domenica 16 dicembre 2007

l’Unità 16.12.07
«Il Pd lo vogliamo laico»
I 400 di «A sinistra per Veltroni» riuniti a Roma
Turco: non dobbiamo essere la brutta copia di Fi
di Simone Collini


LAICITÀ E LAVORO come due questioni fondamentali su cui il Partito democratico deve esprimersi con maggiore nettezza. E organizzazione interna come antidoto a deleterie derive populiste. I promotori della lista “A sinistra per Veltroni” si sono dati appuntamento a Roma per quella che è la prima occasione di confronto dopo l’assemblea costituente. E non a caso oltre a Vincenzo Vita, Massimo Brutti, Sergio Gentili e agli altri che alle primarie di ottobre hanno dato vita alla lista che più ha sorpreso per i consensi ottenuti, nell’aula dell’Università Gregoriana si sono ritrovati anche Beppe Fioroni, Barbara Pollastrini, Gianni Cuperlo, Luigi Zanda, e pure “osservatori esterni” come Giovanni Berlinguer («sono venuto per capire, non cambio casa», risponde con un sorriso a chi lo incrocia nel corridoio). Platea e lista degli interventi variegate, con però alcuni temi che ritornano. A cominciare dalla necessità di trovare delle sedi di discussione. A breve termine perché, dice Vita, «la fase costituente deve essere veramente tale e non precostituita». E, spingendo lo sguardo più in là, dice Brutti lamentando che nello schema di statuto proposta da Vassallo non compare mai la parola congresso, bisogna prevedere «un meccanismo congressuale democratico che nasca dal basso». Concetti ribaditi in più interventi (tra l’altro, nel giorno in cui D’Alema dice che per il Pd «c’è ancor molto da fare sia per quanto riguarda la piattaforma ideale e culturale sia per quanto attiene al modello organizzativo») fino a quello che chiude i lavori, di Livia Turco: «Il Pd non deve essere una brutta copia di Forza Italia. Al contrario dobbiamo coltivare i nostri anticorpi al populismo e alla demagogia di una partecipazione astratta alla politica». Questo significa impegno diretto e confronto: «Bandiamo pure dal vocabolario termini come congresso e tesseramento, ma dobbiamo garantire regole democratiche», sottolinea Fioroni. Interviene Giorgio Tonini, tra i più vicini a Veltroni, rammentando al ministro dell’Istruzione un passo del vangelo: «Non mettiamo il vino nuovo negli otri vecchi».
Ma non è solo sull’organizzazione che battono i circa 400 democratici riuniti a Roma, che ora lavorano per dar vita a un’associazione. Ci sono due temi su cui insistono particolarmente, e che Livia Turco riprende in chiusura: «Dobbiamo costruire un rapporto nuovo con il mondo del lavoro. Non basta parlarne, organizzare l’ennesimo seminario, dobbiamo tornare nelle fabbriche, avere il coraggio di fare un grande viaggio nell’Italia operaia di oggi». E sulla laicità, questione sollevata anche da Barbara Pollastrini, Lidia Ravera e diversi altri, in alcuni casi con critiche molto dure nei confronti di Paola Binetti, il ministro della Salute dice non solo che è «un valore primario del Pd», ma anche che bisogna «costruire nuove mediazioni». Da qui la proposta di istituire un luogo permanente per discutere i temi eticamente sensibili: «Togliendo questo dibattito dall’emergenza continua per costruire una nuova cultura laica - dice la Turco - sapendo che non tutto è tema eticamente sensibile e che la libertà di coscienza non può diventare un arbitrio, esercitato fuori da un principio di responsabilità».

l’Unità 16.12.07
Violenza in famiglia una piaga: 5 delitti in 48 ore
di Anna Tarquini


Madre uccide il figlio di 7 anni. A Cosenza un uomo accoltella
la moglie e la figlia. Uxoricidi a Ventimiglia, Monza e Varese

PIÙ DI MILLE MORTI in cinque anni, una media di un delitto ogni due giorni. La famiglia uccide e quello che non raccontano le statistiche lo dicono i fatti, gli ultimi ieri: 5 delitti in meno di 48 ore maturati dentro le mura domestiche. Cinque tragedie del disagio, della solitudine, dell’orrore che hanno avuto come vittime donne e soprattutto bambini. Così la furia di una madre da tempo malata di depressione che a Udine ha massacrato il figlio di 6 anni e cercato di uccidere la figlia di 9. Così il raptus di un carpentiere di Cosenza, da troppo tempo senza un lavoro, che nella notte ha ucciso moglie e figlia di 4 anni. E poi uxoricidi a Ventimiglia, Monza e nel Varesotto. Segnali inquietanti, manifestazioni di un male di vivere e della necessità di prestare più aiuto alla famiglia. Come ha detto ieri il ministro Bindi: «Un bilancio pesante che non deve lasciare indifferenti. È quanto mai urgente avviare la riorganizzazione dei servizi territoriali e potenziare la funzione dei consultori familiari». Tanto più che c’è un Ddl proprio sulla violenza in famiglia che avrebbe l’obiettivo di costruire una rete di sostegno e protezione in grado di prevenire la violenza. Ma è fermo alla Camera.
Ieri grande impressione ha suscitato il delitto di Udine in una villetta nella zona di Molin. Un vero dramma dell’orrore, nato per uno stupido litigio, ma maturato con una depressione forse sottovalutata e mal curata. Noemi Deslizzi, 41 anni, ieri mattina ha improvvisamente afferrato un coltellaccio da cucina e si è avventata contro il figlio che era ancora in pigiama, in attesa di fare colazione. Dicono gli inquirenti che la violenza della scena è stata indescrivibile. E che la sorellina di Alessandro, appena 9 anni, abbia cercato disperatamente di difendere il fratello ed è stata colpita a sua volta dalla madre alle braccia e al volto. Decine di coltellate. Al petto, all’addome. Le tracce di sangue del bambino sono state trovate ovunque. Nella cucina, ma anche in salotto, nel tinello. Segno che il bambino ha cercato di scappare e che è stato inseguito dalla mamma come una furia. È stata la bambina a dare l’allarme. Quando si è accorta di quello che stava accadendo ha chiamato il padre, Stefano Lodolo, di 42 anni, idraulico, fuori casa per lavoro. La donna è stata poi ricoverata insieme alla figlia all’ospedale di Udine in stato di choc.
C’è il dramma della disoccupazione invece dietro la strage di Villapiana in provincia di Cosenza. Ma anche in questo caso il raptus è scoppiato improvviso e imprevedibile dopo una serata normale, passata a cena con i parenti. Quando Gianluca De Marco, 35 anni, carpentiere disoccupato da tre mesi ha maturato il suo gesto era notte fonda. Sua figlia Jennifer di 4 anni dormiva. Così la moglie Marilena Agrelli. De Marco ha preso due coltelli da cucina per uccidere. Le ha colpite nel sonno, 10 coltellate alla moglie, 5 alla figlia. Quindi ha sistemato delle bambole e un libro di fiabe accanto alla piccola, si è ferito con il coltello ai polsi e al petto, ha vomitato e ha chiamato i carabinieri farfugliando poche parole: «Avevo difficoltà di lavoro. È stato un gesto sconsiderato». Rei confessi anche Nicolino Corsaro, 46 anni, di Ventimiglia che l’altro ieri sera ha ucciso a fucilate l’ex moglie; Mario Corapi, 68 anni, di Monza che ha sparato 13 colpi di fucile nel cuore della notte, tre contro la moglie Elena Tropea di 64 anni; Gaetano Panato (68 anni di Marnata, provincia di Varese) che ha accoltellato la moglie Irma Zambarigo di 66 anni.

Repubblica 16.12.07
È difficile essere laici nel paese delle chiese
di Eugenio Scalfari


Un articolo di Salman Rushdie (su Repubblica di venerdì 14) riapre il tema della laicità. Lo riapre da par suo, radicalizzando il suo pensiero fino a "scomunicare" il ruolo prescrittivo e fondamentalista delle religioni, fomentatrici di intolleranze reciproche e perfino di violenze e di guerre quando disputano di verità assolute e contrapposte. «I preti debbono essere inascoltati» scrive Rushdie. «Le loro predicazioni sono favole per bambini che si rifiutano di crescere e ingombrano i cieli di improbabili divinità che offuscano la ragione e lacerano le coscienze anziché pacificarle con la vita».
Nel lessico di Rushdie i preti sono tutti coloro che amministrano le verità rivelate, i dottori della legge rabbinica, i "mullah", gli "ayatollah", gli "ulema" sciiti e sunniti che predicano il Corano, i sacerdoti della Chiesa di Roma e delle altre chiese cristiane, divisi e in guerra tra loro ma uniti nel manipolare le coscienze dei credenti, irretite dalla promessa della salvezza e dell´eterna beatitudine.
Per lui la Bibbia, il Vangelo, il Corano, sono testi meravigliosi, poetici, suggestivi, la cui lettura non può che rafforzare l´intelligenza e il sentimento morale degli uomini e delle donne del mondo intero, ma il loro significato viene stravolto dalla casta che si è autoproclamata depositaria esclusiva di quei testi, intermediaria unica tra il cielo e la terra. E così conclude rivolgendosi ai credenti la sua serrata requisitoria: «Solo tu puoi decidere se vorrai che siano i preti a elargirti la legge e accettare che il bene e il male siano esterni a noi stessi. A mio parere la religione, anche nella sua versione più sofisticata, infantilizza il nostro io etico fissando infallibili Arbitri morali e irriducibili Tentatori immorali al di sopra di noi. Essi pretendono di essere i poliziotti delle nostre libertà e dei nostri comportamenti».
Questo è, nella sostanza, il testo di Rushdie; l´ho definito una scomunica lanciata contro i preti di tutte le religioni, la protesta di un non credente animosamente schierato contro gli dei fallaci che guidano gli eserciti, contro i profeti che gli aprono la strada, contro l´infantile credulità degli adulti che collocano dietro le nuvole i loro eterni Genitori e li invocano per allontanare da loro il dolore e la precarietà della vita.
Francamente non mi era mai capitato di leggere un testo così radicale e senza appello da parte di uno dei maggiori scrittori della modernità. Si può definire un manifesto della laicità?
Da laico e da non credente ho qualche dubbio in proposito. Sento che il suono, il sentimento, la visione della laicità - almeno come io la intendo - non sono questo. Non sono rispecchiati da queste parole, da un´arringa così impietosa e a sua volta così intollerante.
Voglio perciò spiegare le ragioni del mio dissenso, anche se concordo con gran parte delle affermazioni di Salman Rushdie.
* * *
Prima di spiegarmi debbo tuttavia dar conto di un altro testo, del quale nello stesso numero di Repubblica viene pubblicato un sommario resoconto. Si tratta di un documento redatto dal professor Ceruti, docente di epistemologia all´Università di Bergamo, relatore del "Manifesto dei valori" del quale si occupa un´apposita commissione del Partito democratico presieduta da Alfredo Reichlin.
Di quella commissione fanno parte credenti e non credenti, impegnati nel definire il profilo del nuovo partito sulle materie «eticamente sensibili». Quale sia insomma l´impegno del partito su temi molto concreti e attuali, come la ricerca scientifica, l´eutanasia, il testamento biologico, la fecondazione assistita, l´aborto, l´embrione, le coppie di fatto, l´omofobia. Insomma i problemi della vita e della morte e scusate se è poco.
Non conosco il professor Mauro Ceruti. Apprendo soltanto che insegna a Bergamo e che è cattolico. E´ giusto che il relatore di una materia così complessa e delicata dichiari la propria credenza. E´ giusto che gli altri componenti di quella commissione lo sappiano. E´ doveroso, da parte del relatore, tenere nel debito conto le diverse esperienze e identità culturali dei suoi colleghi, putativamente rappresentativi degli aderenti a quel partito.
Leggo dal resoconto giornalistico che Ceruti è fautore del dialogo. Bravo. Mi sembra il minimo. Osservo tuttavia che la parola dialogo è ormai terribilmente inflazionata. Se per dialogo si intende che ciascuno dei dialoganti esprima la propria posizione sui temi in questione e poi resti aggrappato ad essa, questo non è propriamente un dialogo bensì un monologo.
So che in quella commissione siede anche la senatrice Binetti, cattolica di strettissima osservanza, balzata all´onor delle cronache per aver votato contro l´emendamento sull´omofobia rischiando con quel voto di provocare una crisi di governo.
Non ho nulla da obiettare in proposito: il voto di coscienza passa avanti ad ogni altra considerazione. Ma il voto di coscienza passa avanti anche al dialogo? Come si comporterebbe il relatore Ceruti se la Binetti ribadisse che su quel tema e su altri analoghi lei non è disposta a mutare parere quali che siano le obiezioni che gli possono essere opposte? E se, da un opposto versante, un laico non credente affermasse anche lui il suo integrismo? Dove andrebbe a finire il dialogo caro al professor Ceruti come a tutti noi?
Discutendo domenica scorsa su queste pagine il caso Binetti, scrissi che la senatrice era certamente portatrice di valori apprezzabili, che quei valori avevano la potenzialità di «contaminare» valori opposti, a condizione di esser disponibili a farsi a loro volta «contaminare».
Così mi auguro che avvenga, ma ho drizzato le orecchie leggendo che la bozza Ceruti invita gli scienziati a praticare la «buona scienza» (definizione che trovo anche nell´enciclica "Spe Salvi"). «La libertà di ricerca - scrive Ceruti - si deve conciliare con il principio per cui non tutto ciò che è tecnicamente possibile è moralmente lecito».
Chi stabilisce e in base a quale principio che cosa sia moralmente lecito? Debbo ricordare al relatore del Pd che la Santa Inquisizione e i Tribunali del Sant´Uffizio stabilirono che il sole girava attorno alla terra (e misero in gabbia Galileo che sosteneva il contrario)?
E´ evidente che sulla strada indicata dal professor Ceruti la commissione dei valori del Pd non riuscirà a muovere un solo passo avanti, come non lo muoverebbe se un altro relatore presentasse come carta valoriale la requisitoria di Rushdie contro la casta dei preti. Dunque, che fare? Dove trovare la «contaminazione» cioè la sintesi che non è una giustapposizione né un volatile sincretismo ma, appunto, sintesi a livello più alto sia della tesi sia dell´antitesi? (Mi permetto di ricordare alla senatrice Binetti di averle chiesto di dare una risposta di verità sull´ipotetica telefonata che avrebbe avuto con il segretario della Conferenza episcopale in prossimità del voto sull´omofobia. Non è un tema privato, appartiene allo spazio pubblico riconosciuto e ampiamente utilizzato dalla Chiesa. La Binetti è quindi tenuta a rispondere, ma non ho notizia che l´abbia fatto).
* * *
Un manifesto della laicità che configuri un partito che vuole identificarsi con la democrazia non può avere altro punto di riferimento se non la democrazia stessa nella sua essenza costituzionale. Non può quindi essere né clericale né anticlericale, né prescrivere una laicità buona o una laicità cattiva; deve fare a meno di ogni aggettivazione qualitativa che dettasse regole esteriori alla democrazia e ai cittadini democratici.
La laicità senza aggettivi riposa esclusivamente sul principio di non imporre ai cittadini altro vincolo all´infuori di quello che vieta a ciascuno di limitare la libertà altrui e di violare il principio di eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Questo e non altro è il fondamento della democrazia di cui la laicità non è che il sinonimo.
Ogni opinione può essere manifestata liberamente e in contrasto con altre opinioni. Ma se l´opinione di alcuni - fosse pure opinione maggioritaria - si trasformasse in norma discriminante, allora l´eguaglianza sarebbe violata e con essa la democrazia.
L´esempio più chiaro è quello della legge sul divorzio. Si tratta in quel caso di una norma facoltativa; consente a chi vuole utilizzarla di valersi di una procedura a tutela di un diritto, che non impone alcun dovere a chi non voglia valersene. Viceversa impedire il divorzio ad una coppia che voglia recidere il contratto matrimoniale impone un limite ad un diritto l´esercizio del quale non lede alcun altro cittadino.
Fondandosi sul principio di eguaglianza di fronte alla legge le Costituzioni democratiche vietano ogni discriminazione basata su etnia, religione, sesso. La legge è eguale per tutti. Tutti i diritti che non ledono diritti altrui meritano rispetto e cittadinanza.
Su questi fondamenti democratici si basa la libertà religiosa, la libertà sessuale, la libertà di ogni etnia. Le coppie di fatto siano etero siano omosessuali, hanno diritto di esistere poiché non ledono alcun altro diritto. Le leggi che le tutelano sono, come il divorzio, facoltative. Impedirne l´esistenza costituisce una discriminazione e vìola in tal modo un precetto costituzionale.
Si può invocare l´obiezione di coscienza contro un principio costituzionale? Rivendicando contemporaneamente la propria appartenenza ad un partito democratico? Direi proprio di no. L´obiezione di coscienza avrebbe in tal caso un´impronta tipicamente clericale, incompatibile con i principi della democrazia «per la contraddizion che nol consente».

