern sotto la direzione di Stalin dovettero perciò apparire a Gramsci in carcere l’inveramento di un pericolo già individuato.
Proprio su questa problematica, tuttavia, Gramsci si doveva allontanare dai riferimenti originari, nel tentativo di darsi conto dei caratteri di fondo dell’evoluzione dell’Urss sotto Stalin. Dopo il 1929 il suo pensiero non seguì né il percorso di Trockij, incardinato sulla categoria della «degenerazione», né quello di Bucharin, fino all’ultimo incline a presentare la dittatura di Stalin come una risposta necessaria al contesto internazionale. La critica di Gramsci contro la svolta dettata da Stalin alla fine degli anni 20 presentava invece la centralità del nesso tra interno ed esterno: attraverso il prisma di tale interazione vide nella Russia postleniniana l’assenza dei caratteri indispensabili all’esercizio dell’egemonia. Non è fuori luogo ipotizzare che l’elaborazione stessa della categoria di «rivoluzione passiva» nei Quaderni, applicata all’intero dopoguerra, sia stata influenzata in Gramsci anche dalla sua valutazione sempre più disincantata del ruolo dell’Urss. Così la drammatica questione posta nel 1926 non trovava la sua composizione, ma generava soltanto una serie di angosciosi e sconfortati interrogativi, orientati verso una risposta irrimediabilmente pessimistica. In un suo scritto sull’«utopia bolscevica», Edward H. Carr indicò nelle note di Gramsci sulla distinzione tra governanti e governati una «malinconica riflessione» assai lontana sia dallo slancio ideale dei bolscevichi subito dopo la rivoluzione, sia dalla coscienza sovietica dell’epoca successiva . Forse il celebre storico britannico coglieva nel segno, più di quanto egli stesso non fosse consapevole, circa la distanza psicologica e intellettuale che ormai separava Gramsci in carcere dal mondo della sua formazione.

l’Unità 13.12.07
Montale. Il «Diario postumo» è una trovata d’autore
di Alberto Casadei


SEMBRA PROPRIO OPERA DI EUGENIO MONTALE la discussa raccolta uscita dopo la morte del poeta che venne attribuita ad Annalisa Cima. Un racconto del ’46 ne anticipò l’idea

