l’Unità 18.11.07
Dalai Lama, l’ambasciatore cinese contro Bertinotti
Nota di protesta per gli incontri alla Camera. La replica: «È un premio Nobel per la paceIl ministro degli Esteri D’Alema: «Non credo che il governo fosse tenuto a parlare con il Dalai Lama»DIVENTA UN CASO diplomatico la visita del Dalai Lama a Montecitorio. Con toni insolitamente duri per un ambasciatore, il rappresentante di Pechino in Italia si è lamentato direttamente con il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, per l’intervento del premio Nobel ad una cerimonia alla Camera dei Deputati giovedì scorso. «Al presidente Bertinotti ho manifestato l’auspicio che il Parlamento italiano, la massima istituzione di questo Paese, non offra facilitazioni nè luogo al Dalai Lama», ha detto l’ambasciatore cinese Dong Jinyi al termine dell’incontro con Bertinotti. Il Dalai Lama, ha aggiunto, «fa una forte attività separatista», visto che oltre ad essere un «leader religioso», fa anche «politica» con l’obiettivo di «attirarsi simpatie» allo scopo di «separare il Tibet dalla Cina». Jinyi ha quindi attaccato duramente il leader buddista: «Le sue parole sono bugie e menzogne, fa propaganda per un governo in esilio che rivendica l’indipendenza del Tibet» e la sua autorevolezza, «non essendo l’unico leader del buddismo tibetano, non è in alcun modo assimilabile a quella del Papa». L’intervento dell’ambasciatore cinese ha indotto il presidente della Camera ad una garbata, ma puntuale replica. «Il presidente della Camera - ha dichiarato il suo portavoce, Fabio Rosati - ha ribadito all’ambasciatore cinese il significato ed il valore della iniziativa della Camera». «L’incontro - ha aggiunto - è stato realizzato per la rilevanza internazionale del Dalai Lama, premio Nobel per la pace, e per dare voce alla istanza culturale e religiosa del popolo tibetano: una istanza che il Dalai Lama ha rappresentato riconoscendo l’integrità geografica della Repubblica popolare cinese». Ma la visita ha avuto code polemiche anche all’interno della maggioranza. Emma Bonino, ministro per le Politiche Europee, ha detto di non aver «condiviso» la decisione del presidente del Consiglio di non ricevere il Dalai Lama per «ragioni di Stato». «Prendo atto della scelta del premier», ha aggiunto l’esponente radicale, ma «ritengo che su determinati punti occorra spiegare ai nostri amici cinesi che i nostri valori sono diversi». Un dibattito nel quale, in serata, è intervenuto anche Massimo D’Alema: «Non credo che il governo fosse tenuto a parlare con il Dalai Lama», ha sottolineato il ministro degli Esteri, che dopo aver ricordato di aver incontrato diverse volte l’autorità religiosa tibetana e di essere «lieto» del suo ritorno in Italia, ha aggiunto: «Il Dalai Lama non ci ha chiesto incontri» ed anzi, dimostrandosi «molto più intelligente di alcuni suoi sponsor, ha detto di non volere che la sua visita fosse un motivo per turbare le relazioni con la Cina». Pietro Folena, di Rifondazione, commenta: «Al presidente Prodi dico che il rispetto dei diritti umani è la prima ragion di Stato per un paese libero dell’Unione europea che i buoni rapporti commerciali con la Cina non possono certo essere meno importanti della causa di 6 milioni di tibetani oppressi dal regime di Pechino. Non possiamo essere sempre l’Italietta che si spaventa di fronte alle potenze straniere. La Germania si è comportata in modo del tutto opposto e avremmo dovuto imitarla».
l’Unità 18.11.07
UNIONI CIVILI. Roma, rottura Pd-Cosa Rossa
Bocciate tutte le proposte
di Mariagrazia GerinaÈ ormai notte e sulla Piazza del Campidoglio non ci sono più nemmeno le poche bandiere che avevano atteso sotto la pioggia il responso quando dall’Aula Giulio Cesare per le Unioni civili arrivano una dopo l’altra solo fumate nere. Bocciata la delibera di iniziativa popolare sostenuta da 10mila firme e dai radicali. Bocciata, con i voti contrari dell’intero Pd, la proposta di delibera presentata dai consiglieri della Sinistra e dalla Rnp.
FUMATA NERA «Si è formata una nuova maggioranza: il Pd che vota con la destra», ironizza il segretario romano di Rifondazione Massimiliano Smeriglio
quando è chiaro che il Registro delle Unioni civili non passerà ma sembra ancora che la maggioranza sugli ordini del giorno possa ritrovare uno straccio di intesa. Poi fallisce anche l’ultimo tentativo di conciliazione tra Sinistra e Pd: un ordine del giorno comune, ridotto all’osso, quanto basta per far avanzare il dibattito a livello nazionale oltre che comunale. Nemmeno quelle poche parole si trovano: si scrive «unioni civili» e poi si corregge «solidali», si suggerisce (lo fa il Pd nel suo odg) «comunioni di vita» e poi si corregge ancora con «vita comune», nemmeno la lingua sembra uno strumento benigno. E così, insieme alle delibere, anche gli odg vengono bocciati uno dopo l’altro: quello del Pd, quello dell’opposizione e quello che la Sinistra ha voluto presentare per tentare di portare a casa almeno un risultato concreto, senza riuscirci.
Il Pd ci ha creduto fino all’ultimo. «Sta a noi - aveva scandito nel dibattito iniziale il capogruppo Pino Battaglia - rappresentare il punto di equilibrio in un quadro attraversato da tensioni contrastanti». Quel punto di equilibrio, cercato all’interno di un testo limato fino all’ultimo, non c’è al momento del voto. Il Pd vota compatto (solo l’ex cislino Policastro lascia l’aula per evitare il no e non incidere però sul quorum), c’è un sì in più dei no, ma l’odg del primo partito della maggioranza viene bocciato lo stesso: 24 sì (ai consiglieri del Pd si sono aggiunti quelli della Lista civica e uno dell’Idv), 23 no e 9 astensioni, tutte dai banchi della Sinistra, che in un primo momento era sembrata disponibile persino a lasciare l’aula per abbassare il quorum.
«Senza la Sinistra, il Pd non ha la maggioranza», scandisce Smeriglio. «Si è persa un’occasione storica, l’ordine del giorno che avevamo presentato rappresentava la proposta più avanzata che si poteva fare in questo momento», replica invece Pino Battaglia difendendo ancora a votazione conclusa il testo del Pd che chiedeva al parlamento italiano di «affrontare con urgenza questi temi» e impegnava consiglio comunale e giunta a lavorare a una «delibera quadro», rivendicando che da anni già Roma non discrimina ma prende a riferimento del welfare la «famiglia anagrafica».
Con la fumata nera sugli ordini del giorno, scende l’ora delle accuse incrociate. E spariscono anche gli esponenti nazionali richiamati dalla vicenda capitolina. Paolo Cento, Angelo Bonelli, Elettra Deiana, Vladimir Luxuria che spiega: «Un registro comunale sarebbe stato uno strumento importante perché la legge in parlamento parla di stabilità dei rapporti e intanto chi voleva avrebbe potuto iscriversi a quel registro per dimostrare la durata della relazione». «Nessuno canti vittoria», avverte Paola Concia, piddina ma anche esponente del mondo Glbt, doppiamente arrabbiata per la bocciatura dell’ordine del giorno del Pd che «avrebbe rappresentato una presa di posizione importante da parte del consiglio capitolino». E invece: «Abbiamo raggiunto il peggior risultato possibile: non dare nessun segnale», attacca il capogruppo della Lista civica per Veltroni, Carlo Fayer, l’unico ad aver votato a favore per tutte le delibere e gli ordini del giorno. Amare sono soprattutto le reazioni delle coppie gay venute a seguire il dibattito e dei rappresentanti dell’Arcigay, Aurelio Mancuso e Rossana Praitano. L’unica a festeggiare è l’opposizione che interviene a sbandierare il trionfo dei valori dell’«Europa cristiana» e della «famiglia tradizionale» tra le urla del pubblico che invece inveisce contro la «Roma papalina».
L’applauso dal pubblico venuto a tifare per i diritti civili l’opposizione però se lo prende quando attacca l’assenza in aula del sindaco. In Abruzzo «per un impegno inderogabile che avevamo fatto presente al momento della calendarizzazione del dibattito», spiega il suo capo di segreteria Walter Verini. «Se Veltroni non fosse stato segretario del Pd - dice il consigliere del Pd Francesco Smedile - il dibattito non sarebbe stato così drammatico». E Battaglia conclude con amarezza: «Hanno scaricato sul consiglio comunale quello che non hanno la forza di imporre in parlamento».
l’Unità 18.11.07
Sarkozy con Carla Bruni, riparte il feuilleton di Francia
Il presidente fotografato a Disneyland insieme all’ex top model italiana. Due mesi fa il clamoroso divorzio da Cecilia
di Gianni MarsilliET VOILÀ, il feuilleton riparte. Exit Cecilia, arriva Carla. Che sembra Cecilia ringiovanita di tre lustri. Che come Cecilia non è francese. Che come Cecilia nasce da lombi illustri e molto agiati. Che come Cecilia ha la musica nei geni, fin da nonni e bisnonni. Che come Cecilia, e anche di più, si muove da gazzella, avendo caracollato sulle passerelle della moda. Che come Cecilia, e anche di più, gode fama di donna libera da antichi impacci. Narrano le cronache che Nicolas, per Carla, arriva dopo Eric Clapton, Mick Jagger, Vincent Perez, Arno Klarsfeld, Raphael Endhoven... Tutti, a prima vista, del genere che non deve chiedere mai. Secondo la stampa transalpina i francesi in queste ore s’interrogano: sarà Carla, all’Eliseo, una buona «première dame»? Secondo radio bistrot, la più accessibile a chi scrive ma non per questo la meno verace, i francesi invece esclamano in coro, un niente esasperati: «On s’en fout!», che vuol dire nuncenepòfregàdemeno, e che rimanda, in maniera non troppo subliminale, a urgenti faccende relative al potere d’acquisto e ai livelli salariali.
Peccato che il vecchio Freud non sia più dei nostri. Negli anni Trenta aveva dato una mano ad un diplomatico americano per redigere un volumetto sul presidente Wilson, usando la griglia analitica della libidine. Ai nostri giorni avrebbe senz’altro avuto la tentazione di occuparsi di Nicolas Sarkozy. Il quale, volubile in politica, non è da meno nelle faccende sentimentali. A volte suo malgrado, è vero. Tuonava un paio d’anni fa: «Ho una vita privata e intendo farla rispettare», e faceva licenziare il direttore di Paris Match per le foto di Cecilia a New York con il suo ganzo. Sabato scorso il suo 39enne e flessuoso privato l’ha invece esibito con la disponibilità di un agnellino, davanti al branco di lupi, una quindicina, che lo impallinava di flash su un viale di Disneyland: al suo braccio Carla Bruni, più bella e sorridente che mai. Non sono stati «sorpresi» dai paparazzi. Si sono prestati, tranquilli e consapevoli. Del resto lei l’aveva confidato a Christophe Barbier, un suo amico giornalista che dirige «L’Express»: «Sto con Sarkozy». E Barbier, sentendosi autorizzato,aveva riferito la cosa in tv, su Lci, e domenica l’aveva messa on line sul sito del suo giornale. Sapeva che domani mercoledì saranno ben tre i settimanali a pavoneggiarsi in edicola con il servizio realizzato a Disneyland. Naturalmente andranno a ruba: merci, monsieur le president.
Il microcosmo parigino in queste ore ribolle di rassegnata curiosità, per nulla scoraggiato dai «no comment» che fioccano dai portavoce dell’Eliseo. Del resto fioccavano anche due mesi fa, fino ad un’ora prima del comunicato che annunciava il divorzio con Cecilia, dopo mesi passati invece a cantare la riconciliazione con lo slancio di un troubadour: «Stavolta è per sempre», giurava il presidente. Lo stesso Barbier, peraltro eccellente analista politico, s’interroga sulla prospettiva: la porterà nei viaggi ufficiali, la presenterà ai Grandi della terra? Oppure Carla Bruni resterà la preferita tra le più belle del reame, ma convenientemente tenuta ai margini, nel caso in cui si esaurisca la spinta propulsiva? Domina la perplessità su Carla la libertina del suo primo album (due milioni di copie vendute, voce roca e suadente), su Carla «la devoreuse», la maga Circe incantatrice d’uomini, su Carla-Paula, lo pseudonimo con il quale in un libro la battezzò Justine Levy, la figlia di Bernard Henri Levy, alla quale la bella top model aveva soffiato il maritino, il prestante filosofo Raphael Endhoven. Nulla aveva potuto la povera Justine all’apparire di Carla-Paula, «bella e bionica con il suo sguardo assassino». A proposito, scusate la digressione, ma pare che Cecilia (l’ex di Nicolas, giusto per orientarsi) sia stata vista a cena con Bernard Henri Levy (il papà dell’ex dell’ex di Carla): l’ennesimo affronto per Nicolas, visto che Henri Levy aveva affettuosamente accompagnato la campagna presidenziale di Ségolène Royal (l’ex di François Hollande). D’altra parte, anche Carla Bruni si era esibita al concerto del 1 Maggio in onore di Ségolène. Ha sempre detto di votare a sinistra, come tutta la sua famiglia. Del resto le malelingue iscrivono già il flirt tra il capo dello Stato e la modella-cantante italiana nel libro dell’apertura a sinistra: Carla Bruni come Bernard Kouchner, fatto salvo qualche dettaglio personale. Visto che roba? E poi dicono che l’inciucio porta solo disgrazie.
l’Unità 18.11.07
Le registrazioni che inchiodano Luttazzi
di Daniele LuttazziSATIRA Per gentile concessione dell’autore, ecco gran parte del testo del monologo recitato da Daniele Luttazzi l’altra sera a Roma. Dovreste trovare qui il movente della sua improvvisa decapitazione dalla tv...Benvenuti a DECAMERON. Politica, sesso, religione e morte. Un programma televisivo così bello che ne vedi una puntata e dici: “Oh, non guarderò mai più la vita vera finchè campo!” Uuuuh! Stasera sono proprio elettrico. Sarà che mi devono arrivare. Qua a Roma è arrivato l’inverno. Fa molto freddo. Fa tal freddo che le minorenni sulla Salaria offrono pompini gratis ai ciccioni. Un mio amico va a puttane sulla Salaria. Gli ho detto che in giro è pieno di ragazze oneste e rispettabili. Sì, mi fa lui, ma quelle non posso permettermele. Fa veramente molto freddo. Fa talmente freddo che oggi Mussi spalmava il vicks vaporub sulla Cosa Rossa.
Fa molto freddo, ma sono bellissime giornate. C’è un sole splendido. E quando c’è il sole, sono tutti allegri. Oggi ho visto un funerale entrare in un McDonald’s. Ballavano la conga.
Mi accodo al trenino ed entro anch’io. Era il McDonald’s di piazza di Spagna. Sì, a Roma in piazza di Spagna c’è un McDonald’s. Non bisogna stupirsi. I McDonalds sono ormai dappertutto. Mia sorella ha un McDonalds nella sua cucina. Io ne ho uno nei miei pantaloni.
