domenica 23 dicembre 2007

l'Unità 23.12.07
«Embrioni, sì ai test». Un altro schiaffo alla legge medievale
Fecondazione, il giudice: «Diagnosi preimpianto per tutelare la madre, lo dice la Costituzione»
di Anna Tarquini


Melandri: «La sentenza dimostra che la legge 40 è crudele»
Le associazioni: ora una nuova disciplina

DUE SENTENZE scardinano l’impianto della legge che vieta i test sugli embrioni anche in caso di malattia e si riapre la polemica sulla procreazione assistita. Con la destra che grida all’eugenetica e le associazioni che invece chiedono un intervento subito del go-
verno per modificare le linee guida della legge 40 e dare alle coppie che hanno tare ereditarie di poter procreare in perfetta sicurezza. «Ancora una volta - denuncia infatti il ginecologo Carlo Flamigni - è inevitabile che siano i magistrati a occuparsi di fecondazione assistita. In mancanza di iniziative politiche alla fine proprio i magistrati tengono conto del buon senso comune. E non c'è sentire comune secondo cui l'embrione è una persona. Su questo punto esistono tante teorie, in contraddizione fra loro».
Tre mesi fa Cagliari, oggi Firenze. Due storie, due coppie, che secondo la legge voluta da cattolici e destra non potrebbero essere genitori o diventare genitori di bambini molto malati. È quello che oggi l’Udeur chiama «pratica ai limiti della selezione eugenetica». Nei fatti è la vicenda di una donna di 37 anni che chiedeva la diagnosi preimpianto perché portatrice sana di talassemia e di una coppia trentenne milanese. Lei è portatrice di una grave malattia, la esostosi, che genera la crescita smisurata della cartilagine delle ossa. Una malattia che ha una trasmissibilità superiore al 50%. La coppia si era rivolta al «Centro Demetra» il quale, seguendo la legge, non aveva accettato di fare i test sugli embrioni. Ma il giudice di Firenze, una donna, Isabella Mariani, ha risposto che invece è lecito eseguire i test sugli embrioni da impiantare in una fecondazione assistita se c'è il rischio di trasmettere una grave malattia genetica. È un diritto tutelato dalla Costituzione e la legge 40, quando lo proibisce, va contro la Carta.
Molte voci si sono levate ieri per chiedere un intervento del ministro Livia Turco la quale però si è limitata a ripetere quanto già promesso tre mesi fa, quando scoppiò il caso di Cagliari. E cioè che il ministero sta studiando la modifica delle linee guida, che qualcosa sarà cambiato. Ma ieri la Turco non è voluta tornare sulla vicenda. Positive comunque le reazioni. Per il ministro Melandri «è giunta un'ottima notizia sulla fecondazione assistita. La sentenza dimostra che la legge 40, nel punto che riguarda il divieto della diagnosi pre-impianto, è semplicemente una legge crudele. Crudele per tutti: madre, padre, figlio sperato e voluto. È giunto il momento di smetterla di legiferare prescindendo dalle persone». L’associazione Coscioni fa notare è proprio dalla giurisprudenza che è arrivato il superamento della legge 40. «L'ordinanza con la quale il giudice di Firenze impone al centro di fecondazione assistita Demetra di intervenire con un'analisi dell'embrione prima del suo impianto, quando vi sia il rischio di trasmissione di una malattia genetica da genitore a figlio, rappresenta di fatto il superamento delle linee guida della legge 40/04 e della stessa legge sulla fecondazione assistita». Vittoria Franco senatrice del Pd e presidente della Commissione cultura del Senato annuncia: «Ho preparato un decreto legge per consentire anche alle coppie portatrici di malattie ereditarie o trasmissibili di ricorrere alla fecondazione assistita». Da destra tornano le accuse e i malumori. Il presidente del Movimento per la vita Carlo Casini e anche Scienza e vita denunciano: «È una sentenza che nega i diritti del concepito». Una sentenza contro il Parlamento anche per Forza Italia, Lega e Udc. «Il Giudice di Firenze - dice Luca Volontè - sentenzia a favore della selezione embrionale, in aperto contrasto con la legge 40 e con diverse sentenze della Corte Costituzionale».

L’ORDINANZA
«Linee guida illegittime e dunque da disapplicare»

«Il divieto di diagnosi pre impianto non esiste essendo stato posto illegittimamente dalle sole linee guida della legge 40/04 che vanno pertanto disapplicate». Lo scrive nero su bianco il giudice del tribunale di Firenze, Isabella Mariani, nell’ordinanza con cui ha deciso che si possono sottoporre a test gli embrioni qualora la coppia sia affetta da grave malattia genetica trasmettibile, accogliendo il ricorso di due giovani. Il giudice, essendo illegittimo il divieto di diagnosi, impone dunque al Centro Demetra di «procedere alla procreazione medicalmente assistita previa esecuzione della diagnosi pre impianto», di «trasferire solo gli embrioni sani e crioconservare quelli malati fino al giudizio di merito» e di eseguire la procreazione assistita «secondo le migliori regole della scienza in relazione alla salute della madre (e non del nascituro)».

l'Unità 23.12.07
Fecondazione assistita
E se cercassimo un compromesso?
di Carlo Flamigni


La Magistratura continua a fare, con grande arte e - immagino - divertendosi anche un po’, il suo fondamentale lavoro di revisione delle leggi sbagliate (o stupide, o semplicemente disancorate dalla realtà sociale e dal comune sentire), tirando inutilmente le orecchie a uomini politici disattenti e, comunque, troppo presi da interessi personali per capire che queste campane suonano a morto per tutta la loro classe.
La Magistratura fa il suo lavoro con competenza e con gusto, e la gente si chiede per quale ragione sia necessario l’intervento di un giudice per far capire a un legislatore che cosa dovrebbero essere le leggi in un Paese laico, libero e civile: l’espressione del buon senso di una società consapevole dei suoi diritti e dei suoi doveri, rispettosa della libertà di tutti, persuasa dei limiti che una morale di senso comune deve saper imporre ai comportamenti e alle scelte dei cittadini, capace di compassione nei confronti di tutte le forme di sofferenza, attenta ai diritti civili, ben decisa a tenere le religioni fuori dalla stanza nella quale le norme vengono stilate. Un legislatore che non tiene conto di questi principi e stabilisce regole che si ispirano a specifiche convinzioni di poteri non democratici (e intendo qualsiasi potere non democratico, dalla massoneria all’Opus Dei, passando per il Vaticano) dovrà prima o poi rispondere della sua disonestà: non lo dico io, lo diceva Aurelio Saffi, i parlamentari ne vadano a cercare il nome su Internet.
Due parole sulla sentenza di Firenze, che stabilisce la liceità delle indagini genetiche sugli embrioni nei casi in cui la madre sia portatrice di una grave e incurabile malattia genetica e concede alla donna il diritto di rifiutare l’impianto di tutti gli embrioni prodotti; il magistrato ha anche stabilito che le linee guida debbono essere considerate illegittime, almeno per quanto recitano a proposito delle indagini genetiche, perché hanno modificato il testo della legge e ne hanno dato una interpretazione ristretta e limitativa. Per quanto posso capire questa non sarà l’ultima volta che la magistratura si occupa delle linee guida, cosa del resto inevitabile se si considera il clima nel quale sono state dettate: ricordo, per chi non lo sapesse, che la persona che ha maggiormente influenzato l’opera della commissione è stato un professore di Storia del Diritto romano, altrettanto pio quanto incompetente.
Questa sentenza del tribunale di Firenze capita proprio nel mezzo di una campagna che i giornali cattolici e quelli diretti dalle varie pinzocchere laiche che li corteggiano hanno iniziato in appoggio della difesa dell’ “uomo embrione” e per intensificare la campagna contro l’aborto volontario. Niente di nuovo, direte voi. E invece qualcosa di nuovo c’è, e ha a che fare con la grossolanità degli argomenti, la scarsa competenza, l’arroganza, il difetto di logica, il costante rifiuto di dare una qualsiasi risposta alle obiezioni, la persistente, tenace, ma sempre più ripetitiva voglia di offendere degli articoli che stanno uscendo, numerosi ma scassati, oltretutto prevalentemente scritti in un pessimo italiano. Capisco che non si può far scrivere tutto a Francesco D’Agostino, ma non si potrebbe fare qualcosa di meglio? O non è, per caso, che questo sia un segnale del quale bisogna saper cogliere il significato?
Non voglio annoiarvi con un’analisi pedante di questi poverissimi scritti, mi limito ad alcuni esempi: un tale che parla spesso male di me, ha scritto per la trentesima volta che anch’io sono stato un embrione, oltre tutto sbagliando il periodo storico nel quale questo orrido evento si è determinato. Un secondo censore dei miei scritti ha elencato sull’Avvenire una serie di commenti, presi da un mio libro, molto enfatici nei confronti della vita nascente, ma si è dimenticato di andarsi a leggere la fine del capitolo, là dove dichiaro (riassumo) che sono tutte stronzate. Una grande affermazione della ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali è stata scambiata per un successo delle vigorose schiere dei ricercatori cattolici. Nessuno ha avuto il coraggio di affrontare il problema delle continue divergenze che si verificano all’interno dell’ex monolitico mondo cattolico nei riguardi dell’inizio della vita personale (cito ad esempio l’appoggio dei vescovi irlandesi all’ipotesi detta del personalismo relazionale, ben diversa da quella vaticana). E poi rileggetevi quanto è stato scritto su eutanasia, testamento biologico, famiglie di fatto, è ditemi se avete mai letto cose altrettanto puerili, incongrue, inaccettabili da ogni punto di vista: mi viene in mente il primo giornale al quale ho collaborato, si chiamava Sotto il bel campanile e il mio insegnante di lettere ci trovò più di 50 errori di ortografia.
Dunque, la magistratura dà ragione al buon senso e il mondo cattolico affida la difesa delle sue posizioni più arretrate e dogmatiche a un piccolo manipolo di scalzacani sciamannati, con l’unica eccezione di Francesco D’Agostino che, però, teorizza molto e quando deve scendere sul terreno della concretezza sembra quasi vergognarsene un po’. Mi viene in mente Ramazzotto dei Ramazzotti che diceva che «quando i mercenari che vengono a proporsi per il soldo diventano sempre più piccoli... è ora di cambiare bandiera». Mi chiedo allora: non sarà ora di mettere da parte i «non possum» (basta con il plurale di maestà!) e cominciare a dialogare, alla ricerca di soluzioni mediate? Che vantaggio può trarre dal passare del tempo chiunque decida di arroccarsi su posizioni ossificate e antistoriche, in un mondo che sembra sempre meno disponibile a lasciare che sulle regole della sua esistenza abbia l’ultima parola la metafisica, in un mondo che comunque la pensiate cammina sempre più spedito, e cambia, e non vuol più sentir parlare del passato?
La legge 40 può essere un primo importante terreno sul quale far incontrare laici e cattolici, alla ricerca di soluzioni condivise. I punti da discutere sono noti: le diagnosi genetiche pre-impiantatorie, per le quali si potrebbe proporre di far stabilire le regole dai genetisti, che certamente saprebbero dettarci un breve elenco di malattie ereditarie responsabili di trasformare una vita in un grumo inestricabile di sofferenza e di dolore. Il secondo argomento da esaminare dovrebbe essere quello delle donazioni di gameti, un problema che deve essere considerato comunque urgente, tenendo anche conto del grande numero di coppie che sta lasciando l’Italia per cercare altrove quello che la legge 40 vieta. Se ragioniamo su un concetto di genitorialità diverso da quello genetico e accettiamo il principio che si possa essere madre (o, nello stesso modo, padre) sulla base di una semplice promessa: sono responsabile della tua felicità, e se si applicano alla donazione di gameti le stesse regole che sono state scelte per chi vuole adottare un bambino, siamo proprio certi che non riusciremmo a trovare una soluzione di compromesso? E perché non provare a discutere dello statuto ontologico dell’embrione prendendo come base di partenza la definizione accettata da alcuni Paesi europei che (come la Germania e la Svizzera) ritengono che esista una fase pre-embrionale, corrispondente al periodo in cui il patrimonio genetico del padre e quello della madre sono ancora divisi? E, infine, perché non affidare a una commissione formata da scienziati europei il compito di giudicare dal punto di vista tecnico l’effetto che la legge 40 ha avuto sulle nostre coppie, almeno per quanto riguarda risultati e complicazioni, e cercare così di capire se esiste veramente qualcosa che deve essere modificato? Credo che se questa prima esperienza avesse successo si potrebbero affrontare con molte maggiori speranze gli altri temi “sensibili”, quali certamente sono quello del testamento biologico e quello delle famiglie di fatto.
Come sempre, ma sono vecchio, disilluso e cinico, ho poche speranze e prevedo che la risposta a questo articolo verrà affidata ai quattro soliti incapaci che mi seppelliranno di “principi di precauzione” e di “pendii scivolosi”. Ah, dimenticavo, mi ricorderanno ancora una volta che 75 anni fa sono stato embrione anch’io. Posso almeno insistere sul fatto che sono diventato “persona” solo quando mi sono iscritto al sindacato?

