venerdì 28 dicembre 2007

l’Unità 28.12.07
Campidoglio, sulle foibe la sinistra contro il Pd
Si vota il bilancio, passa un emendamento di An sui «viaggi di studio». E la maggioranza si spacca
di Maristella Iervasi


VENERDÌ 21 dicembre. Nell’aula Giulio Cesare del Campidoglio occhi puntati sul bilancio di previsione 2008 del Comune. Ma nella manovra è passata in secondo piano un’accesa discussione: per il finanziamento di 55mila euro per un progetto di memoria sulle foibe. Cos’era successo? Alleanza Nazionale tempo fa aveva presentato un emendamento a favore dei viaggi di studio per conoscere la tragica storia delle Foibe. Progetto sulla memoria che, a sorpresa, quel venerdì precedente il Natale, fu inserito nel maxi emendamento presentato dalla Giunta capitolina, comprendente anche altri progetti, come la notte bianca della solidarietà, sempre proposta da Alemanno di An e il museo della Shoa. Immediate le proteste della sinistra. Il Consiglio comunale alla fine ha comunque approvato il maxi emendamento con 45 voti a favore, 5 contrari (3 di Rifondazione, uno del Pdci e uno di Sinistra democratica) e un astenuto.
Come è ovvio, la sinistra si è arrabbiata non appena ha letto il testo del maxi emendamento, scatenando un’accesa polemica. «Abbiamo fatto tante riunioni maggioranza e non siamo mai stati avvertiti: né nel merito e né nel metodo», replica ora Adriana Spera di Rifondazione comunista. Ma andiamo con ordine. Dopo lo stupore in aula, un pezzo della maggioranza ha chiesto il voto per parti separate, ovvero ha votato contro la parte riguardante le foibe.
«È inaccettabile - ha detto il capogruppo del Pdci Fabio Nobile - che all’interno del maxi emendamento della giunta si finanzino espressamente iniziative di propaganda della destra. È il solito tentativo di dar vita a un’iniziativa che dà una lettura distorta e revisionista della storia». E prontamente gli ha fatto subito eco il capogruppo di Sinistra democratica Roberto Giulioli: «La parte relativa alle foibe - ha sottolineato l’esponente di Sd - non c’era quando abbiamo concordato il maxi emendamento. Non è detto che la maggioranza debba approvare tutti i passaggi. La destra si è contrattata il proprio voto di bilancio sulla base di alcuni finanziamenti che ha ricevuto». Di tutt’altro avviso il capogruppo del Pd, Pino Battaglia, che ha tentato di fare da paciere: «Facciamo parte della maggioranza - ha ricordato ai colleghi - e ci siamo impegnati a votare il maxi emendamento», ha precisato. E sul merito ha aggiunto: «Sarebbe ora di fare un dibattito sereno sulla memoria. Le vittime delle violenze sono tutte uguali. Poi, chi vuole usare eccidi per bilanciarne altri commette un grave errore».
Ma Adriana Spera è irremovibile. Ancora oggi dice: «Non si possono portare gli studenti a visitare le foibe - sottolinea il capogruppo del Prc - e non spiegargli che in quei luoghi i fascisti organizzarono i primi campi di concentramento. E poi vorrei proprio sapere come avvengono questi viaggi-studio». Non si da pace la capogruppo: «Avrei preferito più sedute di Consiglio che mettere le istanze della destra in giunta. Invece...». E racconta che nelle diverse riunioni di maggioranza avevano concordato la manovra: «Abbiamo chiesto di non aumentare le spese e abbiamo proposto di definanziare l’intervento di restauro al Flaminio e quei soldi spenderli per bonificare gli argini del Tevere e dell’Aniene ma anche in opere di manutenzione usufruibili dai cittadini, come strade, marciapiedi e corridoi della mobilità. L’assessore Causi ci rispose che ci avrebbe pensato se fare o meno lo storno al Flaminio. Non ci ha detto, però, che nel frattempo aveva recuperato risorse per accontentare An. Per lealtà, dovevamo essere informati. Poi potevamo condividere o meno. E invece ecco che hanno messo sullo stesso piano chi ha combattuto contro la dittatura e chi l’ha sostenuta».

l’Unità 28.12.07
Desaparecidos italiani: «Processo per 140 indagati»
È la richiesta della magistratura: alla sbarra andrebbero dittatori e esponenti delle giunte militari sudamericane


ROMA La magistratura romana vuole processare i 140 tra dittatori, esponenti delle giunte militari e dei servizi di sicurezza di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay, Perù e Uruguay in carica a cavallo degli anni '70 e '80 accusati a vario titolo della morte di 25 cittadini di origine italiana nell'ambito delle attività di repressione degli oppositori previste dal cosiddetto «Piano Condor». Per questo motivo le ordinanze di custodia cautelare volute dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, nel momento in cui saranno notificate ai fini dell'estradizione in Italia, e al riguardo sarà interessato nei prossimi giorni il ministero della Giustizia, conterranno anche l'avviso di chiusura delle indagini, l'atto che precede la richiesta di rinvio a giudizio degli indagati. Omicidio plurimo aggravato, strage e sequestro di persona i reati contestati, a seconda delle singole posizioni, ai destinatari dei provvedimenti firmati dal gip Luisanna Figliolia.
Nomi eccellenti figurano nell'elenco dei destinatari delle misure cautelari: i dittatori Jorge Rafael Videla (Argentina), Jorge Maria Bordaberry ed il suo successore Gregorio Alvarez (Uruguay), l'ex predidente del Perù (1975-80) Francisco Morales e l'ex primo ministro Pedro Richter Prada (1979-80). Inoltre gli ex ministri argentini Walter Ravenna (Difesa), Juan Carlos Blanco e Alejandro Rovira (Esteri), l'ex capo della marina uruguayana Victor Ibargoyen, l'ex ministro dell'Interno paraguayano Sabino Augusto Montanaro Ciarletti (1967-89), l'ex capo dei servizi segreti cileni (Dina) Manuel Contreras, già condannato a 20 anni di carcere in Italia per tentato omicidio del presidente della Dc cilena Bernardo Leighton, avvenuto a Roma nell'ottobre del 1975, e l'ex colonnello brasiliano Carlos Alberto Ponzi. Le ordinanze di custodia erano in origine 146 (61 argentini, 33 uruguayani, 7 boliviani, 4 peruviani, 11 brasiliani, 23 cileni e 7 paraguayani), ma nel frattempo sei indagati sono morti. Una misura cautelare è stata eseguita in Italia ed ha riguardato Nestor Jorge Fernandez Troccoli, uruguayano di 60 anni già esponente dei servizi segreti della marina accusato della morte di sei italiani. L'uomo, ricercato anche dalle autorità del suo paese, si è consegnato qualche giorno fa alla polizia di Salerno, città dove risiede dal 1995, dopo aver letto su un quotidiano che era ricercato in patria sempre per vicende legate ai desaparecidos. Interrogato ieri a Regina Coeli dal gip Figliolia alla presenza di Capaldo, Troccoli ha detto di avere «solo obbedito agli ordini» e di non aver «ucciso nessuno». «Il mio compito - ha aggiunto - era solo di raccogliere informazioni e di fornirle ai miei superiori». A Troccoli si imputa il concorso negli omicidi di sei cittadini di origine italiana: si tratta di Ileana Sara Maria Garcia Ramos de Dossetti, Edmundo Sabino Dossetti Techeira, Yolanda Iris Casco Ghelpi de Elia, Julio Cesar D'Elia Pallares, Raul Edgardo Borelli Cattaneo e Raul Gambaro Nunez. Il suo difensore, Adolfo Domingo Scarano, ha annunciato che impugnerà l'ordinanza di custodia cautelare davanti al tribunale del riesame «perchè non sussistono le esigenze cautelari ed i pericoli di inquinamento delle prove e di fuga dell'indagato».

l’Unità 28.12.07
Governo o società, le due anime del Pci
di Michele Prospero


A un convegno dell’Istituto Gramsci nel ’64 venne rimarcata la storicità e non la naturalità dell’istituto familiare

Nel ’68 le due letture diverse della realtà, una legata al dato politico, l’altra alla egemonia culturale cozzarono duramente

Nel periodo della grande espansione quello di Berlinguer e della solidarietà nazionale, avvenne un’altra collisione

GIUSEPPE CHIARANTE ricostruisce vent’anni di esperienza politica nel Partito comunista, dalla fine dei Cinquanta ai Settanta, vent’anni accompagnati dalla stessa polarità: il progetto di una alternativa sociale e quello di governare l’Italia

