venerdì 21 dicembre 2007

l’Unità 21.12.07
Lavoro minorile, in Italia. 500mila piccoli schiavi
di Federica Fantozzi


Rapporto choc di Ires-Cgil e Save the Children: 80mila
sono stranieri. «Agire subito per dare loro progetti futuri»

BAMBINI SENZA DIRITTI Sono 500mila in Italia i minori di 15 anni che lavorano. 80mila sono stranieri. Nei negozi e nei bar. In casa per aiutare la famiglia. Per strada, sconfinando nell’illegalità. Al lavoro tutto l’anno, magari in nero, faticando a scuola per la stanchezza, privati del loro tempo dei giochi, perdendo l’opportunità di un futuro migliore di quello dei propri genitori.
È il triste quadro che emerge dal rapporto Ires-Cgil e Save the children presentato ieri a Roma. L’indagine, curata dal presidente Ires-Cgil Agostino Megale e da Anna Teselli, è stata realizzata nel 2005 e ha riguardato 2mila minori in 9 grandi città. Emerge che la categoria più a rischio è quella dei ragazzini stranieri tra 11 e 14 anni con un solo genitore e più fratelli, residenti in territori ad alto tasso di disoccupazione. Eventualità non rara: tra i Paesi avanzati l’Italia ha uno dei più alti tassi (il 17%) di minori in povertà. Hanno dichiarato almeno un’esperienza lavorativa il 25,5% dei migranti e il 20,9% degli italiani.
Il lavoro precoce spesso non è un fatto saltuario o residuale: i dati mostrano una frequenza settimanale, un impegno giornaliero di molte ore, una paga regolare. Si tratta dunque di un’esperienza intensa causata soprattutto dalla pressione familiare e territoriale che comporta un progressivo disimpegno dalla scuola e l’instaurarsi di relazioni tipiche del mondo del lavoro. I ragazzi vi si immergono dedicando meno impegno alle lezioni e «staccandosi» dall’universo ancora formativo in cui vivono i coetanei più fortunati. Qualche numero: il 42% degli adolescenti stranieri (e il 59% dei cinesi) lavora tutto l’anno, mentre analoga percentuale di italiani lo fa «quando capita».
Quali sono i luoghi di lavoro? La casa o l’attività familiare per il 65% (che sale al 90% per i cinesi). Il 26% degli italiani viene impiegato in negozi, 14% in bar, ristoranti e pizzerie, mentre un 12% lavora in strada.
Gli stranieri finiscono spesso inseriti in contesti meno protetti con situazioni «difficili». Uno su tre lavora come ambulante o addirittura accattone. Sei cinesi su dieci in laboratori artigianali tessile o di pelletteria esposti a materiali e macchinari pericolosi, con orari inadeguati all’età. Se poi il 20% degli italiani non viene pagato, il dato sale a un terzo per gli stranieri.
La maggioranza dei bambini lavora tra 2 e 4 ore al giorno. Ma il 20% dei cinesi e circa il 13% degli altri migranti e il 18% degli italiani supera le 7 ore: praticamente un orario da adulti. La maggioranza continua a frequentare la scuola ma con un peggioramento del rendimento e molte assenze, denunciando stanchezza e difficoltà di apprendimento.
In un’approfondimento dedicato al Lazio sui minori stranieri che vivono in comunità o case-famiglia, si evidenzia che spesso arrivano in Italia con già alle spalle esperienze lavorative. Vissute in genere prima dei 15 anni. In Africa soprattutto nell'agricolutura e nell'artigianato, poi emigrati per assecondare i genitori. Diversa l'esperienza dei minori asiatici che hanno lavorato in fabbrica nei paesi di transito e cercano qui un'autonomia personale. I piccoli che arrivano dall'Europa dell'Est vivono invece in Italia le loro prime esperienze lavorative per sostenere le famiglie di origine.
Sei le raccomandazioni, illustrate dal direttore di Save the children Valerio Neri, per dare un progetto di futuro a questi ragazzi. Garantire il monitoraggio qualitativo e quantitativo del lavoro minorile. Attuare la nuova carta degli impegni tra istituzioni e parti sociali nel 2008. Realizzare percorsi di partecipazione «trasparenti e consapevoli» ascoltando i ragazzi. Fare emergere il lavoro nero. Conciliare scuola e lavoro. Disincentivare la dispersione scolastica.
Obiettivi ambiziosi al cui raggiungimento l’Onu ha appena dato un incentivo: il 2008 sarà dedicato alla lotta contro lo sfruttamento minorile.

l’Unità 21.12.07
Sulla rivista «Science» le scoperte più importanti dell’anno che sta per chiudersi riguardano la nostra specificità
La ricerca sulle differenze genetiche incoronata star scientifica del 2007
di Cristiana Pulcinelli


La scoperta scientifica più importante del 2007? Per la rivista Science non c’è dubbio: è la capacità di misurare la variabilità genetica umana. Da quando, nel 2001, è stato fatto il primo sequenziamento del Dna umano molta acqua è passata sotto i ponti. Nel corso del tempo è stato letto il genoma di molti individui e, grazie a nuove tecniche, è stato possibile individuare moltissime differenze tra una persona e l’altra che prima non si potevano vedere. Se fino a qualche tempo fa, quindi, la domanda principale che ci si poneva studiando il patrimonio genetico dell’essere umano era: cosa fa di un uomo un uomo? Oggi, invece, lo scopo è capire cosa, nel mio Dna, fa di me ciò che sono. Il passaggio è rivoluzionario. Si può infatti pensare di collegare le differenze genetiche individuali con alcune caratteristiche della persona. Studiando le differenze genetiche tra il mio genoma e quello di altri esseri umani si potrebbe capire, insomma, cosa contribuisce a far sì che io abbia i capelli rossi o le lentiggini, un fisico slanciato o tozzo. Oppure, per un altro verso, un rischio maggiore (o minore) rispetto alla media di ammalarmi di diabete, asma o cancro. Una prospettiva meravigliosa e terrificante al tempo stesso. Da un lato, infatti, si può pensare di far nascere una medicina personalizzata che, lavorando sui geni, riduca il rischio di ammalarmi, dall’altro però si aprono questioni inquietanti riguardo alla privacy e alla discriminazione. Come si comporterebbe, ad esempio, un datore di lavoro di fronte all’informazione che la persona che sta per assumere ha un genoma che è collegato ad un alto rischio di ammalarsi di una malattia invalidante? Si stima che ci siano circa 15 milioni di punti lungo il genoma in cui la posizione di una singola base tra quelle che compongono il Dna può fare la differenza tra una persona e l’altra o addirittura tra una popolazione e un’altra. I biologi nel corso del 2007 hanno individuato 3 milioni di questi punti: i SNP (single nucleotide polymorphisms). Oltre una dozzina di studi sono stati portati a termine nel corso dell’anno per mettere a confronto il Dna di migliaia di persone con e senza malattie in modo da individuare quale piccola variante genetica sia alla base dell’aumento del rischio. Sono state studiate la fibrillazione atriale, le malattie autoimmuni, il disordine bipolare, il cancro al seno, il cancro colonrettale, il diabete, l’ipertensione, la sclerosi multipla e l’artrite reumatoide.
Durante questo stesso anno, i biologi hanno poi imparato che esiste un’altra fonte di variabilità genetica: dei tre miliardi di basi che compongono il Dna, alcune migliaia di milioni si possono perdere, aggiungere, o venire copiate in modo sbagliato. Con il risultato che l’attività genetica può cambiare entro poche generazioni. Anche questo è un modo in cui può aumentare il rischio di sviluppare una malattia.
Al secondo posto nella classifica di Science troviamo la tecnologia per riprogrammare le cellule. A giugno scorso, ricercatori americani e giapponesi avevano annunciato di essere riusciti a creare nel topo cellule staminali simili a quelle embrionali partendo da cellule della pelle. A novembre, altri due gruppi di ricerca hanno affermato di aver ottenuto lo stesso risultato con cellule umane. Se venisse confermata, la notizia potrebbe essere una svolta nella ricerca sulle staminali.
E per il 2008 cosa ci si attende? Secondo Science, tenete sotto controllo i microRna, i nuovi materiali per i chip dei computer, i microbi artificiali, il genoma dell’uomo di Neanderthal e i dati che arriveranno dall’acceleratore di particelle Lhc del Cern e vedrete che qualcosa di interessante verrà fuori.

l’Unità 21.12.07
Il Natale? L’ha inventato Zoroastro
di Roberto Carnero


Virgilio ne scrive nelle «Bucoliche»
Ma anche nel buddismo troviamo qualcosa di molto simile

E forti analogie con il mistero della nascita esistono nel mito dello zoroastrismo

5000 ANNI DI VITA Il mito natalizio ha radici antichissime in culture e religioni precedenti quella cristiana. Ne parla un libro di Saba Sardi, che uscì 50 anni fa e fu messo all’indice dai Gesuiti, ora ristampato

Quando uscì per la prima volta, cinquant’anni fa, fu subito messo all’indice dai Gesuiti. Del resto già il titolo del libro di Francesco Saba Sardi è piuttosto provocatorio: Il Natale ha 5000 anni. Ora il libro viene riproposto, con ottima tempistica promozionale, in occasione delle imminenti festività natalizie da Bevivino Editore (pp. 720, euro 28,00), con una nuova introduzione dell’autore. Il quale, quando aveva iniziato a porre mano a questa ricerca, si era prefisso uno scopo ben preciso: dimostrare come molti degli elementi del «mito natalizio» fossero già presenti in altre culture e in altre religioni, precedenti quella cristiana.
L’idea, cioè, di un salvatore o di un redentore, promotore di una palingenesi universale, magari nato da una madre vergine, in uno scenario da «presepe», con rocce e grotte in abbondanza, sfuggito a una crudele persecuzione e chiamato a sconfiggere il male, non è esclusiva del cristianesimo. Francesco Saba Sardi racconta così la «favola del Natale», a partire dagli antichi documenti delle altre culture religiose: occidentali, orientali, africane e indoamericane.
Il suo libro propone infatti un’articolata visione delle concezioni del Natale - o del «Figlio del Cielo» o dell’«Apparso» - che hanno corso da almeno 5000 anni: un’attestazione cronologica sicura e prudente, perché in realtà - spiega l’autore - molti dei motivi costitutivi della «mitologia natalizia» risalgono già ad alcuni millenni prima. «Il mito dell’Avvento cristiano - afferma - non è affatto creazione isolata e originale, bensì frutto di sincretismo, un convergere di elementi elaborati nel corso di molti secoli nell’ambito del mondo mediterraneo ma anche extramediterraneo. Gli Apparsi sbucavano, con le regolari scadenze delle crisi, da abissi, schiume, astri, nuvole, grotte, acque, mangiatoie, grembi materni».
In ambito latino è nota la quarta egloga delle Bucoliche di Virgilio, dove si preannuncia la nascita di un puer da cui scaturirà una nuova età dell’oro. Nel Medioevo nel fanciullo profetizzato dal poeta latino si vedrà un’allegoria di Gesù, ma è evidente che il testo virgiliano, composto nel 40 a. C., alludeva ad altro, forse a un condottiero, diversamente identificato dagli interpreti. Tuttavia, spiega Saba Sardi, il testo di Virgilio «può considerarsi la summa delle concezioni epifaniche del mondo antico classico. Alla maniera dei profeti d’Israele, il vate romano promette qualcosa che si possa toccar con mano, l’avvento del regno della pace, dell’abbondanza, un’esistenza felice, dalla quale siano escluse guerre e fatiche».
Ma anche nel Buddismo, religione la cui cosmologia pure è molto diversa da quelle occidentali, troviamo qualcosa di molto simile. Il Buddha, infatti, esce dal fianco di sua madre Maya senza provocarle dolore. Appena nato cammina alla perfezione.
E non solo: «Constata, dotato com’è di uno sguardo capace di vedere l’intero universo, che in questo mondo non c’è nessuno pari a lui e annuncia di essere quello che porrà fine al dolore, alla malattia e alla morte. Le somiglianze con altri Natali sono evidentissime. Il Buddha appare uscendo da un fianco della madre. Il parto è dunque verginale in quanto l’Apparso non transita per l’utero.
Lo scrigno prezioso in cui è in attesa, ed è perfettamente formato, ha palesi equivalenze con l’utero da cui nasce il Cristo, ma anche con le rocce, caverne, eccetera, di mille Figli del Cielo o dell’universo. Il Buddha è il portatore di luce, essendo colui che diventerà l’Illuminato. Il Buddha e il Cristo sono entrambi Phanes, sono Apparsi. Entrambi sono Parola senza origine. Vengono infatti dall’eternità che è senza tempo per definizione».
Analoghi gli elementi presenti nel mito natalizio dello zoroastrismo, la religione orientale nata tra l’VIII e il VII secolo a. C. Così si legge, ad esempio, in un antico testo a proposito di Zoroastro: «Al momento in cui morì, egli proiettò il proprio sperma per entro una sorgente e, approssimandosi la fine del mondo, da esso sperma una vergine nascerà, e un bimbo uscito da lei metterà in rotta un numero enorme di seguaci di Ahriman, e due altri bimbi, che allo stesso modo saranno messi al mondo, ne sconfiggeranno definitivamente le schiere e le stermineranno».
Ma che cos’hanno in comune le diverse versioni del Natale presenti nelle varie religioni? Qual è il sostrato concettuale sotteso alle simili scenografie? Spiega Francesco Saba Sardi: «Potremmo definire il Natale intendendolo come frontiera tra l’esserci e il non-esserci. Eros che cavalca un delfino, avendo come attributi ora le ali, ora la lira, ora la clava di Ercole, era il simbolo greco di questo stato di sospensione: un cullarsi sull’acqua, un librarsi sull’abisso. Il frutto del Natale è un ente suscettibile di evolvere in ogni direzione e dimensione, onnipotente com’è, donde la varietà delle sue metamorfosi. Ma, appunto per questo suo carattere di appena nato, è impossibile stabilire se appartiene all’aldiqua o all’aldilà, alla concretezza di carne e sangue o a un limbo di incertezza. Il ciclo nascita-copula-morte, l’evidenza dei processi naturali, presta attributi all’idea mitica, e a sua volta il racconto mitico spiega la natura, in uno scambio continuo in cui la spinta iniziale è un’invenzione, una rivelazione. Il Natale dei Vangeli, il Cristo, percorre le tre fasi del mitema: neonato; eroe minacciato dai pericoli ma trionfante; morto e risorto».