l'Unità 23.12.07
Stragi naziste, l’unica vendetta è la memoria
di Wu Ming 1


Marzabotto, Montesole e tanti altri luoghi in Italia e non solo
Una follia omicida rimasta impunita e senza pentimenti

Per decenni gli atti e le prove hanno dormito nell’armadio con le ante rivolte al muro

Narrare, alla fine, è la sola punizione, come suggerisce l’etimologia cinese mandarina del verbo «raccontare»

TESTIMONIANZE Un documentario di Germano Maccioni sull’eccidio di Monte Sole e sul processo celebrato a La Spezia. Uno squarcio di verità e di tensioni nei sopravvissuti e in chi assiste, che resta la sola cura postuma del male

L’uomo è alto e magro, sugli ottanta ben portati, schiena per nulla curvata dal tempo. Ha addosso una giacca grigia, da vecchia merceria di paese, ed entra nell’aula di tribunale veloce ma non spavaldo, come chi vuole tener breve un momento di disagio. Passa davanti al pubblico, molte persone le conosce, saluta con gesto lieve e sbrigativo, il cenno tradisce imbarazzo. Il giudice e il PM lo salutano e chiamano per cognome, l’uomo siede con movenza rigida sulla seggiola dei testimoni d’accusa. Gli portano il testo del giuramento, ma non lo legge di persona: il PM pronuncia una frase, lui la ripete e così via, formula dopo formula. La regia è discreta, non calca la mano sul motivo di tale procedura, lo suggerisce appena. Nel frattempo, un montaggio ellittico propone lampi incongrui, micro-sequenze, manciate di fotogrammi: seduto sulla stessa seggiola, vestito allo stesso modo, l’uomo piange, si dispera, si china in avanti con le mani sul volto. Qualcuno lo abbraccia e conforta, una mano gli asciuga gli occhi con un fazzoletto. Lo spettatore comprende: questo è l’imminente, quel che è dietro l’angolo. È questione di pochi minuti. Il giuramento finisce, il teste inizia a deporre. Lo ascoltiamo e sappiamo già che i ricordi, i racconti, le immagini lo piegheranno e ogni frase, ogni impaccio, ogni timidezza ci avvicina a quel momento. Quando lo raggiungeremo, avremo gli occhi umidi. Quando, terminato il calvario, l’uomo chiederà scusa al giudice per la «brutta figura», avremo il cuore a brandelli. Questa figura retorica si chiama «prolessi», e raramente l’ho vista usata con tale efficacia. Non si tratta di fredda manipolazione di stilemi, né di virtuosismo da cinefilo: il fine è l’empatia, la partecipazione al dolore e al riscatto di un’intera comunità.
È una delle scene più forti e impattanti del documentario Lo stato di eccezione. Processo per Monte Sole 62 anni dopo, scritto da Germano Maccioni e Loris Lepri, diretto da Germano Maccioni. Novanta minuti dedicati al processo - svoltosi a La Spezia per tutto il 2006 - contro diciassette ex-ufficiali e soldati nazisti, tutti contumaci, imputati per le stragi dell’autunno 1944 nella zona di Monte Sole, sull’Appennino emiliano. Il più famoso di quegli eccidi è quello di Marzabotto, ma fu l’intero circondario, decine di paesini, a subire il cupio dissolvi degli uomini di Walter Reder.
Il processo, che si è concluso nel gennaio 2007 con sette assoluzioni e dieci condanne, è finora il più grosso tra quelli istruiti dopo la scoperta del celebre «Armadio della vergogna», a Roma, nella sede della Procura Generale Militare. Dentro quell’armadio, lasciato per trent’anni con le ante rivolte alla parete, erano sepolti quasi settecento fascicoli sulle stragi nazifasciste, tutti recanti la bizzarra dicitura di «archiviazione provvisoria». Non avremo mai la completa verità su quali poteri siano intervenuti per evitare che fossero puniti gli sterminatori e i loro complici diretti. Di certo, l’episodio dice molto sulle «continuità» negli apparati statali e amministrativi tra regime fascista e repubblica democratica, e sulla mancata epurazione di tali apparati. Dovrebbe essere questa la materia di riflessione, per capire nel lungo termine una delle correnti sotterranee che alimentano lo sfacelo (l’Italia come «vecchio e glorioso albero soffocato dall’edera» etc.), e invece in questi anni vigliacchi è venuto più comodo gettare terriccio negli occhi e parlare del sangue dei (presunti) «vinti».
Ai temi della Resistenza e dell’antifascismo Maccioni aveva già dedicato Carlo è scappato da casa, una videointervista al partigiano casalecchiese Carlo Venturi detto «Ming». Questa nuova opera, che sta girando per piccoli festival e aule di università, prende il titolo da un noto saggio di Giorgio Agamben, parte di una lunga e articolata riflessione sulla vita, il diritto, la messa al bando e il dare la morte. Ho la fortuna di partecipare a una proiezione semi-pubblica, alla cineteca comunale di Bologna. In sala, intorno a me, le stesse persone che appaiono sullo schermo: avvocati di parte civile, cameramen, testimoni... Tutta l’Associazione dei familiari delle vittime di Marzabotto, Monzuno e Grizzana. Sento quelle persone rivivere le sedute del processo. Immagino i più anziani stupirsi (ma senza contrariarsi) per le scelte di montaggio più «audaci», la narrazione non lineare, le divagazioni e i flashback. Ascolto, durante e dopo la proiezione, le stesse voci con cadenze bolognesi di montagna. Assorbo i racconti di famiglie sbranate all’improvviso, vite annichilite senza il tempo di capire, di rendersi conto, e le storie di bambini, bambini trucidati (anche neonati), bambini che scappano nel bosco, si nascondono nelle grotte, si fingono morti sotto i cadaveri di genitori e parenti. Più di sessant’anni dopo, quei bambini sono accanto a me, seduti al buio, sotto il fascio di luce che porta immagini sul telo bianco. Mi lascio percuotere dai dettagli, che sono tanti: un agnellino sgozzato dai tedeschi, compagno di sventura degli umani. È un bimbo anche lui, la sua morte non è meno insensata delle altre. Uno dei nazisti contumaci ha mandato un video. È coricato a letto, e non sembra in buona salute. È lo stesso che in un’intervista definì «loschi bacilli» le vittime di Monte Sole. Ricorrono due parole tedesche, quelle che il nostro popolo conobbe insieme al terrore: «raus» e «kaputt». Sprazzi di immagini dei luoghi evocati, è tutto ancora lì, i fossi, le grotte, le spianate, le rovine. Carrellata sugli avvocati difensori: il loro imbarazzo è vistoso, denso e umido, è nebbia illuminata da un faro, eppure è anche merito loro se il processo si è potuto tenere, e uno di essi lo fa notare in maniera molto articolata. Il tribunale un tempo era un cinema, e in qualche sottosolaio o sgabuzzino sopravvivono «pizze» rovinate di vecchi film. L’SS-Sturmbannführer Walter Reder, durante il processo che lo vide imputato nel 1951, usò una metafora per descrivere un buco di memoria: «mi si è staccata la pellicola».
Poco dopo aver visto Lo stato di eccezione, leggo Le benevole di Jonathan Littell (recensito su l’Unità del 30/09/2007). Tra i tanti passaggi che mi scuotono, questo: «Chi, mi domandavo, chi piangerà tutti quegli ebrei uccisi, tutti quei bambini ebrei sepolti a occhi aperti sotto la nera terra dell’Ucraina, se vengono uccise anche le loro sorelle e le loro madri? Se li si uccideva tutti, a piangerli non sarebbe rimasto nessuno, e magari l’idea era anche questa». (p.113). Anche a Monte Sole sarebbe potuta andare a quel modo, l’intento era diserbare, uccidere persino le radici delle comunità di quei villaggi, ree di appoggiare - o quantomeno non deprecare - la lotta partigiana. Poche pagine più avanti, un’altra riflessione: «Fin dagli albori della storia umana, la guerra è sempre stata considerata il male più grande. Ma noi avevamo inventato qualcosa al cui confronto la guerra finiva per sembrare pulita e pura (...)Perfino le folli carneficine della Grande guerra, vissute dai nostri padri o da alcuni ufficiali più anziani, sembravano quasi pulite e giuste in confronto a quello che avevamo prodotto noi. Mi sembrava che ci fosse qualcosa di cruciale in tutto ciò, e che se fossi riuscito a capirlo, avrei capito tutto e avrei potuto finalmente riposarmi». (p.128). A porsi questo dilemma (nonché molti altri) è l’ufficiale SS Maximilian Aue, personaggio interamente di fantasia. Non si ha notizia di criminali nazisti realmente vissuti che si siano arrovellati a quel modo. E i vari Kesselring, Reder, Kappler, Oberhauser non si sono fatti problemi a riposare dopo i «fasti» della guerra, anche da beati e arroganti stolti, senza interrogarsi su chissà quali verità. La danza triste sui bordi dell’abisso è invece toccata agli scampati per miracolo, e ai parenti dei morti. Occasioni come il processo per Monte Sole affrontano l’elemento «cruciale» che sfuggiva all’Aue del romanzo di Littell, e lo affrontano con la cerimonia della parola condivisa, della narrazione comunitaria, pur sapendo che molte cose rimarranno ineffabili.
«La vendetta è il racconto», si è detto a proposito di fatti come questi (es. la strage delle Ardeatine raccontata da Alessandro Portelli). L’ispirazione viene dal cinese mandarino, dove le parole composte che significano «vendetta» (bàochóu e bàofù) iniziano entrambe con bào, che significa «riferire» o «raccontare». Bàochóu è, letteralmente «raccontare-nemico»: «raccontare del nemico», o forse «racconto nemico», cioè un discorso non pacificato. Bàofù è invece «raccontare-ripetere». Fù è il corrispettivo cinese dei nostri prefissi «ri-» e «re-», quindi bàofù equivale a «ri-raccontare». Il senso è «raccontare a propria volta», «ribattere col racconto», ma anche «raccontare ancora e ancora», «continuare a raccontare». Il preciso tragitto che ha legato queste parole (e queste pratiche) alla vendetta sfuggirà sempre a noi figli dell’occidente. Sono i misteri della semantica e delle diversità culturali. Eppure la metafora che ne esce è potente e ha valore universale. Col suo documentario, Germano Maccioni l’ha espressa in ogni sua sfumatura. Lo stato di eccezione è certamente bàochù: ci racconta del nemico ed è esso stesso «racconto nemico», poiché non ha nulla di banalmente irenico o perdonista. Ma Lo stato di eccezione è soprattutto bàofù: ri-prende i racconti dei testimoni e li amplifica coi mezzi del cinema. Grazie a ciò, la parola continuerà a vivere e ad essere condivisa. Nessuno può dire quale sia la vendetta migliore, ma questa è senz’altro la più costruttiva.
Per contatti, proiezioni ecc.: germanomaccioni@gmail.com

l'Unità 23.12.07
La Bibbia delle infinite parole dipinte
di Renato Barilli


ANTOLOGIE Al MART di Rovereto una sterminata summa enciclopedica dedicata alla parola nell’arte ripristina il legame originario tra segni e immagini. Un percorso suggellato dalle avanguardie