In questo libro di testimonianza (Con Togliatti e con Berlinguer, Carocci, pagg. 261, euro 22,50), Giuseppe Chiarante ricostruisce vent’anni di un’esperienza politica singolare. Egli infatti è l’unico politico ad essere stato sia nel consiglio nazionale della Dc che nel comitato centrale del Pci. Esponente della sinistra Dc sensibile all’insegnamento dossettiano, Chiarante aderì al Pci nel 1958 insieme ad un drappello di dirigenti soprattutto lombardi. Erano anni di enormi difficoltà per i comunisti, ancora alle prese con i contraccolpi del ’56 e con l’abbandono di un gran numero di intellettuali. Chiarante compiva, da questo punto di vista, una scelta in netta controtendenza in soccorso di un partito assediato. Pur venendo dal mondo cattolico, egli difficilmente può essere catalogabile nella formula del cattocomunista. Contatti soprattutto nei primi anni con Rodano ci furono, ma Chiarante si contraddistinse da subito per una sensibilità molto laica. Anzi proprio sui temi oggi chiamati eticamente sensibili, egli prese posizione con un rigore logico che Togliatti in prima persona gli riconobbe, contestandogli tuttavia la mancanza di senso della realtà.
Il nodo del contendere era anche allora la famiglia, al centro di un convegno dell’istituto Gramsci svoltosi nel 1964. Chiarante vi partecipò condividendo le posizioni che rimarcavano la storicità, non la naturalità dell’istituto familiare. La critica della concezione cristiano-borghese della famiglia, che a Frattocchie fu abbozzata, comportava la necessità di una profonda riforma della legislazione per toccare il rapporto tra i sessi. Erano i primi e timidi passi verso un nuovo diritto di famiglia e verso il divorzio. I rilievi di Togliatti riguardavano la pretesa astrattezza delle questioni relative alle libertà civili e personali. Come a dire, le reali questioni politiche sono altre.
Chiarante si schierò, in questi anni di lenta disgregazione della grande sintesi togliattiana, con la corrente della sinistra ispirata da Ingrao. Allievo anch’egli di Banfi, Chiarante condivideva i mutamenti di politica culturale tentati da Rossana Rossanda per andare oltre il rigido storicismo del Pci. Nelle argomentazioni della sinistra comunista lo attraevano in particolare una voglia di aggiornamento del catalogo degli autori. Per dare il senso della difficoltà di andare oltre gli schemi dello storicismo assoluto allora imperante, Chiarante ricorda un articolo di Carlo Salinari in cui si disquisiva sul posto ben diverso da conferire in una biblioteca ideale a Marx e a Wittgenstein. Dell’ingraismo Chiarante apprezzava soprattutto l’abbandono della lettura del caso italiano in termini di arretratezza da colmare con politiche di responsabilità nazionale. Si trattava del punto di forza del realismo politico di Togliatti e soprattutto di Amendola che raccomandava moderazione e senso del limite indispensabili per tamponare la deficienza di un coerente e moderno soggetto politico della borghesia.
Secondo Chiarante l’approccio di Amendola (ma un pessimismo cupo sulle disgregatrici tendenze sotterranee della società italiana lo coltivava anche Togliatti) si situava in un’ottica di rivoluzione passiva. La categoria di Cuoco viene impiegata nel senso che la modernità in Amendola è solo subita, non orientata con sfide che incidano anche sul versante etico-politico generale. Amendola affidava al Pci, d’intesa anzitutto con i socialisti, il compito di incalzare i governi in nome di obiettivi di riforma proclamati solo a parole. Ai comunisti toccava quindi rimediare al fallimento dei propositi riformatori del centro sinistra. La categoria che Chiarante contrappone a questo criterio che gli pare viziato da moderatismo è quella di egemonia: ossia la capacità di orientare le innovazioni mutando anche i rapporti di forza nella società. Una visione alternativa di società, un modo diverso di guidare lo sviluppo e di agire nelle nuove contraddizioni erano il cuore della posizione di Ingrao. A una parte della sinistra ingraiana, quella raccolta attorno al Manifesto, Chiarante rimprovera tuttavia una contraddizione piuttosto vistosa tra la lettura modernizzatrice delle nuove tendenze del capitalismo e i richiami a figure e luoghi del terzomondismo (Castro, Mao).
Ciò ovviamente non vuol dire che differenze di analisi si risolvano con misure disciplinari esemplari per combattere lo spirito di frazione. E a questo riguardo fu senza dubbio scritta una brutta pagina della storia del Pci. In fondo nel Pci si agitavano, a partire dagli anni sessanta, due letture molto diverse della realtà italiana. Una era più legata al dato politico, alle opportunità cioè di costruire lo spazio per una alternativa di governo. In questa posizione si riconoscevano quanti pensavano a un Pci che non si limitasse a giocare in un ruolo sempre identico di opposizione. L’altra tendenza era invece più interessata ad una alternativa di società. Nel ’68 queste due sensibilità cozzarono in modo evidente. Chiarante ricorda l’estraneità profonda di Amendola e il fastidio quasi fisico di Bufalini verso le forme della mobilitazione studentesca. La polarità tra alternativa di governo e alternativa di società non è mai stata risolta dalla sinistra.
Dentro il Pci vigeva peraltro la regola tipica della soluzione trasformista, ossia dominava un grande centro, visto come asse portante che di volta in volta compiva parziali oscillazioni verso destra o sinistra. Il segretario, di norma a vita nel suo incarico, registrava gli spostamenti di sensibilità dandone espressione soprattutto nella diversa composizione della segreteria o dell’ufficio politico. Un grande centro regnava ricorrendo alla proverbiale potatura delle ali (di cui anche Chiarante fu vittima con la mancata elezione al comitato centrale nel corso dell’XI congresso). La forte contrapposizione tra la destra e la sinistra interna non impediva però il riconoscimento politico del merito. Chiarante rammenta che a volerlo deputato fu proprio Napolitano cui attesta nel libro limpidità e lontananza dallo spirito di frazione, dalla mentalità clientelare.
Erano ormai gli anni settanta, gli anni di Berlinguer e di un Pci in grande espansione. L’inserimento dei comunisti nell’area del governo, non a caso, vedeva Berlinguer attorniato da una segreteria in gran parte composta da esponenti della "destra". Nell’esperienza della solidarietà nazionale le due anime del Pci vennero però a collisione: da una parte misure parziali di risanamento, dall’altra obiettivi di più ampia rigenerazione. Ricorda Chiarante che le due anime erano presenti nella stessa figura di Berlinguer. Egli per un verso recepiva gli echi di una interpretazione catastrofista del capitalismo di cui si sottovalutavano le crisi come rigenerazioni o distruzioni creatrici. Per un altro, oltre agli accordi tra le classi sociali per impedire imminenti catastrofi, Berlinguer suggeriva l’austerità come occasione di rigenerazione qualitativa della società. Tra progetto e governo insomma non si trovò la matassa della mediazione e venne così smarrita anche la carta di creare almeno nuovi equilibri nel sistema politico per non rimanere in mezzo al guado. Si dovette convivere, per dirla con Chiarante, con la necessità della rivoluzione passiva e con il sogno dell’egemonia.

l’Unità 28.12.07
Dal Tiepolo a Rothko: evoluzione rosa
di Marco Di Capua


AL PARTICOLARE TONO del colore che ha preso il nome dal pittore veneziano, Calasso ha dedicato un libro. Uno spunto per tracciare un percorso monocromatico attraverso la storia dell’arte

Prima dell’epoca dei brevetti, cioè prima dello stupendo blu Klein, si sono impressi solo a forza di stile, nella memoria ottica del mondo, il rosso Tiziano (non Valentino) e il rosa Tiepolo. La connessione quasi karmica di un colore col nome di un pittore ti fa pensare come anche quel colore abbia amato quel pittore. Che l’abbia scelto, non so se mi spiego: giungendo dall’anonimato ha desiderato accasarsi, e si è legato a uno solo.
Il che non è mica sempre così. Kandinsky, per esempio, ha diffusamente parlato di tutti i colori, li ha corteggiati a lungo, ma si può forse dire che sia stato corrisposto da qualcuno di essi in modo esclusivo? Sono le prime cose che mi sono venute in mente leggendo Il rosa Tiepolo, il libro che Roberto Calasso ha dedicato al grande pittore veneziano del 700 (pp. 320, euro 32, Adelphi). Dove quel colore, il rosa, è percepito appena come un’essenza di energia, un bagliore che migra, come la fiamma di una candela già mezzo disciolta a una nuova (tipica metafora del processo di reincarnazione), in certe pagine di Proust: sulla vestaglia di Odette, sul mantello da sera della duchessa di Guermantes, nella fodera di una vestaglia di Albertine.
Per poi riapparire, sempre per Calasso, negli affreschi terminali di Palazzo Reale a Madrid - là c’è uno straccio rosa che sventola in cima a un pennone - ed estinguersi col suo celebre autore, anomalie entrambi, sopravvivendo sotto mentite spoglie solo sulle labbra dei mercanti di tessuti, gli unici ormai a dire: rosa Tiepolo.
Aperta parentesi, e senza andare troppo lontano guardiamoci attorno: il rosa è un colore che amano sia Paul Gauguin (mostra al Vittoriano) che Mark Rothko (mostra al Palazzo delle Esposizioni). Il primo lo incastra tra i prediletti gialli e gli adorati rossi nonché tra gli ammirati blu-viola: è il colore della strada per l’Idillio a Tahiti e dei fiori pendenti sul Mese di Maria. Il secondo lo abbandona tra gli aranci e i bianchi della sua prima fase astratta quando, infelicissimo e melanconicamente ebraico, si addentra in un universo elegante e drammatico tutto grigi, marroni e neri presaghi, per non uscirne mai più. Rosa è addirittura un intero periodo (tutto felicità classica e sentimentalità iberica dopo le tetraggini di quello blu) di Picasso, mentre poi diventa corpo monumentale e femminile con Matisse e il suo Nudo rosa. Chiusa parentesi.
Ma per quanti siano i motivi che conducano un colore a discendere come una grazia sull’opera di un artista, questi restano nell’imponderabile, e parlarne troppo non si può. Così ho cercato di capire le ragioni di una predilezione evidente e più espressa, quella di Calasso per Tiepolo. E le virtù tiepolesche, le qualità qui tirate in ballo, secondo me sono queste. Abituati come siamo a schiere di artisti che si presentano come grandi pensatori oltre che come sommi incapaci, Tiepolo fa la sua figura: egli non pensa ma agisce, opera, crea. Non parla di sé, sa tacere, la sua biografia è neutra: incredibile per noi, eccellenti intenditori di noi stessi, quando d’altra parte non siamo nessuno (accidenti, e questa chi l’ha detta?). Gli basta un incarico, una commissione, l’assegnazione di un soffitto da mutare in cielo, nei più bei cieli fatti a mano da un pittore, e Tiepolo fa meraviglie. La bravura, l’estro e l’invenzione, la capacità di eseguire rapidamente qualsiasi cosa, la leggerezza e un caleidoscopio di gesti sono talenti che a un certo punto (ma quando è stato?) caddero in sospetto: accademia! scenografia! Tra sé e l’opera Giambattista non pone ostacoli. L’arte è la facilità difficile a farsi. E lui è il maestro della sprezzatura, quella specie di rarissimo dono di cui seppe parlare in modo indimenticabile Cristina Campo ne Gli imperdonabili. A Calasso piace Tiepolo, che è il principe degli inattuali (non è antico né moderno, la modernità l’ha rimosso), dei laterali, dei refusées, coloro per i quali l’arte - la letteratura? - è assoluta, la storia è fantasmagoria e la vita teatro. Accanto a sé, in questa bella parzialità contromano e contropelo rispetto alle mode e alle voghe, Calasso vede Baudelaire, un certo atteggiamento reattivo di Baudelaire, mentre difende Tiepolo dal pregiudiziale tribunale di Roberto Longhi e del suo principale testimone d’accusa, Caravaggio.
Se ho capito un po’ Calasso, ma magari mi sbaglio, lui è uno che se vede una figura dipinta sopra un muro o un soffitto o una tela, la prende sul serio, ci crede. Si chiede chi sia e cosa faccia: che favola raccoglie attorno a sé. Ogni quadro è un racconto potenziale che va svolto: ne è prova il tratto metodologico di questo libro, l’unico possibile, il face to face tra scrittura e immagini. Questa è idolatria, naturale reverenza verso la figura, proprio come quella che per Calasso sentiva Tiepolo. Lo dico con ammirazione, ovvio. Perché se la vita è teatro (e non televisione o cronaca nera o sociologia), prendere sul serio il teatro - o quei suoi fermo-immagine che la pittura ci mostra - vuol dire prendere sul serio anche ciò che tu pensi sia l’essenza, una rifrazione fugace e profonda, della vita. Il suo apparire non retoricamente «vero» ma artefatto, folgorante, calibrato, spettacolare, intenzionale, misterioso. Illuminante. Non so se mi spiego. Ora: capite bene che tutto ciò non è che vada per la maggiore. In gran parte, la cultura d’avanguardia, o ciò che di essa marcescendo ci domina, è cresciuta sopra una nota di disprezzo per il «letterario», il «decadente», il «misticheggiante» (questi, i soliti capi di accusa), salvo poi nutrire nostalgie segrete per tutto ciò, lancinanti come fitte intercostali.
A Madrid, alla fine, Mengs soppianta Tiepolo. Il quale scompare, ed è subito dimenticato. Ma non è emozionante il fatto che di lì a poco lo vendichi proprio Francisco Goya? La sveltezza, la mercurialità intelligente del luminoso pittore degli arazzi fa fuori l’imbonitore neoclassicista. Proprio col giovane Goya, la felice stravaganza tiepolesca, quella sua gran festa, lentamente scopre il suo fondo pauroso, fatale. E come per Rothko, il rosa diventa nero.