Post scriptum. Ho letto venerdì scorso sul Corriere della Sera un articolo di fondo di Pierluigi Battista intitolato "I professionisti del rifiuto". La tesi è questa: ci vuole una nuova legge elettorale che modifichi radicalmente il "porcellum" esistente (voluto e votato da tutti i partiti del centrodestra allo scadere della precedente legislatura).
Per varare una nuova legge elettorale è opportuna una larga maggioranza che comprenda anche Forza Italia. Veltroni ha intrapreso questa strada «virtuosa». Ma i professionisti del rifiuto (come da titolo) stanno seminando sul terreno dei negoziati una serie di «bombe di carta» mirate a ravvivare la demonizzazione di Berlusconi e impedire così che il negoziato prosegua fino al risultato finale. Chi agisce in questo modo congiura contro gli interessi del Paese.
Fin qui Battista, il quale non nomina Repubblica ma è a noi che si riferisce e alla «bomba di carta» della nostra denuncia (suffragata da un´inchiesta istruttoria della Procura di Napoli) di una tentata compravendita di voti di alcuni senatori da parte di Berlusconi e una serie di contatti che contengono ipotesi di corruzione tra il leader di Forza Italia e Agostino Saccà, uno dei massimi dirigenti della Rai.
Non entro nel merito delle opinioni di Battista; lui la pensa a quel modo, lo scrive e se ne assume la responsabilità. Osservo che il suo articolo altro non è che un processo alle nostre intenzioni. La nostra denuncia sarebbe cioè motivata dal desiderio di impedire il negoziato in corso tra Berlusconi e Veltroni. Il processo alle intenzioni è un metodo arbitrario, basato non su fatti ma su supposizioni. Un giornalista che si rispetti e che abbia rispetto di sé dovrebbe evitarlo.
Per quanto ci riguarda noi siamo favorevoli ad una riforma elettorale che cancelli la legge vigente ed eviti il referendum. Siamo favorevoli al tentativo di Veltroni di coagulare un´ampia maggioranza attorno alla nuova legge. Siamo favorevoli ad un negoziato rapido che scongiuri il referendum. Se nel frattempo ci imbattiamo in atti di corruzione attribuiti al leader dell´opposizione, riteniamo nostro dovere darne notizia al pubblico. Se questi atti avessero riguardato il presidente del Consiglio o un uomo politico del centrosinistra ci saremmo comportati allo stesso modo.
A Battista vorrei chiedere: se la notizia di cui si discute fosse arrivata sul suo tavolo e sui tavoli del suo giornale, che cosa avrebbe fatto Pierluigi Battista? L´avrebbe cestinata perché inopportuna? L´avrebbe chiusa in cassaforte a futura memoria? E´ questo il canone deontologico in vigore al Corriere della sera?
Il suo articolo ce lo fa temere. Sarebbe grave se il giornalismo del Corriere si piegasse a questo genere di compromessi. Nei confronti del centrosinistra non ha mai taciuto nequizie, vere o supposte. Allora l´eccezione vale solo per Berlusconi? Questo non sarebbe solo grave ma sarebbe gravissimo. Per voi e per tutto il giornalismo italiano.

Repubblica 16.12.07
"A Roma non si parli di coppie di fatto"
In consiglio comunale il "registro delle unioni" ma la Chiesa protesta
Articolo sul settimanale della Cei. Il Pd: "Il dibattito in aula però si farà"
di Giovanna Vitale


ROMA - Quel dibattito sulle unioni civili non s´ha da fare. Al Vaticano la moral suasion operata sul sindaco Veltroni e vari ministri della Repubblica non basta più. E, alla vigilia del voto sulle coppie di fatto previsto per domani in consiglio comunale, scende in campo il Vicariato di Roma, come dire il cardinale Camillo Ruini in qualità di arcivescovo della città: con un editoriale pubblicato su Sette, il magazine diffuso ogni domenica con il quotidiano della Cei Avvenire, critica la decisione di discutere un tema che «nessun effetto concreto» può produrre sui cittadini. «L´ennesima battaglia ideologica insomma».
Nelle scorse settimane le gerarchie ecclesiastiche l´avevano fatto capire in mille modi che l´istituzione di un registro delle unioni civili, così come proposto in due delibere all´esame dell´aula Giulio Cesare, era inopportuno. «Siamo nella città del Papa», aveva tuonato la senatrice teodem Paola Binetti, sostenendo l´opzione rinvio lanciata da Veltroni. Subito fallita per l´ostinazione della Sinistra, pronta a rischiare una bocciatura pur di non sacrificare la sua battaglia. Tanto più sicura alla luce dell´ordine del giorno alternativo presentato dal Pd per disinnescare la mina. Contromossa vana. Nell´articolo di ieri, il Vicariato ricusa anche il documento dei democratici, sottolineandone l´inutilità riconosciuta dagli stessi promotori quando affermano che si tratta «di materie indisponibili ai Comuni» e dunque, in assenza di una normativa nazionale, non avrà effetti pratici. Un testo contraddittorio, secondo Sette: prima sostiene che la «città è punto di riferimento dei cattolici di tutto il mondo», ma poi chiede «al Parlamento di affrontare con urgenza le diverse proposte di legge presentate, affinché sia finalmente possibile per gli enti locali individuare strumenti efficaci che diano alle diverse "comunioni di vita" presenti nella moderna società una risposta concreta e soddisfacente». Un punto non negoziabile per la Chiesa: «Non è sufficiente l´intenzione di opporsi a una decisione profondamente negativa, come sarebbe l´istituzione di un registro delle cosiddette unioni civili, per giustificare un odg che alla fine tende al medesimo risultato», spiega. Invitando infine «i cattolici che siedono in consiglio comunale, e tutti coloro che considerano la famiglia fondata sul matrimonio come la struttura portante della vita sociale, da non svuotare di significato attraverso la creazione di forme giuridiche alternative», a «mostrare la propria coerenza».
Una nota che spiazza, ma non fa retrocedere il Pd. «Noi andiamo avanti», taglia corto il capogruppo Pino Battaglia. «Chi ci accusa di subalternità alle gerarchie è stato smentito. Il dibattito in consiglio comunale contribuirà al dialogo sul tema dei diritti delle persone». Ma An avverte: «L´appello del Vicariato non può essere ignorato», esortano Gianni Alemanno e Andrea Ronchi. «Ci affidiamo alla coscienza dei consiglieri comunali di fede cattolica e, più in generale, a quella di tutti i consiglieri di buon senso per non mettere in votazione un Odg contrario all´identità della nostra città e tale da spaccare profondamente la nostra comunità nazionale».

Repubblica Firenze 16.12.07
Il crocifisso nella sede del Pd
di m.v.


«Perchè meravigliarsi, il Pd forse non è nato sulla fusione di culture diverse?», dice un militante degli ex Ds e ora del nuovo partito. Ma in fondo è pur sempre una prima volta: il crocifisso entra nelle stanze di via Venezia, le stesse che hanno ospitato la Quercia per oltre un decennio e che adesso sono state elette sede fiorentina del Pd. Ce l´ha portato Giacomo Billi, il neo coordinatore cittadino del Pd con un passato nella Dc prima e nella Margherita dopo, che l´ha subito attaccato alla parete dietro le spalle. Alla faccia di eventuali nostalgici rossi «mangiapreti».
«Ce l´avevo nella sede della Margherita in via Martelli, ce l´ho sempre avuto il crocifisso e non vedo perché non dovrei portarlo adesso nella sede del Partito democratico», minimizza Billi. «E´ stata una cosa naturale per me», aggiunge il coordinatore cittadino intenzionato ad arricchire la parete, non con la foto del leader nazionale Walter Veltroni o del vice Dario Franceschini, ma con un sobrio manifesto con il logo del Pd e un´immagine di Firenze. L´unica richiesta è stata per Billi quella di ridipingere di giallo la stanza che gli è stata assegnata, in fondo al corridoio e vicino ai servizi igienici: «E´ il colore che preferisco», ha spiegato agli impiegati.
Nell´altra ala dell´appartamento eletto a sede in attesa della palazzina in costruzione al Ponte di Mezzo, la stanza di Andrea Barducci, ultimo coordinatore metropolitano dei Ds e primo del Pd, dove l´aria è leggermente diversa: una foto di Massimo D´Alema e una di Meme Auzzi, il compianto segretario scomparso improvvisamente. La geografia «istituzionale» del nuovo partito verrà completata nei prossimi 2-3 giorni, quando il segretario toscano Andrea Manciulli lascerà per sempre la sede di via Cittadella per trasferirsi in via Martelli, ex sede Margherita: «Cosa metterò dietro la scrivania? Solo il simbolo del Pd», annuncia fin d´ora Manciulli. Anche per lui nessun «pantheon». Le nuove insegne sono sobrietà e contaminazione. (m.v.)

il Riformista 15.12.07
Legge elettorale E la verifica di governo a gennaio
Il gioco del cerino di Rifondazione per il dopo Prodi
di Alessandro De Angelis