Forse c’è qualcosa di nuovo riguardo al Diario postumo, la discussa raccolta di Eugenio Montale uscita appunto postuma sotto la sorveglianza dell’amica scrittrice Annalisa Cima. Bisogna innanzitutto ricordare che sono ormai passati dieci anni da quando, poco dopo la pubblicazione integrale delle poesie di questo Diario (a cura di Rosanna Bettarini, Mondadori 1996), si è scatenata una polemica quanto mai accesa tra filologi e critici della letteratura italiana. A dare il via alla discussione è stato il critico Dante Isella: in vari articoli pubblicati nel 1997, questo autorevole commentatore delle Occasioni ha sostenuto che i testi erano di pessima fattura e pieni di autocitazioni addirittura goffe. Inoltre, a Isella e a vari specialisti gli autografi noti sino a quel momento non sembravano di mano di Montale. Tanto bastava per ipotizzare che l’intera operazione del Diario, ovvero la pubblicazione prima a piccoli gruppi e poi in un unico libro di oltre ottanta inediti, non fosse stata architettata dal poeta bensì proprio da Annalisa Cima, che gli era stata vicina sin dalla fine degli anni Sessanta e che, secondo alcune disposizione testamentarie, avrebbe dovuto curare le edizioni montaliane postume.
A difesa della Cima si schierarono Rosanna Bettarini e, con qualche ritardo, Maria Corti, che dichiarò di essere stata messa a conoscenza del progetto dal poeta stesso. Tuttavia parecchi dubbi permanevano, nonostante le continue aggiunte di dettagli e nonostante una mostra dei presunti autografi, seguita dalla loro riproduzione in un volume di concordanze del Diario, curato da Giuseppe Savoca (Olschki, 1997). Dopo un periodo di fuochi più o meno fatui, si arrivò a una sorta di armistizio, e negli ultimi anni l’intera questione non è stata più ripresa direttamente, benché non siano mancati vari contributi critici che mostravano, se non altro, che l’autocitazione era un tratto tipico dell’ultimo Montale, e quindi molti degli esempi di banali riprese segnalati da Isella non costituivano automaticamente una prova a carico della falsificazione.
Ma altri elementi potevano essere considerati, se si fosse allargato un po’ l’obiettivo al di là delle sole poesie. E qui vengono le novità. Perché non è stato sinora esaminato con attenzione un racconto montaliano, In un albergo scozzese, che era pochissimo noto prima della sua ripubblicazione nel Meridiano delle Prose (Mondadori 1995): edito sul Corriere della sera del 28 agosto 1946 non era stato raccolto nella Farfalla di Dinard né aveva attirato particolari attenzioni da parte degli specialisti prima della morte dell’autore, nel 1981. Dunque, era abbastanza improbabile che qualcun altro, a parte Montale, fosse a conoscenza di questo raccontino umoristico. Ma, significativamente, in esso si parla di un commerciante di Aberdeen il quale, dopo aver sostenuto che «chi scrive deve farsi avanti in vita, non dopo morto», alla fine si ritira «nell’abbazia di Montrose per curarvi le sue opere “postume”». La scelta, sottolineata sia dal cambiamento di opinione tra l’inizio e la fine del racconto, sia dalle virgolette assegnate all’aggettivo «postume», è adeguatamente paradossale, e quindi Montale, approvandola, può senz’altro aver pensato di metterla in pratica anche per sé. L’idea di un Diario postumo, insomma, è molto affine al gusto ironico tipico dei racconti degli anni Quaranta e poi dell’ultima fase della produzione montaliana.
Del resto, l’idea di preparare opere da pubblicarsi postume ricorre qualche altra volta, benché in forme meno esplicite, in scritti o interviste, anch’esse difficilmente reperibili prima della riedizione nei Meridiani. Ma ancor più interessante è che pure un espediente stilistico molto particolare, però usato di sicuro almeno una volta da Montale, si ritrova in un componimento del Diario: si tratta di L’inafferrabile tua amica…, in cui il nome dell’anglista Bulgheroni, Marisa, viene indicato con una perifrasi («Oppure quel suo nome che muove / da incertezza e finisce in risa»), che assomiglia molto, per tipologia, a una usata in un testo montaliano minore, Ventaglio per S.F., dove il nome di Sandra (Fagiuoli) viene indicato in questo modo: «chi col suo nome decapitò Cassandra». Si tratterebbe insomma del riuso di uno stilema unicum nella produzione d’autore, e perciò difficilmente individuabile da un sia pur abile falsario.
Tutto risolto, dunque? Ancora no. Perché in effetti qualche zona d’ombra rimane riguardo alla realizzazione dell’intero progetto. I presunti autografi, per esempio, non assomigliano a quelli autentici coevi, dalla scrittura molto più faticosa e tremolante. Questo aspetto sconcerta, perché non si capisce quale ragione ci sarebbe stata di falsificare dei testi montaliani tardi usando la grafia del poeta all’epoca degli Ossi di seppia. In effetti, molto più economico sarebbe stato procurarsi una macchina da scrivere simile a quella con cui spesso Montale componeva direttamente i suoi testi negli ultimi anni. D’altra parte, perché non è mai stato dichiarato da nessuno che il poeta si è fatto aiutare a scrivere le poesie del Diario, come sembrerebbe plausibile?
Le ipotesi si potrebbero sprecare (e sull’intera questione sarà pubblicato su Italianistica un intervento del giovane montalista Niccolò Scaffai che parla di «apocrifo d’autore»). Tuttavia, un paio di considerazioni possono ormai emergere. Da un lato, sarebbe importante che venissero resi noti anche gli indizi minimi, sinora magari trascurati da conoscenti di Montale che abbiano avuto modo di visitarlo nei suoi ultimi anni, dato che pure con queste piccole prove si potrebbe comporre un quadro più chiaro. Da un altro, sembra evidente che Montale ha chiuso la sua parabola poetica con Altri versi, raccolta per tanti aspetti ricapitolativa, nata durante la realizzazione dell’Opera in versi montaliana a cura di Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini, edita nel 1980 da Einaudi e tuttora punto di riferimento imprescindibile. Il Diario postumo, al di là del valore che si vuole assegnare all’insieme delle poesie o ai singoli testi, è comunque un’appendice autonoma, una «trovata d’autore» che però, in ogni caso, non cambia nel profondo la nostra percezione della poesia montaliana: sulla quale, dopo un periodo di minore interesse (specie da parte dei poeti delle ultime generazioni), sarebbe il caso di tornare per nuove interpretazioni.

Repubblica 13.12.07
L'orco È in casa
di Attilio Bolzoni


Sono mille i piccoli spariti nell´ultimo anno, sono sempre di più: casi famosi come Denise e altri che restano nell´ombra