E il rosso di Tiziano sarà in mostra a Venezia
Intorno alla metà del 500, già quasi sessantenne, Tiziano scopre un nuovo modo di dipingere: il colore si stende veloce e libero sulla tela e si sovrappone in corpose pennellate, le forme si scompongono, si accentua una grande sensualità e contemporaneamente una profonda spiritualità. Con una tecnica straordinariamente anticipatrice crea una pittura teatrale che sembra legarsi all’opera del Tasso e agli scritti di Ariosto degli anni ’30 del 500. A questa stagione di Tiziano sarà dedicata una mostra che, dal 26 gennaio, esporrà alle Gallerie dell’Accademia di Venezia 28 capolavori dipinti dal 1550 sino alla morte (1576). E le immagini proseguono oltre la mostra, nelle collezioni permanenti delle Gallerie dell’Accademia, dove si incontrano i contemporanei, Giorgione, Veronese e Tintoretto.

Repubblica 28.12.07
"Il diavolo fa paura esorcisti in ogni diocesi"
Vaticano, progetto allo studio per il 2008
Padre Amorth: "Il Papa vuole combattere frontalmente il Maligno"
di Marco Politi


CITTÀ DEL VATICANO - Padre Gabriele Amorth, il più celebre fra gli "ammazza-diavoli" italiani, esulta alla prospettiva che su indicazione di papa Ratzinger ogni diocesi del mondo potrebbe avere uno o più esorcisti in pianta stabile. Troppi demoni scorrazzano per il pianeta e bisogna contrastarli. «Decine di vescovi - sostiene Amorth - vivono sotto peccato mortale, perché non delegano i propri sacerdoti ad effettuare esorcismi». Il risultato? «Decine di migliaia di poveri fratelli e sorelle assediati dal diavolo, costretti a girovagare in lungo e in largo per trovare un esorcista con regolare mandato». L´anziano religioso paolino loda il pontefice senza riserve: «Grazie a Dio, abbiamo un Papa che ha deciso di combattere frontalmente il diavolo. Benedetto XVI crede nell´esistenza e nella pericolosità del Maligno. E ciò sin dai tempi in cui era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede».
La voce di una prossima istruzione papale viene riportata dal sito papanews, secondo cui il documento sarebbe in preparazione e verrebbe pubblicato nei primi mesi del 2008. L´indicazione sarebbe di individuare per ogni diocesi dei sacerdoti «specializzati» per trattare i casi di fedeli posseduti dal Maligno. Contemporaneamente verrebbe consigliato di adottare anche nella liturgia post-conciliare la preghiera di invocazione a San Micheledi come combattente contro i demoni. La preghiera fa già parte stabilmente della messa tridentina.
Negli uffici vaticani la voce non ha trovato al momento conferma. Padre Lombardi, portavoce della Santa Sede, non ne ha sentito parlare e dubita che vi sia un documento pronto per la pubblicazione. Ma non è un mistero che via sia una parte della gerarchia ecclesiastica che - anche dinanzi al diffondersi tra il vasto pubblico di credenze rivolte alla magia, ai maghi e ai poteri occulti - ritiene importante non lasciare la materia a esorcisti-fai-da-te o magari a sette religiose che promettono la «liberazione» dal Maligno e dalle sue opere. Le norme attualmente in corso nella Chiesa cattolica lasciano alla discrezionalità e alla saggezza di ogni vescovo di decidere se nella suo diocesi vi sia bisogno o no di uno o più esorcisti.
Padre Amorth è invece convinto che i vescovi debbano essere «obbligati ad incaricare un numero stabile di esorcisti per ogni diocesi» Se non lo fanno, sottolinea polemicamente il religioso, è «perché essi stessi non sempre credono all´esistenza del diavolo».
A riprova dell´atteggiamento papale, Amorth rievoca l´udienza che Benedetto XVI ha concesso l´anno scorso ad un gruppo di esorcisti in Vaticano: «Ci esortò a impegnarci sempre di più nel nostro ministero».

Corriere della Sera 28.12.07
Gli alleati Il Pdci: la faremo noi, sul programma. Ferrero (Prc): concretizzare i buoni propositi. Mastella: sistema di voto, è stato corretto
«Verifica, parola vecchia». Ma la sinistra incalza Romano
di Roberto Zuccolini


ROMA — La verifica? Per Romano Prodi è quasi una «parolaccia». Dice in conferenza stampa che è «un termine vecchio» e che ha non alcuna voglia di usarlo. Ma per i suoi alleati, quelli che la verifica, in modi diversi, l'avevano chiesta a gran voce resta comunque all'ordine del giorno. A partire dalla sinistra radicale. Oliviero Diliberto fa parlare il numero due del Pdci, Orazio Licandro, e rivolta il discorso: «La verifica la faremo noi sul programma». Quello scritto per la campagna elettorale del 2006, s'intende. E giù, con una raffica di punti «pesanti» da affrontare a gennaio: «Abolizione del conflitto di interessi, legge sulle unioni di fatto, aumento dei salari e delle pensioni basse ».
Anche Rifondazione Comunista non molla. È vero che è soddisfatta e che il segretario Franco Giordano applaude di fronte all'apertura di Prodi sul sostegno ai salari. Ma il ministro Paolo Ferrero invita a «concretizzare i buoni propositi ». E il capogruppo al Senato, Giovanni Russo Spena, spiega quali saranno le prossime mosse del partito: «Anche a noi in realtà non piace la parola verifica. L'abbiamo usata per significare il nostro forte malessere di fronte a certi ritardi nella politica sociale. Ma la sostanza non cambia: a metà gennaio vogliamo rilanciare anche altri argomenti rimasti in sospeso: la legge Amato- Ferrero e la politica internazionale. Chiediamo una concretizzazione della conferenza di pace sull'Afghanistan, finora solo promessa, e una moratoria per la base di Vicenza».
Metà gennaio. Sì, perché tutti gli alleati «minori» di Palazzo Chigi (in pratica tutta la coalizione eccetto il Pd) ricordano che il primo appuntamento fissato, quello del 10 gennaio, sarà comunque dedicato alla legge elettorale. Tema sul quale lo stesso Prodi è intervenuto rassicurando proprio chi teme di essere schiacciato dall'accordo tra il Partito Democratico e Forza Italia. Tra i più contenti c'è Clemente Mastella: «Il Presidente del Consiglio è stato corretto quando ha parlato di riforma elettorale. Del resto, non è possibile che qualcuno possa pensare a maggioranze diverse in Parlamento. Perché, se al Senato l'Unione soffre, alla Camera ha un solido vantaggio. E questa volta, a differenza del '98, non mi sembra affatto che Prodi voglia mettersi da parte». In altre parole: «La verifica si deve fare comunque, a partire dalla legge elettorale. Altrimenti, il premier lo sa bene, sarà Palazzo Madama a farla».
Ma quello della legge elettorale è un tema sensibile per tutti i partiti «minori» dell'Unione. Che potrebbero rinunciare ad altre cose, ma non accettare di scomparire «per decreto». Come invoca anche il socialista Enrico Boselli: «Non c'è dubbio che il governo abbia raggiunto risultati positivi e importanti, soprattutto in campo economico. Ma è anche vero che resta ancora tanto da fare e che ci sono molti problemi sul tappeto. Tra questi c'è quello della legge elettorale che non può essere risolto dall'intesa tra Veltroni e Berlusconi: quell'accordo trasformerebbe l'attuale bipolarismo imperfetto in un bipartitismo coatto, come ha ricordato giustamente lo stesso Prodi. A questo punto mi auguro davvero che la verifica di gennaio non solo si faccia come previsto, ma che sia anche vera e seria».

il Riformista 28.12.07
Caro Pd, come fai a conciliare l’inconciliabile?
di Paolo Franchi


Una diecina di anni addietro Bruno Contrada chiese di incontrarmi per raccontarmi la sua storia, il suo processo, il retroscena che lui intravedeva nelle istituzioni in cui lavorava: un’operazione volta a incastrarlo. In quell’occasione gli consigliai di abbandonare questi scenari e dire ai giudici come stavano le cose negli anni in cui a Palermo guidava la squadra mobile e altre strutture della polizia. Anni in cui non c’era ancora il pentitismo. È noto a chi ha seguito criticamente l’operato della polizia nella lotta alla mafia che i funzionari più esperti, capaci e affidabili potevano allacciare rapporti con mafiosi in disgrazia o fautori di una linea non violenta al fine di attingere informazioni per colpire la mafia vincente, violenta e dominante. Il tentativo di “usare” mafiosi contro mafiosi è una pratica antica della polizia italiana: a volte con esiti positivi, altre con compromessi che hanno disonorato lo Stato.
ugenio Scalfari si dichiara «molto colpito» da alcune recenti affermazioni di Paola Binetti, che testimoniano delle convinzioni della senatrice attorno all’intervento divino nella formulazione delle leggi e al ruolo della preghiera (nella fattispecie, la preghiera della Binetti) nel sollecitare l’intervento in questione. Sarà forse perché la mia laicità è di stoffa più rozza: ma la questione non riesce ad appassionarmi più di tanto. Nel senso che, per quanto mi riguarda, Paola Binetti può in tutta tranquillità immaginare che Nostro Signore, dando ascolto alle sue preghiere, abbia provveduto a indurre legislatori pasticcioni a inserire un riferimento clamorosamente errato al Trattato di Amsterdam nelle norme contro l’omofobia contenute nel decreto sulla sicurezza, con tutte le (arcinote) conseguenze del caso. E pure nel senso che, a differenza di Scalfari, non credo spetti ai laici sindacare su come, dove e per che cosa i credenti, nel rispetto della Costituzione e delle leggi, possano pregare.
Io sono rimasto «molto colpito», piuttosto, da quanto ha scritto sulla Stampa, sempre ieri, sempre a proposito della senatrice teodem, Walter Veltroni. Secondo il quale Paola Binetti sbaglia «a considerare l’omosessualità come una malattia, in quanto tale meritevole solo di essere curata». Questa, per il segretario del Pd, è una tesi non solo errata, perché l’omosessualità è «una condizione umana» che va rispettata, non una patologia, ma pure pericolosa «perché induce, o almeno asseconda, il misconoscimento dei diritti delle persone omosessuali a condurre una vita normale». Il comportamento del sindaco e del Pd nel Consiglio comunale di Roma sulle unioni di fatto continua a non convincermi neanche un po’, ma stavolta non sono d’accordo: sono d’accordissimo. Bravo Walter. E bravo due volte. La prima per aver pronunciato parole assai chiare. La seconda per averne tratto, nel medesimo scritto, le conseguenze logiche: il Pd si batterà, assicura Veltroni, «per contrastare (…) ogni forma di intolleranza e discriminazione, tanto più se violenta, correlata con l’orientamento sessuale delle persone», e farà tutta la sua parte perché vengano riconosciuti, «con legge nazionale, i diritti delle persone che vivono nelle unioni di fatto, indipendentemente dal loro orientamento sessuale».
Fatte le dovute congratulazioni, credo sia giusto anche ragionare un po’ su queste affermazioni. Ripeto: sull’omosessualità e sul riconoscimento delle unioni di fatto la penso esattamente come Veltroni. Ma non credo sia contestabile in alcun modo il diritto di Paola Binetti (e, diciamolo più apertamente, della Chiesa, o di una parte grande, e attualmente dominante, della Chiesa) di pensarla all’opposto. È importante che tutti interroghino e si interroghino, l’importanza, anzi, la necessità del reciproco rispetto e del reciproco ascolto sono fuori discussione, e non mi pare di dire niente di nuovo: che la religione abbia a che fare con lo spazio pubblico, a chi è nato e cresciuto nel Paese della questione romana era noto prima che questo pontefice e i suoi vescovi (non solo Paola Binetti) ce lo ricordassero con tanta forza e, se permettete, con tanta durezza. Ma, per decisivo che sia, non è questo, sul piano politico, il punto all’ordine del giorno. La domanda che attende ancora una risposta, forse perché una risposta non c’è, è un’altra, semplice semplice, che vorrei porre nella speranza che qualche capogruppo democrat capitolino non salti su a darmi del laico estremista, o, dio ci scampi, del laicista. Come è possibile trovare, nel Partito democratico ben prima che in Parlamento, non dirò un punto di vista comune, ma una mediazione ragionevole e accettabile per tutti tra posizioni non solo assai lontane, ma, a me sembra, inconciliabili? Sarò un laico un po’ rozzo, ma una soluzione fatico a vederla, e il bell’intervento di Alfredo Reichlin sull’Unità di ieri (ma che c’entrano, Alfredo, i guelfi e i ghibellini?) non mi aiuta a individuarla. Se qualcuno pensa di averla, farebbe bene a renderla nota.

