sabato 22 dicembre 2007

l’Unità 22.12.07
Monito di Bertinotti: senza riforme una deriva drammatica
Il presidente della Camera: grottesche le critiche alla ricerca di larghe convergenze
di Simone Collini


«Il rischio è che nessuno si salva
una sorta di Quarta Repubblica senza De Gaulle»

RIFORME O MORTE Non la mette proprio così, Fausto Bertinotti, ma poco ci manca. Incontrando la stampa parlamentare per il tradizionale scambio di au-
guri, il presidente della Camera lancia un messaggio che va indirizzato a tutte le forze politiche, perché sono «grottesche» le critiche (arrivate anche dalla sinistra dell’Unione) alla ricerca di largo consenso: «Se non si riesce a realizzare la stagione delle riforme rischiamo una deriva drammatica in cui non si salva nessuno, una sorta di Quarta Repubblica senza De Gaulle».
Per quanto dica di non voler dare «enfasi» al suo discorso, Bertinotti confessa di vedere profilarsi lo spettro di «una crisi strisciante e latente», e sprona il Parlamento affinché arrivi a «una conclusione rapida» in particolare su una nuova legge elettorale, su riforme costituzionali «mirate» che consentano la fine del bicameralismo perfetto e la riduzione del numero dei parlamentari, e anche la scrittura di diversi regolamenti parlamentari che permettano di consegnare al passato una situazione in cui la maggioranza è «limitata» nella capacità di decidere e l’opposizione è «penalizzata» nella possibilità di incidere.
Tutte questioni che secondo il presidente della Camera si sbaglierebbe a considerare distanti dai problemi delle persone. Perché se è vero che vengono viste da una parte del paese «come a un lusso» («c’è chi pensa: ma come, io guadagno mille euro al mese e voi vi occupate di queste cose?», riconosce), è anche vero che se non si affronta questo nodo «si mette la politica nell’impossibilità di dare risposte, perché c’è un blocco impedente».
Se è interesse di tutti superare questa «crisi paralizzante» che riguarda il sistema politico-istituzionale nel suo complesso, dice Bertinotti di fronte a numerosi giornalisti ma anche a diversi parlamentari di entrambi gli schieramenti, è anche da ricercare il più vasto consenso possibile sulle soluzioni da trovare. Perché fermo restando che «a nessuno può essere attribuita una sorta di diritto di veto», dice la terza carica dello Stato, i larghi schieramenti sono la «fisiologia» delle riforme, «mentre le patologie sono le riforme a stretta maggioranza».
Per questo il presidente della Camera, mandando un segnale anche a chi nei giorni scorsi ha attaccato il dialogo sulla legge elettorale avviato da Veltroni con l’opposizione e in particolare con Berlusconi, definisce «grottesche le critiche alla ricerca di larghe convergenze».
Del governo, dopo che nelle settimane scorse alcune sue esternazioni avevano provocato una certa irritazione a Palazzo Chigi, non parla durante la cerimonia. Ma interpellato dai cronisti mentre lascia la sala del Mappamondo di Montecitorio, Bertinotti non si sottrae e fa sapere che le critiche restano, ma anche che c’è uno spiraglio: «Esiste ancora la possibilità per governo e maggioranza di realizzare un ricollegamento, mantenendo gli impegni programmatici, con i problemi aperti del Paese». Anche se, sottolinea, «sta al governo» riuscirci e previsioni ora è impossibile farne: «È la prova del budino».

l’Unità 22.12.07
Il cattivo Natale della Moratti
di Luigi Cancrini


Il sindaco Moratti ha deciso di vietare la scuola materna ai figli degli immigrati senza permesso di soggiorno. Succede a Milano, dove il Comune ha appena pubblicato sul suo sito la nuova circolare sulle iscrizioni per le scuole dell’infanzia con delle norme più restrittive di quelle in vigore riguardo ai bambini stranieri. Fino all’anno scorso i piccoli extracomunitari, figli di «clandestini» o i cui genitori, semplicemente, erano in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno, venivano accettati «con riserva».
Per poi venire iscritti formalmente a settembre, quando e se il documento arrivava. Dal prossimo 15 gennaio chi non ha il permesso di soggiorno non potrà nemmeno presentare la domanda per entrare in una delle 170 materne comunali. Dimenticando le leggi che questo Stato si è dato (e il Decreto, in particolare, del presidente della Repubblica numero 394 del 1999) che sanciscono il diritto dei minori stranieri ad entrare nel nostro sistema educativo, quale che sia la condizione giuridica delle loro famiglie. Un diritto che diventa dovere da quando il minore entra nell’età dell’obbligo scolastico.
Il motivo per cui il Comune emana oggi questa misura potrebbe essere legato, forse, all’aumento di richieste per le materne comunali. Le liste d’attesa si fanno più lunghe anno dopo anno e ben 4.737 dei i 21.517 posti disponibili sono stati assegnati, quest’anno, a bimbi extracomunitari. Un iscritto su quattro, in pratica, non è italiano e le statistiche dicono che questa percentuale continuerà a crescere nei prossimi anni, mentre tendono a restare stazionarie le domande da parte delle famiglie italiane che di figli continuano a farne pochi. A Milano come a Roma e in tutte le altre città del bel paese, insomma, i servizi per l’infanzia si occupano sempre di più di bambini che non sono i nostri. Che hanno origini diverse. Di cui la Moratti ci dice che dovrebbero restare per le strade o nelle baracche se i loro genitori insistono nel tenerli con loro.
È davvero difficile non indignarsi di fronte a questo tipo di scelte. Sul piano etico perché (lo dice don Virginio Colmegna, il sacerdote che gestisce, per conto del Comune di cui la Moratti è inutilmente Sindaco, le politiche assistenziali per i campi nomadi) l’obbligo di iscrivere i bambini a scuola (tutti, indipendentemente dalla nazionalità, dalla religione e dal colore della pelle) corrisponde ad un loro diritto sacrosanto, riconosciuto da tutte le grandi organizzazioni internazionali e da tutte le persone che non vogliono vergognarsi, la sera, quando si guardano allo specchio. Ma sul piano delle politiche di prevenzione, ugualmente, come giustamente nota un altro sacerdote di Milano, don Gino Rigoldi, ricordando al Comune ed al Sindaco che negare la scuola ai bambini vuol dire «lasciare in mezzo alla strada dei potenziali futuri sbandati». Aggiungendo al danno la beffa perché proprio il Sindaco che chiede oggi maggiore sicurezza per i suoi cittadini rischia di preparare, seminando un odio travestito da indifferenza per quelli che vuole mantenere diversi da sé, le basi di quella che sarà l’insicurezza di domani.
I fatti sono lì a dimostrarlo, maltrattamenti e soprusi subiti nell’infanzia hanno conseguenze gravi sulla organizzazione psicologica dell’adulto di domani. Negare la scuola materna ai bambini vuol dire colpire in modo duro e cattivo degli innocenti per cui la scuola può essere fondamentale. Insegnando a loro e alle loro famiglie che gli italiani (una parte dei quali sono oggi inadeguatamente rappresentati dalla Moratti) sono dei nemici: selvaggi al punto da non rispettare neppure il diritto dei bambini. Incitandoli all’odio, dunque, ed a comportamenti altrettanto duri e cattivi (quando saranno abbastanza grandi e forti per averli) all’interno di una spirale destinata a produrre, se qualcuno non la fermerà, guai molto maggiori di quelli di oggi.
C’era una volta, 2008 anni fa, una famiglia costretta ad allevare nella clandestinità un bambino di nome Gesù. L’editto di un re, che si chiamava Erode, lo condannava a morte, infatti, se fosse stato trovato. Vorrei partire da questa immagine per fare i miei auguri di un cattivo Natale al Sindaco Moratti e alla sua giunta. Sperando che il rimorso ingombri le loro coscienze (al punto magari da rovinare le loro feste) nel momento in cui avranno il tempo di guardare un presepe. Solo se sentiranno un santo rimorso per quello che hanno fatto, infatti, avranno la possibilità di diventare un po’ più buoni. Riflettendo su quello che direbbe loro, a proposito dei bambini extracomunitari, il bambino Gesù. Mettendoli in crisi fino al momento in cui, pentiti, si ritroveranno in Giunta per annullare la delibera e per decidere che i bambini, clandestini o no, debbono essere aiutati sempre e comunque ad andare a scuola. Anche se questo è solo un sogno, probabilmente, perchè per accettare le parole di Gesù o di chi in nome di Gesù oggi parla (da don Virginio Colmegna a don Gino Rigoldi) due cose sono assolutamente necessarie che la Moratti e la sua Giunta secondo me (ma posso sbagliare) non hanno: l’umiltà di chi riconosce i suoi errori e la buona coscienza di chi crede che gli uomini (o almeno i bambini) hanno (tutti) gli stessi diritti.

Repubblica 22.12.07
Due sentenze aboliscono il divieto della diagnosi preventiva
Fecondazione, il giudice dà ragione alle donne
di Miriam Mafai


Adesso, dopo le due sentenze del Tribunale di Cagliari e di quello di Firenze, la parola passa al ministro della Salute, Livia Turco che dovrà sbrogliare la complicata matassa della norma più assurda contenuta nella nostra legge sulla fecondazione assistita. La norma impedisce infatti quella diagnosi preimpianto considerata del tutto normale fino al febbraio del 2004.
(,,,il testo che segue non è disponibile nell'edizione on line))

Repubblica 22.12.07
Roma e il mondo greco
Intervista con Paul Veyne di Roberto Festa


«La politica era romana, ma la cultura era greca». Così, con uno sforzo notevole di sintesi, si potrebbe racchiudere il senso di L´impero greco-romano, monumentale summa del pensiero, del sapere e della grazia intellettuale di Paul Veyne. Titolare della cattedra di Storia romana al Collège de France fino al 1998, uomo di cultura particolarmente attivo nella vita pubblica (soprattutto ai tempi della guerra d´Algeria), Veyne ha rivoluzionato l´approccio alla mitologia greca con I greci hanno creduto ai loro miti?. Nell´ultimo libro intreccia filosofia, sociologia, archeologia, psicologia, storia sociale, culturale e delle mentalità, per descrivere il primo mondo davvero globale della storia dell´umanità.
Paul Veyne, siamo abituati a dissociare la civiltà greca dall´impero romano. La tesi centrale del libro è invece che l´impero di Roma sia fondamentalmente un impero greco-romano. Perché?
«Perché l´Impero era bilingue e biculturale. Le faccio due esempi. A Roma, la filosofia e la medicina si insegnavano in greco, e l´imperatore Marco Aurelio annotava i suoi pensieri in greco, e non in latino. La frontiera linguistica passava sul territorio della ex Jugoslavia: di qui si parlava il latino, di là il greco».
Orazio scriveva che «la Grecia ha conquistato il suo selvaggio conquistatore» recandogli le arti.
«Esattamente. Le strutture portanti - filosofia, retorica - erano greche. Roma aggiunse il genio politico al genio artistico e culturale greco: l´autorità e il senso della regola del gioco politico, quindi il diritto, sono romani».
Il greco era la cultura, e la lingua, di una prima "mondializzazione"?
«Sì, quella greca era una cultura globale, che dal sud del Marocco arrivava sino all´attuale Afganistan. Il re del Marocco studiava il greco e la retorica per raccontare la storia del suo paese».
Esiste un modello politico e sociale comune, tra i Greci e Roma?
«Sono le città. Non si conoscono esattamente le ragioni per cui questo modello sociale si è sviluppato tra i fenici e poi diffuso rapidamente in Asia Minore, nel mondo etrusco, quindi in quello romano. Ma la Grecia e Roma hanno in comune proprio il sistema della città. Il mondo dominato da Roma vive in uno stato di sostanziale autarchia. Il potere centrale non si confonde con gli affari delle città conquistate, ma interviene soltanto nel caso di disordini. L´impero romano era un commonwealth di città».
Quindi Roma lasciava ampia autonomia ai poteri locali.
«L´autonomia era totale. Scherzando, si potrebbe dire che il sistema romano consisteva nell´ordinare alla gente di fare quello che gli andava di fare. I romani comandavano trasformando i notabili delle città in collaboratori. Ma non pensavano affatto a diffondere la loro civiltà Se per esempio i galli o i bretoni d´Inghilterra adottavano i bagni pubblici, lo facevano per civilizzarsi, non perché i romani li spingessero in questo senso. I romani se ne infischiavano. Non volevano fare proseliti o diffondere la loro civiltà».
Eppure esiste almeno un campo in cui Grecia e Roma si differenziano: la concezione dell´autorità.
«Sì, i romani avevano un concetto dell´imperium molto più violento di quello greco, e concepivano l´autorità sotto forma militare, come il comando dell´ufficiale sulle truppe. Sul campo di battaglia, un ufficiale ha diritto di vita e di morte sui suoi soldati. Allo stesso modo, il magistrato aveva diritto di vita e di morte sui cittadini. È la disciplina militare, che diventa modello civile».
Da dove viene questa concezione dell´autorità?
«Difficile dirlo. Molta storiografia italiana, soprattutto di ispirazione marxista, parla di un interesse di classe. Io preferisco pensare a ragioni psicologiche. C´era a Roma una concezione spontanea della sicurezza, che spingeva a fare di tutto perché Roma non fosse minacciata. In questo senso, non esisteva una vera politica estera, delle relazioni diplomatiche, perché il fine era assorbire tutto ciò che stava attorno, e che poteva costituire una minaccia. L´imperatore non aveva un ministro degli affari esteri. Non essendoci altre nazioni, non c´era neppure una politica estera. Roma si considerava l´unico vero stato, con attorno una serie di tribù informi cui demandare larga autonomia».
Il cittadino dell´impero si sentiva greco-romano?
«Dipende. Galli, spagnoli e africani si sentivano romani. Erano fieri della loro nascita, ma poi si consideravano parte di un tutto più vasto. Un siriano diceva: sono siriano, ma poi aggiungeva, "suddito fedele dell´imperatore". Sant´Agostino si definiva un "romano d´Africa". Al contrario, i greci erano fieri di essere greci. Ancora nel quarto secolo, dicevano: "Noi siamo greci, voi romani". Con tutto il loro senso di superiorità, i greci erano comunque contenti della dominazione romana, che assicurava il potere dei notabili, la buona società e la difesa dai barbari che vivevano oltre l´Eufrate».
Gli imperatori avevano una nazionalità?
«Erano di tutte le nazionalità, a patto che fossero occidentali e latini. Non c´è però un solo imperatore greco. I greci erano troppo fieri, non ispiravano fiducia».
Qual era il mandato dell´imperatore?
«L´imperatore era chiaramente distinto dal re. Era un "gran cittadino", che col suo clan aveva assunto il potere per governare e difendere la cosa pubblica, quindi l´Impero. Il suo potere non aveva alcuna connotazione mistica. Era un mandatario del popolo romano, che nel caso si fosse comportato male sarebbe stato rimpiazzato. E poiché la sola sanzione nella politica romana era la morte, il suo allontanamento coincideva spesso con il suo assassinio».
Lei ha scritto di essere diventato storico per uno "choc psicologico": quando, a otto anni, su una collina vicina a Cavaillon, trovò per caso la testa di un´anfora. Questa scoperta le fece «l´effetto di un meteorite caduto da un altro pianeta». La storia è la scoperta dell´alterità?
«Fare storia significa sottolineare le differenze con il passato. Il passato è irrimediabilmente perduto, senza alcuna rassomiglianza con quello che ci sta intorno. Lo storico deve disegnare queste figure lontane. Per farlo, inventa delle idee, quindi concettualizza. La concettualizzazione è l´unico modo per arrivare a esprimere l´individualità. Dire che il potere dell´imperatore era un potere di clan, che l´imperatore era mandatario e non sovrano, significa appunto concettualizzare. Il concetto storico individualizza, non generalizza. Senza concetti storici, c´è soltanto senso comune e attualizzazione».

Repubblica 22.12.07
"L'indifferenza", il saggio di Adriano Zamperini dedicato alla desensibilizzazione del nostro tempo
Fenomenologia del non-sentimento
di Umberto Galimberti


Quando la politica non decide e dà l'impressione che nulla potrà mai cambiare perché il conflitto tra le parti mette in ombra il bene comune, quando la scuola, sfiduciata, rinuncia non solo all'educazione ma anche all'istruzione perché troppi sono gli studenti che non capiscono il senso di quello che leggono, quando le imprese e le organizzazioni lavorative e burocratiche danno l'impressione di non amare la novità e di preferire la routine, il freddo ingranaggio ben sincronizzato con i movimenti che scandiscono un tempo senza passioni, quando i morti sul lavoro sono consuetudine quotidiana che più non scuote le coscienze e non promuove interventi, quando i vecchi, i malati di mente e quelli terminali sono solo un problema che non suscita neppure commozione, quando lo straniero è solo un estraneo con cui è meglio non avere a che fare, quando persino i giovani devono inghiottire una pillola di ecstasy per provare, almeno al sabato sera, una qualche emozione, allora siamo all' indifferenza , vera patologia del nostro tempo, che Adriano Zamperini, nel suo bel libro dedicato a questo non-sentimento, descrive come distacco emozionale tra sé e gli altri, mancanza di interesse per il mondo, alimentata dal desiderio di non essere coinvolti in alcun modo, né in amore né in lotta, né in cooperazione né in competizione, in una società popolata da passanti distratti e noncuranti, affetti dall'indifferenza dell'uomo verso l'uomo, dove ciascuno passa vicino al suo prossimo come si passa vicino al muro.
Alla base dell'indifferenza troviamo una speranza delusa circa la possibilità di reperire un senso, un'inerzia in ordine a un produttivo darsi da fare, a cui si aggiungono sovrabbondanza e opulenza come addormentatori sociali, noncuranza di fronte alla gerarchia dei valori, noia, spleen senza poesia, incomunicabilità, non solo come fatto fisiologico tra generazioni, ma come pratica di vita, dove i ruoli, le posizioni, le maschere sociali prendono il posto dei nostri volti ben protetti e nascosti, perciò inconoscibili.
Tutti questi fattori scavano un terreno dove prende forma quel genere di solitudine che non è la disperazione, ma una sorta di assenza di gravità di chi si trova a muoversi nel sociale come in uno spazio in disuso, dove non è il caso di lanciare alcun messaggio, perché non c'è anima viva in grado di raccoglierlo, e dove, se si dovesse gridare "aiuto", ciò che ritorna sarebbe solo l'eco del proprio grido.
L'invito a coltivare la razionalità, peraltro mai diluita nell'emozione, la difesa delle buone maniere che ormai, persino a propria insaputa, fanno tutt'uno con l'insincerità, la noia che come un macigno comprime la vita emotiva impedendole di entrare in sintonia col mondo, formano quella miscela che inaridisce ciascuno di noi, a cui non è stato insegnato come mettere in contatto il cuore con la mente, e la mente con il comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel nostro cuore. Queste connessioni che fanno di un uomo un uomo non si sono costituite, e perciò nascono biografie capaci di gesti tra loro a tal punto slegati da non essere percepiti neppure come propri.
Per effetto di questa atrofia emotiva e con un buon allenamento nella palestra gelida della razionalità, finiamo col sostituire alla responsabilità, alla sensibilità morale, alla compassione, al senso civico, al coraggio, all'altruismo, al sentimento della comunità, l'indifferenza, l'ottundimento emotivo, la desensibilizzazione, la freddezza, l'alienazione, l'apatia, l'anomia e alla fine la solitudine di tutti nella vita della città.