Sono i piccoli fantasmi d´Italia. Tutti insieme, fanno gli abitanti di un paese intero come Broni in provincia di Pavia o come Capaci in provincia di Palermo. I minori che da trent´anni non si trovano più sono 9347. Si chiamano Riccardo, Silvio, Radhouane, Veronica. E si chiamano Pasqualino, Ester, Alì, Andrea, Giovanni, Sara, Adan, Corneliu, Hajar, Annamaria, Diego e Sebastian. Sono spariti tutti. Come altri mille dall´inizio di questo 2007 che sta per finire. Scompaiono all´improvviso, nelle grandi città del Nord e nelle campagne del Sud. E´ un esercito di bimbi e di ragazzini invisibili. I maschi sono quasi il doppio delle femmine.
E aumentano, aumentano sempre i piccoli che non tornano più a casa. Erano 440 nel 2004, 671 nel 2005, 884 nel 2006. Dal primo gennaio al 4 ottobre scorso sono già diventati 984. Quattro bambini al giorno inghiottiti in qualche parte d´Italia. Uno su quattro è nato qui, gli stranieri sono per lo più albanesi o magrebini o romeni. I più piccini hanno pochi mesi, i più grandi diciassette anni. In fuga o rapiti. Comprati o venduti. Vivi o morti. Su ogni cento che spariscono ne riappaiono per fortuna ottanta. Qualche mese prima, in un´altra città italiana, un operaio albanese, o forse polacco, comunque extracomunitario, intento alla manutenzione di una strada, era scampato miracolosamente a una folla inferocita che minacciava di giustiziarlo sul posto. L´avevano preso per un pedofilo per aver scambiato due battute e un sorriso con un ragazzino che gli si era avvicinato, incuriosito dagli attrezzi da lavoro.
Ciò che colpisce, in questi episodi, è la sproporzione evidentissima fra il fatto e la reazione. La zingara e l´operaio sono vittime in senso classico: non hanno fatto niente, e rischiano la libertà, se non la pelle, sotto la pressione di una folla che vibra di sdegno e di paura. Paura degli orchi. Che, se esistono, devono essere puniti.
Ma esistono davvero gli orchi?
Sul fenomeno dei minori scomparsi circolano, da anni, statistiche altamente attendibili. Il Servizio Minori della Polizia di Stato ha censito 984 minori scomparsi nell´anno in corso; 719 sono stranieri. Nell´80% dei casi si tratta di allontanamento volontario. Molti dei minori fanno poi ritorno in famiglia, ma non sempre i genitori vanno a raccontarlo agli inquirenti: forse perché sono troppo felici e non ci pensano più, forse perché si sentono responsabili e provano vergogna. Tutte le inchieste, anche a livello internazionale, su presunte reti pedofile, raramente hanno prodotto esiti convincenti. Quanto al traffico di organi umani, non esistono, a tutt´oggi, prove dell´esistenza di organizzazioni dedite a simili attività.
L´amara verità che emerge dal lavoro incessante degli specialisti è che nella stragrande maggioranza dei casi la scomparsa dei minori è da ricondursi a fatti di natura familiare. Sono gli affetti e gli amori che sequestrano, fanno sparire, troppo spesso sopprimono. Statistiche, o, peggio, fatti. Le une e gli altri possono essere maledetti, persino offensivi: mettono al muro i nostri consolidati luoghi comuni e li fucilano impietosamente. Ci privano dell´illusione di una mostruosità tanto più paradossalmente rassicurante quanto aliena da noi. Non è facile rassegnarsi all´idea che l´orco zannuto e la strega di Hansel e Gretel sollevino la terrificante maschera per mostrare il sorriso distorto di mamma e papà. Ma, purtroppo, è quanto quasi sempre accade. E anche le lamentazioni contro l´imbarbarimento della società lasciano il tempo che trovano. Da quando la criminologia ha preso a darsi solide basi scientifiche, gli annali sono pieni di racconti raccapriccianti popolati da padri stupratori, madri omicide, zii affettuosi che improvvisamente si trasformano in orridi aguzzini. La casistica registrata centoventi anni fa da Cesare Lombroso è agghiacciante: "Mezz´ora prima di ucciderla io non ci pensavo affatto" confessa madame George, affettuosa nonnina settantenne, dopo aver ucciso la nipotina. Un tal Bouillard, padre tenero ed esemplare, dopo aver sterminato la sua famiglia, si precipita da un vicino e lo esorta a vedere di persona: "Io non so perché li abbia uccisi, io che li amavo tutti e si viveva in ottima armonia".
Sì, gli orchi esistono. Ma non hanno il volto della zingara e dell´operaio. Quella zingara e quell´operaio pagano un clima di crescente paranoia sociale. Sono, in quanto stranieri, in quanto "altri", capri espiatori ideali della nostra paura. Se esistono gli orchi che ci portano via i figli, si saranno detti la madre angosciata e gli improvvisati giustizieri, devono avere il volto di quei due.
La paura dell´orco che viene da lontano... ma che cosa nasconde, in fondo, se non la paura di scoprire che l´orco ce lo portiamo dentro, che ha il nostro aspetto, che potrebbe esplodere da un momento all´altro?