Sul governo: così non si può andare avanti, ma la via d'uscita, al momento, ancora non c'è. Sulla Cosa rossa: andare avanti in questo modo è difficile, ma bisogna tentare. È all'insegna di questo doppio gioco del cerino (chi stacca la spina al governo e chi rompe il gioco della Cosa rossa) che Rifondazione si prepara a gestire un gennaio caldo, anzi caldissimo. Il trait d'union dei due dossier è, neanche a dirlo, la legge elettorale.
Di qui la strategia, all'insegna del Deutschland über alles , che Giordano chiarirà ai suoi nel Comitato politico di domani: alzare il tiro sul governo nella verifica di gennaio per trattare sulla legge elettorale tedesca. In che senso? Il ragionamento dei vertici di Rifondazione suona più o meno in questi termini: la Bozza Bianco, così com'è, non va. E nell'intervista di ieri al Corriere Giordano è stato più duro rispetto alla disponibilità iniziale. Voto disgiunto e recupero nazionale dei resti (e non circoscrizionale) sono le due condizioni giudicate irrinunciabili. Con l'obiettivo di ottenerne almeno una, ovvero la seconda, giudicata vitale. Ambienti vicini a Bertinotti fanno trapelare che ieri sono arrivati segnali di apertura dal Pd su questo capitolo. Se si concretizzassero, Rifondazione voterebbe il testo anche solo con Veltroni e Berlusconi. Altrimenti voterà contro.
Il Prc non ha affatto gradito il gioco di sponda tra il premier e Pdci e Verdi, e si prepara al dopo-Prodi: far cadere il governo sulla legge elettorale è difficile, e non paga nemmeno. Ma sui contenuti è tutto un altro discorso. Domani Giordano insisterà molto sui temi della verifica di gennaio, puntando l'accento sulla consultazione degli iscritti che la ratificherà. «Faremo ciò che ci chiede il nostro popolo» è il campanello d'allarme per il premier (l'ennesimo). E le parole d'ordine: lotta alla precarietà, questione salariale, base di Vicenza, sblocco della Amato-Ferrero. Di qui due ipotesi: se Prodi cede, rischia di cadere al centro (vai alla voce Dini o Mastella). E per il Prc non sarebbe un dramma, anzi. E se non cede? Rischia a sinistra. Russo Spena dice: «Una cosa è certa: la verifica sarà vera e aperta a ogni sviluppo, quindi non predeterminata dal gruppo dirigente». Tradotto: se il governo non dovesse accogliere almeno alcune delle sue richieste più rilevanti, il Prc aprirebbe la crisi. O meglio: chiederebbe al suo popolo di aprirla.
Sul fronte interno (i malumori sono sopra la soglia di guardia) la consultazione serve a tenere insieme una maggioranza. Tutti l'accettano, ma con intenti diversi. Alfonso Gianni avrebbe preferito farla insieme agli alleati della Cosa rossa («Altrimenti, a che serve la federazione?»), Mantovani, bertinottiano critico, punta sul fatto che il popolo rosso vuole rompere con Prodi, e Giordano usa lo schema "di lotta e di governo". Ma anche il rinvio del congresso, che sarà annunciato domani, serve a tenere insieme la maggioranza. Motivo ufficiale: con la consultazione in campo, come si fa a fare un congresso? Motivo vero, o almeno verosimile: la Cosa rossa è in alto mare, e il rapporto con l'esecutivo non è definito. Quindi come può un gruppo dirigente ad andare a congresso su queste basi? A ciò si aggiunga la questione della leadership che ha prodotto non poche fibrillazioni. Nome della discordia: Nichi Vendola, l'uomo che a furor di popolo (e di Fausto) sembra aver smontato l'asse Giordano-Ferrero. I segnali di nervosismo, dalle parti di Giordano, sono palpabili. Nell'intervista di ieri al Corriere il segretario ha detto: «Non sono d'accordo con Nichi Vendola: per me non è detto che il Pd debba essere il nostro interlocutore fondamentale». Ma è soprattutto Ferrero che subisce l'effetto Vendola. Ferrero, sostenitore di una Cosa rossa modello Flm (quindi non un partito, ma una federazione), non ha certo gradito l'intervento del leader della Fiom Rinaldini, che agli stati generali ha giudicato questa ipotesi insufficiente e ha rilanciato sul partito unico, in linea con Vendola. In questi giorni, in vista del Comitato politico di domani, ha rinsaldato il gruppo dei dirigenti a lui più vicini. E non è un caso che ieri Luigi Vinci, assai vicino al "ministro operaio", abbia scritto un articolo critico nei confronti di Bertinotti sul sito di Grassi. Forse, anche sul capitolo contrasti interni, il modello tedesco sarebbe la quadratura del cerchio.

Liberazione 15.12.07
Credenti o atei di chi è la ragione?
di Tonino Bucci


Salman Rushdie, lo scrittore indiano dei famosi Versetti satanici ha scritto ieri sulle pagine di Repubblica di aver cambiato idea sullo scontro di civiltà. Lui che è stato costretto a riparare a Londra per sfuggire alla condanna a morte del regime khomeinista degli ayatollah riconosce che la tesi di Samuel Huntington è un'ipersemplificazione, che però un'idea, per quanto astratta, se diventa un luogo comune condiviso dalla maggioranza, si trasforma in una terribile realtà. Una profezia che si autoavvera. Attenzione, però. Non è che Rushdie sposi le tesi di Huntington - come Repubblica allude. Non dice che le religioni sono monolitiche, che sono l'unico fattore di identificazione della civiltà e degli individui. Né tantomeno adombra la fatalità della guerra infinita dell'occidente contro l'oriente. Dice invece un'altra cosa: che la guerra vera è culturale, è la lotta doverosa della ragione contro i dogmi religiosi e della libertà contro l'autorità delle chiese cui nessuno di noi può sottrarsi. «Questa è la battaglia che combatteva Voltaire, ed è anche quello che tutti i sei miliardi di noi potremmo fare per noi stessi, la rivoluzione in cui ognuno di noi potrebbe giocare la sua piccola, seimiliardesima parte: potremmo, una volta per tutte, rifiutare di permettere ai preti e alle storie immaginarie in nome delle quali essi pretendono di parlare, di essere i poliziotti delle nostre libertà e del nostro comportamento». Potremmo vedere il «mondo semplice e sdogmatizzato».
Anche qui da noi lo scontro tra ateismo e fede è diventato un tema costante nel dibattito pubblico. Case editrici, filosofi, intellettuali e maitre à penser ne hanno fatto un refrain e si sono lanciati in una produzione sterminata di pamphlet ora (un po' più) a favore dei credenti, ora (un po' meno) a favore del laicismo.
Tutto è iniziato con Benedetto XVI. La sua campagna contro il relativismo - davvero un'invenzione semantica azzeccata - ha dato l'abbrivio a un nuovo genere editoriale a confine tra letteratura e saggistica come piace al pubblico. Tutta opera di Ratzinger? In parte sì. E non è operazione da sottovalutare. Alla sua intelligenza di raffinato teologo non sarà sfuggito la crisi della teologia e delle religioni istituzionalizzate nella società consumistica che è, de facto , la smentita più virulenta dei valori del cristianesimo. Non è sfuggita la crisi del pensiero forte, delle grandi ideologie, delle visioni organiche del mondo. E ha reagito imboccando la strada di uno scontro culturale tra la sua parte - quella dei valori, dei fini ultimi, della vita - e l'avversario, dipinto a proprio uso e consumo come arbitrio soggettivo, come negazione della vita, dei valori e dell'uomo. Ma se Ratzinger stesse invece combattendo un altro nemico, più pericoloso perché interno e irrazionale? Forse non è la ragione a preoccupare la Chiesa del nostro tempo - e non sarà certo un caso se Benedetto XVI rivendica al cristianesimo l'eredità del logos greco - quanto invece la diffusione dell'irrazionale, delle credenze costruite a uso consolatorio dell'individuo, della new age e del misticismo, delle sette.
Ecco, appunto, da che parte sta la ragione? Dalla parte dell'ateismo che cerca un criterio per distinguersi dalla credenza o dalla parte della chiesa istituzionale per la sua battaglia interna contro le eresie mistiche del nostro tempo? Ci provano a rispondere tre filosofi, Paolo Flores d'Arcais, Michel Onfray e Gianni Vattimo in un libro-conversazione, Atei o credenti (Fazi Editore, pp. 184, euro 15).
Anche la filosofia è chiamata in gioco, presa com'è in mezzo a due fuochi - scrive Flores d'Arcais. Tra la volontà di rivincita delle religioni e la fortuna in campo filosofico di scuole che rifiutano il disincanto, cioè la «finitezza empirico-naturalistica del mondo». Come si spiega questa crisi? La filosofia dopo Hume e Darwin dovrebbe sapere tutto sull'uomo, sui limiti del suo pensiero, sulle sue origini biologiche e sulla mancanza di un destino storico. Perché non accetta allora l'ateismo come suo orizzonte naturale? Siamo in grado di affermare ragionevolmente la non esistenza di Dio e dell'immortalità dell'anima. Abbiamo la scienza sperimentale e descrittiva, abbiamo la logica, un criterio sicuro e accertabile per distinguere ciò che è razionale da ciò che non lo è. L'ateismo sarebbe tutt'altro che quel pensiero anarchico, selvaggio, affogato nel relativismo e nell'indifferenza di tutti i valori come lo dipinge Benedetto XVI. Flores d'Arcais scommette sul recupero dell'Illuminismo, di una razionalità capace di valori conoscitivi ed etici universali, validi per l'umanità intera. Però Onfray e Vattimo gli rimproverano di non accorgersi che la ragione di cui parla - come la scienza e la tecnica - è figlia di una cultura che nasce dalla volontà di potenza dell'occidente. Cosa ci resta allora? Abbracciare il relativismo e l'indifferenza dei valori di verità, cedere all'egemonia del postmoderno, e pensare che anche la razionalità, come tutto il resto, sia una pratica simbolica della nostra cultura e intraducibile nella cultura degli altri?

Liberazione 15.12.07
Pronta la bozza della ”Carta dei Valori”, una sorta di programma fondamentale del nuovo raggruppamento riformista
Fra integralismo e laicità Il Manifesto del piddì non sceglie
di s.b.


Gianni Cuperlo: «Non si è laici solo perché si discute. Quella è una premessa essenziale ma non sufficiente. Si è laici soprattutto per come si decide»

Quasi due mesi di lavoro per non scegliere. Ma il difficile, difficilissimo equilibrio raggiunto sul piano teorico - chiamiamolo così - viene smentito quotidianamente. Dalle polemiche sulla Binetti, sulla laicità dello stato, sull’ormai prossimo scontro parlamentare sulle unione civili (sta per arrrivare in Parlamento la discussione sui Cus, gli ex Pacs, a loro volta ex Dico). Si parla, naturalmente del partito democratico. In questi giorni, in queste ore, la commissione incaricata di scrivere la ”Carta dei valori” - quella che nei partiti socialemocratici corrisponde al programma fondamentale, che non si occupa insomma delle scelte da fare oggi e domani ma guarda un po’ più in là - ha concluso i suoi lavori. Presieduta da una storica figura di intellettuale della sinistra, Alfredo Reichlin è stato coordinata dal professor Mauro Cerutti. Professore, filosofo, cattolico. Il loro lavoro è sintetizzato in un lungo documento. Che - ci tengono a precisare tutti - è solo una bozza. Sulla qule dovrebbe cominciare la discussione. Ma in realtà il dibattito è già partito. Magari non nelle sedi preposte, non nelle strutture di partito ma è già cominciato. Con interviste, interventi, con lunghe disamine sui blog. Ed è una discussione difficile. Un po’ anche sui principi generali. Ma solo un po’. Perché fra le tante cose il documento scrive che «le energie morali che scaturiscono dall’esperienza religiosa, quando riconoscono il valore del dialogo, rappresentano un elemento vitale per la democrazia». Frase che si può prestare alle più diverse interpretazioni ma che, insomma, più o meno sembra sancire il principio che chi parte da una motivazione religiosa per partecipare alla vita sociale, ha pieno diritto di dire la sua. Di partecipare ”allo spazio pubblico”. Diritto che nessuno s’è mai sognato di limitare. Il problema è come questa impostazione si traduce nei comportamenti politici, nelle scelte di ogni giorno. Su tutto, ovviamente, pesa il caso della senatrice teodem Binetti che al Senato ha negato la fiducia a Prodi perché s’è rifiutata di votare un paragrafo del provvedimento sulla sicurezza che condannava l’omofobia. In linea con le direttive europee. Il tutto, nascondendosi dietro a motivazioni etiche. Motivazioni che non convincono neanche Marco Follini, ex deputato centrista, approdato al piddì di Veltroni e che ora è in procinto di assumere un incarico dirigente. Lo farà comunque dopo che sarà varato il nuovo Statuto del partito, anche in questo ancora in altissimo mare. Dove si scontrano due posizioni apparentemente inconciliabili: quella di chi vorrebbe imporre il metodo delle ”primarie permanenti“ e quella di chi vorrebbe salvare almeno un’apparenza di democrazia rappresentativa. Con l’elezione di organismi dirigenti, dotati di autonomia decisionale. Ma tutto questo è parte di un altro discorso. In queste ore si sta parlando soprattutto di come si sta costruendo il partito democratico. Dei suoi valori, della sua cultura politica. Il più esplicito, e il più insoddisfatto, è Gianni Cuperlo. Un giorno in un’intervista a l’Unità, il giorno dopo scambiando due chiacchiere con un cronista del Riformista ma soprattutto sul suo blog, l’ex dirigente diessino ora approdato nel nuovo rassemblement, spiega perché il piddì sta nascendo male. Lo rivela il suo intervento in una delle ultime riunioni della commissione incaricata di scrivere il Manifesto del partito. Intervento pubblicato, appunto, sul suo blog. Laddove dice che l’intero impianto del documento gli sembra «un po’ condizionato dalla necessità di “rassicurare” il mondo di fuori circa il riconoscimento del valore della religiosità e il ruolo delle religioni nello spazio e nel dibattito pubblico». Ruolo che anche lui riconosce come legittimo. Ma Cuperlo vede soprattutto un’altra emergenza: quella di affermare nel nuovo parito «il principio non solo della laicità dello Stato ma dell’autonomia della politica». Cuperlo si spinge ancora più avanti. Spiegando che la laicità di cui avrebbe bisogno il nuovo raggruppamento riformista non può ridursi alla semplice ”convivenza“ fra posizioni diverse. Scrive il deputato democratico: «La laicità deve ispirare politiche, comportamenti, leggi. Ma respingendo l’idea che possano esserci dei limiti insuperabili (siano essi di ordine religioso o di altro genere) tali da impedire l’esercizio di un libero confronto culturale e di una eventuale deliberazione politica e legislativa. Perché, lo dico così, non si è laici solo perché si discute». Quella è una premessa essenziale ma non sufficiente. «Si è laici - aggiunge - soprattutto per come si decide». E lui chiede che si decida. Perché a ben vedere - ed ecco che si riorna alla Carta dei valori - un’espressione del tipo «non tutto ciò che è tecnicamente possibile è moralmente lecito » può certo andar bene a tutti. Per capire, può permettere la convivenza fra la Binetti e Peppino Caldarola. Ma non risolve nulla. Dice ancora Cuperlo: «Se si riferisce alla clonazione umana, mi sta benissimo, concordo. Io però ritengo che impedire la ricerca sulle cellule staminali embrionali sia un limite grave all’autonomia e responsabilità della comunità scientifica». Lui chiede di scegliere. Ma fino ad ora, nel piddì, ci si limita a schierarsi. Col leader che prosaicamente sceglie di occuparsi solo delle vicende contingenti. Riforma elettorale, ecc. Tanto, la cultura politica del piddì può aspettare.
s.b.