Il Museo d’arte di Rovereto e Trento (MART) festeggia i primi cinque anni di vita con un bilancio eccellente, confermato da quanto la neonata istituzione offre in questi giorni nei suoi vasti spazi. Già ho ricordato la mostra dedicata al padre fondatore, Fortunato Depero, celebrato in un suo aspetto che poteva apparire minore e marginale, la grafica pubblicitaria, ma che col tempo si è rivelato prioritario. Ed ora ecco un’enorme rassegna dedicata alle Parole nell’arte, che oltretutto ha il merito di presentare un materiale destinato a rimanere a lungo nelle sale del Museo, in quanto ottenuto attraverso depositi e comodati (a cura della stessa direttrice Gabriella Belli, affiancata da Giorgio Zanchetti e da tanti altri collaboratori).
Ma perché, questa centralità della presenza della parola, dell’elemento verbale, nelle avanguardie vecchie e nuove del secolo appena trascorso? Per intenderla bisogna richiamare aspetti di storia della cultura di lunghissimo periodo, rifarsi addirittura a una scelta cruciale che l’Occidente, e per tutti noi la Grecia, hanno compiuto circa un millennio avanti Cristo, accettando dai Fenici l’alfabeto, ovvero un sistema di scrittura fonetica, dove le parole risultano collegate ai suoni. Da qui una loro totale scissione rispetto al mondo delle immagini, ovvero la nascita di una dissociazione fatale che ha portato i due versanti ad allontanarsi sempre più l’uno dall’altro, per effetto di una polarizzazione agli estremi. L’alfabeto, da noi, si è reso neutro, povero, di scarso appeal estetico, ma tanto funzionale. Le immagini a loro volta, dovendo confidare in se stesse senza l’aiuto del supporto verbale, hanno puntato su un mimetismo sempre più radicale, fenomeno conosciuto soltanto da noi occidentali, dapprima nell’arco greco-romano, e poi nel percorso rinascimentale, dal tardo medioevo su su lungo l’età moderna. Le altre culture, a cominciare dall’Estremo Oriente, hanno praticato invece una commistione dei due ambiti, grazie ai sistemi ideografici, il che ha portato la loro scrittura a mantenere vasti coefficienti di bellezza, sinuosità, scapricciatura, in quanto appoggiata a icone, ma d’altra parte queste, proprio per andare al matrimonio con le lettere, hanno dovuto tenersi su un registro magro-stilizzato. Aggiungiamo che presso di noi occidentali la spaccatura tra i due versanti è stata esasperata da due innovazioni simultanee, la tipografia di Gutenberg e la scatola prospettica di Leon Battista Alberti, non per nulla un audace culturologo quale Marshall McLuhan ci ha insegnato ad associare i due grandi apripista. Ma questo divorzio consensuale è risultato superato col sopraggiungere, nell’età contemporanea, della tecnologia di specie elettronica, che ha cancellato il confine fatale. E così gli artisti visivi si sono riappropriati di quel bene perduto, le lettere, offrendole da sole o associandole, appunto, a icone smagrite ovvero astratte. Ecco la profonda ragione per cui non c’è stato ismo, nel lungo cammino delle avanguardie vecchie e nuove, che non abbia fornito un suo valido contributo al superamento del tradizionale fossato, ed ecco la necessità di redigere il presente poderoso catalogo. Che infilza con sicurezza gli ismi storici, Futurismo, Dadaismo, Surrealismo, supera indenne e anzi trova nuove linfe oltre la metà del secolo, come testimoniano i vari fenomeni che si richiamano al lettrismo, alla poesia prima concreta e poi visiva, a Fluxus, al libro d’artista, al concettuale, alla Narrative Art.
Ma proprio per l’enorme rigoglio di quest’albero fronzuto conveniva forse che, verso la cima, cioè venendo ai nostri giorni, i curatori avessero il coraggio di dare qualche potatura, o meglio, tentassero di raccoglierne le sparse chiome in ciuffi e rami più consistenti, qui invece si abbonda in una pur utile frammentazione dei reperti, il che però implica anche che taluni grandi autori ricorrano più volte, in paragrafi distinti, cosa che certo risponde a una legittimità elencatoria, ma rende alquanto confusa la comprensione globale del processo. Forse, venendo alla copiosa vegetazione posteriore al fatidico ’68, sarebbe stato meglio raccogliere gli esiti straripanti della pianta sotto due categorie essenziali, collegate proprio ai due poli del continente verbale quali ci sono stati additati dal signore della linguistica contemporanea, il Saussure: il significato e il significante. Infatti, per dirla in breve, tra gli infiniti cultori della parola, nelle ricerche degli ultimi tempi, c’è chi ha privilegiato il significato, dandoci reperti nudi, schematici, con noncuranza per le modalità di scritture, ed ecco allora i concettuali Kosuth e Barry e Weiner e Ben, o da noi Giuseppe Chiari. E c’è invece chi ha calcato la mano sul significante, ridando all’atto dello scrivere ogni possibile spessore di materia, di manualità, di ostentazione del supporto su cui viene vergato, e stanno in questa categoria tutti gli esempi ricavabili, per esempio, dall’Arte povera, nonché da un nostro estroso protagonista degli anni ’80 come Mario Dellavedova, che verga le lettere con saliere infisse nella sabbia, o con occhiali da sole. Per non parlare dell’ingegnosa gestualità con cui Ketty La Rocca usava comunicare i messaggi verbali facendone delle drammatiche performances degne di essere accompagnate da riflettori di scena. E così via, siamo in presenza di una Bibbia, è il caso di dirlo, infinita.

l'Unità Roma 23.12.07
Dall'antichità all'800
Gli affreschi pompeiani, Bernini e i tesori cinesi
Venti secoli d’arte sotto l’albero
di Flavia Matitti


PER IL PERIODO che va dall’arte antica alla fine dell’Ottocento la stagione espositiva romana si presenta piuttosto ricca e variegata. Volendo tracciare una sorta di itinerario ideale tra le diverse proposte, conviene allora seguire un ordine cronologico, iniziando dall’archeologia, che conta due mostre di grande interesse, appena inaugurate. Al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme è di scena la rassegna “Rosso Pompeiano” (tel. 06.39967700; fino al 30 marzo), che riunisce un centinaio di dipinti parietali provenienti dalle collezioni del Museo Archeologico di Napoli e dalla Soprintendenza di Pompei, mentre al Quirinale la mostra “Nostoi. Capolavori ritrovati” celebra il ritorno in Italia di quasi settanta importanti reperti archeologici trafugati ed esportati illegalmente dal nostro paese (tel. 06.46991; fino al 2 marzo). Mancano, invece, anche quest’anno rassegne dedicate al Medioevo, perciò il nostro tour ideale riprende dal Rinascimento, con alcune opere presenti nella mostra “Da Cranach a Monet. Capolavori della collezione Pérez Simón” (tel. 06.6874704; fino al 27 gennaio) allestita nelle sale di Palazzo Ruspoli. Ma l’esposizione, che riunisce 57 dipinti dal XIV al XX secolo provenienti dalla raccolta privata di Pérez Simón, conservata a Città del Messico, si segnala soprattutto - agli amanti del genere - per il gustoso nucleo di quadri di artisti dell’Inghilterra vittoriana, da Rossetti a Millais a Alma-Tadema e di pittori “pompiers” della Francia del Secondo Impero, come Cabanel, Gérôme e Bouguereau, in un trionfo meravigliosamente kitsch di imperatori depravati, perfide regine, atletici gladiatori e giovani innamorati dallo sguardo sognante. Il secolo del barocco è come sempre di casa nella Città Eterna. A Palazzo Barberini la mostra “Bernini pittore” (tel. 06.8555952; fino al 20 gennaio) indaga la meno nota attività pittorica del grande scultore e architetto, mentre Palazzo Venezia allestisce la monografica dedicata al pittore “Francesco Cozza (1605-1682). Un calabrese a Roma tra Classicismo e Barocco” (tel. 06.32810; fino al 13 gennaio). E senza dubbio vale la pena recarsi ad Ariccia dove Palazzo Chigi ospita “La collezione Lemme” (tel. 06.9330053; fino al 10 febbraio), ovvero la mostra dei 128 quadri appena donati dall’avvocato Fabrizio Lemme al Museo del Barocco Romano, sorto per documentare la cultura figurativa romana del Sei e Settecento e allestito stabilmente al terzo piano del Palazzo. L’epoca neoclassica è rappresentata alla Galleria Borghese dalla rassegna “Canova e la Venere Vincitrice” (tel. 06.32810; fino al 3 febbraio), che attraverso una cinquantina di opere tra marmi, dipinti, disegni e bozzetti, ricostruisce la continua rielaborazione del tema di Venere da parte di Canova e i rapporti dello scultore con il principe Camillo Borghese e la famiglia Bonaparte, per la quale creò “Paolina come Venere Vincitrice”. Ancora il Settecento, ma questa volta esotico, è di scena nella mostra allestita nelle sale del Museo del Corso, dal titolo “Capolavori dalla città proibita” (tel. 06.6786209; fino al 20 marzo). Incentrata sulla figura di Quianlong (1711-1799), uno dei maggiori imperatori della storia cinese, la rassegna presenta oltre 300 oggetti d’arte, che evocano il fasto e la raffinatezza della reggia più grande del mondo. L’Ottocento italiano è rappresentato al Chiostro del Bramante dalla rassegna di oltre cento opere dedicata a “I Macchiaioli. Sentimento del vero” (tel. 06.68809035; fino al 3 febbraio), proveniente dalla Fondazione Bricherasio di Torino, mentre al Complesso del Vittoriano è in corso la monografica su “Paul Gauguin. Artista di mito e sogno” (tel. 06.6780664; fino al 3 febbraio), che riunisce circa 150 opere dell’artista francese tra dipinti, grafiche, sculture e ceramiche. Agli appassionati delle vedute di Roma si segnalano poi alcune esposizioni che attraverso dipinti, acquerelli o fotografie restituiscono l’immagine che la Capitale aveva nel XIX secolo. “L’Italia di Garibaldi” (tel. 06.69202049; fino al 6 gennaio), allestita al Complesso del Vittoriano, nell’illustrare i luoghi dell’epopea risorgimentale mostra diverse foto scattate a Roma nel 1849. Il Museo di Roma in Trastevere ospita due mostre: “Paesaggi della memoria”, che presenta gli acquerelli di Ettore Roesler Franz, raffiguranti la Roma sparita di fine Ottocento, mentre oltre 400 fotografie sono esposte nella rassegna “Trastevere. Società e trasformazioni urbane dall’Ottocento ad oggi” (tel. 06.0608; fino al 24 marzo). Infine, in occasione dei 500 anni della fondazione della Basilica di San Pietro, il Museo di Roma di Palazzo Braschi presenta la mostra “San Pietro. Fotografie dal 1850 ad oggi” (tel. 06.82059127; fino al 30 marzo).

Repubblica 23.12.07
L'Italia non è triste ma è solo schifata
di Eugenio Scalfari


La discussione sulla legge elettorale non è molto popolare. Le tv quasi non ne parlano salvo che in qualche salotto televisivo riservato ai pochi appassionati del politichese. I giornali e gli editorialisti si accostano all´argomento con toni sopraccigliosi (con l´eccezione di Giovanni Sartori che è uno specialista in chiarezza sulla materia). Il Paese ha bisogno di ben altro, scrivono, e giù l´elenco dei bisogni insoddisfatti e delle speranze tradite, che sono tanti e anche tanto antichi.
Lo stesso presidente della Repubblica – che pure ha fatto della riforma delle legge elettorale uno dei temi principali della sua predicazione democratica – l´altro giorno ha manifestato il suo malcontento nei confronti del governo per i troppi voti di fiducia ai quali è stato costretto a ricorrere, del resto nel solco aperto dal governo che l´ha preceduto e che peraltro disponeva nelle due Camere di maggioranze numericamente imponenti.
Ma il presidente della Repubblica sa benissimo che il voto di fiducia più volte reiterato al Senato, non è altro che la risposta necessaria all´avvelenamento dei pozzi operato dalla legge-porcata, il "porcellum" proposto dal leghista Calderoli sullo scorcio della passata legislatura e approvato da tutto il centrodestra, Casini in prima fila. I due voti, anzi ormai uno soltanto, di maggioranza al netto dei senatori a vita, non consentono la sopravvivenza del governo senza il ricorso alla fiducia. Perciò è inutile prendersela col termometro, bisogna invece curare la febbre, i sintomi e soprattutto le cause.
È sicuramente vero che il Paese ha bisogno di ben altro, ma è altrettanto vero che una buona legge elettorale costituisce la premessa necessaria e indispensabile affinché quel «ben altro» abbia almeno un inizio. Se c´è bisogno di acqua serve un secchio per trasportarla, ma se il secchio è sfondato bisogna anzitutto ripararlo.