l’Unità 21.12.07
ANNIVERSARI Due libri nel duecentenario della «Fenomenologia». Un saggio di Mariapaola Fiminani e la «Filosofia della natura» a cura di Marcello Del Vecchio
Hegel filosofo del conflitto che anticipò Einstein
di Bruno Gravagnuolo


Il 2007 è stato anno hegeliano. Non anniversario della nascita, che per lo svevo Hegel, morto a Berlino nel 1831, avvenne a Stoccarda nel 1770. Ma per il duecentenario di una sua opera davvero centrale: la Fenomenologia dello Spirito. Uscita nel 1807 per l’editore Cotta. Lì, sebbene sbilanciata dal lato dell’esperienza - la «teoria dell’esperienza della coscienza» - si mostra la «doppia anima» del filosofare hegeliano: logico e storico-psicologico. Concettuale e «vitale». Doppia anima che torna in altra maniera, astratta e speculativa, nella Scienza della Logica, tra il 1812 e il 1816.
Dunque, filosofia «ancipite», che due volumi diversissimi in questo «bicentenario» della Fenomenologia - già oggetto di un Convegno al Goethe di Roma mesi fa - ci aiutano a penetrare. Il primo, non in ordine di tempo, è Erotica e Filosofia, di Mariapaola Fimiani (Ombre Corte, cartografie, pp. 153, euro 13,50), studiosa salernitana di Berkeley e Foucault. Che fin dal sottotitolo ci propone la sua chiave di lettura su Hegel: Foucault e la lotta per il riconoscimento. Significa leggere Hegel sulla scia di due aspetti. L’irruzione della «soggettività» in Occidente, che campeggia in tutta la filosofia della storia hegeliana. E il ruolo che l’ultimo Foucault assegnava al soggetto. O meglio alla «cura del sé», come il francese la chiamava negli ultimi corsi al Collége de France, e negli Usa a Berkeley. Insomma per la Fimiani quella di Hegel è una filosofia della possibile liberazione del soggetto, ma non al modo cristiano-germanico e borghese di Hegel. Bensì nel senso di un agonismo conflittuale contro il Potere, dove i singoli si riconoscono a vicenda e confliggono. Nella ricerca di una disarmonia prestabilita, dove mediatore di equilibri instabili è l’eros. Che poi significa, platonicamente, rispecchiamento desiderante e reciproco su oggetti di senso, estetici, etici, politici. Tensione vitale sempre aperta e spinta libidica alla ricerca di conciliazioni precarie nel mondo sociale. In altri termini Fimiani congiunge Hegel, Nietzsche e l’analisi foucaultiana del Potere, a partire dall’emergere in Grecia di qualcosa di occidentale per antonomasia: la soggettività. Letta hegelianamente come riconoscimento eguale, dopo il superamento della lotta tra Servo e Signore che inaugura l’epoca moderna post-rivoluzione francese. Soggettività consegnata alla fragilità post-moderna, consumati gli orizzonti di senso tradizionali. Fimiani hegeliana e anti hegeliana perciò, e che attinge ci pare a quel «giovane Hegel», romantico ed esistenziale, che non aveva ancora elaborato (del tutto) la sua visione sistematica e logica, «cristiano-borghese». Di contro l’altro volume ci porta in ben altra atmosfera: la filosofia della natura hegeliana. Che Marcello Del Vecchio, studioso di Camus, Hume ed Hegel, affronta di petto, traducendo e commentando con acribia e acume una Lezione risalente al 1819-20, già resa disponibile da Bibliopolis fin dal 1982 a cura di Ilting e Gies: Filosofia della Natura, La lezione del 1819-20 (Franco Angeli, pp.143, euro 15). Impresa ardua, parte di un progetto più ampio che vedrà per Angeli la traduzione delle Lezioni del 21-22 e del 23-24, nei prossimi due anni.
La lezione in esame fu raccolta da G. Berhardy, che fu allievo di Hegel a Berlino e divenne professore straordinario nel 1825. Qui, come già nell’Enciclopedia delle Scienze filosofiche in compendio del 1817, si presenta il «concetto speculativo della natura» per Hegel. Che è cruciale, poiché non solo è parte integrante della visione scientifica dell’epoca classico-tedesca e napoleonica, che Hegel sintetizza e raccorda alla sua filosofia. Ma decisiva perché fa luce sul tipo di idealismo hegeliano: idealismo oggettivo. Dove la natura è « l’esteriorità dell’Idea logica», cioè dell’Eterno, colta sotto le specie dello spazio e del tempo. Malgrado il tono speculativo e metafisico, c’è qui come un aroma di relatività einsteniana: spazio e tempo sono un tutt’uno infatti. La forma cosale ed esteriore dell’Essere, in cui le due «forme» kantiane della sensibilità sono l’oggetto stesso, afferrato da lati diversi. Così come einsteniana è l’idea della luce come energia e vettore assoluto, mentre un sapore «quantistico» ha persino l’idea di un «infinitamente piccolo» che riproduce in sé il montaggio gravitazionale del sistema solare. Viceversa, aristotelica è l’idea di generi e specie logicamente fissi e concentrici, dal più basso gradino fino all’organismo vitale, che nel soggetto umano e nell’Idea atemporale tutto ricomprende. Genio del divenire Hegel, con il demone dell’eternità logica. Che Del Vecchio ci restituisce integralmente dall’interno.

l’Unità 21.12.07
La crociata contro Voltaire
L’enciclica del Papa
di Paolo Flores d’Arcais


La crociata continua. L’enciclica di Benedetto XVI «Spe salvi» ribadisce e anzi radicalizza l’anatema della Chiesa cattolica contro una modernità colpevole di disobbedire a Dio, e che precipita perciò nella disperazione del nichilismo. L’outing è ora completo. Anche la democrazia è menzogna se la sovranità degli uomini non si sottomette all’imperio della «legge naturale», cioè se la libertà non coincide con l’obbedienza agli ukase della Chiesa, unica interprete autorizzata di tale «legge naturale» e della volontà di Dio con cui essa coincide. La democrazia deve essere cristiana, altrimenti è disumana.
Il giallo è finalmente risolto. Il colpevole è Voltaire, anzi addirittura Bacone. Il Male è l’illuminismo, il progetto di autonomia dell’uomo.
Autos-nomos, il darsi da sé la propria legge, anziché riceverla da Dio, o dai suoi surrogati e ministri (la «Natura» e la Chiesa gerarchica), ecco la Colpa inespiabile. Il Nemico (proprio nel senso delle Scritture) è la ragione che prescinde da Dio, la ragione che lavora iuxta propria principia, la ragione che ragiona, insomma.
L’autos-nomos, la pretesa di sovranità di tutti e di ciascuno, precipita anzi l’umanità nella gehenna dei totalitarismi, dove è pianto e stridor di denti, e anche peggio: il Terrore di Robespierre e Saint Just e il Gulag di Stalin. A questo si arriva, inevitabilmente - Ratzinger dixit - se l’uomo nel suo rapporto con la natura e con gli altri uomini (scienza e politica), si comporta come se Dio non ci fosse, prende cioè sul serio la proposta di Grozio che ha salvato l’Europa dall’autodistruzione delle guerre civili di religione: «Etsi Deus non daretur». Precetto, dunque, che è - storicamente parlano - l’unica autentica e incontestabile radice dell’Europa.
Nulla di nuovo, si dirà. Extra ecclesiam nulla salus è la pietra angolare - da secoli - di tutte le pretese «papiste». A queste pretese, però, da qualche decennio era stata messa la sordina. La stessa Chiesa sembrava - giustamente - vergognarsi del suo passato «costantiniano» e dei suoi anatemi contro scienza, liberalismo, democrazia (pronta perfino a chiedere qualche perdono). Non citava più il Sillabo ma il Concilio Vaticano II.
Da allora è trascorsa un’epoca. Con Papa Wojtyla prima, e con Papa Ratzinger ora (che di Wojtyla fu il più stretto collaboratore nell’estensione di encicliche cruciali come «Veritatis splendor» e «Fides et ratio») i contenuti essenziali del Sillabo sono stati riportati in auge: la sovranità appartiene a Dio, un parlamento - democraticamente eletto dai cittadini - che agisca contro la «legge naturale» (ad esempio con una legge che consenta l’aborto, anche limitatamente) diventa ipso facto illegittimo.
Così Wojtyla a Varsavia, solenne di furore e di collera, contro il parlamento polacco (il primo liberamente eletto dopo mezzo secolo di comunismo!). L’aborto come «genocidio dei nostri giorni», come nuovo olocausto. Una donna che sceglie il dramma dell’aborto, colpevole quanto la Ss che getta un bambino ebreo nel forno crematorio. Il mondo laico fece finta di non sentire o di non capire, in preda a fascinazione mediatica.
Ora, la rimozione non è più possibile. Per chi cerca alibi, il Papa tedesco ha eliminato ogni dubbio. O Dio o la sovranità popolare. Aut aut. Non sembrino esagerazioni polemiche. Il ragionamento teologico-politico di Joseph Ratzinger è compatto, lineare, e - nella sua logica confessionale e dogmatica - perfettamente coerente.
Eccolo. La modernità vuole fondare l’esistenza dell’uomo sul binomio ragione + libertà, autonomamente, a prescindere dal Dio della Chiesa. Ma dal «fare» della conoscenza (la scienza baconiana) si passa inevitabilmente al «fare» della politica, in una idea illuministica di «progresso» come «superamento di tutte le dipendenze». Libertà illimitata, libertà perfetta «nella quale l’uomo si realizza verso la sua pienezza». Sappiamo come è finita (Robespierre e Stalin) e sappiamo anche perché: l’ateismo come esito dell’illuminismo.
Perciò «è necessaria un’autocritica dell’età moderna» che deve avvenire «in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza». L’eufemismo «dialogo» non tragga in inganno: «solo Dio può creare giustizia». E, si badi, «non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati fino alla fine». Il Dio/Gesù Cristo della Chiesa gerarchica, della Verità consegnata nei concili di Nicea e Calcedonia, come ribadito dal Papa tedesco nel suo recente libro best-seller. Ma tale «concezione della speranza», secondo l’enciclica, equivale né più né meno alla certezza della fede. Il mondo, e in particolare l’Occidente che è nato dalla modernità, può sfuggire alla maledizione della disperazione solo attraverso «l’apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male».
Fuor di perifrasi, pensando e operando in obbedienza alla morale cattolica. Dalla vita alla morte, lungo tutte le epoche della sessualità, e non dimenticando la ricerca scientifica. Staminali, aborto, contraccezione, istituto matrimoniale, educazione scolastica, interpretazione del darwinismo, terapie del dolore, eutanasia: tutto deve obbedire alla «legge naturale», sinonimo puro e semplice della volontà confessionale della Chiesa gerarchica.
Sotto il profilo culturale, basterebbe rispondere al Papa teologo che la modernità non è innanzitutto e per lo più, come vuole farci credere, Terrore e Gulag, perché dalle tre rivoluzioni «borghesi», da Cromwell, dai girondini, da Jefferson, è nata una forma di convivenza straordinaria, fino ad allora sdegnata come utopia, la democrazia liberale (i cui princìpi, troppo spesso, gli establishment di Occidente calpestano nella loro azione quotidiana). E che Nietzsche e Marx, per non parlare di Bacone e dei Lumi, non assomigliano proprio al bignamino parodistico spacciato nella «Spe salvi».
Ma Joseph Ratzinger, malgrado le indubbie e prepotenti civetterie accademiche che animano la sua penna, è a sufficienza smagato uomo di potere per sapere che il peso di un’enciclica non dipende dalla sua claudicante caratura culturale. Di essa ha dato perciò una interpretazione politica autentica il giorno dopo, parlando di fronte ai rappresentanti delle organizzazioni umanitarie non governative (Ong) di matrice cattolica, accusando diverse agenzie dell’Onu di «logica relativistica» che nega «cittadinanza alla verità sull’uomo e sulla sua dignità nonché alla possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale». A tale deriva bisogna opporre i «princìpi etici non “negoziabili”» di cui la Chiesa è depositaria e paladina.
Come si vede, con il suo outing contro illuminismo e autos-nomos democratico Papa Ratzinger si candida esplicitamente alla leadership mondiale del fondamentalismo religioso, quello non terroristico, ovviamente. Il suo prossimo intervento alle Nazioni Unite, previsto per il 18 dicembre, ne costituirà l’atto ufficiale e solenne. Speriamo che, almeno quel giorno, «chi ha orecchie da intendere, intenda».