E mentre sono lì che contribuisco a disboscare la foresta pluviale mangiando un Big Mac da 3 etti, mi viene in mente una cosa. Nessuno pensa mai al sacrificio delle mucche che vengono macellate per la goduria del nostro palato. Bisognerebbe onorare il loro sacrificio. Con delle raffigurazioni. Con delle icone. In chiesa ci sono le stazioni della via Crucis, no? In un McDonald’s dovrebbero esserci dei quadretti simili. Con una mucca al posto di Gesù. Più o meno 14 quadretti: 14 stazioni della via Crucis della mucca, la Cow Crucis, con sotto delle brevi didascalie. Mi sembra una buona idea. Onoriamo il sacrificio delle mucche. Anche perché sembra che le mucche tengano una lista delle persone che mangiano hamburger: per quando si vendicheranno.
Qualcuno mi ha chiesto: Daniele, perché ce l’hai con la religione?
Perché mi sono convinto che le religioni sono pericolose. Operano un plagio di massa che ha una funzione sociale di controllo; e che diventa pericolosissimo quando la religione, forte del numero, tende a far coincidere il peccato col reato, e a condizionare l’attività dei governi.
Gli esempi in questo senso sono sempre all’ordine del giorno ( staminali, pacs, eutanasia ) e ormai insopportabili. ...Ricorderete come la Chiesa si sia opposta alla ricerca sulle staminali degli embrioni perché "l’embrione è uno di noi, è già persona". C’erano però tre contro-argomenti formidabili:
a) Quello teologico. S.Tommaso nega agli embrioni la resurrezione, in quanto privi di anima razionale, e pertanto non ancora esseri umani. (Supplemento alla Summa Theologiae, 80, 4); b) Quello pragmatico. La Chiesa nega il battesimo ai feti abortiti in modo spontaneo. Nella prassi, cioè, la Chiesa non considera il feto una persona finchè non nasce vivo. c) Quello naturale. Di tutti i concepiti, solo il 15-20% riesce ad annidarsi nell’utero materno. La natura stessa, cioè, non tutela così tanto il diritto alla vita del concepito, diritto che però si arroga la Chiesa. ...È stata poi la scienza, e non la religione, a scoprire, la settimana scorsa, che è possibile ricavare cellule staminali anche da tessuti adulti. Fine del dilemma etico sollevato ad arte. Con la nuova ricerca sulle staminali, gli scienziati ritengono che adesso potremmo fare grandi progressi, dalla cura del Parkinson alla rigenerazione della spina dorsale nel centrosinistra. ....In realtà, lo sappiamo, il motivo vero è che la Chiesa teme le unioni omosessuali. Ma se è un tema così importante, com’è che Gesù non dice una parola in proposito? Gesù non dice una parola su questo, ma tante sulla tolleranza, l’accettazione, il non giudicare, il frequentare i reietti e gli ultimi. La Bibbia dice: “Non guardare la pagliuzza nell’occhio del tuo vicino, ma la trave nel tuo occhio”. Al che i gruppi gay hanno replicato: se la trave te la metti nell’occhio, lo stai facendo in modo sbagliato”.
La regola della convivenza umana è terrestre, non divina: ogni uomo è libero e deve poter decidere su di sé. ...E invece mille ostacoli. Col paradosso che i nostri parlamentari, per tenersi buoni i voti vaticani, da anni negano a noi, cittadini che li eleggiamo, i diritti che per sé loro si sono già attribuiti: da ben 16 anni, infatti, i parlamentari conviventi hanno gli stessi diritti dei parlamentari sposati. ......Nel frattempo Veltroni si trova a dover trattare con la segreteria di stato vaticana sull’eventuale istituzione di un registro delle coppie di fatto nel comune di Roma. Alla faccia della pari dignità dei cittadini che cattolici non sono, o che hanno preferenze sessuali non omologate. ...Ennesimo scadimento della laicità dello Stato, riconfermato dal voto della sinistra in Parlamento a favore dei privilegi economici della Chiesa cattolica: l’esenzione ICI e i meccanismi di assegnazione dell’8 per mille. .... Ecco papa Ratzi. Ride. Riderei anch’io se la mia ditta non pagasse le tasse. Ma la Chiesa non fa che rispettare il dettame evangelico. Gesù disse: “I miti erediteranno la terra”. Ed evitò astutamente di parlare della tassa di successione.
....L’abito di un cardinale: mozzetta rossa chiusa da dodici bottoncini. Sotto, rocchetto bianco in cotone con maniche a tre quarti ornato di pizzi e ricami. Sotto, fascia rossa di seta alla vita, con frangia, e sottana rossa di lana fine con bottoncini fino ai piedi. In testa, zucchetto rosso e berretta rossa a quattro angoli e tre spicchi o cappello a saturno nero ornato da cordone e fiocchi oppure mitria di seta bianca damascata. Se Gesù si imbattesse in un cardinale, scoppierebbe a ridere. ....La separazione tra Stato e Chiesa, cioè fra reato e peccato, la indicò Gesù, quando disse: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Ne deduco che, se il papa è cattolico, Cristo non lo era. Altro guaio delle religioni: spesso danno una cornice nobile a comportamenti aberranti. Guardate come i musulmani in certi Paesi lapidano le loro donne. Non potrebbero farla franca, se non fosse per motivi religiosi.
Oppure, sempre la Chiesa cattolica. Milioni di persone muoiono in Africa di AIDS anche perché la Chiesa condanna l’uso del preservativo. Il preservativo, a quanto pare, è contro gli insegnamenti di Cristo. Anche se Cristo non ne ha mai parlato...Qualche mese fa il papa ha chiesto a una commissione vaticana un dossier sull’uso del preservativo come protezione dalle malattie. Oh, proprio adesso che mi ero abituato alla castità. Avete letto l’ultima enciclica di Papa Ratzi? E chi non l’ha letta? È così amena! È più divertente di un barile pieno di anguille. «Spe salvi», salvi nella speranza. Un testo sulla superiorità della fede cristiana, che esalta la sofferenza, perché avvicina alle sofferenze di Cristo. Cristo è morto in croce per i nostri peccati! Uuh, ma così ci fa sentire troppo in colpa! Non poteva solo lussarsi un’anca, per i nostri peccati? L’enciclica è piena di citazioni colte. E questo è il QUIZ della settimana: quali fra questi intellettuali non è citato da papa Ratzi nell’ultima enciclica? Sant’Agostino. Kant. Adorno. De Sade. E la risposta è: De Sade. La Spe salvi, sorpresa! è una dura condanna della modernità. Il giorno che venne eletto, dissi in teatro: “Hanno eletto il nuovo papa. È il cardinal Ratzinger. Subito condannato di nuovo Galileo”. Non mi sbagliavo. Dopo un mese Ratzi disse: “La risposta alla modernità è Cristo”. Io ho 46 anni, nella mia vita ho imparato una cosa: se la risposta è Cristo, la domanda è sbagliata. ...Ratzi attacca l’illuminismo, ma la Chiesa in 18 secoli non abolì la schiavitù, cosa che fece la Prima Repubblica francese del 1794.D’altra parte è noto che la Chiesa è lenta ad abbracciare la modernità. Fino a poco tempo fa, la loro idea di portatile era un chierichetto. ...Dico questo: se Dio avesse voluto che credessimo in lui, sarebbe esistito. ...Le religioni sono un fatto culturale. È tutto molto relativo. Il papa vorrebbe che tutti fossero cattolici. Le mucche vorrebbero che tutti fossero di religione indù. ....Qual è la verità sull’aldilà? Direi di partire da un semplice assioma: che nessuno ne sa niente. Mi piacerebbe che il papa una domenica si affacciasse su S.Pietro e dicesse: “Sapete una cosa? Nessuno ne sa niente. Siete liberi!” ...L’anno scorso Ratzi scrisse la "Lettera sulla collaborazione dell’uomo e della donna". Ratzinger ha scritto un documento sulle donne. La cosa mi colpì perché non immaginavo che Ratzinger ne conoscesse una. Nella lettera, Ratzinger scrive che la famiglia è il fondamento della società. Vecchio adagio dei reazionari di sempre. Ma già negli anni 60, filosofi e psichiatri come Deleuze e Guattari, Laing, Reich hanno spiegato che la famiglia patriarcale serve a perpetuare la società proprietaria e autoritaria. ....Qualche anno fa, una commissione teologica internazionale guidata da Ratzinger si riunì per rispondere alla domanda: "Dove vanno le anime dei bambini morti senza battesimo?".
Questi temi mi affascinano. In auto ascolto sempre Radio Maria. Anche perché è inevitabile: accendi la radio, c’è Radio Maria. ..."Dove vanno le anime dei bambini morti senza battesimo?" Io avrei voluto essere in quella commissione di Ratzinger. Come fai a dare a una risposta? È come chiedere "Dove vanno le anime dei Klingon dopo morti?" Da nessuna parte, dato che i Klingon sono un FRUTTO DELLA FANTASIA UMANA. Cenni storici ...Nella Genesi, è il serpente a convincere Eva a mangiare la mela proibita. Eva dà un morso e cade in un lungo sonno da cui Adamo la risveglia con un bacio. No, questa è Biancaneve. Bè, se da piccolo ti avessero detto che Biancaneve è una religione, ci avresti creduto! Comunque: Adamo ed Eva mangiano la mela e Dio li caccia dal paradiso terrestre. Meno male che non ha scoperto cosa avevano fatto con le banane. ....Nel tempo, le funzioni mitiche svolte dalle religioni e dalle monarchie non spariscono: oggi vengono assolte dai mezzi di comunicazione di massa e dal potere simbolico dei segni-merce, nuovi mondi-di-sogno. La pubblicità come teologia della lavatrice. Provate adesso a immaginare qualcuno che pretenda di vendervi una lavatrice alla condizione che, se non la comprate, brucerete all’inferno. Lo mandereste a cagare. Ma no, lui pretende anche di essere rispettato, perché non è solo una lavatrice, è una religione! Segnalo una grande novità: nella Spe salvi, il papa mette in dubbio l’esistenza delle fiamme eterne dell’inferno. Ma il paradiso, raccontato da Ratzinger, sembra la stanza da letto di Cristiano Malgioglio. Il papa oggi scrive che la scienza non salva l’uomo. Allora, d’ora in avanti, niente più antibiotici a Ratzi, ok? ... Sentiamo cos’ha da dirci Nostradamus.
LE ULTIME PROFEZIE DI NOSTRADAMUS: La mafia aumenterà gli stipendi ai dipendenti. Verrà scoperta una nuova suoneria cellulare di Mozart. Fabrizio Cicchitto si ritirerà dalla vita politica. Passerà più tempo coi familiari, che chiederanno di non essere identificati. L’editore di Penthouse diventerà cattolico e metterà sulla copertina del mensile una Vergine "gratta&annusa". Un gigantesco asteroide colpirà la Terra nel 2014. L’impatto avrà l’effetto di 20 milioni di bombe atomiche simili a quella sganciata su Hiroshima. Le autorità militari prepareranno il mondo alla nuova vita post-impatto detonando una bomba atomica al giorno nei sette anni precedenti. Quello della Chiesa è pensiero magico. Nell’udienza di mercoledì, il papa ha esortato gli esorcisti a continuare il buon lavoro. Parole di incoraggiamento anche ai cacciatori di vampiri.
Dice: Ma tu Daniele sei cattolico? Certo. Sono cattolico, apostolico, decaffeinato. ....E mi affascina la storia di Giacomo, il fratello di Gesù. Sapevate che Gesù aveva un fratello? Io l’ho letto anni fa sulla Settimana enigmistica e non l’ho più dimenticato. Dev’essere stata dura, avere Gesù come fratello. Vinci una gara di nuoto, lui cammina sulle acque. Sai fare un cocktail, lui trasforma l’acqua in vino. Fai ripartire un’auto in panne, lui resuscita Lazzaro. Ti viene l’herpes, lui muore crocifisso. Che palle!
....No, in realtà non sono cattolico. Sono cristiano monofisita: non riconosco le decisioni del concilio di Calcedonia nel V secolo. Ero cattolico, finchè un giorno Dio mi è apparso in sogno e mi ha rivelato che erano tutte stronzate. Ok, non era un sogno: mi ha parlato da un roveto ardente. Ok, non era un roveto ardente: era il boschetto di una ragazza che stavo leccando.Comunque resto convinto che il cristianesimo sarebbe stato diverso, se Gesù avesse avuto una decappottabile.
Repubblica 18.12.07
Svolta in Cina, Il partito abolisce il mito del 1° Maggio
di Federico RampiniPer evitare ingorghi e disagi provocati dalla concentrazione delle partenze, Pechino ha deciso di abolire una delle tre "settimane dorate" in cui la Repubblica popolare si metteva tutta intera in ferie. Dovendo scegliere quale, il regime comunista non ha avuto esitazione: ha soppresso la settimana del Primo Maggio. Nonostante il coro di proteste, il governo ha varato il provvedimento.
Soppressa la settimana di ferie per sovraffollamento proteste sul Web, le autorità: la maggioranza è con noi
È la versione cinese delle vacanze intelligenti. Per evitare ingorghi e disagi provocati dalla concentrazione delle partenze Pechino ha deciso di abolire una delle tre "settimane dorate" in cui la Repubblica popolare si metteva tutta intera in ferie. Dovendo scegliere quale, il regime comunista non ha avuto esitazione: ha soppresso la settimana del Primo Maggio. Nonostante il coro di proteste insolitamente vivaci sui giornali e sui siti Internet, il governo ha annunciato di avere "concluso le consultazioni" e ha varato il provvedimento. Un portavoce della Commissione nazionale per lo Sviluppo e le Riforme ha spiegato che la decisione è stata presa per «alleviare il sovraffollamento sulle strade, nelle ferrovie e negli aeroporti». Sul portale Sina.com, il più diffuso sito online del paese, la censura non ha fatto in tempo a bloccare interventi indignati. «E´ uno scippo contro i lavoratori più poveri e gli immigrati dalle campagne - ha scritto un blogger anonimo - quelli che nella Festa del Lavoro potevano tornare a casa».
Il decreto con cui il governo di Wen Jiabao ha amputato il calendario delle feste è indicativo dei nuovi valori della classe dirigente cinese. Il governo non ha osato toccare le altre due settimane dorate, troppo solenni. La prima coincide con il Capodanno lunare, una festa con connotati religiosi che ha le sue radici nei riti ancestrali della civiltà contadina, segna l´inizio simbolico della primavera. L´altra settimana sacra è quella del primo ottobre, l´anniversario della fondazione della Repubblica popolare nel 1949: come il culto di Mao Zedong, questa festività ha assunto da anni un colore sempre meno socialista, è una celebrazione del nazionalismo e un omaggio alle forze armate. Tra la riscoperta di tradizioni antiche quanto le dinastie imperiali, e il collante ideologico del patriottismo, la Festa del Lavoro è sembrata l´unica usanza superflua. La sola giornata del Primo Maggio è stata salvata, almeno in teoria: ma senza la settimana di vacanza si sa che fabbriche e cantieri edili resteranno aperti a oltranza. Così da quest´anno centinaia di milioni di cinesi santificheranno la Festa del Lavoro in modo nuovo, producendo ancora di più. A titolo di compensazione il governo ha introdotto tre singole giornate di ferie, separate. Tutte coincidono con eredità millenarie. Sono il giorno della pulizia delle tombe degli antenati; il festival dei battelli-dragone; e la celebrazione di metà autunno che segnava la conclusione dei raccolti. «Il nuovo calendario - spiega il comunicato ufficiale - esalta le tradizioni cinesi»: proprio quelle che vennero calpestate dalle Guardie rosse di Mao durante la Rivoluzione culturale, per fare piazza pulita di ogni residuo di religiosità popolare e di attaccamento al passato. Oggi al contrario il regime si accredita come il custode dell´identità nazionale, incoraggia il revival di costumi e credenze che evocano una continuità immaginaria con l´Impero celeste.