Come si vede, la discussione sulla legge elettorale è tutt´altro che oziosa. Allo stato dei fatti è anzi la questione da risolvere se si vuole che la democrazia italiana possa ancora sopravvivere alla crisi che la sta squassando.
* * *
Una riforma dunque. Ma poi bisogna anche dire quale riforma e perché. Non sono uno specialista, ma la sostanza delle cose è abbastanza semplice da spiegare e da capire.
Non abbiamo in Italia due soli partiti che si contendano il potere di governare. Il Partito democratico di due ne ha fatto uno, ma ne restano ancora troppi, a sinistra come a destra. A sinistra ce ne sono a dir poco sei (senza contare Dini e alcuni «cani sciolti»). A destra quattro (senza contare Storace). Forse ne dimentico qualcuno ma il quadro in sostanza è questo.
Gli elettori sono stufi di questa polverizzazione che accentua il distacco crescente tra l´opinione pubblica e le istituzioni. Sono stufi dei poteri di veto diffusi, delle risse continue, della continua ricerca di visibilità. Un accorpamento è quindi necessario ed è questo l´obiettivo principale della riforma elettorale.
Si può raggiungere in vari modi. Con una legge proporzionale con soglia di sbarramento di almeno il 5 per cento. Chi resta sotto a quella soglia è fuori dal Parlamento. Oppure con il doppio turno e i collegi uninominali. Oppure con una proporzionale con piccole correzioni che premino i partiti di maggiori dimensioni.
Il risultato comune a tutti questi diversi meccanismi è comunque di ridurre i partiti a non più di sei: a destra Berlusconi, Fini, Casini e Bossi; a sinistra il Pd e la sinistra radicale. Più alcune minoranze "linguistiche" come gli altoatesini. Sarebbe già un buon risultato.
Il proporzionale fotograferebbe i consensi ricevuti da ciascuno. Il proporzionale corretto in senso maggioritario darebbe un premio aggiuntivo ai partiti maggiori: quello di Berlusconi da un lato, quello di Veltroni dall´altro. Rendendo tuttavia necessarie le alleanze dopo il voto poiché nessuno dei due da solo potrà raggiungere il 51 per cento dei seggi parlamentari.
Quali alleanze? Problema difficile da risolvere prima di conoscere dove andranno i voti degli elettori. Se i partiti maggiori supereranno ciascuno il 40 per cento dei voti sarà più facile comporre il "puzzle". Se si attesteranno intorno al 30-35 si rischia l´ingovernabilità. Ecco la ragione che suggerisce un proporzionale con qualche elemento correttivo in senso maggioritario, visto che bisogna pure che un governo ci sia ed abbia la forza di governare e la capacità necessaria per affrontare pochi ma essenziali temi.
L´interesse del Paese richiede qualche sacrificio alle varie «ditte» partitiche. Gli elettori hanno comunque il potere di concentrare i voti se la governabilità è l´obiettivo per riparare il secchio sfondato. Lo usino, quale che sia il meccanismo della legge. Se non saranno capaci di usarlo non si lamentino poi di ciò che accadrà.
Per un giorno almeno il potere sarà nelle loro mani.
* * *
Quando arriverà quel giorno?
Molti danno per conclusa l´esperienza del governo Prodi. La previsione è che entro gennaio ci sarà la crisi. Provocata da un voto di sfiducia cui basterebbe la diserzione di Dini e gli altri senatori "extra-vagantes".
È possibile che ciò avvenga anche se non è affatto certo.
Prodi si accinge a varare un pacchetto di iniziative in campo sociale che dovrebbe far aumentare in misura consistente il potere d´acquisto dei lavoratori e dei redditi più bassi. Non sembri strano, ma la copertura finanziaria di queste misure c´è ed è anche abbondante. La spesa pubblica infatti negli ultimi mesi ha rallentato il suo flusso. Il deficit è diminuito dal previsto 2,4 sul Pil niente meno che all´1,5. Nove punti in meno. Basterebbe darne un paio all´ulteriore rafforzamento dei parametri europei attestandoci sul 2,2; resterebbero comunque 7 punti per sostenere i salari e i redditi bassi.
Se il governo affronterà questo tema, reclamato perfino dal governatore della Banca d´Italia e dal presidente della Confindustria oltre che dai sindacati confederali, sarà difficile licenziarlo su due piedi. Tecnicamente può accadere, i cespugli del Senato sono in grado di farlo, ma senza alcuna apprezzabile motivazione di fronte al Paese. Tanto più che la permanenza in carica del governo non impedisce (anzi) il negoziato sulla riforma elettorale. Neppure la pronuncia della Corte costituzionale sul referendum la impedisce. Fino a marzo il Parlamento è in grado di approvare la riforma quale che sia e bloccare il referendum.
Ci sono perciò tutte le condizioni affinché il governo resti in carica e governi.
Un consiglio al presidente Prodi (da uno che è stato tra i pochi a ravvisare più i suoi meriti che i suoi difetti): non si occupi della legge elettorale. È un tema che riguarda il Parlamento e non il governo. Pensi a governare, ce n´è già abbastanza per occupare il suo tempo e quello dei suoi ministri, nessuno escluso a cominciare dai vice-presidenti del Consiglio.
«Lasci il mestiere a chi tocca, Vostra Signoria» disse il padre provinciale dei cappuccini al conte zio che reclamava il trasferimento di fra Cristoforo e suggeriva una sede molto lontana da Milano. Il mestiere in questo caso è dei partiti. I ministri facciano i ministri.
* * *
È chiaro che comunque resta il tema del disagio del Paese e del suo distacco profondo dalle istituzioni. Dalla sfera pubblica. Il suo chiudersi nel privato. Le sue incertezze, le sue paure. La sua indifferenza.
Non è vero che gli italiani siano improvvisamente diventati pigri e tristi. Non è vero che solo piccole minoranze siano ancora animate dalla voglia di intraprendere e di farsi largo nel mondo. Questa è una rappresentazione distorta della realtà, affidata alle rozze domande di rozzi sondaggi.
Gli italiani di provincia e di città hanno voglia di fare e anche di ridere e divertirsi. Di pensare con la propria testa e di non farsi imbonire.
Ce ne sono anche disposti ad essere manipolati, a ricevere passivamente gli slogan, le ideologie, perfino i lazzi dei tanti Dulcamara e dei tanti buffoni di corte che li attorniano. Ma quegli italiani, loro sì, sono minoranza. Tre, quattro, cinque milioni tra manipolati, furbetti, furboni. «Clientes». Non è questa la maggioranza del Paese.
Ma un punto resta fermo: la maggioranza del Paese ha rigetto per gli spettacoli che gli vengono inflitti da chi, maggioranza od opposizione, dovrebbe rappresentarli. Un rigetto crescente, che sta superando i limiti di guardia.
Una magistratura che ricama sgorbi sulle sue toghe aggrappandosi al cavillo della norma senza capacità né voglia di coglierne la sostanza. Magistratura pubblicitaria, così dovrebbe chiamarsi la parte ormai largamente diffusa che insegue la propria visibilità non meno dei Diliberto e dei Mastella.
La vicenda Forleo è il sintomo palese di questa devastazione pubblicitaria che sta sconvolgendo l´Ordine giudiziario e, con esso, il corretto esercizio della giurisdizione. Ho grande rispetto per Franco Cordero, nostro esimio collaboratore, e capisco anche le motivazioni giuridiche che l´hanno indotto a difendere il Gip milanese.
Secondo me quel Gip andrebbe censurato dal Csm non per la procedura che ha seguito ma per l´esibizione di volta in volta vittimistica e sguaiata, con la quale ha invaso teleschermi e giornali. Disdicevole. Aberrante per un magistrato. Falcone, tanto per dire, non ha mai usato quel metodo né lo usarono il magistrato Alessandrini, l´avvocato Giorgio Ambrosoli e tutti coloro che del mondo della giustizia caddero sotto il piombo del terrorismo o della mafia.
Ma la maggioranza degli italiani è anche schifata per la vergognosa commedia che si continua a recitare alla Rai, tra il capo di Mediaset e i suoi servi inseriti in servizio permanente nell´azienda pubblica.
Ha scritto ieri Giovanni Valentini su queste pagine commentando la telefonata tra Berlusconi e Agostino Saccà: «Così la Rai, già greppia e alcova di Stato, viene ridotta al rango d´una filiale di Mediaset, una società controllata, una "dependance" e un "pied à terre" del Biscione».
Bisogna averla ascoltata oltre che letta quella telefonata, quelle due voci, la voce del padrone di volta in volta annoiata e imperativa, e quella del servo, omaggiante, inginocchiato, pronto ad anticipare i voleri del padrone cercando di riceverne qualche briciola e qualche osso per andarselo a rosicchiare in cucina. Disdicevole. Anzi stomachevole. Ma i politici, tutti senza quasi eccezione, hanno avuto come reazione quella di accelerare il decreto che bloccherà le intercettazioni e la loro pubblicazione. Sul merito, sui contenuti, hanno sorvolato come se fosse ininfluente che il pubblico li conoscesse. Solo Prodi, voglio dargliene atto, ha frenato lo zelo assai mal riposto del Guardasigilli.
Non parlerò del Tar del Lazio. Le sue pronunce parlano da sole. In una doppietta di sentenze ha stabilito nella prima il principio che l´azionista della Rai, che ha il diritto di nominare un solo membro del consiglio d´amministrazione dell´azienda su nove, non può revocarlo dopo averne messo alla prova per un anno intero l´obiettività o la partigianeria. E, secondo colpo della doppietta, aver stabilito l´altro incredibile principio che il ministro che ha la responsabilità politica della Guardia di Finanza non può revocarne il Comandante quando il rapporto fiduciario sia venuto meno per scorrettezze gravi e fondati elementi di negativo giudizio a carico del Comandante in questione.
Come si deve valutare un Tribunale che è una delle più importanti istituzioni giudiziarie e che sentenzia in modo anti-istituzionale? L´opinione pubblica che riceve questo tipo di esempi dai presidi dello Stato, come può riconoscersi nello Stato?
No, colleghi del "New York Times" il nostro non è un Paese né triste né inerte. Semmai è un Paese indignato che non si sente rappresentato oggi come ieri come l´altro ieri e più indietro ancora, fino ai Viceré di triste memoria. L´hanno fatto diventare un Paese anarcoide e allo stesso tempo pronto a farsi cavalcare dai potenti di turno. Ma ci sono ancora – e sono tanti – che rifiutano questi attributi e si aspettano un cambio di marcia e nuove speranze.
Noi siamo tra questi.

Corriere della Sera 23.12.07
Il saggio «Arte e follia» di Morgenthaler
Wölfli, se la pazzia fa nascere un talento
di Gillo Dorfles


Ecco che, di tanto in tanto, tornano alla ribalta alcuni annosi interrogativi: Van Gogh era un pazzo? Uno schizofrenico può essere un grande artista? O, addirittura, ogni artista è un po' pazzo? Eppure dovrebbe essere chiaro che si può dare il caso di un individuo psichicamente alterato, ma senza che per ciò sia sufficiente l'eventuale anomalia delle sue creazioni per farne un grande artista.
Senza voler invadere i labirinti della psichiatria, vorrei ricordare un caso davvero esemplare che viene ora rimesso in discussione attraverso la traduzione in italiano (un po' tardiva, dato che la prima edizione tedesca è del 1921) del saggio di Walter Morgenthaler Arte e follia in Adolf Wölfli (ALET, pp.212, e 20, tradotto da Alessandra Pedrazzini con un saggio introduttivo di Michele Mari). Di Wölfli si discute ormai da decenni e ricordo una mia chiacchierata con la moglie del direttore dell'istituto psichiatrico nel quale fu ricoverato per trent'anni il celebre «artista pazzo». A Waldau, infatti, Wölfli trascorse praticamente l'intera esistenza con la diagnosi di schizofrenia paranoica (sulla quale non esistono dubbi) a lungo assistito e curato — non solo dal punto di vista medico ma anche con profonda partecipazione umana e artistica — dall'autore di questo saggio. Le stigmate della sua anomalia psichica sono evidenti: l'autismo, l'anafettività, i manierismi del suo comportamento (al pari di quelli della sua pittura), l'esasperata volontà di disegnare e dipingere senza tregua ecc... Ma quello che mi sembra più importante e discutibile, di fronte alla convinzione di Morgenthaler e Mari circa il suo valore artistico da loro giudicato eccelso, è stabilire quali siano gli aspetti della sua attività che permettano di avvalorare la mia convinzione che i suoi lavori siano anzitutto le manifestazioni del suo turbamento psichico, piuttosto che le geniali creazioni di uno dei massimi artisti del secolo come i due affermano.
È proprio a questo proposito che dissento da quanto sostiene Morgenthaler quando analizza i diversi parametri della pittura di Wölfli: ritmo, spazialità, assenza di prospettiva, come se fossero i motivi essenziali della sua originalità, mentre risultano piuttosto rivelatori della sua dissociazione psichica soprattutto analizzandone meglio alcuni tratti caratteristici come le aggregazioni parossistiche delle figure, le iterazioni, le perseverazioni, la totale copertura del foglio spesso con una simmetrizzazione compulsiva: tutte ben note caratteristiche di una mentalità schizoide. Sicché quello che gli autori del saggio ritengono geniale inventiva è invece una sintomatica «coazione a ripetere» frequente in questi malati. Assurdo confondere le geniali «anomalie» di Mirò, Picasso, Tobey o quelle d'uno straordinario artista come Michaux, e la serie dei suoi affascinanti disegni enigmatici con le stigmate patologiche d'un conclamato schizofrenico; dotato bensì di un eccezionale talento e di fantasiosità stupefacente, ma non tale da dichiarare - come fa Mari nel suo saggio - per altro molto acuto-: «La realtà è che Wölfli era un genio... l'opera ci stordisce per la sua bellezza... ma il dubbio che assillava Morgenthaler... è se la genialità sia stata un regalo della malattia o se la malattia l'abbia solo risvegliata».
Esistono parecchi altri artisti, pure essi sicuramente psicotici, che hanno realizzato opere non prive di un misterioso fascino, come ad esempio il ben noto Fernando Nannetti, autore di una rampa di scale istoriata nell'ospedale psichiatrico di Volterra, o Carlo Zinelli, pittore di Verona e l'originalissimo Filippo Bentivegna di Sciacca nonché i tanti pazienti ospitati dal Musée de l'art brut di Losanna o dal Gugging presso Vienna - ma ritengo che lo spartiacque tra «vera arte» e follia debba comunque permettere di distinguere tra un grande artista, più o meno nevrotico e un autentico «pazzo» pur provvisto di talento e originalità tali da permettergli di «sfiorare» una creatività artistica, pur rimanendo frenato dalla propria mente delirante che non gli permette una lucida coscienza.