Repubblica 21.12.07
La secolarizzazione
I giorni del sacro dell’uomo moderno
di Umberto Galimberti


Guardando le pratiche degli acquisti e dei consumi sembra che nella nostra cultura il Natale sia ormai già ateo. Di religioso è rimasto soltanto il rito
Come si è giunti da una misera stalla al luccichio di negozi e supermercati

Natale è ancora una festa cristiana? Anche per l´ateo che non crede in Dio, per l´agnostico che non sa se Dio c´è, per il laico che nelle sue scelte etiche prescinde dalla nozione di Dio? Guardando le pratiche natalizie degli acquisti e dei consumi sembra che nella nostra cultura il Natale sia ormai già ateo, o se preferiamo agnostico, certo profondamente laico. Di cristiano è rimasto solo il rito che si ripete, la ricorrenza che ritorna, la festa che, come nessun´altra, è davvero "comandata".
Comandata da chi? Dalla nostra economia naturalmente che, per quanto in affanno, resta comunque un´economia dell´opulenza dove il consumo e lo spreco sono sotto gli occhi di tutti in un tripudio di malcelata festività. E allora come conciliare la cultura cristiana che si è soliti individuare come forma dell´Occidente, con il livello di ricchezza e abbondanza raggiunto dalle società occidentali?
Varrebbe la pena di fare esplodere questa contraddizione così ben palesata dall´albero di Natale, simbolo non cristiano dove traluce il nostro benessere, che ha preso il posto del presepe cristiano che è invece spettacolo dell´indigenza e della povertà. Dalla stalla dove è nato Gesù il senso del Natale cristiano si è infatti trasferito nel luccichio dei negozi, nella sovrabbondanza dei supermercati, nelle evasioni promesse dalle agenzie di viaggio, per cui la domanda non è: che senso ha la festività di Natale per un laico, ma che significato essa ancora possiede per un cristiano che vive in una cultura opulenta, e in ogni suo aspetto laicizzata, dell´Occidente "cristiano"?
Non basta un po´ di volontariato quanto mai benefico, ma decisamente insufficiente, per attutire gli inconvenienti che nascono dalla logica ferrea del mercato che non prevede il dono, ma la rigida contrattazione. Così come non basta fare "doni" a Natale per mascherare la legge economica del profitto che governa l´Occidente. No, non basta. E allora diciamolo: l´Occidente forse non è più cristiano e la completa laicizzazione del Natale, la festa cristiana per eccellenza, è solo una conferma che il cristianesimo in quella sua vera essenza che è l´amore per il prossimo, lontano o vicino che sia, in Occidente non ha più casa, né chiesa, né luogo dove trovare espressione. Ne è prova la povertà del mondo che langue inespressiva nelle coscienze dell´Occidente cristiano, notizia smarrita tra le tante che, nell´indifferenza generale, giungono da terre che l´Occidente considera straniere?
E allora il cielo sopra la grotta del presepe di Natale diventa un testimone indifferente dove, esausto, si ripete il rito della nascita di Gesù, con santi e angeli che non hanno sguardo per ciò che capita sotto i loro occhi. Il tempo della speranza, che il cristianesimo ha inaugurato e che Papa Ratzinger ha riproposto nella sua ultima enciclica, si è fatto così lontano da diventare estraneo al nostro sguardo, perché ormai siamo alla cruda accettazione della casualità della nostra esistenza, senza neppure l´inquietudine della crisi, senza il gusto di vivere questo tormento, nuova ed eccitante maniera di percorrere il nostro tragitto, che a Natale ci porta ritualmente nella casa dove siamo nati per onorare il padre e la madre, ultima orma del sacro, da cui l´indomani ci congediamo per incamminarci di nuovo lungo la via che del sacro ha perso non solo l´origine, ma anche la traccia.
Eppure nella grotta di Betlemme, per i cristiani, il divino s´è fatto terreno, e la terra è diventata la dimora di Dio. Allora il tempo si è spaccato in due: prima e dopo Cristo. La natura e il suo ciclo hanno ceduto al futuro e alla sua promessa. Il tempo, reso gravido di senso, ha cessato di essere puro e indifferente "divenire" ed è diventato "storia". In questo modo il cristianesimo si è separato dalle mitologie primitive che leggono il tempo a partire dal "passato", da un´età dell´oro o paradiso perduto in cui si rifugia la nostalgia, perché il cristianesimo proietta la salvezza in quel possibile "futuro" a cui si agganciano sia l´utopia, sia la rivoluzione, quando la nuova figurazione del tempo, inaugurato dal cristianesimo, si contamina con l´ateismo della speranza. Per lontane che possano sembrare, utopia, progresso e rivoluzione sono eventi cristiani, appartengono al tempo "dopo" Cristo, scavano il motivo della speranza, sondano possibilità di salvezza, credono che la storia abbia un senso, guardano con sospetto il nietzscheano "tempo senza meta".
L´Occidente è stato sedotto da questo nuovo modello di temporalità e, in versione cristiana, utopica o rivoluzionaria, ha sempre celebrato nel Natale non il ritmo del "ritorno", ma l´atmosfera della "rinascita", l´entusiasmo di ciò che ancora è in grado di promettere il futuro: la promessa del tempo.
È ancora in circolazione questa promessa che è tutta cristiana? A me pare di no. Da quando il denaro è diventato in Occidente l´unico generatore simbolico di tutti i valori e la tecnica il mezzo per conseguirli, senz´altro scopo che non sia il suo autopotenziamento, il futuro non appare più come promessa, e ancor meno come speranza. I suoi tratti sembrano piuttosto quelli dell´incertezza e dell´indecifrabilità.
E allora che ne è del cristianesimo che ha fatto la sua irruzione nel tempo annunciando proprio il futuro come speranza? In Occidente se ne è persa la traccia. Non so se questo sia un bene o un male. È semplicemente così. Ma se riconosciamo che la nostra cultura è regolata unicamente dalla rigida legge del mercato ed è disposta a ospitare solo qualche deroga in forma di elemosina, beneficenza e volontariato (utili più ad alleviare il senso di colpa connesso al nostro privilegio che a trasformare le condizioni più disastrose del mondo), allora evitiamo almeno quella falsa coscienza che ci porta a identificare l´Occidente con il cristianesimo. Mai come oggi le due culture appaiono abissalmente distanti. E il modo con cui ogni anno festeggiamo il Natale ne segna inequivocabilmente il disagio e la contraddizione.

Repubblica 21.12.07
L’operaio sconfitto
Gli studi di Mario Tronti e il dramma terribile delle morti bianche
L'uscita di scena di una classe protagonista


Da lungo tempo la figura del lavoratore è diventata impalpabile per il resto della società e per i vinti non c´è spazio, non c´è definizione
Quel che contava nelle lotte di fabbrica non era tanto la forza del passato e della tradizione, ma solo il presente nella sua casualità