Corriere della Sera 13.12.07
Il caso Il quotidiano comunista: sì a Cusani, ma niente profitto
E «il manifesto» si fa azienda «Usciamo dall'adolescenza»
di Angela Frenda


MILANO — Il manifesto «deve essere anche un'azienda». E fa niente che «tanti, come noi, possono storcere il naso perché abituati a concepire l'azienda come organismo predatorio del lavoro e dell'intelligenza collettiva. Combattere questo modello resta una delle ragioni principali del nostro lavoro e della nostra vita. Ma l'azienda alla quale pensiamo è l'insieme di persone e cose organizzate economicamente per il conseguimento di uno scopo determinato».
Nel quotidiano di via Tomacelli (ma da gennaio traslocano nella nuova sede di via Bargoni, in zona Porta Portese) si cambia registro. E si introduce il concetto, finora poco amato, di azienda. L'annuncio è stato dato ieri ai lettori in un lungo e sofferto articolo di prima pagina, che è stato il frutto dell'assemblea di martedì tra i giorna-listi, la direzione, e Sergio Cusani. L'ex finanziere è stato infatti contattato dai vertici del manifesto perché stili un piano di risanamento dei conti economici, da anni oramai in rosso.
Il manifesto ha affidato le proprie sorti, quindi, all'uomo che trent'anni fa era considerato un genio della Borsa, che poi ha lavorato per Raul Gardini e che infine è divenuto famoso nelle cronache giudiziarie per aver gestito la maxi tangente Enimont ai partiti. Oggi Cusani però ha cambiato vita: si occupa di problemi dei detenuti e collabora con i sindacalisti della Fiom-Cgil, per i quali svolge attività di monitoraggio delle aziende in crisi. E martedì ha illustrato il suo progetto di risanamento ai redattori del manifesto.
In sintesi, Manifesto spa, titolare delle testata, ha adesso sulle sue spalle il debito di 12 milioni di euro a fronte di un patrimonio di 20 milioni di euro. Secondo il piano di Cusani la Spa concederebbe per durata pluridecennale la testata alla cooperativa Manifesto Cearl ricevendo un canone annuo. Così la Cearl sarebbe libera di agire come impresa competitiva non più oberata dai debiti.
Un'«aziendalizzazione», spiega il direttore Gabriele Polo, «sofferta ma necessaria. È ora di diventare grandi e abbandonare la fase adolescenziale. Vanno bene le sottoscrizioni, e siamo sempre stupiti dalla generosità dei nostri lettori. Ma non possiamo continuare a sopravvivere girando con il cappello in mano. Dobbiamo diventare adulti e porre fine alla fase post '68. Quindi serve anche una struttura aziendale. Basta incarichi confusi e scarsa responsabilizzazione nel gestire il patrimonio ». L'azienda a cui pensa Polo, però, «sarà diversa. Perché non punta ai profitti ma all'indipendenza del giornale». Pensiero, questo, in sintonia con la maggior parte della redazione. Come conferma Andrea Fabozzi, membro del Cdr: «Quasi tutti noi crediamo che non ci farebbe male l'introduzione di criteri aziendali. Nessuna demonizzaIl caso Il quotidiano comunista: sì a Cusani, ma niente profittozione, insomma. Perché l'alternativa è rimanere assistiti a vita. Semmai il problema è spiegare bene questa cosa ai nostri lettori, alcuni dei quali potrebbero non capire». Di qui, il fondo di ieri. Dopo un'assemblea che si è conclusa con il voto per acclamazione della proposta di Cusani. Il quale spiega soddi-sfatto: «Il progetto si deve e si può fare. La trasformazione in azienda e l'abbandono di un'organizzazione non competitiva? I giornalisti l'hanno capita. Come? Ho spiegato che anche loro dovevano fare uno sforzo, adesso, rispetto alle proprie ideologie. Così come i loro lettori avevano fatto tanti sforzi finora».

Corriere della Sera 13.12.07
Le critiche al «Dizionario» dell'Utet
Fede, relativismo e diritti umani
di Marco Ventura