Corriere della Sera 23.12.07
Atelier Giacometti al Pompidou
Paris, 46 rue de Maindron
di Pierre Rosenberg


Un indirizzo mitico: 46 rue de Hippolyte Maindron, nel quartiere di Montparnasse. È là che, nel dicembre 1926, a 25 anni, si stabilì Alberto Giacometti creando le sue opere maggiori: sculture, pitture, disegni; là ospitò alcuni dei nomi più importanti del mondo letterario e artistico parigino e internazionale tra le due guerre e subito dopo; là che si faceva sempre fotografare, all'inizio dall'alto, perché temeva che ci si accorgesse che era piccolo. Anche se è morto all'ospedale di Coira, in Svizzera, a 65 anni, è con questo studio, questo simbolico atelier, con cui s'identifica. Ecco perché la mostra del Pompidou, dovuta principalmente a Véronique Wiesinger (direttrice della Fondazione Alberto e Annette Giacometti), si intitola
L'atelier di Giacometti.
Alberto incontra Annette Arm nel 1942 e la sposa nel 1949. Ha 20 anni più di lei. Dopo la morte dell'artista, Annette, che vivrà ancora 27 anni, crea la Fondazione per gestirne l'eredità — centinaia di quadri e sculture, migliaia di disegni e documenti di ogni genere — e tutto ciò che poteva essere conservato delle decorazioni dello studio di rue Maindron. Su questo punta la mostra: evocare l'atmosfera «stipata» nello studio di circa 25 metri quadrati.
Giacometti, pittore o scultore? Ad ogni esposizione, ci si pone la domanda senza che si possa distinguere ciò che appartiene ad un campo o all'altro. Il processo è identico. La materia triturata con i pennelli o col pollice è simile, usata per lo stesso scopo, lo stesso fine: penetrare ciò che resiste, quello che c'è di più intimo dentro di noi.
C'è anche il copista delle opere del passato: dall'antico Egitto a Masaccio, da Signorelli a Matisse, da Dürer al Greco, da Michelangelo a Velázquez, da Chardin a Cézanne. La matita — la punta della biro talvolta — vengono usate con l'intelligenza dello sguardo che, senza mai tradire il modello, ne trattiene solo l'utile. Solidità delle forme e di ciò che le sostiene, ricerca del volume e del suo posto nello spazio, padronanza dell'equilibrio: Giacometti, nelle sue «copie del passato», corregge, ravviva e ricrea, come se avesse bisogno di questo passato per accettarsi.
La potenza delle teste, l'importanza dei basamenti, le figure filiformi, l'equilibrio dei corpi, la riduzione all'essenziale dei visi, la rassomiglianza assunta col passare del tempo, tutto è stato detto sull'arte di Giacometti che il passare del tempo rende immortale.
Rimane il destino che, dopo gli anni della tentazione surrealista, isola l'artista dalla sua epoca e gli riconosce un posto incomparabile fra i maggiori protagonisti del XX secolo, un secolo che ha attraversato da lucido testimone, ossessionato, con le sue lacerazioni e violenze che ha saputo esprimere senza mai trascurare l'essenziale, senza mai rinunciare.
Il mondo grigio e nero di Giacometti, un mondo disperato e senza gioia, non anticipa già quello di Anselm Kiefer di cui il Louvre ha appena inaugurato un'immensa opera di 14 metri di altezza intitolata Athanor. Installata definitivamente in un bellissimo scalone degli architetti Percier e Fontaine, a pochi passi dell'illustre colonnato del museo, l'opera, tormentosa e ispirata, è accompagnata da due sculture, come se, come per Alberto Giacometti, il respiro e il pensiero contassero prima del supporto e della materia.
Traduzione di Elena Fontana
L'ATELIER DI GIACOMETTI Parigi, Centre Pompidou, sino all'11 febbraio. Tel. +331/44781233 Giacometti nell'atelier parigino

Corriere della Sera 23.12.07
Genova: 74 lavori su carta della Gontcharova di cui 43 illustrano una favola
Il ragazzo di Marina e Natalia
Ricreata l'atmosfera terribile del poema della Cvetaeva
di Sebastiano Grasso


C'è, in questa mostra genovese di 74 lavori su carta dal 1906 al 1940, la Gontcharova («capo dei futuristi russi », secondo Apollinaire) de La fuga in Egitto (1906) e quella dei costumi e delle scenografie del balletto Sur le Borysthène di Lifar, musica di Prokofiev (debutto: Opera di Parigi, 1933), quella dei loubok (espressione dell'arte popolare russa), delle composizioni astratte, del ritorno al figurativo. Ma anche i 43 disegni, che Natalia Gontcharova (1881-1962) realizza nel biennio 1929-1930, per illustrare Le gars (Il ragazzo), poema di Marina Cvetaeva (1892-1941).
L'artista incontra la nipote di Puskin proprio alla fine degli anni Trenta a Parigi dove Marina vive già dal quattro anni. Le due donne legano subito.
Tant'è che Natalia si mette ad illustrare il lungo poema in versi della connazionale.
Le Gars è la traduzione, in francese, de Il prode, scritto dalla Cvetaeva fra il 1920 e il '22, e pubblicato a Praga nel 1924, dedicato all'amico Boris Pasternak. Al momento di tradurlo nella lingua di Molière, Marina ne rivede buona parte.
Otto mesi di lavoro. Ma il libro è rifiutato dagli editori. Verrà pubblicato solo nel 1995, oltre mezzo secolo dopo la morte della poetessa (in italiano esce nel 2000, a cura di Annalisa Comes, Edizioni Le Lettere, pp. 265, e15). Il bianco e nero dei disegni interpreta la drammaticità del poema della Cvetaeva che riprende una storia ( Il vampiro) contenuta nelle Fiabe popolari russe raccolte da Aleksandr Afanas'ev (un'operazione analoga è stata fatta dal nostro Italo Calvino con le Fiabe italiane, edito nel '56 da Einaudi).
Le servirà per riscoprire «l'essenza delle favole, di cui la tradizione dà solo lo scheletro».
Una vicenda d'amore terribile, questa de Il ragazzo. Ad una festa da ballo, Marusja si innamora di un giovane bellissimo. Nulla riuscirà a distoglierla: né la scoperta che in realtà si tratti di un vampiro né che egli sia la causa della morte della madre, della sorella e di lei stessa che si trasformerà in un fiore rosso. Al momento in cui un nobile russo coglierà il fiore, Marusja riacquista le sembianze umane. Riconoscente, lo sposa, avrà un figlio. Ma, come si dice, il destino è in agguato. Alla fine, Marusja ritorna all'amato giovane-vampiro. Storia di una donna che «preferì perdere i suoi cari, se stessa e la sua anima piuttosto che il suo amore» la definì la stessa Cvetaeva.
Sullo sfondo, aggiunge, «la Russia, rossa di un rosso diverso da quello dei suoi drappi d'oggi». Ecco che nei 43 lavori, Natalia Gontcharova riesce a ricreare l'atmosfera terribile di un poema estremamente drammatico (ma anche la delicatezza di un amore e di una passione senza confini) spesso scandito — così come avviene in musica — nel solfeggio. Che la poetessa russa traduce nell'uso quasi ossessivo del trattino («Costretta dalla necessità della mia ritmica, cominciai a smembrare, a spezzare le parole in sillabe per mezzo del trattino, insolito nei versi […] rividi coi miei occhi quei testi di romanze della mia infanzia tutti coperti di trattini legittimi e mi sentii purificata: tutta la musica mi pareva purificata da ogni "modernità"», annoterà).
Trattino, che per Iosif Brodskij «cancella via una grossa fetta della letteratura russa del XX secolo».
Qui, abbandonata ogni decorazione orientaleggiante, Natalia Gontharova torna ad una sorta di naturalismo iniziale che, da allora, si ritroverà in buona parte della sua produzione grafica.
Qualcuno ha osservato come, addirittura, i suoi disegni superino le musicalità dei versi. Ma forse non ha letto per intero il poema della Cvetaeva.
NATALIA GONTCHAROVA Genova, Galleria Martini & Ronchetti, sino al 31 gennaio. Tel. 010/596962

Corriere della Sera 23.12.07
Neuroscienze. Nuove scoperte
La mente si accende prima del piacere
di Cesare Peccarisi


Due secoli fa Giacomo Casanova anticipava ciò che le neuroscienze hanno poi scoperto sui meccanismi cerebrali che regolano la felicità nell'uomo. Per quanto l'uomo e gli altri animali condividano le stesse fonti basilari del piacere (nutrimento, sesso, vittoria su nemici e pericoli), la nostra specie - come sottolineava il celebre libertino veneziano - ha una fonte di felicità in più: l'anticipazione del piacere. La capacità di prefigurarlo, oltre che di riflettere su di esso dopo averne goduto. Oggi, studiando il cervello con opportune apparecchiature, abbiamo potuto "vedere" come i circuiti cerebrali che si "accendono" quando immaginiamo un piacere futuro non sono gli stessi che si mettono in moto quando quel piacere lo stiamo realmente gustando, ma tutti usano la stessa benzina neurochimica. A questo "carburante del piacere" è legata anche la serotonina, il neurotrasmettitore dell'ottimismo che ci consente di gustare la vita, indipendentemente da quello che poi accade nella realtà. Il parallelismo fra i risultati di queste ricerche e le riflessioni di Casanova per il quale la felicità nasce solo dalla possibilità di soddisfare le tre necessità basilari del nutrimento, del sesso e di annullamento del nemico è apparso evidente a uno dei pionieri dello studio dei meccanismi cerebrali di questi sentimenti: Gian Luigi Gessa, professore emerito di Farmacologia dell'Università di Cagliari che, dopo aver riscoperto Casanova, lo ha elevato a simbolo del "piacere neurochimico".
Ma se la realizzazione del desiderio di nutrirsi, riprodursi e liberarsi dai nemici apre la porta della felicità, sia come atto realmente compiuto che come atto solo pregustato, qual è la chiave che fa scattare la serratura? «Come dice Gessa — spiega Giovanni Biggio, farmacologo dell'Università di Cagliari e prossimo presidente della Società italiana di Neuropsicofarmacologia — la chiave è la dopamina, uno dei neurotrasmettitori che trasportano gli impulsi da una cellula nervosa all'altra. Questa sostanza è prodotta dai neuroni dopaminergici che sono fra i più importanti del sistema nervoso, perché, oltre al piacere, controllano funzioni essenziali per la sopravvivenza, ad esempio il movimento. Si trovano soprattutto nel sistema nigro- striatale (fondamentale nella malattia di Parkinson, in cui viene compromesso) e in quello mesolimbico-corticale. Quest'ultimo comprende strutture del cosiddetto "cervello emotivo", come il nucleo accumbens o l'amigdala e strutture più elevate come la corteccia cerebrale entorinale, tutte importanti per i meccanismi della felicità o, dal punto di vista patologico, per le psicosi deliranti ».
«Stimoli fisiologici — prosegue Biggio— come sesso e cibo, o stimoli artificiali come droghe e stimoli elettrici capaci di mettere in moto i meccanismi della motivazione e della ricompensa, inducono il rilascio di dopamina soprattutto nel nucleo accumbens, la cui lesione sopprime, infatti, il piacere prodotto da questi stessi stimoli. Prima, durante e dopo un buon pranzo, un incontro sessuale o altre esperienze piacevoli, la dopamina aumenta nelle aree limbiche e nella corteccia prefrontale e frontale antero-mediale ».
«Quella che in particolare viene prodotta nella corteccia cerebrale mesolimbica — aggiunge Biggio — sembra coinvolta nel controllo della fase anticipatoria del comportamento sessuale maschile, piuttosto che in quella del "consumo". E anche quando si tratta di stimoli che anticipano la presentazione di un pasto si verifica (nel ratto) un aumento di dopamina nell'accumbens. La stessa cosa accade in "risposta" a cibi molto appetitosi, o per la disponibilità di cibo dopo un periodo di digiuno».
È un po' quello che succede quando, alla vista delle vetrine colme di panettoni, siamo presi dalla felicità di assaggiarne presto qualcuno. Pensate a un clochard che ne riceva uno in dono: quel panettone si trasforma in un'ondata di dopamina che gli regala un momento di inattesa gioia fisiologica, cui contribuisce anche il sentimento di gratitudine che, secondo recenti studi di psicologia positivista, farebbe aumentare i livelli di felicità del 25 per cento. «Solo da poco la gratitudine viene studiata scientificamente» sottolinea Robert Emmons, professore di psicologia all'Università Davis della California e autore del libro "Grazie: come la nuova scienza della gratitudine può rendervi più felici", appena pubblicato negli USA, in cui racconta come questo sentimento possa aiutarci a controllare il nostro livello di felicità insegnandoci a gestire l'emotività. «A qualcuno non piace parlare di questi argomenti che considera troppo spirituali, — spiega Emmons — altri non vogliono sentirsi obbligati con chi li ha aiutati, ma così non si rendono conto dell'energia e della felicità che potrebbero provare se invece imparassero a dire grazie al prossimo».