Repubblica 22.12.07
Le donne, il logos e l'intelligenza
di Franco Volpi


Tutti conosciamo la celebre definizione dell'uomo che si trova all'inizio della Politica di Aristotele e che nei secoli ha conservato intatta la sua validità: «L'uomo è un animale politico dotato di logos ». Si è invece perduta memoria del problema che Aristotele, da uomo del IV secolo a. C., si pone partendo da tale definizione: le donne possiedono il logos oppure no? Il "maestro di color che sanno" se la cava osservando che in quanto esseri umani esse non possono non averlo, ma che lo possiedono non kyrios , cioè non «per dare comandi», bensì solo per obbedire.
Evidentemente egli è figlio del proprio tempo, prigioniero di un condizionamento storico per lui insormontabile. Eppure con la sua definizione filosofica egli va oltre il "pregiudizio" e attinge l'universale.
Prima di deridere Aristotele imbozzolato nella mentalità greca - ci insegna l'appassionante ricerca di Franco Giustinelli su Letteratura e pregiudizio - dovremmo immaginare come riderà di noi l'umanità futura nel considerare i pregiudizi che condizionano il nostro orizzonte culturale e la nostra stessa identità - con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: intolleranze, discriminazioni, fondamentalismi, conflitti etnici e religiosi.
Giustinelli ci riconduce alle radici dei pregiudizi dell'uomo occidentale, ricostruendo la loro ramificata genealogia nella cultura greca e negli archetipi che si sono formati nel suo mito, nella sua letteratura e nella sua filosofia, entrando a far parte del nostro immaginario simbolico.
Insieme all'invito a non dimenticare dunque che i pregiudizi sono costitutivi di una realtà storica tanto quanto i suoi giudizi, egli ci suggerisce pure la raccomandazione - giustamente messa in rilievo da Walter Veltroni nella sua presentazione - a tenere vivo il lavoro critico dell'intelligenza.

Repubblica 22.12.07
Il primo Natale
Da Romolo alla cristianità
di Andrea Carandini


Ma la dimora è legata anche alla festa della nascita di Cristo e all´antica basilica di Anastasia
La capanna del fondato di Roma e il Lupercal erano in relazione con la casa di Augusto cultore delle origini
L´imperatore Costantino aveva concordato con papa Silvestro la data del 25 dicembre
L´abbandono dei riti pagani suscitava malcontento tra i senatori

La capanna di Romolo e il Lupercale erano in relazione con la casa di Augusto, perni della sua relazione con le origini. Ma la dimora è legata anche - ecco la novità - alla festa del Natale di Cristo e alla basilica di Anastasia, volute da Costantino, pegno di un suo inarrestabile destino.
Il Lupercale stava sicuramente alla radice del Palatino verso l´Aventino. Si discute se si trovasse a sinistra delle "scale di Caco" che salivano al monte, oppure alla destra, dove Augusto costruirà la sua casa. Velleio sembra porre il Lupercale sotto il Tempio di Magna Mater, quindi a sinistra; ma va inteso con Servio, per il quale il santuario era in Circo. Ma il Circo cui il Lupercale era rivolto terminava proprio a quelle scale e ove il santuario si fosse trovato alla loro sinistra non avrebbe potuto essere considerato in Circo. Come che sia, la distanza fra le due collocazioni è di soli 66 metri e da Velleio mai si potrà estrarre una pianta. Il ritrovamento recente del ninfeo a cupola decorata con aquila ha rafforzato la collocazione a destra delle scale del Lupercale, che la Soprintendenza ha preferito, e noi con lei.
Il fronte meridionale della casa di Ottaviano si ergeva sopra questo ninfeo - probabile rifacimento da lui voluto della grotta con sorgente del Lupercale - per cui si affacciava dall´alto sull´area sacra. La successiva e sovraimposta casa di Augusto con il Tempio di Apollo, terminata nel 28 a.C., occupava anche l´area del Lupercale, che finì sotto il suo terrazzamento inferiore, per cui lo si sarebbe potuto raggiungere solo tramite ambienti sotterranei aperti sulla facciata verso il Circo (ne è indizio una porta rinvenuta sotto Santa Anastasia).
Su questo terrazzamento ci informa un frammento della pianta marmorea antica. Si trattava del portico inferiore dell´area Apollinis, che racchiudeva una silva e l´ara della Roma Quadrata sulla quale Augusto, imitando Romolo, aveva rifondato la città e l´Impero. Lo stesso frammento mostra inoltre, al centro della facciata, un avancorpo (maenianum), la loggia dalla quale la famiglia imperiale si esponeva al popolo riunito nel Circo. Nei secoli l´avancorpo è venuto avanzando, per l´importanza crescente del confronto fra imperatore e Romani nei circensi. Ma Costantino distruggerà la loggia per costruirvi sopra una basilica…
Il Natale di Cristo al 25 dicembre è stato celebrato solo dopo il Concilio di Nicea del 325 e prima del 335 (Depositio Martyrum), quindi al tempo di Costantino. L´imperatore detestava la Roma pagana, tanto che celebrò i vicennali a Nicomedia sul Mar di Marmara, invitando a palazzo i vescovi - preferiti ai senatori di Roma - affluiti nella vicina Nicea per il primo concilio ecumenico. L´imperatore, novello Augusto unificatore dell´impero (324), si considerava anche vescovo, seppure di un genere particolare, e presiedeva il concilio in cui era stato deciso, finalmente, quando celebrare la Pasqua: resta una sua lettera ai vescovi che dimostra il suo interesse per le principali feste cristiane. La Pasqua doveva essere celebrata non prima dell´equinozio di primavera, visto che al 25 marzo veniva immaginata la passione del Salvatore. Papa Silvestro al concilio non andò, ma Costantino era certamente in contatto con lui, anche per preparare l´ingresso a Roma, previsto per il luglio del 326. Si era anche premurato di nominare il primo prefetto dell´Urbe cristiano, Acilio Severo. Qualcosa si stava preparando, questa volta per il Natale…
Giunto a Roma, l´imperatore celebra l´adventus, di nuovo i vicennali e infine i ludi Romani, mai salendo in Campidoglio e mancando sacrifici e pompe. Senatori e popolo erano furiosi, nacquero tumulti: l´imperatore aveva girato le spalle alla vita civica pagana che a Roma si conservava. Lo sgomento culminò quando ebbe inizio la demolizione del maenianum della casa di Augusto rivolto al Circo. Due piani superiori furono abbattuti e sul primo, risparmiato, fu eretto un edificio in forma di croce: la basilica palatina. Mai tanto era stato osato! Infatti le chiese sorgevano al di fuori dal centro politico pagano, ma ora una chiesa spiccava davanti al Circo, nel cuore di Roma e del mondo.
La basilica fu chiamata di Anastasia. Non si trattava della santa, che verrà poi, ma di una sorella di Costantino, cristiana dalla nascita come rivela il nome, già sposa di Bassiano cui Costantino aveva affidato l´Italia come Cesare, presto soppresso perché passato al perfido Licinio. E´ possibile che la casa di Augusto fosse ancora la residenza della principessa, che figurava pertanto proprietaria del luogo, costruttrice e fondatrice della basilica, piccola (455 metri quadri) ma importantissima. Figurava infatti al terzo posto dopo il Laterano e Santa Maria Maggiore. Inoltre dal V secolo il papa vi celebrava la seconda messa di Natale, dopo la prima, in Santa Maria Maggiore; ma nel IV secolo quest´ultima basilica non esisteva, per cui la prima messa - allora forse l´unica - doveva essere celebrata in origine proprio nella basilica di Anastasia (ricerche di Whitehead degli anni ´20).
Si credeva che Cristo fosse morto il 25 marzo, e non potendo che aver vissuto un numero perfetto di anni, l´incarnazione doveva cadere anch´essa in quella data, per cui la nascita veniva ricostruita, nove mesi dopo, al 25 dicembre. Partendo dalle decisioni del concilio sulla Pasqua, Costantino deve aver concordato con Silvestro questa data per il Natale, che si diffonderà poi nel mondo. A favorirla deve essere stata anche la coincidenza con il Natale del Sole Nuovo, al solstizio d´inverno. E´ possibile pertanto ritenere che il primo Natale fosse stato celebrato a Roma nella basilica di Anastasia appena terminata, forse già nel 326, in questo caso alla presenza della sola principessa, ché Costantino era partito a settembre, a porre la prima pietra di Costantinopoli.
Nel Natale paleocristiano si celebravano insieme nascita ed epifania di Cristo ai pastori nella grotta di Betlemme, e su questa grotta Costantino stava edificando una basilica. Ma i Romani conoscevano un´altra e più antica nascita/epifania: quella di Romolo ai pastori davanti alla grotta del Lupercale. Il fatto che l´ingresso a questo santuario potesse avvenire tramite il piano terreno del maenianum - sotto della basilica palatina - svela come questa chiesa fosse stata fondata anche per contrapporsi ai riti pagani del luogo, specialmente ai Lupercalia (Fauno Luperco veniva rappresentato con l´unghia fessa, per cui sembrava il diavolo). La comparazione fra le sacre grotte di Romolo e di Cristo è testimoniata da San Girolamo, che avvicinava la casa Romuli e il Lupercale visti a Roma con il diversorium Mariae e la Salvatoris spelunca visitati in Giudea (Interpretatio, 105).
Il natale del santuario di Fauno Luperco (due generazioni prima della guerra di Troia), il natale/epifania di Romolo (nell´VIII secolo a.C.), il natale della Roma imperiale (nel 27, con ludi Saeculares nel 17 a.C.) e il natale/epifania di Cristo (celebrato nel 326 d.C., o poco dopo) formano una stratificazione di eventi fondanti per l´Occidente, tutti concentrati in un piccolo luogo - la Roma Quadrata di Augusto - epicentro di Roma e dell´impero.

Corriere della Sera 22.12.07
Cina-India, giochi di guerra
Partite le prime manovre militari congiunte I due giganti mettono da parte i rancori


Dialogo
E' l'avvio di un dialogo che mira a consolidare un assetto multipolare nel continente «al riparo da eccessivi condizionamenti americani»

Svolta
L'Asia prepara una svolta che è difficile immaginare senza ricadute ben oltre i suoi territori. Pechino ha conquistato una posizione centrale in questo scacchiere in movimento

Frontiera contesa
Le esercitazioni in corso sono di modesta dimensione, non coinvolgendo più di un centinaio di militari per parte, ma hanno un significato politico. Nel 1962 il Dragone e l'Elefante si fronteggiarono in un conflitto a causa delle divergenti rivendicazioni di confine. La questione è rimasta aperta fino al 2005, quando Cina e India hanno sottoscritto l'impegno a risolverla

PECHINO — Le tre grandi potenze d'Asia incrociano le loro rotte in un fine d'anno coi botti. Cina e India per sette giorni fanno giochi di guerra congiunti (esercitazioni antiterrorismo). La prima volta nella storia. Significativo e simbolico il nome in codice attribuito alle manovre che si svolgono nella provincia meridionale dello Yunnan: «Operazione Mano nella Mano». A conclusione, fra il 27 e il 30, il nuovo premier giapponese Fukuda volerà a Pechino per il suo battesimo internazionale.
Questa doppia accelerazione diplomatica è il punto di partenza di un nuovo corso che può significare molte cose per gli equilibri della regione: le tre capitali, pur segnate da vecchie ferite e da rivalità inedite alimentate dal ruolo di traino che le economie di Cina e India hanno assunto, provano a compiere uno scatto verso relazioni di stabile e buon vicinato, necessarie visto che coinvolgono quasi due miliardi e 700 milioni di persone, oltre il 40 per cento della popolazione sul globo. Le questioni sul tavolo sono parecchie: gli strascichi del passato (dispute di confine, esasperazioni nazionaliste, mancate riparazioni storiche) per niente archiviati in modo definitivo, nel futuro resta sempre il nodo del seggio nel consiglio di sicurezza Onu (Delhi o Tokio?). Tuttavia prende consistenza l'idea di un orizzonte di dialogo che sappia frenare le spregiudicatezze e che sia pure in grado di consolidare la prospettiva di un assetto competitivo e assieme multipolare nel continente con il via libera di Washington ma al riparo da eccessivi condizionamenti e suggestioni americani.
L'Asia prepara una svolta che è difficile immaginare senza ricadute ben oltre i suoi territori. Pechino ha conquistato una posizione centrale in questo scacchiere in movimento: la crescita record e il fascino che essa esercita sui mercati confinanti più poveri — vedendo essi una finestra di riscatto nell'esempio cinese — sono un volano straordinario. L'ex impero maoista ha saputo costruirsi, puntando le energie su un mix di deregulation capitalista e di riformismo statalista, una posizione di rendita politica molto forte che gli ha consentito di rientrare da protagonista nei giochi diplomatici che contano (la soluzione della crisi nordcoreana sponsorizzata dal Dragone lo dimostra), di trattare da pari a pari con i tradizionali pilastri dell'area (il Giappone), di riannodare il discorso con Mosca (ritornato partner militare e commerciale, oltre che eccezionale rubinetto di gas siberiano), di congelare le incomprensioni con i giovani colossi (l'India), addirittura di impostare con essi un rilancio strategico su più fronti a cominciare da quello dell'import- export che si progetta di raddoppiare da 20 a 40 miliardi di dollari entro il 2010.
(...)

Corriere della Sera 22.12.07
Ordinanza Marini reintegrato alla vicepresidenza
Bioetica, nomine da rifare Il Tar boccia il governo
di Margherita De Bac


ROMA — Non trova pace il Comitato Nazionale di Bioetica. L'ultima scossa, dopo una fase di polemiche interne finite anche sui giornali, è l'ordinanza con la quale il Tar del Lazio ha «restituito» la vicepresidenza a Luca Marini. Il giurista era stato messo da parte lo scorso novembre assieme agli altri due vice, la bioeticista Cinzia Caporale e la biologa molecolare Elena Cattaneo che riacquistano automaticamente la carica.
In realtà in quel decreto, firmato da Romano Prodi (il Cnb dipende alla Presidenza del Consiglio) non si parlava di destituzione vera e propria. Venivano nominati altri tre vice (il rabbino capo Riccardo Di Segni, Laura Palazzani e Lorenzo D'Avack) «al fine di migliorare la funzionalità dell'organo». Si riteneva che il collegio di studiosi avrebbe lavorato meglio se raccordato da una triade differentemente composta. «Queste persone hanno caratteri più adattabili alle circostanze, sono più tolleranti — spiega al Corriere il presidente del Cnb, Francesco Paolo Casavola, ex presidente della Corte Costituzionale, ora al vertice della Treccani —. Non ho letto l'ordinanza e quindi non so che effetto avrà».
Il Tar però è di diverso avviso. I giudici della prima sezione, nel dispositivo trasmesso ieri al Comitato, scrivono che il provvedimento firmato da Prodi ha un «difetto di motivazione» e ritengono insufficiente la documentazione presentata per sostenere la necessità di nuove nomine. Ora Casavola in teoria si troverà circondato da ben sei vice, anzi cinque visto che Elena Cattaneo si era dimessa a novembre dopo aver denunciato in una lettera di non aver più fiducia in lui.
Spiega il costituzionalista: «La decisione di cambiare non ha valore di addebito. Marini, Caporale e Cattaneo però non assicuravano quella concordia indispensabile ad un organo collegiale che deve indicare in modo razionale un orientamento al governo su materie controverse. Occorre capacità di mediazione, non ideologia. Nel Cnb si fa scienza non politica. È un luogo istituzionale non una palestra di scherma ».
Tace Marini, la Caporale invece ribatte: «C'è un equivoco di fondo nel sostenere che la missione dei vicepresidenti debba essere omogeneità di pensiero e acriticità nei confronti del presidente. È proprio la diversità di vedute a risultare feconda e a dare ricchezza. Noi abbiamo sempre agito lealmente. Il Tar ha riconosciuto le buone argomentazioni del ricorso. L'ordinanza ci rende giustizia. Il Comitato con noi funzionava. Il problema casomai è la mancanza di comunicazione interna tra il presidente e l'assemblea ». Il caso Cnb era stato sollevato a ottobre da una lettera sottoscritta a Carlo Flamigni, Gilberto Corbellini e Demetrio Neri, componenti laici, che avevano accusato Casavola di «pochezza di risultati » e «gestione unilaterale, poco rispettosa dei regolamenti ».

