giovedì 20 dicembre 2007

Repubblica 20.12.07
Sicurezza, no della Sinistra al decreto bis
Per gli immigrati "requisiti di sussistenza". Omofobia in un´altra legge
di Liana Milella


Amato a Prc, Sd e Pdci: senza nuovo testo, colpo gravissimo alla maggioranza

ROMA - È tutta in salita la strada del futuro decreto bis sulle espulsioni. Il governo ufficializza che lo presenterà il 28 dicembre, nell´ultimo consiglio dei ministri prima della fine del 2007 e prima che il vecchio dl "muoia" la notte di Capodanno. Ma il titolare dell´Interno Amato, anche se, incontrando i capiguppo della maggioranza alla Camera, cerca di sdrammatizzare il clima raccontando una barzelletta (che però lascia freddi gli astanti), deve fare i conti con la freddezza della Sinistra Arcobaleno. Prc, Sd e Pdci gli chiedono di non presentare un altro decreto, i Verdi non firmano cambiali in bianco e vogliono vedere, parola per parola, come sarà scritto il testo. Amato replica secco: «Se il decreto non viene più ripresentato non solo io ma tutto il governo esce malissimo da questa storia. E non ce lo possiamo permettere». Il dottor Sottile lavora di cesello e alla fine strappa un "vediamo". In cambio promette, soprattutto al Prc, che ci saranno corsie preferenziali sulle leggi Amato-Ferrero per l´immigrazione e per gli articoli, stralciati dal progetto del ministro delle Pari opportunità Pollastrini, per le molestie reiterate (stalking in versione inglese), il razzismo, l´omofobia. Ma su tutta la partita c´è la zeppa dell´Udeur del guardasigilli Mastella. Che vuole le espulsioni ma preferirebbe vederle varate «con un disegno di legge». E che, sulla praticabilità parlamentare dello stralcio Pollastrini, in Transatlantico recita un de profundis: «È inutile che Rifondazione s´illuda: il ddl può anche passare alla Camera ma non passerà mai al Senato. Non c´è niente da fare, non ci sono i numeri per votarlo. Noi, la Sudtiroler, i diniani non diremo mai sì a quella legge».
Partita difficile quella di Amato, mentre il centrodestra chiede le sue dimissioni «per la figuraccia» sul dl e Mastella lo difende perché la richiesta è «ingiusta». Ma la ricerca di un equilibrio, da qui al 28, sarà complessa. Il ministro ci prova. Ai capigruppo - Soro (Pd), Fabris (Udeur), Mascia (Prc), Villetti (Rnp), Bonelli (Verdi), Pettinari (Sd), Sgobio (Pdci) - spiega la via: riscrivere meglio il decreto nella versione del Senato, precisare i casi di espulsione, inserire il vaglio del giudice ordinario, approfittandone per chiarire l´allontanamento per i sospettati di terrorismo. Escono dal dl, e finiscono in un decreto legislativo, i dettagli sull´applicazione delle norme Ue sui cittadini comunitari con un aggiornamento di quanto si votò a febbraio. Lì ci saranno i criteri sull´iscrizione all´anagrafe e sui mezzi di sussistenza per restare in Italia in modo che i sindaci, Cittadella insegna, non si regolino per loro conto. Infine, le norme della Mancino su razzismo, xenofobia, omofobia: dovrebbero finire, nei tre tempi di Amato, nello stralcio Pollastrini.
Tra il ministro e la sinistra il confronto è teso. La Mascia contesta merito e numeri: «L´emergenza è finita, il dl è caduto, bisogna ripensare tutto perché non è questa la strada per risolvere i problemi dei cittadini Ue». Poi: «Troppe espulsioni che non risolvono granché». Le snocciola Amato: 154 urgenti di cui 124 eseguite, altre 262 in attesa dei ricorsi. Argomenta Amato: «In Francia ne fanno 500 in un anno, noi queste in un mese». Plaude Fabris che chiede un dl «centrato solo sulla sicurezza per vincere la paura della gente». Bonelli è cauto, si preoccupa di due espulsioni fatte a Milano per «mancanza di reddito», dà «un giudizio molto critico» sulla vicenda, rinvia il parere al futuro decreto scritto. Con Villetti, vecchio compagno socialista, lo scontro è di fuoco. Partono anche gli attacchi a Veltroni, "reo" di aver voluto a tutti i costi un decreto dopo l´omicidio Reggiani. Soro lo difende. Alla fine il quadro non è incoraggiante: costituzionalisti del rango di Barbera e Baldassare dichiarano che il dl non si può reiterare, ma al Viminale sono al lavoro. A decreto quasi deceduto parte pure la caccia al colpevole dell´errore: Amato mette la mano sui suoi funzionari. Si cerca il responsabile tra i sottosegretari di palazzo Chigi e i big della commissione giustizia del Senato.

Corriere della Sera 20.12.07
Usa, il diritto di chiamare i fanatici con il loro nome
La finta tolleranza
di Christopher Hitchens


Prima di perdere il senso delle proporzioni e prima che questa storia si trasformi in un tormentone, andiamo a rileggere che cosa dice esattamente l'Articolo 4 della Costituzione americana: «I senatori e i rappresentanti succitati, e i membri delle legislature degli Stati, e tutti i funzionari giudiziari ed esecutivi, sia degli Stati Uniti che degli Stati componenti, saranno vincolati da giuramento ad appoggiare questa Costituzione; ma non sarà richiesto alcun esame religioso come prerequisito per accedere a qualsiasi ufficio pubblico o amministrativo negli Stati Uniti».
Come in molti altri casi, i padri fondatori intendevano dire proprio quello che dicevano, senza sprecare una sola parola. Un candidato alle elezioni, o a una posizione nell'amministrazione pubblica, non poteva essere respinto in base alla sua fede personale in qualunque dio (o per la sua mancanza di fede). Questo chiarimento era concepito per metter fine all'odiosa pratica delle monarchie europee — spesso ancora in vigore nelle varie colonie americane — per cui se un candidato non era pronto ad affermare la Trinità, o a negare il Papato, o ad abiurare il Giudaismo (a seconda della giurisdizione), si vedeva sbarrare la strada a quella posizione pubblica o addirittura respingere la sua candidatura. Assieme alla clausola del Primo Emendamento, e al precedente Statuto della Virginia sulla libertà di religione, l'Articolo 4 è il fulgido esempio di quella prima costituzione al mondo che garantiva la libertà di culto, il pluralismo religioso e la libertà di essere lasciato in pace da preti, rabbini, mullah e altri individui di questa specie.
Tuttavia, quello che l'Articolo 4 non fa, e non era stato formulato per fare, è negarmi il diritto di dire, anche a squarciagola se così mi pare, che non voterò mai e poi mai per un retrogrado come il candidato repubblicano alle elezioni americane Mike Huckabee, che è un primate insolitamente stupido, non avendo neppure quel barlume di intelligenza per riconoscere di esserlo. Il mio diritto di avere questa opinione e di affermarla è già garantita dal Primo Emendamento. E il diritto di Huckabee di vincere le elezioni e di riempire la Casa Bianca di zoticoni al par suo non è per nulla inficiato dall'espressione delle mie convinzioni.
Pertanto, cerchiamo di sgombrare il campo dagli equivoci sul significato dell'Articolo 4. Perché se ci spingiamo troppo oltre, sembrerà che la Costituzione voglia impedire o persino criminalizzare ogni critica rivolta ai candidati teocratici alle elezioni presidenziali. Ora vi chiedo, vi sembra credibile che un articolo della Costituzione americana sia stato redatto con l'intento di impedire di dichiarare pubblicamente, liberamente e senza timore che non voterò mai per: — un candidato che ha seguito il «reverendo» Jim Jones in Guyana, dove oltre 900 seguaci si sono immolati in un suicidio di massa; — un candidato che afferma che il Papa potrebbe scomunicare gli altri candidati americani a lui contrari; — un candidato che sostiene che il Papa in questione è l'Anticristo; — un candidato che afferma che L. Ron Hubbard, fondatore della Chiesa di Scientology, era un visionario; — un candidato che dice che Joseph Smith, fondatore dei Mormoni, era un visionario; — un candidato che afferma che tutti i libri sacri sono infallibili; — un candidato già membro di Hezbollah o dei Fratelli Musulmani o della Nazione dell'Islam; — un candidato che è membro o sostenitore dell'Orange Order o del Partito unionista dell'Ulster; — un candidato che è membro o sostenitore dell'Opus Dei o del Partito falangista; — un candidato che è membro o sostenitore del Lehi o della Lega di difesa ebraica; — un candidato che è stato membro della Nazione Ariana, del Ku Klux Klan o di altre fazioni bianche e protestanti della cosiddetta «Identità Cristiana »; — un candidato che afferma che il Corano è stato dettato dall'arcangelo Gabriele.
E la lista potrebbe andare avanti.
Ora, nel dire semplicemente che un seguace di queste fedi potrebbe certamente influenzare il mio voto, certo in maniera negativa, io personalmente non sto applicando alcun «esame religioso». Per farlo, dovrei essere un legislatore o un magistrato in grado di sollecitare modifiche alla legge. E, come già sottolineato, per far questo io dovrei richiedere, e ottenere, un emendamento alla Costituzione. In breve, se mi rivolgo a un fanatico della Lega di difesa ebraica per dirgli che non voterò per lui, e lui reagisce accusandomi di non votarlo perché ebreo, che si tenga pure questa magra consolazione, ma sia lui che io abbiamo legalmente il diritto di difendere la nostra posizione.
Non è incredibile quanto sono ipocriti ed esaltati i fanatici religiosi negli Stati Uniti? Non basta la loro solenne professione di «fede» in campagna elettorale e il voler imporre il loro linguaggio a ogni cosa, dal giuramento di fedeltà alla Costituzione fino alla valuta. Non basta che possano pretendere sgravi fiscali se non addirittura sovvenzioni per qualunque cosa sia «relativa al culto». Ma quando ricevono qualche critica, per quanto blanda, per le loro opinioni assurde, ecco che strillano come se sottoposti al martirio e si atteggiano a veri e propri perseguitati.
In un profilo memorabile di Huckabee, pubblicato il 16 dicembre dal New York Times Magazine, leggiamo a firma di Zev Chafets le seguenti scempiaggini: «Oggi Huckabee ha elaborato la sua strategia politica, ma la sua campagna si basa interamente sul suo carattere cristiano. Il suo slogan, "Fede, famiglia, libertà," è stato coniato da Huckabee in persona, quando faceva il pr per il televangelista texano James Robison. Ma Huckabee non è un teocrate. E' solo fermamente convinto del potere del messaggio cristiano e della sua capacità di incarnarlo e di trasmetterlo. "Non è che vogliamo imporre a tutti la nostra religione — afferma nel suo libro Character Makes a Difference, pubblicato nel 1997 (con il titolo Character Is the Issue) e ristampato quest'anno —. Noi vogliamo piuttosto modellare la cultura e le leggi secondo una visione del mondo che riteniamo ricca di valori"». Ottimo programma, che ve ne pare? Ci credete davvero che Huckabee, che «non è un teocrate», si sia inventato da solo il suo slogan? Mentre riflettete sulle sue profonde affermazioni, vi suggerisco di andare a spulciare vita e miracoli del «televangelista texano James Robison» e di chiedervi se, nel votare contro di lui o contro il suo untuoso seguace, non sarete voi stessi ad agire o pensare in contrasto con la Costituzione.
Assegnando al suo uomo un premio per aver eseguito lo stesso trucchetto mediatico che gli era riuscito in passato, Chafets conclude dicendo che «Huckabee è un maestro nel conquistare il pubblico laico». Questa menzogna palese si trasforma in una mezza verità solo se ci saranno abbastanza sciocchi pronti a crederla.
Un vecchio trucco della propaganda consiste nell'insinuare, e nell'insinuare insistentemente, che sono i nemici dell'intolleranza religiosa a essere i veri intolleranti. E' questo il sistema per screditare, e infine per demolire, la linea di demarcazione.
© WPNI Slate, 2007 (distribuito da The New York Times Syndicate)
Traduzione di Rita Baldassarre

Corriere della Sera 20.12.07
Diari. Antichi greci e contemporanei nei taccuini
Da Kant a Schmitt nel laboratorio di Hannah Arendt
di Armando Torno