Corriere della Sera 23.12.07
Il grande medico: Chi è contento campa cent'anni
di Claudio Mencacci, Direttore Dipartimento Psichiatria A.O. Fatebenefratelli, Milano


Limite della medicina - per lo meno nella nostra tradizione - è essersi sempre occupata della malattia. Nel corso dei millenni, da Ippocrate ai moderni ospedali, noi medici siamo intervenuti per riparare la sofferenza una volta che questa si era instaurata. Ci siamo occupati poco della felicità e del benessere.
Relativamente solo da pochi anni la felicità sta invece diventando un campo di ricerca. L'ambizione dell'Organizzazione mondiale della sanità, che definisce la salute come uno "stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia", sta solo ora diventando una realtà. Che cosa sta succedendo, siamo di fronte alla "ricerca della felicità"? Stiamo assistendo a un'ambizione velleitaria, o siamo davanti a un modo più completo di occuparci della salute delle persone?
È evidente da tempo che la tristezza genera malattie. Molto è stato scritto sull'evoluzione di emozioni negative come la rabbia e la paura o l'ansia e la depressione, ma solo di recente sono stati esplorati gli effetti sulla salute degli stati mentali positivi, come il piacere, l'amore, la felicità. Molti studi hanno confermato che quando un individuo si trova in uno stato emotivo positivo l'attenzione è più estesa, la creatività è ampliata e si è maggiormente orientati alla risoluzione dei problemi. La ricerca scientifica oggi inizia a considerare il piacere come una componente potenziale della "salutogenesi".
Ma qual è la natura della relazione tra salute fisica e benessere soggettivo e felicità, quali gli effetti? È la condizione di buona salute che produce benessere, o il benessere che induce una buona salute fisica? Innanzitutto vi sono studi che mostrano come vi sia una correlazione tra emozioni positive e stili positivi di vita. Diversi studi hanno dimostrato il coinvolgimento di varie aree cerebrali del sistema limbico, variazioni dell'ossitocina, vasopressina, dopamina e serotonina, ma anche a livello immunitario con un aumento della secrezione di una immunoglobulina A e la riduzione della secrezione salivare di cortisolo (l'ormone dello stress). Vi è inoltre un coinvolgimento delle endorfine, dei neuropeptidi e delle principali vie regolatorie neuroendocrine, delle citochine e del sistema della risposta infiammatoria. Stiamo assistendo insomma al delinearsi della "neurochimica della felicità", così come si sta tracciando in modo sempre più chiaro la "neurobiologia dell'amore".
Non stupisce dunque che ricercatori evoluzionisti abbiano proposto l'affascinante teoria che le emozioni positive siano un efficace sistema per consentire il proseguimento della specie. L'attenzione al benessere e alla felicità sta portando la ricerca scientifica a occuparsi delle forme con cui l'uomo ha cercato di conseguire questi obiettivi nei millenni; in questo quadro risultano più comprensibili i recenti studi di fisiologia, neurofisiologia e neuroimaging riguardanti la meditazione. Così come gli studi nei quali si cerca di valutare il contributo dell'elemento religioso (un recente studio ha dimostrato una mortalità minore nell'attesa e durante i periodi festivi religiosi).
La comprensione di tutti questi meccanismi deve portare - e sta già portando - a un cambiamento della pratica medica con una sempre maggior attenzione per le persone, la loro felicità e i loro bisogni, siano essi fisici, relazionali fino a quelli spirituali, anche laicamente intesi. Come stupirsi ora quando alcune ricerche mostrano una correlazione tra felicità e longevità?

il Riformista 22.12.07
Il primato del denaro ha contagiato la sinistra
I riflettori sono per gli affaristi e i lavoratori sono come invisibili
di Alfiero Grandi


Il problema che pone Emanuele Macaluso nel suo intervento è reale, perché non si può continuare ad avere attenzione mediatica e politica sui temi del lavoro solo quando accadono tragedie come quella di Torino. La tragedia ci pone, immediatamente, delle domande, ma la prima e più angosciante è: come è stato possibile che quasi 16 milioni di lavoratori siano diventati pressoché invisibili? Le spiegazioni potrebbero essere molte, e tuttavia due mi sembrano centrali e tra loro collegate. La prima è che un profilo culturale e sociale diffuso tende a collocare, nella fascia bassa della scala sociale, chi lavora e fa il suo dovere oltre che con fatica, con il corrispettivo di bassi salari e, a volte, con rischi per la salute e talora la vita, e a mettere in alto i furbi, gli affaristi, gli speculatori e i protagonisti di facili e rapidi guadagni. Il denaro, insomma, non importa come guadagnato, è posto in cima alla scala dei valori.
La seconda spiegazione è la subalternità di fatto a questa graduatoria, a cui è arrivata gran parte della sinistra, che, da un certo momento in poi è sembrata quasi vergognarsi del ruolo di rappresentanza del mondo di chi lavora, di chi vorrebbe lavorare o ha lavorato.
Non nego che in fondo non va molto più in là chi pensa che la protesta sia sufficiente, affrontando in modo inadeguato e con approssimazione il problema di una condizione di lavoro e di vita concreta, insopportabile che va assolutamente modificata. Tutto questo ha radice in un sistema economico che ha fatto della precarizzazione diffusa, del decentramento produttivo in aree di bassi salari, la risposta alle inadeguatezze della competitività del sistema produttivo. Il profitto stesso da un certo punto in avanti vive una vita propria, quasi separata dai risultati aziendali, dall'andamento delle condizioni di lavoro, dagli investimenti, dalla ricerca e dall'innovazione. Ho letto che nel 2007 i profitti aumenteranno del 15 per cento, i salari, se va bene, del 3 per cento. Questo spiega perché la forbice tra i redditi, in Italia, sia cresciuta in modo impressionante, raggiungendo livelli che non hanno né fondamento, né giustificazione.
La discussione sul tetto alle retribuzioni dei dirigenti pubblici ha il merito di aver rivelato come anche questo settore sia stato coinvolto dal clima generale del privato, che pure ha ben maggiori dimensioni. Macaluso ha ragione quando sottolinea che i sindacati, in sostanza, pur indeboliti, sono tuttora l'áncora per i lavoratori, perché se il loro ruolo venisse a mancare, si affievolirebbero anche le speranze di modificare la situazione. Tuttavia, c'è un punto, nell'intervento di Macaluso, che non mi convince, ed è il dare per scontato che dalla politica verrà ben poco, o peggio, perché passata l'emozione la questione operaia si oscurerà ancora, in quanto non c'è alcun partito che abbia un riferimento forte nel mondo del lavoro.
Forse l'analisi di Macaluso è solo più pessimistica della mia, eppure mi sembra che qualche elemento di novità e di attenzione verso il mondo del lavoro, nel corso della discussione sulla legge finanziaria 2008, sia al Senato che alla Camera, c'è stato, e al riguardo, vorrei sottolineare l'impegno a dare una risposta, anche sotto il profilo fiscale, ai lavoratori dipendenti. Un tema posto con forza dalla sinistra, che è da registrare come una novità importante.
Per la prima volta, dopo molti anni, ha vinto la proposta di parlare esplicitamente di interventi di riduzione fiscale a favore del lavoro dipendente, superando quasi di slancio la genericità di un intervento sul fiscal drag. Il dibattito è stato forte, le perplessità da superare tante, il punto d'arrivo è stato un poco fortunoso, ma alla fine ci si è arrivati. Segno che non tutto è perduto.
La norma, entrata in finanziaria, impegna l'extragettito fiscale del prossimo anno, libero da altri vincoli, in un fondo da utilizzare per la riduzione delle tasse ai lavoratori dipendenti. Certo, ha il limite di essere una promessa, sulle entrate tributarie del 2008, ipotizzando che ci sarà un extragettito, cosa per me scontata, ma soprattutto, è basata sul presupposto che ci sia una stabilità politica, e tutti noi conosciamo i pericoli che sovrastano la maggioranza di centro sinistra. Se si realizzerà sarà una svolta politica rilevante. Naturalmente, un intervento fiscale non risolve, da solo, né il problema degli aumenti salariali per via contrattuale, né la salvaguardia dall'inflazione, e tuttavia è pur sempre un aspetto importante del far crescere il reddito dei lavoratori.
Purtroppo, ho la sensazione che risultati come questo non siano tenuti in debita considerazione, anche come indicazione politica di un cammino da percorrere, e in questo caso anche i sindacati non si sono spesi più di tanto. Credo che il difetto stia nel considerare ormai perduta la battaglia sotto il profilo più strettamente politico, ma ritengo sia un errore, perché non solo ci sono spazi da cogliere, e che sarebbe sbagliato sottovalutare, ma se fosse vero che restano solo i sindacati a occuparsi dei lavoratori, il futuro sarebbe, probabilmente, di subalternità e di minorità, con il rischio di diventare una categoria sociale come le altre, solo un po' più grossa.
Vale la pena di riprendere il filo di un discorso politico in materia di lavoro, anche con scelte emblematiche. Ad esempio, in materia di incidenti sul lavoro occorrono fatti: sia sotto il profilo dei controlli sia dell'applicazione delle leggi, con la necessaria durezza e anche con la revisione di norme che hanno portato i superstiti a ricevere rendite basse e non rivalutate nel tempo, e le famiglie dei morti a ricevere sostegni indegni di un paese moderno e civile. Tutto questo mentre ogni anno l'Inail ha un surplus di 2 miliardi di euro. Segnali come questi potrebbero portare i lavoratori fuori dalla zona d'ombra in cui sono relegati.