Ma il terremoto delle festività non è un innocuo ritorno al passato. L´operazione di taglia-e-cuci nel calendario delle ferie rivela una nuova frattura sociale. Il governo garantisce che il numero di giorni di riposo individuali non diminuisce: il sacrificio della settimana del Primo Maggio può essere recuperato da ogni lavoratore dipendente che si sceglierà le vacanze su misura, scaglionando le partenze per evitare gli esodi di massa. I mass media ufficiali hanno esibito statistiche spaventose: le stragi annuali sulle strade, gli anziani colti da malore nella ressa delle stazioni, i ritardi degli aerei, la speculazione delle agenzie di viaggio che raddoppiano le tariffe nei periodi di punta. E´ spuntata una giustificazione ambientalista. L´invasione oceanica dei turisti venuti dalle provincie - informano le autorità municipali di Pechino - quest´anno durante la Festa del Lavoro ha scaricato su Piazza Tienanmen 21 tonnellate di immondizia al giorno. In effetti la settimana del Primo Maggio 2007 ha segnato un record storico: 179 milioni di cinesi si sono messi in viaggio, spingendo al collasso le infrastrutture nazionali.
Dietro queste cifre si nascondono due realtà diverse. Da una parte c´è la middle class urbana che può permettersi di volare all´estero, prende d´assalto le agenzie viaggi per i tour organizzati in Europa, invade la Thailandia e l´Indonesia, scopre le isole tropicali del sudest asiatico. Per i 100 milioni di colletti bianchi benestanti, dotati di un potere d´acquisto occidentale, scaglionare le partenze non sarà un problema. Poi c´è un´altra Cina, molto più vasta, dove il diritto alle ferie retribuite è ancora un sogno. E´ il mondo degli operai sottopagati, dei muratori nei cantieri edili, degli spazzini e dei manovali, in gran parte immigrati senza permesso dalle regioni più povere. Nella sola Pechino si contano quattro milioni di irregolari: contadini venuti a lavorare in città senza il certificato di residenza, clandestini in patria, ricattabili dai datori di lavoro. Per loro la settimana dorata del Primo Maggio era un lungo viaggio di ritorno a casa, nelle campagne distanti centinaia o migliaia di chilometri, per rivedere le famiglie. «Proprio nella settimana di maggio - protesta un altro blogger su Sina.com - i contadini emigrati in città potevano tornare ad aiutare i parenti nel lavoro dei campi». E´ questo esercito proletario senza tutele la vera vittima delle festività soppresse. In sua difesa si sono schierati ben 21 giornali, tra cui due quotidiani a larga diffusione come Notizie Serali di Yangzi e il Notiziario cittadino di Huaxi. Hanno pubblicato un appello congiunto al Consiglio di Stato per salvare la Festa del Lavoro. Il loro argomento forte: finché l´intero paese si fermava per una settimana, le imprese erano costrette a chiudere e a mettere tutti in libertà. Se il calendario delle ferie diventa "à la carte", individuale e frammentato, per i lavoratori più deboli il riposo sarà cancellato. Non succede spesso che un pezzo di opinione pubblica riesca a esprimersi. Per fermare il governo ci vuol altro. Secondo l´agenzia ufficiale Nuova Cina «i sondaggi hanno indicato che il 70% della popolazione è favorevole alla revisione della festa del Primo Maggio».
Repubblica 18.12.07
Prima sconfitta per il Pd
di Miriam MafaiForse la stagione della laicità e dei diritti civili sta alle nostre spalle, motivo, per noi, di nostalgia e di rimpianto. Quasi quarant´anni fa, nel dicembre del 1970, a Montecitorio veniva approvata definitivamente, con una bella maggioranza (319 voti a favore e 286 contrari) la legge che consentiva, anche in Italia, il divorzio. Finiva l´epoca della indissolubilità del matrimonio, principio difeso per secoli, ed ancora oggi, dalla Chiesa Cattolica. Pochi anni dopo, nel 1978 veniva approvata la legge che aboliva il reato di aborto e consentiva, anche in Italia, l´interruzione della gravidanza.. In ambedue i casi, naturalmente, la Chiesa aveva chiamato i cattolici a raccolta perché si opponessero alla introduzione nel nostro ordinamento di norme, il divorzio e l´aborto, in contrasto con la dottrina e la morale cattolica. Ma le due leggi, dopo appassionato dibattito nel paese e in Parlamento, vennero approvate dalla maggioranza dei deputati e dei senatori, e poi confermate dalla maggioranza degli italiani chiamati ad esprimersi con i referendum del 1974 e del 1981. Nonostante la dura opposizione della Dc e del MSI, e i richiami della Chiesa al rispetto dei principi che avevano retto per secoli la vita delle nostre famiglie.
Sono passati da allora quarant´anni. La gente si sposa, divorzia, si risposa. Il divorzio e la legalizzazione dell´aborto non hanno distrutto la famiglia, come prevedevano e gridavano sulle piazze coloro che si erano autoproclamati difensori della famiglia e della religione cattolica.
Oggi le stesse grida si levano contro l´ipotesi di una regolamentazione e tutela delle coppie di fatto, siano etero o omosessuali. Non ha importanza che queste coppie «di fatto» siano, anche nel nostro paese come in tutta l´Europa, sempre più numerose e spesso bisognose di tutela. In questo riconoscimento, in questa tutela pubblica di situazioni affettive e solidali, le gerarchie vaticane vedono una minaccia alla unità della famiglia ed alla morale pubblica. E finora sono riuscite a impedire che le proposte di legge già elaborate in questa legislatura (prima i Dico e poi i Cus) venissero prese in esame. Lo schieramento dei laici appare, rispetto a quarant´anni fa, più incerto, debole e diviso.
Sbarrata, dunque per ora, la strada della legge, i laici chiedono almeno che vengano istituiti presso i rispettivi municipi, dei «registri» delle unioni di fatto, dichiarazioni di convivenza dai quali far discendere alcuni elementari diritti (il subentro nell´affitto, il diritto di assistere il partner gravemente malato) Registri di questo tipo sono già stati istituiti a Padova, ad Ancona e in numerosi comuni d´Italia senza grandi polemiche.
Ma a Roma no. La possibilità che anche a Roma venga istituito un analogo registro viene considerata, dal Vaticano, una offesa al «carattere sacro» della nostra città. E dunque, alla vigilia del dibattito e del voto, che avrebbe dovuto aver luogo ieri in Campidoglio, il Vicariato ha richiamato i consiglieri comunali cattolici al dovere di opporsi e di «mostrare la propria coerenza e determinazione», votando contro ogni proposta, fosse anche la più modesta a favore del riconoscimento delle coppie di fatto.
L´appello era rivolto, naturalmente, a tutti i consiglieri comunali di Roma ma, in modo particolare, a quelli cattolici, che fanno parte del Partito Democratico. « I cattolici che siedono in Consiglio Comunale e tutti coloro che considerano la famiglia fondata sul matrimonio come la struttura portante della vita sociale, da non svuotare di significato attraverso la creazione di forme giuridiche alternative – dice la Chiesa – saranno presto chiamati a mostrare la propria coerenza e la propria determinazione» La famiglia tradizionale come «principio non negoziabile», e la Binetti indicata come esempio per i cattolici che, presenti in politica, vogliano essere in pace con la propria coscienza.
In Campidoglio ieri erano in discussione tre documenti. Due di questi, uno di iniziativa popolare l´altro di Rifondazione, i Verdi e la Rosa nel Pugno, proponevano la istituzione in Comune del registro dei conviventi. Un terzo documento, un ordine del giorno proposto dal Partito Democratico e che avrebbe voluto essere di mediazione, si limitava a raccomandare al governo un sollecito esame dei progetti che, già presentati, sono attualmente all´esame del Senato. Nessuno di questi tre documenti ha ottenuto, in Consiglio Comunale, la maggioranza. E´ stato alla fine messo in votazione e respinto un quarto documento, proposto dalla Casa della Libertà e da AN con il quale si chiedeva la difesa rigorosa della famiglia tradizionale.
Niente di fatto, dunque. Dall´esito del voto in Campidoglio esce confermata, in modi di cui è difficile prevedere le conseguenze, la rottura dell´unità del Partito Democratico quando siano in discussione problemi che le gerarchie cattoliche ritengono «non negoziabili», quei probemi che vengono generalmente definiti «eticamente sensibili», ma che sarebbe più corretto definire con il termine di «diritti civili». Di qui, dice il risultato di ieri in Campidoglio, non si passa. Ogni tentativo, anche il più ragionevole, di mediazione è destinato al fallimento. Di qui non si passa. I cattolici presenti in politica sono bruscamente richiamati all´obbedienza.,
Ma il Partito Democratico nasceva nell´intenzione di chi lo aveva fortemente voluto, sulla scommessa della possibile unità tra le culture laiche presenti nelle fila dei Democratici di Sinistra e della Margherita. Uno sforzo di mediazione doveva essere possibile, evitando l´irrigidirsi delle rispettive posizioni. La proposta dei Dico, elaborata insieme dalle ministre Pollastrini e Bindi andava esattamente in questa direzione. Ma è stata nei fatti prima ridimensionata e poi respinta. Una vittoria, senza dubbio, per le gerarchie cattoliche. Una sconfitta per chi aveva scommesso su una possibile convergenza e unità dei due diversi riformismi, uno di origine popolare l´altro di origine socialista.
Una sconfitta, per finire, per Walter Veltroni che di questo nuovo Partito Democratico è stato eletto segretario, e che ieri, certo non per caso, non ha nemmeno voluto essere presente nell´aula del Campidoglio, dove si è consumata la discussione e la sconfitta. No, eravamo più laici quarant´anni fa, quando il nostro Parlamento ha approvato, nell´oramai lontanissimo 1970 la legge sul divorzio.
Repubblica 18.12.07
Sarkò e Carla se i politici esibiscono gli amori
di Natalia AspesiUn tempo gli uomini famosi esibivano vite coniugali integerrime, e se avevano una lacrimosa ed eroica amante, anche con prole, la tenevano nascosta almeno sin dopo le loro fastose esequie, come capitò a Mitterrand. Poi certi sbandamenti anche dei meno romantici divennero affari di stato: cosa ne ha passate il povero Clinton per una cosina in ufficio lo sa il mondo intero, e fanno di lui il primo eroe della distrazione coniugale, e di Hillary la più vendicativa delle mogli. Non lo ha lasciato e si fa aiutare a prendere il suo posto. Oggi gli uomini famosi, per esserlo di più, devono sbandierare il cosiddetto privato, esibendo baruffe coniugali, riappacificazioni, annunciando e portando a termine divorzi, facendo finta di tenere nascoste nuove ragazze già pronte a farli papà o invece facendosi sorprendere come usa oggi, cioè radunando i fotografi, con delle belle sconosciute in modo da assicurarsi vasti servizi fotografici non solo sui siti e sui giornali di gossip, ma anche sulla stampa di massimo impegno che ormai non può più negarsi al rosa. Ma le mode corrono veloci e l´ultima è questa, per le celebrità della politica: mettersi insieme a un´altra celebrità, naturalmente non della politica. L´importante è saperla scegliere con la massima oculatezza, in modo che il fermento mediatico sia tale da rendere privi di interesse le gaffe, gli errori, i pasticci e le cattive notizie attorno al politico, che del resto interessano sempre meno.
Prima qualità della nuova innamorata è offuscare la vecchia, che magari a molti pareva divina, fin troppo per lui. In questo modo, se qualcuno aveva pensato che era stata la prima signora a lasciare l´uomo importante avendone trovato uno meglio, tutti sono costretti a pensare che invece a dire basta sia stato lui: gli uomini, anche se di alto livello e potere, sono fatti così, non sono per niente sportivi, non accettano di essere lasciati. In questo senso il colpo più intelligente l´ha fatto Nicolas Sarkozy, sorpreso, si fa per dire, con una signora molto più celebre, quanto a fascino, di lui: Carla Bruni, 40 anni tra pochi giorni, la conoscono tutti, da quando lui non era ancora qualcuno. Famosa per essere stata tra le top model più belle degli Anni ´90, famosa per venire da una raffinata e ricca famiglia di origine italiana e per una sorella attrice e regista; famosa da qualche anno come cantante di sue canzoni poetiche molto sensuali: famosa per aver sconvolto cuori e famiglie in vari settori del vippismo internazionale. Musica rock: Eric Clapton che nella sua autobiografia appena uscita racconta della sua disperazione quando la stupenda signora cominciò a tradirlo platealmente con Mick Jagger che per lei aveva lasciato la bella moglie Jerry Hall. Immobiliare: Donald Trump, certo un errore di gusto, ma chissà. Intellò: una geniale e torbida scorribanda, passando dall´anziano filosofo Jean Paul Enthoven, al di lui figlio Raphael, soprattutto perché genero del notissimo Bernard-Henry Levy. La cui figlia Justine, abbandonata, sputtanandola nel suo romanzo "Niente di grave" pubblicato anche in Italia, ne ha immortalato il fascino funesto. Da Cécilia a Carla, il presidente mira sempre in alto, anche se, a parte una notevole se pur diversa bellezza, la statura e un passato di modella, per Cécilia senza rilievo, le due signore non sembrano avere molto in comune. L´ex moglie ha quell´aria sbrigativa e forte delle donne che potrebbero vivere sole se non si ritrovassero spesso innamorate. Ha avuto due mariti, vissuto con cinque figli, due suoi, due di Sarkozy, uno di entrambi, si veste firmata ma minimale, se intervistata parla con intelligenza e schiettezza. La nuova possibile innamorata è languida e apparentemente fragile, la sua voce roca, anche quando chiede un caffè è di quelle che fanno subito pensare al letto, ha un solo piccino avuto dal giovane Enthoven, non si è mai sposata. Cécilia forse non ha un buon ricordo del marito presidente, ma sa tacere, Carla ha l´abitudine di scrivere canzoni sui suoi amanti, anche sbeffeggiandoli. Comunque, per Carla Sarkozy sarebbe il primo, ma forse non l´ultimo, innamorato di un settore, quello politico da lei, pare, non ancora battuto.
Repubblica 18.12.07
Islamismo. "Se attacco i fanatici non sono un razzista"
di Martin AmisMartin Amis risponde alle accuse che gli ha rivolto Ronan Bennett "Rispetto Maometto, non Muhammad Atta, non un credo che postula la nostra eliminazione"Nella situazione attuale, la questione non è la razza, la questione è l´ideologia
Le popolazioni autoctone di Spagna e Italia in 35 anni si dimezzeranno
Lo jihadismo è misogino,omofobo totalitario: non è solo intollerante, è genocida
Vorrei parlare del tipo di pubblico dibattito che dovremmo augurarci di avere. Ma innanzitutto userò ai miei lettori islamici (so di averne qualcuno) l´elementare cortesia di dichiarare che IO NON SOSTENGO, NE´ HO MAI CALDEGGIATO ALCUN TRATTAMENTO DISCRIMINATORIO NEI CONFRONTI DEI MUSULMANI. E nessuno che abbia il benché minimo rispetto per la verità può affermare il contrario.