il Riformista 28.12.07
Quanto dobbiamo temere il Dragone?
L'Occidente arranca e "la Cina si avvicina"
sarà questo il tema del prossimo decennio
di Bruno Villois


Le manca solo la democrazia. E non è un dettaglio

L'occidente arranca e la Cina conquista, questo potrebbe essere il tema caldo del prossimo decennio. Tanti i motivi che animeranno un quadro che in grado di produrre a noi europei non pochi grattacapi. Cambieranno molte cose negli equilibri globali e noi di certo non ci guadagneremo. Sono ormai oltre 10 gli anni in cui la Cina ha messo la freccia e, mese dopo mese, ha superato un infinità di traguardi, meno uno, forse quello più importante, almeno per chi come l'Occidente lo ha ritenuto base della propria esistenza civile, essere una democrazia con diritti, doveri e possibilità di cambiare governo e parlamento. Per il resto una corsa libera che ha frantumato ogni tipo di record ed ha portato gli eredi di Mao ad essere la seconda (o terza) potenza economica mondiale. Una straordinaria trasformazione di una civiltà da agreste ad industriale è all'origine del boom. Ogni anno milioni di primitivi contadini hanno abbandonato l'umile terra e sono diventati operai. Centinaia di milioni lo hanno già fatto, altre centinaia lo faranno prossimamente. L'industria di qualunque specie ha avuto la capacità di acquisire tecnologie, a volte anche vetuste, di importarle a basso prezzo e di riutilizzarle, in barba ad ogni logica ecosostenibile, disponendo di immani numeri di risorse umane. Ne è derivata una potenza industriale in grado di sommergere di prodotti a basso costo l'intero Occidente e contemporaneamente di poter alimentare i consumi interni su medie elevatissime ma ancora insignificanti se paragonate ai nostri livelli, meno del 45% per i cinesi contro oltre il 70% dell'occidente. Il Pil è impazzito in una corsa esasperata e la crescita a due cifre è stata una costante che anno dopo anno ha portato l'economia cinese ad essere pronta a raggiungere e secondo alcuni superare quella nipponica, adesso non resta che la statunitense. La domanda ormai non è più se questo avverrà ma quando avverrà. I più ottimisti pensano alla fine del prossimo decennio, i pessimisti al termine del prossimo lustro. Intanto alcune certezze si stanno consolidando, tra queste la più appariscente riguarda lo shopping che ha raggiunto dimensioni planetarie. Il fondo nazionale China Investment Corporation, braccio armato della Banca Centrale Cinese si è appena comprato il 10% della prestigiosa banca d'affari americana Morgan Stanley, sborsando 5 miliardi di dollari, cifra di per sè esorbitante per qualunque soggetto occidentale, insignificante per la potentissima banca nazionale di Pechino, che ha al suo attivo ben 1500 miliardi di dollari di cui 800 investiti in buoni del tesoro Usa. Numeri sproporzionati per qualunque altra economia del globo e, a sentire le dichiarazioni del presidente del citato fondo, sono appena all'inizio di un nuovo percorso effettuato su un autostrada a cinque corsie senza barriere di accesso. Siamo prossimi ad un'invasione che non ha precedenti nella storia dell'economia mondiale. Un invasione, sulla carta pacifica, basata sulla ingente e crescente disponibilità di liquidità che ad oggi non sembra poter aver rallentamenti. La finanza globale guarda ormai alla Cina come l'eldorado del mondo e non passa giorno che guru e analisti non citino il mercato borsistico cinese come quello su cui puntare per fare affari e vedere moltiplicati in breve tempo i propri investimenti. Chiunque si quoti oggi alla borsa di Hong Kong raggiunge strabilianti risultati. Un esempio nostrano riguarda Robe di Kappa Cina che al primo giorno di quotazione ha superato i 3 miliardi di dollari. L'omologa italiana è attestata sui 100 milioni di euro. Gli inviti ad investire in Cina non fanno null'altro che indebolire ulteriormente le nostre economie, ma si sa i soldi vanno dove si fanno altri soldi e i nostri mercati finanziari non sono certo oggi in condizioni di controbattere al loro. Vi è poi un altro serio e sottovalutato problema. Da anni parte rilevante delle forniture occorrenti all'industria occidentale viene realizzata in Cina. Le stime parlano di oltre il 40% di prodotti e non si parla di produzioni contraffatte ma di articoli e merci che sono loro commissionati dalle maggiori multinazionali del mondo. Questa sarà un'ulteriore forma di pressione che il governo cinese metterà in atto, con il rallentamento delle produzioni che noi non siamo più in grado di realizzare a causa delle differenze dei costi, se i nostri stati decideranno di porre dei freni allo shopping di imprese ed istituzioni da parte Cinese. Un primo monito in proposito è già arrivato dalle autorità di Pechino in merito ad eventuali azioni protezionistiche, tanto da minacciare conseguenze a chi porrà in atto simili azioni. I primi a saperlo sono proprio gli americani visto che ormai Pechino è il maggior creditore del Paese a stelle e strisce, con i suoi 800 miliardi di dollari investititi in titoli del tesoro Usa. Fatta la nuda e cruda analisi non resta che soffermarsi sui rimedi o almeno sul da farsi. Per l'Europa prima di tutto va consolidato il concetto di Stato, non solo monetario ma globale, Inghilterra compresa. Abbiamo bisogno di rafforzare sotto un'unica regia il sistema continentale e renderlo più omogeneo nelle tre componenti che consentiranno di affrontare la sfida: 1) riduzione dei deficit pubblici e organizzazione dello stato sociale, 2) diminuzione dell'imposizione fiscale in modo da favorire e attrarre investimenti, 3) massicci investimenti in ricerca, innovazione e formazione. Purtroppo per noi siamo assai lontani dal raggiungere l'obbiettivo di essere uno stato Europa e quindi i tre cardini citati sono oggi, anche per i più virtuosi, una chimera. La creazione del valore sarà l'unica componente in grado di contrapporsi allo strapotere organizzativo ed economico degli eredi di Mao. Non resta che sperare in un colpo d'ala dei nostri governanti per creare quelle condizioni che facciano decollare il progetto Europa. Se accadrà la nostra forza d'urto sarà in grado di arginare e forse anche conquistare, se no abituiamoci a passare da trainanti a trainati e purtroppo non è una differenza di poco conto.

Liberazione 28.12.07
Il Vaticano, l'anomalia italiana e la "questione cattolica"
Il Piddì tra delusioni laiche e furori clericali
di Rina Gagliardi


Veltroni smentisce le posizioni teologiche di Binetti e rilancia l'impegno sui diritti civili
ma il partito resta comunque più arretrato della "normalità" europea e forse della vecchia Dc