C´è qualcosa di drammatico e ironico insieme, nel bilancio che Mario Tronti ha recentemente fatto dell´operaismo, della sua lontana stagione fiorita e della disfatta. C´è qualcosa che va a toccare non solo la storia di un uomo che ha pensato e scritto con molta passione e acume sul destino della classe operaia come soggetto rivoluzionario; ma quel nodo problematico si riflette e si interseca con un mondo che tutti, proprio tutti, davano per scomparso. Poi, una tragedia dalle proporzioni impreviste, attraversata dal ferro e dal fuoco, mette di fronte a un problema che non si capisce ancora fino a quando terrà desta la nostra attenzione. È la tragedia delle "morti bianche", come le notti, come le voci. Ma con un timbro diverso, e la conclusione che ci sgomenta: operai che cadono dalle impalcature, che restano folgorati da un filo dell´alta tensione, travolti da un treno, seppelliti da una frana, o divorati - come nel rogo della Thyssen - dal fuoco. Le chiamano "bianche" perché non c´è un vero mandante, non c´è lo scoppio di una follia improvvisa, non c´è l´assassino. C´è solo la vittima innocente, con il corpo inerte e senza storia. E quando accade, quando quel corpo viene esibito e sollevato da un nuovo e ulteriore dolore, allora improvvisamente ci si ricorda che quell´evento luttuoso appartiene a una memoria più profonda ed estesa che investe la classe operaia nel suo insieme. Essa esiste ancora o, come ormai sostengono numerosi fautori della società immateriale, è solo un pallido ricordo?
Da lungo tempo una gigantesca morte apparente sembra aver avvolto la figura del lavoratore, averlo reso impalpabile al resto della società. E pensare che l´immaterialità - nelle forme del plusvalore dell´invisibile di cui si dota la merce - nasce nella fabbrica. Quello è il suo luogo di origine, immiserito dalla serialità, dall´automatismo, dall´alienazione, esaltato dalla ribellione, dall´utopia, dalla piazza. Insomma quel mondo nel quale la "rude razza pagana" aveva svolto il ruolo di protagonista sembra definitivamente sconfitto, ma non cancellato. Domato ma non scomparso. Ma per i vinti non c´è spazio, non c´è lingua, non c´è definizione. Ecco il motivo per cui leggere il bilancio che Tronti ha fatto di una lunga stagione di lotte esemplifica e simboleggia meglio di una piccola predica sociologica cosa raccontano e nascondono i fattori di una sconfitta.
Del resto sono trascorsi quarant´anni dalla pubblicazione di Operai e Capitale, libro (oggi riproposto da Derive Approdi, pagg. 315 euro 20) che contribuì a definire una parte del quadro teorico nel quale il Sessantotto si sarebbe dibattuto. A rileggerlo, in un contesto decisamente diverso, sembra aver attenuato la sua carica ipnotica. Quel modo battente, assertorio, ritmato che Tronti ha di inquadrare e descrivere il fenomeno operaio, conserva indiscutibili pregi letterari. Ma è come se lo stile evochi qui la forma della nostalgia perduta, più che la sostanza di ciò che è andato perso. E che cosa si è perso? Che cosa è inequivocabilmente tramontato?
Tronti ha stilato un suggestivo bilancio delle ragioni di una sconfitta, e lo ha messo sotto forma di una lunga introduzione a un´antologia di testi sull´operaismo che sarebbe dovuta uscire quest´anno per Feltrinelli e che, per ragioni editoriali, è stata spostata all´anno prossimo. L´analisi condotta con "passione cinica" descrive un´esperienza conclusa. Una passione che si potrebbe applicare a una parte cospicua del Novecento, a quel pensiero vissuto attraverso il soggetto operaio, la fabbrica, il conflitto. Se c´era un principio, il Tronti di allora lo individua nella lotta della classe operaia. E se c´è un modo di distinguere questa lotta dalle altre, che pure il movimento operaio ha praticato, esso risiede nel fatto che l´operaismo vuole definirsi a partire dall´idea che una scienza operaia è stata in grado di prendere le distanze dallo storicismo, da quella linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci che incarnò l´egemonia culturale del fare politica e a lungo imperò in Italia come un sonno dogmatico. Contro questa impostazione votata al progresso della ragione, c´erano le sporadiche incursioni dellavolpiane (che privilegiavano un Marx sfrondato da Hegel), c´era l´esperienza di Raniero Panzieri con la rivista Quaderni Rossi che rileggeva il Capitale, c´era Classe operaia che rileggeva i Grundrisse), e Contropiano che rileggeva Nietzsche. Tutto questo preparò il fatidico Sessantotto? Tronti ha molte resistenze teoriche a far confluire l´esperienza operaista nel magma poliedrico della contestazione: «Ci muoveva non la rivolta etica per lo sfruttamento che gli operai subivano, ma l´ammirazione politica per le pratiche di insubordinazione che si inventavano. Ci deve essere dato atto che non cademmo mai nella trappola del terzomondismo, delle campagne che assediano le città, delle lunghe marce contadine, non fummo mai "cinesi", e la "rivoluzione culturale", quella d´Oriente, ci vedrà freddi, lontani, più che moderatamente scettici, in realtà fortemente critici. Ci piaceva al contrario il fatto che gli operai del Novecento spezzassero la continuità della lunga gloriosa storia delle classi subalterne, con le loro rivolte disperate, le loro eresie millenariste, i loro ricorrenti generosi tentativi, sempre dolorosamente repressi, di rompere le catene. In fabbrica, nella grande fabbrica, il conflitto era quasi ad armi pari, si perdeva e si vinceva giorno per giorno, in una permanente guerra di posizione». Quel che conta non è tanto la forza del passato e della tradizione, né la speranza che può donare il futuro, ma solo ed esclusivamente il presente, con le sue contingenze, la sua casualità, le sue occasioni da sfruttare. Il presente trontiano non è semplicemente il qui e ora, ma l´orizzonte che delinea il Novecento stesso, la grande epoca che tutto racchiude: capitalismo e socialismo, riforme e rivoluzione, totalitarismo e stato liberale, Stato sociale e società democratica, la lotta operaia e la sua sconfitta. Ne viene fuori un quadro su ciò che il soggetto operaio avrebbe potuto essere e non è stato. Realismo lirico. Avventura. Romanzo. Analisi. Sono le coordinate con cui l´intellettuale Tronti si orienta in quel secolo di ferro e di fuoco che si è chiuso tra grandi entusiasmi e insospettate delusioni.
Niente appare dolce e accattivante allo sguardo di chi racconta la sua storia, e non versa lacrime, non chiede comprensione. Eppure una sottile nostalgia solleva queste pagine dalla polvere delle ideologie, le rende palpitanti. La parola nostalgia può trarre in inganno, andrebbe sostituita con la parola dolore. Che è la lancinante scissione tra ciò che si era e ciò che si è diventati. Il destino di una classe e quello di uomo - pur su piani diversi - qui finiscono con il coincidere.
Torna alla mente una raccolta di saggi scritti in onore di Mario Tronti e dal titolo vagamente schmittiano: Politica e destino (edito da Luca Sossella). Saggio introduttivo di Tronti e poi i contributi (di Accornero, Asor Rosa, Boccia, Cacciari, Calise, Coldagelli, di Leo, Dominijanni, Olivetti, Valeriani e alcuni allievi che si firmano Epimeteo) che analizzano con molta libertà i pregi e i limiti del suo pensiero. E nel farlo, mostrano, come raramente accade con queste raccolte, affetti ed effetti teorici, legami sentimentali e connessioni storico politiche. Si ha insomma l´impressione che ciascuno ragionando su Tronti, faccia anche i conti con un pezzo importante della propria vita. Con ciò che si è stati e che improvvisamente torna a rivivere in un luogo che è memoria e delusione, distanza e coinvolgimento. La barra è pur sempre tenuta dall´esperienza dell´operaismo. Che nella versione di Tronti fu un modo di stare in Occidente, fuori dagli esotismi politici. Di quella "minoranza di massa" che ha cercato senza riuscirvi un´altra maniera di fare politica, raccontata da un eretico più che da un eterodosso, resta l´ombra di uno stile che è insieme attuale e inattuale.

il Riformista 21.12.07
Il pd chiuso nel perimetro teo-dem
di Emanuele Macaluso


Mercoledì scorso ho letto con ritardo l'articolo di Veltroni su "Repubblica" col quale replicava alle critiche di Miriam Mafai a proposito della sua intervista al "Foglio", e ho visto che anche lui come il capogruppo del Pd al Comune di Roma Battaglia dice che approvare la mozione per istituire il libro delle unioni civili «non cambia neanche una virgola» sulle condizioni di quelle coppie. Dovrei fare a Walter le stesse domande fatte ieri a Battaglia, ma voglio porre un problema più generale. Il Pd muove i suoi primi passi e si verifica quel che avevamo previsto sulla base delle posizioni assunte dal gruppo dei teo-dem confluiti nel partito. Il perimetro entro cui è possibile una posizione unitaria del Pd sui temi eticamente sensibili lo tracciano loro. Se non c'è unanimità, ha detto in una intervista al "Riformista" Paola Binetti, non si vota. E se si vota, come abbiamo visto, succede il finimondo. Debbo dire che il perimetro fu segnato anche dal gruppo più avanzato di popolari (Bindi, Castagnetti, e altri) con una dichiarazione che entusiasmò Fassino, D'Alema, Reichlin e anche Scalfari. Fuori da quel perimetro nel Pd non si può andare. È chiaro o no? E questo si può definire un partito laico?

il Riformista 21.12.07
Olocausto un monumento per lo sterminio di rom e sinti
In Germania è il tempo dei gitani
Mancano i dati e i numeri certi. I bimbi erano usati come cavie
di Paolo Soldini


Sessantacinque anni dopo la loro deportazione nei campi di sterminio nazisti, i Rom e i Sinti avranno il loro memoriale a Berlino, vicino a quello che ricorda l'Olocausto degli ebrei. E' l'assicurazione che gli esponenti di tutti i partiti tedeschi hanno dato ieri al Bundesrat (la Camera dei Länder) alla delegazione del Comitato centrale dei Sinti e dei Rom di Germania guidata dal presidente Romani Rose. Sarà una fontana di forma circolare, con un triangolo di pietra nera a memoria del pezzo di stoffa che veniva cucito sulle giacche degli internati nei campi nazisti. Particolare significativo, il progetto del monumento è stato presentato da uno studio di architetti israeliani.
La scelta della pietra nera non è casuale. In realtà il marchio distintivo per gli "Zigeuner" prigionieri nei Lager era, con la "Z" tatuata sul braccio, un triangolo rosso. Ma quasi sempre gli "zingari" venivano accomunati agli "asociali" (delinquenti abituali, prostitute, sbandati) e costretti ad esporre il contrassegno nero di costoro. Fin troppo facile cedere alla suggestione del confronto con quanto avviene oggi, come se non fossero passati decenni, qui da noi: "zingari" sinonimo di "criminali". Da tenere d'occhio, da reprimere. Da espellere. Nel confronto con l'atteggiamento delle istituzioni tedesche, con le belle parole con cui il presidente di turno del Bundesrat Ole von Beust (Cdu) ha risposto all'appello di Rose per cui "almeno qualcuno dei sopravvissuti faccia in tempo a vedere il monumento", non facciamo - va detto - bella figura.
E' vero, d'altra parte, che nel panorama di discriminazioni e di persecuzioni che l'Europa ha riservato, fin dal XIII secolo, ai Sinti e ai Rom arrivati dall'India a cercare nuovi spazi incalzati dalla spinta dell'Islam, i tedeschi sono quelli che più hanno da farsi perdonare. Massacri ed esodi forzosi sono cominciati molti secoli prima di quel 19 dicembre del 1942 in cui, con l' Auschwitz-Erlass, il destino degli Zigeuner tedeschi e dei paesi occupati venne accomunato a quello degli ebrei nella "soluzione finale". Fu un Asburgo, Carlo VI, a emanare, nel 1721, il crudelissimo editto che, rendendo giuridicamente non punibile l'uccisione degli "zingari", scatenò una caccia all'uomo che costò la vita a decine di migliaia di innocenti. Negli anni '80 del XIX secolo, il cancelliere Otto von Bismarck, riprendendo le teorie razziste di Gobineau fece approvare una serie di leggi che riservavano ai nomadi «un trattamento particolarmente e giustamente severo». Nel 1905 il direttore dell'Agenzia di informazione sui Gitani con sede a Monaco, lo "scienziato" Alfred Dillmann, produsse per le autoprità del Reich uno Zigeuner-Buch in cui i nomadi venivano definiti una «malattia sociale» e una «minaccia» dalla quale la popolazione tedesca doveva difendersi usando «punizioni senza tregua» di ogni comportamento «non rispettabile». Negli anni '20 fu ai rom e ai malati di mente che cominciarono ad essere dedicate le teorie sulla «preservazione della salute della razza» che avrebbero portato, nel giro di pochi anni, allo sterminio degli ebrei. Nel '35 gli "zingari" furono accomunati agli ebrei nelle discriminazioni delle leggi di Norimberga e la prima menzione di una soluzione finale per rom e sinti fu fatta da Himmler nel dicembre del '38. Nei Lager in cui venivano rinchiusi furono utilizzati, specialmente i bambini, come cavie umane. Un gruppo di 250 bambini rom furono i primi a sperimentare, nel campo di Buchenwald, il Zyklon-B, il veleno che sarebbe stato usato poi nelle camere a gas di Auschwitz.
Il 19 dicembre del '42 dalle stazioni del Reich partirono i treni per Auschwitz. Così cominciava la fase finale del Porrajmos, l'Olocausto ion lingua rom. Ai rom e ai sinti, all'arrivo, fu concesso di non sottostare alle selezioni con cui gli ebrei inadatti al lavoro venivano inviati subito nelle camere a gas. Furono relegati insieme, a nuclei familiari interi, in un settore del campo di Birkenau destinato solo a loro. Ma non era un privilegio: i medici nazisti volevano anche i bambini e i vecchi come "materiale" da studiare. Inoltre le SS temevano la rivolta che con ogni probabilità sarebbe scoppiata quando si fosse tentato di separare i bambini dalle madri e le donne dai loro uomini. Ma nell'estate del '44, in previsione dell'arrivo di seicentomila ebrei dall'Ungheria, lo Zigeunerlager venne "ripulito" in una sola notte, quella tra il primo e il due agosto: finirono tutti nelle camere a gas. Quanti erano? Quanti rom e sinti furono uccisi ad Auschwitz, negli altri Lager, nei territori occupati dell'est, nei pogrom in Germania e in Austria? Non si saprà mai, perché la maggior parte dei nomadi non era mai stata censita e gli assassini non tennero alcuna contabilità. Molte centinaia di migliaia di uomini e di donne, tra 250 mila e un milione secondo calcoli molto approssimativi, furono inghiottiti nel buio della storia. E qui da noi rinascono gli stessi pregiudizi le stesse intolleranze, si cuciono idealmente nuovi triangoli neri. Qui, se qualcuno proponesse di onorare la memoria degli "zingari" con un monumento, ci sarebbe una rivolta. Povera Italia.