Il 19 novembre, la copertina di G2, allestita per l´occasione in modo da richiamare i più rozzi giornalastri di istigazione all´odio degli anni 30 (come ad esempio Der Stürmer di Julius Streicher) annunciava con toni sovreccitati l´avvento di un «nuovo razzismo». Il quale in effetti presenta una novità: quella di non essere razzista. Ronan Bennett annaspa e si dibatte nel più grossolano degli errori di categoria: non stiamo parlando di un problema di razza, ma di una questione ideologica.
***
Avrò avuto cinque o sei anni quando mio padre, comunista e universalista, mi portò con sé in visita da un docente universitario africano - della Nigeria, se ben ricordo. «E´ un uomo tutto nero», mi spiegò papà cammin facendo. «Ha la faccia nera». Ero tutto preso dalla gioia sfrenata di salire sull´autobus rosso a due piani (nella zona alta, riservata ai fumatori). «Vedrai: è un signore nero. La sua faccia è nera».
Ricordo che pensavo tra me: «Chissà perché papà me lo torna a ripetere». Arrivammo, e appena entrato nella stanza mi vidi davanti l´uomo nero.
«Ma tu hai la faccia nera!» dissi, scoppiando a piangere.
«Per forza! Sono un nero!» mi rispose lui, scoppiando a ridere.
Mio padre volle consolarmi, ma io, già allora, sentivo di non meritare quelle parole di conforto.
Eravamo a Swansea, verso la metà degli anni 1950. Non avevo mai visto un nero prima d´allora (neppure in TV, dato che in casa non l´avevamo). E oggi penso che fosse proprio quella l´unica vera privazione della mia infanzia: la terrificante monotonia dell´umanità incolore del Galles del Sud, incerta e sbiadita nei suoi toni bianchi e grigi, un po´ come un cinegiornale Pathé, o come una Grande Depressione etnica. Come per ogni scrittore di romanzi, la varietà del mondo fisico è quel che più conta nella mia vita; è il mio vizio. Se ho qualcosa da eccepire contro l´arcobaleno è che il suo spettro non è abbastanza vasto. Vorrei vedere Londra invasa da marziani e nettuniani impettiti, rispettabili cittadini originari di Krypton o di Tralfamodore.
La necessità di ricorrere alle autocitazioni mi mette a disagio, ma devo pur usare le stesse armi di chi mi attacca. Ecco due stralci da The Independent (gennaio 2007):
«L´islamofobia si manifesta oggi in forme che mi disgustano: molestie contro le donne musulmane per la strada, o peggio. E´ mortificante far parte di una società ove una qualunque minoranza può sentirsi minacciata.
Le difficoltà hanno a che fare con la natura dell´identità nazionale. Quello che dovremmo cercare di imitare è il modello americano (...). Se a Boston un immigrato pakistano dichiara: "Sono americano", non fa altro che constatare una realtà ovvia. Ma a Bradford, un uomo nella sua condizione potrebbe esprimersi allo stesso modo? La Gran Bretagna dovrebbe diventare ciò che l´America è sempre stata: una società di immigrati. In ogni caso, sarà questo il nostro futuro.
La cosa migliore (al mio ritorno nel Regno Unito dopo 30 mesi d´assenza) fu quella di ritrovarmi in un Paese che al di là dei suoi difetti e delle sue infinite magagne può vantare uno straordinario successo come società multirazziale. Un´idea bellissima, che ha anche buone probabilità di diventare una bella realtà».
Possibile che il signor Bennett sia talmente accanito nella sua caccia al razzista da vedersi ridotto a fustigare l´autore di queste righe?
Le osservazioni sopra citate sono risposte alle domande inviatemi per e-mail dai lettori del giornale; e quindi si possono collocare a metà strada tra un´intervista e un saggio. Mi sia consentito di insistere ancora per un attimo su questa distinzione. Quello che uno dice, su un qualsiasi argomento, non è mai la sua ultima parola. Mentre ciò che si scrive aspira ad esserlo. Per parafrasare - con un lieve adattamento - una battuta di Vladimir Nabokov (da Strong Opinions): «Io penso come un genio, scrivo come un distinto uomo di lettere, e parlo come un idiota».
***
Ronan Bennett pensa come un idiota (al pari di Terry Eagleton). Se lo leggesse un extraterrestre appena sceso dall´astronave, dovrebbe ritenere che nulla di insolito sia accaduto dal 10 settembre 2001 - tranne la sconfortante ascesa di quella che (inutilmente) lo stesso Bennett accorpa nella definizione di «Islamofobia». Le mie osservazioni incendiarie all´epoca non suscitarono vampate di alcun genere, anche in considerazione del contesto temporale: in quell´agosto del 2006 si era appena scoperto un complotto jihadista (il terzo in soli tredici mesi) che progettava il massacro di un campione di cittadini britannici scelti dal caso: quella volta dovevano essere tremila. Oltre tutto, il mio commento era preceduto dalle parole: «Si avverte nettamente l´urgenza di dire». Bennett si chiede come mai io non abbia ritrattato. Ma secondo lui, cos´avrei dovuto fare? Fingere di non aver provato quel momentaneo impulso (non certo espressione di razzismo, ma semplicemente istinto di ritorsione)? Secondo lui, uno scrittore dovrebbe esprimersi come un politico - o magari come una di quelle anime pie di automi post-storici che Bennett e Eagleton vorrebbero incarnare?
«L´islamofobia è razzista»: questo il pensiero di Bennett, il suo contributo al dibattito. Ma prima di inerpicarci su questo picco della Medusa, vediamo prima il senso della sua accusa di non distinguere tra Islam e Islamismo: «Parla dell´islam, non dell´islamismo; dei musulmani, non degli islamisti». Benissimo. Ecco allora un´altra citazione, da un saggio del 2006, uscito col titolo Terror and Boredom: The Dependent Mind («Terrore e noia: la mente dipendente»):
«Possiamo incominciare col dire che non solo rispettiamo Maometto, ma che nessuna persona seria potrebbe non rispettare questa eccezionale, luminosa figura storica... A giudicare dalle continuità che ha saputo mettere in moto, sono molte le ragioni per considerare Maometto il più straordinario degli uomini vissuti in terra... Meglio ripetere: noi rispettiamo l´islam, cui l´umanità deve benefici innumerevoli. Ma l´Islamismo? No, non ci si può chiedere rispetto per una professione di fede che postula la nostra eliminazione.. Naturalmente, noi rispettiamo l´Islam, non l´Islamismo. Così come rispettiamo Maometto, non Muhammad Atta».
Ed eccoci al grande volo dialettico di Bennett. A suo giudizio, io sarei ostile all´islam per motivi razziali. Un´assurdità che si commenta da sé. Considerate l´immensità del programma di antagonismi che ha dispiegato davanti a me: dovrei rivolgere il mio odio razziale a più di un quarto dell´umanità, e praticamente a tutte le etnie rappresentate sul pianeta. (Ma secondo lui, come dovrei atteggiarmi nei confronti di un personaggio come David Myatt, il neonazista che nega l´Olocausto e si fa chiamare Abdul-Aziz ibn Myatt? Con una certa indulgenza, trattandosi di un jihadista feroce, ma di pelle bianca?) In ogni dibattito tra scrittori si dovrebbe osservare almeno una regola: quella di presumere che l´altro non sia un maniaco.
Devo averlo visto arrivare, Mister Bennett, quando ho recensito, nell´aprile di quest´anno, il libro di Mark Steyn, allarmista ma assai pertinente, dal titolo: America alone. A questo punto devo inserire l´ultima delle mie autocitazioni:
«Ogni qualvolta si riconosce il timore di vederci travolti dall´evoluzione demografica, il pensiero corre inevitabilmente all´eugenismo, alle sterilizzazioni forzate e così via. Leggendo le pagine di Mark Steyn, molti buoni e moderni occidentali percepiranno quella vampata di perbenismo sdegnato che normalmente precede ogni accusa di "razzismo"».
Ma non è questione di razza. E´ questione di ideologia. Se tutti gli abitanti di un Paese liberale e democratico credono nella democrazie liberale, la loro fede religiosa e il colore della loro pelle non contano. Ma se alcuni credono nella sharia o nel califfato, e sono inoltre convinti dell´utilità di una strage nella discoteca Tiger Tiger tra la folla attratta dalla Ladie´s Night per conseguire questo risultato, allora i numeri incominciano ad avere importanza.
Quando intervistai Tony Blair, all´inizio di quest´anno, gli chiesi se il problema demografico a livello continentale fosse già «un tema di conversazione europeo». Mi ha risposto: «E´ una conversazione sotterranea». Sappiamo bene cosa vuol dire. Per l´etica del relativismo, la questione demografica è talmente carica di risvolti repellenti da sconsigliarla come tema di discussione. Nella sua qualità di ideologo multiculturalista, Bennett non è in grado di prendere atto che a) la popolazione autoctona della Spagna e dell´Italia è destinata a dimezzarsi nell´arco di trentacinque anni; b) ciò comporta alcune conseguenze. E fa ricorso, come un commissario del popolo in stato confusionale, alla violenza polemica della «pretesa di supremazia dei bianchi», giocando la «carta del razzismo», questa granata d´argento dei virtuosi.
***
Terry Eagleton ha dato il via a tutto questo scalpore campato in aria con un attacco sul Guardian, che fin dalla prima frase contiene tre affermazioni non rispondenti al vero. Bennett, marginalmente più scrupoloso, si inserisce al momento di raccattare i resti. In quest´ultimo mese, vari amici e simpatizzanti mi hanno fatto notare che sia l´uno che l´altro stanno per pubblicare un nuovo libro, e forse hanno bisogno di pubblicità. Per mia natura, rifuggo dal pensare a simili trivialità e cadute di stile. Imputare il cinismo ad altri è sempre un atteggiamento da cinici; e chi mai vorrebbe condannarsi a vedere il cinismo dappertutto? C´è anche chi arriva a sostenere che questo tipo di cinismo è solo una collinetta, a confronto con picchi di ben altra altezza; e argomenta che al giorno d´oggi diffamazioni e approssimazioni si possono sparare a piacimento, fidando che il veleno attecchirà comunque - perché è così che funziona oggi il dibattito.
In ogni caso, sarebbe un lavoro squallido anche solo immaginare Eagleton e Barrett affaccendati a compilare le loro diatribe saltabeccando e piluccando qua e là tra interviste e dibattiti televisivi, saggi o racconti brevi o frammenti di citazioni e sigle dal Daily Mail, distorcendo o sopprimendo o raffazzonando di qua e di là. Non sono interessati al dibattito o alle idee, ma solo a definire posizioni e a inviare segnali, con la civetteria di compiacere chi la pensa allo stesso modo. Non è la prima volta che mi si accusa di razzismo. Nel 1991 mi diedero dell´antisemita per via del mio romanzo Time´s Arrow (La Freccia del tempo). Non esiste calunnia peggiore. Come se qualcuno tracciasse una croce sulla tua porta di casa.
Vorrei concludere con le parole dello stesso Bennett. E´ una piccola epifania, un poemetto, di farisaico autocompiacimento:
«Amis la passa liscia, dopo aver dato sfogo ai sentimenti razzisti più odiosi, come da tempo non si sentivano esprimere in questo Paese. Una vergogna per lui, e per chiunque lo abbia tollerato».
Dunque, dobbiamo vergognarci tutti - io per primo. Tutti, tranne il signor Bennett. Leggiamola un´altra volta, questa frase. Lei questo non lo ha tollerato, vero? No, e quindi ne esce meglio di chiunque altro. Il suo discredito non è sociale, bensì morale, intellettuale, e (curiosamente) anche artistico - ma nessuno gliene chiederà mai conto. Prima di chiudere, vorrei dire soltanto che l´ideologia con la quale ci invita a riappacificarci (chamiamola jihadismo, sull´esempio di Francis Fukuyama) è irrazionalista, misogina, omofoba, inquisitoria, totalitaria e imper ialista. E non è solo razzista. E´ genocida.
traduzione di Elisabetta Horvat
Copyright 2007, (Questo articolo è apparso su "The Guardian")
Corriere della Sera 18.12.07
Il bilancio E il piano del 2000 sulla ristrutturazione dei 214 istituti di pena è rimasto un sogno
Carceri fuori norma
Addio indulto, capienza già superata In regola solo 4.763 celle su 28.828
di Dino MartiranoROMA — A settembre del 2000 il governo di centrosinistra varò il nuovo regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario che prevedeva la ristrutturazione di buona parte dei 214 istituti di pena, con un occhio di riguardo agli standard igienico- sanitari e ai diritti dei detenuti: acqua calda nelle celle, toilette separate, celle per non fumatori, parlatori senza vetri divisori, cucine per un massimo di 200 coperti, etc. Tempi previsti per la realizzazione delle opere: 5 anni, come stabilito dalla norma transitoria. Investimento stimato dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria): 400 milioni di euro.
Sette anni dopo la pubblicazione di quello che fu definito «un libro dei sogni», basta scorrere i dati del monitoraggio sollecitato al Dap dal sottosegretario Luigi Manconi (Giustizia) per capire cosa non è cambiato nelle carceri italiane. Nonostante l'indulto, si parte già da una situazione di sofferenza: oltre 49.442 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 43.213 posti. In questo quadro, solo il 16% delle celle sono a norma: 4.763 su 28.828, mentre circa 1.750 sono in via di ristrutturazione. Ma le medie nazionali non rappresentano i casi limite: se, infatti, a San Vittore (Milano) 242 celle su 590 hanno disponibilità di servizi igienici, a Secondigliano (Napoli) nessuna delle 802 celle ha l'acqua calda e solo 11 hanno la doccia. I detenuti che non tollerano le sigarette, poi, devono soccombere in Campania (zero celle per non fumatori su 2.820) e Lazio (zero su 3.297).
I tassi di crescita
C'è da aggiungere che la ristrutturazione mancata — anche nei 5 anni in cui ha governato la Cdl è stato fatto molto poco per mancanza di fondi — ha, per così dire, perso il treno straordinario dell'indulto varato nel-l'estate del 2006 con il voto di due terzi del Parlamento. Al 31 luglio del 2006, con 60.710 detenuti presenti (quasi 18 mila in più rispetto alla capienza regolamentare) sarebbe stato impensabile avviare grandi lavori di ristrutturazione. Ma già il 31 agosto dello stesso anno, quando le presenze erano scese drasticamente a 38.847 unità, avrebbe avuto un senso avviare la manutenzione straordinaria. Da quel momento in poi le carceri italiane hanno iniziato a riempirsi nuovamente.
Dal mese di ottobre 2007, i tassi di crescita della popolazione carceraria (emergenza romeni, decreto sicurezza, etc) hanno sfondato quota mille al mese per raggiungere la ragguardevole cifra di 1.308 detenuti in più registrati tra 5 novembre e il 3 dicembre. E questo vuol dire che alla fine della prossima primavera si tornerebbe a superare il tetto dei 60 mila in carcere raggiunto nella fase pre-indulto.