Corriere della Sera 22.12.07
A colloquio con lo studioso di Harvard, uno dei grandi maestri dell'evoluzionismo
Gli scienziati? Straparlano
Lewontin: «Le leggi della natura non spiegano tutto»
di Massimo Piattelli-Palmarini


L'ACCUSA
C'è il desiderio di smentire la visione scientifica dei giganti del passato

Potremmo definire Richard Charles Lewontin (Dick per gli amici) l'evoluzionista degli evoluzionisti. Ma non sarebbe esatto, perché Dick è da una vita in polemica con i neo-darwiniani di stretta osservanza, e ha spesso in passato unito le forze con il compianto Stephen Jay Gould, suo amico, collega e spesso co-insegnante. L'aura di autorevolezza che lo circonda impone di definirlo, piuttosto, l'evoluzionista raffinato degli evoluzionisti raffinati. Non per niente si contano tra i suoi ex allievi, genetisti a parte, filosofi e storici della biologia del calibro di William Provine e Peter Godfrey- Smith. Tra gli smaliziati colleghi in altre discipline che tengono in altissima considerazione i suoi scritti posso citare, nel settore delle scienze cognitive, Noam Chomsky e Robert Berwick al Mit, Dan Osherson a Princeton e, molti gradini più in basso, il sottoscritto.
Nato a New York nel 1929 e laureatosi a Harvard, per poi spostarsi alla Columbia University, poi a Chicago e infine ritornare a Harvard nel 1973, Dick è oggi il più produttivo «pensionato» scientifico che io conosca. Commuta quasi settimanalmente tra la sua casa nel Vermont e il suo laboratorio a Harvard.
Gli chiedo chi è stato il suo primo e più importante maestro: «Ho iniziato la mia carriera di neolaureato nel labor atorio di Theodosius Dobzhansky alla Columbia University, allora (metà degli anni Cinquanta) il massimo genetista di popolazioni ed evoluzionista. Il problema centrale, per lui, era capire quanta variabilità sussiste tra gli individui, in una popolazione, e quali fattori la producono. Era persuaso che la presenza simultanea di coppie di geni in uno stesso individuo (uno dal padre, uno dalla madre) contribuisse molto al potenziale evolutivo delle specie. Io ho ereditato da lui questo interesse per la variabilità tra individui e tra popolazioni e ho cercato di rendere questo studio rigoroso, con metodi molecolari e matematici che non esistevano allora. Oggi possiamo simulare la dinamica delle trasformazioni genetiche in intere popolazioni e indagare i fattori evolutivi in gioco». Dick ha polemizzato con vigore contro il neo-darwinismo ingenuo, contro l'ipotesi che ogni tratto che vediamo in ogni organismo vivente sia il frutto di una selezione adattativa. Gli chiedo qual è, secondo lui, la cosa più importante che Darwin aveva visto correttamente. «Una struttura generale — dice — che spieghi l'evoluzione organica. Uno schema con tre pilastri: variazione, ereditarietà e riproduzione differenziale. La genetica in senso moderno non esisteva ancora, ma Darwin capì l'importanza del fatto che la progenie assomiglia in genere ai genitori più di quanto assomigli ad altri individui. Associando un potere riproduttivo differente al possesso di tratti differenti e alla trasmissibilità di tali tratti ai discendenti, inquadrò un intero schema esplicativo per l'evoluzione».
E cosa, invece, Darwin aveva visto storto, o non aveva visto? «Aveva visto male la relazione che intercorre tra le proprietà degli organismi e la natura dell'ambiente. Ebbe ragione nell'escludere l'ipotesi che l'ambiente possa plasmare le proprietà individuali ereditabili degli organismi, rendendo ogni organismo più adatto al suo ambiente. L'ambiente, per lui, era fisso e l'adattamento avveniva per selezione di quegli individui che, per caso, possedevano le caratteristiche adatte. In tal modo creò un'immagine errata, secondo la quale il carattere dell'ambiente è indipendente dai caratteri degli organismi che lo abitano. Ma l'ambiente di una certa specie è creato anche dalla specie stessa e dalle sue attività. La metafora di Darwin era che molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti. Invece, la migliore metafora è che l'ambiente stesso è costruito dalle attività vitali degli organismi».
Gli chiedo cosa pensa delle applicazioni tanto diffuse delle teorie evolutive alle dinamiche sociali e storiche e alla natura umana. Lewontin è piuttosto reciso su questo punto. «In assenza di un modello capace di spiegare i cambiamenti storici delle istituzioni, si sono tentate analogie con l'evoluzione degli organismi viventi, per mutazione, selezione e adattamento, ma questa è una scappatoia dozzinale. Non esiste una struttura generale di ogni tipo di evoluzione. Il cosmo evolve secondo le leggi fisiche dei nuclei e delle radiazioni, ma l'evoluzione del mondo vivente segue dinamiche del tutto diverse. Mai avremmo capito la storia del vivente se avessimo cooptato le teorie di Kant e Laplace sull'evoluzione del cosmo. Nè capiremo la storia umana se cooptiamo le teorie assai specifiche dell'evoluzione del mondo organico». Sul prossimo numero della New York Review of Books Lewontin pubblicherà un'analisi impietosa della frequente arroganza e supponenza (il suo termine è «extreme hubris ») con la quale gli intellettuali scientifici sdottorano su tutto. Gli chiedo di riassumere le sue tesi in poche righe. «Gli scienziati attivi nel loro campo sono spesso sedotti dalla tentazione di diventare degli intellettuali universali. Scrivono libri, compaiono in televisione, pontificano su svariate questioni filosofiche e storiche pur essendo privi di qualsiasi formazione professionale specifica su quei problemi. I loro agenti letterari, gli editori e i produttori televisivi li incoraggiano. Due sono le fonti di questo fenomeno: la prima è l'opin ione degli scienziati che la scienza offra teorie su tutto e che i migliori tra di loro sono quelli che possono spiegare tutto, dalle origini del linguaggio alle istituzioni sociali, dalla storia d'Europa alle ragioni dei comportamenti.
L'altra è la vanità personale, unita al desiderio di dimostrare che i giganti del passato avevano un visione limitata o addirittura errata. Agenti ed editori attizzano questa tendenza, spesso con denaro contante. Ma in genere non sussiste alcuna correlazione tra i meriti di questi scienziati nel loro settore specifico e il loro valore in quanto intellettuali universali».
Lewontin è stato un pioniere in svariati settori tecnici della genetica di popolazioni e delle dinamiche evoluzionistiche, ma da uno di questi suoi contributi pionieristici ha presto preso le distanze, mentre altri ci si sono buttati a capofitto e vi hanno costruito sopra intere carriere accademiche: l'applicazione all'evoluzione biologica della teoria dei giochi. Dick non ci va leggero: «Ho subito abbandonato questo tipo di analisi, perché la latitudine concessa dalla teoria dei giochi è illimitata. Infatti, se si è abbastanza ingegnosi si può modellare in termini di gioco qualsiasi fenomeno, e inventarsi soluzioni lungo il cammino. L'astuzia sostituisce il duro lavoro. Questi modelli rendono la spiegazione scientifica un gioco essa stessa». Non oso chiedergli cosa pensa delle applicazioni evoluzionistiche della teoria dei giochi alle interazioni sociali quotidiane, appena pubblicate dal suo collega di Harvard, il notissimo psicologo Steven Pinker, nel suo ultimo libro. Tra Pinker, neo-darwiniano di ferro, e Lewontin non corre buon sangue. Forse il motivo è quella famosa hubris. Ma aspettiamo di leggerlo nella prossima New York Review of Books.

Richard Lewontin è nato a New York il 29 marzo 1929.
Laureato in biologia a Harvard, è biologo e genetista..
I SUOI ALLIEVI: filosofi e storici della biologia del calibro di William Provine, William Wimsatt, Elliott Sober, Philip Kitcher, Elisabeth Lloyd, Peter Godfrey-Smith.

venerdì 21 dicembre 2007

l’Unità 21.12.07
Lavoro minorile, in Italia. 500mila piccoli schiavi
di Federica Fantozzi


Rapporto choc di Ires-Cgil e Save the Children: 80mila
sono stranieri. «Agire subito per dare loro progetti futuri»

BAMBINI SENZA DIRITTI Sono 500mila in Italia i minori di 15 anni che lavorano. 80mila sono stranieri. Nei negozi e nei bar. In casa per aiutare la famiglia. Per strada, sconfinando nell’illegalità. Al lavoro tutto l’anno, magari in nero, faticando a scuola per la stanchezza, privati del loro tempo dei giochi, perdendo l’opportunità di un futuro migliore di quello dei propri genitori.
È il triste quadro che emerge dal rapporto Ires-Cgil e Save the children presentato ieri a Roma. L’indagine, curata dal presidente Ires-Cgil Agostino Megale e da Anna Teselli, è stata realizzata nel 2005 e ha riguardato 2mila minori in 9 grandi città. Emerge che la categoria più a rischio è quella dei ragazzini stranieri tra 11 e 14 anni con un solo genitore e più fratelli, residenti in territori ad alto tasso di disoccupazione. Eventualità non rara: tra i Paesi avanzati l’Italia ha uno dei più alti tassi (il 17%) di minori in povertà. Hanno dichiarato almeno un’esperienza lavorativa il 25,5% dei migranti e il 20,9% degli italiani.
Il lavoro precoce spesso non è un fatto saltuario o residuale: i dati mostrano una frequenza settimanale, un impegno giornaliero di molte ore, una paga regolare. Si tratta dunque di un’esperienza intensa causata soprattutto dalla pressione familiare e territoriale che comporta un progressivo disimpegno dalla scuola e l’instaurarsi di relazioni tipiche del mondo del lavoro. I ragazzi vi si immergono dedicando meno impegno alle lezioni e «staccandosi» dall’universo ancora formativo in cui vivono i coetanei più fortunati. Qualche numero: il 42% degli adolescenti stranieri (e il 59% dei cinesi) lavora tutto l’anno, mentre analoga percentuale di italiani lo fa «quando capita».
Quali sono i luoghi di lavoro? La casa o l’attività familiare per il 65% (che sale al 90% per i cinesi). Il 26% degli italiani viene impiegato in negozi, 14% in bar, ristoranti e pizzerie, mentre un 12% lavora in strada.
Gli stranieri finiscono spesso inseriti in contesti meno protetti con situazioni «difficili». Uno su tre lavora come ambulante o addirittura accattone. Sei cinesi su dieci in laboratori artigianali tessile o di pelletteria esposti a materiali e macchinari pericolosi, con orari inadeguati all’età. Se poi il 20% degli italiani non viene pagato, il dato sale a un terzo per gli stranieri.
La maggioranza dei bambini lavora tra 2 e 4 ore al giorno. Ma il 20% dei cinesi e circa il 13% degli altri migranti e il 18% degli italiani supera le 7 ore: praticamente un orario da adulti. La maggioranza continua a frequentare la scuola ma con un peggioramento del rendimento e molte assenze, denunciando stanchezza e difficoltà di apprendimento.
In un’approfondimento dedicato al Lazio sui minori stranieri che vivono in comunità o case-famiglia, si evidenzia che spesso arrivano in Italia con già alle spalle esperienze lavorative. Vissute in genere prima dei 15 anni. In Africa soprattutto nell'agricolutura e nell'artigianato, poi emigrati per assecondare i genitori. Diversa l'esperienza dei minori asiatici che hanno lavorato in fabbrica nei paesi di transito e cercano qui un'autonomia personale. I piccoli che arrivano dall'Europa dell'Est vivono invece in Italia le loro prime esperienze lavorative per sostenere le famiglie di origine.
Sei le raccomandazioni, illustrate dal direttore di Save the children Valerio Neri, per dare un progetto di futuro a questi ragazzi. Garantire il monitoraggio qualitativo e quantitativo del lavoro minorile. Attuare la nuova carta degli impegni tra istituzioni e parti sociali nel 2008. Realizzare percorsi di partecipazione «trasparenti e consapevoli» ascoltando i ragazzi. Fare emergere il lavoro nero. Conciliare scuola e lavoro. Disincentivare la dispersione scolastica.
Obiettivi ambiziosi al cui raggiungimento l’Onu ha appena dato un incentivo: il 2008 sarà dedicato alla lotta contro lo sfruttamento minorile.

l’Unità 21.12.07
Sulla rivista «Science» le scoperte più importanti dell’anno che sta per chiudersi riguardano la nostra specificità
La ricerca sulle differenze genetiche incoronata star scientifica del 2007
di Cristiana Pulcinelli


La scoperta scientifica più importante del 2007? Per la rivista Science non c’è dubbio: è la capacità di misurare la variabilità genetica umana. Da quando, nel 2001, è stato fatto il primo sequenziamento del Dna umano molta acqua è passata sotto i ponti. Nel corso del tempo è stato letto il genoma di molti individui e, grazie a nuove tecniche, è stato possibile individuare moltissime differenze tra una persona e l’altra che prima non si potevano vedere. Se fino a qualche tempo fa, quindi, la domanda principale che ci si poneva studiando il patrimonio genetico dell’essere umano era: cosa fa di un uomo un uomo? Oggi, invece, lo scopo è capire cosa, nel mio Dna, fa di me ciò che sono. Il passaggio è rivoluzionario. Si può infatti pensare di collegare le differenze genetiche individuali con alcune caratteristiche della persona. Studiando le differenze genetiche tra il mio genoma e quello di altri esseri umani si potrebbe capire, insomma, cosa contribuisce a far sì che io abbia i capelli rossi o le lentiggini, un fisico slanciato o tozzo. Oppure, per un altro verso, un rischio maggiore (o minore) rispetto alla media di ammalarmi di diabete, asma o cancro. Una prospettiva meravigliosa e terrificante al tempo stesso. Da un lato, infatti, si può pensare di far nascere una medicina personalizzata che, lavorando sui geni, riduca il rischio di ammalarmi, dall’altro però si aprono questioni inquietanti riguardo alla privacy e alla discriminazione. Come si comporterebbe, ad esempio, un datore di lavoro di fronte all’informazione che la persona che sta per assumere ha un genoma che è collegato ad un alto rischio di ammalarsi di una malattia invalidante? Si stima che ci siano circa 15 milioni di punti lungo il genoma in cui la posizione di una singola base tra quelle che compongono il Dna può fare la differenza tra una persona e l’altra o addirittura tra una popolazione e un’altra. I biologi nel corso del 2007 hanno individuato 3 milioni di questi punti: i SNP (single nucleotide polymorphisms). Oltre una dozzina di studi sono stati portati a termine nel corso dell’anno per mettere a confronto il Dna di migliaia di persone con e senza malattie in modo da individuare quale piccola variante genetica sia alla base dell’aumento del rischio. Sono state studiate la fibrillazione atriale, le malattie autoimmuni, il disordine bipolare, il cancro al seno, il cancro colonrettale, il diabete, l’ipertensione, la sclerosi multipla e l’artrite reumatoide.
Durante questo stesso anno, i biologi hanno poi imparato che esiste un’altra fonte di variabilità genetica: dei tre miliardi di basi che compongono il Dna, alcune migliaia di milioni si possono perdere, aggiungere, o venire copiate in modo sbagliato. Con il risultato che l’attività genetica può cambiare entro poche generazioni. Anche questo è un modo in cui può aumentare il rischio di sviluppare una malattia.
Al secondo posto nella classifica di Science troviamo la tecnologia per riprogrammare le cellule. A giugno scorso, ricercatori americani e giapponesi avevano annunciato di essere riusciti a creare nel topo cellule staminali simili a quelle embrionali partendo da cellule della pelle. A novembre, altri due gruppi di ricerca hanno affermato di aver ottenuto lo stesso risultato con cellule umane. Se venisse confermata, la notizia potrebbe essere una svolta nella ricerca sulle staminali.
E per il 2008 cosa ci si attende? Secondo Science, tenete sotto controllo i microRna, i nuovi materiali per i chip dei computer, i microbi artificiali, il genoma dell’uomo di Neanderthal e i dati che arriveranno dall’acceleratore di particelle Lhc del Cern e vedrete che qualcosa di interessante verrà fuori.

l’Unità 21.12.07
Il Natale? L’ha inventato Zoroastro
di Roberto Carnero


Virgilio ne scrive nelle «Bucoliche»
Ma anche nel buddismo troviamo qualcosa di molto simile

E forti analogie con il mistero della nascita esistono nel mito dello zoroastrismo

5000 ANNI DI VITA Il mito natalizio ha radici antichissime in culture e religioni precedenti quella cristiana. Ne parla un libro di Saba Sardi, che uscì 50 anni fa e fu messo all’indice dai Gesuiti, ora ristampato