Sulla fondamentale questione della laicità - che poi coincide per larghissima parte con quella della natura dello Stato e dei diritti civili "indisponibili" - il Partito Democratico rischia di giocarsi molta della sua credibilità (e aggiungiamo: delle sue potenzialità democratiche). Lo attestano l'ancora scottante "caso Binetti" (chiamiamolo così), ma anche il dibattito che ne è già seguito e che è destinato a seguirne. Lo dimostrano il disagio evidente che serpeggia nelle file dei militanti, oltre che dei dirigenti, dei deputati e dei senatori ulivisti. Ora, su La Stampa di ieri, Walter Veltroni assume (finalmente?) una posizione chiara: le tesi binettiane sull'omosessualità, assimilate tout court a una malattia da curare, sono "sbagliate e pericolose", dice il leader del Pd. E lo stesso leader ribadisce l'impegno del maggior partito italiano a portare fino in fondo la legge sulle unioni civili, del resto prevista dal programma originario dell'Unione senza alcuna discriminazione nei confronti dell'orientamento sessuale delle persone. Bene, vien da dire. E' pur vero che Veltroni non ha nulla da dire sul mancato voto di fiducia al governo, nonchè sulla ardita architettura di giustificazioni teologiche che la senatrice Binetti ha poi diffuso tramite Il Foglio . E' altrettanto vero, però, che l'impegno laico assunto dal massimo livello del Pd sembra "correttivo" anche della recente (e sconcertante) vicenda romana, nel corso della quale proprio il Pd ha impedito un sostanziale passo in avanti su un diritto civico che, nel comune sentire, ha ormai assunto un carattere "basico". Ma forse la riflessione deve cominciare - o ricominciare - proprio da qui. E lo faremo attraverso un paio di domande, nient'affatto retoriche.
Primo. E' sensato che il Partito Democratico, nato nel 2007 con grandi ambizioni ideali e politiche, rischi di essere, in tema di laicità, un partito assai più arretrato di quel che fu la Democrazia Cristiana? Sembrerebbe un fatto alquanto "illogico", per quanto sappiamo bene che la storia non si è mai basata, in realtà, su un progresso lineare - così come appare quasi una bizzarria che, se il parlamento attuale dovesse legiferare oggi sul divorzio, trentasette anni dopo l'approvazione effettiva della Fortuna-Baslini, nessuna legge divorzista avrebbe la possibilità di passare. Secondo Alfredo Reichlin (che scrive un impegnato articolo su l'Unità di ieri) queste apparenti stravaganze e queste sostanziali regressioni sono il frutto della crisi della politica, e degli sconvolgimenti profondi indotti dalla globalizzazione, che ha macinato "identità" e "consuetudini culturali" profonde, e in conseguenza ha consentito alla religioni la possibilità di occupare un inedito spazio pubblico. Si può convenire, certo, che i processi intervenuti in questi ultimi due decenni hanno drammaticamente indebolito alcuni fondamentali "caposaldi" della sinistra e delle sue battaglie: la disgregazione sociale e culturale che avanza, il mercato mondiale assunto come principio sovraordinatore di tutto, comprese le relazioni interpersonali, la drammatica condizione di insicurezza e di paura che vivono i popoli e i cittadini hanno determinato un vuoto gigantesco, fatto soprattutto di negazione del futuro, nel quale l'ideologia religiosa si è inserita con forza, anzi con prepotenza, riproponendo assolutismi, dogmatismi, certezze, ahimè, a buon mercato. Si può perfino aggiungere che, a tutto questo, ha contribuito anche una coscienza laica debole, troppo spesso incline, appunto, a un "pensiero debole" o debolmente relativistico. Ma, se questo è il complesso orizzonte con il quale bisogna misurarsi senza alcuna iattanza, non è di questo che in verità oggi stiamo discutendo - ma di qualcosa di molto più "semplice" e, se mi è consentito, di molto più pedestre. La globalizzazione ha certo dispiegato i suoi effetti devastanti anche in Paesi come la Spagna, la Francia, la Germania, così come la crisi della politica è fenomeno europeo, e anzi mondiale. Ma in tutti questi luoghi, a noi vicinissimi, i diritti civili su cui l'Italia sta arrancando costituiscono un dato più che acquisito - sono una "normalità" che nessuno mette in discussione, e se mai, come è noto, ci sono Paesi come la cattolicissima Spagna che sono andati ben oltre Pacs, Dico e Cus. E in quale altra regione d'Europa ogni volta che si propone un tema così detto "eticamente sensibile" ci si deve misurare con tanta intensità con le ultime dichiarazioni del Papa, o del cardinal Bertone, o delle alte gerarchie ecclesiastiche?
La risposta, dunque, è anche e soprattutto un'altra: l'"anomalia" italiana, dove ha sede la Chiesa Cattolica (per altro istituzione ecumenica e non certo nazionale) e dove oggi - oggi in specie - la Chiesa stessa ha scelto di concentrare non il suo magistero spirituale, ma il suo interventismo politico - laico, laicissimo, terrestre - e la sua forza di condizionamento. Privilegiando, a differenza del precedente pontificato certo nient'affatto definibile come progressista, i temi "morali" a quelli della pace e della guerra, prediletti dal "reazionario" Karol Woytjla. E archiviando, nella sostanza, la grande rivoluzione del Concilio Vaticano II.
***
Seconda domanda: ma perchè questo interventismo politico ha tanta e tale efficacia? Certo, al fondo, per molte delle ragioni sopra ricordate. Ma anche per una ragione che vale la pena di discutere: la scelta del Partito Democratico nel suo insieme (non solo cioè della sua componente cattolica) di considerare come interlocutore privilegiato il potere Vaticano. Secondo una delle (non buone) tradizioni del Pci, anzi, il rapporto con le alte gerarchie ecclesiastiche (scusate la brutalità: con quelli che comandano nella Chiesa) coincide tout court (ed anzi la esaurisce) con la "questione cattolica". Prova ne sia la formula, secondo noi del tutto fuorviante, che oramai ha ripreso a circolare: quella che divide il mondo in "laici e cattolici" (lo fa anche Alfredo Reichlin nell'articolo citato). Come dire: da una parte i non credenti, gli agnostici, o gli atei, che sarebbero i laici; dall'altra, tutti coloro che professano una fede, e quella cattolica specialmente, che alla laicità non sono ancora pervenuti. Se questa fosse la partizione reale a cui attenersi, certo, non resterebbe altro - ad un partito come il Pd - che lavorare ad un nuovo difficile "compromesso storico", o meglio storico-spirituale, alla ricerca di una sintesi, assai improba, tra queste due distinte e lontane Weltanschaung . Ma non è vero che questa è la partizione giusta e reale: la divisione reale passa (mi si scusi se mi ripeto) tra laici e clericali, tra i sostenitori della laicità dello Stato, qualunque sia la loro fede d'appartenenza, e i nuovi fondamentalisti religiosi, che pretendono di regolare le leggi dello Stato italiano secondo le loro convinzioni. Non occorre, insomma, essere miscredente per essere laico - come avrebbe potuto la Dc, se no, essere un partito sostanzialmente laico? Non è necessario, viceversa, essere iscritti alla Uaar per praticare la tolleranza democratica e il rispetto di ogni condizione diversa dalla propria. Appunto: non solo la gran parte dei cattolici italiani ha maturato una coscienza laica, ma quello che chiamiamo "mondo cattolico" è abitato da convinzioni e pratiche molto diverse tra loro - e spesso molto lontane dal neotemporalismo ruinian-ratzingeriano.
Se si assumesse quest'ottica, la si smetterebbe, chissà, di porsi dilemmi insolubili: per esempio, tra la necessità del rigore laico nell'iniziativa legislativa, ma anche nella dimensione etico-morale, e la necessità, che anche noi riteniamo essenziale, del confrontodialogo con il mondo cattolico, nel suo insieme, nelle sue articolazioni, nelle sue sensibilità. Anche e proprio sulle questioni morali, la dottrina della Chiesa è stata, nella storia, di straordinaria duttilità. Qualche esempio? Tommaso d'Acquino, che non era proprio un passante nella realtà ecclesiale, considerava l'aborto lecito fino ai primi quaranta giorni di gravidanza, in quanto era al quarantesimo giorno per i maschi (e assai di più per le femmine) che l'anima faceva il suo ingresso nel corpo - e, come è noto, è stato comunque molti secoli dopo che il Vaticano ha dichiarato l'illeceità dell'aborto, segno che per quasi due millenni l'ha ritenuto non condannabile. Il celibato ecclesiastico risale, come norma rigida, alla Controriforma - si dia un'occhiata ai costumi non precisamente casti dei pontefici, dei cardinali e di gran parte dei prelati fino al Rinascimento compreso. Il culto della famiglia così detta "naturale" ha, a sua volta, una codificazione ancora più recente, così come l'ossessione omofobica - e non ha alcun fondamento evangelico (quando sua madre, Maria, andò a cercarlo con i suoi fratelli, non rispose forse Gesù, indicando i suoi compagni di apostolato, "questi sono i miei fratelli?" E quante volte ha ricordato di esser venuto su questa terra per dividere il padre dalla madre, il fratello dal fratello, il figlio dai genitori?). Infine, per arrivare ai nostri giorni, quanti sono nella realtà i cattolici (a cominciare da Pier Ferdinando Casini) che rifiutano l'indissolubilità del matrimonio e accettano il divorzio? Solo per dire che ieri come oggi la morale cattolica è molto spesso un elastico (contrariamente a quel che accade ad alcuni di noi, non credenti e kantiani), e che anche con questa umana elasticità, in buona o in cattiva fede che sia, va esercitato il confronto. Solo per ribadire che il punto di riferimento esclusivo dei laici, credenti o non credenti che siano, non può esser costituito dalle gerarchie dei potenti, ma deve coinvolgere tutti, da Ratzinger a don Ciotti, anche sì, per costruire il solo spazio comune possibile: quello che contamina fecondamente le identità più diverse, senza consentire a nessuna sopraffazioni, privilegi, spazi precostituiti, rendite di posizione. Questo ci permettiamo di dire anche ai dirigenti del Partito Democratico, se vogliono davvero costruire, come dice Reichlin, "un partito della nazione" e non una post-Dc che oscilla tra delusioni laiche e furori clericali.

Liberazione 28.12.07
Un processo fragile e il bisogno di forme nuove per partecipare
Sinistra: cultura dell'unità e quattro urgenti passi avanti
di Paul Ginsborg


Sarebbe, credo, un errore immaginare il processo unitario della sinistra italiana come una marea crescente, un lento ma costante movimento in una direzione sola. Tutta l'esperienza e la fatica degli ultimi mesi ci suggerisce un'altra immagine, meno rassicurante ma più veritiera. E' quella di un processo fragile, capace di notevoli passi in avanti, come quelli della manifestazione del 20 ottobre e dell'assemblea dell'8 e 9 dicembre, ma anche di forti battute d'arresto, segnalate dal ricorrente predominio della cultura dei distinguo su quella dell'unità. Forte, inoltre, rimane la possibilità che tutto si fermi improvvisamente. In questa nostra declinazione modesta di un tema universale - la dialettica dell'uno/molti - tuttora soverchiante è la presenza dei "molti" e appena visibile quella dell' "uno".
Non per questo dobbiamo scoraggiarci. Prima di tutto, come ha suggerito benissimo Rossanda, dobbiamo avere «più attenzione, anche più pietà, l'uno per l'altro, l'una per l'altra». Vanno ascoltate con grande attenzione le ragioni di coloro che rimangono titubanti, e rispettate le culture e le provenienze diverse. Non possiamo pensare di trovarci subito d'accordo su tutto. Troppe sono le sedimentazioni, le diversità e le diffidenze, soprattutto - almeno nella mia esperienza limitata - a livello personale. Di fronte a queste realtà bisogna elaborare un metodo per cui si registrano i distinguo ma si cerca contemporaneamente l'azione condivisa.
Ho l'impressione che un po' alla volta sia questo che sta succedendo a livello territoriale - un quartiere dove "la Sinistra l'Arcobaleno" decide di coordinarsi, un consiglio provinciale dove propone unitariamente una mozione su Vicenza, una regione, l'Umbria, che in questi giorni ha aperto un Tavolo regionale e programma iniziative in preparazione della conferenza programmatica di febbraio. Si comincia, fra mille difficoltà, la pratica del lavoro insieme.
Non basta. Bisogna inventare nuove forme che rafforzino la cultura dell'unità. Non per cercare l'unità in sé, ma perché essa ci offre la possibilità di contare di più, di elaborare una visione del riformismo radicale, di pensare e scrivere collettivamente "a sinistra"...
E di rappresentare degnamente in Parlamento i movimenti e le proteste che altrimenti non avrebbero alcun ascolto, di sperimentare e proporre nuove forme della politica e della democrazia, sia al nostro interno che all'esterno, nel mondo asfittico della politica nazionale.
Quattro suggerimenti di metodo, telegraficamente. Primo, la necessità impellente di un tesseramento diretto, individuale, a "la Sinistra l'Arcobaleno". Tanti di noi non abbiamo in tasca alcuna tessera di uno dei partiti esistenti e vogliamo aderire all'aggregazione che nasce ora, per poter tracciare insieme i suoi lineamenti.
Secondo, incoraggiare e promuovere il lavoro decentrato - dei singoli territori e città, ma anche degli incontri trasversali, come gli autoconvocati o l'incontro tra la rete di donne e l'associazione fiorentina per la sinistra unità e plurale - iniziative che possano dare ricchezza al processo nel suo insieme.
Terzo, pensare sistematicamente al contenuto democratico dei prossimi mesi. L'assemblea romana era bella ma poco democratica. La carta d'intenti, come ha scritto Lea Melandri su Liberazione , era pre-confezionata. In questa fase i quattro segretari devono aprire ad altre soggettività per poter decidere insieme le prossime mosse. Sarebbe un errore pensare che tutto vada in frantumi senza un controllo stretto dall'alto. Bisogna fare bene le cose già annunciate. La due giorni prevista per il prossimo febbraio, per esempio, di cui tuttora mancano notizie precise, deve assumere una forma democratica e deliberativa. Certe parole utilizzate finora - "pronunciamento popolare", "grande campagna di ascolto nel Paese" - non sono rassicuranti. Tante persone ci guardano, un po' curiose e un po' scettiche. Vogliamo rispondere alle loro aspettative solo con la vecchia politica?
Ultimo, senza aspettare nessuno, la necessità di discutere sulla forma e le regole della nuova aggregazione politica. E' un lavoro difficilissimo, senza molti suggerimenti dal passato. Come si fa a controllare la gerarchia maschile, la personalizzazione della politica, il narcisismo, le clientele, i dettami dei media? O la politica è solo, inevitabilmente, questo?