Liberazione 15.12.07
Alla presentazione ddel libro di Revelli «Operai soli: è calata una saracinesca sulla fabbrica»
Bertinotti: «La sinistra ha perso la nozione di uguaglianza»
"Sinistra-destra, l'identità smarrita"
di Angela Mauro


"Sinistra-destra, l'identità smarrita". Fausto Bertinotti si dice d'accordo con le tesi contenute nell'ultimo libro di Marco Revelli. «Siamo a un punto in cui il panorama in cui siamo cresciuti risulta così sconvolto da mettere in crisi la triade: democrazia, politica, sinistra», argomenta il presidente della Camera alla presentazione del testo con l'autore e il direttore del Tg1 Gianni Riotta nella sede delle edizioni Laterza. Il rischio, nel desolante panorama attuale, è che «la forza diventi l'unico elemento dirimente di disciplina». Di esempi del nuovo corso non ne mancano: Putin, Bush, Osama Bin Laden, tutti sostenitori della forza come elemento di «dialettica internazionale», osserva pure Riotta. L'intervento di Bertinotti è breve, è costretto a interromperlo per scappare a Montecitorio per il voto di fiducia sulla Finanziaria. Ma affonda il dito nella piaga. Che non è - e qui il presidente della Camera non concorda con le osservazioni del moderatore - la scomparsa della dicotomia destra-sinistra, la quale «resiste - dice Bertinotti - ma subisce una modificazione». Lo dimostra un altro esempio, pescato in Francia: «Ségolène-Sarkozy, ripropongono lo schema sinistra-destra, ma non hanno nulla a che fare con le categorie passate: hanno espunto la nozione di uguaglianza».
E' in questo concetto la chiave del cambiamento, non necessariamente peggiorativo, se è vero quanto sosteneva Brecht: «Preferisco il male del futuro al bene del passato». Perchè al futuro «non possiamo sottrarci», fa notare Riotta. Guardare avanti, obtorto collo, dunque. Alla nozione o ricerca dell'uguaglianza, alla dicotomia sinistra-destra si stanno sostituendo «altre polarizzazioni», spiega Bertinotti. La prima: «il conflitto tra l'alto e il basso della società». La cronaca italiana di pochi giorni fa fornisce un'esempio più che calzante. Il presidente della Camera torna a parlare degli operai, quelli di Torino, finiti sulle prime pagine dei giornali per le morti bianche alla Thyssenkrupp. «La percezione che ho avuto a Torino - racconta - è che sia calata una saracinesca sui cancelli della fabbrica». Il legame con la coppia per niente amica "alto-basso": la fabbrica e il mondo fuori, «noi e voi - dice Bertinotti - dove il noi, oggi, non è più "noi operai, sindacati, sinistra". E' un "noi dentro la fabbrica" e voi, fuori». In altre parole: «Solitudine tragica».
Nel processo di "atomizzazione" della società («Ognuno si sente presidente di una propria spa», concorda Riotta), l'altra polarizzazione che si fa strada è «la coppia amico-nemico: non sei chi decidi di essere - osserva il presidente della Camera - "sei" perchè "sei contro" l'altro da te».
E' chiaro che rispetto alla destra è più in crisi la sinistra. Anzi: il panorama desolante è possibile perchè «la nozione di sinistra è largamente a rischio». Non c'è più la percezione dei «due mondi» e Bertinotti non si riferisce solo al crollo dell'Unione Sovietica, ma alla percezione del «mondo in cui vivi e quello verso cui vai». Questione di direzione, di identità, appunto. Oggi, è uscita di scena «l'idea che il lavoro sia oggetto di contesa di società, con la posta in gioco della liberazione. Oggi il lavoro è semplice conflitto sociale per la redistribuzione». E' da qui che «si consuma la crisi della democrazia e della politica», sono in crisi le «identità collettive fondative di una certa politica e di un'idea di sinistra». Non c'è più «l'appartenenza a vita» a una categoria. Di nuovo gli operai: «Negli anni '70 avevano piena percezione e orgoglio della loro condizione, oggi nessun operaio vorrebbe essere tale».
Fin qui, quello che Bertinotti chiama il «ciclo lungo». C'è poi quello «breve della vicenda italiana», dove c'era una «famiglia», la sinistra, che fino agli anni '80 si teneva insieme, «con liti ma con un comune obiettivo: l'emancipazione». Ora non più, tutto da costruire. Ce l'ha fatta il Pd a dare una risposta alla crisi della sinistra, che «io non condivido», ribadisce Bertinotti, ma che «va presa sul serio e indagata a fondo. Darà risultati».

Liberazione 16.12.07
Serve una intesa ampia. Con tutti dalla Cdl al centrosinistra
Legge elettorale e Sinistra: dividerci mette a rischio il nostro progetto
di Carlo Leoni*


Ho deciso di scrivere questa nota perché non scorgo il necessario allarme rispetto alla possibilità, purtroppo assai concreta, che il processo unitario a sinistra naufraghi miseramente nel dibattito sulla nuova legge elettorale.
E' un rischio che non ci possiamo permettere soprattutto perché, dopo lo straordinario successo dell'Assemblea dell'8 e del 9 dicembre, quel percorso unitario non è più nella esclusiva disponibilità dei dirigenti dei quattro partiti promotori ma appartiene alle migliaia di persone che sono venute a Roma per sentirsi partecipi di un progetto aperto, partecipato, plurale.
Siamo stati due giorni a discutere dei contenuti e delle battaglie di una nuova sinistra sui temi del lavoro, della laicità, dell'ambiente, del disarmo. Abbiamo detto di voler innovare la pratica politica facendo tesoro della cultura femminista, di quella pacifista, dei movimenti new global. Si è dichiarato da parte di tutte e di tutti che il nuovo soggetto che stiamo costruendo non può limitarsi ad una federazione degli attuali partiti… E tutto questo dovrebbe naufragare perché non c'è accordo sulla legge elettorale, e cioè sulla diatriba maggiormente "partitica" che si possa immaginare?
Non scherziamo! Questo è il tornante su quale il "popolo della sinistra" potrà giudicare se ha di fronte oppure no gruppi dirigenti degni di questo nome e cioè uomini e donne che in nome di un progetto alto e storico sono disposti a mettere in campo il massimo di generosità, di disinteresse, di sguardo sul futuro.
Dare l'impressione che invece ciascuno torna a pensare innanzitutto ad un proprio tornaconto di parte, darebbe un'immagine devastante della sinistra e cancellerebbe d'un colpo quel tanto di buono che fin qui è stato fatto.
So bene che come militante di Sinistra Democratica ho un vantaggio rispetto agli altri: noi non abbiamo rendite da tutelare perché fin dal nostro atto di nascita abbiamo deciso di non presentarci mai da soli alle elezioni, di non essere affatto interessati ad una gara sui decimi di percentuale, ma soltanto a mettere in campo una sinistra più grande e più unita.
Non esiste quindi un modello elettorale cucito su misura per le esigenze di SD semplicemente perché queste esigenze particolari non esistono.
Se alla Fiera di Roma abbiamo tutti detto la verità, non possiamo allora non ragionare a partire dalla realtà per come essa si presenta e dal punto di vista del progetto che abbiamo condiviso.
Parto da una questione di metodo politico. Non ho neanche il minimo dubbio sul fatto che una nuova legge elettorale debba nascere da "larghe intese". Proprio per questo non può non essere radicalmente criticata la scelta del PD di assumere come interlocutore privilegiato il partito di Berlusconi dando l'impressione - purtroppo non infondata - di una intesa niente affatto "larga", ma solo tra i due maggiori partiti volta ad ottenere in seggi ciò che non otterrebbero in voti, schiacciando tutti gli altri.
Non posso esimermi dal constatare inoltre che dopo la fallita "spallata" sulla finanziaria la leadership di Berlusconi sul centrodestra era praticamente saltata e che all'uomo di Arcore è stata lanciata dal fronte opposto una inaspettata ciambella di salvataggio. Cui prodest?
Sono senz'altro d'accordo nel superare una volta per tutte la stagione della demonizzazione dell'avversario, da considerare semplicemente tale e non più un nemico da abbattere e da cancellare.
Ma questo non può significare autocensura, non può voler dire che se si condannano i tentativi di compravendita di senatori, se la magistratura indaga e i giornali ne scrivono, o se si chiede, come ha fatto il gruppo alla Camera di SD, di riportare in aula la nuova legge sul conflitto d'interessi, tutto questo rappresenta un ostacolo al "dialogo sulle riforme" e una viscerale caccia all'uomo! No, non ci sto.
Va ricercata una intesa con tutta la CdL e non solo con Forza Italia e ovviamente - ci mancherebbe altro - va ricercata una intesa nel centrosinistra. Altrimenti non si può parlare di "larghe intese".
Bene ha fatto quindi Prodi a convocare per gennaio un vertice di maggioranza ed è stata una decisone saggia quella di dilazionare i tempi di esame in Commissione Affari Costituzionali al Senato.
Veniamo al merito. Non voglio fare una riflessione di "modellistica", voglio partire dal nostro progetto, quello di costruire "La sinistra. L'arcobaleno".
Chi ha in testa questa ambizione unitaria ed espansiva non può non essere il primo avversario della frammentazione. Quindi: un chiaro sì ad una significativa soglia di sbarramento del cinque per cento.
Secondo: dovremmo tutti essere interessati a che il nuovo soggetto possa essere rappresentato come tale, possa esporre i suoi simboli e le sue idee autonome.
Dovremmo quindi vedere come la peggiore sventura non solo l'esito del referendum ma anche andare a votare con la legge attuale che di fatto obbliga a coalizzarsi.
Ma essere rappresentati come tali vuol dire anche non concedere alcuna indulgenza a chi, cercando una legge che premi i più grandi, ci vorrebbe sottorappresentati. Di poco? Di molto? Non è questo il problema: è una questione di principio. Ognuno deve essere rappresentato per i voti che prende, né più, né meno.
Per questo la "bozza Bianco" non può essere da noi accettata.
Altra questione. Veltroni dice di non esser più disponibile ad alleanze "coatte" ma solo ad intese di Governo fondate su un accordo programmatico inequivoco. Non possiamo che essere d'accordo proprio noi che stiamo denunciando l'abbandono del programma dell'Unione da parte del PD e del Governo Prodi.
Ma questo non può significare per noi né la smania strategica di autocollocarci all'opposizione (nessuna grande sinistra può nascere senza l'obiettivo di vincere e di governare, per il bene di quelli che rappresenta), né andreottiana indifferenza per le alleanze e nostalgia per l'era delle "mani libere".
Si deve da parte nostra, a mio avviso, scegliere il centrosinistra come l'unico orizzonte possibile di una alleanza per il governo. Possibile, non obbligata e da verificare sui contenuti programmatici. Ma senza una proposta politica generale non si può né vivere né crescere, ma solo testimoniare e contemplare il proprio ombelico.
Sono quindi d'accordo con chi a sinistra chiede che nella nuova legge elettorale ci sia in qualche forma la possibilità (certo non l'obbligo) di una dichiarazione preventiva sulle alleanze per il governo in caso di vittoria.
Perché dovremmo spianare la strada e farla passare liscia a quanti nel PD lavorano per convergenze centriste?
Noi che vogliamo dare vita ad una nuova soggettività politica dovremmo poter vivere la fase attuale senza alcun disagio perché questa è la stagione nella quale in Italia si sta riscrivendo la mappa complessiva della rappresentanza. E' pane per i nostri denti.
Ma possiamo viverla così soltanto se nessuno si mette a giocare contro l'altro o solo per se stesso.
Anche sulla legge elettorale si deve quindi esplorare la strada di una intesa a sinistra. Il movimento politico al quale appartengo lavorerà per questo obiettivo.
*Deputato di Sinistra Democratica