Oggi per la Chiesa il rigore dottrinale è diventato il metro della giustizia

«Pensare i diritti umani senza cristianesimo » è la colpa dell'opera in sei volumi che la Utet ha consacrato di recente proprio ai diritti umani. L'Osservatore Romano stigmatizza le «colpevoli omissioni» di un dizionario incerto sui principi e reticente su vita, embrione ed eutanasia. Il giornale della Santa Sede critica soprattutto lo scarso rilievo riservato alla Chiesa cattolica. La prova provata: l'opera dedica soltanto una voce di sei «discutibili » pagine a «Cristianesimo e diritti umani».
Mentre a Strasburgo l'Unione Europea proclama la propria Carta dei diritti fondamentali, l'intervento dell'Osservatore
Romano dell'11 dicembre va al cuore del problema. Per decenni i cattolici hanno cercato di pesare per la propria testimonianza più che per la propria dottrina: singoli fedeli, associazioni e Chiese sul terreno; la Santa Sede con quel capolavoro di sintesi tra ideali e pragmatismo che è la diplomazia vaticana. L'approccio è oggi cambiato. Dottrina e ortodossia prendono la scena. La Chiesa cattolica vuol pesare contrapponendo alla politica e al diritto — freddi, fragili e relativisti — il proprio patrimonio di valori, fondamenti, etica. I diritti umani sono in crisi perché l'uomo non confessa la propria verità. L'uomo non sa confessare la propria verità perché non sa credere. Gli unici diritti umani solidamente posti sono quelli giusti: e come ha scritto Benedetto XVI, il diritto è giusto quando fede e politica «si toccano» nell'etica. L'asse si sposta dalla fatica del cattolico in politica verso l'ortodossia del cattolico in dottrina. Su questo piano, cosa possono gli autori di un Dizionario? E cosa possono i deputati del Parlamento europeo? Ogni confronto con un magistero religioso è perso in partenza. Quale dizionario potrebbe accontentare L'Osservatore Romano citando come si deve «studiosi cattolici» oppure tenendo nel «dovuto conto la Dottrina sociale della Chiesa»: soltanto un dizionario cattolico può riuscirvi, dizionario peraltro già esistente nel Catechismo del 1992 e persino nel Codice di diritto canonico del 1983.
Criticando chi «pensa i diritti umani senza cristianesimo » L'Osservatore Romano si diverte a parodiare la voce da me firmata su «Cristianesimo e diritti umani», in cui appunto scrivo che «è impossibile pensare i diritti umani senza cristianesimo». Allo stesso modo si critica chi non dice che è cattolica «l'unica voce chiara ed inequivocabile in difesa dei diritti». Proprio ciò che affermo — con un pizzico di prudenza in più — nella mia voce: «La Chiesa cattolica si è affermata quale indiscusso protagonista della lotta globale per i diritti umani». Sembrano giochi di parole, scaramucce di altri tempi tra cattolici e liberali. Non è così.
Nel Dizionario Utet duecento esperti confessano la fragilità del proprio sapere «discutibile». A sua volta L'Osservatore Romano rivela la fragilità della propria salda dottrina: salda come è la religione di fronte alla politica e al diritto. Ma fragile nell'arena degli interessi. Dove il cattolico è diviso tra la precarietà della cittadinanza e l'assoluto della fede.

Il Sole 24 Ore 12.12.07
La doppia anima della sinistra radicale
di Piero Ignazi


La costituzione de La sinistra-L'arcobaleno, federazione di Rifondazione, Verdi, Pdci e Sinistra democratica, sembra invertire la direzione di marcia se­guita fin qui dalla storia della sinistra italia­na. Pietro Ingrao, acclamato domenica come padre nobile del nuovo partito, era tal­mente consapevole dell'irrequietezza e del­la litigiosità della sinistra italiana - un tem­po quella socialista poi quella estrema - da aver formulato un solo, significativo auspicio dal palco della riunione fondativa alla nuova Fiera di Roma: «Unitevi». E Fausto Bertinotti, mentre echeggiavano le note di "Bella ciao", ha sintetizzato l'evento con l'espressione «una bellissima giornata». Animano la Sinistra-Arcobaleno Franco Giordano, Oliviero Diliberto, Alfonso Pecoraro Scanio e Fabio Mussi.

Ma la storia della sinistra italiana è fatta di innumerevoli scissioni. Incompatibilità teo-riche, scomuniche ideologiche, irrigidimen­ti sulla purezza rivoluzionaria, ma anche faide personali e tatticismi di bassa lega hanno piagato la vita del socialismo e del comuni­smo italiano. Non è vero che il Pci fosse un monolite: al suo interno scoppiavano assai di frequente forti contrasti; il fatto che si concludessero invariabilmente con l'espul­sione dei dissidenti serviva a salvare la fac­cia, ma non per questo la diaspora dei "rivoluzionari" o dei "revisionisti" si arrestava. Se questo movimento avveniva sottotrac­cia, per quell'incapsulamento ideologico e fideistico che faceva digerire tutto agli ex­compagni pur di non danneggiare la causa del proletariato e della rivoluzione, come ci ha magistralmente descritto Arthur Koestler nel suo Buio a Mezzogiorno, nel mondo socialista invece era tutto palese, aperto, e quindi più distruttivo. A rileggere le vicen­de del socialismo italiano, dalla scissione saragattiana di palazzo Barberini (1947) in poi, per almeno un decennio ci si perde in un labirinto di sigle e formazioni che si scin­dono, si accorpano e si dividono ancora. Lo stesso fenomeno, in scala molto più ridotta, si ritrova lungo tutti gli anni 70 quando la ventata neo-marxista produce una infinità di gruppuscoli "rivoluzionari", tutti rigorosamente alla sinistra del Pci: Potere opera­io, Partito comunista marxista-leninista, Lotta continua, Manifesto, Pdup, Movimen­to lavoratori per il socialismo, Avanguardia operaia, per non citare che i più noti. Il pro­gressivo isterilimento politico-ideologico della sinistra extraparlamentare, e la con­correnza nel mondo giovanile del Partito ra­dicale prima e dei Verdi poi, hanno portato quelle formazioni politiche a un processo di aggregazione "residuale" in un unico conte­nitore, Democrazia Proletaria, al fine di mantenere un minimo di visibilità.