Fine del «libro dei sogni» voluto dall'allora Guardasigilli Oliviero Diliberto? Il ministro Clemente Mastella, quando è stato tirato in ballo per gli istituti di pena non utilizzati e quelli mai costruiti, ha accusato il collega Antonio Di Pietro: «I fondi sono del ministro delle Infrastrutture, io posso indicare la collocazione dei nuovi istituti. Ma i fondi li deve destinare Di Pietro». E lo stesso Mastella ha illustrato quali e quante siano le difficoltà dell'edilizia carceraria quando, lo scorso 26 novembre, ha inaugurato l'istituto di Gela (48 celle, tutte con bagno): il carcere progettato nel '59, finanziato nel '78 con cantiere aperto nell'82, ultimato mezzo secolo dopo grazie all'impegno dei sindaci Franco Gallo e Rosario Crocetta.
«Sono dieci le nuove carceri in costruzione e 28 quelle in cui ci sono lavori di ristrutturazione», riferisce il sottosegretario Luigi Manconi che cita le Finanziarie del 2001, del 2002 e del 2007 «con evidente buco nei 5 anni di governo del centrodestra». Il Dap — guidato dal direttore Ettore Ferrara e dal vicedirettore «interno» Emilio Di Somma, con la direzione detenuti affidata ancora per qualche mese a Sebastiano Ardita (magistrato) — ha fornito tempestivamente i dati sull'attuazione del nuovo regolamento del 2000 e questo, in via Arenula, viene letto come l'indice di una vera e propria rivoluzione culturale. Spiega, dunque, Manconi: «Per la prima volta il Dap fa un'autoanalisi e questo consente di immaginare una riforma dopo l'indulto perché, oggi, senza l'indulto noi saremmo a una cifra stimabile di circa 80 mila detenuti. Ovvero uno stato di totale illegalità, una situazione invivibile per quanti lavorano dentro le carceri, un inferno per i detenuti e, quindi, una situazione ad alto rischio, al limite di un possibile collasso o esplosione».
Il punto di vista del governo non collima con quello del maggiore sindacato degli agenti penitenziari (Sappe) che pure riconosce a Mastella un impegno straordinario per affidare al Corpo la creazione dei nuclei di verifica esecuzione penale esterna: ovvero le pattuglie (5-6 mila agenti in tutta Italia) che a regime controlleranno i detenuti che usufruiscono delle misure alternative. Tuttavia sul lavoro fin qui svolto nelle carceri, il segretario del Sappe Donato Capece è assai critico con il governo: «Quella dell'indulto è un'occasione perduta perché il governo si era impegnato a cambiare la faccia organizzativa del carcere. Ma qui non c'è un soldo neanche per imbiancare le celle o per pagare i "Mof" (i detenuti che attuano la manutenzione ordinaria fabbricati, ndr)». E ancora, per rimodernare gli alloggi e le mense degli agenti di Bollate (Milano), il provveditore per le carceri della Lombardia, Luigi Pagano, ha stipulato una convenzione con l'Alitalia per fare issare sul tetto del-l'istituto un grande cartellone pubblicitario visibile dalla Milano-Laghi. Ma tutto questo non basta.
I diritti negati
In questa situazione di precarietà, denuncia l'ong Antigone, non diminuiscono gli eventi critici. Nei primi 11 mesi del 2007 ci sono stati 52 suicidi tra i detenuti (43 quelli comunicati dagli istituti penitenziari al Dap) contro i 50 del 2006 e l'altro giorno si è suicidato nei pressi della stazione di Bologna il capo degli agenti del carcere di Modena. Nelle celle i tentativi di suicidio sono stati 116 e gli atti di autolesionismo 3.413. Se il Dap di Ferrara ha posto particolare attenzione ai «nuovi giunti» (la circolare sul trattamento dei nuovi ingressi è della scorsa estate), un carcere in cui il detenuto rimane mediamente pochi giorni ha bisogno di figure terze di controllo. Per Patrizio Gonnella («Antigone ») il Parlamento ora deve fare un altro sforzo per approvare due ddl: quello che istituisce il reato di tortura (testo già passato alla Camera e modificato in commissione al Senato) e quello del garante nazionale dei detenuti (approvato a Montecitorio).
Corriere della Sera 18.12.07
Politica e fede Il ministro prc: la mia radicalità? Seguo il vangelo di San Matteo
Ferrero: io più valdese che comunista
di Vera SchiavazziROMA — Essere radicali? Un insegnamento evangelico, prima ancora che politico: avere «fame e sete » di giustizia, sostenere i perseguitati, seguire il Vangelo di Matteo quando raccomanda «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no. Il di più viene dal maligno». Il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero, valdese e esponente di Rifondazione, esordisce con un libro dedicato all'immigrazione (Fa più rumore l'albero che cade che la foresta che cresce, per Claudiana, con una prefazione di don Luigi Ciotti). E lo dedica alla nonna paterna, Elena Margherita Ferrero, «ragazza madre emigrata negli Usa».
Ministro, nelle sue posizioni su immigrati, welfare, sicurezza, spesso più radicali di quelle «ufficiali » del governo Prodi, conta di più la sua identità di evangelico o quella di partito?
«Essere stato alla guida dei giovani evangelici (la Federazione giovanile evangelica italiana; ndr) è stata l'esperienza più importante per la mia formazione, insieme al lavoro in fabbrica. Diciamo che la matrice evangelica sta prima e quella politica viene dopo... Non ho paura della parola "radicale", ma sinceramente credo che il quadro politico italiano sia talmente moderato che spesso anche idee di semplice buonsenso appaiono estremiste. Mi definirei un comunista riformato, non stalinista...».
La prima parte del suo libro è dedicata alla storia di famiglia e a quella delle migliaia di valdesi che dalle montagne del Piemonte partirono per cercare fortuna in America. Perché è così importante per lei?
«Perché è la mia storia, ma anche la storia di questo Paese. Oggi, la metà degli immigrati in Italia è fatta di donne, le nostre "badanti". Quando le vedo, non posso fare a meno di pensare alla loro infelicità per i figli lasciati a casa, a migliaia di chilometri. È la stessa di mia nonna: quando tornò a casa, mio padre non la riconosceva e voleva restare con la zia».
Come è accaduto che l'Italia, Paese di emigranti per eccellenza, abbia dimenticato in così poco tempo le sue valigie di cartone?
«Negli anni Settanta c'era poco razzismo, dopo è tornato, perché operai e sindacati sono stati sconfitti. È una guerra tra poveri, una terribile rimozione collettiva... Sono stato a Lampedusa, ho visto quel luogo di disperazione, dove ormai approdano quasi solo donne e bambini in fuga dalle guerre. E dico che Ellis Island, che i miei nonni chiamavano in patois la goulo daa loup, cioè "le fauci del lupo" era più civile, così come la Germania degli anni Cinquanta, dove un italiano poteva arrivare col visto turistico, farsi assumere in fabbrica e diventare residente».
Lei propone più diritti per gli immigrati, in particolare per i bambini che nascono in Italia. Pensa che l'Italia abbia un debito verso queste persone?
«Certo. Producono il 5% del nostro Pil, circa 75 miliardi di euro, e noi investiamo 50, 100 milioni all'anno per loro... Eppure cento immigrati delinquenti si vedono di più di tre milioni di persone che lavorano. Mia nonna è tornata a casa con qualche baule di regali, un po' di soldi e una macchina Singer che mia madre ha usato per cucire fino a poco tempo fa. Vorrei che a loro andasse un po' meglio».
Repubblica 17.12.07
Zimbabwe. La fuga dei bianchi
di Giampaolo VisettiViaggio nel regno di Mugabe stretto tra la bancarotta economica e le nuove ondate di violenza. Che ora colpiscono i "farmers"Caccia al bianco nel regno di MugabeEra il granaio d´Africa, uno dei Paesi più istruiti e ricchi del continente. Per colpa del suo presidente-despota si è ridotto a una prigione povera e xenofoba. L´inflazione è alle stelle, il cibo si vede solo al mercato nero. E ai "farmers" si espropriano le terre. Per dividerle tra una cosca mafiosa di ministri e generali
La moneta locale non ha alcun valore, cambia quotazione 4 volte al giorno
Chi critica perde casa, lavoro e possibilità di studiare o di essere curato
Nessuno lavora più. Le città si svuotano. Le famiglie tornano nei villaggi
Oltre al miraggio dei soldi c´è quello ossessivo del turismo. Puntando sui safari
Il presidente, 83 anni, al potere da 27, è stato il padre dell´indipendenza, l´eroe marxista della decolonizzazione, il profeta del nazionalismo. La vigilia delle ennesime elezioni farsa, contese tra marzo e giugno, è però qualcosa di più della solita tragedia africana, che riduce la speranza nella libertà ad una delusa e sottomessa apatia. Il delirante testamento politico di uno spietato dittatore corrotto naufraga contro l´ultima spiaggia del terrore: l´apartheid alla rovescia, la vendetta razzista del nero contro il bianco. Il colonialismo vittoriano di John Rhodes ed elisabettiano di Ian Smith, come tutta l´usurpazione dell´Africa da parte delle potenze europee, resta una pagina vergognosa che esige risarcimenti. Il fallimento di Mugabe non è la decisione di restituire la terra e la ricchezza dello Zimbabwe alle etnie originarie. È la violenza populista con cui promuove l´assalto alle proprietà dei bianchi. Non per destinarle alla povera gente, ma per spartirle tra poche centinaia di famigliari e fedelissimi, una cosca mafiosa di ministri, generali, capi di polizia, servizi segreti e war veterans. Per questo oggi è costretto a elevare uno degli istinti umani più diffusi e tenebrosi, l´odio razziale, a dignità di legge e principio di fede.
L´inglese Georg Miller è l´esempio di cosa accade a chi incappa nel nuovo «piano di indigenizzazione». Sette anni fa aveva tre fattorie nel Matebeleland. Un paradiso di grano e tabacco qualità Burley, quasi mille ettari e quattrocento manzi messi assieme dal padre dopo la Seconda Guerra mondiale. Adesso indica il suo orto riarso e un campicello di patate. È nato qui, trasporta legna con un furgone, non gli resta altro. Le prime due farms, una mattina del 2005, sono state occupate dai veterani della guerra d´indipendenza, i guerriglieri di Mugabe. La terza è stata appena confiscata dal governo. Gli è stata offerta una somma per edifici e macchinari, ma in valuta nazionale, non esportabile. Una montagna di carta straccia. I giudici hanno accolto il suo ricorso. Il problema è che non c´è un poliziotto, o un soldato, disposto a far eseguire la sentenza. È il destino di quasi tutti i white farmers dello Zimbabwe. Erano 23 mila, ne restano 500.
Tredici gli italiani, con venti fattorie. Resistono in tre, grazie ad altri lavori. Sono figli di soldati del Duce, fatti prigionieri dagli inglesi in Etiopia e deportati nell´allora Salisbury. Altri erano venuti per costruire strade, ponti e dighe. Si sono sposati e con i risparmi hanno comprato le colline più azzurre e feconde del pianeta. I bianchi, negli anni Settanta, erano quasi 300 mila. Sono ridotti a meno di 19 mila, di cui 1500 italiani. In cinque anni sono stati espropriati 7 milioni di ettari di terra, i tre quarti della superficie agricola. La grande fuga, ora che l´agonia economica di un regime spaventato inasprisce le violenze, continua. La caccia di Stato contro il bianco, negli ultimi mesi, ha consumato tre passaggi definitivi. Il 51% di ogni impresa dovrà appartenere a zimbabweani neri. I residenti non potranno mantenere più di una cittadinanza. Le merci importate dovranno essere vendute al ridicolo cambio ufficiale. Per gli europei rimasti è un foglio di espulsione.
Eppure, nei primi anni Ottanta, non era così. Per Mugabe i farmers erano "welcome". Poi l´economia è andata a rotoli, la siccità non è stata più un´eccezione, gli ex combattenti hanno presentato il conto al vecchio capo, la miseria ha seminato rabbia e voglia di rivolta, la corruzione della nomenclatura ha drenato ogni risorsa. I bianchi, sostenuti da Washington e Londra, si sono schierati con l´opposizione. Al potere non è rimasto che un patrimonio: addossare ogni colpa agli occupanti stranieri e consegnare agli affamati i coloni traditori. I nuovi padroni neri, che per gli appetiti insaziabili sono chiamati "chef", non sono però diventati contadini. Hanno venduto i trattori, macellato le vacche, abbandonato i campi, smontato le farms nei villaggi per costruirsi ville in città. Il granaio dell´Africa, uno dei Paesi più istruiti, organizzati, ospitali e ricchi del continente, si è ridotto ad una prigione misera e xenofoba. Mugabe è rimasto prigioniero del suo passato, patetico e feroce relitto della Guerra Fredda, come un sommergibile atomico abbandonato tra i ghiacci. Icona della libertà, è obbligato a morire da despota. Nel 1987 la sua quinta brigata, di etnia shona, ha massacrato oltre 30 mila zimbabweani delle tribù ndebele. Sostenevano il suo rivale, Joshua Nkomo. I "gukurahundi massacres" sono considerati «sterminio dovuto a volontà di pulizia etnica». Mugabe ha ammesso «un momento di pura follia». Se perdesse l´immunità presidenziale dovrebbe affrontare un processo internazionale per genocidio. Per questo il blocco economico americano, le blande sanzioni personali e le isteriche condanne verbali dell´Europa, sono oggi i suoi migliori alleati. In patria lo ripropongono come baluardo contro una rinnovata colonizzazione e lucidano la sua ossidata immagine nazionalista. Fanno dimenticare alla gente la fame e le umiliazioni, causate «dal pugno occidentale contro l´Africa».
Spalancano le miniere di oro, platino, diamanti, rame e cobalto a Cina, India, Sudafrica e Iran. Tra Bush e Gordon Brown, gli oppressi dello Zimbabwe non possono che preferire Mugabe e il protettore sudafricano, Thabo Mbeki. Al ritorno dal vertice di Lisbona il presidente è stato accolto ad Harare come un eroe. Migliaia di neri, precettati dalla polizia, hanno sventolato bandiere, cantato inni e gridato slogan razzisti contro i bianchi. La «Terza Forza», squadracce di giovani assoldati dal presidente, promettono di «intingere nel sangue qualche testa bionda» e di «sfondare i porci gay». Il governativo The Herald ha pubblicato un sondaggio. La popolarità dei perseguitati leader dell´opposizione democratica, Morgan Tsvangirai e Arthur Mutanbara, è ai minimi. La coraggiosa voce dissidente dell´arcivescovo cattolico Pius Ncube, travolto da uno scandalo a luci rosse orchestrato dai servizi segreti, si è spenta nel ritiro forzato di Bulawayo.
È il ricatto di questa falsa scelta razziale, «o con l´Europa o con l´Africa», a reprimere la rivolta degli zimbabweani, in bilico sull´abisso della catastrofe umanitaria. Mugabe aggiunge due armi: la fame e il terrore. Chi critica perde casa, lavoro, possibilità di studiare, o di essere curato. Chi non si iscrive al partito del potere, lo Zanu-Pf, è privato della tessera per gli aiuti alimentari. Chi resiste viene pestato, arrestato, torturato. Nel 2007 gli scomparsi dopo essere stati prelevati dai servizi segreti sono 92. Le vittime di torture politiche 3463. Le violazioni dei diritti umani 5748. Gli oppositori sono costretti a confessare di essere omosessuali, o prostitute: dieci anni di carcere. La tivù elogia poi il successo nella lotta all´Aids. Quest´anno si è scesi dal 25%, record mondiale, al 18%: la propaganda non dice che gli infetti morti sono ormai 500 al giorno, che l´attesa media di vita, per i sani, sprofonda a 36 anni.