Quando uscì per la prima volta, cinquant’anni fa, fu subito messo all’indice dai Gesuiti. Del resto già il titolo del libro di Francesco Saba Sardi è piuttosto provocatorio: Il Natale ha 5000 anni. Ora il libro viene riproposto, con ottima tempistica promozionale, in occasione delle imminenti festività natalizie da Bevivino Editore (pp. 720, euro 28,00), con una nuova introduzione dell’autore. Il quale, quando aveva iniziato a porre mano a questa ricerca, si era prefisso uno scopo ben preciso: dimostrare come molti degli elementi del «mito natalizio» fossero già presenti in altre culture e in altre religioni, precedenti quella cristiana.
L’idea, cioè, di un salvatore o di un redentore, promotore di una palingenesi universale, magari nato da una madre vergine, in uno scenario da «presepe», con rocce e grotte in abbondanza, sfuggito a una crudele persecuzione e chiamato a sconfiggere il male, non è esclusiva del cristianesimo. Francesco Saba Sardi racconta così la «favola del Natale», a partire dagli antichi documenti delle altre culture religiose: occidentali, orientali, africane e indoamericane.
Il suo libro propone infatti un’articolata visione delle concezioni del Natale - o del «Figlio del Cielo» o dell’«Apparso» - che hanno corso da almeno 5000 anni: un’attestazione cronologica sicura e prudente, perché in realtà - spiega l’autore - molti dei motivi costitutivi della «mitologia natalizia» risalgono già ad alcuni millenni prima. «Il mito dell’Avvento cristiano - afferma - non è affatto creazione isolata e originale, bensì frutto di sincretismo, un convergere di elementi elaborati nel corso di molti secoli nell’ambito del mondo mediterraneo ma anche extramediterraneo. Gli Apparsi sbucavano, con le regolari scadenze delle crisi, da abissi, schiume, astri, nuvole, grotte, acque, mangiatoie, grembi materni».
In ambito latino è nota la quarta egloga delle Bucoliche di Virgilio, dove si preannuncia la nascita di un puer da cui scaturirà una nuova età dell’oro. Nel Medioevo nel fanciullo profetizzato dal poeta latino si vedrà un’allegoria di Gesù, ma è evidente che il testo virgiliano, composto nel 40 a. C., alludeva ad altro, forse a un condottiero, diversamente identificato dagli interpreti. Tuttavia, spiega Saba Sardi, il testo di Virgilio «può considerarsi la summa delle concezioni epifaniche del mondo antico classico. Alla maniera dei profeti d’Israele, il vate romano promette qualcosa che si possa toccar con mano, l’avvento del regno della pace, dell’abbondanza, un’esistenza felice, dalla quale siano escluse guerre e fatiche».
Ma anche nel Buddismo, religione la cui cosmologia pure è molto diversa da quelle occidentali, troviamo qualcosa di molto simile. Il Buddha, infatti, esce dal fianco di sua madre Maya senza provocarle dolore. Appena nato cammina alla perfezione.
E non solo: «Constata, dotato com’è di uno sguardo capace di vedere l’intero universo, che in questo mondo non c’è nessuno pari a lui e annuncia di essere quello che porrà fine al dolore, alla malattia e alla morte. Le somiglianze con altri Natali sono evidentissime. Il Buddha appare uscendo da un fianco della madre. Il parto è dunque verginale in quanto l’Apparso non transita per l’utero.
Lo scrigno prezioso in cui è in attesa, ed è perfettamente formato, ha palesi equivalenze con l’utero da cui nasce il Cristo, ma anche con le rocce, caverne, eccetera, di mille Figli del Cielo o dell’universo. Il Buddha è il portatore di luce, essendo colui che diventerà l’Illuminato. Il Buddha e il Cristo sono entrambi Phanes, sono Apparsi. Entrambi sono Parola senza origine. Vengono infatti dall’eternità che è senza tempo per definizione».
Analoghi gli elementi presenti nel mito natalizio dello zoroastrismo, la religione orientale nata tra l’VIII e il VII secolo a. C. Così si legge, ad esempio, in un antico testo a proposito di Zoroastro: «Al momento in cui morì, egli proiettò il proprio sperma per entro una sorgente e, approssimandosi la fine del mondo, da esso sperma una vergine nascerà, e un bimbo uscito da lei metterà in rotta un numero enorme di seguaci di Ahriman, e due altri bimbi, che allo stesso modo saranno messi al mondo, ne sconfiggeranno definitivamente le schiere e le stermineranno».
Ma che cos’hanno in comune le diverse versioni del Natale presenti nelle varie religioni? Qual è il sostrato concettuale sotteso alle simili scenografie? Spiega Francesco Saba Sardi: «Potremmo definire il Natale intendendolo come frontiera tra l’esserci e il non-esserci. Eros che cavalca un delfino, avendo come attributi ora le ali, ora la lira, ora la clava di Ercole, era il simbolo greco di questo stato di sospensione: un cullarsi sull’acqua, un librarsi sull’abisso. Il frutto del Natale è un ente suscettibile di evolvere in ogni direzione e dimensione, onnipotente com’è, donde la varietà delle sue metamorfosi. Ma, appunto per questo suo carattere di appena nato, è impossibile stabilire se appartiene all’aldiqua o all’aldilà, alla concretezza di carne e sangue o a un limbo di incertezza. Il ciclo nascita-copula-morte, l’evidenza dei processi naturali, presta attributi all’idea mitica, e a sua volta il racconto mitico spiega la natura, in uno scambio continuo in cui la spinta iniziale è un’invenzione, una rivelazione. Il Natale dei Vangeli, il Cristo, percorre le tre fasi del mitema: neonato; eroe minacciato dai pericoli ma trionfante; morto e risorto».

l’Unità 21.12.07
ANNIVERSARI Due libri nel duecentenario della «Fenomenologia». Un saggio di Mariapaola Fiminani e la «Filosofia della natura» a cura di Marcello Del Vecchio
Hegel filosofo del conflitto che anticipò Einstein
di Bruno Gravagnuolo


Il 2007 è stato anno hegeliano. Non anniversario della nascita, che per lo svevo Hegel, morto a Berlino nel 1831, avvenne a Stoccarda nel 1770. Ma per il duecentenario di una sua opera davvero centrale: la Fenomenologia dello Spirito. Uscita nel 1807 per l’editore Cotta. Lì, sebbene sbilanciata dal lato dell’esperienza - la «teoria dell’esperienza della coscienza» - si mostra la «doppia anima» del filosofare hegeliano: logico e storico-psicologico. Concettuale e «vitale». Doppia anima che torna in altra maniera, astratta e speculativa, nella Scienza della Logica, tra il 1812 e il 1816.
Dunque, filosofia «ancipite», che due volumi diversissimi in questo «bicentenario» della Fenomenologia - già oggetto di un Convegno al Goethe di Roma mesi fa - ci aiutano a penetrare. Il primo, non in ordine di tempo, è Erotica e Filosofia, di Mariapaola Fimiani (Ombre Corte, cartografie, pp. 153, euro 13,50), studiosa salernitana di Berkeley e Foucault. Che fin dal sottotitolo ci propone la sua chiave di lettura su Hegel: Foucault e la lotta per il riconoscimento. Significa leggere Hegel sulla scia di due aspetti. L’irruzione della «soggettività» in Occidente, che campeggia in tutta la filosofia della storia hegeliana. E il ruolo che l’ultimo Foucault assegnava al soggetto. O meglio alla «cura del sé», come il francese la chiamava negli ultimi corsi al Collége de France, e negli Usa a Berkeley. Insomma per la Fimiani quella di Hegel è una filosofia della possibile liberazione del soggetto, ma non al modo cristiano-germanico e borghese di Hegel. Bensì nel senso di un agonismo conflittuale contro il Potere, dove i singoli si riconoscono a vicenda e confliggono. Nella ricerca di una disarmonia prestabilita, dove mediatore di equilibri instabili è l’eros. Che poi significa, platonicamente, rispecchiamento desiderante e reciproco su oggetti di senso, estetici, etici, politici. Tensione vitale sempre aperta e spinta libidica alla ricerca di conciliazioni precarie nel mondo sociale. In altri termini Fimiani congiunge Hegel, Nietzsche e l’analisi foucaultiana del Potere, a partire dall’emergere in Grecia di qualcosa di occidentale per antonomasia: la soggettività. Letta hegelianamente come riconoscimento eguale, dopo il superamento della lotta tra Servo e Signore che inaugura l’epoca moderna post-rivoluzione francese. Soggettività consegnata alla fragilità post-moderna, consumati gli orizzonti di senso tradizionali. Fimiani hegeliana e anti hegeliana perciò, e che attinge ci pare a quel «giovane Hegel», romantico ed esistenziale, che non aveva ancora elaborato (del tutto) la sua visione sistematica e logica, «cristiano-borghese». Di contro l’altro volume ci porta in ben altra atmosfera: la filosofia della natura hegeliana. Che Marcello Del Vecchio, studioso di Camus, Hume ed Hegel, affronta di petto, traducendo e commentando con acribia e acume una Lezione risalente al 1819-20, già resa disponibile da Bibliopolis fin dal 1982 a cura di Ilting e Gies: Filosofia della Natura, La lezione del 1819-20 (Franco Angeli, pp.143, euro 15). Impresa ardua, parte di un progetto più ampio che vedrà per Angeli la traduzione delle Lezioni del 21-22 e del 23-24, nei prossimi due anni.
La lezione in esame fu raccolta da G. Berhardy, che fu allievo di Hegel a Berlino e divenne professore straordinario nel 1825. Qui, come già nell’Enciclopedia delle Scienze filosofiche in compendio del 1817, si presenta il «concetto speculativo della natura» per Hegel. Che è cruciale, poiché non solo è parte integrante della visione scientifica dell’epoca classico-tedesca e napoleonica, che Hegel sintetizza e raccorda alla sua filosofia. Ma decisiva perché fa luce sul tipo di idealismo hegeliano: idealismo oggettivo. Dove la natura è « l’esteriorità dell’Idea logica», cioè dell’Eterno, colta sotto le specie dello spazio e del tempo. Malgrado il tono speculativo e metafisico, c’è qui come un aroma di relatività einsteniana: spazio e tempo sono un tutt’uno infatti. La forma cosale ed esteriore dell’Essere, in cui le due «forme» kantiane della sensibilità sono l’oggetto stesso, afferrato da lati diversi. Così come einsteniana è l’idea della luce come energia e vettore assoluto, mentre un sapore «quantistico» ha persino l’idea di un «infinitamente piccolo» che riproduce in sé il montaggio gravitazionale del sistema solare. Viceversa, aristotelica è l’idea di generi e specie logicamente fissi e concentrici, dal più basso gradino fino all’organismo vitale, che nel soggetto umano e nell’Idea atemporale tutto ricomprende. Genio del divenire Hegel, con il demone dell’eternità logica. Che Del Vecchio ci restituisce integralmente dall’interno.

l’Unità 21.12.07
La crociata contro Voltaire
L’enciclica del Papa
di Paolo Flores d’Arcais


La crociata continua. L’enciclica di Benedetto XVI «Spe salvi» ribadisce e anzi radicalizza l’anatema della Chiesa cattolica contro una modernità colpevole di disobbedire a Dio, e che precipita perciò nella disperazione del nichilismo. L’outing è ora completo. Anche la democrazia è menzogna se la sovranità degli uomini non si sottomette all’imperio della «legge naturale», cioè se la libertà non coincide con l’obbedienza agli ukase della Chiesa, unica interprete autorizzata di tale «legge naturale» e della volontà di Dio con cui essa coincide. La democrazia deve essere cristiana, altrimenti è disumana.
Il giallo è finalmente risolto. Il colpevole è Voltaire, anzi addirittura Bacone. Il Male è l’illuminismo, il progetto di autonomia dell’uomo.
Autos-nomos, il darsi da sé la propria legge, anziché riceverla da Dio, o dai suoi surrogati e ministri (la «Natura» e la Chiesa gerarchica), ecco la Colpa inespiabile. Il Nemico (proprio nel senso delle Scritture) è la ragione che prescinde da Dio, la ragione che lavora iuxta propria principia, la ragione che ragiona, insomma.
L’autos-nomos, la pretesa di sovranità di tutti e di ciascuno, precipita anzi l’umanità nella gehenna dei totalitarismi, dove è pianto e stridor di denti, e anche peggio: il Terrore di Robespierre e Saint Just e il Gulag di Stalin. A questo si arriva, inevitabilmente - Ratzinger dixit - se l’uomo nel suo rapporto con la natura e con gli altri uomini (scienza e politica), si comporta come se Dio non ci fosse, prende cioè sul serio la proposta di Grozio che ha salvato l’Europa dall’autodistruzione delle guerre civili di religione: «Etsi Deus non daretur». Precetto, dunque, che è - storicamente parlano - l’unica autentica e incontestabile radice dell’Europa.
Nulla di nuovo, si dirà. Extra ecclesiam nulla salus è la pietra angolare - da secoli - di tutte le pretese «papiste». A queste pretese, però, da qualche decennio era stata messa la sordina. La stessa Chiesa sembrava - giustamente - vergognarsi del suo passato «costantiniano» e dei suoi anatemi contro scienza, liberalismo, democrazia (pronta perfino a chiedere qualche perdono). Non citava più il Sillabo ma il Concilio Vaticano II.
Da allora è trascorsa un’epoca. Con Papa Wojtyla prima, e con Papa Ratzinger ora (che di Wojtyla fu il più stretto collaboratore nell’estensione di encicliche cruciali come «Veritatis splendor» e «Fides et ratio») i contenuti essenziali del Sillabo sono stati riportati in auge: la sovranità appartiene a Dio, un parlamento - democraticamente eletto dai cittadini - che agisca contro la «legge naturale» (ad esempio con una legge che consenta l’aborto, anche limitatamente) diventa ipso facto illegittimo.
Così Wojtyla a Varsavia, solenne di furore e di collera, contro il parlamento polacco (il primo liberamente eletto dopo mezzo secolo di comunismo!). L’aborto come «genocidio dei nostri giorni», come nuovo olocausto. Una donna che sceglie il dramma dell’aborto, colpevole quanto la Ss che getta un bambino ebreo nel forno crematorio. Il mondo laico fece finta di non sentire o di non capire, in preda a fascinazione mediatica.
Ora, la rimozione non è più possibile. Per chi cerca alibi, il Papa tedesco ha eliminato ogni dubbio. O Dio o la sovranità popolare. Aut aut. Non sembrino esagerazioni polemiche. Il ragionamento teologico-politico di Joseph Ratzinger è compatto, lineare, e - nella sua logica confessionale e dogmatica - perfettamente coerente.
Eccolo. La modernità vuole fondare l’esistenza dell’uomo sul binomio ragione + libertà, autonomamente, a prescindere dal Dio della Chiesa. Ma dal «fare» della conoscenza (la scienza baconiana) si passa inevitabilmente al «fare» della politica, in una idea illuministica di «progresso» come «superamento di tutte le dipendenze». Libertà illimitata, libertà perfetta «nella quale l’uomo si realizza verso la sua pienezza». Sappiamo come è finita (Robespierre e Stalin) e sappiamo anche perché: l’ateismo come esito dell’illuminismo.
Perciò «è necessaria un’autocritica dell’età moderna» che deve avvenire «in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza». L’eufemismo «dialogo» non tragga in inganno: «solo Dio può creare giustizia». E, si badi, «non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati fino alla fine». Il Dio/Gesù Cristo della Chiesa gerarchica, della Verità consegnata nei concili di Nicea e Calcedonia, come ribadito dal Papa tedesco nel suo recente libro best-seller. Ma tale «concezione della speranza», secondo l’enciclica, equivale né più né meno alla certezza della fede. Il mondo, e in particolare l’Occidente che è nato dalla modernità, può sfuggire alla maledizione della disperazione solo attraverso «l’apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male».
Fuor di perifrasi, pensando e operando in obbedienza alla morale cattolica. Dalla vita alla morte, lungo tutte le epoche della sessualità, e non dimenticando la ricerca scientifica. Staminali, aborto, contraccezione, istituto matrimoniale, educazione scolastica, interpretazione del darwinismo, terapie del dolore, eutanasia: tutto deve obbedire alla «legge naturale», sinonimo puro e semplice della volontà confessionale della Chiesa gerarchica.
Sotto il profilo culturale, basterebbe rispondere al Papa teologo che la modernità non è innanzitutto e per lo più, come vuole farci credere, Terrore e Gulag, perché dalle tre rivoluzioni «borghesi», da Cromwell, dai girondini, da Jefferson, è nata una forma di convivenza straordinaria, fino ad allora sdegnata come utopia, la democrazia liberale (i cui princìpi, troppo spesso, gli establishment di Occidente calpestano nella loro azione quotidiana). E che Nietzsche e Marx, per non parlare di Bacone e dei Lumi, non assomigliano proprio al bignamino parodistico spacciato nella «Spe salvi».
Ma Joseph Ratzinger, malgrado le indubbie e prepotenti civetterie accademiche che animano la sua penna, è a sufficienza smagato uomo di potere per sapere che il peso di un’enciclica non dipende dalla sua claudicante caratura culturale. Di essa ha dato perciò una interpretazione politica autentica il giorno dopo, parlando di fronte ai rappresentanti delle organizzazioni umanitarie non governative (Ong) di matrice cattolica, accusando diverse agenzie dell’Onu di «logica relativistica» che nega «cittadinanza alla verità sull’uomo e sulla sua dignità nonché alla possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale». A tale deriva bisogna opporre i «princìpi etici non “negoziabili”» di cui la Chiesa è depositaria e paladina.
Come si vede, con il suo outing contro illuminismo e autos-nomos democratico Papa Ratzinger si candida esplicitamente alla leadership mondiale del fondamentalismo religioso, quello non terroristico, ovviamente. Il suo prossimo intervento alle Nazioni Unite, previsto per il 18 dicembre, ne costituirà l’atto ufficiale e solenne. Speriamo che, almeno quel giorno, «chi ha orecchie da intendere, intenda».