Il pensiero di Hannah Arendt (1906-1975) assomiglia a un sistema filosofico aperto dedicato alla politica, sorta di specchio dei numerosi dibattiti fioriti nel Novecento. La ragione è semplice: questa donna è partita da un'attenta analisi delle radici della modernità e da una delle sue manifestazioni più forti, il totalitarismo. Fu la Arendt a introdurre il termine nella ricerca storico- filosofica; fu ancora lei a comprendere che tale fenomeno ha come scopo ultimo la trasformazione dell'uomo in automa e dei gruppi sociali in masse (in le Origini del totalitarismo, 1951; Einaudi 2004). Ebbe la fortuna di essere allieva di personaggi di primo piano quali Bultmann, Husserl, Jaspers e Heidegger; anzi, con quest'ultimo visse una storia personale che ha lasciato tracce profonde nelle sue pagine. Ebrea tedesca di Hannover, ha registrato nell'esistenza e nel pensiero il suo tempo, collaborando al movimento sionista, poi distaccandosene e criticandone gli esiti nazionalistici; nel 1933 si trasferiva in Francia per sfuggire al nazismo, nel 1940 con i tedeschi trionfanti doveva riparare negli Stati Uniti.
Ora Neri Pozza pubblica i suoi Quaderni e diari. Sono pagine che la filosofa scrisse tra il giugno del 1950 e il luglio 1971 (gli anni '72 e '73 offrono i soli itinerari dei viaggi): vi trovate pensieri e appunti sparsi in 29 quaderni vergati in tedesco, l'ultimo dei quali interamente dedicato a Kant. Di vario formato, rilegati a spirale, videro la luce, grazie a Ursula Lutz e Ingeborg Nordmann, per la Piper nel 2002 (l'edizione italiana è stata curata da Chantal Marazia). Ad essi la Arendt si riferirà con il termine inglese notebooks; secondo una testimonianza orale di Lotte Köhler, anche con il tedesco Denktagebuch.
E quest'ultimo è quello che li spiega meglio di ogni altro: significa, infatti, diario di pensiero.
Insomma pagine di lavoro che presentano un'anima che ha conosciuto i sommi e vissuto forti travagli. In esse ci sono le idee che contano del pensiero contemporaneo, la ricerca della cause e delle ragioni dell'oggi, le verifiche delle fonti, le chiose a un'osservazione di Heidegger o a una lezione di Husserl. Anche il lettore comune si sente ghermito dalla materia qui evocata: non si può restare indifferenti quando la Arendt pone a Platone o ad Agostino le domande sullo Stato scavando con rara perizia nelle pagine della Repubblica o ne La città di Dio, o quando scrive (è un appunto di Harvard del luglio 1953): «La libertà cristiana è libertà dalla politica. Questo è il senso di "date a Cesare quel che è di Cesare"». Su Heidegger ci sono informazioni e storie che forse vanno ancora decifrate. Se si prendessero in considerazione le punzecchiature, allora non si deve perdere quella della volpe che cerca di costruirsi una tana- trappola: il filosofo è l'astuto animale che lavora a un simile progetto. La Arendt espone il suo apologo in una pagina del Quaderno XVII, terminando con le seguenti immagini: «...Alla nostra volpe questa trappola faceva da tana. Volendo farle visita nella tana dove aveva casa, bisognava andare nella sua trappola. Dalla quale però poteva senz'altro allontanarsi chiunque a parte lei stessa. Le era stata letteralmente cucita addosso. La volpe dimorante nella trappola diceva però con orgoglio: così tanti entrano nella mia trappola, sono diventata la migliore di tutte le volpi. E anche in ciò vi era qualcosa di vero: nessuno conosce la natura delle trappole meglio di chi passa tutta la vita in trappola».
I riferimenti che si leggono in questi quaderni spiegano più di tante lezioni cosa sia il vero lavoro filosofico: Platone e Aristotele sempre citati nel greco originale; Cicerone mai sottovalutato e riferito in latino, come i Padri della Chiesa e i grandi dottori medievali (Tommaso d'Aquino ben presente, tra gli altri Anselmo, Duns Scoto, Meister Eckhardt); inoltre un'attenzione costante a Hegel, Marx, Nietzsche, senza perdere di vista altre «volpi» quali Sorel e Spengler. Quel che poi impressiona è la qualità delle letture dedicate a Hobbes o Machiavelli, Ernst Jünger o Carl Schmitt; senza contare le finezze per Dostoevskij o Montaigne, maestri che mai vengono persi di vista. Commuove inoltre la ricerca scevra da pregiudizi dinanzi al testo: è l'esatto contrario di quel che fanno oggi taluni intellettuali che affrontano ogni cosa con la verità in tasca e cercano prove per darsi ragione. Come la rana-toro, della quale sono l'emblema, che pensa più a gonfiarsi che a salvare la decenza.

Corriere della Sera 20.12.07
Un dramma inedito sulla violenza
E Brecht disse no al terrorismo
di Paola Capriolo


«La rovina dell'egoista Johann Fatzer» sembra scritto per gli anni di piombo

Tra il 1926 e il 1930, mentre la Repubblica di Weimar si avviava tempestosamente verso il suo tramonto e si profilava sempre più netta la minaccia nazista, Bertolt Brecht lavorava a un testo drammatico mai finito, riempiendo circa cinquecento pagine tra scene compiute e annotazioni. Da questo sterminato e caotico materiale Heiner Müller ricavò una cinquantina d'anni dopo una versione teatrale rappresentata ad Amburgo nel 1978 e ora tradotta per la prima volta in italiano da Milena Massalongo con il titolo La rovina dell'egoista Johann Fatzer (Einaudi, pp.102, € 10,50). Il senso dell'operazione è illustrato dalla bella introduzione di Luigi Forte e da uno scritto dello stesso Müller pubblicato in appendice: ad attrarre quest'ultimo verso l'abbozzo del suo grande predecessore, tanto da indurlo a definire il Fatzer «un testo secolare», è il radicalismo con cui vi viene affrontato il tema della violenza rivoluzionaria che inevitabilmente, in assenza di sbocchi concreti, finisce col rivolgersi «all'interno» conducendo all'annientamento dei cosiddetti deviazionisti. Impossibile non cogliere l'affinità di questo spietato meccanismo, che Brecht aveva colto lucidamente nella sinistra comunista dopo l'avvento del bolscevismo, con quanto stava accadendo in gruppi terroristici come la Raf; impossibile non cedere alla tentazione di servirsi del Fatzer come di una chiave di lettura per decifrare i confusi avvenimenti degli «anni di piombo», individuando «il nucleo teologico incandescente del terrorismo » nell'esortazione pronunciata dal più «leninista» di questi personaggi: «Siate umili e colpite a morte/ Non superbi, bensì: disumani!/ Non fate due cose, ma solo/ Una. Non vivere e uccidere, bensì/ Solo uccidere». Parole cui il proliferare del terrorismo conferisce anche oggi un'inquietante attualità.
Ma Brecht fa risuonare echi più profondi di quelli strettamente legati alla storia politica. In versi di scabro vigore espressivo, ci pone di fronte all'irriducibile antagonismo che separa l'individuo dalla massa organizzata, l'«egoista» Fatzer, con i suoi impulsi anarchici e le sue tenaci idiosincrasie, dal gruppo saldamente coeso dei suoi compagni. Tra l'uno e gli altri sussiste un'incompatibilità di principio, poiché l'individuo, in quanto tale, è un'entità incalcolabile: «Misurate pure il mio abisso/...Di tutto quello che c'è in me tenete/ Soltanto quello che vi torna utile. /Il resto è Fatzer». Un resto destinato a sparire, stritolato dagli immani ingranaggi della logica collettiva; il che, agli occhi del comunista Brecht, costituisce da un lato una conclusione inevitabile, dall'altro uno spaventoso impoverimento della stessa causa rivoluzionaria. Ma non c'è modo di trattenere «la ruota dei tempi», specie quando i tempi sono quelli di un'incombente apocalisse e persino l'ultimo e più modesto scopo che l'individuo possa prefiggersi: «vivere,/ ...Al culmine di questi anni/ Esserci ancora», finisce col rivelarsi un'impresa disperata.

Corriere della Sera 20.12.07
Ritorno a casa
Esposti 68 capolavori restituiti dall'America «Finita la stagione dell'illegalità»
di Paolo Conti


«Sono opere straordinarie. Ma somigliano a splendide pagine di un romanzo irrimediabilmente disperso, strappate al loro contesto completo: chissà quanto era ricco, chissà cosa ci avrebbe raccontato di una intera civiltà». Giuseppe Proietti, segretario generale del ministero per i Beni e le attività culturali, da appassionato archeologo riassume il doppio sentimento che gli studiosi italiani provano camminando tra le teche blindate che proteggono al Quirinale, nella galleria di Alessandro VII Chigi e sotto gli affreschi di Pietro da Cortona, le 68 opere restituite all'Italia dal Getty Museum di Los Angeles, dal Fine Arts di Boston e dal Metropolitan di New York. Cioè l'immensa soddisfazione per il ritorno di pezzi preziosissimi («Nostoi», ovvero coloro che ritornano, è l'epico vocabolo greco scelto per il titolo della mostra «Capolavori ritrovati»). E il cupo senso di definitiva perdita di ciò che li circondava: in una tomba, in un tempio, in un'area prima di quel momento mai violata.
La strada che ha portato i capolavori dagli Stati Uniti al Quirinale è lastricata di razzie notturne nelle aree archeologiche italiane, scavi clandestini a colpi di ruspa, esportazioni illecite, mercanti d'arte capaci di tutto (persino di lasciar distruggere la parete di una villa pompeiana pur di far strappare maldestramente pezzi di affreschi dalle altre tre pareti), dirigenti di grandi musei pronti a ignorare le leggi di tutela italiane e le regole internazionali, foto polaroid scattate sul luogo del misfatto dal «tombarolo » e usate dal mercante alla stregua di un normale documento di autenticità. C'è una data che segna una svolta: primi del 1972, il Metropolitan di New York acquista il famoso Cratere di Eufronio (che tornerà in Italia a metà gennaio) a più di un milione di dollari. È l'inizio di un trentennio di affari miliardari e di sistematiche spoliazioni dei beni archeologici italiani: il traffico di beni culturali si trasforma in un grandioso business.
Altra data, altra svolta: 13 settembre 1995 gli investigatori italiani sequestrano in un deposito nel porto franco di Ginevra tremila pezzi archeologici strappati illegalmente dal territorio italiani: marmi, vasi, i poveri brani di affresco. Più un archivio artigianale di migliaia di fotografie, veri «certificati di autenticità».
Da quelle stanze blindate parte la mega-inchiesta internazionale.
L'avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli, austero contabile delle sistematiche rapine e inflessibile servitore dello Stato italiano nella trattativa, confessa di aver provato smarrimento «di fronte alla foto di una ruspa di scavatori con le colonne di una ignota villa romana appena distrutte. Un peso sulla coscienza di chi poi acquistò quei tesori».
La mostra al Quirinale rappresenta quindi la morte di una stagione (quella dei furti) e la nascita di un'altra tutta nuova, dopo la dura battaglia combattuta dal ministro per i Beni e le attività culturali Francesco Rutelli: quella della collaborazione tra l'Italia e le istituzioni museali private americane. Rutelli lo annuncia con chiarezza già nel dicembre 2006: o il Getty cambia politica verso l'Italia e riconsegna le opere «palesemente trafugate » oppure ci sarà un embargo artistico culturale. Addio prestiti. Addio scambi scientifici tra istituzioni. La chiusura italiana avrebbe trasformato il Getty in un'isola deserta: opulenta per i pezzi esposti ma priva di collegamenti col resto dell'universo accademico.
Una condanna, per un museo che si fregia del titolo di «fondazione culturale», anche se straordinariamente ricca. Infatti il vento al Getty cambia proprio un anno fa.
Quando il nuovo direttore Michael Brand spiega la nuova «politica etica»: «Nessuna ragione al mondo potrebbe permetterci di trattenere un oggetto chiaramente rubato».
Difficile scegliere tra le meraviglie esposte. Lo stesso curatore Louis Godart, consigliere per la Conservazione del patrimonio artistico del Quirinale, sceglie con fatica: «Sicuramente sono colpito dai due fantastici marmi della tomba di Ascoli Satriano, i due Grifi che sbranano la cerva e l'immenso bacino con le Nereidi, entrambi al Getty. In quanto ai vasi, senza far torto agli altri capolavori, sceglierei il cratere col Ratto d'Europa firmato da Assteas. Amo l'immagine e il messaggio di una civiltà che si sposta dall'area assiro- palestinese verso l'Occidente ». Ancora Godart sottolinea l'aspetto istituzionale dell'operazione: «Con la mostra al Quirinale recuperiamo una parte della nostra memoria. È importante che i musei statunitensi, e non solo loro, sappiano che è ormai impossibile acquistare materiale di provenienza illegale. Ora si può passare ai prestiti, anche per lungo tempo: è la vecchia idea di creare uno spazio museale internazionale dove i capolavori della nostra grande arte classica possano far crescere culturalmente le nuove generazioni di tutto il mondo».
Primo capitolo della nuova vicenda italo-americana, l'ambiziosa mostra che il Getty organizzerà dal 5 agosto al 26 ottobre 2008: «Bernini e l'arte del Barocco», la prima in assoluto dedicata al sommo Gian Lorenzo negli Stati Uniti, con eccezionali prestiti dalla Galleria Borghese di Roma e dal Bargello e dalla collezione Corsini di Firenze. La piena collaborazione dell'Italia è la più eloquente replica alle restituzioni decise dal Getty.
Ma il ministro Francesco Rutelli non intende fermarsi qui. Sono aperte altre trattative per ulteriori restituzioni: dalla Gliptoteca di Copenhagen (quattro pezzi importanti, tra cui i resti di un carro sabino) al Cleveland museum (l'Apollo Sauroctono, straordinario bronzo che qualcuno attribuisce alla mano di Prassitele). Altri contatti sarebbero aperte con il Giappone. Ma dopo la mostra al Quirinale tutto sarà diverso. Soprattutto «eticamente» assai più semplice.