Il colpo di grazia però è arrivato in giugno. Per frenare un´inflazione fuori controllo, il presidente ha imposto il blocco dei prezzi. Risultato: nessuno produce più nulla, dai negozi la merce è sparita. Dato che i soldi non hanno valore e che in giro non c´è nulla da comprare, nessuno lavora più. Le città si svuotano. Le famiglie tornano nei villaggi d´origine, piantano qualche pannocchia, mangiano le uova di due galline e bevono il latte di una mucca, massima proprietà consentita dalla legge. Cinque milioni di persone, su una popolazione di undici, sono denutrite. Fame e malaria fanno strage di umani, la mosca tse tse decima le bestie. Ad Harare il traffico è crollato. La benzina per andare a ritirare la pensione vale più dell´assegno da riscuotere. Gli anziani mangiano se i figli si ricordano di loro. I supermercati sono lo specchio del dramma. L´enorme Bon Marchè, in Avondale, oggi espone taniche di sciroppo di lampone e sacchi di riso precotto. C´è qualche pezzo di provolone del Mozambico, sette pani di margarina ugandese, due bottiglie di vino dello Zimbabwe, un cumulo di zucche, due ceste di «Marsh» e alcune bustine di yogurt del Botswana. Un solo flacone di shampoo Roberts, al prezzo di 110 dollari. Per il resto, canti natalizi, macellerie, salumerie e panifici disegnati sui muri, ma scaffali vuoti. Alle 17.30 un megafono annuncia pane fresco. La fila supera il parcheggio, ma dal forno escono trenta pagnotte. Alla cassa due donne contano e impilano muri di banconote.
Il mistero, dieci chilometri oltre il centro. Sulla collina "The Kopje", nell´antica township nera, c´è il mercato all´aperto di Mbare. In aprile si è salvato dall´operazione "Spazza via il sudiciume", quando il governo ha fatto schiacciare dalle ruspe i banchi degli ambulanti. Qui c´è di tutto. Piramidi di frutta e verdura, elettrodomestici e ferramenta, motori, telefoni, vestiti. Gli abiti usati donati dall´Europa sono ancora nei pacchi degli aiuti umanitari destinati al Mozambico. È il commercio sporco della polizia, che li scambia con la roba donata allo Zimbabwe. Il resto della merce, di contrabbando o rubata, arriva stipata in auto e pulmini. Farina, zucchero e olio sono quelli delle Nazioni Unite, sottratti da ministri e doganieri. Chi può, va fino al villaggio di Messina, oltre il confine sudafricano, o alla catena degli ipermercati "Makro" di Johannesburg. Investe tutto ciò che ha in generi ordinati da amici e parenti. Torna clandestinamente, aspetta qualche giorno che i prezzi interni lievitino e rivende tutto. Poi riparte per un nuovo carico. Non circolano bianchi, nel fornitissimo mercato dei neri protetto dall´esercito.
Oltre al money resiste un solo, ossessivo miraggio: il tourism. Nel paradiso terrestre più povero del mondo, è sinonimo di safari. Il Matusadona National Park, nella valle dello Zambesi, è uno dei molti luoghi del Paese in cui si vorrebbe, immediatamente, restare per sempre. Purtroppo non si sottrae alla devastazione dell´era Mugabe. Per sopravvivere, i residenti vendono agli stranieri qualsiasi animale. In tre anni lo Zimbabwe ha perso il 50% della fauna selvatica. Elefanti, leoni, cercopitechi, kudu, zebre, impala, ghepardi reali, nyala, pitoni e coccodrilli sono a prezzi di saldo. Il governo ha riaperto la caccia grossa, le riserve private sono un tiro a segno. In sei anni i rinoceronti neri sono scesi da 3 mila e 200. Le griglie dei lodge offrono un carbone aromatico di marula, riservato alla «carne in via di estinzione». Una notte con vista su jacarande e cascate Victoria costa venti dollari per i residenti, che non esistono, 600 per gli stranieri. I cacciatori bianchi, tra cui molti italiani, fanno razzia approfittando di miseria e corruzione. L´Occidente, quasi sempre, esporta in Africa il peggio. Nello Zimbabwe allo stremo, non si può sbagliare. Il razzista Mugabe avrà anche cacciato quasi tutti i farmers. Starà anche derubando gli ultimi europei, nati qui, che resistono. Ma se i negozi sono vuoti e i neri muoiono di fame, i ristoranti di lusso, e qui il lusso è lusso, sono sempre al completo. Tavolate di Whites sorridenti, i Blacks continuano ad aspettare in auto. È per questo che Goodwin, maestro, muratore, meccanico, stregone e padre di 16 figli, è sempre più incerto. Per verificarla con un estraneo, ripete a raffica la litania popolare: «Appena cambia il regime, si decolla». Si fa silenzioso se uno chiede quando e per dove.
Liberazione 12.12.07
Inconscio di gruppo e telescopage
Ma esiste ancora la psicoanalisi?
Di alcuni giorni fa un convegno a Roma della Società italiana di psichiatria su "generi e generazioni"
Intervista alla psicoanalista Manuela Fraire. Un punto sull'elaborazione freudiana, sulla maternità e sulle nuove paternità
di Roberta RonconiInconsci di genere, psichismi generazionali, telescopage. Nei giorni scorsi, la Società italiana di psichiatria ha dedicato due giorni di riflessioni al tema "Generi e generazioni. Ordine e disordine delle identificazioni" (Roma, 1 e 2 dicembre). Termini complessi e linguaggi spesso sinuosi e oscuri, per dire cose che invece ci riguardano da vicino. Perché quando si parla di generi e di diversità, si dice di me donna, di te uomo, di lui gay, di lei lesbo, di noi queer e di tutto quello che chiunque altro può declinare nel mezzo. E quando si parla di generazioni si parla di tempo, di ciò che pesa sulle nostre spalle del passato, di ciò che peserà, sulle spalle dei prossimi a venire, della nostra esperienza presente.
La psicoanalisi non parla così, non sempre, non ancora, non tutta. Ma c'è chi, anche nelle maglie dell'ufficialità teorica freudiana, sa sciogliere qualche nodo ed avvicinarsi alla comunicazione, quella vera, quella fatta per dire e comprendere. E' il caso di Manuela Fraire, psicoanalista freudiana da oltre trent'anni, da sempre partecipante al pensiero e alla pratica del movimento femminista, che al convegno romano ha contribuito con una relazione su paternità e maternità, oltre le dipendenze biologiche. Sembra un tema accademico e invece parla di futuro, l'unico possibile ed auspicabile. Quello in cui le famiglie esploderanno per dare vita ad altro tipo di organizzazioni e legami socio-affettivi.
Ma partiamo dai temi annunciati dal convegno. Da queste generazioni e dai loro legami, che poi immaginiamo sia un modo complesso per porsi la domanda che oggi va per la maggiore: chi sono questi giovani che stiamo procreando, dove stanno andando, che vogliono, che pensano? La psicoanalisi è in grado di fornirci risposte in merito?Sì, in questi tempi si sente molto parlare di giovani e della difficoltà di interpretarli. Se ne parla come se fossero un'unica indistinguibile marmellata, in una generalizzazione a mio avviso folle. Generalizzazione che la psicoanalisi non ha fatto mai, nella costante necessità di segnare la differenza tra padri, madri e figli. E' di Freud l'intuizione che la generazione che precede non può, in virtù dell'esperienza che ha, appropriarsi della generazione che segue. Così come la generazione che segue non può in alcun modo cancellare la strada da cui proviene. E le ultime acquisizioni analitiche ci dicono anche che le generazioni presenti possono essere influenzate persino da ciò che le generazioni passate hanno rimosso e relegato nell'inconscio.
Certo, questa dimensione psicoanalitica di gruppo sembra cozzare con la struttura individuale dell'inconscio. In che modo le due dimensioni si incontrano?Intanto, ricordiamo che la dimensione plurale del soggetto analizzato è presente anche in Freud sin dai tempi di "Psicologia delle masse e analisi dell'io". E anche a questo convegno romano, una delle principali relazioni al centro della discussione è stata quella del francese Kaes che definisce gli analisti come "organizzatori metapsichici e metasociali". Come individui psichici nasciamo nella relazionalità e nella gruppalità. Ma allo stesso tempo è fondamentale tenere ferma la barra delle singolarità, altrimenti rischiamo concetti omologanti. E, come sappiamo, l'omologazione delle individualità porta ai regimi totalitari, di tutti i segni. La psicanalisi è riuscita a sopravvivere e a rimanere attuale proprio perché ha tenuto duro sulla necessità di guardare alle soggettività sia come entità singole che come relazione con la pluralità. Che sia famiglia, quartiere, città, nazione, mondo. E oggi, anche etnia.
La società freudiana riesce ad attualizzarsi in questo senso? E' elastica al cambiamento, fuori e dentro di sé?Come il resto del mondo, anche la società freudiana, grazie al cielo, è fatta di moltissime individualità. Come si diceva prima, la dimensione sociale della psicoanalisi è talmente attuale che il relatore principale di questo convegno parla di analisti come operatori meta-sociali. Ma anche in questo campo ci sono dei rischi, come quelli di chiudere gli individui in "ghetti" etnici o generazionali. Per evitarli e trovare le strade più adatte alla psicoanalisi, ci vogliono semplicemente operatori con un buon grado di partecipazione desiderante e passionale verso ciò che succede nel mondo, anche fuori dallo studio.
Già, lo studio. A volte può somigliare a una prigione, almeno per il paziente. Ma è un luogo rischioso anche per l'analista?Sì, nel momento in cui si trasforma in un ambiente troppo protetto, quindi claustrofobico.
Vorrei farti una domanda generica, per riuscire a capire qual è la condizione della ricerca in questo momento. Qual è lo stato di salute della psicoanalisi?La psicoanalisi non esiste, esistono "le" psicoanalisi, anche dentro la scuola freudiana. Uniformare non farebbe giustizia. Lo stato di salute è quello di una famiglia che si è molto allargata e che ha fatto anche matrimoni meticci. E quindi ha necessariamente integrato al proprio interno aspetti della vita del pensiero ed esistenziali che Freud non poteva conoscere. Semplicemente perché alla sua epoca non esistevano.
Il movimento femminista, tanto per fare un esempio. Come quell'esperienza ha contaminato la psicoanalisi, in pensiero e pratica?Il lavoro che ho portato a questo convegno parla del femminismo inteso anche come operatore meta-sociale, nel senso che ha dato struttura a un immaginario sulla donna distantissimo da quello vivo all'epoca di Freud. Lui aveva intuito di appartenere a un mondo in cui le donne potevano parlare solo tramite l'isteria, ma lì si era fermato. Deve arrivare l'emancipazione femminile, la centralità della madre elaborata da Melanie Klein, la nascita del pensiero della differenza e delle donne che elaborano per sé un valore simbolico a tutto campo, per operare un'inversione direi epocale.
Cosa ha rivoluzionato nella psicoanalisi, il femminismo?La necessità di pensare alla differenza dei sessi non come a una diseguaglianza, ma ad una diversità. Anche la psicoanalisi ha a lungo avvalorato questa seconda ipotesi, sostenendo l'idea di un femminino tutto inscritto nel binario della passività, dell'accoglienza. Curioso, dico io, che questo immaginario si sia andato strutturando proprio alle soglie dell'esplosione del capitalismo, con le donne ritenute più adatte alla riproduzione che non alla produzione...Non sarà un caso, no?
Sta inserendo nel discorso una dimensione politico-economica che forse non appartiene a tutta l'elaborazione psicoanalitica attuale....E infatti secondo me il motivo dell'inattualità di certi aspetti della grande teoria psicanalitica sul femminile andrebbero ricercati non tanto all'interno della teoria stessa, quanto nel contesto della storia del capitalismo borghese. Se non si raggiunge questa dimensione, continueremo a litigare tra scuole senza capire che c'è un dialogo continuo tra la psicanalisi e i tempi in cui la psicoanalisi vive che la modificano e terremotano da dentro.
Quali sono le conclusioni che ha tratto, nel suo intervento?Che siamo di fronte alla modificazione di due modelli fondamentali che organizzano la nostra società: la famiglia e il materno. Il posto che queste due entità - così strettamente collegate tra loro - stanno oggi occupando nella vita delle persone non è più quello di un tempo. Per capire di cosa parlo, bisognerebbe rileggersi Derrida e quel magnifico libro-intervista rilasciato alla psicoanalista Elisabeth Roudinescu poco prima di morire, dal titolo: "Quale domani". Nel capitolo "Famiglie disordinate" Derrida spiega come finché ci sarà una rete umana che si organizza intorno alla procreazione (quindi alla riproduzione della specie) chi riproduce sarà sempre meno importante. L'importante è che si crei un legame di trasmissione.
Un modo per dire che la famiglia sta, finalmente, esplodendo, almeno per come la conosciamo oggi?Esistono già le famiglie monogenitoriali (che hanno spesso ancora la madre al centro), ma secondo le mie osservazioni presto sarà il padre la figura centrale. Un discorso sul quale sto lavorando molto, quello di una nuova paternità che nasce da una sensibilità maschile che ancora non abbiamo sufficientemente analizzato. Gli uomini non come supplenti delle madri, ma con un originale contatto con la primissima infanzia dei propri bambini. Ma questo è un altro discorso, che spero avremo modo di affrontare presto.
Liberazione 18.12.07
Rossanda si rivolge alla grande "S" cioè alla Sinistra fatta dai 4 partiti
Sei un ponte sconnesso, ma sei il solo ponte...
di Rossana RossandaCaro Sansonetti, se la grande S si è impantanata su una legge elettorale darebbe ragione a chi ci ha creduto poco. Non è la prima volta che il tema "elezioni" manda in tilt qualsiasi progetto sui tempi medi. Ne ha fatto esperienza il manifesto nel 1972, poi nel 1976. E' per questo che Rifondazione ha mandato a picco la Camera di consultazione di Asor Rosa. E su questo adesso l'inciampo viene dal Pdci.
Nel caso di piccoli partiti non è misera voglia di poltrone: è il timore di diventare invisibili, cessare di esistere come i grandi partiti non nascondono di sperare. La stessa base militante esige una lista, dimostrando quanto sia ancora contraddittorio il bisogno, teorizzato al meglio da Tronti, di "andare oltre la democrazia", che è poi quella "rappresentativa". E sarà così, penso, finché non sarà chiaro come "andare oltre" senza riprodurre i "socialismi reali"; perché, oggi come oggi, altro non conosciamo. Intanto nessuno dei quattro partiti in campo si fida che l'altro ne garantisca le ragioni di esistenza. Soltanto Rc è ragionevolmente certa di passare lo sbarramento di una proporzionale; toccherebbe ad essa dunque di garantire le altre, facendo qualcosa di comprensibile dell'attuale slogan "unità plurale". Non è semplice e non è soltanto - come mi sembra tu scriva - una questione di metodo.