Liberazione 23.12.07
Rossanda ha ragione, ma...
La sinistra e le persone diventate cose
di Marco Revelli


Sono del tutto d'accordo con Rossana Rossanda quando, nelle ultime righe del suo editoriale su questo stesso giornale, chiama i partiti della "grande S" a una prova di rapidità e di responsabilità. Ad "andare subito al massimo di unità d'azione", senza mollare finché non abbiano chiaro cosa (per poco che sia) li tiene - e ci tiene - assieme. E soprattutto a prendersi sul serio come passaggio, finendola di "chiuderlo ad ogni momento".
Dice proprio così: "come passaggio". E non potrebbe dirlo meglio. Perché questo significa, per come lo leggo io, che nessuno è, oggi, con la propria identità e struttura, la soluzione. E nessuna soluzione organizzativa che venga posta in essere nella transizione attuale, può essere considerata definitiva. Un passaggio non è un contenitore. Men che meno la strutturazione di un'identità già definita. E' un punto di scorrimento e di superamento. Una breccia aperta in un muro. Un "ponte", appunto, su cui transitare dal territorio politico terremotato che abbiamo di fronte (l'alluvione di cui parla Rossanda) a una forma della politica inevitabilmente altra rispetto a quella di cui subiamo e soffriamo oggi la crisi.
Nessuna, delle attuali formazioni partitiche della cosiddetta "sinistra radicale" è - io temo - da sola in grado di traghettare alcunché: rischiano di essere, ognuna presa a sé, quale più quale meno, liane sottili che pendono da rami ormai quasi secchi. E forse neppure la loro somma aritmetica (quella algebrica rischierebbe di sfiorare lo zero), la giustapposizione delle rispettive strutture organizzative, il coordinamento dei loro gruppi dirigenti, basterebbe a costituire un ponte ampio a sufficienza per sostenere l'esodo dal nostro pessimo presente. Ma il segnale offerto, l'apertura, appunto, di un varco, la dichiarazione di una volontà non ammalata di miopia e di autoreferenzialità, quello sì forse potrebbe rimettere in moto la moltitudine di soggettività che ora affondano nella palude del fallimento della sinistra politica d'inizio secolo. Riattivare un processo di elaborazione collettiva che ci restituisca la possibilità di pensare un diverso esistente possibile.
Per questo mi lasciano freddo, e dopo un po' mi infastidiscono, i capelli spaccati in quattro sulle questioni delle rispettive identità (tutte, d'altra parte, vistosamente danneggiate). E dei rispettivi confini (tutti, da tempo, diventati più porosi di quelli degli Stati nazionali). Così come mi spaventano i balli sul ponte del Titanic, a misurare le rispettive vocazioni governative o le complesse compatibilità genetiche, confondendo la legge elettorale con la legge darwiniana della selezione della specie, e guardando ognuno ai dati effimeri dei sondaggi mentre l'acqua nelle stive continua a salire. Avrei voluto che sei mesi fa, e poi subito dopo il 20 ottobre, e magari prima della discussione della finanziaria, i quattro partiti della "cosa rossa" si fossero messi d'accordo non su tutto, nemmeno sulla maggior parte delle questioni ma, che dire?, su tre, quattro punti qualificanti - magari in tema di pace e di guerra, di migranti e razzismo, di sicurezza sul lavoro e di laicità dello stato -, su cui non tornare più indietro. E su cui ricominciare il dialogo con la "loro gente", quali che fossero le reazioni di Dini o Mastella.
Questo per quanto riguarda il metodo. Per quanto riguarda invece il merito, l'editoriale di Rossanda mi lascia più dubbioso. In particolare là dove richiama un tema che da tempo viene ripetendo con tenacia: la questione della centralità del rapporto tra capitale e lavoro. L'oscuramento del ruolo e della crucialità del lavoro salariato. Intendiamoci, la questione è decisiva - l'abbiamo misurato, con dolore e disperazione, nel caso della Tyssen-Krupp -, e la sua scomparsa dall'agenda politica e finanche dal lessico del discorso pubblico è a sua volta il segno di una crisi mortale del "politico". Di una sua separazione drammatica dal "mondo della vita", come ha di recentemente affermato Fausto Bertinotti.
E tuttavia, temo che non basti riaffermare che "invece il salariato non è mai stato così esteso" nel mondo e anche nelle nostre società avanzate, per superare l'impasse. Né sarebbe sufficiente che gli intellettuali, chierici traditori, ritornassero a richiamare l'analisi scientifica di Marx riparando almeno in parte al loro tradimento. L'oscuramento, temo, continuerebbe. Forse ci sentiremmo meno soli nella comunità dei dotti, ma là in basso, dove si continua a lavorare e misurare con i propri corpi la materialità del lavoro, temo che la solitudine non si attenuerebbe. Né la consapevolezza crescerebbe.
Il fatto è che, pur nella permanenza quantitativa dell'esercito del lavoro salariato, esso non produce più "soggettività" antagonistica e organizzata. Protagonismo storico. Il capitale variabile, per usare le categorie di Marx, non si fa più soggetto sociale. Rimane nella sua forma "economica" di lavoro vivo dominato dal lavoro morto. Anzi: trapassa silenziosamente, ma massicciamente, nella dimensione "oggettivata" del "capitale fisso", man mano che la vita stessa dei lavoratori, l'insieme delle loro funzioni relazionali e mentali, la totalità della loro dimensione vivente viene trasformata in mezzo di produzione. Nell'epoca in cui il capitale entra nella vita del lavoratore e se la incorpora nella sua totalità, trasformando ognuno di noi in un pezzo di capitale, e non in quello, appunto, "variabile" - la parte destinata alla riproduzione della forza-lavoro, alla remunerazione delle risorse necessarie a vivere -, ma in quello "fisso", composto un tempo dalle macchine, dai prodotti del sapere accumulato negli oggetti meccanici, e costituito, oggi, anche da sezioni delle nostre menti. Dai saperi incorporati nei nostri cervelli, e diventati parte dell'apparato cognitivo e produttivo. Dalle nostre funzioni linguistiche, con cui elaboriamo il tessuto comunicativo che fa funzionare il sistema flessibile della produzione postfordista. Delle nostre relazioni informali, diventate funzioni essenziali dell'organizzazione a rete delle imprese. Così come i nostri Tfr, i nostri salari differiti e le nostre vite future si fanno, a loro volta "capitale finanziario". E i nostri salari impegnati nel credito al consumo entrano nel circuito del capitale circolante, che ci comanda più di quanto non facesse ieri il "capo" imponendo di lavorare sempre di più per pagare le rate dei debiti, o il mutuo della casa, e comunque ciò che già abbiamo consumato...
E' questo nostro "farci capitale", con i nostri corpi e con le nostre menti, e con il nostro futuro già "impegnato", nell'epoca del capitalismo totale e personale, che rende così problematica la costituzione del lavoro salariato in soggetto antagonistico. O anche solo in identità distinta, e capace di stare nella storia e nella società come identità distinta. Che ne terremota l'identità pregressa, e ne rende così problematica la rappresentanza, e fin anche la rappresentazione. La costruzione di un racconto condiviso, in cui le diverse figure del lavoro possano riconoscersi.
Ed è per questo che mantenere aperto il "passaggio" è così importante. Perché le acque non si richiudano prima che la parola torni a farsi sentire nell'universo altrimenti muto delle cose (degli uomini trasformati in cose).

Liberazione 23.12.07
Michele Salvati, il principale intellettuale dei "democrat", dalle colonne del "Corriere" chiede un «benevolent dictator»
«Democrazia inefficiente, meglio la dittatura»
Uno dei fondatori del Pd lancia l'idea-choc
di Rina Gagliardi


Quelli di noi che hanno qualche anno, impararono a conoscere la firma di Michele Salvati nel '68 e dintorni, sulle pagine di "Quaderni piacentini", dove il nostro scriveva saggi di agghiacciante radicalismo. Poco dopo, Salvati imboccò altre strade, vinse una cattedra universitaria, divenne un rispettabile guru della sinistra moderata e un pensatore à la page. I più giovani, oggi, lo conoscono come "fondatore spirituale" (si fa per dire) del Partito Democratico, per favorire la nascita del quale egli ha redatto manifesti lunghi e solenni e si è impegnato allo spasimo. Insomma, tra i maitres-à-penser del nostro tempo, Michele Salvati è sembrato incarnare al massimo livello l'intellettuale democratico: incline, certo, al moderatismo neoliberale, con qualche sfumatura socialisteggiante e qualche eco di Norberto Bobbio, ma indubitabilmente democratico, con la di minuscola e con la di maiuscola. Tutta questa premessa solo per esprimere lo sconcerto (e lo sconforto) che ci ha prodotto la lettura dell'editoriale di ieri del Corriere della sera: scritto di pugno, appunto, dallo stesso Michele Salvati (che nel frattempo è anche diventato una delle firme del quotidiano di via Solferino), l'articolo teorizza l'obsolescenza della democrazia, anzi la boccia spietatamente, e propone, per il futuro della politica italiana, un regime sostanzialmente dittatoriale. Autoritario, elitario, oligarchico. A-democratico o post-democratico, fate voi. Il titolo ( "L'illusione del dittatore") cerca di attenuare la sostanza, che però è invece molto chiara. E, temiamo, molto grave. Diamine, l'intellettuale più importante del partito italiano più grande (stando ai numeri parlamentari attuali) che scrive sul più grande e più importante quotidiano italiano non configura, no, una faccenda di ordinaria routine. Se non è una svolta storica, poco ci manca. Se le parole sono pietre, come diceva Carlo Levi, quel poco che rimane in piedi della democrazia italiana viene lapidato, come una povera adultera in un paese coranico.
***
Ma seguiamo le ragioni per le quali Salvati (e il Corriere) hanno ormai in uggia il sistema democratico ed auspicano la nascita di un benevolent dictator (un dittatore illuminato di cui, per altro, non si hanno molti esempi nella storia. Un'eccezione, forse, ci sarebbe: Fidel Castro. Che il lider maxismo di Cuba stia diventando, nel suo ultimo squarcio di vita, un modello per l'occidente? Mah…). Si muove da un'analisi durissima dello stato dell'Italia: economia declinante e stagnante, debito abnorme, illegalità diffusa, inefficienza massima di tutto ciò che è pubblico, dall'amministrazione alla scuola - e così via. Un Paese allo sbando, dice Salvati, che non regge alla competizione internazionale ed è superato da tutti, perfino dalla Spagna. Un Paese che avrebbe bisogno, per evitare un declino che si annuncia oramai come irreversibile, di una terapia-choc. Si badi bene all'analisi, e alla diagnosi, che vengono così formulate: sono svolte in toto dal punto di vista, come si diceva una volta, della borghesia imprenditoriale, gli interessi, i problemi e il declino incombente della quale vengono tout court identificati con quelli dell'Italia. Non c'è traccia, in questa "grida", della crisi sociale che avviluppa il paese, dell'impoverimento di massa, della strage quotidiana dei morti di lavoro, della precarietà che distrugge milioni di vite e quindi anche ogni possibilità progettuale. Ci sono, invece, tutte le istanze delle imprese, assurte a valori generali e a compiti prioritari della politica: "legalità, efficienza, concorrenza, merito" . Le parole-chiave di una società sempre più simile ad una modernissima giungla: che seleziona i "migliori" sulla base della logica del mercato e dell'impresa (e del successo individuale eventualmente raggiunto) e caccia nell'inferno chi non ce la fa; che punta la sua crescita su gerarchie e disuguaglianze crescenti; e che considera lo Stato - il Pubblico - un indebito e malaugurato impiccione.
Esaurita, anzi obsoleta, anzi pericolosa ogni vocazione ad intervenire sugli squilibri della società, in senso perequativo e redistributivo, allo Stato (e alla politica) spetta in realtà un unico compito: la repressione. Sia del "disordine" e del conflitto sociale, eventualmente della criminalità che disturba il business, e degli "interessi particolari": che poi sono tutti quelli che, a loro volta, infastidiscono il libero dispiegarsi della logica d'impresa - corporazioni, ma anche e soprattutto lavoratori, e lavoratori organizzati in specie.
Una società così modellata può ancora pensarsi come democratica? Sia pure con tutti i limiti della nostra acciaccatissima democrazia rappresentativa? Certo che no. Per quanto forti siano gli attuali poteri forti, per quanto grande (enorme) sia il loro potere di condizionamento, l'Italia dispone pur sempre di alcuni e rilevanti anticorpi all'ipotesi di ridurla ad una società-azienda, ed a uno Stato che funziona esclusivamente come "comitato d'affari della borghesia". Tra questi anticorpi c'è, giust'appunto, un sistema politico democratico, anch'esso certo in crisi galoppante, che però resta fondato sulla libertà di voto, sul consenso necessario per governare, al centro e nei territori, sul ruolo di controllo e sorveglianza delle istituzioni parlamentari, insomma su alcuni poteri della politica, per altro sempre più deboli, inestricabilmente connessi con alcuni diritti fondamentali dei cittadini. Ma è proprio su questo che Salvati eccepisce: "ci sono problemi" scrive testualmente "difficilmente trattabili in democrazia". E sono i problemi più importanti, che richiedono soluzioni "impopolari" e di "lunga lena": il governo che le adottasse, uscirebbe sicuramente bocciato dagli elettori, tutti egoisti, tutti miopi, o tutti incapaci (il classico "popolo bue") di capire davvero in che cosa consiste l'interesse superiore - il bene vero del paese. E quindi? Quindi, l'unica soluzione possibile dell'aporia è il vecchio nodo gordiano: se interesse del paese (cioè della borghesia) e pratica della democrazia non coincidono e anzi confliggono, basta tagliare uno dei corni dilemmatici - il secondo. Eliminarlo, o lobotomizzarlo, o sterilizzarlo. Altro che proporzionale o maggioritario, altro che riforma elettorale. L'unica buona riforma elettorale, secondo Salvati, è quella che inibisce le elezioni ("gli slogan populistici e delegittimanti") e consegna tutto il potere politico alle "élites politiche" (?) illuminate: ovvero, l'incarnazione attuale del benevolent dictator. Amen. Se il vero atto di nascita del Partito Democratico, a detta del suo leader Walter Veltroni, è stato il decreto di espulsione dei romeni, questa scoperta della bontà della dittatura getta un'ulteriore luce sull'identità effettiva - a torto considerata generica ed ecumenica - del nuovo ircocervo.
***
Il fatto è che, contrariamente a quel che fu detto nel corso della "grande ubriacatura" dell'89, capitalismo e democrazia non costituiscono, nient'affatto, una coppia organica, e men che mai indissolubile. "Fra sviluppo capitalistico e democrazia" ebbe a scrivere Rosa Luxemburg nel lontano 1898, nel pieno della così detta prima globalizzazione dell'economia "non può esser stabilito alcun rapporto generale assoluto…Il liberalismo è diventato superfluo, nella sua essenza, per la società borghese in quanto tale, ed oggi, sotto altri aspetti, esso è diventato addirittura un impedimento…a causa di due fattori, la politica mondiale e il movimento operaio…". Oggi, la globalizzazione capitalistica (e la sua crisi) inducono effetti analoghi a quelli di cui parlava Rosa: la corsa al riarmo, la guerra, la competizione mondiale sempre più sfrenata. Con una conseguenza quasi identica: l'insofferenza borghese per i "costi" della democrazia e della politica, il divorzio ormai celebrato tra borghesia e liberalismo. Come allora, una parte ampia, anzi maggioritaria, della sinistra si lasciò abbacinare dalle sirene della nuova fase di sviluppo. Ma come allora, "il movimento operaio e socialista è e può essere l'unico punto di appoggio della democrazia. Non i destini del movimento socialista sono legati alla democrazia borghese, ma piuttosto i destini dello sviluppo democratico sono legati al movimento socialista" (Rosa Luxemburg, 1898). Non è anche per questo che una nuova sinistra è diventata una necessità irrinviabile?