La nascita di Rifondazione comunista dalla costala cossuttiana del Pci, al momen­to della sua trasformazione in Pds, offre un rifugio sicuro agli ultimi epigoni della sta­gione movimentista degli anni 70.1 succes­si elettorali di Rifondazione e la sua solidità organizzativa (nei primi anni reclutava più di 100 mila iscritti suddivisi in più di 2mila sezioni) avrebbero potuto sedare le inquietudini ideologiche. Invece no: fin da subito il partito si rivela irrequieto, in parte riproponendo antiche fratture ereditate dalle precedenti esperienze dei leader (Cossutta ex-Pci contro Magri ex-Pdup, ad esem­pio), in parte lasciando libero corso alle va­riegate espressioni della sinistra antagoni­sta. Un quadro che viene ulteriormente ar­ricchito, e frammentato, all'inizio degli an­ni 2000, dall'apertura del partito ai movi­menti, dai pacifisti ai no-global. Con una ta­le cacofonia, peraltro mai sanzionata all'in­terno, in linea con la grande apertura e tolle­ranza praticata dal partito, diventa quasi ir­resistibile riprendere l'antica strada delle divisioni: nel 1995 con l'uscita del gruppo dei Comunisti italiani poi confluiti nei Ds, e nel 1998 con la scissione che da vita al Parti­to dei comunisti italiani (Pdci) di Cossutta, Diliberto e Rizzo. A completare cronologi­camente il quadro arriva infine la "non ade­sione" al Partito Democratico da parte di una cospicua minoranza dei Ds guidata da Mussi e Salvi che promuovono il gruppo di Sinistra democratica.

Il soggetto politico nato domenica scorsa è, tuttavia, un (ulteriore) ircocervo italico. Non perché sia implausibile l'aggregazione di componenti paleo-comuniste, movimentiste, antagoniste ed ecologiste. Di esperi­menti simili se ne sono visti anche in altri Paesi, dall'Olanda al Portogallo, ma con esiti poco brillanti. Piuttosto è la collocazione politi­ca che differenzia la formazione di Diliberto, Giordano, Mussi e Pecoraro Scanio. Si tratta infatti di partiti che, benché si collochino all'estrema sinistra, sono tutti al Governo. Laddove si è compiuto un passo analogo, co­me in Germania con la fusione tra il vecchio Pds di Gregor Gysi e il Wasg di Oskar Lafontaine, si trattava di due partiti all'opposizio­ne e antagonisti rispetto al fratello maggiore socialdemocratico. Tanto che la loro indi­sponibilità a trattare con gli altri partiti (pe­raltro ricambiata anche dalla Spd) ha fatto naufragare ogni ipotesi di un governo rosso-rosa-verde dopo le elezioni del 2005. In più, e questo è un aspetto rilevante, i Griinen tede­schi di Joschka Fischer non hanno nemme­no preso in considerazione l'ipotesi di aggre­garsi alla nuova formazione, ritenendo la propria agenda politica "post-materialista" ben lontana da quella arcaicizzante di Die Linke. Quindi in Germania si configura una sinistra di opposizione tuttora divisa tra una componente (Die Linke) tutto sommato tra­dizionale e indisponibile al compromesso e una (i Verdi) più moderna e già arricchita dall'esperienza governativa.

Lo stesso quadro si ritrova in Francia. L'esperienza della gauche plurielle degli an­ni del governo Jospin, poi tenuta in vita a fati­ca dopo la sconfitta alle presidenziali del 2002, non comprendeva tutta i partiti a sini­stra del partito socialista. Vi erano esclusi trotzkisti e massimalisti di vario colore. Co­me in Germania, la sinistra radicale si suddi­vide in una piccola ma agguerrita fazione estremista e irriducibile a logiche coalizionali e in un raggruppamento "governativo" che comprende il vecchio, consunto Pcf, i Verdi e altri piccoli movimenti. In Italia tro­viamo qualcosa di inedito: La sinistra-L'arcobaleno raccoglie tutta la sinistra radicale ma è tutta al governo e, anzi, si proclama tut­ta "governativa". Nulla a che vedere con i to­ni di Lutte Ouvriére o della Linke.