Repubblica 21.12.07
La secolarizzazione
I giorni del sacro dell’uomo moderno
di Umberto Galimberti


Guardando le pratiche degli acquisti e dei consumi sembra che nella nostra cultura il Natale sia ormai già ateo. Di religioso è rimasto soltanto il rito
Come si è giunti da una misera stalla al luccichio di negozi e supermercati

Natale è ancora una festa cristiana? Anche per l´ateo che non crede in Dio, per l´agnostico che non sa se Dio c´è, per il laico che nelle sue scelte etiche prescinde dalla nozione di Dio? Guardando le pratiche natalizie degli acquisti e dei consumi sembra che nella nostra cultura il Natale sia ormai già ateo, o se preferiamo agnostico, certo profondamente laico. Di cristiano è rimasto solo il rito che si ripete, la ricorrenza che ritorna, la festa che, come nessun´altra, è davvero "comandata".
Comandata da chi? Dalla nostra economia naturalmente che, per quanto in affanno, resta comunque un´economia dell´opulenza dove il consumo e lo spreco sono sotto gli occhi di tutti in un tripudio di malcelata festività. E allora come conciliare la cultura cristiana che si è soliti individuare come forma dell´Occidente, con il livello di ricchezza e abbondanza raggiunto dalle società occidentali?
Varrebbe la pena di fare esplodere questa contraddizione così ben palesata dall´albero di Natale, simbolo non cristiano dove traluce il nostro benessere, che ha preso il posto del presepe cristiano che è invece spettacolo dell´indigenza e della povertà. Dalla stalla dove è nato Gesù il senso del Natale cristiano si è infatti trasferito nel luccichio dei negozi, nella sovrabbondanza dei supermercati, nelle evasioni promesse dalle agenzie di viaggio, per cui la domanda non è: che senso ha la festività di Natale per un laico, ma che significato essa ancora possiede per un cristiano che vive in una cultura opulenta, e in ogni suo aspetto laicizzata, dell´Occidente "cristiano"?
Non basta un po´ di volontariato quanto mai benefico, ma decisamente insufficiente, per attutire gli inconvenienti che nascono dalla logica ferrea del mercato che non prevede il dono, ma la rigida contrattazione. Così come non basta fare "doni" a Natale per mascherare la legge economica del profitto che governa l´Occidente. No, non basta. E allora diciamolo: l´Occidente forse non è più cristiano e la completa laicizzazione del Natale, la festa cristiana per eccellenza, è solo una conferma che il cristianesimo in quella sua vera essenza che è l´amore per il prossimo, lontano o vicino che sia, in Occidente non ha più casa, né chiesa, né luogo dove trovare espressione. Ne è prova la povertà del mondo che langue inespressiva nelle coscienze dell´Occidente cristiano, notizia smarrita tra le tante che, nell´indifferenza generale, giungono da terre che l´Occidente considera straniere?
E allora il cielo sopra la grotta del presepe di Natale diventa un testimone indifferente dove, esausto, si ripete il rito della nascita di Gesù, con santi e angeli che non hanno sguardo per ciò che capita sotto i loro occhi. Il tempo della speranza, che il cristianesimo ha inaugurato e che Papa Ratzinger ha riproposto nella sua ultima enciclica, si è fatto così lontano da diventare estraneo al nostro sguardo, perché ormai siamo alla cruda accettazione della casualità della nostra esistenza, senza neppure l´inquietudine della crisi, senza il gusto di vivere questo tormento, nuova ed eccitante maniera di percorrere il nostro tragitto, che a Natale ci porta ritualmente nella casa dove siamo nati per onorare il padre e la madre, ultima orma del sacro, da cui l´indomani ci congediamo per incamminarci di nuovo lungo la via che del sacro ha perso non solo l´origine, ma anche la traccia.
Eppure nella grotta di Betlemme, per i cristiani, il divino s´è fatto terreno, e la terra è diventata la dimora di Dio. Allora il tempo si è spaccato in due: prima e dopo Cristo. La natura e il suo ciclo hanno ceduto al futuro e alla sua promessa. Il tempo, reso gravido di senso, ha cessato di essere puro e indifferente "divenire" ed è diventato "storia". In questo modo il cristianesimo si è separato dalle mitologie primitive che leggono il tempo a partire dal "passato", da un´età dell´oro o paradiso perduto in cui si rifugia la nostalgia, perché il cristianesimo proietta la salvezza in quel possibile "futuro" a cui si agganciano sia l´utopia, sia la rivoluzione, quando la nuova figurazione del tempo, inaugurato dal cristianesimo, si contamina con l´ateismo della speranza. Per lontane che possano sembrare, utopia, progresso e rivoluzione sono eventi cristiani, appartengono al tempo "dopo" Cristo, scavano il motivo della speranza, sondano possibilità di salvezza, credono che la storia abbia un senso, guardano con sospetto il nietzscheano "tempo senza meta".
L´Occidente è stato sedotto da questo nuovo modello di temporalità e, in versione cristiana, utopica o rivoluzionaria, ha sempre celebrato nel Natale non il ritmo del "ritorno", ma l´atmosfera della "rinascita", l´entusiasmo di ciò che ancora è in grado di promettere il futuro: la promessa del tempo.
È ancora in circolazione questa promessa che è tutta cristiana? A me pare di no. Da quando il denaro è diventato in Occidente l´unico generatore simbolico di tutti i valori e la tecnica il mezzo per conseguirli, senz´altro scopo che non sia il suo autopotenziamento, il futuro non appare più come promessa, e ancor meno come speranza. I suoi tratti sembrano piuttosto quelli dell´incertezza e dell´indecifrabilità.
E allora che ne è del cristianesimo che ha fatto la sua irruzione nel tempo annunciando proprio il futuro come speranza? In Occidente se ne è persa la traccia. Non so se questo sia un bene o un male. È semplicemente così. Ma se riconosciamo che la nostra cultura è regolata unicamente dalla rigida legge del mercato ed è disposta a ospitare solo qualche deroga in forma di elemosina, beneficenza e volontariato (utili più ad alleviare il senso di colpa connesso al nostro privilegio che a trasformare le condizioni più disastrose del mondo), allora evitiamo almeno quella falsa coscienza che ci porta a identificare l´Occidente con il cristianesimo. Mai come oggi le due culture appaiono abissalmente distanti. E il modo con cui ogni anno festeggiamo il Natale ne segna inequivocabilmente il disagio e la contraddizione.

Repubblica 21.12.07
L’operaio sconfitto
Gli studi di Mario Tronti e il dramma terribile delle morti bianche
L'uscita di scena di una classe protagonista


Da lungo tempo la figura del lavoratore è diventata impalpabile per il resto della società e per i vinti non c´è spazio, non c´è definizione
Quel che contava nelle lotte di fabbrica non era tanto la forza del passato e della tradizione, ma solo il presente nella sua casualità

C´è qualcosa di drammatico e ironico insieme, nel bilancio che Mario Tronti ha recentemente fatto dell´operaismo, della sua lontana stagione fiorita e della disfatta. C´è qualcosa che va a toccare non solo la storia di un uomo che ha pensato e scritto con molta passione e acume sul destino della classe operaia come soggetto rivoluzionario; ma quel nodo problematico si riflette e si interseca con un mondo che tutti, proprio tutti, davano per scomparso. Poi, una tragedia dalle proporzioni impreviste, attraversata dal ferro e dal fuoco, mette di fronte a un problema che non si capisce ancora fino a quando terrà desta la nostra attenzione. È la tragedia delle "morti bianche", come le notti, come le voci. Ma con un timbro diverso, e la conclusione che ci sgomenta: operai che cadono dalle impalcature, che restano folgorati da un filo dell´alta tensione, travolti da un treno, seppelliti da una frana, o divorati - come nel rogo della Thyssen - dal fuoco. Le chiamano "bianche" perché non c´è un vero mandante, non c´è lo scoppio di una follia improvvisa, non c´è l´assassino. C´è solo la vittima innocente, con il corpo inerte e senza storia. E quando accade, quando quel corpo viene esibito e sollevato da un nuovo e ulteriore dolore, allora improvvisamente ci si ricorda che quell´evento luttuoso appartiene a una memoria più profonda ed estesa che investe la classe operaia nel suo insieme. Essa esiste ancora o, come ormai sostengono numerosi fautori della società immateriale, è solo un pallido ricordo?
Da lungo tempo una gigantesca morte apparente sembra aver avvolto la figura del lavoratore, averlo reso impalpabile al resto della società. E pensare che l´immaterialità - nelle forme del plusvalore dell´invisibile di cui si dota la merce - nasce nella fabbrica. Quello è il suo luogo di origine, immiserito dalla serialità, dall´automatismo, dall´alienazione, esaltato dalla ribellione, dall´utopia, dalla piazza. Insomma quel mondo nel quale la "rude razza pagana" aveva svolto il ruolo di protagonista sembra definitivamente sconfitto, ma non cancellato. Domato ma non scomparso. Ma per i vinti non c´è spazio, non c´è lingua, non c´è definizione. Ecco il motivo per cui leggere il bilancio che Tronti ha fatto di una lunga stagione di lotte esemplifica e simboleggia meglio di una piccola predica sociologica cosa raccontano e nascondono i fattori di una sconfitta.
Del resto sono trascorsi quarant´anni dalla pubblicazione di Operai e Capitale, libro (oggi riproposto da Derive Approdi, pagg. 315 euro 20) che contribuì a definire una parte del quadro teorico nel quale il Sessantotto si sarebbe dibattuto. A rileggerlo, in un contesto decisamente diverso, sembra aver attenuato la sua carica ipnotica. Quel modo battente, assertorio, ritmato che Tronti ha di inquadrare e descrivere il fenomeno operaio, conserva indiscutibili pregi letterari. Ma è come se lo stile evochi qui la forma della nostalgia perduta, più che la sostanza di ciò che è andato perso. E che cosa si è perso? Che cosa è inequivocabilmente tramontato?
Tronti ha stilato un suggestivo bilancio delle ragioni di una sconfitta, e lo ha messo sotto forma di una lunga introduzione a un´antologia di testi sull´operaismo che sarebbe dovuta uscire quest´anno per Feltrinelli e che, per ragioni editoriali, è stata spostata all´anno prossimo. L´analisi condotta con "passione cinica" descrive un´esperienza conclusa. Una passione che si potrebbe applicare a una parte cospicua del Novecento, a quel pensiero vissuto attraverso il soggetto operaio, la fabbrica, il conflitto. Se c´era un principio, il Tronti di allora lo individua nella lotta della classe operaia. E se c´è un modo di distinguere questa lotta dalle altre, che pure il movimento operaio ha praticato, esso risiede nel fatto che l´operaismo vuole definirsi a partire dall´idea che una scienza operaia è stata in grado di prendere le distanze dallo storicismo, da quella linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci che incarnò l´egemonia culturale del fare politica e a lungo imperò in Italia come un sonno dogmatico. Contro questa impostazione votata al progresso della ragione, c´erano le sporadiche incursioni dellavolpiane (che privilegiavano un Marx sfrondato da Hegel), c´era l´esperienza di Raniero Panzieri con la rivista Quaderni Rossi che rileggeva il Capitale, c´era Classe operaia che rileggeva i Grundrisse), e Contropiano che rileggeva Nietzsche. Tutto questo preparò il fatidico Sessantotto? Tronti ha molte resistenze teoriche a far confluire l´esperienza operaista nel magma poliedrico della contestazione: «Ci muoveva non la rivolta etica per lo sfruttamento che gli operai subivano, ma l´ammirazione politica per le pratiche di insubordinazione che si inventavano. Ci deve essere dato atto che non cademmo mai nella trappola del terzomondismo, delle campagne che assediano le città, delle lunghe marce contadine, non fummo mai "cinesi", e la "rivoluzione culturale", quella d´Oriente, ci vedrà freddi, lontani, più che moderatamente scettici, in realtà fortemente critici. Ci piaceva al contrario il fatto che gli operai del Novecento spezzassero la continuità della lunga gloriosa storia delle classi subalterne, con le loro rivolte disperate, le loro eresie millenariste, i loro ricorrenti generosi tentativi, sempre dolorosamente repressi, di rompere le catene. In fabbrica, nella grande fabbrica, il conflitto era quasi ad armi pari, si perdeva e si vinceva giorno per giorno, in una permanente guerra di posizione». Quel che conta non è tanto la forza del passato e della tradizione, né la speranza che può donare il futuro, ma solo ed esclusivamente il presente, con le sue contingenze, la sua casualità, le sue occasioni da sfruttare. Il presente trontiano non è semplicemente il qui e ora, ma l´orizzonte che delinea il Novecento stesso, la grande epoca che tutto racchiude: capitalismo e socialismo, riforme e rivoluzione, totalitarismo e stato liberale, Stato sociale e società democratica, la lotta operaia e la sua sconfitta. Ne viene fuori un quadro su ciò che il soggetto operaio avrebbe potuto essere e non è stato. Realismo lirico. Avventura. Romanzo. Analisi. Sono le coordinate con cui l´intellettuale Tronti si orienta in quel secolo di ferro e di fuoco che si è chiuso tra grandi entusiasmi e insospettate delusioni.
Niente appare dolce e accattivante allo sguardo di chi racconta la sua storia, e non versa lacrime, non chiede comprensione. Eppure una sottile nostalgia solleva queste pagine dalla polvere delle ideologie, le rende palpitanti. La parola nostalgia può trarre in inganno, andrebbe sostituita con la parola dolore. Che è la lancinante scissione tra ciò che si era e ciò che si è diventati. Il destino di una classe e quello di uomo - pur su piani diversi - qui finiscono con il coincidere.
Torna alla mente una raccolta di saggi scritti in onore di Mario Tronti e dal titolo vagamente schmittiano: Politica e destino (edito da Luca Sossella). Saggio introduttivo di Tronti e poi i contributi (di Accornero, Asor Rosa, Boccia, Cacciari, Calise, Coldagelli, di Leo, Dominijanni, Olivetti, Valeriani e alcuni allievi che si firmano Epimeteo) che analizzano con molta libertà i pregi e i limiti del suo pensiero. E nel farlo, mostrano, come raramente accade con queste raccolte, affetti ed effetti teorici, legami sentimentali e connessioni storico politiche. Si ha insomma l´impressione che ciascuno ragionando su Tronti, faccia anche i conti con un pezzo importante della propria vita. Con ciò che si è stati e che improvvisamente torna a rivivere in un luogo che è memoria e delusione, distanza e coinvolgimento. La barra è pur sempre tenuta dall´esperienza dell´operaismo. Che nella versione di Tronti fu un modo di stare in Occidente, fuori dagli esotismi politici. Di quella "minoranza di massa" che ha cercato senza riuscirvi un´altra maniera di fare politica, raccontata da un eretico più che da un eterodosso, resta l´ombra di uno stile che è insieme attuale e inattuale.

il Riformista 21.12.07
Il pd chiuso nel perimetro teo-dem
di Emanuele Macaluso


Mercoledì scorso ho letto con ritardo l'articolo di Veltroni su "Repubblica" col quale replicava alle critiche di Miriam Mafai a proposito della sua intervista al "Foglio", e ho visto che anche lui come il capogruppo del Pd al Comune di Roma Battaglia dice che approvare la mozione per istituire il libro delle unioni civili «non cambia neanche una virgola» sulle condizioni di quelle coppie. Dovrei fare a Walter le stesse domande fatte ieri a Battaglia, ma voglio porre un problema più generale. Il Pd muove i suoi primi passi e si verifica quel che avevamo previsto sulla base delle posizioni assunte dal gruppo dei teo-dem confluiti nel partito. Il perimetro entro cui è possibile una posizione unitaria del Pd sui temi eticamente sensibili lo tracciano loro. Se non c'è unanimità, ha detto in una intervista al "Riformista" Paola Binetti, non si vota. E se si vota, come abbiamo visto, succede il finimondo. Debbo dire che il perimetro fu segnato anche dal gruppo più avanzato di popolari (Bindi, Castagnetti, e altri) con una dichiarazione che entusiasmò Fassino, D'Alema, Reichlin e anche Scalfari. Fuori da quel perimetro nel Pd non si può andare. È chiaro o no? E questo si può definire un partito laico?

il Riformista 21.12.07
Olocausto un monumento per lo sterminio di rom e sinti
In Germania è il tempo dei gitani
Mancano i dati e i numeri certi. I bimbi erano usati come cavie
di Paolo Soldini