Le tappe:
1972 Il Metropolitan di New York acquista a un milione di dollari il Cratere di Eufronio, esportato illegalmente dall'Italia. È il primo acquisto «milionario» di un museo statunitense.
1977 Il Getty Museum acquista per 4 milioni di dollari l'Atleta di Lisippo ripescato nel 1964 a Fano.
1988 Il Getty acquista per 18 milioni di dollari la Venere di Morgantina.
1995 Gli investigatori italiani scoprono il deposito ginevrino del mercante Giacomo Medici: tremila opere, centinaia di foto polaroid scattate al momento dello scavo.
2005 Comincia il processo italiano contro Marion True, ex responsabile delle acquisizioni archeologiche del Getty: l'accusa è associazione per delinquere e ricettazione.
Il ministro Buttiglione ottiene la restituzione di tre pezzi. A dicembre il Metropolitan decide la restituzione di trenta reperti contestati.
2006 A novembre è crisi tra il ministero e il Getty (mentre a settembre il Fine Arts di Boston decide la restituzione di 13 pezzi). Il ministro Rutelli avverte il Getty: «Il tempo per una contrattazione amichevole sta per scadere».
Il museo americano replica: la Venere di Morgantina è nostra. Solo a dicembre si apre un vero spiraglio.
2007 Ad agosto Rutelli annuncia la «storica intesa» col Getty per la restituzione di 40 pezzi, inclusa la Venere di Morgantina che rientrerà in Italia nel 2010.

Corriere della Sera 20.12.07
Un vaso, una leggenda Zeus, l'amore, l'Oriente. Per una volta senza violenza
Europa rapita con «dolcezza» Il mito nega lo scontro di civiltà
di Eva Cantarella


«Nostoi», li hanno chiamati; «ritorni », come quelli degli eroi greci, come il celebre viaggio di Ulisse verso Itaca. Tra i capolavori rientrati uno, in particolare, ha, accanto allo straordinario valore artistico, uno speciale valore simbolico: è il celebre cratere a calice ove è rappresentato il cosiddetto «ratto di Europa», la ragazza dalla quale prende il nome il nostro continente. Di notevoli dimensioni (60 centimetri di diametro e 71,2 di altezza), il vaso proviene dall'antica città sannitica Saticula, oggi Sant'Agata dei Goti, in provincia di Benevento, e al centro della fascia a palmette che corre sotto la scena figurata reca la firma di Assteas (Assteas egrapse), noto pittore attivo a Paestum sulla metà del IV secolo avanti Cristo.
Inserendola in una cornice pentagonale, sopra i cui angoli superiori ha dipinto sei immagini, il pittore ha rievocato in questa scena il mito di Europa, la giovane, bellissima figlia del re fenicio Agenore.
Un giorno, racconta il mito, vedendo Europa che giocava con un gruppo di amiche sulla spiaggia di Tiro, sulle coste dell'Asia minore, Zeus se ne innamorò, e abituato com'era a soddisfare i suoi desideri ricorse a una delle tante metamorfosi di cui usava servirsi per raggiungere i suoi scopi. Nella specie, assunse l'aspetto di un bellissimo toro bianco, e andò a stendersi ai piedi di Europa. Affascinata dalla sua docilità, la ragazza dapprima accarezzò il suo mantello, poi lo abbracciò, infine salì sulla sua groppa: e a questo punto il toro, con il preziosissimo carico, si gettò nelle acque del mare, e nuotò sempre più lontano, oltre Cipro e il Dodecanneso, fino a raggiungere Creta.
Il mito di Europa, dunque, lega il nostro continente a quello asiatico da un rapporto che, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, non è una delle tante violenze sessuali di cui la mitologia greca abbonda. I greci, come il vaso dimostra, vedevano la storia tra Europa e Zeus come una storia d'amore: perché mai, se non l'avesse considerata tale, il pittore avrebbe inserito, nel cielo, sopra la testa di Europa, l'immagine di Pothos, simbolo di un desiderio amoroso chiaramente ricambiato. L'atteggiamento di Europa, inoltre -mentre il toro nuota in un mare in cui, tra pesci e altri animali marini stanno Scilla (con in mano un tridente) e Tritone (con in mano un remo)- non è affatto quello di una donna spaventata, atterrita da una minaccia o un pericolo. A questo si aggiunga che sopra gli angoli superiori della cornice in cui è inserita la scena principale, Assteas ha dipinto, a destra, un piccolo Eros, la dea dell'amore Afrodite e Adone. Se avesse voluto rappresentare una scena di violenza, presumibilmente avrebbe scelto personaggi diversi. E per finire a favore dell'interpretazione «amorosa» del mito interviene il seguito della storia di Zeus ed Europa: quando finalmente tocca la terra di Creta, il toro divino cerca un luogo adatto a celebrare l'unione, e individua un platano secolare, alla cui ombra appaga finalmente il suo desiderio. Quindi, per ringraziare l'albero che ha offerto riparo al suo amore, gli concede due doni. Il primo è quello di non perdere mai le foglie (ecco perché il platanus orientalis, come i botanici chiamano la varietà mediterranea, è l'unico tipo di platano sempreverde); il secondo consiste nella capacità di rendere feconde le giovani spose che dormiranno sotto i suoi rami. Difficile a credere, ma ancora oggi i cretesi attribuiscono questo potere a un lontanissimo erede del platano originario, che si trova nel perimetro degli scavi dell'antica città di Gortina, e raccontano che sino a pochi anni or sono a volte, al mattino, al mattino, di trovare giovani donne addormentate alla sua ombra. Ma questo non è tutto: a confermare il legame amoroso tra Zeus ed Europa sta il fatto che questa diede al dio tre figli, uno dei quali era Minosse, il primo, mitico legislatore cretese, che nell'Odissea, durante la visita di Ulisse all'Ade, viene presentato come giudice delle anime, e come tale ritorna nel mito platonico delle anime, al termine del Gorgia.
Uno dei personaggi mitici più importanti per i greci, dunque, è figlio della ragazza venuta dall'Asia: il mito di Europa stava a segnalare il legame profondo tra Oriente e Occidente, non ancora turbato dall'inimicizia che sarebbe esplosa, secoli dopo, di fronte alla minaccia persiana. E' molto importante che il cratere di Assteas sia rientrato in Europa. Quel che esso ricordava ai greci è qualcosa che anche noi dovremmo ricordare, molto più spesso di quanto non facciamo.

Corriere della Sera Roma 20.12.07
In mostra a Palazzo Massimo. Rosso Pompei, lo stupore è qui
di Lauretta Colonnelli


Arrivano a Palazzo Massimo gli affreschi più belli distaccati dagli edifici di Pompei ed Ercolano
Si apre oggi a Palazzo Massimo alle Terme, la mostra «Rosso pompeiano», con 108 opere, le più famose della collezione del museo archeologico di Napoli.
Si tratta di affreschi provenienti dalle ville vesuviane, che sono stati ritrovati nelle campagne di scavo, dal Settecento ai nostri giorni.

Rita Paris, che dirige il museo nazionale di Palazzo Massimo, lo chiama «il filo d'oro». È quello che unisce la pittura parietale romana a quella campana, soprattutto di Pompei ed Ercolano. Ora Paris, con la collaborazione della soprintendenza archeologica di Roma e di quelle di Napoli e Caserta, ha organizzato una mostra che già dal titolo evoca scenari di magnificenza: «Rosso pompeiano».
Nel museo romano sono arrivati, direttamente da quello archeologico di Napoli, 108 dipinti parietali, i più belli e famosi della collezione che annovera 4.500 opere. Si tratta di frammenti incorniciati di affreschi distaccati dagli edifici di Pompei, Stabia, Boscotrecase ed Ercolano, che a partire dalla stagione degli scavi del 1700 confluirono nella raccolta del museo napoletano.
La scelta di Angelo Bottini, Maria Luisa Nava, Rita Paris, Rosanna Friggeri e Mariarosa Borriello, curatori della mostra, non è stata casuale. Palazzo Massimo infatti custodisce al secondo piano la collezione di pittura romana più prestigiosa al mondo, con intere stanze dipinte provenienti dalle ville Farnesina e di Castel di Guido e dalla villa di Livia a Prima Porta. È stupefacente vedere a pochi pasi di distanza il giardino dipinto sulle pareti di quest'ultima e quello ritrovato una ventina di anni fa a Pompei nella Casa del Bracciale d'Oro.
A un primo sguardo le due pitture sembrano eseguite dalla stessa mano. Entrambe raffigurano una grande varietà di fiori, cespugli e arbusti che si stagliano rigogliosi contro un cielo azzurro dove volteggiano uccelli di ogni specie. Entrambe appartengono al raffinato «terzo stile», in auge in epoca giulio- claudia. «Il giardino della Villa di Livia è il più antico - precisa Rosanna Friggeri - e risale al 30 avanti Cristo. Divenne il prototipo di tutte le successive pitture con giardini. L'affresco della Casa del Bracciale d'Oro è databile a dieci anni più tardi, al 20 avanti Cristo. Potrebbe essere dello stesso artista, ma studiandolo, abbiamo notato piccole differenze».
Sta di fatto che i pittori di Roma lavoravano spesso anche a Pompei, città di poca importanza dal punto di vista politico, ma affollata da famiglie molto ricche, che si potevano permettere l'acquisto del famoso «rosso pompeiano», conosciuto oggi come cinabro: un pigmento che dava risultati sontuosi, ma anche molto costoso, composto da terra mescolata a vari ossidi di ferro. Era indice di lusso e veniva usato con estrema parsimonia. I più ricchi, per ostentazione, lo spalmavano su pareti intere.

ROSSO POMPEIANO. Palazzo Massimo alle Terme, largo di villa Paretti 1, tel. 06.39967700. Fino al 30 marzo, tutti i giorni dalle 9 alle 19,45. Chiuso il lunedì, il 25 dicembre e il 1 gennaio. Catalogo Electa.

Italia Oggi 19.12.07
È nato il governo Crozza
di Franco Bechis


Il governo di Romano Prodi ha chiesto a quello francese di spingere Air France a mettersi d'accordo con Air One e Banca Intesa presentando una proposta comune sull'acquisto di Alitalia. Che su richiesta di Walter Veltroni o di Maurizio Crozza (non è ancora chiarissimo) verrà acquistata dai francesi ma anche dagli abruzzesi ma anche dalla prima banca italiana, che è lombarda. Così d'altra parte aveva chiesto il segretario del Partito democratico nella lunga intervista pubblicata martedì sulla prima pagina de Il Foglio. Un testo che ha lasciato qualche dubbio in chi leggeva: non pochi avevano infatti immaginato una beffa di Giuliano Ferrara. Perché mai il nuovo leader del Partito democratico si era calato così perfettamente nei panni della sua caricatura più nota e riuscita. Solo il Maurizio Crozza-ma-anche-Veltroni poteva rispondere così alla domanda su quale compratore- Air One-Gruppo Intesa o Air France- avrebbe preferito per Alitalia: "La cosa che mi piacerebbe di più è che le proposte di Air France e Air One si incrociassero. Per garantire la forza di un soggetto come Air France e la forza di un soggetto finanziario come banca Intesa, e al tempo stesso però il radicamento nel paese di una compagnia nazionale. Conta l'offerta che viene fatta, contano le strategie industriali, conta sapere per il paese che esito avrà la sua compagnia nazionale". Triplo salto, che nemmeno Crozza avrebbe mai immaginato: uno, ma anche il suo opposto, ma anche la via di mezzo. Un sogno, e non sorprende che esca dal politico sognatore per eccellenza. Uno che nella stessa intervista dice a proposito del mancato registro romano sulle coppie di fatto: "Alla mia domanda ai presentatori della proposta del registro sulle coppie di fatto, 'cosa cambia nella vita delle coppie di fatto di cui parliamo?', la risposta è 'Nulla, ma ha un valore simbolico'. Ecco a me piacciono le cose concrete. Mi piace dedicare una strada a un omosessuale che è stato ucciso e che è vittima dell'omofobia. Mi piacciono le cose che hanno una loro concretezza nella vita delle persone". Beh, a parte il finale grottesco di una via dedicata a un morto che ha però "concretezza nella vita delle persone", Veltroni è proprio fatto così. Un taglio di nastro, una targa commemorativa nelle sue mani restano il nulla che sono ma anche diventano tutto. Crozza ci sorride, ma quello è davvero un metodo di governo. Basta ripercorrere gli ultimi anni a Roma. Immaginarsi la città moderna, profondamente cambiata, ripulita, senza traffico descritta in questi anni dalla stampa locale. Tenersi a mente i nastri tagliati, le cerimonie ufficiali, l'agiografia di Veltroni. Fissarla nella mente, e provare ad andare in giro: sulle prime non sembrerà così, ma alla fine ci si convincerà. Un po' di realtà ma anche tanta immaginazione, e si vive tutti meglio.
Se davvero Alitalia riuscirà ad andare ad Air France, ma anche ad Air One, ma anche a Banca Intesa, non resterà che arrendersi: il metodo Crozza è quello giusto, vincente. Si varerà una legge proporzionale ma anche maggioritaria, che regala tutto ai due partiti principali (Pdl e Pd): è il Vassallum. Si tiferà per la Juventus ma anche per la Roma, come ha già fatto Veltroni in questi anni. Per l'Inter, ma anche per il Milan: così finirà la violenza nel calcio. Si pagherà il canone alla Rai e anche a Mediaset, il colpo di ghigliottina ideale a tutti gli inciuci fra i due gruppi tv. Quanto al proprio credo, si andrà alla funzione il venerdì in moschea, ma anche il sabato in sinagoga, ma anche la domenica in Chiesa: un po' faticoso ma anche molto profondo, e con un bel vantaggio: dal lunedì al giovedì si potrà peccare fregandosene del Corano, ma anche del Talmud, ma anche del Vangelo. Si potranno fare coppie di fatto da sfoggiare nelle serate che contano, ma anche essere sposati per le occasioni in cui serve. Finalmente finirà il carico di lavoro che opprime tutti i tribunali: tutte le cause pendenti verrano sciolte dando ragione a uno ma anche all'altro. Crozza non lo sa, ma facendo ridere ha anche indicato a Veltroni il suo vero modello di governo per un paese. Si inizia dalla compagnia di bandiera, ma si applicherà all'intera Italia. Seppellendo sotto quel "ma anche" secoli di guerre intestine, fra guelfi e ghibellini, fra fascisti e comunisti, fra Prodi e Berlusconi...