Come ricordava giustamente tempo fa Tommaso Padoa-Schioppa, l'accettazione, per quanto protestando ed obtorto collo, di tanti provvedimenti di rigore finanziario e di messa in ordine dei conti pubblici da par­te di tutta la sinistra estrema è un fatto uni­co nella politica europea. La costituzione del nuovo soggetto politico rinforzerà que­sto atteggiamento responsabile o sollecite­rà nuove avventure massimaliste?

il manifesto 12.12.07
Ehi!
di Rossana Rossanda


Come siamo frettolosi e snob davanti al primo ten­tativo della galassia delle si­nistre di mettersi assieme. Pare che i più scafati manco siano andati a vedere. Eppure non ci sono alternative, o si lascia la sfera politi­ca a Veltroni, e noi ci contentiamo di essere, se va bene, frammenti interessanti e intelligenze o mozioni, o si ricomincia a parlarsi «per». Per fare assieme qualche cosa che freni la de­riva alla centralizzazione sfrenata del dominio del denaro e delle merci che ci frantumano ciascuno nel sin­golo e nei pochi. Raramente in transi­torie masse.

Si dirà: ma in fondo da questa par­te del mondo ce la caviamo, perlo­più abbiamo un tetto sopra la testa, un piatto da mangiare, un po' di compassione per gli esclusi. E vero, mettere un freno al meccanismo mondialmente in atto è impellente dove esso produce subito morte, e non è il nostro caso. Non per l'assolu­ta maggioranza di noi, e delle minoranze miserabiliste chi se ne frega? Così alla cancellazione della Cosa Rossa - espressione cretina - da par­te delle maggiori testate (eccezione Rai1) sì è aggiunta la freddezza no­stra, coperta dai quattro morti della Thyssen, come se un incidente del la­voro di questa natura non fosse un evento messo in conto dal meccani­smo oggi dominante.

Non sono d'accordo. Per quel che so, la riunione di sabato e domenica non ha dato che una risposta, la deci­sione di lavorare assieme, obiettivo minimo non andare dispersi alle prossime elezioni, non molto ma me­glio di niente, obiettivo massimo, ma poco interrogato, diventare un partito. Per dir la verità, oggi è lo stes­so, e lo sarà fin che manca una elaborazione comune sul punto in cui sia­mo e un tentativo comune di inter-pretazione delle diverse soggettività presentì, di quel che ciascuna mette nelle diverse sigle o movimenti, per cui uno o una stanno in questo e non in quello. Ma una cosa è starci come un tassello di un mosaico com­plesso, sulla cui natura e destino si moltiplicano gli interrogativi, un'al­tra è starci in soddisfatta autosufficienza. Se questa sembra finita - an­che per le insigni zuccate prese - un lavoro assieme può cominciare. Anche con le femministe, che vengono da molto lontano e in questo primo incontro hanno contrapposto a un ri­tuale un altro loro rituale, facendosi rispondere da rituali parole, ma che per pesare davvero dovranno dimo­strare come non ci sia cespuglio del paesaggio politico in cui siamo che non sia traversato dal conflitto fra i sessi, anch'esso in via di mutamen­to. Conflitto che - ha ragione Dominijanni - non va ridotto a preferenze sessuali, che appartengono e devo­no restare all'individuale libertà. La­sciamo l'elenco al Vaticano. Fame delle figure o tipologie sociali condu­ce dritti, credenti o non credenti, a qualche Malleus Maleficarum (alias caccia alle streghe).

Per conto mio, la prima urgenza è garantire un'area, un perimetro, una disponibilità dentro alle quali parlar­si, rispondersi, cercar di costruire una piattaforma che conti sulla sce­na delle idee, su quella sociale e su quella istituzionale. Dei limiti di que­st'ultima si può dire molto, ma sen­za di essa conta di meno, così come ridursi a essa significa tagliarsi radici e canali di alimentazione.

Tema prioritario? Secondo me capire come i soggetti singoli e collettivi siano prodotti o intaccati o condizionati, o resi meno liberi, dal meccanismo economico-politico dei po­teri oggi mondialmente dominanti. Meccani­smo articolato, in mutazione, produttore di lacerazioni anche interne, ineludibile. Ma a sua volta condizionato dalle soggettività che innesta o con le quali si scontra.

La vecchia storia, Mane sì Marx no, si misu­ra su questo criterio. Non è riconducibile, co­me si usa, alla «questione del lavoro». Per contro, una soggettività non si misura su un'altra soggettività, ma tutte e due con, per così dire, la pesantezza del mondo.

Non vedo difficoltà per chi sta oggi attor­no a Rc o al Pdci, salvo finirla con la negazio­ne o riaffermazione di un «da dove venia­mo» (che sarebbe l'ora di guardare in faccia invece che celebrare o esecrare). Né vedrei difficoltà negli ecologisti: come O'Connor, ma anche senza di lui, sanno bene quanto delle razzie contro gli equilibri naturali o am­bientali dipenda dal denaro e dalla mercifi­cazione generale.