Sessantacinque anni dopo la loro deportazione nei campi di sterminio nazisti, i Rom e i Sinti avranno il loro memoriale a Berlino, vicino a quello che ricorda l'Olocausto degli ebrei. E' l'assicurazione che gli esponenti di tutti i partiti tedeschi hanno dato ieri al Bundesrat (la Camera dei Länder) alla delegazione del Comitato centrale dei Sinti e dei Rom di Germania guidata dal presidente Romani Rose. Sarà una fontana di forma circolare, con un triangolo di pietra nera a memoria del pezzo di stoffa che veniva cucito sulle giacche degli internati nei campi nazisti. Particolare significativo, il progetto del monumento è stato presentato da uno studio di architetti israeliani.
La scelta della pietra nera non è casuale. In realtà il marchio distintivo per gli "Zigeuner" prigionieri nei Lager era, con la "Z" tatuata sul braccio, un triangolo rosso. Ma quasi sempre gli "zingari" venivano accomunati agli "asociali" (delinquenti abituali, prostitute, sbandati) e costretti ad esporre il contrassegno nero di costoro. Fin troppo facile cedere alla suggestione del confronto con quanto avviene oggi, come se non fossero passati decenni, qui da noi: "zingari" sinonimo di "criminali". Da tenere d'occhio, da reprimere. Da espellere. Nel confronto con l'atteggiamento delle istituzioni tedesche, con le belle parole con cui il presidente di turno del Bundesrat Ole von Beust (Cdu) ha risposto all'appello di Rose per cui "almeno qualcuno dei sopravvissuti faccia in tempo a vedere il monumento", non facciamo - va detto - bella figura.
E' vero, d'altra parte, che nel panorama di discriminazioni e di persecuzioni che l'Europa ha riservato, fin dal XIII secolo, ai Sinti e ai Rom arrivati dall'India a cercare nuovi spazi incalzati dalla spinta dell'Islam, i tedeschi sono quelli che più hanno da farsi perdonare. Massacri ed esodi forzosi sono cominciati molti secoli prima di quel 19 dicembre del 1942 in cui, con l' Auschwitz-Erlass, il destino degli Zigeuner tedeschi e dei paesi occupati venne accomunato a quello degli ebrei nella "soluzione finale". Fu un Asburgo, Carlo VI, a emanare, nel 1721, il crudelissimo editto che, rendendo giuridicamente non punibile l'uccisione degli "zingari", scatenò una caccia all'uomo che costò la vita a decine di migliaia di innocenti. Negli anni '80 del XIX secolo, il cancelliere Otto von Bismarck, riprendendo le teorie razziste di Gobineau fece approvare una serie di leggi che riservavano ai nomadi «un trattamento particolarmente e giustamente severo». Nel 1905 il direttore dell'Agenzia di informazione sui Gitani con sede a Monaco, lo "scienziato" Alfred Dillmann, produsse per le autoprità del Reich uno Zigeuner-Buch in cui i nomadi venivano definiti una «malattia sociale» e una «minaccia» dalla quale la popolazione tedesca doveva difendersi usando «punizioni senza tregua» di ogni comportamento «non rispettabile». Negli anni '20 fu ai rom e ai malati di mente che cominciarono ad essere dedicate le teorie sulla «preservazione della salute della razza» che avrebbero portato, nel giro di pochi anni, allo sterminio degli ebrei. Nel '35 gli "zingari" furono accomunati agli ebrei nelle discriminazioni delle leggi di Norimberga e la prima menzione di una soluzione finale per rom e sinti fu fatta da Himmler nel dicembre del '38. Nei Lager in cui venivano rinchiusi furono utilizzati, specialmente i bambini, come cavie umane. Un gruppo di 250 bambini rom furono i primi a sperimentare, nel campo di Buchenwald, il Zyklon-B, il veleno che sarebbe stato usato poi nelle camere a gas di Auschwitz.
Il 19 dicembre del '42 dalle stazioni del Reich partirono i treni per Auschwitz. Così cominciava la fase finale del Porrajmos, l'Olocausto ion lingua rom. Ai rom e ai sinti, all'arrivo, fu concesso di non sottostare alle selezioni con cui gli ebrei inadatti al lavoro venivano inviati subito nelle camere a gas. Furono relegati insieme, a nuclei familiari interi, in un settore del campo di Birkenau destinato solo a loro. Ma non era un privilegio: i medici nazisti volevano anche i bambini e i vecchi come "materiale" da studiare. Inoltre le SS temevano la rivolta che con ogni probabilità sarebbe scoppiata quando si fosse tentato di separare i bambini dalle madri e le donne dai loro uomini. Ma nell'estate del '44, in previsione dell'arrivo di seicentomila ebrei dall'Ungheria, lo Zigeunerlager venne "ripulito" in una sola notte, quella tra il primo e il due agosto: finirono tutti nelle camere a gas. Quanti erano? Quanti rom e sinti furono uccisi ad Auschwitz, negli altri Lager, nei territori occupati dell'est, nei pogrom in Germania e in Austria? Non si saprà mai, perché la maggior parte dei nomadi non era mai stata censita e gli assassini non tennero alcuna contabilità. Molte centinaia di migliaia di uomini e di donne, tra 250 mila e un milione secondo calcoli molto approssimativi, furono inghiottiti nel buio della storia. E qui da noi rinascono gli stessi pregiudizi le stesse intolleranze, si cuciono idealmente nuovi triangoli neri. Qui, se qualcuno proponesse di onorare la memoria degli "zingari" con un monumento, ci sarebbe una rivolta. Povera Italia.

L’espresso n.51 21.12.07
Sono Mussi e faccio la prima mossa
Di Stefania Rossini


Si dice felice della scelta di sinistra. Critica il percorso del Pd. Rivendica il suo primato nell'affrontare temi trascurati dalla politica. E afferma di avere rivoluzionato il ministero. Parla il leader della Cosa rossa

Fabio Mussi è uomo capace di giocarsi un amico per una battuta e un partito per un'idea. Poi magari li recupera entrambi, o se ne fa di nuovi. Di amici e di partiti. È andata così con D'Alema, che venne sostituito da Veltroni dopo una vita da 'fratelli gemelli', va così con quel Partito democratico che non è riuscito a considerare a sua misura. "Più guardo il Pd e più sono contento di stare qui", dice oggi che capeggia, un po' in condominio per la verità, la neonata federazione di sinistra. Se c'è un piacere nel fare politica, se quel piacere è socialità, intelletto e sfida, Mussi li incarna e li trasmette più di tutti gli altri. Tanto che, pure nell'occasione di un'intervista sentimentale, non rinuncia a irretire l'interlocutore con linguaggio erudito e vezzi toscani per convincerlo che è lì, nel suo percorso di vita e di battaglie politiche, la strada giusta e la verità della sinistra. Specie adesso che si trova a ricominciare da capo.
Allora, Mussi, è soddisfatto di questa nuova Cosa rossa?
"Stabiliamo la par condicio. Accetto di chiamarla Cosa rossa se il Partito democratico viene chiamato Cosa grigia. Il nome vero è La sinistra-l'arcobaleno".
Certo che se nel Pd hanno fatto un matrimonio, voi avete messo su una comune. Lì ci sono già conflitti di coppia. Qui che convivenza sarà?
"Mi auguro buona. Noi ci definiamo un 'soggetto unitario plurale federativo'".
Appunto.
"Conosco comuni, come quella berlinese di Rudy Dutschke, che produssero idee niente male".
Ma finirono presto. La vostra quanto durerà?
"Si vedrà. Saremo un riferimento per chi non vuole abdicare alla propria identità, ma una forza a sinistra del Pd sarà utile a tutto il sistema politico italiano".
Non si sente un po' solo? Eravate un gruppetto: lei, Fassino, D'Alema, Veltroni...
"Ricorda Camus? Il riferimento mitico del socialismo era Prometeo, l'uomo che ruba il fuoco agli dei. No, dice Camus, è più adatto Sisifo, costretto a riportare sempre la pietra in cima alla montagna".
Sisifo naturalmente è lei.
"Soltanto perché è di nuovo rotolata a valle la pietra che avevamo trascinato in cima alla montagna con la svolta del 1989".
Chi l'ha buttata giù?
"Un po' tutti. Ora il gioco è a chi mette la bandierina sulla montagnola come si faceva da ragazzi: faccio tutto io, ho la vocazione maggioritaria, eccetera. Ma allora come ora, si tratta di collinette di sabbia".
Sembrava che il leader naturale di questa sinistra arcobaleno fosse lei. Poi è arrivato Vendola. È un destino. Come con D'Alema, c'è sempre un candidato più candidato di lei.
"Guardi che questa frenesia di dirigere io non ce l'ho. È più interessante influire sugli eventi senza il bastone del comando".
Si sente anche un Richelieu?
"No, perché lui agiva nell'ombra. Io rompo gli schemi apertamente. Nel partito sono stato il primo a porre questioni nuove: il nucleare, l'ambiente, la caccia...".
Finirete anche voi per fare le primarie?
"Non credo che sia una politica buona quella che vive rivolgendosi di tanto in tanto al popolo. Se oggi tutto marcia su televisione e plebiscito, grazie, io scendo".
Lei ha altre proposte?
"C'è una frase strepitosa di Oscar Wilde: 'Sarebbe bello fare il socialismo, ma porta via così tante serate!'. Io ho passato quasi tutte le serate della mia vita nelle sezioni, nei cinema, nei teatri, nelle piazze".
Le rimpiange così tanto?
"Non ho mica smesso. Ma quelle discussioni interminabili sono state la parte migliore della politica, quella che ha influito di più sull'Italia moderna".
Ma di che cosa si parla oggi? Con le grandi speranze non sono scomparsi anche i grandi temi?
"Tempo fa mi è arrivata una lettera di un operaio di Piombino che diceva: 'Non vi seguo più, ormai vi occupate soltanto di carcerati, di finocchi e di negri'".
Un po' è vero. Che cosa gli ha risposto?
"Quello che rispondo a lei. C'è una sostituzione di valori che deriva da un'assenza. Gli operai sono spariti, cancellati. Eppure sono sette milioni. Un pezzo di società che tu non vedi più. Così finisce che anche loro non ti vedono più".
Sta rimpiangendo l'operaismo?
"Per carità! Quella era roba per gente che guardava la classe operaia come gli antropologi guardano le tribù amazzoniche. Io voglio ridare centralità al lavoro, continuando a difendere i negri e gli zingari".
Dimentica gli omosessuali.
"Figuriamoci. Tra i comunisti sono stato il primo a occuparmi dei loro diritti. Nel 1988 andai a un convegno dell'Arcigay organizzato da un giovanissimo Grillini...".
Insomma, è stato il primo in tutto?
"Io leggo, mi informo, sono curioso. E precedo gli altri. Nelle cose migliori che ho fatto sono sempre stato guardato come un tipo bizzarro. Ma questo mi ha aiutato, perché un tempo venivano cooptati i giovani migliori, che coincidevano con quelli che rompevano le scatole. Ora bisogna essere dei cortigiani e si aprono carriere solo ai conformisti".
Questa società non le piace proprio, eh?
"C'è un'evaporazione culturale e morale impressionante. E tutto un mondo di seconda mano: un po' di tecnologia, un po' di apologia di mercato, un po' di magia, un po' di pregiudizio, un po' di religioni. È un bricolage. Lo diceva già Adorno, uno dei miei autori. Sa che ho fatto la tesi su di lui?".
Lo dice spesso. Non tiene nascosti i suoi successi scolastici.
"Tutti nove e dieci al liceo, terza pagella d'Italia alla maturità. Non ho mai capito chi fossero gli altri due. Poi concorso alla Normale: sesto posto nel 1967".
E qui si sa il nome di chi l'ha preceduta...
"Già, D'Alema. Comunque in quelle scuole per figli di professionisti, per me farcela è sempre stato un punto d'onore. La mia era una famiglia di operai convinti di essere un'aristocrazia, portatrice di un principio morale".
Anche la povertà era un valore?
"No, ma eravamo poverissimi. Mio padre divenne improvvisamente cieco e vivemmo per anni con il sussidio di disoccupazione. Per intenderci, si progettava di comprare un paio di scarpe due anni prima".
Quindi fu uno sgobbone per riscattarsi?
"Neanche per sogno. Io apprendo facilmente. Al liceo facevo pallavolo, calcio, mezzofondo, atletica, vela, e studiavo la mattina all'alba. Poi all'università, tra amori e politica, non ho più dormito".
È lì che ha conosciuto sua moglie?
"No, mi misero quella bellezza seduta accanto in quarto ginnasio. Stiamo insieme da quarant'anni ed è ancora una bellezza".
Lei è capace di non temere il tempo che passa?
"Sì perché ho un eccellente rapporto con la morte. Salvo in sogno, per la verità".
Che succede in sogno?
"Catastrofici incidenti aerei, ma molto spettacolari, da film americano. Qualche volta ci rimango secco, altre volte no. Ma sospetto di farli per gustarmi lo spettacolo".
Ha due figlie che lavorano all'università. Non teme un conflitto di interessi?
"Io sono stato cooptato. Loro c'erano già. Erano precarie e precarie sono rimaste. Ma nel frattempo mi hanno dato due stupende nipotine".
Invece lei che ha fatto in questo anno e mezzo da ministro?
"Una rivoluzione. Ho fermato la proliferazione delle sedi, ho bloccato i concorsi per ordinari e ho aperto quelli per ricercatori. Ho mandato in pensione i vecchi professori all'età giusta e dal prossimo anno farò partire l'Agenzia di valutazione. Risultati buoni, premiati. Risultati cattivi, puniti".
Posso chiederle perché tiene da sempre quei baffi e quei capelli che la fanno somigliare un po' a Hitler, un po' a Günter Grass?
"La fisiognomica è una scienza medioevale. Ma lei almeno è benevola, Berlusconi sostiene che sembro un salumiere".
Glielo ha detto in faccia?
"No, ha fatto circolare la voce. L'unica volta che l'ho visto in privato era il 1996 ed era occupato a compiacermi".
Racconti tutto.
"Lo faccio per la prima volta e solo perché si è riaperta la compravendita. Dunque Berlusconi, che considero importante nel senso che basta guardare lui per sapere come non deve essere l'Italia, mi invita a cena. I suoi consiglieri sono tutti lì a dire quanto sono bravo colto e intelligente. A un certo punto lui mi sussurra: 'Ah, con le sue qualità, se lei solo volesse..'".
Che cosa gli ha risposto?
"Così: 'Lei pensa che tutti abbiano un prezzo e invece sarà fregato da quelli che non ce l'hanno'".
E sicuro che andrà a finire così?
"Ci conto".

Profondo rosso. Baby ministro
Fabio Mussi a 11 anni. Nato a Piombino nel 1948, la sua è una famiglia di tradizione comunista. Suo padre era un operaio portuale il tempo delle meleN el 1965 con Luana Benini, sua compagna di liceo, che diventerà sua moglie. La coppia ha avuto due figlie: Valentina e Gaia, oggi trentenni
Vado al massimo Capodanno 1968 con Massimo D'Alema. Entrambi sono stati ammessi alla Normale di Pisa (quinto e sesto classificato), dove Mussi si laureerà brillantemente in filosofia con una tesi su Adorno comunista in erba All'anniversario della LIberazione nel 1975. Mussi è entrato nel Comitato centrale del Pci nel 1969, a soli vent'anni l'addio al pci. Nel 1989 con Walter Veltroni. Mussi è tra i più convinti sostenitori della svolta che porterà dal Pci al Pds
Banchi rossi Con Giorgio Napolitano al congresso del Pds nel 1990. Con Veltroni e D'Alema, Mussi è nella segreteria del partito guidato da Occhetto.
Compagno presidente L'abbraccio con Fausto Bertinotti dopo l'elezione del leader di Rifondazione a presidente della Camera nel 2006. Mussi diventa ministro del governo Prodi a pugno chiuso Con Alfonso Pecoraro Scanio, Franco Giordano e Oliviero Diliberto all'assemblea generale della Cosa rossa lo scorso 8 dicembre a Roma

Barra a sinistra
1948 Fabio Mussi nasce a Piombino il 22 gennaio da una famiglia di tradizione comunista. Il padre, operaio portuale, perde la vista a 30 anni. 1967 Terminato il liceo, è ammesso alla Normale di Pisa, dove si laurea brillantemente in filosofia, con una tesi su Adorno.
1969 Entra nel Comitato centrale del Pci. Ha solo 20 anni e per ammetterlo viene cambiato lo statuto. Quasi subito vota contro l'espulsione del gruppo del Manifesto e viene sospeso.
1974-79 Lavora al settimanale 'Rinascita' come giornalista e poi come vicedirettore. Intanto ha sposato la compagna di liceo Luana Benini, da cui ha le figlie Valentina e Gaia, oggi trentenni.
1980-83 Su decisione di Berlinguer, è segretario regionale del Pci in Calabria.
1983-88 Diventa responsabile della Stampa e propaganda del Pci e poi condirettore de 'l'Unità'.
1989 Con D'Alema, Fassino, Veltroni, Petruccioli è nella segreteria guidata da Occhetto. È tra i più convinti a sostenere la svolta dal Pci al Pds.
1992 È eletto per la prima volta deputato. Sarà sempre confermato e anche vicepresidente della Camera.
2006 È nominato ministro dell'Università e della Ricerca del governo Prodi.
2007 A capo del cosiddetto Correntone, il 20 aprile si stacca dal progetto del Partito democratico con l'intento di fondare una nuova forza di sinistra. Aderirà il 9 dicembre alla federazione 'La sinistra-l'arcobaleno' con Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani.