il Riformista 20.12.07
Sinistra conversazione con Achille Occhetto
«Nella Cosa arcobaleno rivedo la mia svolta
Rifondazione è andata oltre falce e martello»
«Non serve una fusione a freddo ma una Costituente»
di Alessandro De Angelis


A sentir parlare Achille Occhetto si ha quasi l'impressione di un salto indietro nel tempo: «Persone che erano divise sul finire del secolo scorso si sono ritrovate per iniziare un cammino nuovo. In Italia c'è una questione di vita o di morte: la presenza o meno della sinistra. Non si può non vedere che siamo oltre le divisioni del '900, a nessuno è chiesta un'abiura, e tutti dovremmo muoverci verso una sinistra nuova, plurale e unitaria. Con al centro la questione di genere e ambientale che è diversa rispetto alla questione sociale del secolo scorso». Sembra l'ultimo congresso del Pci, e invece Akel sta parlando della Cosa rossa, che con la prima Cosa (quella occhettiana) sembrerebbe aver poco in comune. Ma non è così per Occhetto, che vede (o almeno ci spera) nella Cosa arcobaleno proprio lo spirito della svolta. E in una conversazione col Riformista spiega, partendo da lontano: «Con la svolta tentammo di uscire dalle macerie del comunismo autoritario, ma non per cancellare la sinistra. Tant'è che chiedemmo di aderire all'Internazionale socialista. Invece la svolta aveva dentro di sé due anime. Io proponevo una fuoriuscita da sinistra dal comunismo. Altri, il futuro gruppo dirigente del Pds, pensavano di lucrare sullo sdoganamento per entrare nel salotto buono con una prospettiva di governo fine a se stessa». Nella Cosa rossa, oggi, Occhetto avverte la possibilità di realizzare proprio quella fuoriuscita da sinistra: «Io partecipo con lo stesso spirito di allora. Sarà un'idea balzana ma penso a una sinistra con forze nuove e idee nuove, plurale e democratica nella quale anche i socialisti dovrebbero riorganizzarsi». Agli stati generali della sinistra, Occhetto si è ritrovato con chi nell'89 si oppose allo scioglimento del Pci. Ma Akel dice: «Non importano le diversità dei tragitti da cui ognuno viene, quello che conta è il sentiero nuovo su cui ci si incontra». Oltre alla svolta Occhetto richiama il primo Ulivo: «È stata la mia fissazione: ricostruire e unire dal basso ciò che il Novecento aveva diviso. Rappresentava la mia idea di carovana: tanti convogli in una coalizione unitaria. Anche l'Ulivo è stato rotto da chi non ci ha creduto. E nella nuova sinistra c'è bisogno anche dello spirito dell'Ulivo». E oggi? «Vedo due novità in campo moderato in Italia: il partito di Berlusconi e il Pd. Al crollo dell'idea storica di centrosinistra in questo paese bisogna contrapporre la vera novità: una sinistra che non è mai esistita, libertaria, femminista, ambientalista, che vada oltre l'esperienza storica del Pci e del Psi».
Come deve essere la Cosa rossa di Occhetto? «Una sinistra nuova che dica no al salotto buono della finanza, sì a innovazione e lavoro stabile; che non si limiti a criticare le armi di distruzione di massa, ma che riprenda la lotta per il disarmo generale; che ritenga assurdo che il governo di centrosinistra diminuisca le spese per la ricerca e aumenti quelle militari o che tolga la parola ai lavavetri e non combatta i racket mafiosi. E serve una sinistra che non si vergogni di criticare il capitalismo. A partire dalla riforma morale e del modello di sviluppo al cui centro ci sia la vera guerra di questo millennio: la difesa del pianeta». E insiste: «Bisogna stare attenti a coltivare l'autonomia del proprio progetto: questo significa che non ci si può proporre di stare sempre all'opposizione o di stare al governo a tutti i costi. Però, proprio come Napoleone che diceva che nello zaino di ogni soldato c'era il bastone da maresciallo, nello zaino della nuova sinistra ci deve essere il bastone del governo: fermi nei principi, ma di governo, superando la distinzione tra riformisti e radicali».
Federazione o partito della sinistra? Occhetto, come nell'89, è per la Costituente: «Un ennesimo cartello elettorale per superare una soglia di sbarramento non basta. Occorre un'idea forte capace di indicare una rotta agli sfiduciati e alle nuove generazioni senza partito. Quando dico sinistra plurale penso ad una ambizione maggioritaria: non serve una fusione a freddo di apparati, ma una vera e propria costituente delle idee». E sulla falce e martello - questione che preoccupa, e non poco, il popolo di Rifondazione - Akel, che quel simbolo lo tolse, seppure tra le lacrime, vent'anni fa, non drammatizza: «Va tolta perché divide. Lo dico senza disprezzo. Anche perché Rifondazione è andata già oltre quel simbolo. Il gruppo dirigente si sta muovendo su una linea che ha come obiettivo una nuova sinistra, non la conservazione delle vecchie identità. Basta vedere i principi: non violenza, contraddizioni di genere, ambientali. Ma anche le parole di Bertinotti su Lombardi e sul socialismo del XXI secolo».

il Riformista 20.12.07
Onda rossa, con buona pace della Merkel
Germania, l'ascesa della Linke incalza l'Spd
Adesso c'è una maggioranza di sinistra
Tra un mese si vota in Assia e Bassa Sassonia
di Paolo Soldini


L'aritmetica della politica prepara un bel regalo di Natale alla sinistra tedesca. Magari non piacerà proprio a tutti, ma sui numeri, come si dice, c'è poco da discutere. Eccole, dunque, le cifre: la sinistra-sinistra della Linke di Oskar Lafontaine e di Lothar Bisky, secondo gli ultimi sondaggi, è sopra al 12,5% delle intenzioni di voto e, unendo i propri consensi a quelli della Spd (28,3%) e dei Verdi (tra il 9,8 e il 10%), fa sì che in Germania esista una maggioranza di sinistra certo solo potenziale, ma comunque numericamente ben definita tra il 50,6% e il 50,8%, contro un centro-destra, Cdu/Csu più liberali della Fdp, che non andrebbe oltre il 46-46,5%. I dati, emersi dai consueti sondaggi di fine anno, confermano quanto già si era delineato nel luglio scorso: il sorpasso sui Verdi e sui liberali che fa della Linke il terzo partito tedesco (oltre che il primo nei Länder dell'est) e il consolidamento di quella mitica "maggioranza a sinistra del centro" di cui parlava Willy Brandt ormai un quarto di secolo fa. Una maggioranza che si determina - e qui forse è il dato strutturale più interessante e di periodo - non più in uno scenario politico tripartito, con la Spd a sinistra, la Cdu/Csu al centro-destra e i liberali della Fdp a fare l'ago della bilancia, ma in una situazione assai più frastagliata, con un sistema ormai stabilmente a cinque partiti (o a sei nei Länder dove si afferma anche l'estrema destra o ottengono rappresentanza parlamentare movimenti al di fuori dei grandi partiti). Insomma, il sistema ha una certa tendenza alla frammentazione della quale dovrebbero, forse, cominciare a tenere conto i nostri laudatores del modello elettorale tedesco.
Ma torniamo alla Germania. L'importanza dei dati messi in luce dai sondaggi di questi giorni è tutta nel momento in cui essi arrivano. In due Länder importanti, l'Assia (nel cui territorio si trova la metropoli finanziaria di Francoforte) e la Bassa Sassonia, un tempo feudo indiscusso di Gerhard Schröder, tra meno di quaranta giorni avranno luogo elezioni in cui la "maggioranza a sinistra del centro" potrebbe centrare l'obiettivo clamoroso di scalzare dal potere la Cdu proprio nel momento in cui, grazie soprattutto al favore di cui gode la cancelliera Angela Merkel, essa pare al massimo dei consensi. Nell'Assia, se la Spd della candidata Andrea Ypsilanti dovesse decidere di allearsi oltre che con i Verdi anche con la Linke, avrebbe buone probabilità di mandare a casa il Ministerpräsident Roland Koch, esponente dell'ala dura e pura della destra Cdu, coinvolto in passato in una storiaccia di fondi neri, protagonista di una indegna campagna dai toni xenofobi e piuttosto inviso anche alla cancelliera. Più fumosa la prospettiva in Bassa Sassonia, dove una possibile coalizione rosso-rosso-verde allo stato dei sondaggi attuali non raccoglierebbe più del 46-47% delle intenzioni di voto, contro il 50-51% di Cdu e Fdp.
Della forza che le viene attribuita dai sondaggi di questi giorni, la sinistra nel suo complesso, comunque, ha motivo di gioire fino a un certo punto. Intanto, la crescita va accreditata tutta alla Linke, mentre i Verdi restano stabili e la Spd continua ad assistere sempre più preoccupata a una erosione del proprio bacino elettorale che ormai la colloca strutturalmente tra 8 e 10 punti percentuali sotto la Cdu/Csu. La crisi socialdemocratica si esprime in una mancanza di appeal sui temi sociali che è andata tutta a vantaggio della Linke. Nonostante la svolta a sinistra sancita qualche settimana fa dal congresso di Amburgo e nonostante il fatto di aver puntato i piedi su alcune importanti questioni sociali, come il salario minimo garantito e il sussidio di disoccupazione, la Spd continua a ricevere voti molto inferiori alla Linke in tutti gli item dei sondaggi che riguardano l'impegno sociale. Particolarmente significativo è il divario quando si tratta di giudicare la propensione a battersi per il riscatto economico e sociale dei Länder orientali. Qui la Linke supera nettamente, con quasi il 31% dei consensi, non solo la Spd (23,9%), ma anche la Cdu (25,3%). Paradossalmente, però, la nettissima preminenza della Linke all'est è anche la radice della sua debolezza: il partito è troppo "orientale"; sa di vecchio e suscita sospetti che non lo aiutano a costruire la sua forza negli assai più popolosi e importanti Länder dell'ovest. Solo dove è stato già "sdoganata", come nella coalizione rosso-rosso-verde di Berlino, la Linke si è liberata di quel peso. Per questo, la partecipazione al governo dell'Assia potrebbe essere di decisiva importanza.

mercoledì 19 dicembre 2007

l’Unità 19.12.07
Bertinotti sul governo: «Ho detto che il re è nudo...»
Il presidente della Camera a Milano lancia anche un grido d’allarme: la sinistra rischia di sparire
di Luigina Venturelli


UGUAGLIANZA Più che una constatazione è stato un grido d’allarme: «La sinistra è a rischio». Lanciato da fonte autorevole, il presidente della Camera Fausto Bertinotti, che già pochi giorni fa aveva espresso qualche dubbio sulla buona salute del governo Prodi: «Chi dice che il re è nudo? L’innocente. E io un po’ d’innocenza ce l’ho» ha spiegato ieri, rispondendo in proposito a una domanda del direttore del Corsera, Paolo Mieli.
Ma l’esecutivo di centrosinistra, secondo l’ex segretario di Rifondazione comunista, non è il solo ad avere qualche problema: «In Italia e in Europa non è detto che il futuro ci riservi la presenza della sinistra nel panorama politico». Intervenendo ieri sera alla presentazione della rivista Alternativa per il socialismo alla Camera del lavoro di Milano, il presidente di Montecitorio ha infatti tirato le somme sui pericoli e sulle sfide che il socialismo si trova ad affrontare in un mondo «sconvolto dalla modernizzazione» del lavoro e dell’economia. «La sinistra a rischio è quella che si pone il tema dell’uguaglianza e che in Italia si è identificata nel movimento operaio».
Secondo Bertinotti, infatti, «una parte importante della sinistra è tornata a pensarsi come sinistra liberale, combattendo con la destra sul piano dell’efficacia e dell’efficienza». Il riferimento implicito è al Partito democratico, che non pone più l'uguaglianza al centro della propria azione: «Norberto Bobbio non ne sarebbe contento».
La sinistra a cui pensa il presidente della Camera, nel suo «ottimismo della disperazione», deve essere invece portatrice di «lotta alla diseguaglianza», intercettando i conflitti che nella società attuale restano senza voce. Ovvero, il mondo del lavoro. Fausto Bertinotti ha quindi ricordato l’incidente all’acciaieria ThyssenKrupp di Torino che ha provocato la morte di cinque persone: «È come se su quei cancelli fosse calata una saracinesca, a segnare la separazione di due mondi, quello interno e quello esterno alla fabbrica». Quasi non c’è più traccia di tutta l’attività fatta negli anni «per aprire quei cancelli e portarvi la democrazia».
Ma se quella ampia e sfruttata compagine lavorativa rimane muta, allora sono vani anche gli sforzi per ricostruire una sinistra per l’uguaglianza. La sfida della sinistra, secondo il leader carismatico di Rifondazione comunista, è questa: raggiungere «quelle parti della società» e costruire un nuovo progetto politico «reindagando le nuove forme di sfruttamento e le nuove domande di libertà e diritti».
Insomma, ha tracciato la strada che la nascente Cosa rossa dovrà percorrere. Perchè «l’idea di riforma della società contenuta nel programma di questa maggioranza non si è realizzata» e qualche correzione andrà pur fatta.