L’espresso n.51 21.12.07
Sono Mussi e faccio la prima mossa
Di Stefania Rossini


Si dice felice della scelta di sinistra. Critica il percorso del Pd. Rivendica il suo primato nell'affrontare temi trascurati dalla politica. E afferma di avere rivoluzionato il ministero. Parla il leader della Cosa rossa

Fabio Mussi è uomo capace di giocarsi un amico per una battuta e un partito per un'idea. Poi magari li recupera entrambi, o se ne fa di nuovi. Di amici e di partiti. È andata così con D'Alema, che venne sostituito da Veltroni dopo una vita da 'fratelli gemelli', va così con quel Partito democratico che non è riuscito a considerare a sua misura. "Più guardo il Pd e più sono contento di stare qui", dice oggi che capeggia, un po' in condominio per la verità, la neonata federazione di sinistra. Se c'è un piacere nel fare politica, se quel piacere è socialità, intelletto e sfida, Mussi li incarna e li trasmette più di tutti gli altri. Tanto che, pure nell'occasione di un'intervista sentimentale, non rinuncia a irretire l'interlocutore con linguaggio erudito e vezzi toscani per convincerlo che è lì, nel suo percorso di vita e di battaglie politiche, la strada giusta e la verità della sinistra. Specie adesso che si trova a ricominciare da capo.
Allora, Mussi, è soddisfatto di questa nuova Cosa rossa?
"Stabiliamo la par condicio. Accetto di chiamarla Cosa rossa se il Partito democratico viene chiamato Cosa grigia. Il nome vero è La sinistra-l'arcobaleno".
Certo che se nel Pd hanno fatto un matrimonio, voi avete messo su una comune. Lì ci sono già conflitti di coppia. Qui che convivenza sarà?
"Mi auguro buona. Noi ci definiamo un 'soggetto unitario plurale federativo'".
Appunto.
"Conosco comuni, come quella berlinese di Rudy Dutschke, che produssero idee niente male".
Ma finirono presto. La vostra quanto durerà?
"Si vedrà. Saremo un riferimento per chi non vuole abdicare alla propria identità, ma una forza a sinistra del Pd sarà utile a tutto il sistema politico italiano".
Non si sente un po' solo? Eravate un gruppetto: lei, Fassino, D'Alema, Veltroni...
"Ricorda Camus? Il riferimento mitico del socialismo era Prometeo, l'uomo che ruba il fuoco agli dei. No, dice Camus, è più adatto Sisifo, costretto a riportare sempre la pietra in cima alla montagna".
Sisifo naturalmente è lei.
"Soltanto perché è di nuovo rotolata a valle la pietra che avevamo trascinato in cima alla montagna con la svolta del 1989".
Chi l'ha buttata giù?
"Un po' tutti. Ora il gioco è a chi mette la bandierina sulla montagnola come si faceva da ragazzi: faccio tutto io, ho la vocazione maggioritaria, eccetera. Ma allora come ora, si tratta di collinette di sabbia".
Sembrava che il leader naturale di questa sinistra arcobaleno fosse lei. Poi è arrivato Vendola. È un destino. Come con D'Alema, c'è sempre un candidato più candidato di lei.
"Guardi che questa frenesia di dirigere io non ce l'ho. È più interessante influire sugli eventi senza il bastone del comando".
Si sente anche un Richelieu?
"No, perché lui agiva nell'ombra. Io rompo gli schemi apertamente. Nel partito sono stato il primo a porre questioni nuove: il nucleare, l'ambiente, la caccia...".
Finirete anche voi per fare le primarie?
"Non credo che sia una politica buona quella che vive rivolgendosi di tanto in tanto al popolo. Se oggi tutto marcia su televisione e plebiscito, grazie, io scendo".
Lei ha altre proposte?
"C'è una frase strepitosa di Oscar Wilde: 'Sarebbe bello fare il socialismo, ma porta via così tante serate!'. Io ho passato quasi tutte le serate della mia vita nelle sezioni, nei cinema, nei teatri, nelle piazze".
Le rimpiange così tanto?
"Non ho mica smesso. Ma quelle discussioni interminabili sono state la parte migliore della politica, quella che ha influito di più sull'Italia moderna".
Ma di che cosa si parla oggi? Con le grandi speranze non sono scomparsi anche i grandi temi?
"Tempo fa mi è arrivata una lettera di un operaio di Piombino che diceva: 'Non vi seguo più, ormai vi occupate soltanto di carcerati, di finocchi e di negri'".
Un po' è vero. Che cosa gli ha risposto?
"Quello che rispondo a lei. C'è una sostituzione di valori che deriva da un'assenza. Gli operai sono spariti, cancellati. Eppure sono sette milioni. Un pezzo di società che tu non vedi più. Così finisce che anche loro non ti vedono più".
Sta rimpiangendo l'operaismo?
"Per carità! Quella era roba per gente che guardava la classe operaia come gli antropologi guardano le tribù amazzoniche. Io voglio ridare centralità al lavoro, continuando a difendere i negri e gli zingari".
Dimentica gli omosessuali.
"Figuriamoci. Tra i comunisti sono stato il primo a occuparmi dei loro diritti. Nel 1988 andai a un convegno dell'Arcigay organizzato da un giovanissimo Grillini...".
Insomma, è stato il primo in tutto?
"Io leggo, mi informo, sono curioso. E precedo gli altri. Nelle cose migliori che ho fatto sono sempre stato guardato come un tipo bizzarro. Ma questo mi ha aiutato, perché un tempo venivano cooptati i giovani migliori, che coincidevano con quelli che rompevano le scatole. Ora bisogna essere dei cortigiani e si aprono carriere solo ai conformisti".
Questa società non le piace proprio, eh?
"C'è un'evaporazione culturale e morale impressionante. E tutto un mondo di seconda mano: un po' di tecnologia, un po' di apologia di mercato, un po' di magia, un po' di pregiudizio, un po' di religioni. È un bricolage. Lo diceva già Adorno, uno dei miei autori. Sa che ho fatto la tesi su di lui?".
Lo dice spesso. Non tiene nascosti i suoi successi scolastici.
"Tutti nove e dieci al liceo, terza pagella d'Italia alla maturità. Non ho mai capito chi fossero gli altri due. Poi concorso alla Normale: sesto posto nel 1967".
E qui si sa il nome di chi l'ha preceduta...
"Già, D'Alema. Comunque in quelle scuole per figli di professionisti, per me farcela è sempre stato un punto d'onore. La mia era una famiglia di operai convinti di essere un'aristocrazia, portatrice di un principio morale".
Anche la povertà era un valore?
"No, ma eravamo poverissimi. Mio padre divenne improvvisamente cieco e vivemmo per anni con il sussidio di disoccupazione. Per intenderci, si progettava di comprare un paio di scarpe due anni prima".
Quindi fu uno sgobbone per riscattarsi?
"Neanche per sogno. Io apprendo facilmente. Al liceo facevo pallavolo, calcio, mezzofondo, atletica, vela, e studiavo la mattina all'alba. Poi all'università, tra amori e politica, non ho più dormito".
È lì che ha conosciuto sua moglie?
"No, mi misero quella bellezza seduta accanto in quarto ginnasio. Stiamo insieme da quarant'anni ed è ancora una bellezza".
Lei è capace di non temere il tempo che passa?
"Sì perché ho un eccellente rapporto con la morte. Salvo in sogno, per la verità".
Che succede in sogno?
"Catastrofici incidenti aerei, ma molto spettacolari, da film americano. Qualche volta ci rimango secco, altre volte no. Ma sospetto di farli per gustarmi lo spettacolo".
Ha due figlie che lavorano all'università. Non teme un conflitto di interessi?
"Io sono stato cooptato. Loro c'erano già. Erano precarie e precarie sono rimaste. Ma nel frattempo mi hanno dato due stupende nipotine".
Invece lei che ha fatto in questo anno e mezzo da ministro?
"Una rivoluzione. Ho fermato la proliferazione delle sedi, ho bloccato i concorsi per ordinari e ho aperto quelli per ricercatori. Ho mandato in pensione i vecchi professori all'età giusta e dal prossimo anno farò partire l'Agenzia di valutazione. Risultati buoni, premiati. Risultati cattivi, puniti".
Posso chiederle perché tiene da sempre quei baffi e quei capelli che la fanno somigliare un po' a Hitler, un po' a Günter Grass?
"La fisiognomica è una scienza medioevale. Ma lei almeno è benevola, Berlusconi sostiene che sembro un salumiere".
Glielo ha detto in faccia?
"No, ha fatto circolare la voce. L'unica volta che l'ho visto in privato era il 1996 ed era occupato a compiacermi".
Racconti tutto.
"Lo faccio per la prima volta e solo perché si è riaperta la compravendita. Dunque Berlusconi, che considero importante nel senso che basta guardare lui per sapere come non deve essere l'Italia, mi invita a cena. I suoi consiglieri sono tutti lì a dire quanto sono bravo colto e intelligente. A un certo punto lui mi sussurra: 'Ah, con le sue qualità, se lei solo volesse..'".
Che cosa gli ha risposto?
"Così: 'Lei pensa che tutti abbiano un prezzo e invece sarà fregato da quelli che non ce l'hanno'".
E sicuro che andrà a finire così?
"Ci conto".

Profondo rosso. Baby ministro
Fabio Mussi a 11 anni. Nato a Piombino nel 1948, la sua è una famiglia di tradizione comunista. Suo padre era un operaio portuale il tempo delle meleN el 1965 con Luana Benini, sua compagna di liceo, che diventerà sua moglie. La coppia ha avuto due figlie: Valentina e Gaia, oggi trentenni
Vado al massimo Capodanno 1968 con Massimo D'Alema. Entrambi sono stati ammessi alla Normale di Pisa (quinto e sesto classificato), dove Mussi si laureerà brillantemente in filosofia con una tesi su Adorno comunista in erba All'anniversario della LIberazione nel 1975. Mussi è entrato nel Comitato centrale del Pci nel 1969, a soli vent'anni l'addio al pci. Nel 1989 con Walter Veltroni. Mussi è tra i più convinti sostenitori della svolta che porterà dal Pci al Pds
Banchi rossi Con Giorgio Napolitano al congresso del Pds nel 1990. Con Veltroni e D'Alema, Mussi è nella segreteria del partito guidato da Occhetto.
Compagno presidente L'abbraccio con Fausto Bertinotti dopo l'elezione del leader di Rifondazione a presidente della Camera nel 2006. Mussi diventa ministro del governo Prodi a pugno chiuso Con Alfonso Pecoraro Scanio, Franco Giordano e Oliviero Diliberto all'assemblea generale della Cosa rossa lo scorso 8 dicembre a Roma

Barra a sinistra
1948 Fabio Mussi nasce a Piombino il 22 gennaio da una famiglia di tradizione comunista. Il padre, operaio portuale, perde la vista a 30 anni. 1967 Terminato il liceo, è ammesso alla Normale di Pisa, dove si laurea brillantemente in filosofia, con una tesi su Adorno.
1969 Entra nel Comitato centrale del Pci. Ha solo 20 anni e per ammetterlo viene cambiato lo statuto. Quasi subito vota contro l'espulsione del gruppo del Manifesto e viene sospeso.
1974-79 Lavora al settimanale 'Rinascita' come giornalista e poi come vicedirettore. Intanto ha sposato la compagna di liceo Luana Benini, da cui ha le figlie Valentina e Gaia, oggi trentenni.
1980-83 Su decisione di Berlinguer, è segretario regionale del Pci in Calabria.
1983-88 Diventa responsabile della Stampa e propaganda del Pci e poi condirettore de 'l'Unità'.
1989 Con D'Alema, Fassino, Veltroni, Petruccioli è nella segreteria guidata da Occhetto. È tra i più convinti a sostenere la svolta dal Pci al Pds.
1992 È eletto per la prima volta deputato. Sarà sempre confermato e anche vicepresidente della Camera.
2006 È nominato ministro dell'Università e della Ricerca del governo Prodi.
2007 A capo del cosiddetto Correntone, il 20 aprile si stacca dal progetto del Partito democratico con l'intento di fondare una nuova forza di sinistra. Aderirà il 9 dicembre alla federazione 'La sinistra-l'arcobaleno' con Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani.