L’espresso n.51 21.12.07
Umani per caso
di Piergiorgio Odifreddi


Discendiamo dalla stessa donna: un'africana. Il colore della pelle è determinato dall'ambiente. Mentre la storia dell'evoluzione non segue schemi fissi. Il pioniere dell'antropologia genetica spiega a un matematico le nostre origini. E racconta le basi delle sue scoperte Colloquio con Luca Cavalli-Sforza

Il nome di Luca Cavalli-Sforza, professore di genetica all'Università di Stanford, è da mezzo secolo associato a un'area di ricerca che si potrebbe definire "archeologia o antropologia genetica", perché cerca di ricostruire la storia dell'umanità e delle sue migrazioni, a partire da un'analisi della variabilità genetica delle popolazioni. Cavalli-Sforza ha riassunto i risultati di una vita di lavoro in 'Geni, popoli e lingue', e li ha descritti nei particolari in 'Storia e geografia dei geni umani', scritto in collaborazione con Paolo Menozzi e Alberto Piazza (ambedue Adelphi). Con Mondadori ha pubblicato 'Perché la scienza. L'avventura di un ricercatore'. L'abbiamo incontrato a casa sua a Milano, dove torna regolarmente da Stanford e dove ha spiegato, ancora una volta, che non esistono le razze umane e che tutti discendiamo da una stessa madre africana.
Lei dice spesso che siamo tutti africani.
"L'inizio della nostra specie è in Africa orientale. Per molto tempo ci siamo riprodotti lentamente, per la scarsezza del cibo: eravamo cacciatori e raccoglitori. Non sappiamo con esattezza quanti fossimo, forse fra i 100 mila e un milione. Ma intorno a 10 mila anni fa eravamo circa 5 milioni. A quel punto, in tutti i posti in cui c'erano forti concentrazioni di persone sono cominciate l'agricoltura e l'allevamento: la produzione di cibo".
E discendiamo da un'unica madre...
"Tutti noi abbiamo nelle cellule dei mitocondri (organi addetti alla respirazione cellulare, costituiti da sacchette contenenti enzimi respiratori, ndr), che si trasmettono soltanto per via materna. Andando avanti, i mitocondri delle donne senza figlie si estinguono. Risalendo invece all'indietro, si arriva sempre a trovare quello che si chiama l'ultimo antenato comune: una donna da cui discendono tutti i mitocondri odierni, che è l'Eva africana. All'epoca c'erano molte altre donne, ma i loro mitocondri si sono estinti nel corso del tempo".
C'è anche un Adamo?
"Sì. È determinato in maniera analoga, guardando al cromosoma Y, che è trasmesso dal padre ai figli maschi".
Ed è contemporaneo a Eva?
"No. Eva potrebbe avere tra i 200 mila e i 130 mila anni, Adamo sui 100 mila. Il motivo è che gli uomini hanno più figli, perché sono più facilmente poligami delle donne. Si sposano più tardi e hanno meno generazioni. Ma muoiono in maggior percentuale delle donne: alla nascita i maschi sono il 5 per cento in più, a vent'anni sono pari alle femmine, e fra i centenari solo il 20 per cento è maschio".
La genetica delle popolazioni coincide anche con la storia delle lingue?
"Non ci si può aspettare una coincidenza perfetta, perché le lingue possono essere soppresse: sono bastati 150 guerrieri spagnoli a conquistare l'America e a imporre la loro lingua a un continente. Ma quando abbiamo raccolto i dati per la 'Storia e geografia dei geni umani', ci siamo accorti che l'albero genetico assomigliava a quello linguistico: i gruppi geneticamente simili appartenevano alle stesse famiglie linguistiche. E abbiamo pensato a una spiegazione semplice, contenuta in una parola chiave: noi non sappiamo come si trasmettono le lingue, ma parliamo di 'lingua madre'. Dunque, pensiamo che le lingue si trasmettono anch'esse da genitori a figli, come le altre eredità genetiche".
Lei è medico. Perché è passato alla genetica?
"Mi ha convinto il mio professore, Adriano Buzzati-Traverso, del quale ho sposato la nipote. Buzzati era tornato dagli Stati Uniti con dei libri meravigliosi di statistica: in Italia non ne esistevano di ben fatti, e mi ero reso conto di averne bisogno".
Considerava lo studio della matematica così importante?
"Sì. Ma i matematici non sanno spiegare come la si usa, e per le applicazioni bisogna rivolgersi agli ingegneri. Comunque la matematica mi è servita. Ho cominciato la mia ricerca con la genetica dei batteri. E quando sir Ronald Fisher, uno dei padri della statistica moderna, mi sentì parlare al congresso di Stoccolma del 1948, mi offrì un posto a Cambridge: voleva lavorare sulla ricombinazione dei batteri, e gli serviva un genetista batterico. Nel 1950 Fisher aveva iniziato a usare le differenze di gruppi sanguigni per studiare l'ereditarietà: è partito col Rh, e ne ha tratto una bellissima teoria del gene. Però non è che su un gene si possa dire molto: si può trovare la storia di quel gene. Ma a Fisher interessava il fatto che alcune forme di questo gene ci sono nei primati vicini a noi, e altre no".
È questo che permette di andare a vedere i punti di separazione con le scimmie?
"Certo, la storia genetica delle scimmie si conosce ormai molto bene. Ci sono due modi di procedere. Uno è studiare le proteine, che sono prodotti dei geni, e questo l'abbiamo fatto fino al 1980: dapprima con i gruppi sanguigni, poi con altre proteine, accumulando moltissimi dati. Dal 1982 abbiamo ricominciato da capo, andando a guardare le differenze del Dna. E non solo abbiamo confermato tutto ciò che avevamo fatto con le proteine, ma siamo andati molto più avanti".
In altre parole, c'è molta casualità e nessuna pianificazione delle specie, con buona pace dei creazionisti.
"Infatti. La selezione serve solo a spiegare gli adattamenti selettivi, che dipendono dall'ambiente e non dalla storia. Ad esempio, il colore della pelle, che varia con la latitudine: all'equatore sono neri, e poi si schiariscono allontanandosene. Oppure le misure del corpo, che dipendono dal clima: al freddo la gente è bassa e tonda, perché cosí il rapporto tra volume e superficie è più vantaggioso, e si perde meno calore; al caldo, invece, sono lunghi e sottili. Al freddo gli arti sono piccoli, per non perdere troppo calore, mentre al caldo sono lunghi, e le braccia degli scimpanzè arrivano fino a terra".
E come si studiano gli effetti della storia?
"La natura fa le cose in maniera approssimativa, essendo costretta a usare ciò che ha a portata di mano: così genera molte mutazioni casuali, una piccola parte delle quali produce vantaggi evolutivi. La maggior parte delle mutazioni invece non serve a niente, rimane 'sterile', ma sono proprio le mutazioni selettivamente neutre a permetterci di studiare la storia delle popolazioni, attraverso i metodi statistici propri dei fenomeni casuali. Il che è appunto quello che ho cominciato a fare nel 1950 a Parma".
In che modo?
"Avevo uno studente prete, Antonio Moroni, che conosceva tutti i parroci, e ha spiegato loro perché volevo prendere il sangue ai parrocchiani. Mi ha anche fatto avere il permesso di consultare i libri parrocchiali, che risalivano indietro di 500 anni. Ho potuto ricostruire le genealogie della popolazione e studiare l'effetto del caso, che in villaggi piccoli è molto forte. Ho analizzato le differenze tra i gruppi sanguigni in paesi di ogni dimensione e posizione: piccoli, medi e grandi, in montagna, collina e pianura".
E cosa ha trovato?
"Che i dati reali concordavano con le aspettative teoriche, ottenute con una simulazione che partiva da villaggi tutti uguali, e li lasciava diversificare casualmente per 400 o 500 anni: col tempo i paesini molto piccoli raggiungevano i corretti equilibri di variazione. Quel primo studio mi ha dato un motivo per credere che potevo incominciare a risalire indietro nell'evoluzione di 5 mila o 50 mila anni, basandomi sul fatto che si possono applicare le leggi del caso. Se invece tutto fosse dipeso dalla selezione, non si sarebbe saputo cosa attendersi".
E quali sono stati i risultati?
"Una decina d'anni dopo che avevo lasciato Cambridge, l'Università di Pavia comprò il primo calcolatore. E con un mio studente ricostruimmo un primo albero a partire da dati esistenti, relativi a 15 popolazioni mondiali: tre per ciascun continente, e tutte lontane una dall'altra. Nell'albero l'Africa stava da un lato, e l'Europa nel mezzo. Le popolazioni dello stesso continente stavano insieme, e i continenti erano separati in base alla migrazione, nello stesso modo in cui sono disposti sulla carta geografica. Quello è stato il nostro primo lavoro, pubblicato nel 1963".
E alla fine cosa si è ottenuto?
"Si è precisata in maniera genetica la storia che gli antropologi avevano abbozzato, basandosi sui fossili. L'uomo moderno compare in Africa, e arriva in Medioriente 100 mila anni fa. Poi scompare di lì 80 mila anni fa, quando arriva il Neanderthal, che stava in Europa ed è emigrato a causa del freddo. Quarantamila anni fa il Neanderthal scompare dovunque, e si estingue circa 25 mila anni fa: probabilmente per una questione di concorrenza con l'uomo moderno, cioè noi".
Sono state fatte analisi dirette sul Neanderthal?
"Sì, sul Dna mitocondriale, che è l'unico pezzo di cromosoma che si riesce a vedere in resti così vecchi: si sono studiati tre esemplari di regioni diverse, e sono risultati tutti e tre diversi dall'uomo moderno. Ma fino a 100 mila anni fa il Neanderthal e il Sapiens usavano gli stessi strumenti. Invece 50 mila anni fa, quando cominciarono a emigrare dall'Africa e invadere il resto del mondo, i Sapiens avevano ormai strumenti migliori. E uno di questi strumenti era il linguaggio".
La scoperta di un'origine comune e africana dell'umanità non dovrebbe rendere ridicolo il razzismo?
"Assolutamente. Io detesto tutti i fondamentalismi, quello cattolico in particolare, ma il mio impegno sociale è proprio sulle questioni del razzismo. Anche perché le differenze principali tra le popolazioni sono sempre dentro di esse, con buona pace di chi parla di 'razze pure'". n

Mille volti ma una razza
di Michele De Mieri

Luigi Luca Cavalli-Sforza per decenni si è dedicato allo studio dei geni umani non per prevenire malattie del corpo, o guarirne di già note, ma per tracciare un percorso dell'evoluzione della specie umana. Attraverso lo studio delle migrazioni fondanti e con la finalità di dimostrare l'esistenza di un unico ceppo umano, Cavalli-Sforza vuole sfatare così ogni idea di esistenza di razze superiori e inferiori. La genetica geografica di Cavalli-Sforza si fonda sull'idea che i geni dell'uomo contengono ancora una traccia della storia dell'umanità, un'intuizione geniale e vincente dello studioso italiano, quasi ottantaseienne (li compirà il prossimo 25 gennaio) nato a Genova e formatosi fra Torino, Pavia e Milano per poi emigrare una prima volta a Cambridge, in Inghilterra, e poi definitivamente all'inizio degli anni Settanta a Stanford negli Stati Uniti.

L’espresso n.51 21.12.07
Prove di dialogo tra i poli
Un'intesa tra Berlusconi e Veltroni non solo sulla legge elettorale. Patto a termine
di Marco Damilano


Un'intesa tra Berlusconi e Veltroni non solo sulla legge elettorale. E un esecutivo di transizione se Prodi dovesse cadere. Parla l'ex ministro di Forza Italia colloquio con Giuseppe Pisanu

Un compromesso a termine, alla luce del sole e nell'interesse esclusivo del Paese... Giuseppe Pisanu cerca con cura le parole per descrivere a cosa deve portare il dialogo tra Silvio Berlusconi e Walter Veltroni: a una nuova legge elettorale, ma non solo. Seduto sotto una riproduzione della lettera di Paolo VI alle Br durante il sequestro di Aldo Moro, suo punto di riferimento politico, l'ex ministro allarga l'elenco delle convergenze: sicurezza, immigrazione, missioni all'estero. E ipotizza un nuovo governo fondato su Pd e Forza Italia.
Senatore Pisanu, cosa succede nella ex Casa delle libertà? Gianfranco Fini attacca Berlusconi e minaccia di andare alle prossime elezioni con alleanze diverse: il Partito della libertà ha terremotato il centrodestra, per qualcuno è stata un'auto-spallata...
"Io vedo in queste polemiche un sovraccarico di malintesi e di sospetti, anche per il modo con cui il nuovo partito è stato annunciato. Ma non si può dimenticare che l'idea del partito unico dei moderati è in circolazione, tra alti e bassi, da almeno sei anni. La nascita del Pd di Veltroni ha impresso una forte accelerazione che Berlusconi ha cercato di tradurre in pratica con un colpo di ingegno, prendendo però alla sprovvista e disorientando i suoi alleati. La scossa di San Babila ha liquidato definitivamente la Casa delle libertà, ma non ha neppure scalfito la voglia di unità politica che anima i moderati. Con questa voglia tutti i partiti del centrodestra devono fare i conti".
Sarà, ma Fini e Casini si sentono accerchiati...
"L'apertura di Berlusconi ai suoi alleati e ad altre personalità di prestigio era e rimane sincera. Forse non è stata colta come si poteva legittimamente sperare".
Con quali conseguenze?
"Fino a questo momento il Pdl ha continuato ad apparire soltanto come una reincarnazione di Forza Italia. Penso perciò che Berlusconi debba rilanciare un appello più convincente ad An, all'Udc e a quanti si riconoscono negli ideali del Ppe per progettare e costruire insieme il partito dei moderati italiani. Con metodo democratico, sottolineo: il che vuol dire definire insieme le regole, il programma e le procedure, partendo dal basso".
Lei negli ultimi mesi è stato molto critico con Forza Italia, si è perfino ipotizzato il suo passaggio a un polo di centro, la Cosa bianca che va da Luca Cordero di Montezemolo a Savino Pezzotta. La interessa questo progetto?
"Io sono soltanto interessato alla costruzione del partito unitario dei moderati italiani, un partito che si ponga in alternativa al Pd come pilastro di un moderno bipolarismo e di una vera democrazia dell'alternanza. Teoricamente ci sarebbe spazio per un terzo polo, ma allo stato attuale delle cose sarebbe uno spazio poco attrattivo, specialmente per quei moderati che puntano sulla vittoria elettorale. Per vincere le elezioni occorre una forza più grande. E francamente non vedo come si possa costruirla senza Berlusconi".
Il rassemblement moderato non si fa senza il Cavaliere. E senza Fini e Casini?
"Sarebbe molto più difficile: senza di loro rischieremmo di dividere e di rendere minoritario il campo dei moderati".
Sul versante opposto, quello del centrosinistra, lei fa apertamente il tifo perché il tentativo di Veltroni riesca. Perché?
"Per me il Pd è un partito di sinistra che marcia verso il centro, proponendosi come il principale avversario di un polo dei moderati che ancora non c'è. È chiaro che, almeno in questa prima fase, Veltroni può guadagnare poco al centro e perdere più voti a sinistra. Ma alla lunga dovrebbe andare meglio, sia perché la sinistra radicale è condannata alla marginalità politica, come accade già nei principali paesi europei, sia perché la questione etica, sui cui nel Pd convivono sensibilità diverse, troverà prima o poi uno sbocco coerente con l'identità cattolica del popolo italiano. E non capisco perché mai mentre Veltroni marcia verso il centro il partito dei moderati dovrebbe restringere il suo campo d'azione. Dobbiamo allungare lo sguardo ai tradizionali insediamenti sociali e culturali della sinistra italiana. Già oggi Forza Italia è il partito di maggioranza relativa tra gli operai nel nord. Ora occorrono ulteriori consensi anche nel mondo della cultura, nelle scuole, nelle università, nelle organizzazioni sindacali e tra gli imprenditori, nell'universo del volontariato che raccoglie cinque milioni di italiani".
I moderati di Berlusconi e i democratici di Veltroni si contenderanno lo stesso elettorato di centro?
"La mia idea è esattamente questa: se loro vengono verso di noi, noi dobbiamo andare verso di loro. È in questa competizione al centro che si possono creare le basi di quel comune sentire tra maggioranza e opposizione che caratterizza le democrazie più avanzate".
Altro che comune sentire: in questi giorni il timore dei partiti minori è un accordo Berlusconi-Veltroni sulla legge elettorale che li taglierebbe fuori. Fini ha rispolverato un linguaggio da girotondino: inciucio, patto della frittata...
"Lasciamo stare le polemiche e veniamo al sodo. Il dialogo tra Berlusconi e Veltroni riguarda il superamento del bipolarismo coatto e la nascita di una vera democrazia dell'alternanza, una democrazia fondata su due schieramenti omogenei al loro interno e tra loro alternativi. I sistemi elettorali più funzionali a questo assetto politico sono due: il maggioritario e una legge proporzionale con effetto maggioritario".
Il modello tedesco che piace ai centristi di Casini, ma anche a Fausto Bertinotti e a qualche esponente del Pd fa parte di questi sistemi?
"Direi di no: in Germania c'è un proporzionale puro con uno sbarramento al cinque per cento che avrebbe bisogno di correttivi appropriati per produrre effetti maggioritari. Lì ha funzionato finché il numero dei partiti era limitato, ma dopo la riunificazione è entrato in crisi. Noi abbiamo bisogno di una democrazia dell'alternanza. Altrimenti c'è il riflusso verso il consociativismo, il trasformismo e il potere di ricatto delle minoranze e delle minimanze".
C'è un altro scenario: il dialogo sulla legge elettorale fallisce e si va ai referendum. Sarebbe una buona soluzione?
"I referendum li temono in molti, anche tra coloro che li minacciano. Penso perciò che la bozza di legge Bianco sia una buona base di partenza per arrivare a una legge adatta al pluralismo politico italiano".
Lei ha vissuto in prima persona la stagione del compromesso storico tra Dc e Pci come capo della segreteria politica di Moro e di Zaccagnini. Sono passati trent'anni: vede qualche somiglianza?
"La storia non si ripete mai, ma qualche similitudine c'è. Anche allora, nel 1976, le elezioni ebbero due vincitori, la Dc e il Pci di Berlinguer. Nessuno era in grado di esprimere da solo un governo autorevole, ma ciascuno era in grado di paralizzare l'altro. C'era un paese diviso a metà, una gravissima situazione economica che richiedeva forti interventi e coesione sociale e c'erano infine istituzioni bisognose di profondi cambiamenti. Un'esigenza fortemente avvertita da Moro che invocava la nascita in Italia di un nuovo senso del dovere".
Trent'anni fa Dc e Pci fecero la maggioranza insieme. E oggi?
"Berlusconi e Veltroni sono leader di due poli contrapposti. Questo non toglie che, in un paese mal ridotto come il nostro, il dialogo possa estendersi dalle questioni che sembrano di palazzo come la legge elettorale ai problemi più pungenti della vita quotidiana. Penso alla crisi economica, alla sicurezza, all'immigrazione, per non parlare delle responsabilità internazionali dell'Italia: tra un mese il Parlamento sarà chiamato a rifinanziare le missioni militari all'estero".
Se cade il governo Prodi, Veltroni e Berlusconi dovrebbero fare un governo insieme?
"Penso come Berlusconi che bisognerebbe andare subito alle elezioni. Ma non escludo la possibilità di un governo di transizione che sistemi le questioni più urgenti e crei un clima più sereno per la prossima campagna elettorale".
Quello tra Moro e Berlinguer fu il compromesso storico. E quello tra Veltroni e Berlusconi?
"Un compromesso a termine, alla luce del sole e nell'interesse esclusivo del paese".
Veltroni invita Berlusconi a dichiarare fin da ora che con qualsiasi legge elettorale i partiti maggiori non stipuleranno alleanze contro natura solo per vincere le elezioni. Siete pronti a raccogliere la sfida?
"Dal punto di vista di Veltroni sarebbe un atto di rottura e di depurazione dell'attuale quadro politico. Per noi avrebbe lo stesso significato, se il partito dei moderati esistesse già. Comunque i vantaggi sarebbero evidenti: i due partiti maggiori semplificherebbero così il sistema politico lasciando spazi alla loro destra e alla loro sinistra e al tempo stesso getterebbero le basi di un futuro bipartitismo".
Veltroni è disposto a rinunciare a Rifondazione. E voi? Siete pronti a mollare la Lega? E Storace?
"La Lega non ha mai rinunciato al suo spazio autonomo: è un partito localista che rifiuta a priori la confluenza in un partito nazionale, anche se resta disponibile ad accordi elettorali e di programma. Per gli altri partiti, alla nostra destra o alla nostra sinistra, deciderà il risultato elettorale".