Corriere della Sera 19.12.07
Legge elettorale Il presidente della Camera: sinistra a rischio in Italia e in Europa
Bertinotti: le riforme? Ottimista disperato
di Marco Cremonesi


MILANO — Sulla legge elettorale, Fausto Bertinotti nutre quantomeno «l'ottimismo della disperazione». È sui destini della sinistra che sembra assai più amaro: «La sinistra è a rischio in Europa e in Italia». Addirittura, «quella sinistra che si pone il tema dell'uguaglianza rischia di morire».
In Camera del lavoro, a Milano, il direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli intervista il presidente della Camera per la presentazione della nuova rivista «Alternative per il socialismo». Bertinotti si dice convinto che la riforma della legge elettorale sia «non soltanto necessaria ma anche possibile. Guardate la distanza delle persone dalla politica, guardate il disinteresse. E poi pensate cosa succederebbe se si andasse avanti con l'attuale assetto. Non si salverebbe nessuno, sarebbe un disastro chiunque vincesse». Per questo, appunto, lui nutre «l'ottimismo della disperazione». E anche alla domanda sul perché della recente sortita sul «fallimento» del governo, Bertinotti ha spiegato che «semplicemente, quando si è in una situazione come questa, bisogna iniziare a prospettarne una diversa. Chi ci vuole provare, deve cominciare anche a ragionarci». E comunque, «tutti possono constatare che quell'idea di riforma dall'alto non si è realizzata. Io ho solo detto che il re è nudo ».
Ma, appunto, i toni più dolenti sono quelli riservati al socialismo «in senso storico». Bertinotti accoglie il riconoscimento di Mieli — quello di rappresentare l'area che più ha saputo compiere passi avanti» rispetto alla provenienza storica. Il problema, però, è il futuro. Quello in cui la sinistra che ancora si pone il tema dell'uguaglianza è marginalizzata. Bertinotti racconta la sensazione di gelo di fronte ai cancelli della Thyssen: «È come se fosse calata una saracinesca a segnare due mondi. Loro là dentro a lavorare e morire, il resto del mondo fuori. Come per i giovani delle banlieue: voi siete fuori». Dunque, proprio sulla solitudine degli operai, e degli altri «mondi», che Bertinotti individua la «sfida più grande: la ricostruzione di un soggetto che non sia residuo identitario ma pesi nella società». E qui, sarà necessaria «la rivalutazione dei partiti nella società, fuori da quelli non c'è salvezza democratica» .
Questo spiega anche i toni accesi nei confronti del partito democratico: «Difficile collaborare se prevale la linea alla Giddens o alla Blair, per cui destra e sinistra sono innominabili ». Diverso lo scenario se ci sarà «almeno «il riconoscimento dei nostri temi». E certamente, con il Pd si accenderà «la sfida per l'egemonia. Che è la capacità di formare il senso comune, di parlare non soltanto alla propria gente».

l’Unità 19.12.07
Il no alle unioni civili. Non doveva accadere
di Roberto Cotroneo


Se la considerassimo una gaffe, faremmo un errore di sottovalutazione. Se dicessimo che è stato un errore politico probabilmente capiremmo molto poco di quello che è accaduto ieri a Roma, in consiglio comunale, con la bocciatura del «Registro delle unioni civili» già istituito in varie altre città, come Padova, Ancona, o Bari. Perché Roma è la città amministrata dal segretario del Partito Democratico. Perché Roma dovrebbe essere il modello di un Paese che cambia. E invece ha ragione chi dice che quarant’anni fa eravamo più laici e più civili. La Chiesa faceva la sue debite pressioni, lo Stato laico si comportava da Stato laico. Punto. Dunque sì al divorzio, dunque sì alla legge sull’aborto. Sembrava un cataclisma, ed era solo un po’ di modernità e di civiltà, che non ha prodotto cataclismi. Tutt’altro. E adesso?
1. Adesso sappiamo quanto la Chiesa stia perseguendo la strada di un ritorno al braccio di ferro, quello vero. Adesso vediamo quanto si cerchi di influenzare la politica, e in modo trasversale, affinché tutte le conquiste della cultura laica vadano a finire nel cestino.
E per fare questo la Chiesa si pone come soggetto politico: influenza, scoraggia, convince. Solo che a Roma non doveva accadere quello che è accaduto ieri. Perché Roma è la città di Walter Veltroni, e perché è la capitale di questo paese. Non si può avere la sensazione che esiste un’ambiguità, anche minima, del partito democratico sui temi della laicità, e sui diritti elementari. E non doveva accadere che, come al solito, temi che sono appartenuti nel passato alla cultura illuminata di questo paese, dall’azionismo al socialismo liberale, dai cattolici progressisti, al pensiero radicale e liberale, possano diventare appannaggio e bandiera soltanto della sinistra radicale, e talvolta con quelle consuete venature provocatorie che non dovrebbero fare da corollario a temi serissimi come questi. Per dirla tutta, ci riferiamo ai folcoloristici baci lesbo bloccati dal vigile in consiglio comunale. Non possiamo delegare temi fondamentali per il paese, alle provocazioni e al folclore un po’ idiota. Sarebbe invece il caso di farsi un bell’esame di coscienza, e chiedersi in che direzione voglia andare il partito democratico, soprattutto per capire che tipo di paese ha in mente. Se ha in mente un paese dove i diritti delle coppie di fatto sono diritti fondamentali, o se invece, dobbiamo rassegnarci a mediare di continuo con le gerarchie ecclesiastiche sempre più aggressive e determinate. Un registro delle unioni civile non ha nulla di rivoluzionario. E Roma non può essere da meno di Padova, di Bari, e di Ancona. Anzi.
2. L’intervista che ieri ha rilasciato monsignor Elio Sgreccia, presidente della Pontificia accademia per la vita, al quotidiano Repubblica è davvero sconvolgente. Monsignor Sgreccia dice sostanzialmente tre cose. La prima: siamo soddisfatti che la proposta di un Registro a Roma non sia passata. E pazienza. Poi fa intendere chiaramente la seconda cosa: se non è passata è perché noi abbiamo fatto tutte le pressioni possibili sul Comune perché non passasse. Tradotto: il comune è di centro sinistra, le pressioni sono sui consiglieri di centro sinistra. Poiché è facilmente immaginabile che Monsignor Sgreccia non faccia pressioni sui consiglieri di Rifondazione, e probabile che li abbia fatte su quelli del partito democratico. E soprattutto sull’area dentro il Pd costituita da quella che fu la Margherita.
Ed è inutile fare gli ipocriti, e fingere che non sia così. Terza cosa. La più agghiacciante, che va citata tra virgolette: «Le coppie di fatto vanno aiutate a superare le loro momentanee difficoltà per accompagnarle al matrimonio. Chi ha particolari tendenze sessuali, come gli omosessuali, non va discriminato, ma aiutato con interventi di tipo psicologico e con terapie adeguate». Parole di monsignor Sgreccia. O meglio ultime parole dell’intervista. Perché, e vai a capire il motivo, la domanda successiva del giornalista dopo affermazioni di questo genere non c’è mai. Permettiamo che sui nostri giornali laici e democratici il presidente della «Pontificia accademia per la vita» definisca gli omosessuali dei «malati da curare», e «con terapie adeguate», senza chiedere spiegazioni, senza una replica, una forma di indignazione. Ma il clima che si sta creando nel paese è questo, e l’intolleranza è purtroppo una polvere sottile che entra dappertutto.
3. Il problema politico non si può sottovalutare. Forse metà del paese è contrario a coppie di fatto o a registri civici. Ma l’altra metà è figlia di una tradizione laica, liberale e progressista, che ritiene certe conquiste, e certi diritti, fondamentali per il rispetto e la convivenza civile. Questa metà è quella che vota, di norma a sinistra (ma non solo), questa metà vorrebbe una posizione chiara dei partiti a cui fa riferimento, e a cui dà il proprio voto. La sinistra prima di essere un’area politica è una galassia culturale, con i suoi distinguo, le sue litigiosità, le sue contrapposizioni, ma anche con i suoi punti fermi. Tra i pochi punti fermi c’è la laicità dello Stato, c’è il rispetto per tutti, c’è il rivendicare una storia lunga e importante, che inizia con l’Assemblea Costituente e dovrebbe arrivare fino a oggi, e che è un patrimonio della parte migliore di questo paese. Il Partito Democratico ha dei doveri, e forse mai come oggi ha bisogno di mostrare la più assoluta chiarezza su questi temi, senza se e senza ma, come si diceva un tempo, e senza soccombere a troppo inutile folclore.
roberto@robertocotroneo.it

l’Unità 19.12.07
Unioni civili, il day after
Bindi: accordo con la sinistra
Da Rc ai Verdi, tutti contro Veltroni: «Così è laico il Pd?»
Il ministro: serve un’intesa. Radicali e Rnp: referendum
di Mariagrazia Gerina


ALLA CAPITALE, con furore. «Quello che è accaduto a Roma non sarebbe mai accaduto a Parigi, Madrid, Londra o Berlino, nonostante Veltroni si ostini a definire Roma capitale europea», attacca il socialista Enrico Boselli: «Veltroni e il Pd hanno sporcato l’immagine laica della capitale per ossequio alle gerarchie ecclesiastiche». E Franco Grillini rincara: «Quel voto fa di Roma una città a sovranità limitata, sottomessa a una dittatura clericale soft».
Il no sul Registro delle Unioni civili, anzi i no, piovuti uno dopo l’altro dall’Aula Giulio Cesare, simbolo per eccellenza della capitale laica che da secoli convive con quella cristiana, divampano. E non si placa il tam tam di accuse rivolte dai radicali e dalla Sinistra al sindaco-leader e al Pd. «Appare chiaro che sul tema della laicità il Pd è assolutamente inaffidabile», annota Franco Giordano del Prc. E il suo corrispettivo romano, Massimiliano Smeriglio, incassa: «La gestione arrogante del Pd, l’assenza del sindaco e della vice sindaco, hanno determinato anche la prima sconfitta politica di Veltroni in Campidoglio». La ricostruzione della vicenda offerta da Manuela Palermi, capogruppo di Verdi-Pdci, drammatizza ulteriormente: «Il Vaticano è pesantemente intervenuto e il Pd si è piegato, mentre Veltroni ha addirittura scelto di non essere presente». Per il Verde Angelo Bonelli «il voto congiunto di Pd, Fi, An e Udc che ha affossato il Registro delle Unioni civili», adottato in altre città d’Italia, è un ritorno a «vent’anni fa, quando l’aula Giulio Cesare era controllata dalla Dc». E l’Arcigay si dice preoccupato: «per quello che potrà accadere in parlamento con lo spostamento Oltretevere della linea politica del Pd». Assente il giorno dopo dal coro degli accusanti Sd, che, dopo aver difeso l’istituzione del Registro delle Unioni civili, in aula fino all’ultimo ha cercato margine per un ordine del giorno di tutta la maggioranza, a fronte del quale il Pd avrebbe ritirato anche il suo testo. L’esito è noto: tentativo fallito e bocciatura incrociata.
E adesso? Radicali e Rnp puntano a un referendum consultivo che chiami i cittadini della capitale a pronunciarsi sull’opportunità di istituire a Roma un Registro delle Unioni civili. Obiettivo: raccogliere dal 15 gennaio 2008 le 50 mila firme necessarie entro i 3 mesi previsti e portare i romani al voto in occasione delle provinciali di primavera o al massimo in autunno: «Basterà che un terzo degli aventi diritto si pronunci».
Molto diversa la lettura del ministro della Famiglia Rosy Bindi: «Ho lavorato perché ci fosse una legge nazionale sui diritti e i doveri dei conviventi, perché non credo che spetti ai Comuni regolare materie come questa. Il voto del Campidoglio è stato un voto corretto, ispirato alla Costituzione». E però su un piano politico il ministro dei Dico non rinuncia a trarre una lezione critica: «Certo il Pd non può rassegnarsi a fare da solo e a non cercare anche su questi temi l’accordo e la sintesi con la sinistra». Nel futuro immediato le luci non sono molte: «Il Parlamento è sovrano e ad oggi dobbiamo prenderne atto non c’è una maggioranza per approvare i Dico». Ma - aggiunge - «non ci sarà neppure per approvare la proposta Salvi che peraltro presenta profili di incostituzionalità». Quella proposta che invece Veltroni ieri sul Foglio definiva «una buona base da cui partire» per vedere riconosciute in Parlamento le Unioni civili.