L’espresso n.51 21.12.07
Umani per caso
di Piergiorgio Odifreddi


Discendiamo dalla stessa donna: un'africana. Il colore della pelle è determinato dall'ambiente. Mentre la storia dell'evoluzione non segue schemi fissi. Il pioniere dell'antropologia genetica spiega a un matematico le nostre origini. E racconta le basi delle sue scoperte Colloquio con Luca Cavalli-Sforza

Il nome di Luca Cavalli-Sforza, professore di genetica all'Università di Stanford, è da mezzo secolo associato a un'area di ricerca che si potrebbe definire "archeologia o antropologia genetica", perché cerca di ricostruire la storia dell'umanità e delle sue migrazioni, a partire da un'analisi della variabilità genetica delle popolazioni. Cavalli-Sforza ha riassunto i risultati di una vita di lavoro in 'Geni, popoli e lingue', e li ha descritti nei particolari in 'Storia e geografia dei geni umani', scritto in collaborazione con Paolo Menozzi e Alberto Piazza (ambedue Adelphi). Con Mondadori ha pubblicato 'Perché la scienza. L'avventura di un ricercatore'. L'abbiamo incontrato a casa sua a Milano, dove torna regolarmente da Stanford e dove ha spiegato, ancora una volta, che non esistono le razze umane e che tutti discendiamo da una stessa madre africana.
Lei dice spesso che siamo tutti africani.
"L'inizio della nostra specie è in Africa orientale. Per molto tempo ci siamo riprodotti lentamente, per la scarsezza del cibo: eravamo cacciatori e raccoglitori. Non sappiamo con esattezza quanti fossimo, forse fra i 100 mila e un milione. Ma intorno a 10 mila anni fa eravamo circa 5 milioni. A quel punto, in tutti i posti in cui c'erano forti concentrazioni di persone sono cominciate l'agricoltura e l'allevamento: la produzione di cibo".
E discendiamo da un'unica madre...
"Tutti noi abbiamo nelle cellule dei mitocondri (organi addetti alla respirazione cellulare, costituiti da sacchette contenenti enzimi respiratori, ndr), che si trasmettono soltanto per via materna. Andando avanti, i mitocondri delle donne senza figlie si estinguono. Risalendo invece all'indietro, si arriva sempre a trovare quello che si chiama l'ultimo antenato comune: una donna da cui discendono tutti i mitocondri odierni, che è l'Eva africana. All'epoca c'erano molte altre donne, ma i loro mitocondri si sono estinti nel corso del tempo".
C'è anche un Adamo?
"Sì. È determinato in maniera analoga, guardando al cromosoma Y, che è trasmesso dal padre ai figli maschi".
Ed è contemporaneo a Eva?
"No. Eva potrebbe avere tra i 200 mila e i 130 mila anni, Adamo sui 100 mila. Il motivo è che gli uomini hanno più figli, perché sono più facilmente poligami delle donne. Si sposano più tardi e hanno meno generazioni. Ma muoiono in maggior percentuale delle donne: alla nascita i maschi sono il 5 per cento in più, a vent'anni sono pari alle femmine, e fra i centenari solo il 20 per cento è maschio".
La genetica delle popolazioni coincide anche con la storia delle lingue?
"Non ci si può aspettare una coincidenza perfetta, perché le lingue possono essere soppresse: sono bastati 150 guerrieri spagnoli a conquistare l'America e a imporre la loro lingua a un continente. Ma quando abbiamo raccolto i dati per la 'Storia e geografia dei geni umani', ci siamo accorti che l'albero genetico assomigliava a quello linguistico: i gruppi geneticamente simili appartenevano alle stesse famiglie linguistiche. E abbiamo pensato a una spiegazione semplice, contenuta in una parola chiave: noi non sappiamo come si trasmettono le lingue, ma parliamo di 'lingua madre'. Dunque, pensiamo che le lingue si trasmettono anch'esse da genitori a figli, come le altre eredità genetiche".
Lei è medico. Perché è passato alla genetica?
"Mi ha convinto il mio professore, Adriano Buzzati-Traverso, del quale ho sposato la nipote. Buzzati era tornato dagli Stati Uniti con dei libri meravigliosi di statistica: in Italia non ne esistevano di ben fatti, e mi ero reso conto di averne bisogno".
Considerava lo studio della matematica così importante?
"Sì. Ma i matematici non sanno spiegare come la si usa, e per le applicazioni bisogna rivolgersi agli ingegneri. Comunque la matematica mi è servita. Ho cominciato la mia ricerca con la genetica dei batteri. E quando sir Ronald Fisher, uno dei padri della statistica moderna, mi sentì parlare al congresso di Stoccolma del 1948, mi offrì un posto a Cambridge: voleva lavorare sulla ricombinazione dei batteri, e gli serviva un genetista batterico. Nel 1950 Fisher aveva iniziato a usare le differenze di gruppi sanguigni per studiare l'ereditarietà: è partito col Rh, e ne ha tratto una bellissima teoria del gene. Però non è che su un gene si possa dire molto: si può trovare la storia di quel gene. Ma a Fisher interessava il fatto che alcune forme di questo gene ci sono nei primati vicini a noi, e altre no".
È questo che permette di andare a vedere i punti di separazione con le scimmie?
"Certo, la storia genetica delle scimmie si conosce ormai molto bene. Ci sono due modi di procedere. Uno è studiare le proteine, che sono prodotti dei geni, e questo l'abbiamo fatto fino al 1980: dapprima con i gruppi sanguigni, poi con altre proteine, accumulando moltissimi dati. Dal 1982 abbiamo ricominciato da capo, andando a guardare le differenze del Dna. E non solo abbiamo confermato tutto ciò che avevamo fatto con le proteine, ma siamo andati molto più avanti".
In altre parole, c'è molta casualità e nessuna pianificazione delle specie, con buona pace dei creazionisti.
"Infatti. La selezione serve solo a spiegare gli adattamenti selettivi, che dipendono dall'ambiente e non dalla storia. Ad esempio, il colore della pelle, che varia con la latitudine: all'equatore sono neri, e poi si schiariscono allontanandosene. Oppure le misure del corpo, che dipendono dal clima: al freddo la gente è bassa e tonda, perché cosí il rapporto tra volume e superficie è più vantaggioso, e si perde meno calore; al caldo, invece, sono lunghi e sottili. Al freddo gli arti sono piccoli, per non perdere troppo calore, mentre al caldo sono lunghi, e le braccia degli scimpanzè arrivano fino a terra".
E come si studiano gli effetti della storia?
"La natura fa le cose in maniera approssimativa, essendo costretta a usare ciò che ha a portata di mano: così genera molte mutazioni casuali, una piccola parte delle quali produce vantaggi evolutivi. La maggior parte delle mutazioni invece non serve a niente, rimane 'sterile', ma sono proprio le mutazioni selettivamente neutre a permetterci di studiare la storia delle popolazioni, attraverso i metodi statistici propri dei fenomeni casuali. Il che è appunto quello che ho cominciato a fare nel 1950 a Parma".
In che modo?
"Avevo uno studente prete, Antonio Moroni, che conosceva tutti i parroci, e ha spiegato loro perché volevo prendere il sangue ai parrocchiani. Mi ha anche fatto avere il permesso di consultare i libri parrocchiali, che risalivano indietro di 500 anni. Ho potuto ricostruire le genealogie della popolazione e studiare l'effetto del caso, che in villaggi piccoli è molto forte. Ho analizzato le differenze tra i gruppi sanguigni in paesi di ogni dimensione e posizione: piccoli, medi e grandi, in montagna, collina e pianura".
E cosa ha trovato?
"Che i dati reali concordavano con le aspettative teoriche, ottenute con una simulazione che partiva da villaggi tutti uguali, e li lasciava diversificare casualmente per 400 o 500 anni: col tempo i paesini molto piccoli raggiungevano i corretti equilibri di variazione. Quel primo studio mi ha dato un motivo per credere che potevo incominciare a risalire indietro nell'evoluzione di 5 mila o 50 mila anni, basandomi sul fatto che si possono applicare le leggi del caso. Se invece tutto fosse dipeso dalla selezione, non si sarebbe saputo cosa attendersi".
E quali sono stati i risultati?
"Una decina d'anni dopo che avevo lasciato Cambridge, l'Università di Pavia comprò il primo calcolatore. E con un mio studente ricostruimmo un primo albero a partire da dati esistenti, relativi a 15 popolazioni mondiali: tre per ciascun continente, e tutte lontane una dall'altra. Nell'albero l'Africa stava da un lato, e l'Europa nel mezzo. Le popolazioni dello stesso continente stavano insieme, e i continenti erano separati in base alla migrazione, nello stesso modo in cui sono disposti sulla carta geografica. Quello è stato il nostro primo lavoro, pubblicato nel 1963".
E alla fine cosa si è ottenuto?
"Si è precisata in maniera genetica la storia che gli antropologi avevano abbozzato, basandosi sui fossili. L'uomo moderno compare in Africa, e arriva in Medioriente 100 mila anni fa. Poi scompare di lì 80 mila anni fa, quando arriva il Neanderthal, che stava in Europa ed è emigrato a causa del freddo. Quarantamila anni fa il Neanderthal scompare dovunque, e si estingue circa 25 mila anni fa: probabilmente per una questione di concorrenza con l'uomo moderno, cioè noi".
Sono state fatte analisi dirette sul Neanderthal?
"Sì, sul Dna mitocondriale, che è l'unico pezzo di cromosoma che si riesce a vedere in resti così vecchi: si sono studiati tre esemplari di regioni diverse, e sono risultati tutti e tre diversi dall'uomo moderno. Ma fino a 100 mila anni fa il Neanderthal e il Sapiens usavano gli stessi strumenti. Invece 50 mila anni fa, quando cominciarono a emigrare dall'Africa e invadere il resto del mondo, i Sapiens avevano ormai strumenti migliori. E uno di questi strumenti era il linguaggio".
La scoperta di un'origine comune e africana dell'umanità non dovrebbe rendere ridicolo il razzismo?
"Assolutamente. Io detesto tutti i fondamentalismi, quello cattolico in particolare, ma il mio impegno sociale è proprio sulle questioni del razzismo. Anche perché le differenze principali tra le popolazioni sono sempre dentro di esse, con buona pace di chi parla di 'razze pure'". n

Mille volti ma una razza
di Michele De Mieri

Luigi Luca Cavalli-Sforza per decenni si è dedicato allo studio dei geni umani non per prevenire malattie del corpo, o guarirne di già note, ma per tracciare un percorso dell'evoluzione della specie umana. Attraverso lo studio delle migrazioni fondanti e con la finalità di dimostrare l'esistenza di un unico ceppo umano, Cavalli-Sforza vuole sfatare così ogni idea di esistenza di razze superiori e inferiori. La genetica geografica di Cavalli-Sforza si fonda sull'idea che i geni dell'uomo contengono ancora una traccia della storia dell'umanità, un'intuizione geniale e vincente dello studioso italiano, quasi ottantaseienne (li compirà il prossimo 25 gennaio) nato a Genova e formatosi fra Torino, Pavia e Milano per poi emigrare una prima volta a Cambridge, in Inghilterra, e poi definitivamente all'inizio degli anni Settanta a Stanford negli Stati Uniti.

L’espresso n.51 21.12.07
Prove di dialogo tra i poli
Un'intesa tra Berlusconi e Veltroni non solo sulla legge elettorale. Patto a termine
di Marco Damilano


Un'intesa tra Berlusconi e Veltroni non solo sulla legge elettorale. E un esecutivo di transizione se Prodi dovesse cadere. Parla l'ex ministro di Forza Italia colloquio con Giuseppe Pisanu