Certo è anche di metodo, se gli Stati Generali sono stati organizzati in modo da autorappresentare pubblicamente solo i quattro - Mussi, Giordano, Diliberto, Pecoraro Scanio. Neppure il lavoro dei workshop è stato portato all'assemblea generale. Le donne si sono sentite ancora una volta escluse. La verità è che gli attuali gruppi politici non conoscono che questo modo di esprimersi, specie se non sono già ferreamente uniti, pochi che parlano a molti o una specie di happening. Neanche le donne sanno come stare assieme quando la pensano diversamente. Tutti riflettiamo ancora quello che Gramsci chiama "spirito di scissione" con il quale nascono le posizioni innovative, e stentiamo a far esprimere e fare esprimere il bisogno che porta altri attorno a noi e noi a tentare di rompere i nostri confini. E anche a tollerarci: il Pdci si vuole fedele ad alcuni "socialismi reali" e all'ultimo (o penultimo) Pci. Io non lo credo utile. Ma non prenderei per pura fisima identitaria il suo timore che, sgomberati "i comunisti" e le relative falci e martelli, esca di scena la stessa idea di rivoluzione - anche non in armi, anche non violenta, anche la più soave - ma che non sia una resa all'assetto sociale esistente. Finora è andata così.
A proposito, la S quale trasformazione reale persegue? Diciamocelo. Non basta che tu scriva: oggi non è sufficiente il lavoro, ci sono altri bisogni, il movimento delle donne, l'ecologia, la pace, eccetera. Che intendete per "il lavoro"? I "lavoratori", i salariati più visibili e raggruppabili, gli operai insomma, forse qualche categoria impiegatizia o tecnica, da qualche tempo gli inafferrati "precari", gli autonomi - come se oggi gli uni non precipitassero sugli altri, andata e ritorno, figure sociologiche ogni tanto affogate e ripescate. Diciamoci la verità, c'è stato un decennio di cancellazione del salariato, salariati, identificati con la fabbrica e quando questa è fisicamente diradata o scomparsa, via anche loro. Non c'è più la fabbrica di "Tempi moderni", non si vedono più uscire assieme gli operai, non ci sarà più la contraddizione fra capitale e lavoro. Non è casuale che i ragazzi del 1968 di Torino non si siano visti ai funerali dei morti della Thyssen a Torino. Non è stata innocente neanche la variante "i lavori" al posto del "lavoro". Voi stessi, Rc, in uno degli ultimi congressi lo avevate rimosso, il famoso lavoro, come residuale fra altre e più sentite "soggettività". Più di una femminista mi ha detto "il lavoro non mi interessa". Più di un professore: "non interessa ai giovani". Più d'un compagno scuote la testa: "Gli operai non ci sono più". Sparita la primazia della fabbrica, è scomparso dalle menti il lavoro salariato, o dipendente, o eterodiretto. Rinaldini ghepardo, specie in estinzione. E invece il salariato non è mai stato così esteso, dal manovale alla famosa "mano d'opera" (o cervello d'opera) del capitale cognitivo. Com'è questa faccenda?
Direte: ma quella ha in testa sempre il sistema, il modo di produzione, il capitale, Marx. E' vero. E voi che cosa avete invece, quando parlate di globalizzazione? e ne parlate tutti?
Non si i tratta di allungare l'elenco dei bisogni, ma di capirne i nessi. Quasi nessun fenomeno oggi è del tutto dipendente ma nessuno del tutto indipendente dal modo di produzione. Salvo la questione dei sessi. Millenaria, ha attraversato civiltà precapitaliste, capitaliste e postcapitaliste. E non come differenza fra i sessi ma come gerarchia, di un sesso sull'altro, rassegnando al maschio il potere pubblico e fingendo di attribuire alla donna il governo del privato. L'ultimo femminismo ha messo in luce la frode. Come contate di metter il problema in agenda? Agli Stati Generali c'è stato un incidente. Che rispondi a Melandri, la quale ti scrive «non ci vedete e non ci rappresentate perché il vostro, dei politici, è un modo di conoscere razionale e maschile, che sottovaluta, nasconde a se stesso, il terreno e il linguaggio delle emozioni, del corpo, che è nostro?». Io, da parte mia, dubito che le due forme di conoscenza siano sessuate e divisibili, mi pare un'approssimazione costruita dalla storia, e perdipiù europea. Dubito che si farà un passo avanti finché noi, le donne, diremo ai maschi: Riconoscete che il potere, asse della politica, comincia da quello del maschio sulla femmina (Marx ed Engels lo avevano detto della proprietà, che nel caso è lo stesso). E finché voi, uomini, risponderete: a) ma io non c'entro, b) questa è un'altra storia. E' sicuramente un'altra storia, ma non una fra le altre, e non ne siete esenti.
Concludo. La famosa "unita plurale" si fa entrando nel merito. Il "metodo" è solo andare subito al massimo di unità d'azione, non rompere finché non ci si è arrivati (cosa per la quale non basta una maggioranza) e nel contempo avanzare subito una o più analisi, e quindi obbiettivi a medio e lungo termine, verificando se tengono e ci tengono assieme. Questo non siamo capaci di fare da quaranta anni in qua. Se lo ammettessimo e vi ci mettessimo subito - domani mattina? - avremmo più attenzione, anche più pietà, l'uno per l'altro, l'una per l'altra.
E anche meno pretese. Alla grande S direi: avanzate una trama, esponetevi, avendo chiaro in testa che c'è stata l'alluvione, che siete un ponte, e anche un po' sconnesso, ma il solo in vista. Non siete "la" soluzione. Prendetevi sul serio come passaggio, finitela di chiuderlo a ogni momento. Neanche assieme fate una maggioranza, ma isolati non siete niente.
O no?
il manifesto 19.12.07
Stralci del monologo dal «Decameron»
Tutto quello che dovete sapere sulla «Spe salvi»
Il quiz della settimana: quali fra questi intellettuali non è citato da papa Ratzinger nell'ultima enciclica? Sant'Agostino, Kant, Adorno o De Sade?
di Daniele Luttazzi
Dice: «Daniele, come fai a sopportare la chiusura di Decameron?» Come faccio a sopportare la chiusura di Decameron? Penso a Giuliano Ferrara in una vasca da bagno, con Berlusconi e Dell'Utri che gli pisciano addosso, Previti che gli caga in bocca e la Santanchè in completo sadomaso che li frusta. Mi dispiace molto che abbiano chiuso Decameron. Proprio adesso che Berlusconi mi aveva telefonato per piazzare un'attrice in uno sketch. Uuuuh! Stasera sono proprio elettrico. Sarà che mi devono arrivare. Benvenuti a 'Decameron'. Politica, sesso, religione e morte. Qua a Roma è arrivato l'inverno. Fa molto freddo. Fa talmente freddo che le minorenni sulla Salaria offrono pompini gratis ai ciccioni. Un mio amico va a puttane sulla Salaria. Gli ho detto che in giro è pieno di ragazze oneste e rispettabili. Sì, mi fa lui, ma quelle non posso permettermele. Fa veramente molto freddo.
(...) Qualcuno mi ha chiesto: «Daniele, perché ce l'hai con la religione?». Perché mi sono convinto che le religioni sono pericolose. Operano un plagio di massa che ha una funzione sociale di controllo; e che diventa pericolosissimo quando la religione tende a far coincidere il peccato col reato, e a condizionare l'attività dei governi. Gli esempi sono sempre all'ordine del giorno (staminali, pacs, eutanasia) e ormai insopportabili. Ricorderete come la Chiesa si sia opposta alla ricerca sulle staminali degli embrioni perché «l'embrione è uno di noi, è già persona». C'erano però tre contro-argomenti formidabili: a) Quello teologico. S.Tommaso nega agli embrioni la resurrezione, in quanto privi di anima razionale, e pertanto non ancora esseri umani. (Supplemento alla Summa Theologiae, 80, 4); b) Quello pragmatico. La Chiesa nega il battesimo ai feti abortiti in modo spontaneo. Nella prassi, cioè, la Chiesa non considera il feto una persona finché non nasce vivo. C) Quello naturale. Di tutti i concepiti, solo il 15-20% riesce ad annidarsi nell'utero materno. La natura stessa, cioè, non tutela così tanto il diritto alla vita del concepito, diritto che però si arroga la Chiesa. È stata poi la scienza, e non la religione, a scoprire, la settimana scorsa, che è possibile ricavare cellule staminali anche da tessuti adulti. Con la nuova ricerca sulle staminali, gli scienziati ritengono che adesso potremmo fare grandi progressi, dalla cura del Parkinson alla rigenerazione della spina dorsale nel centrosinistra. Abbiamo poi visto le mille pressioni vaticane per ostacolare prima i pacs, poi i dico, e adesso i cus. La Chiesa ostacola i patti civili perché minacciano la santità del matrimonio, come se si potesse considerare sacro tutto quello che si fa davanti a un sacerdote. In realtà, lo sappiamo, il motivo vero è che la Chiesa teme le unioni omosessuali. Ma se è un tema così importante, com'è che Gesù non dice una parola in proposito? Gesù non dice una parola su questo, ma tante sulla tolleranza, l'accettazione, il non giudicare, il frequentare i reietti e gli ultimi. La Bibbia dice: «Non guardare la pagliuzza nell'occhio del tuo vicino, ma la trave nel tuo occhio». Al che i gruppi gay hanno replicato: «Se la trave te la metti nell'occhio, lo stai facendo in modo sbagliato». La regola della convivenza umana è terrestre, non divina: ogni uomo deve poter decidere su di sé. E invece mille ostacoli. Col paradosso che i nostri parlamentari, per tenersi buoni i voti vaticani, da anni negano a noi, cittadini che li eleggiamo, i diritti che per sé loro si sono già attribuiti: da ben 16 anni, i parlamentari conviventi hanno gli stessi diritti dei parlamentari sposati.
(...) Ecco papa Ratzi. Ride. Riderei anch'io se la mia ditta non pagasse le tasse. Ma la Chiesa non fa che rispettare il dettame evangelico. Gesù disse: «I miti erediteranno la terra». Ed evitò astutamente di parlare della tassa di successione. Comunque, alla Chiesa piace travalicare i limiti concordatari. Quando la Chiesa provò a fare la morale al governo spagnolo, nel gennaio di due anni fa, Zapatero convocò il nunzio apostolico e gli tirò le orecchie. Da noi chi tira le orecchie al cardinal Bertone, la Binetti? Oh, questa battuta rovinerà la mia amicizia col cardinal Bertone. Niente più orge sadomaso a casa sua.
(...) Avete letto l'ultima enciclica di Papa Ratzi? E chi, non l'ha letta? È così amena! È più divertente di un barile pieno di anguille. Spe salvi, salvi nella speranza. Un testo sulla superiorità della fede cristiana, che esalta la sofferenza, perché avvicina alle sofferenze di Cristo. Cristo è morto in croce per i nostri peccati! Uuh, ma così ci fa sentire troppo in colpa! Non poteva solo lussarsi un'anca, per i nostri peccati? L'enciclica è piena di citazioni colte. E questo è il quiz della settimana: quali fra questi intellettuali non è citato da papa Ratzi nell'ultima enciclica? Sant'Agostino. Kant. Adorno. De Sade. E la risposta è: De Sade. La Spe salvi, sorpresa! è una dura condanna della modernità. Il giorno che venne eletto, dissi in teatro: «Hanno eletto il nuovo papa. È il cardinal Ratzinger. Subito condannato di nuovo Galileo». Non mi sbagliavo. Dopo un mese Ratzi disse: «La risposta alla modernità è Cristo». Io ho 46 anni, nella mia vita ho imparato una cosa: se la risposta è Cristo, la domanda è sbagliata. Non dimentico che l'Europa moderna, laica, del commercio e della democrazia, appare col Rinascimento, nel momento in cui il cristianesimo, scosso dalla Riforma, comincia a perdere il controllo sull'organizzazione sociale. E non dimentico che la repubblica, la separazione dei poteri, il suffragio universale, la libertà di coscienza, l'eguaglianza dell'uomo e della donna non derivano dalla religione, che li ha anzi a lungo combattuti. E non dimentico che, grazie alla rivoluzione francese, le adultere occidentali non vengono lapidate... Ratzi attacca l'illuminismo, ma la Chiesa in 18 secoli non abolì la schiavitù, cosa che fece la Prima Repubblica francese del 1794. D'altra parte è noto che la Chiesa è lenta ad abbracciare la modernità. Fino a poco tempo fa, la loro idea di portatile era un chierichetto. Aver fede significa sospendere il proprio pensiero razionale. Ogni religione dice al mondo: «Noi non crediamo ai fatti». Non posso dar retta a chi crede di parlare con Dio, dai! È da psicotici! Dico: se Dio avesse voluto che credessimo in lui, sarebbe esistito. Le religioni sono un fatto culturale. È tutto molto relativo. (...) Mi piacerebbe che il papa una domenica si affacciasse su S.Pietro e dicesse: «Sapete una cosa? Nessuno ne sa niente. Siete liberi!».
* Alcuni stralci dal monologo della sesta puntata di «Decameron». (copyright Krassner entertainment)
il manifesto 19.12.07
Quando la politica si separa dalla vita
Destra e sinistra, coppia in crisi. Viene meno l'identità, esplodono tante improbabili identità ed esce di scena la triade democrazia, politica, sinistra. Un confronto tra Bertinotti, Revelli e Riotta. Sullo sfondo la solitudine operaia
di Loris Campetti«La politica si separa dalla vita». Una considerazione amara, quella del presidente della Camera Fausto Bertinotti in un intervento impegnato, interrotto a metà da una telefonata da Montecitorio: ci risiamo, l'ennesima fiducia, l'auto blu è già in moto, riprenderemo un'altra volta a discutere da dove eravamo rimasti. In realtà la discussione continua nella bella sala della casa editrice Laterza, e lo spunto è dato dal libro di Marco Revelli «Sinistra destra». Presente l'autore, mentre il ruolo di moderatore è affidato a Gianni Riotta che non condivide i toni apocalittici da fine di tutto: della storia, del lavoro, della natura. Al direttore del Tg1 va stretta la casacca da «professionista della rassicurazione», figura evocata da Revelli nel suo libro, e comunque «meglio professionista della rassicurazione che dell'allarmismo». La lettura di Riotta è decisamente diversa da quelle di Bertinotti e Revelli: la nuova storia inizia con la caduta del muro di Berlino e il tentativo di liberazione dal «deficit di democrazia accumulato nei decenni della guerra fredda». Se è questo, perché insistere con la denuncia del «teatrino della politica?», si chiede. Oggi, con la fine della società di massa novecentesca segnata dagli «eserciti, di guerra o operai», tutto è postmoderno, le masse «sono individualizzate». C'è una ragione se là dove questo processo è più avanzato come a Milano «la sinistra non ha mai vinto» dopo la fine (?) della Prima Repubblica. Inutile stare a piangere se la coppia destra-sinistra - su cui come dice Revelli si sono costituite storicamente le identità - non esiste più. Una prova dell'inconsistenza della sinistra starebbe, per Riotta, nella contraddizione evidente di chi dice «No a ogni ogm, salvo dire Si alle staminali».