l’Unità 19.12.07
Liberazione: «A Roma nasce il Vati-doglio»


«Il Pd fa retromarcia, niente registro delle unioni civili in Comune» recitava ieri il titolo di «Liberazione», coniando anche il neologismo «Vati-doglio», somma di Vaticano più Campidoglio. Il quotidiano di Rifondazione Comunista «ricostruisce»: «C’era l’idea di farlo, ma un incontro tra il sindaco-segretario Pd e il cadinal Bertone ha fermato tutto». Insomma, «no, a Roma no».

l’Unità 19.12.07
IL SEGRETARIO PD Dalle coppie di fatto alla legge elettorale, dal congresso del partito alla laicità il leader decide di non rispondere
Veltroni non cambia linea: «Non seguiamo il teatrino»
di Bruno Miserendino


Il motto è sempre lo stesso: «Si va avanti». Veltroni lo ripete ai collaboratori, a tutte le riunioni della giornata. Andare avanti, senza rispondere alle polemiche dirette. Che sono tante, soprattutto sul tema della laicità, dopo la spaccatura in Campidoglio sul registro delle unioni civili. La sinistra radicale attacca, Boselli vuole un referendum. Tema: «Il Pd dà retta al Vaticano». «Non andiamo dietro al teatrino», sussurrano in Campidoglio. Replica che vale su diversi argomenti.
Ecco, se non fosse per la moratoria sulla pena di morte, successo che la città di Roma e il sindaco celebrano come propri, ieri sarebbe stata una brutta giornata. Il decreto sicurezza, su cui Veltroni si è speso molto, sull’onda di un efferato omicidio da parte di un romeno, sta decadendo e bisognerà farne un altro, anche per evitare guai drammatici al governo. Sulla legge elettorale si va verso un prevedibile rinvio a gennaio, quando un complicato vertice di maggioranza, dovrebbe stabilire una linea che al momento non c’è. I fronti sono diversi, e soprattutto sul decreto sicurezza Veltroni non ha alcuna responsabilità («abbiamo spinto per farlo ma non per scriverlo male», dicono al Pd). Però un filo che lega gli eventi c’è. Il segretario è nel mirino, e come è ovvio, appena si presenta l’occasione, alleati e avversari non fanno sconti.
Sul tema laicità ieri Veltroni ha usato una tecnica consolidata: lasciare che le polemiche si sgonfino da sole. Del resto sull’argomento la sua difesa è nota: «Il Comune ha garantito diritti uguali a tutti i conviventi e questo è il massimo che si può fare in Italia a legislazione vigente». «Roma è la città che si costituisce parte civile se c’è un’aggressione a un gay». Veltroni è favorevole, (l’ha ripetuto ieri in una lunga conversazione col Foglio), ai Cus, ossia al riconoscimento delle unioni di fatto. Ma in attesa che l’Italia si doti di una legge, perché inseguire solo «un simbolo», come il registro delle unioni civili, che al momento non serve a niente? E che anzi, sicuramente divide il centrosinistra e lo stesso Pd, e serve solo a far dire alla sinistra radicale che senza di lei Veltroni non può governare?
«I Cus sono una buona base su cui ragionare - dice il leader del Pd al Foglio - ma non mi piace tra i cattolici, tanto quanto non mi piace tra i laici, quando si utilizzano vicende di questa delicatezza a fini simbolici. Alla mia domanda ai presentatori della proposta del registro delle coppie di fatto, cosa cambia nella vita reale di queste coppie, la risposta è: nulla, ma ha un valore simbolico. Ecco a me piacciono le cose concrete...». Il segretario del Pd l’aveva detto anche a Milano, all’assemblea costituente: «Vedrete che sui temi etici, sulla religione, capiterà che nel partito ci si divide. È normale, e bisognerà discutere». Per questo Veltroni non vuole drammatizzare, ma la sua linea è chiara: non si può fare un partito che del mescolamento delle culture e delle sensibilità fa la sua ragion d’essere, e poi decidere su un argomento facendo finta che una cultura e una sensibilità non ci siano.
In realtà Veltroni sa che sia nel Pd, sia nella maggioranza, in molti iniziano a mettere i bastoni tra le ruote. Nel Partito democratico il rischio che alcune componenti dei vecchi Ds e Dl si organizzino e si coalizzino è chiarissimo. L’antidoto dovrebbe essere la decisione di svolgere un congresso ogni due anni («a cominciare da quando?», è stata la battuta di un membro dell’esecutivo), ma la sostanza è che il malessere di un certo establishment sta crescendo e non tarderà a manifestarsi.
Indicative dell’accerchiamento le reazioni del centrodestra sulla vicenda del decreto. «L’opposizione - ha detto a un certo punto Roberta Pinotti, responsabile del Pd sui temi della sicurezza - sta cercando di trasformare la vicenda del decreto in una crisi della leadership di Veltroni. È una lettura assolutamente ridicola». «La verità è molto semplice: Veltroni aveva compreso un problema che interessava tutti i cittadini e aveva spinto per dare risposte e soluzioni efficaci».
Situazione ancor più seria sulla legge elettorale, dove Veltroni gioca una partita difficile. Se non si fa una buona riforma è pronto ad andare al referendum e se questo passa, è pronto a far correre da solo il Pd, «per smontare i giochi degli altri». Però al momento Prodi ha imposto uno stop evidente, su pressione dei «piccoli». E il referendum si avvicina, come dice Calderoli. In realtà la maggioranza per far andare avanti la bozza Bianco ieri c’era ed era larghissima, ma nella linea di Veltroni non ci sono riforme senza governo. Lui va avanti senza strappi, purché sia chiaro chi va avanti e chi frena.

Corriere della Sera 19.12.07
«Siete genuflessi» Bufera laica sul Pd
Sinistra e radicali attaccano. Chiti: no a nozze gay
di Lilli Garrone


Dopo il no in Campidoglio al registro delle unioni civili, i Radicali pensano a un referendum. Giordano: Pd inaffidabile sulla laicità

ROMA — Continua a dividere il «no» al Registro delle unioni civili, bocciato lunedì dal consiglio comunale di Roma. E mentre il Vaticano — dopo essere intervenuto con un editoriale sul quotidiano Avvenire, richiamando i cattolici capitolini alla coerenza — dà la notizia del voto negativo sull'Osservatore romano solo con sei righe di cronaca nelle «brevi da tutto il mondo», la polemica attraversa lo schieramento del centrosinistra. Con i Radicali, in particolare, che già promettono un referendum nella capitale.
«Non sono convinto dei matrimoni gay e non penso neppure che ci possa essere l'adozione dei figli — ha esordito ieri Vannino Chiti, il ministro per i Rapporti con il Parlamento —. Un figlio è abituato ad avere un padre e una madre, non funzionerebbe con due padri o con due madri». Ma «una questione è il matrimonio — aggiunge Chiti — un'altra cosa è che nei confronti di chi è omosessuale vi possano essere forme di discriminazione o di pregiudizio». Quindi, niente Registro per il ministro, ma «leggi», o in generale «una cultura che rifiuta le violenze sia fisiche che morali che concettuali ». Un altro ministro, Rosy Bindi, per le politiche della Famiglia, ritiene «corretto» quanto è accaduto in Campidoglio: «Non è compito dei Comuni— ha detto — stabilire diritti e doveri che spettano a una legge nazionale. Quello che serve è accedere ai servizi» e per questo basta fare riferimento alla famiglia anagrafica.
Si unisce invece al coro di proteste per il voto negativo del Campidoglio il leader dei socialisti Enrico Boselli, che ha parlato del 17 dicembre come di «una giornata nera per Roma e per i diritti civili di tutte le famiglie italiane»: «Walter Veltroni e il Pd — ha aggiunto Boselli — hanno sporcato l'immagine laica della capitale per ossequio alle gerarchie ecclesiastiche ». Per i Radicali «la classe politica romana» si è perfino «genuflessa», come ha affermato il segretario romano Massimiliano Iervolino: «Abbiamo tutta l'intenzione — ha aggiunto — di chiamare i cittadini romani a esprimersi su questo argomento ». «Il Vaticano è pesantemente intervenuto e il Pd si è piegato», accusa Manuela Palermi, capogruppo dei Verdi-Pdci a palazzo Madama. Giudizio secco quello di Franco Giordano, di Rifondazione: «Il Pd sulla laicità è fortemente inaffidabile ».
E il gioco di veti incrociati tra il Pd e la Sinistra che si è verificato in Campidoglio preoccupa l'Arcigay. In particolare per «quello che potrà accadere in Parlamento — come sottolinea il presidente Aurelio Mancuso — con lo spostamento oltre Tevere della linea politica del Partito democratico». Così il Vaticano, con «plurisecolare bravura — dice l'Arcigay — ha occupato ogni spazio del nuovo loft democratico».

Corriere della Sera 19.12.07
Lo studio di un gruppo americano guidato da un italiano
Il Dna ha una sua «musica» Registrata per la prima volta
di Giulia Ziino


MILANO — La musica? Ce l'abbiamo nel Dna. E non solo virtuosi e compositori: tutti abbiamo nelle cellule un «suono della vita». A produrlo sono i movimenti del Dna, il codice custode del nostro patrimonio genetico. Una doppia elica fatta da centinaia di anse mobili che, in un continuo assemblarsi e disassemblarsi, creano una vibrazione, la trasmettono al citoscheletro e, da qui, alla superficie delle cellule. Un brusio di sottofondo genetico che per la prima volta è stato registrato e brevettato. Il merito della scoperta va a un gruppo di ricercatori italiani e statunitensi guidati da Carlo Ventura, docente di Biologia molecolare all'università di Bologna, e dal fisico James Gimzewski dell'ateneo di Los Angeles.
«La vibrazione del Dna — ha spiegato Ventura — è compresa nell'arco di frequenze udibili dall'orecchio umano. Noi non abbiamo fatto altro che sviluppare un approccio in grado di rilevare questi suoni. Questi rumori sono in qualche modo specifici per quello che la cellula sta facendo, in termini di espressione di geni, in quel momento». In pratica, ogni cellula avrebbe la sua canzone. Quello che ancora non sappiamo è se, riproducendo determinate frequenze, sarà possibile indirizzare le cellule a differenziarsi e a compiere specifiche funzioni.
Nessuna sorpresa per Edoardo Boncinelli: «Che tutte le molecole emettessero una vibrazione era un fatto già noto — spiega lo scienziato al Corriere —, altra cosa sarebbe scoprire se a queste vibrazioni corrispondono funzioni specifiche. Ma preferisco aspettare: finché non vedo, non credo». O magari finché non ascolta: «Mi lascia perplesso il fatto che il Dna è una molecola lunghissima: se davvero ogni funzione ha un suo suono deputato ci troveremmo di fronte a una confusione indescrivibile ».