Liberazione 16.12.07
Tutti domani in Campidoglio per difendere diritti e laicità
Veltroni "sconfessa" le unioni civili
di Massimiliano Smeriglio*


Chissà se Walter Veltroni ha letto la "Cronica" sulla vita di Cola di Rienzo, eroe popolare che si tramutò da Tribuno del popolo a Vicario del Papa Innocenzo VI. In fondo nella vita di Cola vi è la metafora inesorabile del rapporto tra politica nostrana e potere della Chiesa di Roma. La tentazione e il fascino del cattolicesimo secolare che tutto attrae e tutti trasforma. Appunto da Cola a Crispi, da Mussolini a Rutelli fino al conflitto in atto: Walter contro Veltroni. Ovviamente l'esito appare drammaticamente scontato.
Eppure poco più di un anno fa la storia sembrava diversa. Il tema è quello del registro delle unioni civili, sul programma 2006 per il governo di Roma Veltroni assumeva con chiarezza la possibilità di riconoscere il vincolo affettivo tra le coppie di fatto.
Non solo, ma soltanto pochi mesi fa il sindaco dava incarico alla vice sindaca, la cattolicissima Maria Pia Garavaglia, di produrre una mediazione con la Sinistra circa la delibera da portare in Consiglio comunale.
Così è stato, si è composto un testo ragionevole, in linea con quanto succede in tante città italiane ed europee, un testo in grado di definire diritti e doveri delle coppie di fatto.
Sarà stato un caso, ma dopo il colloquio tra il cardinal Bertone e il sindaco e dopo l'editoriale dell'Avvenire, la storia è cambiata. Niente più testo Garavaglia, niente più spazio per ulteriori mediazioni, nessun rispetto per il Programma presentato agli elettori. Fine della discussione e, in barba al più elementare principio di realtà, è scattata la campagna mediatica sulla "evidente strumentalità della battaglia ideologica della sinistra radicale". Copione scontato. Oscar per la disinformazione alla cronaca romana de La Repubblica, vero e proprio bollettino dei buoni propositi di Walter Veltroni.
E' difficile fare politica, dentro lo schema dell'alleanza competitiva, nella città laboratorio del PD; è difficile spiegare e far vivere un punto di vista autonomo, per nulla ideologico e tutto proteso a moltiplicare i diritti esigibili di tutti in una città dove tutte le cronache locali che contano hanno un rapporto privilegiato con il Gabinetto del sindaco.
Noi, con un po' di sana imprudenza, abbiamo deciso di sfidare, sui contenuti e i valori, il leader del PD; vogliamo andare a vedere le carte, guardare in faccia tanti protagonisti delle battaglie per i diritti civili mentre votano contro il registro delle unioni civili, vogliamo ascoltare le motivazioni di Veltroni che, mentre dirà che siamo ideologici, offenderà tanti sindaci del PD e il suo amico Zanonato che quella delibera l'hanno già votata. Vogliamo vedere se avranno il coraggio di piegare la testa di fronte al pressing delle gerarchie ecclesiastiche rinunciando all'autonomia della politica e alla sua legittima aspirazione di governare e trasformare le cose degli uomini.
Vogliamo vedere se, ancora una volta, il Campidoglio verrà umiliato dalla riva destra del Tevere. Per chiarezza: niente contro la Chiesa di Roma che fa il suo mestiere, la partita riguarda la politica e le sue ipocrisie, i politici e la loro morale a geometria variabile.
Per questi motivi domani pomeriggio, mentre il Consiglio discuterà la delibera sulle unioni civili, saremo in piazza del Campidoglio. Ci sarà la Sinistra, ci saranno i socialisti, ci saranno Andrea Rivera e Nando Citarella, ci sarà tutto il movimento glbtq, ci saranno soprattutto le associazioni e i cittadini che hanno a cuore la laicità e la esigibilità dei diritti civili.
A Cola di Rienzo, la perfetta dominazione dei codici simbolici e degli strumenti della comunicazione, non bastò: dopo aver scelto il Papa al posto del Popolo, la sua parabola fu repentina e drammatica. Ma questa, certamente, È un'altra storia.
*DeputatoPrc-Se,segretario federazione romana

Liberazione 16.12.07
L'ultimo volume dell'intellettuale presentato con Bertinotti analizza un'opposizione non più significativa.
"Sinistra destra, l'identità smarrita". Marco Revelli e la crisi della politica
di Tonino Bucci


Chi pensa che la distinzione tra destra e sinistra non ha senso, diceva il filosofo francese Alain, quasi sicuramente è di destra. Difficilmente si sarebbe potuta contestare questa affermazione fino agli anni Ottanta. A nessuno, tantomeno di sinistra, sarebbe venuto in mente di mettere in dubbio il senso di una contrapposizione attorno alla quale si era organizzato - e aveva funzionato - il discorso politico per tutto il Novecento. Ma oggi? Da un paio di decenni a questa parte si è aperta una breccia. Una schiera di politici e intellettuali ha iniziato dall'interno della stessa galassia internazionale della sinistra a definire inattuale quella distinzione. Ha cominciato il movimento ecologista con Alex Langer, poi ci fu l'attacco all'idea di progresso da parte di Christopher Lasch, intellettuale della sinistra americana, in seguito venne il libro pionieristico del sociologo tedesco Ulrich Beck, "La società del rischio", per non parlare del teorico della terza via blairiana in Inghilterra, Anthony Giddens. Ma sarebbe ancora poca cosa se l'appannamento e la perdita di valore politico della coppia sinistra destra fosse solo una tesi di moda nel ceto intellettuale - per quanto impegnativa da confutare. C'è qualcosa di più. E' lo stesso spazio sociale che va frantumandosi, i soggetti collettivi si dissolvono, non si riconoscono più nella politica e si definiscono in un gioco di identità eterogenee, variabili, non più riconducibili alla coppia sinistra destra, anzi inaccessibili a essere rappresentate. Lo scrive Marco Revelli nel suo nuovo libro, "Sinistra destra. L'identità smarrita" (Laterza, pp. 280, euro 15), un libro "tormentato" come lo definisce lui stesso, perché nato sulla scorta dei seminari tenuti con Bobbio negli anni Ottanta e con l'intenzione di tenere fermo il senso dell'opposizione tra destra e sinistra, a partire dalla questione centrale dell'uguaglianza, ma costretto, tuttavia, a fare i conti, strada facendo, con la crisi delle identità e con il fallimento della politica nel momento in cui si separa dalla società.
Non è una crisi di poco conto, dice Revelli che ha presentato il volume con Fausto Bertinotti: è come se il discorso politico girasse a vuoto senza riuscire più a fare presa sulla polis, senza garantire più i legami sociali. Anche perché i meccanismi di identificazione che un tempo permettevano a un soggetto collettivo, a una classe, di riconoscersi come tale oggi sono irriconoscibili nella proliferazione di tante identità variabili, eterogenee e non più riconducibili a un unico centro, come poteva essere il lavoro. Gli individui continuano anche ad aggregarsi in base alla loro condizione lavorativa, ma a questa se ne sovrappongono altre ancora - la moda, la curva, il consumo - senza che nessuna di esse sia così stabile da poter essere tradotta in una scelta politica univoca e duratura, destra o di sinistra. Per una parte maggioritaria dell'elettorato dei paesi europei non è più un'opposizione significativa. Anzi, aggiunge Revelli, queste identità fluttuanti hanno come supporto la coppia amico-nemico, sono soggettività sociali che dicono "noi e voi". Rifiutano la politica. Fuggono dalle appartenenze che hanno, bene o male, fatto la storia del Novecento. Di cos'altro ci parla la cronaca quotidiana? Anche la tragedia degli operai di Torino testimonia che non siamo solo di fronte a un'analisi politologica, a una sociologia suggestiva. De te fabula narratur, della crisi della politica, della democrazia e della sinistra che si separano dalla vita. Queste tre cose rischiano di crollare assieme, lo ripete anche Bertinotti. Se a questo non siamo in grado di dare una risposta rischieremo un ritorno integrale a Schmitt, all'idea che non sarà più possibile praticare la politica basata sul consenso. Resterà solo l'uso della forza. Della guerra. Non si sta dicendo - non lo dice neppure Revelli - che i termini destra e sinistra siano scomparsi dal linguaggio pubblico. Tutt'altro, continuano a essere una definizione, per quanto indefinita, attraverso cui l'elettore medio e gli stessi partiti si percepiscono. Però è come se ci fosse una sconnessione tra il vissuto reale degli individui e il lessico della politica. Un esempio? La storia del movimento operaio si è concretizzata attorno alla distinzione della sinistra dalla destra e l'ha vissuta come l'opposizione di un modello di società alternativo a quello esistente. Oggi, dice Bertinotti, questo scenario è crollato: perché c'è stata, da un lato, la globalizzazione che ha unificato il pianeta e, dall'altro, il venir meno, nella percezione di massa, dell'idea dei "due mondi, quello in cui vivi e quello verso cui vai". Non si tratta, come banalmente si sostiene, solo del crollo del socialismo reale, è accaduto un fenomeno che ha standardizzato il mondo, ha cacciato fuori dalla politica il conflitto tra socialismo e capitalismo. Sembra un'altra epoca quando non c'era discorso che Berlinguer - non Togliatti o Longo ancora più lontani nel tempo - non concludesse con la prospettiva del socialismo, lui che pure aveva dichiarato esaurita la spinta propulsiva dell'Unione sovietica. Ma esce di scena, aggiunge Bertinotti, anche il conflitto sul lavoro salariato, l'idea che il lavoro potesse essere il terreno di contesa per un progetto di liberazione dell'umanità e di cambiamento della società, non solo una condizione su cui fare inchiesta o da mettere al centro di strategie sindacali per la redistribuzione della ricchezza. Insomma, oggi entrano in gioco altre polarizzazioni, quelle tra alto e basso, tra noi e voi, tra massa ed élites, tra amico e nemico. C'è un deterioramento dei rapporti tra governati e governanti che ha suggerito a Pierre Rosanvallon l'espressione "politica nell'era della diffidenza" per illustrare nel suo più recente libro la crisi della democrazia contemporanea. A Torino, dice Bertinotti, è come se si fosse chiusa una saracinesca sulla fabbrica, come se partiti e sindacati da adesso in poi non possano più varcare quei cancelli. E' una contrapposizione tra noi e voi che si ritrova anche nelle rivolte giovanili delle banlieues parigine, di periferie che non sarebbe esagerato leggere con i canoni di Fanon, come territori colonizzati. La coppia amico-nemico spunta ovunque e le aggregazioni si formano nei conflitti con chi simbolicamente rappresenta l'altro - pensiamo agli ultrà delle curve, anche di squadre contrapposte, che si uniscono contro il comune avversario, contro la polizia.
La sinistra è a rischio. Anche se, come scrive Revelli, le ragioni della contrapposizione tra destra e sinistra sono ancora lì, sul tappeto globale, ingigantite semmai dalle disuguaglianze e dall'unificazione del pianeta. La materialità dei problemi lo testimonia. Eppure quello che manca sono "le proposte e i soggetti politici disposti a farsene carico". Gli elettori sono costretti a scegliere all'interno di un repertorio ristretto di programmi perlopiù indifferenziati. La sensazione è che tutto questo dipenda da un'impotenza della politica contemporanea a dare risposte alle questioni urgenti del nostro vivere comune. Il destino della sinistra dipenderà dalla sua capacità d'interpretare i nuovi meccanismi di identificazione dei soggetti sociali, di rispondere alla domanda: come si formano le identità dell'individuo quando lavora, quando consuma, quando va allo stadio, quando va al concerto, quando è davanti alla tv? E' l'americanismo del nostro tempo e i suoi effetti si danno a vedere nella frantumazione della vita e degli stili di consumo, nella disgregazione della personalità e nella fine della società delle masse. Siamo di fronte a una crisi del paradigma moderno nato con Hobbes, gli uomini non sono portati per natura a vivere in uno Stato, ma il dispositivo statale oggi non ce la fa più a mantenere coesa la comunità. Può salvarsi la politica? Sì, ma a tre condizioni, suggerisce Revelli: che rinunci alla forza per risolvere la scomposizione sociale in atomi solitari, che esca dalla logica della propria autoreferenzialità paranoica e che accetti l'idea di limite dello sviluppo. Se la sinistra non capirà questa americanizzazione contemporanea - come Gramsci comprese quella del suo tempo, verrebbe da dire - rischierà di crollare assieme alla politica.