Liberazione 28.12.07
Razionalisti non si nasce, si diventa
Spinoza è tra noi. Parola di Deleuze
In libreria per Ombre Corte, e a cura di Aldo Pardi, "Cosa può un corpo?", le lezioni del filosofo francese sui testi spinoziani
Una lettura dall'effetto terapeutico, capace di andare alla radice delle servitù che ancora oggi imprigionano menti e corpi
di Girolamo De Michele


Ci sono molte ragioni per regalarsi la lettura delle Lezioni su Spinoza di Gilles Deleuze, sino a ieri disponibili solo online in francese e adesso tradotte e curate col titolo Cosa può un corpo? per Ombre Corte (pp. 202, euro 18,50) da Aldo Pardi, autore di un densissimo saggio prefatorio, all'interno di una la felice congiuntura editoriale: sono da poco disponibili la prima traduzione integrale dei testi spinoziani (Baruch Spinoza Opere , Mondadori, Meridiani Classici dello Spirito, pp. 1885, 55 euro) e il primo dei due volumi che raccolgono tutti gli scritti brevi di Deleuze ( L'isola deserta e altri scritti. 1953-1974 , Einaudi, pp. 380, euro 24). Tre testi che, letti in contaminazione, evidenziano come nel pensiero di Gilles Deleuze si esprima oggi la forma di spinozismo più adeguata al tempo presente.
La prima fondamentale ragione è l'aspetto terapeutico che oggi riveste l'opera di Spinoza: in un'epoca caratterizzata dal governo politico delle passioni tristi, la sua lettura è liberatoria per la sua capacità di andare alla radice delle servitù che imprigionano le menti e i corpi. Ma attenzione: non si tratta di una fuga nell'intellettualismo, né di una riabilitazione dell'aspetto consolatorio della filosofia che lo stesso filosofo olandese disdegnava. La conoscenza dei rapporti tra mente e corpo è, per Spinoza come per Deleuze, sempre pratica: ciò che è in gioco è sempre un concreto incrociarsi e scontrarsi di rapporti di potere, affetti, costruzioni sociali. Lo stesso corpo individuale è una costruzione sociale, un progetto politico: la sua espressione (lo mette bene in luce Pardi nella Prefazione) e la sua interpretazioni sono impensabili senza la comprensione adeguata delle stabilizzazioni imposte dai dispositivi di assoggettamento e dalle forme di riproduzione del potere. La prassi spinoziana (degli spinozisti come del cittadino Baruch Spinoza) era (ed è) affermazione, nel pensiero come nella vita, di un'altra società, di uno scarto rispetto al grado di esistenza e di libertà concesso dal potere: «una società dove il diritto si potesse compiutamente esprimere come potenza collettiva» (Pardi, p. 31).
Ma la potenza del pensiero spinoziano comporta un rischio: che lo spinozismo, magari proprio nella sua versione deleuziana, scada a riproposizione di affermazioni filosofiche con valore di slogan a fronte della crisi dei movimenti e dell'attuale inadeguatezza delle loro prassi. Inadeguatezza che ha la sua radice nell'incapacità di uscire dall'autoreferenzialità, nella chiusura nei localismi e nei soggettivismi: nell'inadeguata capacità di raccordare le lotte e i movimenti locali, i loro spazi e luoghi. Moltitudine, immanenza, molteplicità rischiano così di diventare verbosi artifici buoni a coprire i buchi, le lacune, le fratture - e talvolta effettivamente si assiste al compiaciuto bearsi di simili flati vocis . Contro questa perversione dello spinozismo vale come antidoto quel Deleuze che non ha mai smesso, per tutta la sua vita, di affermare che non basta evocare l'immanenza: bisogna costruirla. Così come non basta invocare la razionalità o la socialità dell'essere umano, socialità e razionalità sono costruzioni. «Non si nasce esseri sociali. Nessuno nasce "socievole"» (p. 82), né si nasce razionali, lo si diventa: «Spinoza non pensa assolutamente come un razionalista - per i razionalisti esistono la ragione e le idee, e se ne avete una, le avete tutte: siete razionali. Spinoza pensa invece che si diviene razionali, o saggi, cosa che cambia del tutto il senso del concetto di ragione» (p. 59).
Divenire sociali e razionali è questione di incontri, e gli incontri sono questione di percezioni, adeguate o meno: per Spinoza la percezione è un problema politico, è forse il problema politico, dal quale tutto scaturisce. Ogni incontro è infatti una composizione che esprime il massimo grado di potenza possibile. Una cattiva, cioè inadeguata, percezione dei corpi, della società, dell'altro condurrà ad una cattiva composizione, esattamente come il veleno è un cattiva composizione per il mio corpo: stiamo parlando ancora di metafisica, stiamo facendo della fenomenologia, o stiamo parlando di analisi sociale, dunque di politica? E' del tutto evidente che questa distinzione non ha senso: il giudizio politico è espressione di una prassi, la quale esprime il massimo livello di composizione dei rapporti di cui posso essere capace a partire dall'adeguatezza o meno della mia comprensione degli elementi costituenti. E' per questo che l'etica di Spinoza non è un'etica del dovere, ma un'etica della potenza: «Spinoza non fa mai della morale, per la semplice ragione che non si chiede mai cosa si "deve" fare. Piuttosto, si interroga su cosa si è in grado di fare, sulla potenza» (p. 55). E sulla potenza Deleuze ci dà una lezione, la settima, che da sola vale l'intero libro, dove l'etica viene rifondata secondo potenza all'interno di un discorso sul limite percettivo e l'uso del colore nella pittura bizantina che sfocerà nei colori di El Greco, pittore molto amato da Deleuze.
Soprattutto - ecco un'altra ragione per leggere questo libro - non ci si chiede mai "cosa posso sperare?": la speranza, come l'invidia, la paura, l'ambizione, è una passione triste. Non per caso non si incontra il tema della speranza in queste lezioni: la speranza è, per Spinoza, una fluttuazione dell'animo speculare alla paura, della quale viene creduta essere il rimedio. Dall' Etica al Trattato politico , Spinoza non ha incertezze nel collegare speranza e paura all'immagine, auspicata o temuta, di una cosa futura del cui accadere dubitiamo. Chi vive nella speranza o nel timore rinuncia a vivere la propria vita in favore o per timore di un'altra vita che non è, e che forse potrà essere. Con le parole di Nietzsche: non è un rimedio alla sofferenza, ma un prolungamento indefinito della sofferenza. Vincolare un altro alla promessa di un beneficio futuro è un modo per assoggettarne tanto il corpo quanto la mente, scrive Spinoza nel Trattato (II.10): costringerne l'anima a cercare di salvarsi piuttosto che insegnarle a vivere la vita. Il governo politico della tristezza non è altro che questo: vincolare la privazione di vita a una speranza, e questa a una «grande speranza che deve superare tutto il resto». Che tale speranza sia un Dio «che può proporci e donarci ciò che da soli non possiamo raggiungere» ( Enciclica Spe Salvi ), o che siano i dispositivi che ci vincolano alla rassegnata accettazione della nostra incapacità a costituirci liberamente al di fuori dei processi di assoggettamento, promettendoci la sicurezza in cambio dell'autodeterminazione: il risultato resta interno alla produzione sociale della paura, del timore, del bisogno di rassicurazione.
Essere spinoziani è una questione di stile: significa rifiutare questi mediocri pastori di anime e di corpi, queste menti frustrate dalle proprie catene che proiettano sul corpo sociale le proprie servitù. Significa scommettere sulle pratiche costituenti di liberazione piuttosto che sui predicatori di tristezza: «Eppure ci sono persone che la coltivano con assiduità... L' Etica è una denuncia radicale di tale atteggiamento - vedete quanto Spinoza sia distante dal giustificare anche minimamente la brama di potere: solo le persone frustrate pretendono il potere, per rivalsa. Per questo sono pericolose. Solo i frustrati costituiscono sistemi di potere basati sulla tristezza. Hanno bisogno della tristezza degli altri. Possono regnare solo facendoli schiavi, perché la schiavitù è precisamente il regime in cui la potenza diminuisce. Gli uomini di potere instaureranno sempre regimi basati sulla tristezza. Per capirci: "Fate penitenza!", oppure: "Odiate questo o quello!". Non avete nessuno da odiare? Odiate voi stessi! La cultura della tristezza, la tristezza come valore, tutte le frasi che dicono: "Per crescere bisogna soffrire", tutte queste cose per Spinoza sono abominevoli. Scrive un'etica proprio per dire: "Non è vero! Proprio per niente!"» (p. 115).

giovedì 27 dicembre 2007

l’Unità 27.1207
«Il premier ignori i rumori di palazzo»
Il segretario di Rifondazione Giordano: il governo intervenga su salari, precarietà, prezzi. E non cadrà
di Andrea Carugati


Dopo la strage della ThyssenKrupp una politica che non affronti la sicurezza sul lavoro è da buttare. Positivo il segnale di Prodi
Il governo guardi al dolore reale della società italiana. Il caso Dini? Non capisco questa logica, è una maionese impazzita

DAVANTI all’ennesimo annuncio di Lamberto Dini sulla fine della maggioranza in Senato, il leader di Rifondazione Franco Giordano sceglie, diversamente dal solito, di non attaccare a muso duro il senatore liberaldemocratico. E al premier Prodi manda un messaggio che ricorda il dantesco “Non ti curar di loro ma guarda e passa”. «Quel tipo di critiche sono rumori di palazzo, inesistenti nella società italiana: rumori che nascono nei luoghi del potere e lì possono morire. Prodi non si lasci ossessionare da queste giravolte, ma guardi al dolore reale della società italiana, salari, prezzi, sicurezza sul lavoro, precarietà. Se dopo la verifica di gennaio il governo metterà in campo provvedimenti seri su questi fronti, e si riconnetterà con i bisogni reali del Paese, bene, sfido i Dini, i Bordon e i Manzione a mettersi di traverso».
Però anche voi non siete stati teneri con il governo...
«Tra noi e Dini ci sono due modi radicalmente opposti per affrontare le difficoltà di questa fase: noi puntiamo a interpretare il malessere della società italiana che la tragedia della Tyssenkrupp ha messo in evidenza in tutta la sua drammaticità. Le critiche di Dini e di altri, cui i numeri del Senato regalano una visibilità sproporzionata, possono essere rese flebili e inesistenti se si rompe lo schema dell’autoreferenzialità di palazzo. Voglio vedere se qualcuno può dire di no alla detassazione degli aumenti contrattuali e allo sblocco dei contratti nazionali».
E tuttavia la questione Dini non può essere elusa. A cosa punta il senatore?
«Ho difficoltà a inseguire questa logica, osservo questa maionese impazzita e sono ben felice di starci lontano».
Con che spirito andrete alla verifica di gennaio?
«Non lavoro per una crisi, anche se ritengo che la verifica sia aperta a tutti gli esiti. Ma dopo la strage della Tyssenkrupp è chiaro che una politica che non affronti quei temi è inservibile, da buttare. E ho colto positivamente che Prodi voglia intervenire sulle retribuzioni, anche con politiche fiscali. È un segnale di attenzione che apprezzo».
Ma se la crisi ci fosse?
«Bisognerebbe fare subito una nuova legge elettorale, e anche alcune modifiche costituzionali. Il referendum sarebbe devastante, e tali sarebbero due listoni contrapposti e molto eterogenei, uniti solo dall’essere contro qualcuno. La legge elettorale è un’emergenza e il sistema tedesco ha una maggioranza in Parlamento».
Per farla può servire un governo istituzionale?
«Non è un tema su cui è utile cimentarsi adesso».
Che vantaggio avreste da un sistema tedesco che riproporrebbe un grande centro come ago della bilancia?
«Siamo pronti a misurarci con questo problema. Ma dipende dalla forza del tuo progetto. Se la sinistra sarà forte e il Pd avrà qualche riferimento sociale dubito che il centro avrà tutto questo peso. E poi, mi scusi, non è il Pd il vero grande centro?
È un’opinione. Torniamo alla verifica.
«I nostri temi sono sul tappeto: detassare il lavoro dipendente, investire su sicurezza del lavoro e lotta alla precarietà. E poi la questione dei prezzi, su cui serve un intervento molto deciso. Cito un esempio abbastanza insolito per me: Sarkozy, quando era ministro dell’Economia nel 2004, convocò le associazioni del commercio e minacciò un controllo sistematico se i prezzi non fossero stati abbassati di un tot ogni semestre. La cosa ha funzionato, facciamolo anche noi. Poi penso a tariffe sociali per le bollette, dal riscaldamento all’elettricità, per chi è sotto una certa soglia di reddito».
Insomma, lei propone di cadere facendo qualcosa di sinistra?
«Secondo me, se interveniamo davvero su salari, prezzi e precarietà, non cadiamo. Vado alla verifica determinato ma anche fiducioso».
Però il sottosegretario Grandi dice che per i salari bisogna aspettare la trimestrale di marzo. Adesso i soldi non ci sono.
«Sui tempi Grandi ha ragione. Per trovare le risorse si potrebbe lavorare immediatamente sulle rendite finanziarie: non penso a espropri proletari, ma possiamo avvicinarci al livello di tassazione europeo, esonerando quell’11% costituito dai piccoli risparmiatori. Decidiamo insieme la soglia sopra cui portare le tasse al 20%».
È questione annosa e delicatissima...
«È una sciocchezza dire che i capitali scappano se ci avviciniamo alla soglia europea. Proviamo ad avvicinare i livelli di tassazione, portando dal 33 al 20% la tassazione degli aumenti contrattuali e portando al 20% le rendite».
Lei delinea una politica tutta di sinistra, proprio quello che Dini teme di più...
«A me pare una semplice osservazione di quello che accade nella società, e una proposta di intervento conseguente».
Come procede il processo unitario a sinistra?
«Qualche passo avanti lo abbiamo fatto, ma bisogna accelerare molto di più: nel Paese c’è una grande attesa».