Un compromesso a termine, alla luce del sole e nell'interesse esclusivo del Paese... Giuseppe Pisanu cerca con cura le parole per descrivere a cosa deve portare il dialogo tra Silvio Berlusconi e Walter Veltroni: a una nuova legge elettorale, ma non solo. Seduto sotto una riproduzione della lettera di Paolo VI alle Br durante il sequestro di Aldo Moro, suo punto di riferimento politico, l'ex ministro allarga l'elenco delle convergenze: sicurezza, immigrazione, missioni all'estero. E ipotizza un nuovo governo fondato su Pd e Forza Italia.
Senatore Pisanu, cosa succede nella ex Casa delle libertà? Gianfranco Fini attacca Berlusconi e minaccia di andare alle prossime elezioni con alleanze diverse: il Partito della libertà ha terremotato il centrodestra, per qualcuno è stata un'auto-spallata...
"Io vedo in queste polemiche un sovraccarico di malintesi e di sospetti, anche per il modo con cui il nuovo partito è stato annunciato. Ma non si può dimenticare che l'idea del partito unico dei moderati è in circolazione, tra alti e bassi, da almeno sei anni. La nascita del Pd di Veltroni ha impresso una forte accelerazione che Berlusconi ha cercato di tradurre in pratica con un colpo di ingegno, prendendo però alla sprovvista e disorientando i suoi alleati. La scossa di San Babila ha liquidato definitivamente la Casa delle libertà, ma non ha neppure scalfito la voglia di unità politica che anima i moderati. Con questa voglia tutti i partiti del centrodestra devono fare i conti".
Sarà, ma Fini e Casini si sentono accerchiati...
"L'apertura di Berlusconi ai suoi alleati e ad altre personalità di prestigio era e rimane sincera. Forse non è stata colta come si poteva legittimamente sperare".
Con quali conseguenze?
"Fino a questo momento il Pdl ha continuato ad apparire soltanto come una reincarnazione di Forza Italia. Penso perciò che Berlusconi debba rilanciare un appello più convincente ad An, all'Udc e a quanti si riconoscono negli ideali del Ppe per progettare e costruire insieme il partito dei moderati italiani. Con metodo democratico, sottolineo: il che vuol dire definire insieme le regole, il programma e le procedure, partendo dal basso".
Lei negli ultimi mesi è stato molto critico con Forza Italia, si è perfino ipotizzato il suo passaggio a un polo di centro, la Cosa bianca che va da Luca Cordero di Montezemolo a Savino Pezzotta. La interessa questo progetto?
"Io sono soltanto interessato alla costruzione del partito unitario dei moderati italiani, un partito che si ponga in alternativa al Pd come pilastro di un moderno bipolarismo e di una vera democrazia dell'alternanza. Teoricamente ci sarebbe spazio per un terzo polo, ma allo stato attuale delle cose sarebbe uno spazio poco attrattivo, specialmente per quei moderati che puntano sulla vittoria elettorale. Per vincere le elezioni occorre una forza più grande. E francamente non vedo come si possa costruirla senza Berlusconi".
Il rassemblement moderato non si fa senza il Cavaliere. E senza Fini e Casini?
"Sarebbe molto più difficile: senza di loro rischieremmo di dividere e di rendere minoritario il campo dei moderati".
Sul versante opposto, quello del centrosinistra, lei fa apertamente il tifo perché il tentativo di Veltroni riesca. Perché?
"Per me il Pd è un partito di sinistra che marcia verso il centro, proponendosi come il principale avversario di un polo dei moderati che ancora non c'è. È chiaro che, almeno in questa prima fase, Veltroni può guadagnare poco al centro e perdere più voti a sinistra. Ma alla lunga dovrebbe andare meglio, sia perché la sinistra radicale è condannata alla marginalità politica, come accade già nei principali paesi europei, sia perché la questione etica, sui cui nel Pd convivono sensibilità diverse, troverà prima o poi uno sbocco coerente con l'identità cattolica del popolo italiano. E non capisco perché mai mentre Veltroni marcia verso il centro il partito dei moderati dovrebbe restringere il suo campo d'azione. Dobbiamo allungare lo sguardo ai tradizionali insediamenti sociali e culturali della sinistra italiana. Già oggi Forza Italia è il partito di maggioranza relativa tra gli operai nel nord. Ora occorrono ulteriori consensi anche nel mondo della cultura, nelle scuole, nelle università, nelle organizzazioni sindacali e tra gli imprenditori, nell'universo del volontariato che raccoglie cinque milioni di italiani".
I moderati di Berlusconi e i democratici di Veltroni si contenderanno lo stesso elettorato di centro?
"La mia idea è esattamente questa: se loro vengono verso di noi, noi dobbiamo andare verso di loro. È in questa competizione al centro che si possono creare le basi di quel comune sentire tra maggioranza e opposizione che caratterizza le democrazie più avanzate".
Altro che comune sentire: in questi giorni il timore dei partiti minori è un accordo Berlusconi-Veltroni sulla legge elettorale che li taglierebbe fuori. Fini ha rispolverato un linguaggio da girotondino: inciucio, patto della frittata...
"Lasciamo stare le polemiche e veniamo al sodo. Il dialogo tra Berlusconi e Veltroni riguarda il superamento del bipolarismo coatto e la nascita di una vera democrazia dell'alternanza, una democrazia fondata su due schieramenti omogenei al loro interno e tra loro alternativi. I sistemi elettorali più funzionali a questo assetto politico sono due: il maggioritario e una legge proporzionale con effetto maggioritario".
Il modello tedesco che piace ai centristi di Casini, ma anche a Fausto Bertinotti e a qualche esponente del Pd fa parte di questi sistemi?
"Direi di no: in Germania c'è un proporzionale puro con uno sbarramento al cinque per cento che avrebbe bisogno di correttivi appropriati per produrre effetti maggioritari. Lì ha funzionato finché il numero dei partiti era limitato, ma dopo la riunificazione è entrato in crisi. Noi abbiamo bisogno di una democrazia dell'alternanza. Altrimenti c'è il riflusso verso il consociativismo, il trasformismo e il potere di ricatto delle minoranze e delle minimanze".
C'è un altro scenario: il dialogo sulla legge elettorale fallisce e si va ai referendum. Sarebbe una buona soluzione?
"I referendum li temono in molti, anche tra coloro che li minacciano. Penso perciò che la bozza di legge Bianco sia una buona base di partenza per arrivare a una legge adatta al pluralismo politico italiano".
Lei ha vissuto in prima persona la stagione del compromesso storico tra Dc e Pci come capo della segreteria politica di Moro e di Zaccagnini. Sono passati trent'anni: vede qualche somiglianza?
"La storia non si ripete mai, ma qualche similitudine c'è. Anche allora, nel 1976, le elezioni ebbero due vincitori, la Dc e il Pci di Berlinguer. Nessuno era in grado di esprimere da solo un governo autorevole, ma ciascuno era in grado di paralizzare l'altro. C'era un paese diviso a metà, una gravissima situazione economica che richiedeva forti interventi e coesione sociale e c'erano infine istituzioni bisognose di profondi cambiamenti. Un'esigenza fortemente avvertita da Moro che invocava la nascita in Italia di un nuovo senso del dovere".
Trent'anni fa Dc e Pci fecero la maggioranza insieme. E oggi?
"Berlusconi e Veltroni sono leader di due poli contrapposti. Questo non toglie che, in un paese mal ridotto come il nostro, il dialogo possa estendersi dalle questioni che sembrano di palazzo come la legge elettorale ai problemi più pungenti della vita quotidiana. Penso alla crisi economica, alla sicurezza, all'immigrazione, per non parlare delle responsabilità internazionali dell'Italia: tra un mese il Parlamento sarà chiamato a rifinanziare le missioni militari all'estero".
Se cade il governo Prodi, Veltroni e Berlusconi dovrebbero fare un governo insieme?
"Penso come Berlusconi che bisognerebbe andare subito alle elezioni. Ma non escludo la possibilità di un governo di transizione che sistemi le questioni più urgenti e crei un clima più sereno per la prossima campagna elettorale".
Quello tra Moro e Berlinguer fu il compromesso storico. E quello tra Veltroni e Berlusconi?
"Un compromesso a termine, alla luce del sole e nell'interesse esclusivo del paese".
Veltroni invita Berlusconi a dichiarare fin da ora che con qualsiasi legge elettorale i partiti maggiori non stipuleranno alleanze contro natura solo per vincere le elezioni. Siete pronti a raccogliere la sfida?
"Dal punto di vista di Veltroni sarebbe un atto di rottura e di depurazione dell'attuale quadro politico. Per noi avrebbe lo stesso significato, se il partito dei moderati esistesse già. Comunque i vantaggi sarebbero evidenti: i due partiti maggiori semplificherebbero così il sistema politico lasciando spazi alla loro destra e alla loro sinistra e al tempo stesso getterebbero le basi di un futuro bipartitismo".
Veltroni è disposto a rinunciare a Rifondazione. E voi? Siete pronti a mollare la Lega? E Storace?
"La Lega non ha mai rinunciato al suo spazio autonomo: è un partito localista che rifiuta a priori la confluenza in un partito nazionale, anche se resta disponibile ad accordi elettorali e di programma. Per gli altri partiti, alla nostra destra o alla nostra sinistra, deciderà il risultato elettorale".

L’espresso n.51 21.12.07
Colloquio con Maurizio Pollini. Dialogo al pianoforte
di Riccardo Lenzi


La musica può cambiare il mondo. E il passato va letto alla luce del presente. Parla il maestro Maurizio Pollini. Alla vigilia di un ciclo di concerti a Roma