Repubblica 14.12.07
Lo confesso ho sbagliato sulle guerre di religione
di Salman Rushdie


"Ho sbagliato, ha ragione Huntington"
Lo scrittore riscrive un suo celebre articolo e ammette che lo scontro di civiltà esiste
La maggioranza silenziosa dei musulmani si è alleata con gli estremisti
È evidente che ogni storia religiosa sul come siamo arrivati qui è di fatto sbagliata

Mia cara piccola seimiliardesima persona vivente, in quanto membro di più recente acquisizione di una specie notoriamente indagatrice, probabilmente non passerà molto tempo prima che tu cominci a porre le due domande da sessantaquattromila dollari su cui noialtri 5.999.999.999 ci arrovelliamo da un bel po´ di tempo: come siamo arrivati qui? E ora che siamo arrivati qui, come dobbiamo vivere?
Stranamente - come se sei miliardi di noi non fossero abbastanza per tirare avanti - quasi certamente ti diranno che per dare una risposta alla domanda sulle origini devi credere nell´esistenza di un altro Essere ancora, invisibile, ineffabile, «da qualche parte lassù», un creatore onnipotente che noi povere e limitate creature non siamo in grado nemmeno di percepire, tanto meno di comprendere. Verrai fortemente incoraggiato o incoraggiata, in altre parole, a immaginare un paradiso dove risiede almeno un dio. Questo dio-cielo, si racconta, fabbricò l´universo rimestando la materia in un gigantesco pentolone. O danzando. O vomitando la Creazione da dentro di sé. O semplicemente evocandola, ed essa Fu. In alcune delle più interessanti storie sulla creazione, l´unico, potente dio-cielo viene suddiviso in numerose forze di minore importanza: divinità minori, avatar, colossali e metamorfici «progenitori» che con le loro avventure danno forma al paesaggio, o i capricciosi, sregolati, cospiratòri, crudeli pantheon dei grandi politeismi, le cui sfrenate azioni ti convinceranno che il vero motore della creazione fu la brama: di potere infinito, di corpi umani troppo facili da spezzare, di nuvole di gloria. Ma è corretto aggiungere che vi sono anche storie che offrono il messaggio che l´impulso creativo primario fu, ed è, l´amore.
Molte di queste storie ti colpiranno per la loro straordinaria bellezza, e dunque per la loro capacità di seduzione. Malauguratamente, però, non sarà una reazione puramente letteraria che chiederanno da te. Solo le storie delle religioni «morte» possono essere apprezzate per la loro bellezza. Le religioni vive ti chiedono molto di più. E ti diranno dunque che credere nelle «tue» storie, e aderire ai rituali di culto sviluppatisi intorno a esse, dovrà diventare una parte fondamentale della tua esistenza in questo mondo affollato. Le chiameranno il cuore della tua cultura, della tua identità individuale, perfino. È possibile che a un certo punto arriveranno a sembrarti qualcosa a cui non si può sfuggire, non come non si può sfuggire alla verità, ma come non si può sfuggire a una prigione. Forse, a un certo punto, smetteranno di apparirti come i testi in cui degli esseri umani hanno cercato di risolvere un grande mistero, e ti appariranno invece come i pretesti per consentire ad altri esseri umani, consacrati all´uopo, di tiranneggiarti. Ed è vero che la storia umana è piena di pubblica oppressione inferta dagli aurighi degli dei. Ma le persone religiose ritengono che il conforto privato che la religione dà è più che sufficiente a compensare il male fatto in suo nome.
Con lo svilupparsi della conoscenza umana, è diventato anche evidente che ogni storia religiosa mai raccontata sul come siamo arrivati qui è, semplicemente, sbagliata. È questo, in definitiva, che accomuna tutte le religioni. Non c´hanno indovinato. Niente rimestìo celeste, niente danza del creatore, niente vomitìo di galassie, niente progenitori canguri o serpenti, niente Valhalla, niente Olimpo, niente sei giorni di giochi di prestigio seguiti da un giorno di riposo. Sbagliato, sbagliato, sbagliato. Qui, però, accade qualcosa di davvero strano. L´erratezza delle storie sacre non ha sminuito neanche un po´ lo zelo del credente devoto. Anzi: la pura e semplice, anacronistica assurdità della religione spinge il religioso a insistere con ancor più fervore sull´importanza della fede cieca.
Per effetto di questa fede, tra l´altro, si è rivelato impossibile, in molte parti del mondo, impedire che i numeri della razza umana si gonfiassero fino a proporzioni allarmanti. La colpa del sovraffollamento del pianeta, almeno in parte, dàlla alla sventatezza delle guide spirituali della razza. Nell´arco della tua vita, potresti tranquillamente arrivare a vedere la nascita del novemiliardesimo cittadino del mondo. Se sei indiano o indiana (e c´è una possibilità su sei che tu lo sia) sarai vivo (o viva) quando, grazie al fallimento dei programmi di pianificazione delle nascite in questa terra povera e oppressa da Dio, la popolazione del tuo Paese supererà quella della Cina. E se troppe persone stanno nascendo, anche per effetto dell´ostilità delle religioni al controllo delle nascite, troppe persone stanno anche morendo, perché la cultura religiosa, rifiutando di affrontare le realtà della sessualità umana, rifiuta anche di combattere la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili.
Ci sono quelli che dicono che le grandi guerre del nuovo secolo saranno ancora una volta guerre di religione, jihad e crociate, come furono nel Medioevo. Anche se ormai da anni l´aria risuona delle grida di battaglia di fedeli che trasformano i loro corpi in bombe del Signore, e anche delle urla delle loro vittime, non ho voluto credere a questa teoria, o quantomeno non nel modo in cui la maggior parte delle persone la concepiscono.
Ho sostenuto per molto tempo che lo «scontro di civiltà» di Samuel Huntington è un´ipersemplificazione. Che la maggior parte dei musulmani non ha alcun interesse a prendere parte a guerre religiose. Che le divisioni nel mondo islamico sono altrettanto profonde delle cose che lo uniscono. (Basta dare uno sguardo al conflitto tra sunniti e sciiti in Iraq, se si ha qualche dubbio.) È alquanto difficile trovare qualcosa che assomigli a un obbiettivo comune di tutto l´islam. Perfino dopo che la non islamica Nato combatté una guerra per i kosovari, albanesi e musulmani, il mondo islamico fu lento a farsi avanti con gli aiuti umanitari tanto necessari.
Le vere guerre di religione, sostengo io, sono le guerre che le religioni scatenano contro i comuni cittadini che rientrano nella loro «sfera di influenza». Sono guerre dei devoti contro gli indifesi (in gran parte): fondamentalisti americani contro medici abortisti, mullah iraniani contro la minoranza ebraica nel loro Paese, i talebani contro il popolo afghano, i fondamentalisti indù di Bombay contro i residenti musulmani, sempre più impauriti, di quella città.
E le vere guerre di religione sono anche le guerre che le religioni scatenano contro i non credenti, la cui non tollerabile nonfede viene reinterpretata come un delitto, come ragione sufficiente per eliminarli.
Col passare del tempo, però, sono stato obbligato a riconoscere una cruda verità, che le masse dei cosiddetti «musulmani comuni» sembrano aver comprato le fantasie paranoidi degli estremisti, e sembrano spendere più energie a mobilitarsi contro vignettisti, romanzieri o il papa, che a condannare, emarginare ed espellere gli assassini fascisti presenti tra loro. Se questa maggioranza silenziosa consente che una guerra venga condotta in suo nome, allora, in definitiva, in quella guerra diventa complice.
E forse allora, dopo tutto, sta effettivamente iniziando una guerra di religione, perché ai peggiori tra noi viene concesso di dettare l´agenda al resto di noi, e perché i fanatici, che fanno sul serio, non incontrano un´opposizione sufficientemente forte da parte della «loro gente».
E se è così, allora i vincitori di una simile guerra non devono essere gli ottusi, quelli che marciano in battaglia, come sempre, con Dio al loro fianco. Scegliere la nonfede è scegliere la ragione contro il dogma, fidarsi della nostra umanità invece di tutte queste pericolose divinità. E dunque, come siamo arrivati qui? Non cercare la risposta nei libri di storia «sacri». L´imperfetta conoscenza umana magari sarà una via accidentata e piena di insidie, ma è la sola strada alla saggezza che valga la pena imboccare. Virgilio, che credeva che l´apicoltore Aristeo potesse generare spontaneamente nuove api dalla carcassa putrefatta di una mucca, era più vicino alla verità sulle origini di tutti i venerati libri antichi.
Le saggezze antiche sono sciocchezze moderne. Vivi nel tuo tempo, usa quello che conosci e quando sarai diventato adulto, forse finalmente la razza umana sarà diventata adulta con te e avrà messo da parte le cose da bambini.
Come dice la canzone, It´s easy if you try: se ci provi è facile.
Quanto alla moralità, il secondo grande interrogativo – come dobbiamo vivere? Quali sono le cose giuste da fare, e quali quelle sbagliate? – dipenderà se sarai disposto, o disposta, a pensare con la tua testa. Solo tu puoi decidere se vuoi che siano i preti a elargirti la legge, e accettare che il bene e il male siano, in qualche modo, esterni a noi stessi. A mio parere, la religione, anche nella sua versione più sofisticata, essenzialmente infantilizza il nostro io etico fissando infallibili Arbitri morali e irredimibili Tentatori immorali al di sopra di noi; i genitori eterni, bene e male, luce e ombra del regno ultraterreno.
Come potremo, dunque, compiere scelte etiche senza un regolamento o un giudice divino? La nonfede è solo il primo passo della lunga deriva verso la morte cerebrale del relativismo culturale, in base al quale molte cose insopportabili – la circoncisione femminile, per nominarne soltanto una – possono essere giustificate con la specificità culturale, e può essere ignorata anche l´universalità dei diritti umani? (Quest´ultimo capolavoro di disfacimento morale trova sostenitori in alcuni tra i regimi più autoritari del pianeta, e anche, ed è inquietante, sugli editoriali del Daily Telegraph).
No, non è il primo passo verso il relativismo culturale, ma le ragioni per sostenere questa tesi non sono così chiare e distinte. Solo l´ideologia radicale è chiara e distinta. La libertà, che è la parola che uso per definire la posizione etico-laica, è inevitabilmente più confusa. Sì, la libertà è quello spazio in cui può regnare la contraddizione, è un dibattito infinito. Non è, in sé, la risposta all´interrogativo morale, è la conversazione su quell´interrogativo.
Ed è molto di più di semplice relativismo, perché non è semplicemente un chiacchiericcio senza fine, ma un luogo in cui si compiono le scelte e si definiscono e difendono i valori. La libertà intellettuale, nella storia europea, ha significato principalmente libertà dai vincoli della Chiesa, non dai vincoli dello Stato. Questa è la battaglia che combatteva Voltaire, ed è anche quello che tutti i sei miliardi di noi potremmo fare per noi stessi, la rivoluzione in cui ognuno di noi potrebbe giocare la sua piccola, seimiliardesima parte: potremmo, una volta per tutte, rifiutare di permettere ai preti e alle storie immaginarie in nome delle quali essi pretendono di parlare, di essere i poliziotti delle nostre libertà e del nostro comportamento. Potremmo, una volta per tutte, rimettere le storie nei libri, rimettere i libri sugli scaffali e vedere il mondo semplice e sdogmatizzato.
Immagina che non ci sia nessun regno dei cieli, mio caro seimiliardesimo, e improvvisamente il cielo cesserà di avere limiti.