l’Unità 27.1207
De Masi: «L’Italia è vecchia? Serve una riforma culturale laica per il XXI secolo»


Per otto italiani su 10 (l’80% dei votanti) ha ragione il quotidiano inglese Times, secondo cui l’Italia si appresta a diventare vecchia e povera. È il dato offerto dal sondaggio active di Sky Tg24. A proposito della riforma culturale invocata dal Presidente della Camera Bertinotti, il sociologo Domenico De Masi sostiene che se si vuol uscire dalla morsa tra l’estremismo consumistico degli Usa e l’estremismo religioso dell’Islam, bisogna progettare un modello laico fatto di solidarietà ed estetica, sensualità e saggezza, allegria e sobrietà, per ridurre le diseguaglianze sociali e per accrescere la felicità. Per De Masi «le riforme culturali non sono mai venute da chi è al potere, e quindi a fare questa riforma culturale non sarà l’attuale classe dirigente ma le forze oppositive, una “massa critica” di altissima qualità creativa, pratica e morale, come chiunque è portatore di idee nuove: le ideologie del passato non ci sono d’aiuto perché i problemi sono totalmente nuovi». Per costruire questo nuovo modello laico «non ci si può rivolgere alle ideologie del passato che non servono - avverte De Masi - ci sono però di aiuto due paesi verso cui guardare per imparare qualcosa: Cina e Brasile». Insomma, conclude De Masi, «la sfida è tra valori e principi alternativi: la destra ha la competitività e la produttività; la sinistra, la solidarietà, l’estetica se si propone di ridurre le diseguaglianze ed accrescere la felicità delle persone nel ventunesimo secolo».

l’Unità 27.1207
Se la sinistra attacca Veltroni
di Vincenzo Vita


C’è da riflettere seriamente sulle ultime vicende che hanno diviso il consiglio comunale di Roma, dalle unioni civili al tema dei viaggi di studio per conoscere la tragica storia delle foibe.
Argomenti ovviamente tanto diversi. Tuttavia una lezione da trarne esiste. E riguarda un punto delicato della politica italiana: se ogni occasione è buona per mettere in difficoltà il processo costituente del partito democratico (e il sindaco di Roma, che del Pd è il segretario). Attenzione. Questo non significa eludere le critiche o sorvolare sui limiti del partito in fieri. Ma qui non c’entra. Sembra davvero che vi sia un pre-concetto: quanto più è in difficoltà il Pd tanto più aumenta la presa della Sinistra-Arcobaleno. Non è così. Anzi.
Le due costituenti (e non sembri un paradosso) vanno di pari passo. È un insieme interconnesso. E il dialogo deve continuare, riconoscendo le differenze, ma ben sapendo che il confronto positivo tra le due aree è la condizione per rinsaldare la maggioranza in grado di governare il paese. Ecco perché non si comprende la strategia politica sottesa alla dialettica che ha avuto il suo epifenomeno in Campidoglio. Forse che sulle unioni civili - obiettivo laicamente sacrosanto - si è fatto un passo avanti? O si è lasciata una traccia positiva su una pubblica opinione già sconcertata e amareggiata, riaprendo persino la discussione ormai da tempo definita sulle foibe?
Tra l’altro, la “sinistra critica” ha sempre avuto un atteggiamento molto netto nei riguardi delle storture dei cosiddetti stati “post-rivoluzionari”. Ma andiamo. Dove sta qui l’essere o meno di sinistra? Dobbiamo tutti stare attenti. Ogni prospettiva (non l’una o l’altra) rischia di logorarsi e di svanire se non si riconsegna alla politica autorevolezza e credibilità. Con l’evidente pericolo di dare argomenti ad una destra divisa e in chiara difficoltà. O di far costruire “a tavolino” una posizione nello stesso variegato universo del Pd di integrismo cattolico sugli argomenti della “biopolitica”, a cominciare proprio dalle unioni civili. O, in generale, sull’irrinunciabile carattere laico della sfera pubblica. Il caso di Roma è emblematico. Il doveroso (e convinto) rispetto delle posizioni non può significare indulgenza verso tentazioni distruttive. Si tratta, piuttosto, di cercare sugli argomenti di maggiore delicatezza sedi di dialogo e di intreccio tra storie e sensibilità diverse. Nella stagione post-ideologica valori di riferimento e pratiche o comportamenti concreti si coniugano e si fondono, fino a divenire la stessa cosa. La vecchia impostazione, tipica di un modello di politica che ha concluso il suo corso, fatta di proclami altisonanti e di “routine identitaria” non ha senso. E porta acqua alla decostruzione del discorso politico. Serve un salto di qualità, per evitare di sprecare la straordinaria occasione offerta dalle mobilitazioni recenti (le primarie del Pd, la manifestazione dello scorso 20 ottobre). Per tornare al punto di partenza - Roma - c’è da sottolineare che il “modello” della Capitale è un riferimento di grande rilievo e ha dato un contributo significativo alla riscossa prima, alla vittoria successivamente del centrosinistra. Indebolire simile riferimento è un esemplare esercizio di masochismo, da lasciare augurabilmente a qualche simpatica caricatura televisiva. Tanto più che si approssima la scadenza elettorale della Provincia di Roma, passaggio cruciale ieri e ugualmente domani per la politica italiana. È il caso, quindi, che qualche brutta pagina sia chiusa, per il bene di tutti e anche della sinistra plurale.

l’Unità 27.1207
Il pianeta delle scimmie è già qui
di Enzo Verrengia


PRIMATI intelligenti quasi come noi, almeno in matematica, oppure padroni feroci delle città (in India). La cronaca si allinea all’immaginario nato intorno ai nostri parenti, da Poe a Wallace, da Burroughs a Clarke

Il pianeta delle scimmie è già qui. Un’altra previsione della fantascienza irrompe nella realtà. Con due aspetti. Quello positivo viene dalla North Carolina, dopo esperimenti condotti presso il Centro di Neuroscienza Cognitiva della Duke University. Qui sono stati messi a confronto due gruppi, uno di studenti e l’altro di primati. Risultato: il 76 per centro di questi ultimi riesce ad effettuare veloci operazioni mentali nel calcolo di somme. Cioè le scimmie sanno fare l’addizione. Distanziando di poco gli umani, che hanno toccato una punta del 94 per cento. In particolare, hanno riconosciuto sequenze visive di punti sullo schermo di un computer, segnalando quelle che ne rappresentavano la somma. Lo stesso con quantità di limoni raddoppiate. Ne distinguevano otto da quattro e, dinanzi alla metà del totale, aspettavano il resto. Il tutto si può leggere sul periodico Public Library of Scienze Biology. Ma l’avevano già assodato i giapponesi con gli scimpanzé, i cui esemplari giovani superano addirittura gli studenti nelle capacità di calcolo aritmetico. A dimostrazione che la matematica, nostante venga ancora percepita come spauracchio, è insita del patrimonio genetico dell’uomo e del suo cugino più prossimo.
L’aspetto negativo di questo protagonismo delle scimmie si registra in India. A New Delhi, i macachi infestano le zone residenziali, attaccando gli esseri umani fino a uccidere. Anni fa accadde a un neonato. Il 21 ottobre scorso al vicesindaco della metropoli indiana, Sawinder Singh Bajwa, genitore di un divo bollywoodiano e militante del partito di opposizione Bharatija Janata. Tragica, la vigilia del suo cinquantacinquesimo compleanno. Dei primati hanno raggiunto il balcone al primo piano della residenza di Bajwa, il quale, scartando all’indietro verso la ringhiera troppo bassa, è precipitato, per poi morire all’ospedale.
Intorno a New Delhi, 14 milioni di abitanti, sorgono arterie stradali e ipermercati che erodono spazi alla vegetazione e quindi all’habitat degli animali. Malgrado il crisma religioso che l’India tributa a questa specie, come per l’elefante, la mucca e il cobra, ormai si ragiona in termini di calamità. Tanto da far assumere 1200 «accalappiascimmie» nella sola Delhi, anche su istanza dell’Alta Corte cittadina.
Ma il rapporto fra gli umani e i cugini più selvatici non passa soltanto per le derive della cronaca. La scimmia incombe nell’immaginario. Nell’Eden, dove l’uomo nasce già evoluto, intelligente e ribelle, la scimmia ne è la caricatura. Grottesca e peccaminosa, dunque satanica. Si vedano le colonne della cripta e un capitello a stampella della cattedrale di Bitonto, dove scimmie, anche alate, rimarcano gli agguati del demonio alla condizione dei viventi. Una simbologia che torna nella Puerta de las Platerias di San Giacomo di Compostela.
Il retaggio contemporaneo attinge a questi precedenti e li trasforma in una mitologia culminata in King Kong, che Edgar Wallace scrisse su commissione di Ernest B. Schoedasck e Merian C. Cooper. Due capisaldi preceduti da Edgar Allan Poe. In Gli assassini della Rue Morgue, del 1841, il Cavalier Auguste Dupin, presago di Sherlock Holmes, scopre che a massacrare Madame l’Espanaye e sua figlia è stato un orango del Borneo, sfuggito al suo proprietario, il marinaio di un vascello maltese. Un altro Edgar, Rice Burroughs, riscatta i primati con Tarzan delle Scimmie. Lord Greystoke, salvato in fasce dalla tribù antropomorfa che costituirà poi la sua famiglia, diviene un superuomo della foresta pluviale, che fa delle liane un mezzo di spostamento rapidissimo ed ecologico. Le scimmie di Tarzan sono più umane degli umani, in termini perfino più toccanti di ciò che accade a quelle di Ruyard Kipling, predecessore di Burroughs con i libri della giungla e Mowgli.
2001 odissea nello spazio, fu concepito da Stanley Kubrick a partire dal racconto di Arthur C. Clarke La sentinella e uscì nel 1968. Sarà stato quel monolito nero giunto dalle stelle a far evolvere gli antenati del genere umano, a insegnare che un osso può diventare un’arma e, qualche milione di anni dopo, un mezzo spaziale? Fino al 6 gennaio prossimo, potranno meditarvi una volta di più i visitatori della mostra su Kubrick allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Fra i reperti, i costumi da scimmie per le scene d’apertura di 2001. Non vinsero l’Oscar soltanto perché la giuria dell’Academy Award ritenne che il regista avesse impiegato degli autentici gorilla addomesticati.
Negli anni ’80, due maestri dell’estrapolazione tornano sul tema della bestia a un passo dalla creatura eretta e sapiens. George Andrew Romero, in momentanea trasferta dagli zombies, dirige Monkey Shines - Esperimento nel terrore. La pellicola del 1988 riprende il romanzo di Michael Stewart, dove Alan Mann, un paralitico, scatena la sua violenza attraverso il fisico preponderante di Ella, la scimmia addomesticata per occuparsi di lui (oggi si direbbe badante). Più o meno contemporaneo il libro di Michael Crichton Congo, trasposto in un film nel 1995 da Frank Marshall. Le doti percettive e comunicative della gorilla Amy portano il solito nugolo di umani spregiudicati ad affrontare dei primati superintelligenti nonché spietati in una vera e propria città perduta. Una versione improbabile e parodistica di Gorilla della nebbia, di Michael Apted, sempre dell’88, dal diario dell’etologa Diane Fossey, alla quale prestava il suo fisico scultoreo la regale Sigourney Weaver. Film e libro ben più suggestivi nell’allarme struggente contro l’estinzione di una specie tutt’altro che perniciosa come quella dei bracconieri che si dànno allo sterminio.
Alla fine del millennio, per variare con moto dei sensi sul binomio della bella e la bestia irrompe il danese Peter Høeg con il romanzo La donna e la scimmia. Dai tetti di Londra ai suoi paraggi boschivi, molto trasfigurati in favolistico, per raccontare dell’amore fra Madelene, coniuge insoddisfatta di uno zoologo, ed Erasmus, che dietro le spoglie dell’antropoide cela la spiritualità di un alieno, di gran lunga più avanti alla miserrima umanità terrestre. Il lato oscuro di questa accoppiata lo si ritrova di recente in Fur: un ritratto immaginario di Diane Arbus, per la regia di Steven Shainberg, dove la fotografa suicida interpretata da Nicole Kidman soggiace al fascino di un uomo-scimmia dalle fattezze più leonine che ripropone l’assunto di Tod Browning in Freaks: i mostri sono quelli che si sentono normali.