Corriere della Sera 19.12.07
Testimonianze Scrittrice, psichiatra e femminista: parla l'intellettuale egiziana che rischia la condanna per avere contestato l'ortodossia
Noi, perseguitate nel nome di Dio
«Oggi mi accusano di eresia per aver denunciato le discriminazioni patriarcali dei libri sacri Le donne nell'Islam sono oppresse da maschilismo, verginità obbligatoria, mutilazioni, velo»
di Nawal El Saadawi


La speranza
Serve un'autentica democrazia per contrastare tutte le forme di violenza e sfruttamento che colpiscono i soggetti deboli

L'opposizione ai diritti delle donne e dei poveri è universale, non esclusiva delle nostre regioni arabe o dei paesi islamici. Negli Stati Uniti l'amministrazione Bush è sostenuta dalla coalizione cristiana, che non solo è contraria ai diritti delle donne, ma dà la colpa delle rotture familiari ai movimenti di liberazione delle donne. Promuove i cosiddetti «valori della famiglia» e la «verginità» delle ragazze prima del matrimonio. Organizza i purity balls (balli della purezza), in cui viene applicato un doppio standard morale. I padri portano a questi balli le figlie per proteggere la loro verginità o conservarle pure per il matrimonio. Ma non ci sono balli simili per le madri e i figli maschi.
I delitti d'onore sono collegati alla verginità e non sono circoscritti alla cultura araba o islamica. Il concetto di verginità è radicato nell'ebraismo e nel cristianesimo. Per esempio, la Vergine Maria è la madre ideale e le monache sono velate. In Europa l'usanza di mettere il velo alle donne era limitata ai gruppi tradizionali ebraici e islamici. Oggi è sempre più comune nelle comunità di immigrati islamici in Olanda, Francia, Gran Bretagna, Belgio e in altri paesi europei. A volte è accompagnata dalla mutilazione genitale femminile. Sia il velo che quest'ultima sono considerati dai capi politici e religiosi di queste comunità come appartenenti all'identità islamica, nell'ambito del cosiddetto "relativismo culturale". Questo fa parte dell'inganno e del lavaggio del cervello inflitti alle donne, in Egitto e in molti altri paesi.
La mistificazione del relativismo culturale va avanti da tre decenni, ed è una forma di violenza psicologica. La mutilazione della mente non è meno criminale di quella genitale femminile o maschile, anzi, è forse ancor più pericolosa. È usata per mutilare corpo e anima, per giustificare la violenza contro donne e poveri. Una mentalità arretrata considera i diritti delle donne un attacco diretto alla legge divina, ai valori morali e alle tradizioni sacre. La tradizioni, sacre e non, rispecchiano sistemi di potere nello Stato e nella famiglia. Esse cambiano con il tempo e il luogo. Non sono fisse, immutabili o eterne. Sono scelte selettivamente da gruppi politici per conservare le strutture capitaliste patriarcali sia globalmente che localmente. Quando le donne lottano per i diritti umani in un sistema capitalistico patriarcale, vengono etichettate come traditrici della religione, del paese, della cultura, della loro identità autentica, della morale, della castità, eccetera. Ma dobbiamo continuare a lottare, non dobbiamo farci intimorire. Dobbiamo organizzarci globalmente e localmente.
La soluzione è una lotta globale. La libertà costa cara, ma il prezzo della schiavitù è ancora più alto, perciò è meglio pagare un prezzo per essere libere piuttosto che per essere schiave. Dobbiamo unirci per mobilitare uomini, donne, giovani e bambini e organizzare e instaurare un potere politico e sociale in grado di cambiare i valori e le leggi patriarcali e classiste esistenti. Per questo serve una vera democrazia. E la libertà di organizzazione e di critica. È necessaria una lotta collettiva contro la dittatura dello Stato e della famiglia, e contro la falsa coscienza creata dai mass media governativi e dal sistema scolastico. Se lo Stato stesso è fondato su patriarcato, classe e religione, come può combattere l'oppressione che è il prodotto di patriarcato, classe e religione?
L'opposizione ai diritti delle donne e dei poveri si sta diffondendo. In Egitto si sentono sempre di più gli effetti della globalizzazione e del neo-colonialismo americano, che causano una crescente povertà (il 40% degli egiziani vive sotto il livello di povertà), l'aumento del tasso di disoccupazione, il deterioramento dei servizi sanitari, scolastici e dei mass media, e il dominio di gruppi fondamentalisti retrogradi religiosi e politici.
Il 28 gennaio 2007 sono stata interrogata in tribunale dal pubblico ministero. Io e mia figlia, Mona Helmy, scrittrice e poetessa, siamo state processate con l'accusa di apostasia. Perché? Perché lei ha scritto un articolo in un settimanale, chiedendo che il cognome della madre sia rispettato e non ignorato e ha detto che avrebbe firmato i suoi articoli e i suoi libri con entrambi i cognomi, quello della madre e del padre. Il mio crimine sono i miei scritti, e anche la mia battaglia contro l'uso patriarcale della lingua nella religione e nella politica, quando affermo che Dio non è né maschio né femmina, che Dio è simbolo di giustizia, libertà e amore, come mi diceva la mia nonna contadina più di 65 anni fa. Dio è simbolo di giustizia e non un libro sfornato da una tipografia. Non c'è pace nel mondo, nelle nazioni o nelle famiglie senza giustizia. Non c'è libertà o vera democrazia senza giustizia.
Il 27 febbraio scorso Al Azhar (la più importante istituzione islamica in Egitto e in tutto il mondo islamico) mi ha accusata di apostasia ed eresia per un mio lavoro teatrale dal titolo «Al summit dei potenti Dio si dimette», pubblicato in arabo al Cairo in gennaio. In quest'opera espongo le contraddizioni e le discriminazioni patriarcali, di classe e di razza radicate nei tre libri monoteisti: l'Antico e il Nuovo Testamento e il Corano. Mostro che questi testi sono politici, che parlano di potere, denaro e sesso. Che in essi prevale il doppio standard morale: l'inferiorità delle donne rispetto agli uomini, la dittatura, il razzismo, le guerre e l'uccisione di eretici o infedeli. La maggior parte dei governi del mondo usa questi testi sacri per opprimere la popolazione. La religione è asservita al sistema politico. È usata da gruppi di potere che giustificano l'ingiustizia dicendo che è un volere divino. Nell'opera teatrale il Dio dei libri si dimette quando deve confrontarsi con le sue contraddizioni e ingiustizie.
Il revival dei movimenti religiosi fondamentalisti in tutto il mondo ha aumentato l'oppressione delle donne e dei poveri. Il pensiero creativo è condannato, perché toglie il velo alla mente ed espone i paradossi di politica, religione e sesso. In febbraio, camminando per le strade del Cairo e di Bruxelles ho incontrato giovani donne che si coprivano il capo con un velo, ma i cui jeans aderenti lasciavano scoperta la parte superiore dell'addome. Le donne sono le vittime più evidenti delle contraddizioni religiose e politiche: sono velate perché viene imposto dalla religione, e nude perché così vuole il consumismo della globalizzazione e del cosiddetto libero mercato, che è libertà per i potenti di sfruttare i deboli.
(Traduzione di Maria Sepa)

Corriere della Sera 19.12.07
Biologia La relazione tra dimensioni e sopravvivenza
Dai microbi ai giganti la sfida dell'uomo ai confini della vita
di Edoardo Boncinelli


Comun denominatore
C'è un'impressionante varietà di grandezze nei diversi organismi.
Soltanto la cellula è uguale per tutti

Potrebbe esistere un essere umano alto dieci metri? E un insetto grande come un leone? Il ponte sulla Baia di San Francisco potrebbe essere fatto di legno? Un cane potrebbe fare salti comparabili a quelli che fa la pulce, che salta anche cento volte la sua altezza? Un leopardo potrebbe galleggiare sul pelo dell'acqua come fanno alcuni particolari insetti?
Sono domande che ciascuno di noi si sarà posto almeno un volta nella vita, e alle quali si deve rispondere uniformemente di no. Perché? Perché le dimensioni sono così importanti per il possesso di certe caratteristiche e di certe facoltà biologiche? È quanto si ripromette di chiarire il bel libretto
Dai batteri alle balene. Il piccolo e il grande in biologia di John T. Bonner (Raffaello Cortina), che in meno di centocinquanta pagine ci offre una impressionante carrellata sull'importanza delle dimensioni in biologia, dall'evoluzione delle forme nelle diverse epoche, al rapporto fra le dimensioni del corpo e la durata della vita.
Per rispondere alle domande che abbiamo posto e tante altre simili occorre fare alcune considerazioni di fisica e ovviamente molte che riguardano direttamente la biologia. Che c'entra la fisica? C'entra perché anche gli esseri viventi sono entità materiali, e devono obbedire ai principi generali della fisica, la quale conduce, è noto, anche un'analisi dimensionale delle diverse grandezze, dalle più semplici, come l'entità delle superfici e dei volumi in rapporto all'altezza, alle più complesse, come la resistenza dei materiali o il dispendio energetico.
Se un corpo è lungo due volte un altro, il suo volume (e quindi la sua massa) sarà otto volte più grande e la sua superficie quattro volte maggiore. Ciò deriva da una banale considerazione geometrica, ma altre relazioni non sono altrettanto banali. La resistenza di un osso, per esempio, varia come la sua superficie e non come la sua massa, e così è per il calore irradiato da un organismo, mentre il suo metabolismo varia come una complicata potenza della sua massa. Tutto ciò è ben noto agli ingegneri, che quando eseguono prove sul modellino di un jet, di una nave o semplicemente di una turbina, devono tenere conto delle sottili relazioni tra le varie dimensioni fisiche e la grandezza complessiva.
Ora, accade che gli organismi viventi possano variare in lunghezza di ben cento milioni di volte, cioè di ben otto ordini di grandezza, dai più minuti batteri alle balene e alle sequoie.
Come variano allora tutte le altre loro diverse dimensioni? Di questo essenzialmente parla il libro, dopo un'interessante considerazione iniziale: nonostante la già notata escursione di otto ordini di grandezza lineari, che equivale a ben ventiquattro ordini di grandezza (un milione di miliardi di miliardi di volte) nella loro massa, tutti gli organismi viventi sono costruiti di cellule che hanno più o meno la stessa grandezza! L'osservazione può essere spiegata in due maniere: o all'inizio di tutto la cellula ha assunto tale dimensione e non è più cambiata nel tempo per «pigrizia » evolutiva, oppure un oggetto con le proprietà della cellula non può avere altre dimensioni che quelle che ha oggi.
Un'altra osservazione interessante riguarda l'evoluzione nel tempo delle dimensioni degli organismi. All'inizio erano ovviamente tutti piccoli; poi accanto ai piccoli, che esistono anche oggi, sono progressivamente comparsi organismi, animali e piante, sempre più grandi. Perché? Le spiegazioni potrebbero essere di due tipi, entrambe però connesse alla «nutrizione »: un animale di dimensioni maggiori cade meno frequentemente preda di altri animali e può a sua volta cibarsi di prede più grosse; una pianta di maggiori dimensioni può «catturare» più sole e in condizioni più variate. Il grafico che rappresenta l'aumento delle dimensioni massime dei vari organismi viventi nelle diverse ere mostra che tale aumento sta rapidamente arrivando a saturazione: siamo probabilmente arrivati vicino a un limite superiore; perché non si sa.
Comprensibile interesse destano anche le considerazioni sul rapporto tra la dimensione di un organismo e il tempo che intercorre tra una generazione e l'altra. È abbastanza ovvio che ci sia una relazione e una relazione crescente, ma quale? Ancora più interessante è forse la relazione fra le dimensioni di un organismo e la durata della sua vita. In tutto questo c'entra qualcosa di implicato dai principi necessari ed eterni della fisica e qualcosa di indissolubilmente legato ai capricci delle contingenze dei processi evolutivi biologici.

il Riformista 19.12.07
La difesa del filosofo dinanzi alla commissione del '45
L'insostenibile storia della denazificazione di Heidegger si arricchisce di un nuovo scoop. Peccato che è un falso
di Marco Filoni


In un libro appena uscito in Francia la presunta testimonianza originale che il filosofo rese subito dopo la guerra davanti a chi doveva decidere se radiarlo dall'università. Soltanto nella postfazione si legge, en passant, che è tutta un'invenzione dei due storici-"ventriloqui"