Copyright Salman Rushdie 2007 (Traduzione di Fabio Galimberti)

Il Sole - 24 Ore Domenica 16.12.07
L'io in crisi d'identità
di Nicla Vassallo


L'idea ingenua che ne abbiamo è tutto sommato sobria e convincente: l'io è un'entità singola, capace di intrattenere pensieri su se stesso e di conoscerli insieme alle proprie esperienze e azioni. A ciò aggiungiamo spesso la convinzione che l'io abbia bisogno di "embodiment" (di attributi fisici oltre che psichici) e di relazionalità (non ci può essere metafisicamente un io privo di altri io, o comunque è anche il riconoscimento di me stesso che mi viene dagli altri a fare sì che io possa sapere di essere me stesso).
Questa idea è stata messa ripetutamente alla prova, corretta, negata, sviluppata, superata da un gran numero di pensatori. Menzioniamo solo i maggiori filosofi contemporanei: Derek Parfit sostiene che a contare non sono tanto l'identità e l'io, bensì la persistenza e la continuità della persona; Sidney Shoemaker si esprime a favore di una teoria causale dell'identità; Bernard Williams escogita con costanza esempi per rifiutare o avallare tesi a favore sia della psichicità sia della fisicità dell'io. Forse meno nota da noi, ma non meno incisiva e innovativa nel dibattito attuale, è la posizione di David Velleman: non c'è una singola entità a cui il termine "io" possa riferirsi.
Ben lontano dall'abbracciare le varie mode decostruzioniste e post-moderniste, così come dall'invocare la possibilità che esistano di fatto solo personalità multiple, Velleman sostiene che l'io è un modo riflessivo di presentazione sotto diverse guise, ovvero un modo in cui parti e aspetti della persona divengono presenti alla mente della persona stessa. Queste parti si rivelano in diversi contesti, come quello della memoria autobiografica, o dell'azione autonoma, o della riflessione morale in cui esercitiamo l'auto-critica, o delle emozioni morali, grazie a cui ci lodiamo e biasimiamo. La bella analisi filosofica dell'io, che Velleman ci offre, solleva domande di sicuro interesse come «cosa significa essere amati e amare in assenza di un io che denota una singola entità?», traendo suggerimenti dall'etica kantiana, dalla filosofia dell'azione, dalla psicoanalisi e dalla psicologia sociale.
Ma vediamoli meglio questi diversi io. Ne esistono almeno tre. Innanzitutto, c'è l'io che corrisponde alla rappresentazione che abbiamo di noi stessi. Dato che di questa rappresentazione fanno parte svariate cose come il nostro nome, indirizzo, codice fiscale, ciò che crediamo, quale tipo di personalità abbiamo, e così via, essa non è intrinsecamente riflessiva. Se fosse altrimenti, dovremmo dire che quando soffriamo di crisi d'identità (a tutti noi è capitato almeno una volta nel corso dell'esistenza), la nostra sofferenza deriva dal non sapere più chi siamo, anche nel senso di non sapere più che codice fiscale abbiamo. Esiste poi il nostro io passato e il nostro io a venire: accediamo al primo con una riflessione sui nostri ricordi, al secondo anticipando rappresentazioni del nostro futuro. E infine c'è l'io che esercita la propria autonomia, e qui Velleman va oltre una particolare concezione: se è vero che noi esseri umani inventiamo in qualche modo il nostro io, è altrettanto vero che in quest'invenzione non pos~iamo fare a meno di considerare sia che cosa pensiamo di essere, sia la nostra capacità di capire il nostro modo di agire. Siamo quindi una creazione di noi stessi in una misura minore rispetto a quello che siamo a volte indotti a credere.

J. David Velleman «Self to Self», Cambridge University Press, New York, pagg. 385, $ 75.00

Il Sole - 24 Ore Domenica 16.12.07
Quella Chiesa che si sa adattare
di Emma Fattorini


«La religione è un bisogno dello spirito ... solo chi ha sostituito alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo». Così scrive Antonio Gramsci nel 1916, con evidenti, espliciti echi crociati, rivelando il fastidio per le vuote formule anticlericali del primo socialismo italiano. L'inadeguatezza della critica positivistica alla religione, a cui Croce faceva risalire nel 1908 la fortuna dell'idealismo, è il punto di partenza delle riflessioni del giovane Gramsci sulla questione religiosa.
Lo stesso socialismo è una sorta di religione e precisamente «La religione che deve ammazzare il cristianesimo. Religione nel senso che è anch'esso una fede, che ha i suoi mistici e i suoi pratici;religione perché ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia nell'uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale».
Nell'immanentismo idealista, Gramsci innerva il momento della soggettività, della volontà umana, una sorta di attualismo gentiliano filtrato dall'evento della Rivoluzione russa: lo «sprigionarsi della volontà organizzata», «la rivoluzione contro il Capitale»,«atto storico» della «pura attività pratica» che supera le idee. E così la critica gramsciana alla religione diventa lotta contro il fatalismo, la passività, il velleitarismo. «La nostra religione ritorna ad essere la storia ... la nostra fede ritorna ad essere l'uomo e la sua volontà. Ed è così che ci sentiamo inevitabilmente in antitesi col cattolicesimo e ci sentiamo moderni».
Ci sono qui i fondamenti teorici di quella critica incrociata al doppio registro del pensiero metafisico che egli rivolge sia al positivismo sia al cattolicesimo: entrambi metafisici in quanto pongono la natura o Dio come entità trascendenti. L'uomo resta invece «pura creazione storica e non natura». La conclusione - di una sorprendente modernità - è "la possibilità che" un cattolico possa essere anche positivista, e che Gramsci vede silffragata dall'esempio dell' Action française. Quando inizia il suo impegno politico, le sue analisi si rivolgono alle forme del movimento cattolico. In primo luogo il Partito popolare la cui «costituzione, come scrive nell'ottobre del 1919, equivale nella storia della nazione italiana ... per importanza alla riformagermanica». L'idea, sviluppata pienamente nelle Note dei Quaderni attraverso le analisi sulla Azione cattolica, che l'inedito e laico rapporto che i cattolici stabiliscono con lo Stato e raggiunto tardi rispetto alle altre nazioni europee, avviene però nella forma più avanzata e moderna di un partito politico di massa. Certo il clima politico e culturale del biennio rosso, induce a fortissime semplificazioni e schematismi: mera scansione del processo rivoluzionario, il Ppi, infatti, «si spezzerà in due tronconi» mentre la religione «destinata ad un inconsapevole suicidio» sembra non dovere lasciare nessuna traccia di sè: «Il cattolicesimo democratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida». Il movimento socialista degli anni Venti è convinto che qualsiasi forma di adattamento della chiesa alla modernità ne avrebbe minato definitivamente la forza e il prestigio: solo una rigida chiusura della chiesa ai processi di modernizzazione ne avrebbe consentito la sopravvivenza.
Dal carcere, riflettendo sulle cause della sconfitta il suo giudizio sarà opposto: la forza morale e la capillare egemonia della chiesa risiedono proprio nella sua straordinaria capacità di adattarsi molecolarmente alla modernità, senza perdere la propria identità. Una incredibile "adattabilità", una sorta di quella complexio oppositorum di cui parla Karl Schmitt e che tanto affascina Gramsci, al punto che l'addita ad esempio alla sua Riforma intellettuale e morale, ribaltando ne il segno in funzione «di emancipazione delle masse».
Le analisi di Gramsci sulla religione sono centrali per cogliere la natura della sua concezione: un possibile inveramento di altre forme utopiche (tra le quali "la più gigantesca" sarebbe la religione) o, all' opposto, secondo le accuse mossegli da Augusto Del Noce, una concezione "totalizzante", un laicismo illuminista, mascherato da tensioni utopiche, «un totalitarismo morbido, infinitamente più grave nei suoi risultati del totalitarismo duro»?

Questo testo è parte dell'intervento di Emma Fattorini pronunciato al convegno «Gramsci e il suo tempo», tenutosi dal 13 al 15 dicembre a Bari-Turi.

Il Sole 24 - Ore Domenica 16.12.07
Etica Medica. Malattie innominabili
Ci sono patologie che portano denominazioni date loro dai nazisti...
di Gilberto Corbellini


Su «La Presse Médicale» di novembre, lo storico della medicina francese Bruno Halioua ha rilanciato ai medici francesi, ripreso anche da «Le Figaro», la proposta di effettuare una bonifica etica della nomenclatura medica, cancellando gli eponimi usati per denotare alcune malattie che ricordano medici che aderirono al nazismo, macchiandosi di gravi crimini.
Il problema degli eponimi nazisti si discute da circa un decennio. Nel 1998 la questione fu sollevata sulla rivista «Lancet». in relazione ai casi di Julius Hallervorden e Hugo Spatz, neuropatologo il primo e psichiatra il secondo, che insieme danno il nome a una rara sindrome neurodegenerativa; ma che avevano espiantato e studiato i cervelli di centinaia di bambini, adolescenti e malati di mente uccisi nell'ambito del progetto nazista che dal 1939 prescriveva l'eutanasia per i soggetti ritenuti non degni di vivere. E i loro preparati anatomopatologici, donati agli istituti dove avevano continuato a lavorare dopo la guerra, furono utilizzati a lungo per le esercitazioni didattiche.
Il clou del dibattito fu nel 2000, quando la comunità dei reumatologi venne scossa da un articolo pubblicato sul «Journal of Clinical Rheumatology» con il titolo: «Un criminale di guerra deve essere ricompensato con l'onore di un eponimo? La doppia vita di Hans Reiter (1881-1969)». Come conseguenza della denuncia l'Associazione americana dei pazienti affetti da Spondilite decise di non usare più il nome di "sindrome di Reiter" ma quello di "artrite reattiva" per una caratteristica forma di infiammazione dei tessuti connettivi scatenata da infezioni batteriche in concomitanza con un particolare profilo genetico individuale. Era dal 1941 che questa artrite, forse già descritta da Ippocrate, di cui aveva sofferto Cristoforo Colombo a partire dal terzo viaggio nelle Americhe e inquadrata come entità clinica nel 1818 da Benjamin Brodie, veniva chiamata con il nome di Hans Reiter. Ed era stato lo stesso Reiter a rivendicare formalmente nel 1954, a fronte del tentativo di associare la sindrome anche al nome di alcuni medici francofoni che l'avevano descritta alcune settimane dopo di lui, di averla vista per primo nel 1916 in un giovane: sifilide. Alcuni specialisti gli contestarono che il suo caso era alquanto incerto. Ma senza successo. Incredibilmente, nessuno lo dissuase dalla pretesa che il suo nome avesse l'onore di essere associato a una malattia, dato che egli aveva disonorato la professione aderendo al nazismo, fin dalla prima ora, e svolgendo un ruolo attivo nella organizzazione di crudeli sperimentazioni mediche nei lager e nella selezione e deportazione degli ebrei destinati alle camere a gas. Il nome di Reiter era e rimane associato anche a una variante della spirocheta della sifilide (spirocheta di Reiter) e a un test diagnostico sempre per la sifilide (test di Reiter).
Il caso Reiter venne ripreso dal «New York Times», e il giornalista riusciva a intervistare uno degli specialisti che per primo aveva adottato l'eponimo nel 1942, nonché l'autore dell'ultimo trattato pubblicato sulle artriti. Entrambi si difendevano dicendo di non sapere, e che ormai il nome era entrato nell'uso, per cui sarebbe stato difficile forse inutile andar contro l'inerzia dell'abitudine. L'articolo rilevava che gli eponimi medici onoravano sì spesso dei medici, ma la loro diffusione dipendeva anche da fattori di natura politico-culturale, come i richiami o le resistenze nazionalistiche.
Ma gli eponimi nel contesto delle tragedie che la medicina occidentale ha attraversato fra le due guerre mondiali meritano però una riflessione a parte. Cosa che hanno fatto agli inizi di quest'anno due medici israeliani Real D. Strous e Morris C. Edelman in un articolo apparso sull' «Israeli Medical Association Journal» con il titolo «Gli eponimi e l'era nazista: tempo di ricordare e tempo di cambiare». Anche se qualcuno aveva sostenuto nel frattempo che nome di Reiter andava conservato proprio per ricordare agli studenti che i medici possono sbagliare e comportarsi in modo non etico. Strous ed Edelman ritengono che l'etica vada tenuta presente non solo rispetto ai rapporti fra medici e pazienti, ma anche sul piano della nomenclatura e della nosologia. Nel loro articolo essi suddividono gli eponimi creati nell'era nazista in "eponimi degli aggressori", "eponimi di coloro che sostennero l'eugenica", "eponimi delle vittime", "eponimi di coloro che protestarono" ed "eponimi di coloro che sfuggirono al nazismo". Oltre ai tre già citati, la nomenclatura medica continua a celebrare i seguenti medici nazisti: Hans Eppiner, Murad Jussuf Bei Ibrahim, Eduard Pernkof, Hans Joachim Scherer, Walter Stoeckel e Friedrich Wegener. Nonché i seguenti propagandisti dell'eugenica ispirata dall'ideologia dell'igiene razziale e dell'eutanasia di stato per i ritardati mentali: Eugene Charles Apert, Wilhelm His jr., Robert Foster Kennedy e Madge Thurlow Macklin.
Se le società mediche si coordinassero per fare una trasparente pulizia morale della nomenclatura medica, ciò avrebbe un valore altamente educativo, soprattutto per le giovani generazioni di medici che si stanno formando spesso senza neppure ricordare i crimini compiuti nel passato da alcuni loro colleghi legati al nazismo e al fascismo.