L’espresso n.51 21.12.07
Colloquio con Maurizio Pollini. Dialogo al pianoforte
di Riccardo Lenzi


La musica può cambiare il mondo. E il passato va letto alla luce del presente. Parla il maestro Maurizio Pollini. Alla vigilia di un ciclo di concerti a Roma

La visione storica e musicale di Maurizio Pollini pare, a chi ascolta la sua pensosa voce baritonale stratificare concetti in maniera pacata e assorta, chiara e confortante, in un'epoca in cui le concezioni prevalenti sono quelle di un tempo aperto, multiplo ed eterogeneo: il suo è un tempo ciclico, orientato secondo un asse con tutte le possibilità di arresto, ovvero conservatorismo, ritorno all'indietro, cioè rinascimento o reazione, e marcia in avanti, ossia riforma o rivoluzione. Illuministicamente, il suo modello interpretativo dell'evoluzione artistica e musicale si fonda sull'idea che la storia abbia un unico senso e che lo storico come il critico o l'artista debbano seguire tale filo per raccontarla e per giudicare le opere, singolare parafrasi della via alla salvezza agostiniana. Per Pollini, come a suo tempo per Luigi Nono e Claudio Abbado, la musica è apertura verso l'altro. Più volte i tre musicisti hanno insistito sul valore educativo, etico e politico della musica. Esiste una profonda interazione tra la composizione di un brano e la sua realizzazione, poiché dalla constatazione che la musica è suono deriva l'importanza dell'aspetto esecutivo. La lettura di un'opera del passato è influenzata dal tempo in cui viene realizzata. Forte allora è il legame tra musica e storia come evidenziò Nono in una conferenza del 1959 dove affermò la necessità di collocare sempre l'arte in un contesto: un compositore non può scrivere in base a principi scientifici che prescindono dalla propria epoca. In pratica il ruolo di un pianista o di un direttore d'orchestra è quello di fare dialogare due periodi storici: si deve parlare del proprio tempo attraverso un'opera del passato. Parlare del valore storico della musica vuole dire anche affrontare i problemi della sua funzione e della sua destinazione. Nono, così come Brecht, riteneva che l'arte non avesse solo un ruolo di critica sociale, ma potesse anche agire sulla realtà contribuendo a formare le coscienze. La musica deve parlare della realtà e per questo richiede la massima attenzione da parte del pubblico. Questi sono solo alcuni dei temi presupposti dal ciclo di concerti 'Pollini prospettive', a Santa Cecilia, a Roma, dal 5 gennaio, ma anche dall'ultimo anello dell'integrale discografica beethoveniana, ovvero le Tre sonate opera due, e dalla prossima pubblicazione, in primavera, dei Concerti K414 e K491 di Mozart, dove Pollini dalla tastiera guiderà i Wiener Philharmoniker.
Maestro Pollini, nei suoi programmi concertistici lei non ama suonare la musica moderna da sola, ma affiancarla a brani più 'di repertorio'. Perché?
"A Roma presenterò opere di Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen e Luigi Nono; ormai esse hanno molti anni, ma sono definite ancora moderne. Per me è una cosa essenziale della vita musicale di oggi che questi grandi compositori e in generale le tendenze avanzate della musica vengano a contatto con la sensibilità profonda dello spettatore. C'è stata nel Novecento un'enorme evoluzione del linguaggio musicale che ha creato una certa frattura tra il grande pubblico e le creazioni dei musicisti. È fondamentale che questo vuoto venga colmato, che i giovani compositori e tanti altri che scrivono oggi abbiano un contatto con un pubblico sempre più vasto. Ho presentato grandi compositori della seconda metà del Novecento perché penso che proprio lì si debba insistere perché questa sensibilità venga creata in chi ascolta. Attualmente, per mancanza di frequentazione e di educazione, il pubblico non riconosce come linguaggio ciò che lo è, anche se più avanzato rispetto a quelli tradizionali. Per questo sarebbe necessaria una regolarità nella presentazione di queste opere".
Lei crede ancora nella linea di sviluppo che va da Arnold Schoenberg a Pierre Boulez?
"Certamente, pur essendo due compositori vissuti in periodi diversi. Quando Igor Stravinskij, ormai anziano, si accostò alla musica di Anton Webern, capì che quello era il cammino per il futuro, riconoscendone con grande onestà intellettuale l'importanza e la modernità. Le prime esperienze musicali, in seguito, di Boulez e Stockhausen, come dei nostri Berio e Nono, non hanno potuto che proseguire questo filone, che in definitiva conteneva più possibilità per l'arte a venire. Ognuno di questi compositori naturalmente ha percorso vie e strade diverse per la sua diversa sensibilità o forma di razionalità, perché in Nono si avverte chiaramente una radice italiana molto profonda, in specie un rapporto con l'antica musica veneziana; in Boulez ci sono alcuni elementi che lo riallacciano alla tradizione francese. Non casualmente a Santa Cecilia ho presentato un programma che unisce ai suoi brani quelli di Claude Debussy. Stockhausen ha in genere maggiori legami con Schoenberg e con la cultura tedesca. Di quest'ultimo ho programmato due 'Klavierstücke' (per l'esattezza il settimo e ottavo), 'Kontrapunkte', 'Zeitmasse' e 'Kreuzspiel'. Le esecuzioni di queste opere avranno inoltre il significato di rendere un omaggio alla memoria di questo grande genio, recentemente scomparso. Nei concerti che farò con il Maestro Antonio Pappano, con il quale sono felice di iniziare una collaborazione, sono programmate anche opere di Bruno Maderna, Pierre Boulez e Luca Francesconi, in particolare di quest'ultimo un brano in prima esecuzione assoluta, 'Hard Pace', concerto per tromba e orchestra".
Sempre nei programmi ceciliani, nel concerto dell'11 gennaio, c'è una serata dedicata a Chopin e a Nono. Cos'è che li unisce? Forse l'introspezione, il lirismo?
"Quello è un aspetto. Due compositori pure straordinariamente diversi. Non è il caso di parlare dell'importanza di Chopin. Nono ha in comune con lui la grandezza poetica. Nelle sue composizioni, anche le più violente come 'A floresta è jovem e cheja de vida', ci sono dei momenti lirici assolutamente eccezionali. Un lirismo davvero fuori dal comune: egli aveva la capacità di scrivere per la voce in un modo veramente unico. Questo pezzo che viene presentato fa parte del suo periodo politico più acceso. È infatti dedicato al Fronte nazionale di liberazione del Vietnam e certamente ha ancora oggi un'attualità politica: non è quella di stretta osservanza marxista che Nono professava allora, ma quella della protesta contro la guerra, quanto mai attuale. Ho programmato questo brano sia perché ho una forte relazione con esso, in quanto assistei alla prima rappresentazione e un entusiasmo che sicuramente non è venuto meno col tempo. Penso che anche questo periodo di Nono abbia un grandissimo valore estetico al di là del messaggio politico e dovrebbe oggi essere riascoltato con una mentalità aperta e non legata alle immediate passioni politiche come poteva avvenire al momento. Io oso sperare che sia il caso di fare i conti con questi capitoli della storia della musica vedendone la portata e l'interesse nell'evoluzione del linguaggio musicale".
E fra i nostri contemporanei, chi la interessa in particolar modo?
"Salvatore Sciarrino, Giacomo Manzoni, Helmut Lachenmann, già allievo di Nono e Stockhausen. Ma ce ne sono molti altri, perché la musica di oggi è quanto mai viva, anche se magari costretta a operare in condizioni difficili. Mi piacerebbe, magari in un prossimo futuro, dedicare un ciclo di concerti anche ad altri autori, come per esempio Wolfgang Rihm, Beat Furrer, Adolfo Nunez e Gérard Grisey".
Nei programmi romani ci sarà molto Brahms: una persona dalla vita privata schiva, riservata che poi, dinanzi alla tastiera, sapeva trasformarsi in un leone. Ho sempre visto una certa affinità caratteriale fra Brahms e lei, è un'impressione sbagliata?
"Se intende questa affinità come amore, senz'altro sì. Con Brahms ho un rapporto molto stretto, in particolare con i due concerti per pianoforte e orchestra, che ho eseguito molto spesso. Il Concerto in re minore è un'opera peculiare, perché forse è stata ispirata dalle vicende degli ultimi tragici anni di vita di Schumann e dai rapporti di Brahms con questo grande musicista che venerava. Brahms scrisse una lettera a Schumann nel 1854 dove gli annunciò la composizione di una 'certa sinfonia in re minore' con un primo movimento lento. Già era in nuce questo prodigioso concerto che venne ultimato cinque anni dopo e accolto con indifferenza dal pubblico tedesco, poiché era un pezzo molto più interiore e potente nello stesso tempo, rispetto alla norma. E anche un po' uno spartiacque nella stessa produzione brahmsiana, concludendo il suo primo periodo compositivo affine allo Sturm und Drang. Certo è stupefacente come un giovane di poco più di vent'anni (questa era la sua età quando iniziò a comporlo) sappia essere così profondo. A Roma io e il Maestro Antonio Pappano eseguiremo i suoi due concerti che saranno inseriti anche nelle 'Prospettive'. Sempre di Brahms, con il Quartetto Hagen, interpreterò poi il Quintetto per pianoforte e archi".
Parallelamente all'attività concertistica, lei registra dischi e sta ultimando l'integrale delle sonate di Beethoven. Adesso è arrivato il momento delle Tre sonate dell'opera 2: siamo già dinanzi al Beethoven della grande maniera?
"Nelle sue prime composizioni pubblicate noto già i segni evidenti del suo carattere. Questo si può vedere in tante cose, innanzitutto nel trattamento dello strumento. Beethoven scrive per il pianoforte a cinque ottave di Mozart e di Haydn, ma riesce a realizzare con questi mezzi limitati grandi sonorità orchestrali, una potenza nuova per quell'epoca e in genere un suono assolutamente suo. Forse ci potrebbe essere una lontana influenza di Clementi, sul suo modo di scrivere allora. Le Tre sonate dell'opera 2 sono di scrittura virtuosistica e con notevoli difficoltà tecniche, perché evidentemente il giovane Ludwig voleva allora affermarsi pure come pianista. Anche prendendo degli spunti dai compositori che lo hanno preceduto: per esempio, il tema iniziale della Sonata opera 2 numero 1 ha una parentela con il Mozart della Sinfonia in sol minore. Con lui però tutto assume un altro un carattere: sarebbe un grave errore vederlo nella posizione di epigono di Haydn e di Mozart. Lo spirito della musica è già completamente diverso".
Beethoven, in omaggio a Kant e all'Illuminismo, nelle sue lettere scrive che con la sua opera vuole confortare l'umanità umile e in catene. Un principio morale che sente anche suo?
"Beethoven voleva creare non solo delle composizioni straordinariamente belle ma influire sulla mentalità delle persone, sulla storia del mondo. Tutta la grande arte ha questa funzione progressiva".

Una orchestra per due
di Antonio Pappano

Sono felice di lavorare con Pollini, perché entrambi amiamo la musica contemporanea e a entrambi piace offrire programmi che mescolano classico e moderno, in modo che gli spettatori possano farsi un'idea di quello che accade nel mondo della produzione musicale. Io credo in queste commistioni. All'Accademia di Santa Cecilia per l'inaugurazione abbiamo accostato lo 'Stabat Mater' di Rossini a 'Sinfonia' di Berio, due capolavori di due italiani vissuti in due secoli diversi. È stato un grande successo. Molte persone non amano la musica contemporanea, la sentono estranea, ma è importante che la possano conoscere e che possano familiarizzare con sonorità diverse. Sono orgoglioso del fatto che Pollini abbia scelto l'Orchestra di Santa Cecilia, la 'mia' orchestra per presentare il suo progetto, insieme abbiamo scelto le musiche da accostare ai due concerti per pianoforte di Brahms che eseguiremo. Non abbiamo sempre gli stessi gusti in fatto di musica contemporanea ma su questi nomi non abbiamo avuto dubbi: Bruno Maderna è un autore formidabile, è stato anche un grandissimo direttore, 'Notations' di Pierre Boulez è uno dei capolavori del Novecento, Luca Francesconi è un compositore pieno di energia e di idee.

Gennaio a Santa Cecilia
Dal 5 al 29 gennaio a Santa Cecilia si terranno le 'Prospettive Pollini', progetto che intende accostare personalità e repertori musicali diversi fra loro per evidenziarne assonanze e contrasti. Ben nove serate con cinque programmi diversi, comprendenti musiche che vanno da Brahms a Maderna, da Schönberg a Chopin e Debussy, Nono, Francesconi, Webern e Stockhausen, con una serie di prestigiosi interpreti tra cui Peter Eötvos, il Klangforum Wien, l'Hagen Quartett , l'Experimentalstudio Freiburg e Antonio Pappano con l'Orchestra dell'Accademia.

Liberazione 21.12.07
D'accordo, il partito è gerarchia. Ma allora...
di Piero Sansonetti


Fra le tante cose che sono state dette e scritte, dopo gli Stati generali della Sinistra, ce ne sono due che mi hanno colpito più di tutte: mi riferisco all'articolo di Rossana Rossanda pubblicato da Liberazione martedì scorso, e all'articolo pubblicato ieri, sempre su Liberazione, a pagina 15, e firmato da 11 dirigenti del Prc, tutte donne (Capelli, Emprin, Deiana, Barbarossa, Forenza, Fantozzi, Donini, Poselli, Linguiti, Santilli, Alfonzi).
Entrambi questi scritti mi hanno fatto riflettere su un punto che a me sembra decisivo: la necessità di cambiare i linguaggi, i modi dell'organizzazione e dell'iniziativa politica, e quindi di intaccare la struttura gerarchica che tradizionalmente presiede, condiziona e determina ogni politica, anche di sinistra.
Scriveva Rossanda:« La verità è che gli attuali gruppi politici non conoscono che questo modo di esprimersi, specie se non sono già ferreamente uniti, pochi che parlano a molti o una specie di happening... ». E più avanti: « Quasi nessun fenomeno oggi è del tutto dipendente ma nessuno del tutto indipendente dal modo di produzione. Salvo la questione dei sessi. Millenaria, ha attraversato civiltà precapitaliste, capitaliste e postcapitaliste. E non come differenza fra i sessi ma come gerarchia, di un sesso sull'altro, assegnando al maschio il potere pubblico e fingendo di attribuire alla donna il governo del privato. L'ultimo femminismo ha messo in luce la frode. Come contate di metter il problema in agenda?... »
E ieri scrivevano Giovanna Capelli e le altre: « E' necessario uno scarto, una innovazione: intervenire nella struttura gerarchica, nella modalità dell'esercizio della democrazia, cambiare la dinamica della direzione, ricercare metodi per la risoluzione delle divergenze e dei conflitti non semplicemente legati al rapporto maggioranza/minoranza, scomporre la separazione fra base e vertice ...».
Sottoscrivo, parola per parola, tutte le righe che ho trascritto. Mi convincono. Penso che il problema fondamentale che oggi la sinistra ha dinanzi a se è quello di attaccare la costruzione politica moderata, vincente - che è una vera e propria restaurazione - basata sull'idea di rafforzare nella società le gerarchie, le catene di comando. Prima di tutto, naturalmente, il comando dell'uomo sulla donna, e poi del capitale su lavoro, e poi del bianco sul nero e sull'immigrato, e poi dell'eterosessuale sull'omosessuale, e poi del ricco sul povero, del meritevole sull'immeritevole, del garantito sul precario... eccetera eccetera eccetera. Dentro questa idea di gerarchia - e solo dentro questa - vengono accettati e limitati i diritti. I diritti diventano non più esigibili, ma elargibili in compatibilità con la gerarchia e naturalmente proporzionali ad essa. Non può pretendere un migrante gli stessi diritti di un italiano, non può una donna pretendere i diritti dell'uomo...
Come può questo impianto - realizzato con una svolta reazionaria - essere messo in discussione da partiti e formazioni politiche che essi stessi, esse stesse, hanno il proprio "albero motore" nella gerarchia?
A me questa domanda sembra decisiva. Credo che la risposta sia semplice: non possono. Cioè credo che chi vuole fare lotta politica, a sinistra, debba porsi concretamente il problema della componente gerarchica che è fortemente presente nell'attuale idea di partito (ogni idea di partito conosciuta) e connaturata alla stessa logica maggioranza/minoranza alla quale fa riferimento l'articolo di Giovanna Capelli e delle altre (mi scuso se cito solo Giovanna, ma 11 nomi sono troppi).
Da questa riflessione alcuni compagni e alcune compagne (anche, mi sembra, Giovanna e le altre) fanno discendere l'idea che il processo di unità a sinistra non possa sfociare nella nascita di un nuovo partito unitario, o unificato, o unico. E rilanciano l'idea della sinistra plurale e federata. Io concordo anche su questo ragionamento. Però non riesco a non andare un passo ancora oltre: come è possibile una sinistra plurale e federata (ma a me la parola federata non convince moltissimo e non sembra nuovissima) se non si mettono in discussione anche i partiti di origine che la compongono? Perché, cioè - mi chiedo - quattro partiti alleati dovrebbero essere migliori di un solo partito, e come potrebbero risolvere il problema di critica delle gerarchie e dei partiti che ci siamo posti?