A prima vista si direbbe che è uno scoop editoriale. È appena uscito in Francia un volume dal titolo L'art d'enseigner de Martin Heidegger. Pour la commission de dénazification , curato dagli studiosi americani Valerie Allen e Ares Axiotis. L'interesse è grande: l'adesione al partito nazionalsocialista del filosofo ha sempre suscitato vivaci polemiche e ciclicamente torna alla ribalta come uno dei grandi temi filosofici del Novecento. Preso allora il libro in mano, alla prima pagina si legge: "Estratto del processo-verbale della deposizione di Martin Heidegger di fronte alla commissione di denazificazione dell'Università Albert-Ludwig, rilasciata a Friburgo il 23 luglio 1945". Accidenti. Non si sapeva nemmeno dell'esistenza di un tale documento. L'editore che lo pubblica, Klincksieck, è reputato e conosciuto a Parigi per i suoi volumi di filosofia. Tutto lascia supporre che si tratti veramente di una grande scoperta. Anche la stampa scientifica ha lanciato la notizia della pubblicazione parlando di evento. Qualcuno ne ha già scritto commentando le parole del filosofo.
II libricino è agile, appena 93 pagine. Continuiamo quindi a leggere la nota editoriale a pagina 42: «Il breve testo qui riprodotto segue la trascrizione ufficiale della deposizione di Martin Heidegger di fronte alla commissione di denazificazione dell'Università di Friburgo. Il testo dattiloscritto, conservato negli archivi dell'Università, è presentato in francese per la prima volta. Heidegger lesse una serie di note manoscritte preparate per questa occasione e che non sono state conservate. La commissione aveva il compito di stabilire se Heidegger avrebbe dovuto esser radiato dalla facoltà di filosofia in ragione della natura del suo insegnamento, dei suoi lavori di ricerca, oltre che delle responsabilità come rettore dell'università "Albert-Ludwig" durante il Terzo Reich, dal 21 aprile 1933 al 23 aprile 1934. La pratica istruttoria si muoveva su una doppia questione: la violazione della libertà d'insegnamento costituita dall'utilizzo dell'università come strumento di propaganda nazista, e l'influenza e la corruzione ideologica esercitata sugli studenti di filosofia.
Di fronte all'insistenza del Governo militare provvisorio delle forze alleate, che vedeva nel caso del filosofo mondialmente riconosciuto l'occasione di una misura esemplare, la commissione che doveva stabilire le responsabilità del filosofo emise un verdetto di compromesso: Heidegger fu sospeso. La sanzione durò fino al 1951, quando Heidegger riprenderà le sue funzioni di insegnante universitario. Al di là del suo valore storico, questa deposizione permette di ascoltare le riflessioni del filosofo sull'insegnamento superiore e sulla pedagogia in generale, riflessioni che non si trovano da nessuna parte nella sua opera filosofica e mai così ampiamente esposte. Staccandosi dallo stile che caratterizza la maggior parte dei suoi scritti, Heidegger adotta in questo caso un linguaggio più semplice e meno impregnato di terminologia filosofica, offrendoci un'opportunità unica, quella di ascoltare l'uomo così come si rivela nelle circostanze più gravi».
Finalmente: per anni e anni si è discusso del silenzio del filosofo, del fatto che non pronunciò mai una sola parola sulla propria compromissione col Terzo Reich. Ora abbiamo fra le mani quella parola. Vien da chiedersi come mai nessuno studioso aveva rinvenuto prima questo testo, visto che era negli archivi dell'università rivoltati in lungo e largo. Curioso anche che siano stati due americani a scovarlo e pubblicarlo. Ma tant'è. Di fronte a una perla simile, qualsiasi fugace dubbio non ha senso. Andiamo avanti nella lettura per scoprire la difesa di Heidegger davanti al tribunale - costituito non da giuristi o militari, com'era prassi, ma da universitari. Tanta l'aspettativa quanta la delusione. Arrivati in fondo non scopriamo nulla di quanto non si sapesse già.
Allora proseguiamo a leggere la postfazione dei due curatori: magari lì ci dicono come hanno scovato il testo. E alla prima riga leggiamo: «Così avrebbe potuto parlare Martin Heidegger. Il quale, in realtà, non parlò così». Inutile indugiare. Eh sì: è proprio così. Tutto quanto letto finora non è di Heidegger, ma si tratta di un testo redatto dai curatori Allen e Axiotis. Hanno immaginato cosa avrebbe potuto dire il filosofo di fronte alla commissione dalla quale fu effettivamente giudicato. In definitiva, una bufala! Che si scopre solamente alla pagina 47 del libro. La copertina non ne fa menzione. Tanto meno le bandelle. I due ricercatori americani hanno scritto una difesa fittizia, nella quale si può ammirare il punto di vista di Heidegger. Talmente heideggeriano che elude ogni reale e importante questione: non dice una parola sulle accuse, queste reali, delle quali doveva rispondere il filosofo. Non dice nulla della propaganda sugli studenti, sul culto del Führer, sulle accuse di antisemitismo. Questioni sulle quali non esprimerà mai alcun rimorso né scuse. Il libro alla fine è un puro esercizio di retorica (tanto che inaugura una collana che si chiama "Poteri della persuasione"). Gli autori fanno i ventriloqui di Heidegger. E forse si sono presi un po' troppo sul serio, volendo rifare quello che fece Platone scrivendo l'Apologia di Socrate. Ma di questa apologia di Heidegger se ne poteva fare volentieri a meno. Nella forma, visto che il lettore è indotto a credere che si tratti di un testo originale - ma qui ha forse qualche responsabilità l'editore, che ha condotto un'operazione di marketing un po' truffaldina e scorretta. E anche nel contenuto: perché se è vero che Heidegger è stato un grande filosofo, scrivere l'apologia in merito alla sua adesione al nazismo è operazione quanto meno dubbia. Socrate accettò la morte per difendere le proprie idee. Heidegger non accettò nemmeno di discutere quelle idee che lo portarono al nazionalsocialismo. Una volta tanto, bisogna essere un po' moralisti: ci sono apologie che vanno scritte. Altre, invece, no.

il Riformista Lettere 19.12.07
Il triangolo no (ma l'avevo considerato)
Il modello Ariccia
di Paolo Izzo


Caro direttore, dall'inizio di dicembre è andato delineandosi il "triangolo di fatto" Veltroni-Vaticano-Berlusconi e come giustamente preconizzava Renato Zero negli anni '70, da formazioni geometriche come questa c'è poco di buono da aspettarsi. Infatti, un primo risultato della neonata triplice alleanza è la bocciatura di un registro romano delle unioni civili. Ora, ai laici che - strenuamente - vivono ancora all'ombra del Cupolone non resta che emigrare, per far valere i propri diritti. I ricchi potranno andare in Spagna; i meno abbienti dovranno optare per un cambio di residenza all'interno della stessa regione (diritto ancora esistente, mi pare): da Roma ad Ariccia, dove il registro c'è e il Triangolo no.

il Riformista 19.12.07
Il segretario di Rifondazione parla di laicità e legge elettorale
Giordano rimpiange la (laica) Dc di De Gasperi
«Col Vaticano si mediava, oggi col PD non avremmo il divorzio. Perplesso per la parole di Veltroni sui cattolici»
di Alessandro De Angelis


«Di referendum non ne voglio nemmeno parlare. Mi batterò con le unghie e con i denti in Parlamento per arrivare al modello tedesco». Risponde così il segretario di Rifondazione Franco Giordano a Walter Veltroni, che nell’intervista al Foglio di ieri aveva affermato: «Se in caso di referendum ognuno di noi dicesse che alle elezioni andrà da solo si introdurrebbe per virtù personale ciò che l’assetto non consente». Giordano non si mostra preoccupato sul capitolo legge elettorale. E, soprattutto, non considera inevitabile il referendum: «Non mi pare di essere un bersaglio dell’incursione di Veltroni. Il segretario del Pd ha voluto disilludere i piccoli partiti che, in caso di referendum, sperano di trovare posti in un listone. Io, ripeto, non prendo in considerazione né il referendum né il listone». E aggiunge: «Noi vogliamo una legge “tedesca” che consenta alleanze non coatte. Lo dico in altri termini: l’accordo di governo deve essere una libera scelta. Valuteremo se si farà col Pd o meno ma il punto di partenza è che la rappresentanza deve essere libera, ripeto: libera». La bozza Bianco, per Giordano, non è archiviata, anzi: «Quel testo - dice il segretario del Prc - non è né il modello spagnolo né il vassallum. E ci si può avvicinare al tedesco garantendo maggiore proporzionalità attraverso due modifiche: il voto disgiunto e il recupero nazionale dei resti. Sono le due condizioni che poniamo».
Ma l’intervista di Veltroni non è piaciuta affatto al segretario di Rifondazione su altri temi. Uno su tutti: la laicità. E qui Giordano la mette giù dura: «Le affermazioni di Veltroni sui cattolici esprimono un arretramento culturale. Con una concezione come la sua, dice bene Miriam Mafai su Repubblica, oggi non approveremmo la legge sul divorzio. Il punto è che per la prima volta nella storia del paese il punto di vista delle gerarchie ecclesiastiche non viene mediato da soggetti politici. La Dc di De Gasperi mediava e sapeva anche resistere alle pressioni del Vaticano, oggi col Pd le gerarchie intervengono direttamente nella produzione legislativa. È un cambiamento storico. In peggio: oggi la laicità è a rischio». Tra tutti, il fattore maggiore che la mette a rischio sembra essere, per Giordano, proprio il partito di Veltroni: «Il Pd non è come le socialdemocrazie europee. Mi limito a constatare che ogni volta che si deve esprimere sui temi della laicità, dal Comune di Roma al Parlamento, non è autonomo, non ce la fa». Le cause, per Giordano, non stanno solo nei rapporti di forza all’interno di quel partito ma in un motivo «più di fondo», culturale: «Mi lasciano perplesso le parole di Veltroni sui cattolici. Sono decenni che diciamo che la rappresentanza dei cattolici in politica è plurale. Ognuno di noi è tante cose, lavoratore, credente, non credente e altro ancora. Come dice Amartya Sen va superata la logica delle identità statiche. E, infatti, tanti cattolici militano a sinistra, nel volontariato ad esempio. La rappresentazione che Veltroni dà del mondo cattolico non è soltanto statica: è ideologica».
Il Pd, per Giordano, non è immune da responsabilità neppure sul piano del governo: «La nascita del Pd ha rotto l’Unione, e lo si vede quotidianamente nell’azione del governo. Noi abbiamo chiesto una verifica e sul suo esito consulteremo i nostri iscritti. È evidente che non posso stare al governo a dispetto dei santi, né posso fare la comparsa». Poi elenca i temi su cui Rifondazione darà battaglia (al governo e al Pd). Il primo: «La lotta alla precarietà, per cominciare: si riparte da dove ci siamo impantanati col Protocollo. La precarietà non è solo un fatto sociale, è una condizione esistenziale. E i salari. In questo paese sette milioni di lavoratori sono sotto i mille euro. Siamo gli ultimi in Europa seguiti dal Portogallo. E il Pd fa la stessa proposta di Confindustria, agganciare i salari alla produttività».
Il problema, per Giordano, non è più rinviabile: «In quella maledetta acciaieria della Thyssen tutti i temi che abbiamo sollevato sono confluiti in una miscela esplosiva e drammatica: la sicurezza sul lavoro, gli straordinari, i salari, il lavoro usurante. Dobbiamo affrontare il problema alla radice. Visto che la globalizzazione travolge diritti e tutele e introietta il lavoro nel ciclo produttivo bisogna affrontarla con la lotta alla precarietà. Mi auguro che il sindacato sia d’accordo ma rivendico l’autonomia, come forza di sinistra, per occuparmene». Il secondo: «La legge Amato Ferrero sta ferma perché al fondo di questa maggioranza c’è l’idea sbagliata che sull’immigrazione l’aspetto sociale sia secondario rispetto a quello dell’ordine pubblico». Il terzo: «La lotta al disarmo. Vanno tagliate le spese militari e investiti i soldi che se ne ricavano in innovazione e ricerca». Il quarto: «Riguarda la laicità. Vanno riprese tutte le questioni accantonate, dalla legge 40 ai diritti delle coppie di fatto». Prodi è avvisato. Ma a quanto pare il Prc si prepara a verificare anche i rapporti con Veltroni.

Liberazione 19.12.07
Riforma elettorale con referendum "corretto"
Il patto ammazza-tutti tra Veltroni e Berlusconi
di Piero Sansonetti


Walter Veltroni (al quale questo giornale, con una certa assiduità, rivolge critiche di vario genere) ha rilasciato ieri una lunghissima intervista al "Foglio". Questa intervista scorre via per sette colonne e mezzo (cioè per la sua quasi interezza) con considerazioni a volte discutibili e a volte condivisibili, ma sempre sul filo del buonsenso e della saggezza (anche se con punte nettamente conservatrici, specialmente sulla politica internazionale). Poi, nelle ultime righe, si accende, e si accende sul delicatissimo argomento della riforma elettorale. Dice Veltroni: io preferisco il sistema francese, siccome però mi pare che piaccia a pochi, e siccome il tedesco puro (cioè proporzionale con sbarramento) non mi piace per niente, allora preferisco andare al referendum dopo aver siglato un patto d'onore con Berlusconi, nel quale si stabilisca che alle elezioni Pd e berlusconiani correranno da soli, cioè senza allearsi con nessuno, né con Rifondazione, a sinistra, né con An o Lega a destra.
Le leggi elettorali sono sempre cose complicate (ma importanti, perché da esse dipende il grado di democrazia politica in ogni paese) e allora converrà spiegare un pochino gli arcani meccanismi. Prima ipotesi di Veltroni, sistema francese: si vota in ogni colleggio per un candidato, i due che prendono più voti vanno al ballottaggio e uno dei due viene eletto. I partiti che non hanno candidati in grado di arrivare entro i primi due posti (quindi quasi tutti i partiti tranne i due più forti) o si alleano coi più forti o restano fuori dal Parlamento. Dal momento che nell'intervista, Veltroni propone a Berlusconi il patto di non-alleanza, se ne deduce che - se passa il sistema elettorale francese - nel prossimo parlamento ci sarà il biparittismo puro, e circa la metà dell'elettorato non potrà eleggere i proprio rappresentanti.
Seconda ipotesi, referendum, anche qui con patto di non-alleanza. Il referenum prevede la proporzionale (quindi ciascuno avrà parlamentari in proporzione ai voti presi) però con una correzione fortissima dovuta al premio di maggioranza. Questo premio assegna la maggioranza dei seggi (credo il 55 per cento) al partito che prende più voti. Col patto di non-alleanza questo partito sarà o il Pd o il partito di Berlusconi, e in questo modo uno di questi due partiti, pur rappresentando circa un quarto dell'elettorato, riceverà il 55 per cento dei seggi, cioè un premio del 30 per cento e potrà governare da solo e senza vincoli. Il Parlamento conterà poco o niente. I partiti minori vedranno dimezzata la loro rappresentanza.
Ora io cercherò di stare attento alle parole che uso, perché tutti mi dicono che quando polemizzo con Veltroni esagero; però chiunque capisce che una ipotesi di questo genere (referendum) si discosterebbe da qualunque modello elettorale occidentale, e farebbe apparire come democratica e assai rispettosa delle minoranze quella famosa legge elettorale del 1953 sulla quale cadde De Gasperi, travolto dall'ostruzionismo parlamentare e poi dal voto popolare. Vi ricordate come la chiamavano quella legge? Se non ve lo ricordate ve lo dico un'altra volta.