La visione storica e musicale di Maurizio Pollini pare, a chi ascolta la sua pensosa voce baritonale stratificare concetti in maniera pacata e assorta, chiara e confortante, in un'epoca in cui le concezioni prevalenti sono quelle di un tempo aperto, multiplo ed eterogeneo: il suo è un tempo ciclico, orientato secondo un asse con tutte le possibilità di arresto, ovvero conservatorismo, ritorno all'indietro, cioè rinascimento o reazione, e marcia in avanti, ossia riforma o rivoluzione. Illuministicamente, il suo modello interpretativo dell'evoluzione artistica e musicale si fonda sull'idea che la storia abbia un unico senso e che lo storico come il critico o l'artista debbano seguire tale filo per raccontarla e per giudicare le opere, singolare parafrasi della via alla salvezza agostiniana. Per Pollini, come a suo tempo per Luigi Nono e Claudio Abbado, la musica è apertura verso l'altro. Più volte i tre musicisti hanno insistito sul valore educativo, etico e politico della musica. Esiste una profonda interazione tra la composizione di un brano e la sua realizzazione, poiché dalla constatazione che la musica è suono deriva l'importanza dell'aspetto esecutivo. La lettura di un'opera del passato è influenzata dal tempo in cui viene realizzata. Forte allora è il legame tra musica e storia come evidenziò Nono in una conferenza del 1959 dove affermò la necessità di collocare sempre l'arte in un contesto: un compositore non può scrivere in base a principi scientifici che prescindono dalla propria epoca. In pratica il ruolo di un pianista o di un direttore d'orchestra è quello di fare dialogare due periodi storici: si deve parlare del proprio tempo attraverso un'opera del passato. Parlare del valore storico della musica vuole dire anche affrontare i problemi della sua funzione e della sua destinazione. Nono, così come Brecht, riteneva che l'arte non avesse solo un ruolo di critica sociale, ma potesse anche agire sulla realtà contribuendo a formare le coscienze. La musica deve parlare della realtà e per questo richiede la massima attenzione da parte del pubblico. Questi sono solo alcuni dei temi presupposti dal ciclo di concerti 'Pollini prospettive', a Santa Cecilia, a Roma, dal 5 gennaio, ma anche dall'ultimo anello dell'integrale discografica beethoveniana, ovvero le Tre sonate opera due, e dalla prossima pubblicazione, in primavera, dei Concerti K414 e K491 di Mozart, dove Pollini dalla tastiera guiderà i Wiener Philharmoniker.
Maestro Pollini, nei suoi programmi concertistici lei non ama suonare la musica moderna da sola, ma affiancarla a brani più 'di repertorio'. Perché?
"A Roma presenterò opere di Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen e Luigi Nono; ormai esse hanno molti anni, ma sono definite ancora moderne. Per me è una cosa essenziale della vita musicale di oggi che questi grandi compositori e in generale le tendenze avanzate della musica vengano a contatto con la sensibilità profonda dello spettatore. C'è stata nel Novecento un'enorme evoluzione del linguaggio musicale che ha creato una certa frattura tra il grande pubblico e le creazioni dei musicisti. È fondamentale che questo vuoto venga colmato, che i giovani compositori e tanti altri che scrivono oggi abbiano un contatto con un pubblico sempre più vasto. Ho presentato grandi compositori della seconda metà del Novecento perché penso che proprio lì si debba insistere perché questa sensibilità venga creata in chi ascolta. Attualmente, per mancanza di frequentazione e di educazione, il pubblico non riconosce come linguaggio ciò che lo è, anche se più avanzato rispetto a quelli tradizionali. Per questo sarebbe necessaria una regolarità nella presentazione di queste opere".
Lei crede ancora nella linea di sviluppo che va da Arnold Schoenberg a Pierre Boulez?
"Certamente, pur essendo due compositori vissuti in periodi diversi. Quando Igor Stravinskij, ormai anziano, si accostò alla musica di Anton Webern, capì che quello era il cammino per il futuro, riconoscendone con grande onestà intellettuale l'importanza e la modernità. Le prime esperienze musicali, in seguito, di Boulez e Stockhausen, come dei nostri Berio e Nono, non hanno potuto che proseguire questo filone, che in definitiva conteneva più possibilità per l'arte a venire. Ognuno di questi compositori naturalmente ha percorso vie e strade diverse per la sua diversa sensibilità o forma di razionalità, perché in Nono si avverte chiaramente una radice italiana molto profonda, in specie un rapporto con l'antica musica veneziana; in Boulez ci sono alcuni elementi che lo riallacciano alla tradizione francese. Non casualmente a Santa Cecilia ho presentato un programma che unisce ai suoi brani quelli di Claude Debussy. Stockhausen ha in genere maggiori legami con Schoenberg e con la cultura tedesca. Di quest'ultimo ho programmato due 'Klavierstücke' (per l'esattezza il settimo e ottavo), 'Kontrapunkte', 'Zeitmasse' e 'Kreuzspiel'. Le esecuzioni di queste opere avranno inoltre il significato di rendere un omaggio alla memoria di questo grande genio, recentemente scomparso. Nei concerti che farò con il Maestro Antonio Pappano, con il quale sono felice di iniziare una collaborazione, sono programmate anche opere di Bruno Maderna, Pierre Boulez e Luca Francesconi, in particolare di quest'ultimo un brano in prima esecuzione assoluta, 'Hard Pace', concerto per tromba e orchestra".
Sempre nei programmi ceciliani, nel concerto dell'11 gennaio, c'è una serata dedicata a Chopin e a Nono. Cos'è che li unisce? Forse l'introspezione, il lirismo?
"Quello è un aspetto. Due compositori pure straordinariamente diversi. Non è il caso di parlare dell'importanza di Chopin. Nono ha in comune con lui la grandezza poetica. Nelle sue composizioni, anche le più violente come 'A floresta è jovem e cheja de vida', ci sono dei momenti lirici assolutamente eccezionali. Un lirismo davvero fuori dal comune: egli aveva la capacità di scrivere per la voce in un modo veramente unico. Questo pezzo che viene presentato fa parte del suo periodo politico più acceso. È infatti dedicato al Fronte nazionale di liberazione del Vietnam e certamente ha ancora oggi un'attualità politica: non è quella di stretta osservanza marxista che Nono professava allora, ma quella della protesta contro la guerra, quanto mai attuale. Ho programmato questo brano sia perché ho una forte relazione con esso, in quanto assistei alla prima rappresentazione e un entusiasmo che sicuramente non è venuto meno col tempo. Penso che anche questo periodo di Nono abbia un grandissimo valore estetico al di là del messaggio politico e dovrebbe oggi essere riascoltato con una mentalità aperta e non legata alle immediate passioni politiche come poteva avvenire al momento. Io oso sperare che sia il caso di fare i conti con questi capitoli della storia della musica vedendone la portata e l'interesse nell'evoluzione del linguaggio musicale".
E fra i nostri contemporanei, chi la interessa in particolar modo?
"Salvatore Sciarrino, Giacomo Manzoni, Helmut Lachenmann, già allievo di Nono e Stockhausen. Ma ce ne sono molti altri, perché la musica di oggi è quanto mai viva, anche se magari costretta a operare in condizioni difficili. Mi piacerebbe, magari in un prossimo futuro, dedicare un ciclo di concerti anche ad altri autori, come per esempio Wolfgang Rihm, Beat Furrer, Adolfo Nunez e Gérard Grisey".
Nei programmi romani ci sarà molto Brahms: una persona dalla vita privata schiva, riservata che poi, dinanzi alla tastiera, sapeva trasformarsi in un leone. Ho sempre visto una certa affinità caratteriale fra Brahms e lei, è un'impressione sbagliata?
"Se intende questa affinità come amore, senz'altro sì. Con Brahms ho un rapporto molto stretto, in particolare con i due concerti per pianoforte e orchestra, che ho eseguito molto spesso. Il Concerto in re minore è un'opera peculiare, perché forse è stata ispirata dalle vicende degli ultimi tragici anni di vita di Schumann e dai rapporti di Brahms con questo grande musicista che venerava. Brahms scrisse una lettera a Schumann nel 1854 dove gli annunciò la composizione di una 'certa sinfonia in re minore' con un primo movimento lento. Già era in nuce questo prodigioso concerto che venne ultimato cinque anni dopo e accolto con indifferenza dal pubblico tedesco, poiché era un pezzo molto più interiore e potente nello stesso tempo, rispetto alla norma. E anche un po' uno spartiacque nella stessa produzione brahmsiana, concludendo il suo primo periodo compositivo affine allo Sturm und Drang. Certo è stupefacente come un giovane di poco più di vent'anni (questa era la sua età quando iniziò a comporlo) sappia essere così profondo. A Roma io e il Maestro Antonio Pappano eseguiremo i suoi due concerti che saranno inseriti anche nelle 'Prospettive'. Sempre di Brahms, con il Quartetto Hagen, interpreterò poi il Quintetto per pianoforte e archi".
Parallelamente all'attività concertistica, lei registra dischi e sta ultimando l'integrale delle sonate di Beethoven. Adesso è arrivato il momento delle Tre sonate dell'opera 2: siamo già dinanzi al Beethoven della grande maniera?
"Nelle sue prime composizioni pubblicate noto già i segni evidenti del suo carattere. Questo si può vedere in tante cose, innanzitutto nel trattamento dello strumento. Beethoven scrive per il pianoforte a cinque ottave di Mozart e di Haydn, ma riesce a realizzare con questi mezzi limitati grandi sonorità orchestrali, una potenza nuova per quell'epoca e in genere un suono assolutamente suo. Forse ci potrebbe essere una lontana influenza di Clementi, sul suo modo di scrivere allora. Le Tre sonate dell'opera 2 sono di scrittura virtuosistica e con notevoli difficoltà tecniche, perché evidentemente il giovane Ludwig voleva allora affermarsi pure come pianista. Anche prendendo degli spunti dai compositori che lo hanno preceduto: per esempio, il tema iniziale della Sonata opera 2 numero 1 ha una parentela con il Mozart della Sinfonia in sol minore. Con lui però tutto assume un altro un carattere: sarebbe un grave errore vederlo nella posizione di epigono di Haydn e di Mozart. Lo spirito della musica è già completamente diverso".
Beethoven, in omaggio a Kant e all'Illuminismo, nelle sue lettere scrive che con la sua opera vuole confortare l'umanità umile e in catene. Un principio morale che sente anche suo?
"Beethoven voleva creare non solo delle composizioni straordinariamente belle ma influire sulla mentalità delle persone, sulla storia del mondo. Tutta la grande arte ha questa funzione progressiva".

Una orchestra per due
di Antonio Pappano

Sono felice di lavorare con Pollini, perché entrambi amiamo la musica contemporanea e a entrambi piace offrire programmi che mescolano classico e moderno, in modo che gli spettatori possano farsi un'idea di quello che accade nel mondo della produzione musicale. Io credo in queste commistioni. All'Accademia di Santa Cecilia per l'inaugurazione abbiamo accostato lo 'Stabat Mater' di Rossini a 'Sinfonia' di Berio, due capolavori di due italiani vissuti in due secoli diversi. È stato un grande successo. Molte persone non amano la musica contemporanea, la sentono estranea, ma è importante che la possano conoscere e che possano familiarizzare con sonorità diverse. Sono orgoglioso del fatto che Pollini abbia scelto l'Orchestra di Santa Cecilia, la 'mia' orchestra per presentare il suo progetto, insieme abbiamo scelto le musiche da accostare ai due concerti per pianoforte di Brahms che eseguiremo. Non abbiamo sempre gli stessi gusti in fatto di musica contemporanea ma su questi nomi non abbiamo avuto dubbi: Bruno Maderna è un autore formidabile, è stato anche un grandissimo direttore, 'Notations' di Pierre Boulez è uno dei capolavori del Novecento, Luca Francesconi è un compositore pieno di energia e di idee.

Gennaio a Santa Cecilia
Dal 5 al 29 gennaio a Santa Cecilia si terranno le 'Prospettive Pollini', progetto che intende accostare personalità e repertori musicali diversi fra loro per evidenziarne assonanze e contrasti. Ben nove serate con cinque programmi diversi, comprendenti musiche che vanno da Brahms a Maderna, da Schönberg a Chopin e Debussy, Nono, Francesconi, Webern e Stockhausen, con una serie di prestigiosi interpreti tra cui Peter Eötvos, il Klangforum Wien, l'Hagen Quartett , l'Experimentalstudio Freiburg e Antonio Pappano con l'Orchestra dell'Accademia.

Liberazione 21.12.07
D'accordo, il partito è gerarchia. Ma allora...
di Piero Sansonetti


Fra le tante cose che sono state dette e scritte, dopo gli Stati generali della Sinistra, ce ne sono due che mi hanno colpito più di tutte: mi riferisco all'articolo di Rossana Rossanda pubblicato da Liberazione martedì scorso, e all'articolo pubblicato ieri, sempre su Liberazione, a pagina 15, e firmato da 11 dirigenti del Prc, tutte donne (Capelli, Emprin, Deiana, Barbarossa, Forenza, Fantozzi, Donini, Poselli, Linguiti, Santilli, Alfonzi).
Entrambi questi scritti mi hanno fatto riflettere su un punto che a me sembra decisivo: la necessità di cambiare i linguaggi, i modi dell'organizzazione e dell'iniziativa politica, e quindi di intaccare la struttura gerarchica che tradizionalmente presiede, condiziona e determina ogni politica, anche di sinistra.
Scriveva Rossanda:« La verità è che gli attuali gruppi politici non conoscono che questo modo di esprimersi, specie se non sono già ferreamente uniti, pochi che parlano a molti o una specie di happening... ». E più avanti: « Quasi nessun fenomeno oggi è del tutto dipendente ma nessuno del tutto indipendente dal modo di produzione. Salvo la questione dei sessi. Millenaria, ha attraversato civiltà precapitaliste, capitaliste e postcapitaliste. E non come differenza fra i sessi ma come gerarchia, di un sesso sull'altro, assegnando al maschio il potere pubblico e fingendo di attribuire alla donna il governo del privato. L'ultimo femminismo ha messo in luce la frode. Come contate di metter il problema in agenda?... »
E ieri scrivevano Giovanna Capelli e le altre: « E' necessario uno scarto, una innovazione: intervenire nella struttura gerarchica, nella modalità dell'esercizio della democrazia, cambiare la dinamica della direzione, ricercare metodi per la risoluzione delle divergenze e dei conflitti non semplicemente legati al rapporto maggioranza/minoranza, scomporre la separazione fra base e vertice ...».
Sottoscrivo, parola per parola, tutte le righe che ho trascritto. Mi convincono. Penso che il problema fondamentale che oggi la sinistra ha dinanzi a se è quello di attaccare la costruzione politica moderata, vincente - che è una vera e propria restaurazione - basata sull'idea di rafforzare nella società le gerarchie, le catene di comando. Prima di tutto, naturalmente, il comando dell'uomo sulla donna, e poi del capitale su lavoro, e poi del bianco sul nero e sull'immigrato, e poi dell'eterosessuale sull'omosessuale, e poi del ricco sul povero, del meritevole sull'immeritevole, del garantito sul precario... eccetera eccetera eccetera. Dentro questa idea di gerarchia - e solo dentro questa - vengono accettati e limitati i diritti. I diritti diventano non più esigibili, ma elargibili in compatibilità con la gerarchia e naturalmente proporzionali ad essa. Non può pretendere un migrante gli stessi diritti di un italiano, non può una donna pretendere i diritti dell'uomo...
Come può questo impianto - realizzato con una svolta reazionaria - essere messo in discussione da partiti e formazioni politiche che essi stessi, esse stesse, hanno il proprio "albero motore" nella gerarchia?
A me questa domanda sembra decisiva. Credo che la risposta sia semplice: non possono. Cioè credo che chi vuole fare lotta politica, a sinistra, debba porsi concretamente il problema della componente gerarchica che è fortemente presente nell'attuale idea di partito (ogni idea di partito conosciuta) e connaturata alla stessa logica maggioranza/minoranza alla quale fa riferimento l'articolo di Giovanna Capelli e delle altre (mi scuso se cito solo Giovanna, ma 11 nomi sono troppi).
Da questa riflessione alcuni compagni e alcune compagne (anche, mi sembra, Giovanna e le altre) fanno discendere l'idea che il processo di unità a sinistra non possa sfociare nella nascita di un nuovo partito unitario, o unificato, o unico. E rilanciano l'idea della sinistra plurale e federata. Io concordo anche su questo ragionamento. Però non riesco a non andare un passo ancora oltre: come è possibile una sinistra plurale e federata (ma a me la parola federata non convince moltissimo e non sembra nuovissima) se non si mettono in discussione anche i partiti di origine che la compongono? Perché, cioè - mi chiedo - quattro partiti alleati dovrebbero essere migliori di un solo partito, e come potrebbero risolvere il problema di critica delle gerarchie e dei partiti che ci siamo posti?