Se sulla smilitarizzazione della politica tutti si dicono d'accordo - ma Riotta chiede anche la smilitarizzazione del linguaggio - sull'analisi e il giudizio del presente le differenze emergono con forza. Per Bertinotti «l'uscita di scena contestuale della triade democrazia, politica, sinistra» rimette al centro, come supplenza, «la forza». La triade si sta consumando, qui sta la crisi della coppia destra/sinistra. L'appannarsi delle differenze viene dal fatto che «entrambe hanno espunto la categoria dell'uguaglianza» ed emergono nuovi conflitti. La separazione, il fossato tra politica e società, tra ceto politico intesto nel senso più ampio e mondo del lavoro, che Revelli ha raccontato sul manifesto dopo la strage della ThyssenKrupp, fa dire al presidente della Camera che a Torino i lavoratori hanno chiuso la saracinesca davanti ai cancelli, «noi dentro, in una tragica solitudine, bruciati, voi fuori». Fuori non solo i politici, tutti quelli che non sono operai, che non condividono la loro condizione. Azzarda dei paragoni, Bertinotti: «Come nelle banlieue». La coppia amico-nemico non è scomparsa con la caduta del muro, si diffonde e si riproduce in mille rivoli di improbabili identità. Nelle curve da stadio, e poi le curve insieme contro il nemico comune: la polizia. Quella che è a rischio, continua Bertinotti, è la «nozione stessa di sinistra, quella che ha a che fare con l'uguaglianza, con il movimento operaio». Insomma, ritorniamo allo svaporarsi della coppia destra-sinistra, «il dualismo a cui faceva riferimento ogni conflitto. Il conflitto capitalismo-socialismo è spinto fuori dalla politica insieme al lavoro salariato. Si sono erose aggregazioni durevoli. Negli anni Settanta chi non era operaio si identificava in quella condizione, oggi chi è operaio vorrebbe non esserlo. Così la politica si separa dalla vita e lo spazio pubblico, separandosi dallo spazio sociale, smarrisce la forza di rappresentazione». Più brutalmente, «la politica si separa dalla vita e si dissolve, mentre la società si frantuma».
E' da questo punto che parte la riflessione di Revelli, per un verso dai cancelli della ThyssenKrupp che dividono il dentro dal fuori, per l'altro dalla «politica che si separa dalla polis». Era partito da un'altra tesi Revelli, al tempo dei seminari tenuti con Norberto Bobbio al Centro studi Gobetti sulle culture politiche di destra e di sinistra. Era partito dal valore della coppia destra-sinistra, nonostante le difficoltà. Negli anni Ottanta questa coppia veniva messa in discussione dalla destra, «e se uno ti diceva che 'tra destra e sinistra non c'è differenza' avevi la certezza che era uno di destra». Oggi arriva da sinistra l'attacco alla coppia che, effettivamente, è sempre più difficile difendere. Revelli si schiera apertamente contro i «professionisti della rassicurazione, secondo i quali è un bene la dissoluzione della coppia destra-sinistra. Ma c'è poco da compiacersi per lo sfarinamento prodotto dalla crisi della politica». Il venir meno della coppia spalanca il vaso di Pandora, «il meccanismo dell'identità non è più governato» e si sfarina dentro un processo di individualizzazione che distrugge i legami sociali. E' l'atomizzazione, con gli"atomi predatori». Se la politica non svolge più il ruolo di mediazione, di congiunzione tra individualismo e solidarietà sociale «ha fallito il suo compito».
Resta un punto, una domanda a cui è difficile rispondere ma che sarebbe suicida eludere: al venir meno dell'identità originaria, quando l'eguaglianza non produce più identità collettiva neanche tra gli ultimi, «come si costruisce un equilibrio tra identità contrapposte?». Revelli offre tre suggerimenti utili. Innanzitutto «la deposizione delle armi, sapendo che l'imperativo della non violenza deve valere per tutte le parti in causa»; il secondo è «l'abbandono dell'autoreferenzialità del politico e il passaggio alla dimensione della reciprocità», che poi sarebbe la capacità di guardare con gli occhi dell'altro, capacità perduta dall'Occidente; infine, l'assunzione del concetto di limite. Siamo arrivati al tetto dello sviluppo, anzi l'abbiamo superato, dice Revelli. Abbiamo prodotto una situazione che il pianeta non sopporta più. Dunque il politico non può più essere «una macchina per gestire risorse crescenti»: «Senza l'assunzione dei limiti siamo al tutti contro tutti».
Non accettare il professionismo della rassicurazione non vuol dire farsi profeta di allarmismo catastrofico: a Vicenza, in Valsusa, emerge il ruolo dei territori che denunciano «la caduta della rappresentanza e ricostruiscono solidarietà orizzontali. Il basso si stacca dall'alto, non gli riconosce più una rappresentanza generale». Da qui, conclude Revelli, provengono però anche i sintomi di sfaldamento. Sarebbe un'illusione pensare che dal basso possa arrivare una risposta generale e positiva alla crisi della politica. Ieri un ruolo importante era svolto dallo «spazio politico dello stato-nazione di cui il Parlamento era l'allegoria. La globalizzazione ha liquefatto questo spazio, nato al tempo degli Stati generali». Quelli che anticiparono la Rivoluzione francese, naturalmente, non la Cosa rossa.
il manifesto 19.12.07
Una via di fuga sulle orme dei «classici»
«Erotica e retorica. Foucault e la lotta per il riconoscimento», un saggio di Mariapaola Fimiani. La resistenza alla società del controllo e l'azione tesa a definire la soggettività politica
di Sandro ChignolaIn un testo che nel 1977 Gilles Deleuze affida a François Ewald perché questi lo rimetta a Foucault - un testo dalla particolare intonazione confidenziale, intima, che può essere letto in traduzione italiana nella raccolta di saggi deleuziani curata da Ubaldo Fadini per ombre corte (Desiderio e piacere, in Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori) - viene evidenziato quello che a Deleuze appare il problema davanti al quale si trova Foucault nel punto di svolta tra Sorvegliare e punire e La volontà di sapere. L'idea, cioè, che «dispositivi di potere» e «resistenze» si fronteggino nel piano di immanenza del campo sociale sembra infatti a Deleuze rischiare di restaurare, da un lato, le funzioni unificatorie del principio di contraddizione e dall'altro evitare la vera questione che dovrebbe essere pensata: se le «linee di fuga» che il potere cerca di imbrigliare - il movimento delle migrazioni, quello delle donne, la circolazione della moneta, le insorgenze del desiderio, il puro disordine che fa scappare da tutte le parti l'«oggetto» del controllo, la nozione stessa di «campo sociale» - «non sono necessariamente rivoluzionarie».
Che cos'è, si chiede Deleuze, che fa di un evento un punto strategico di resistenza piuttosto che un'indecidibile traiettoria di non-tenuta, una pura deterritorializzazione? In termini molto più radicali: quali sono le condizioni di produzione etica e politica di un nuovo soggetto nel partage, nella separazione, che si spalanca tra dispositivi di potere e contropotere; tra il Potere e i poteri, plurali, singolari, puntuali, ai quali si incardinano le resistenze?
Il divenire del soggetto
Questione filosofica decisiva, si dirà. Alla sua elaborazione Michel Foucault prende a lavorare negli anni seguenti, e ad essa deve essere ricondotta la sua intera produzione della maturità. Il Foucault dell'Uso dei piaceri, de La cura di sé, de L'ermeneutica del soggetto, il teorico della biopolitica, non come colui che ripropone un'inaudita, e per molti versi sorprendente, centralità del soggetto, ma come colui che prende davvero sul serio la questione cruciale che gli pone il suo amico Deleuze.
È questo Foucault, un Foucault filosofo, che pensa, come egli ebbe del resto a dire, con i classici sui quali non scrive, ma nella cui traccia egli lavora (Heidegger, certo. Nietzsche, passione condivisa con Deleuze, ovviamente. Ma anche Kant e soprattutto Hegel, al quale Foucault dedica un inedito mémoire giovanile), quello preso in considerazione da un importante saggio di Mariapaola Fimiani (Erotica e retorica. Foucault e la lotta per il riconoscimento, ombre corte, euro 13,50).
Il soggetto e il suo sporgere sul mondo a partire dalla piegatura riflessiva del vivente, nella quale l'accadere si altera e si dispiega la contraddizione tra la coscienza e l'oggetto, è il quadro in cui Foucault pensa il ciclo dell'ermeneutica del soggetto.
L'apertura e la chiusura del Cours del 1981-1982 sono dunque poste sotto l'egida hegeliana della «spiritualità». Il legame circolare tra il «soggetto» e la «verità». A partire da ciò, l'idea del soggetto come di un divenire. Elaborazione della differenza e ritorno del sé al sé. E ancora: l'appello perché il pensiero raccolga di nuovo la sfida del mondo classico alla filosofia occidentale, quella di pensare un soggetto di esperienza capace di fare del proprio mondo il luogo di una prova.
Apprendere il proprio mondo come «appartenenza» e come un «compito» è ciò che marca, per Foucault, la specificità dell'ethos filosofico. Tagliare l'ordine delle cose per tenere assieme ontologia dell'attualità e potenza di trasformazione, il gesto che gli permette di pensare con Kant, Nietzsche, Weber. E soprattutto con Hegel. L'Erotica che chiude L'uso dei piaceri - il «duplice rapporto con la verità» che in essa si dischiude: «rapporto con il proprio desiderio interrogato nel suo essere», e «rapporto con l'oggetto del desiderio come vero essere» - come esplicita e diretta «riscrittura» della Fenomenologia dello Spirito e della logica hegeliana del riconoscimento.
È questa la tesi di Fimiani. Il farsi spirituale del vivente e il movimento della vita presa nel proprio sapere; l'attivazione del circolo che lega il soggetto alla verità in una trasformazione che è trasformazione attuale dell'uno e dell'altra; il farsi esistenza del divenire. Un'ontologia della forza in cui si intrecciano vita e soggettivazione e che Foucault pensa nel testo di Hegel.
Di qui una sorta di radicalizzazione del lavoro filosofico foucaultiano. Ciò che per lui è in questione non è più (soltanto) l'analisi dei sistemi di verità e il loro archivio, l'archeologia del sapere indagata nella ritmica di costruzione e decostruzione, ma l'istantaneità dell'atto di verità che chiede di essere imputato al soggetto agente in stretta coniugazione con la sua inserzione al mondo. L'etica della vita si lega così alla politica.
La «piegatura» in cui la vita si riflette attraverso il sapere che produce di sé, si fa linea di articolazione singolare tra etica e politica, tra la «cura sui» e il sistema degli effetti che la trasformazione in cui il soggetto è catturato determina sulla costituzione intersoggetiva del mondo e la tramatura dei poteri che la sottende.
Etica della rivoluzione
«Rileggo i Greci - avrebbe affermato Foucault - perché la Rivoluzione sarà etica». Non c'è resistenza alle pratiche di assoggettamento se non nella reinvenzione del rapporto in cui singolarità della soggettivazione e vita politica sono viecendevolmente costrette ad una decisiva rimodulazione dell'una e dell'altra. Ancora Hegel, probabilmente, colui che lavora nella lettura foucaultiana dello stoicismo. Ma ben prima dello stoicismo - e della pastorale cristiana che ne ritrascrive i codici in forma impolitica e disciplinare - l'Alcibiade di Platone: la conversione dello sguardo che trasforma la semplicità del processo vitale in esperienza soggettiva, potenza singolare radicata nella pienezza del piacere e non fondata sulla mancanza del desiderio, atto di verità che trasforma il mondo e il sistema di rapporti etici che lo fa mondo comune.
«Sarà rivoluzionario colui che potrà rivoluzionare sé stesso», ebbe a scrivere Wittgenstein. Coniugare il rapporto tra il reinventarsi vita singolare e il divenire della vita in comune, e quindi gettare una sfida permanente ai meccanismi pastorali del biopotere: è questo il compito etico e politico cui ci introduce Michel Foucault.
il manifesto 18.12.07
Per Veltroni e il Pd la posta in gioco era il dialogo con il Vaticano
Un registro delle unioni civili nella capitale della cristianità sarebbe stato inccettabile oltretevere. Un editoriale ha dettato la linea al Campidoglio
di Mimmo De CillisSu Roma, capitale della cristianità, non si può transigere. La situazione di altri comuni italiani può anche passare sotto silenzio, ma a Roma si dà battaglia. Sull'istituzione del registro della unioni civili in Campidoglio, l'accordo fra Vaticano e vicariato (cioè la diocesi di Roma) è stato pieno e la sintonia totale. D'altronde al di là del Tevere parlava Tarcisio Bertone, il segretario di stato vaticano che, nell'ultimo incontro con Walter Veltroni, le ha «cantate» direttamente al sindaco, senza spazio a esitazioni o diplomazie che, da buon genovese, conosce e usa ben poco. Il sodo era: «se voi del Pd volete aprire un dialogo con il Vaticano, questo registro non s'ha da fare». Dall'altra parte del Tevere, insediato nel palazzo lateranense del vicariato c'era ancora l'inossidabile Camillo Ruini, uscito di scena dalla presidenza dei vescovi italiani, ma ancora a capo della diocesi romana, a cui compete la questione.
Il cardinale ha telecomandato un duro editoriale su Romasette che tocca questioni riguardanti, appunto, la chiesa nel territorio di Roma. La redazione del foglio, supplemento domenicale dell'Avvenire, si trova nello stesso palazzo dove Ruini abita e ha i suoi uffici.
L'avvertimento è partito con chiarezza: «Le battaglie ideologiche non servono a nessuno», e la discussione sul registro delle unioni civili vuole solo creare lacerazioni e scompiglio nell'opinione pubblica. Infatti, si afferma, se lo stesso ordine del giorno del consiglio comunale riconosce che la legislazione nazionale «non consente di riempire di contenuti dette proposte», dunque si riconosce una competenza al parlamento, perché insistere in una dichiarazione che, di fatto, non avrebbe alcun effetto concreto? E poi, nota l'editoriale di Romasette, tutto ciò è ancor di più inaccettabile a Roma, «città che è punto di riferimento dei cattolici di tutto il mondo e custodisce le memorie di una civiltà basata sui valori fondanti della persona». Per concludere, ecco il serrate-le-fila che sa di crociata: «I cattolici che siedono in Consiglio comunale, e tutti coloro che considerano la famiglia fondata sul matrimonio come la struttura portante della vita sociale, da non svuotare di significato attraverso la creazione di forme giuridiche alternative, saranno dunque presto chiamati a mostrare la propria coerenza e la propria determinazione».
Quella sulle unioni civili a Roma è per la chiesa italiana e per la Santa sede, una prova importante su cui giudicare Walter Veltroni e capire il posizionamento che il Partito democratico vorrà tenere su questioni etiche e di coscienza. La chiesa rivendica il diritto di appellarsi alla sensibilità dei cattolici presenti in modo trasversale nei diversi schieramenti politici per difendere temi cari alla dottrina. Anche se, in tal modo, si tratta di legiferare per la totalità della popolazione, che sia di un comune o dell'intera nazione, penalizzando la parte laica della società. Ma a questo argomento gli alti ecclesiastici fanno orecchi da mercanti. E benedicono la manifestazione dei gruppi integralisti cattolici che ieri hanno annunciato mobilitazione per «difendere i valori non negoziabili». E anche monsignor Rino Fisichella, cappellano di Montecitorio e rettore della Pontificia università lateranense, non ha mancato di far sentire il suo richiamo ai politici, ricordando che, su questi temi, «la chiesa ha il dovere di intervenire». La chiesa tutta, dunque, al di qua e al di là del Tevere, si è messa di traverso per impedire l'istituzione del registro. Che, a questo punto, vista l'acquiescenza e la sudditanza dei fedelissimi che siedono sugli scranni del Campidoglio come di Montecitorio, ha ben poche possibilità di spiccare il volo. Il buon Walter, da parte sua, potrà «salvare capra e cavoli», dicendo candidamente ai laici: «Ci abbiamo provato», e rassicurando le porpore: «Non se ne fa nulla».
*Lettera22