La battaglia per l'ecosistema non ha avversari diversi da quelle per/contro il lavoro sa­lariato e contro le guerre. Quanto ai movi­menti, la loro filosofia rende più semplice aderire a tutto o a questo o a quello mantenendo un'indipendenza. Lo stesso vale per la causa delle donne, che peraltro non si esauri­rà mai neanche nella più complessa e raffina­ta delle politiche - il femminismo sa bene che non è «una delle» esperienze, è costituiva della specie umana. Credo infine che anche i nostri giornali dovrebbero mettere a dispo­sizione non la loro autonomia ma le loro te­ste.

Dimenticavo la questione del leader. Beh, il leader viene ultimo. E dovrebbe lavorare come lo stato, alla propria estinzione ... è il peggio del famoso partito. Per ora non me ne occuperei.

La Stampa.it 12.12.07 Psicofarmaci e bambini, troppi dilemmi di Gabriel Levi

Come ridurre il consumo di psicofarmaci per i bambini e per i ragazzi? Ma anche: quando e come gli psicofarmaci possono essere utili e necessari in età evolutiva? E qual è il progetto terapeutico complessivo che garantisce, per ogni caso, un uso limitato ed efficace degli psicofarmaci?

Anche definito in questi termini il discorso rimane solo un frammento di discorso, che va inserito in un contesto. Qual è il livello minimale di psicoterapia (o di lavoro psicologico mirato) che i servizi di neuropsichiatria infantile o di psicologia clinica dell’età evolutiva debbono e possono assicurare alla massa dei bambini che chiedono un intervento? La psicoterapia è uno strumento abilitativo per il superamento di traumi? Per la soluzione di conflitti? Per lo sviluppo della personalità? La psicoterapia lavora sui nuclei psicopatologici dei disturbi, sulle immagini di Sé e dell’Altro che il bambino fabbrica con le proprie risorse e con gli investimenti affettivi ricevuti?

Molti bambini crescono con difficoltà, perché non riescono ad impadronirsi nei modi e nei tempi giusti degli strumenti mentali che la società e la cultura dovrebbe mettere a loro disposizione. Vale a dire: molti bambini hanno difficoltà nell’imparare a pensare ed a ragionare (il famoso metodo) o a comprendere ed a scambiare il lessico e la sintassi delle emozioni (i famosi valori).

Certamente la relazione interpersonale, la logica ed il diritto sono gli obiettivi di ogni educazione civile. Famiglia e scuola collaborano, bene o male, al conseguimento di questi obiettivi di crescita mentale e personazione. Tutto questo mentre sostengono i bambini a muovere i primi passi, ad esplorare il mondo, a curiosare sulle identità, a leggere e scrivere i codici che viaggiano nello spazio sociale, a calcolare programmi, misure e valutazioni scientifiche.

Molti bambini hanno difficoltà scolastiche e cioè difficoltà nell’acquisire gli strumenti dell’apprendimento e difficoltà nell’individuare e nel conquistare gli obiettivi degli apprendimenti. Come abilitiamo questi bambini? Come e cosa insegniamo (e cioè come offriamo con chiarezza dei segni e dei codici)?

Il discorso che ho cercato di portare avanti sembra proprio pazzo. Che cosa c’entra la terapia farmacologica con la psicoterapia? E che cosa c’entra la riabilitazione delle funzioni neuropsicologiche (quand’anche superiori) con la pedagogia? Il punto è proprio questo. Il nostro discorso sembra dissociato perché cerchiamo di collegare delle strade che diventano senza senso, quando restano separate. Con alternanze di ipertrofie e paralisi.

L’intervento psicofarmacologico tende ad aumentare quando gli spazi di un lavoro psicologico costruttivo si restringono. Le psicoterapie possono diventare giochetti inutili, se e quando si propongono di curare dei traumi, senza considerare qual è il terreno delle vulnerabilità e dei conflitti. Le psicoterapie diventano panacee retoriche, quando affrontano i disturbi psicopatologici dei singoli come fossero questioni sindacali. O al contrario, quando affrontano problemi di ricambio generazionale come fossero disturbi psichiatrici. La riabilitazione in età evolutiva confonde spesso l’abilitazione all’uso di strumenti precisi con l’abilitazione a padroneggiare i programmi che questi strumenti consentono di sviluppare.

E allora? Tanti psicofarmaci ai bambini che non possono ricevere un appoggio psicologico e terapeutico? Tante psicoterapie ai bambini che non sappiamo educare e costruiscono disturbi di comportamento o disturbi di internalizzazione? Tante riabilitazioni miracolistiche ai bambini che hanno un handicap e debbono ridefinire gli obiettivi di uso dei loro strumenti, ma non i loro obiettivi di vita?

Forse conviene che riflettiamo meglio sulle contraddizioni che la società degli adulti mantiene verso la società dei bambini. E ci interroghiamo sul rapporto tra psicoterapia e psicofarmacologia. In Parlamento esistono tre proposte di legge sulla psicoterapia. Sarebbe bene che sul tema psicoterapia in età evolutiva ci fosse un dibattito pubblico ed ampio.