Il Sole 24 Ore - Domenica 16.12.07
Milano. Medea, malata e selvaggia
di Renato Palazzi


Fabio Sonzogni è un ex attore che da qualche tempo si dedica stabilmente alla regia. Un paio d'anni fa avevo visto una sua messinscena di Misura per misura di Shakespeare, che mi aveva lasciato per vari aspetti perplesso. Molto più maturo e interessante ho trovato invece questo allestimento della Medea da lui realizzato all'Out Off di Milano, uno spettacolo dal taglio personale e misterioso, capace di comunicare delle sensazioni oscure e un po' inquietanti su cui aleggia - ma solo indirettamente, in un clima sospeso e allusivo - l'ombra del disturbo psichico, un vago sentore di malattia mentale.
A suggerirlo sono soprattutto i movimenti rigidamente geometrici e sottilmente autoritari delle donne del coro, sfuggenti figurette dalle acconciature elaborate, dispensatrici di medicinali e camicie di forza, strette in abiti più da bambinaie tedesche che da vere e proprie infermiere. Quanto alla Medea dell'intensa Caterina Deregibus, sembra emanare una sensualità selvaggia, indossa una veste che le scopre le gambe, ma la sua furia è come soffocata in una quiete innaturale: parla quasi con distacco, sembra attenta a non perdere il controllo, e forse è proprio questa calma forzata a rivelare quel tormento interiore che esploderà nel feroce epilogo.
Per Sonzogni la tragedia non è un apparato razionale, una macchina produttrice di significati, ma un lungo cerimoniale di dolore trattenuto che culmina in un unico, lancinante vertice sacrificale. L'intera rappresentazione appare solo come una lenta e sommessa preparazione all'esplosione di violenza di quell'atto, in cui si concentra il nucleo ancestrale della vicenda: nell'invenzione del regista, lei non compie direttamente l'uccisione dei suoi figli - due simbolici ceri accesi, che si limita a spegnere soffiando - ma con una scheggia di una boccetta rotta si taglia atrocemente la vagina, come per annullare in sé l'origine stessa della vita.
Questo comportamento estremo - che diventa così un tenebroso gesto contro la maternità in sé, più che contro la propria progenie - non è il frutto di un'estraneità culturale, di una gelosia o di una ripicca, ma è il rito espiatorio di una femminilità primordiale ferita e offesa, è un territorio di gelida esaltazione dove Medea si spinge come varcando l'orlo di un abisso. Singolarmente, l'aspetto più impressionante del finale non è però la folle mutilazione che la protagonista si infligge, né quel suo "doppio" spettrale che incombe nell'aria, ma è la sinistra danza bacchica con cui - in una livida penombra - celebrano l'accaduto le due donne del coro.

«Medea», di Euripide, regia di Fabio Sonzogni, Milano, Teatro Out Off, fino al 23 dicembre.

il manifesto 16.12.07
HILARY PUTNAM. Tra la filosofia e la scienza un rapporto irrinunciabile
Incontro con il grande filosofo americano, che in questa intervista torna, fra l'altro, su alcune tesi cruciali del cognitivismo e sull'ideale universalistico dell'etica, che non andrebbe mai separato dall'ideale conoscitivo intrinseco alla ricerca della verità
Il funzionalismo è tutto rivolto verso ciò che avviene nella testa degli individui: presuppone cioè che la mente sia interna alla scatola cranica. In realtà, però, gli stati mentali sono determinati sia da ciò che c'è nei nostri cervelli sia dalle transazioni che i nostri cervelli, e corpi, hanno con l'ambiente esterno e con gli altri soggetti

di Romina Bassini e Mario De Caro


«L'intelligenza Artificiale? In realtà non è mai è esistita». A sentire una frase così categorica, verrebbe da pensare che sia stata pronunciata da uno di quei Catoni che da giornali e tv ci allertano quotidianamente sulla pericolosità della scienza. Se però a dire queste parole è Hilary Putnam conviene starlo a sentire. I suoi studi, infatti, hanno contribuito alla nascita delle scienze cognitive e rivoluzionato la filosofia della fisica e quella della matematica - oltre a trasformare la filosofia del linguaggio e la teoria della conoscenza (con il famoso scenario dei «cervelli in una vasca», che ha poi ispirato gli autori del film Matrix).
Inoltre, nel campo della metafisica Putnam è stato protagonista di un grande dibattito sul tema del realismo, rispetto al quale ha cambiato più volte la sua posizione: dalla visione scientistica dei primi anni è passato a una forma di idealismo moderato (il cosiddetto «realismo interno») per poi approdare al «realismo diretto» che si ispira ai maestri del pragmatismo. E, infine, anche le questioni dell'etica hanno costituito un argomento dei suoi dibattiti, quando si è trovato a difendere l'oggettività dei giudizi morali nelle sue discussioni con Amartya Sen e con Jürgen Habermas, mentre per altro verso ha criticato con forza la classica distinzione weberiana tra fatti e valori.
Allora, ci vuole riassumere le sue obiezioni all'Intelligenza Artificiale?
Mi spiace dirlo, ma il termine «Intelligenza Artificiale» è niente più di uno slogan con il quale Marvin Minsky cercò, e ottenne, congrui finanziamenti da investire in una serie di fantasiosi programmi di ricerca. Il maggiore successo raggiunto in questo campo di indagine ha riguardato i cosiddetti Information Retrieval System, i sistemi che permettono il recupero delle informazioni. Ma anche questo risultato, per quanto importante, non ci ha per nulla avvicinato al traguardo della simulazione dell'intelligenza umana in una creatura artificiale: in proposito, basti pensare che tale creatura dovrebbe padroneggiare una lingua naturale.
All'inizio degli anni Sessanta, lei propose la famosa tesi del «funzionalismo», che fu cruciale per la nascita delle scienze cognitive. Secondo questa tesi, la mente è analoga a un programma per computer: gli stati mentali, cioè, sarebbero «stati funzionali», indipendenti dal sostrato fisico che li realizza, proprio come il software è indipendente dall'hardware su cui gira. Secondo Jerry Fodor questa idea mostra come lo studio dei fenomeni mentali non sia riducibile allo studio dei meccanismi neurofisiologici che ne sono alla base. Lei cosa ne pensa?
La mia idea è che bisogna andare oltre il funzionalismo. È vero, come dice questa concezione, che la composizione fisica dei nostri corpi non è essenziale per definire gli stati mentali: potrebbero infatti esistere creature molto diverse da noi, dotate tuttavia degli stessi nostri stati mentali. Ma possiamo anche immaginare creature con stati funzionali diversi dai nostri, in grado di pensare esattamente ciò che pensiamo noi: dunque, nemmeno il programma coincide con gli stati mentali. In un certo senso, allora, anche il funzionalismo è riduzionista; ma c'è un problema ancora più grave. Il funzionalismo è tutto rivolto verso ciò che avviene nella testa dell'individuo: presuppone cioè che la mente sia interna alla scatola cranica. In realtà però gli stati mentali sono determinati sia da ciò che c'è nei nostri cervelli sia dalle transazioni che i nostri cervelli, e i nostri corpi, hanno con l'ambiente esterno e con gli altri individui.
Dunque, lei nega che il significato dei nostri pensieri si trovi all'interno della nostra scatola cranica. È una posizione che chiama evidentemente in causa le scienze cognitive: quali pensa possano essere gli sviluppi cui vanno incontro, oggi, queste scienze?
La scienza cognitiva è una disciplina molto giovane e promettente, che paragonerei a un grande «ombrello» sotto il quale vengono coperti progetti di ricerca molto diversi tra loro. Rispetto a molti di questi, il mio giudizio è estremamente favorevole, ma a volte qualche scienziato cognitivo sostiene tesi insensate, come del resto accade anche ai fisici e ai matematici. Per questa ragione credo che uno dei compiti della filosofia sia quello di «vigilare» su quanto viene argomentato in altri settori di ricerca. Una volta Stanley Fish, acceso fautore del postmoderno, mi disse che era stufo dei filosofi che fanno i vigili del pensiero. Avrei dovuto rispondergli, ma purtroppo non lo feci, che ci sono occasioni in cui anche i vigili sono utili.
Così lei attribuisce alla filosofia anche il compito di distinguere tra buona scienza e pseudoscienza?
Sì, ma con ciò non intendo dire che questa importante funzione debba essere praticata solo da chi si è addottorato in filosofia. Recentemente, ad esempio, il fisico Lee Smolin, in un libro titolato The Trouble With Physics, ha ottimamente invaso il campo dei filosofi della scienza sviluppando una critica molto vigorosa della cosiddetta «teoria delle stringhe» (oggi popolarissima tra i fisici). Secondo Smolin, questa teoria, non disponendo di dati sperimentali a proprio sostegno, non ottempera a uno dei requisiti fondamentali dell'indagine empirica. In generale, un punto di vista filosofico sulle teorie scientifiche è essenziale per stabilirne il grado di coerenza interna e la misura in cui esse danno conto dei dati empirici.
Lei critica molto duramente tanto lo scientismo insito in molte concezioni positivistiche e naturalistiche quanto il relativismo delle concezioni postmoderne. Quale pensa che possa essere il futuro della filosofia?
A me pare che tanto le visioni scientistiche quanto quelle postmoderne presuppongano, sia pure da punti di vista opposti, il fatto che la filosofia non abbia alcun futuro. A mio parere l'idea che non esistano parametri oggettivi per la valutazione delle teorie, come pensano i postmoderni, è assurda. Ma è insensato e irrealizzabile anche il progetto di ricondurre alla scienza gli aspetti intrinsecamente umanistici della filosofia. Bisogna riconoscere, però, che ci sono parti della filosofia che si sovrappongono ai campi d'indagine propri della ricerca scientifica. Naturalmente, i filosofi non fanno esperimenti, non dimostrano teoremi - anche se alcuni di loro, come ad esempio i maestri della filosofia analitica, tra cui Russell e Frege, sono stati anche dei grandi matematici. Periodicamente, però, la scienza incontra profonde crisi concettuali e in quei casi la filosofia ha il compito di contribuire a cercare soluzioni efficaci per uscire da queste impasse. È già accaduto, per esempio, nella famosa diatriba tra Leibniz e Newton sul calcolo infinitesimale e la natura dello spazio, o nella discussione sulla nascita della teoria degli insiemi; e, oggi, nel dibattito a volte aspro sulla teoria delle stringhe. In simili periodi di crisi, ritengo che scienziati e filosofi possano e debbano contribuire insieme all'avanzamento della ricerca.
Lei ha avuto occasione di osservare che i filosofi oggi impegnati nel tentativo di ridurre la filosofia alla scienza sono condizionati da un vero «orrore per la normatività», propria di campi come l'etica e l'estetica. In questi ambiti, in effetti sembra estremamente difficile, e forse impossibile, superare completamente i disaccordi. Qual è la sua opinione al riguardo?
La domanda principale che l'etica dovrebbe porsi è come si possano negoziare i punti di disaccordo rispetto ai bisogni fondamentali degli esseri umani. A questa domanda i grandi pragmatisti, in particolare John Dewey, solevano rispondere che la soluzione la può offrire una democrazia compiuta, in cui ci si sforzi di comprendere quali siano veramente le necessità e i desideri delle persone, senza cercare di determinarli a priori. Questo processo di ricerca è essenziale e non dovrebbe mai essere interrotto, restando tuttavia consapevoli che in questo campo la possibilità dell'errore è sempre presente. In questo senso a me piace parlare della necessità di una democrazia sperimentale e fallibilista. A mio giudizio, la risposta al problema del disaccordo non la forniscono certi sistemi come quello platonico o aristotelico, che pretendono di determinare fattori come il «bisogno umano più elevato» o il «ruolo supremo del filosofo». Gerarchie del genere sono ormai insostenibili. In questa luce, chi pensa che l'etica sia soggettiva è ancora condizionato dalla paura della normatività. Come ha giustamente notato Stanley Cavell, un disaccordo razionale è possibile proprio perché non sempre si riesce a concordare su una tesi comune. Ma il riconoscimento del disaccordo può permetterci di convivere nello stesso universo di valori. A volte si dice che l'etica dovrebbe spiegare come le persone morali dovrebbero comportarsi nei confronti di quelle immorali. La vera questione, però, è un'altra, ovvero come le persone morali possano interagire le une con le altre, dato che le forme della moralità sono tanto diverse tra loro. È qui che entra in gioco l'orrore per la normatività, che è poi l'orrore del disaccordo.
È possibile o auspicabile, secondo lei, un'etica veramente universale?
L'universalismo è uno degli interessi principali dell'etica, ma non può essere l'unico. Naturalmente può rappresentare una soluzione importante se si prendono in esame temi delicati come l'oppressione delle minoranze religiose e la discriminazione delle donne. In casi come questi, però, è importante notare che, quando si sostengono tesi discriminatorie, oltre all'ideale universalistico dell'etica viene compromesso anche l'ideale conoscitivo della ricerca della verità. I razzisti, per esempio, dicono cose empiricamente false sul primato della loro razza, i maschilisti dicono cose false sul primato del sesso maschile su quello femminile e analogamente gli intolleranti religiosi dicono falsità sulle religioni che vogliono discriminare. Etica e ricerca della verità non possono essere dissociate.
Sin qui abbiamo discusso prevalentemente il ruolo della filosofia e il rapporto che essa intrattiene con la scienza. A suo giudizio anche l'arte può svolgere una funzione filosoficamente rilevante?
Secondo Iris Murdoch - che fu sia un'ottima narratrice che un'ottima filosofa - gli artisti, soprattutto gli scrittori, ci mettono in grado di vedere quanto il mondo sia articolato e complesso, quante differenze e sfumature esistano nella realtà. E queste considerazioni valgono soprattutto per il mondo umano. La coppa d'oro di Henry James, e Middlemarch di George Eliot sono due, tra i tanti capolavori che mi vengono in mente, capaci di esemplificare perfettamente questa idea. Se ci si dimentica del linguaggio comune, affidandosi soltanto a quello tecnico, il rischio è che si descrivano gli esseri umani con un gergo sociologico completamente deumanizzato. In 1984, George Orwell ci parla mirabilmente di questo rischio. E, d'altra parte, Guerra e pace di Tolstoj è lì a testimoniare magnificamente che se vogliamo comprendere il mondo, occorre prima comprenderne l'inesauribile varietà. È questo, a mio giudizio, il compito più importante che la letteratura può assolvere.