Liberazione 23.12.07
A Panebianco piace la tesi di Salvati. Tranfaglia e Marramao dicono: è la borghesia in decadimento...
Dittatore per guarire l'Italia? «E' una idea provinciale»
di Romina Velchi


Sembra il de profundis della democrazia quello che Michele Salvati ha tracciato ieri sul Corriere della sera . E qui il pessimismo della ragione non c'entra. E', piuttosto, un elogio dell'economia di mercato, quella i cui cardini sono la legalità, l'efficienza, la concorrenza e il merito. Più i sistemi istituzionali si avvicinano a questa condizione, più sono in grado di far progredire la società.
Sì perché, sostiene Salvati, «ci sono pochi dubbi che esistano problemi difficilmente trattabili in democrazia e che proprio da questi, purtroppo, dipende il declino del nostro Paese e la sfiducia che lo pervade». La democrazia ha essenzialmente un difetto: ci sono gli elettori. I quali condizionano le scelte politiche, mantenendo «rendite grandi e piccole», o «corporazioni che proteggono interessi particolari». Invece, «se vogliamo tornare a crescere», servono misure «ispirate a imperativi di legalità, efficienza, concorrenza, merito». Cioè, un'impresa «impopolare e di lunga lena», «due caratteri che rendono l'impresa difficile in ogni democrazia, perché i voti arrivano se si assecondano gli interessi e le mentalità prevalenti».
Se la democrazia non ce la fa, cosa resta? La domanda sorge spontanea: ci vuole un dittatore, ancorché illuminato? Salvati non si spinge a tanto. Infatti, ripete che il benevolent dictator (così lo chiama) è un «personaggio mitico», una «finzione», della cui benevolenza ci sarebbe pure da dubitare. Non resta, dice l'editorialista, che sperare nei «tanti ingegneri istituzionali» ai quali affidare «l'arduo compito di inventare un equivalente democratico del benevolent dictator, che renda possibile la formazione di governi autorevoli, capaci di affrontare misure impopolari e di sostenerle nel lungo periodo».
Una soluzione che non convince affatto Nicola Tranfaglia, giornalista e storico. «Mi sembra una pura esasperazione della linea veltroniana. E mostra tutta l'impazienza della parte centrista della coalizione di centrosinistra che, appunto, vorrebbe una "dittatura benefica" o almeno vorrebbe che si affrettassero quelle norme e leggi che permettano di eliminare la diSlscussione con la sinistra». In altre parole, spiega ancora Tranfaglia, l'editoriale di Salvati «fa dei problemi politici un problema tecnico, di rapporto tra le forze politiche. Il fatto che in Italia si fanno poche riforme dipende da una serie di mali antichi del nostro paese (una società molto corporativa, il dominio dell'industria familiare, il divario Nord-Sud). Mentre la risposta che propone Salvati - conclude Tranfaglia - è riduttiva e ideologica, laddove non affronta i problemi reali del paese».
Di tutt'altro avviso Angelo Panebianco, il quale condivide la lettera e pure lo spirito dell'articolo. «Intanto, l'ipotesi del dittatore illuminato è fittizia, di scuola - premette il politologo, importante firma del Corriere della sera - e, ovviamente, l'equivalente democratico non c'è. Però possiamo dire che comparando le democrazie, vediamo che alcune riescono meglio di altre (sempre entro certi limiti) a resistere alle pressioni dell'elettorato che si oppone a cambiamenti che possono intaccarne gli interessi particolari. Insomma, esistono assetti democratici che consentono di fare le riforme». Assetti che non possono che essere «di tipo maggioritario, come sostengono i cosiddetti political-economist». Perciò, ha ragione Salvati quando dice che «se tocchi le rendite perdi consensi»; e ha ragione «nel mostrarsi pessimista. Andiamo verso l'impoverimento e dovremmo chiederci perché da oltre un decennio la nostra crescita economica è così bassa». Ciò che fa male a tutti: «La sinistra non ridistribuisce e la destra non arricchisce. Salvati invita la classe dirigente a prendere atto di questa situazione e a risolverla. Come lui - conclude Panebianco - penso che sia improbabile che lo faccia».
Il filosofo Giacomo Marramao considera giusto il problema sollevato da Salvati, ma sbagliati la risposta e il destinatario della critica. «Secondo Salvati le rendite corporative fermerebbero lo sviluppo nell'economia di mercato. In realtà, la prospettiva che si deve aprire è quella della lotta alle rigidità corporative, ma non verso l'imperativo della flessibilità e dell'individualismo competitivo, bensì per creare le condizioni per promuovere a tutti i livelli le capacità e i talenti. Lo dice un liberale illuminato,non un marxista, come Amartya Sen che ci sono individui che per esprimere il proprio talento hanno bisogno di strutture sociali che li rassicurino. Insomma - aggiunge Marramao - non tutti danno il meglio di sé nella competizione». In questo senso, ragiona Marramao, «una società dinamica non è affatto compatibile con il senso di angoscia e di insicurezza rispetto alla precarietà del lavoro». E ce lo insegna proprio la Spagna, che ha saputo mettere in piedi «un circolo virtuoso fatto di economia e protezione sociale, dove il mercato del lavoro non è una giungla come da noi, e dove i giovani hanno più opportunità».
Quanto al destinatario della polemica, Salvati guarda nella direzione «sbagliata». Secondo Marramao, «le chiusure corporative riguardano la struttura castale della nostra società, alimentata dal capitalismo italiano, secondo il vecchio principio del divide et impera ». In altre parole, «bisognerebbe tornare a studiare la realtà italiana con gli strumenti che ci ha lasciato Gramsci». Scopriremmo che «le capacità culturali del nostro capitalismo sono oggi di gran lunga inferiori a quelle di qualche decennio fa. Pensiamo ai Pirelli, agli Olivetti, agli Einaudi. Non era un caso che Milano negli anni Sessanta fosse più avanti della Germania. Oggi - accusa Marramao - i nostri capitalisti appaiono angusti e provinciali. A costoro dico che la politica della precarietà e della paura alla fine non premia nemmeno l'economia di mercato».

Liberazione 23.12.07
Il professore commenta l'ordinanza del Tribunale di Firenze
Rodotà: «Rivedere la Legge 40. Sui temi etici la Dc era molto meglio»
di Davide Varì


«E' un'ordinanza molto importante che pone di nuovo l'urgenza di rivedere le linee guida della legge 40». Stefano Rodotà accoglie in questo modo la decisione del tribunale di Firenze di assecondare il ricorso di una coppia stabilendo che la diagnosi preventiva è legittima liddove c'è il rischio di trasmettere una grave malattia genetica, ed è inoltre lecito rifiutare il numero obbligatorio di tre embrioni se una gravidanza gemellare può compromettere la salute della donna.
Il professor Rodotà sottolinea anche, e non è un caso, che le ultime quattro sentenze che hanno scardinato la legge 40 siano state pronunciate da giudici donna: «Un contributo di sensibilità e cultura femminile che permette una lettura più aperta e attenta delle norme costituzionali».

Professore, ancora una volta un tribunale della Repubblica che sconfessa la famosa legge sulla procreazione assistita...
E' un'ordinanza eccellente che va nella giusta direzione e pone un problema: l'urgenza delle nuove linee guide gia annunciate dalla ministra Turco che eliminino le forzature della legalità contenute nelle norme attuali.

Non è la prima volta che un tribunale, se non la Cassazione, scardina quella legge...
Certo, posso citare almeno tre casi: la Cassazione che ha esaminato la questione dell'interruzione dei trattamenti e il diritto a morire con dignità nel caso di Eluana Englaro; un'ordinanza di Roma che ha scagionato l'anestesia per la morte di Piergiorgio Welby; e l'ordinanza del Tribunale di Cagliari che ha ammesso la diagnosi preimpianto. Infine il recente caso fiorentino. E tutte queste sentenze hanno una cosa in comune: sono tutte state emesse da donne. Un caso? Non credo. E' piuttosto un contributo di sensibilità e di cultura femminile che permette una lettura più aperta e attenta delle norme costituzionali.

Eppure la revisione della legge 40 non sembra all'ordine del giorno. Che dovrebbe fare questo governo di centrosinistra?
Innanzi tutto la politica non dovrebbe fare polemiche sulle sentenze. Ricordo critiche alla sentenza del caso di Eluana anche da chi quella sentenza non l'aveva letta. La politica deve capire che queste sentenze non fanno altro che ristabilire i principi costituzionali. Solo chi si ispira ed antepone direttive esterne - la mia fede, la mia religione, la mia chiesa, la convenienza dei rapporti politici - ecco, solo chi fa questo assume atteggiamenti critici verso queste ordinanze.

Sembra proprio che anteporre i propri particolarissimi valori sia la moda del momento anche all'interno di forze centrosinistra. Come uscirne?
Si sta giocando una partita molto importante sul tema della laicità. Mi riferisco al manifesto dei valori del piddì e al voto in Senato della senatrice Binetti. Il mio timore è che si arrivi ad un compromesso "furbo" tra laici e cattolici del piddì solo per impedire esplosioni interne e nuovi "casi Binetti". L'unica guida deve essere la tavola dei valori rappresentata dalla nostra Costituzione, non possiamo inserire altri valori in modo surrettizio.

Qual è il limite della presenza della religione in politica?
C'è un esempio molto chiaro: la Costituzione. Ecco, la nostra Carta è il risultato della confluenza di tre culture: quella socialista, quella liberale e quella cattolica. Sarebbe assurdo non riconoscere l'importanza anche di quest'ultima...

C'è un però?
Certo, però, quando per esempio il cattolicissimo Giorgio La Pira si rese conto che il riferimento di Dio nella Costituzione poteva diventare un elemento di divisione ritirò la propria posizione. Anche il laico Benedetto Croce iniziò i lavori dell'assemblea costituente invocando «Veni Creatur spiritus». Ma nulla di tutto questo ha mai messo in discussione la laicità dello stato.

Ci sta dicendo che dobbiamo rimpiangere la Democrazia cristiana?
Quando si fece il referendum sul divorzio molti cattolici vicini ad Aldo Moro rifiutarono di fare la campagna. Oggi c'è una parte del mondo cattolico che fatica a venire fuori e ad esprimersi perchè c'è la posizione di una Chiesa che fatica ad accettare il dissenso. Voglio dire che la religione ha un ruolo fondamentale, ed è assurdo pensare che si possa procedere senza, ma il punto è che non ci deve essere nessun autoritarismo di idee e non devono esistere norme non negoziabili. La politica è compromesso in senso alto e chi è portatore di cultura religiosa non può pensare di essere portatore di verità assoluta.

Vie d'uscita?
Dobbiamo riportare il confronto verso l'alto, verso la Costituzione che, come dici Carlo Azeglio Ciampi, deve essere la nostra "bibbia laica". Per tanti anni il tema portante della sinistra è stato proprio il rispetto e l'attuazione della Costituzione. Al pari del presidente della Repubblica credo che si debba pensare ad una manutenzione della parte seconda della nostra Carta, ma considerare inviolabile tutta la prima, quella dei principi, delle libertà e dei diritti.