l’Unità 27.1207
Corea, urla dal passato
di Choe Sang-Hun


Poco dopo lo scoppio della guerra di Corea nel giugno 1950, Kim Man Sik, sergente della polizia militare, ricevette un messaggio urgente dal contro-spionaggio dell’esercito della Corea del Sud: si rechi nelle locali stazioni di polizia, prenda in custodia i sospetti comunisti e li giustizi. Kim eseguì l’ordine. E quello che fece e vide in quei giorni è stampato a caratteri di fuoco nella sua mente. «Erano legati gli uni agli altri con il filo che i militari usano per le comunicazioni. Quando aprimmo il fuoco cominciarono a strattonarsi per tentare di fuggire», ci ha raccontato Kim che ora ha 81 anni. «Il filo gli tagliava i polsi e il sangue imbrattava i loro abiti bianchi».
La vicenda di Kim è venuta alla luce solo dopo mezzo secolo grazie alla Commissione sud-coreana per la Verità e la Riconciliazione, un organismo ispirato a quello omonimo del Sud Africa istituito negli anni '90 per fare luce sulle atrocità e le ingiustizie commesse durante l’apartheid. A differenza della commissione sudafricana, la Commissione della Corea del Sud non ha il potere di perseguire i reati né quello di concedere l’immunità.
La Commissione coreana ha cominciato a scavare i siti da tempo abbandonati delle esecuzioni sommarie di massa. I suoi investigatori hanno scoperto i resti di centinaia di persone - tra cui donne e bambini - uccise senza processo oltre 50 anni fa. Pensano di trovare molti altri corpi in quelli che le famiglie delle vittime chiamano “i campi di sterminio” della Corea.
Si ritiene che le truppe sud-coreane abbiano giustiziato decine di migliaia di civili e prigionieri inermi nel corso della ritirata cui furono costrette dagli invasori della Corea del Nord. Le vittime venivano spesso accusate di essere simpatizzanti comunisti e potenziali collaborazionisti. Ma degli omicidi di massa non si era mai parlato nella storia ufficiale della Corea del Sud fin quando la Commissione ha iniziato il suo lavoro l'anno passato su mandato del Parlamento. Da allora gli investigatori hanno individuato 1.222 probabili casi di esecuzioni di massa durante la guerra di Corea dopo aver interrogato testimoni e scavato nei luoghi indicati. In 215 casi i superstiti affermano che truppe di terra e aerei americani uccisero profughi disarmati.
Ma dopo molti anni dall’avvento della democrazia e malgrado i due successivi governi progressisti del presidente Roh Moo Hyun e del suo predecessore, Kim Dae Jung, abbiano messo al centro della loro politica la riconciliazione con il nord comunista, scavare nella drammatica storia recente della Corea del Sud rimane un compito delicato e spesso doloroso. Sebbene il Paese sia moderno e prospero, si sente ancora la eco delle antiche animosità e delle lotte ideologiche.
A luglio gli investigatori hanno cominciato a scavare quattro delle 160 fosse comuni: tutte zone in cui era vietato l’accesso durante i quattro decenni di governo autoritario dopo la fine della guerra nel 1953. Finora hanno riportato alla luce i resti di 400 persone nonché proiettili, caricatori vuoti e manette.
Gli scheletri sono stati trovati ammassati gli uni sugli altri con i fori dei proiettili in testa e con le mani ancora legate con il fil di ferro arrugginito.
Secondo Park Sun Joo, un professore di antropologia che dirige gli scavi, i resti hanno convalidato i resoconti dei testimoni secondo cui la polizia spesso costringeva le vittime ad accovacciarsi sull’orlo della fossa dove venivano uccise con un colpo di arma da fuoco alla testa e spinte dentro la fossa.
«Il fatto che queste ossa siano rimaste così a lungo abbandonate vicino a dove viviamo, vuol dire che la nostra società vive ancora in una epoca di barbarie», ha detto Kim Dong Choon, membro della commissione di indagine.
In una miniera di cobalto vicino a Daegu, nel sud del Paese, gli investigatori hanno trovato finora i resti di 240 persone. È solo una piccola percentuale dei 3.500 detenuti e sospetti comunisti che, secondo le stime, sarebbero stati prelevati nelle loro case e nelle prigioni e poi giustiziati e gettati nella miniera tra il luglio e il settembre del 1950.
«Ricordo ancora questa gente che veniva trascinata su per la collina e aspettava il proprio turno davanti al plotone di esecuzione», ha detto Park Jong Gil, 67 anni, che, nel luglio del 1950, è stato testimone di esecuzioni analoghe vicino a Cheongwon, nel centro della Corea del Sud. «Dopo i colpi di fucile del plotone di esecuzione, i soldati passavano in rassegna i corpi e sparavano alla testa a quelli che erano ancora vivi».
A Cheongwon finora sono stati trovati 110 cadaveri. «Credo che lì abbiano ucciso quasi 7.000 persone», ha detto Park. «Le esecuzioni andavano avanti ogni giorno per sette od otto ore. Arrivavano quattro camion al mattino e tre al pomeriggio pieni di gente».
Chung Nam Sook, 80 anni, ha detto che nel dicembre del 1950 i sodati dell’undicesima divisione dell’esercito della Corea del Sud fecero irruzione nel suo villaggio a Hampyong, nel sud-ovest del Paese, alla caccia di guerriglieri comunisti. I collaborazionisti nord-coreani erano già scappati, ma i soldati radunarono gli abitanti del villaggio in un campo.
«Ci dissero di accendere una sigaretta. Poi cominciarono a sparare con i fucili e con le mitragliatrici», ha detto Chung. «Dopo un po’ un ufficiale gridò “quelli tra voi che sono ancora vivi e che sono in grado di alzarsi, se ne tornino a casa”. Quelli che lo fecero furono bersagliati dai proiettili».
Malgrado sette fori di pallottola, Chung riuscì a cavarsela fingendosi morto sotto il mucchio di cadaveri. A luglio la Commissione per la Verità e la Riconciliazione ha definito le esecuzioni di Hampyong «un crimine contro l’umanità» e ha detto al governo di chiedere scusa e di erigere un monumento alle vittime.
Sia i coreani del nord che quelli del sud furono accusati dell’uccisione di moltissimi civili disarmati e di aver fatto ricorso al terrore per costringere la gente all’obbedienza quando in tutto il Paese i villaggi cadevano e venivano riconquistati.
Ad esempio, stando a quanto riferisce la Commissione, gli agenti della polizia sud-coreana mascherati da nord-coreani entrarono in alcuni villaggi a Naju, nei pressi di Hampyong, nel luglio del 1950 e quando la gente li accolse sventolando le bandiere comuniste, uccisero 97 persone.
Quando la cittadina passava di mano da un esercito all’altro, gli abitanti dei villaggi che avevano perso i loro familiari si affrettavano a regolare i conti. Ad oltre cinquanta anni di distanza le famiglie nutrono ancora gli antichi risentimenti.
Sebbene le atrocità nei confronti dei civili siano state commesse da entrambi gli eserciti combattenti, coloro che subirono le aggressioni dalle forze di destra schierate con gli Stati Uniti, nei decenni che seguirono la fine della guerra furono costretti al silenzio dal regime militare. Molti furono sottoposti a controlli di polizia e considerati una minaccia nel clima di sospetti della guerra fredda.
Nel sud profondamente anti-comunista, i figli di genitori di sinistra furono discriminati nelle scuole e sui luoghi di lavoro.
Le vittime si sono sentite più libere di parlare con il governo progressista di Roh. Non di meno quando il Parlamento ha istituito la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, il disegno di legge è stato annacquato per impedire che la Commissione avesse il potere di incriminare i colpevoli. Il suo mandato è quello di scoprire la verità a fini storici, di consigliare interventi correttivi sui libri di testo e di contribuire alla riconciliazione risarcendo le vittime o in ricordandole in qualche modo.
A differenza di Kim, l’ex sergente della polizia militare, pochi veterani si sono offerti di testimoniare volontariamente dinanzi alla Commissione. Inoltre i vecchi abitanti dei villaggi temono testimoniando di riaccendere vecchie animosità tra vicini o di passare dei guai se dovessero tornare al potere i conservatori in occasione delle elezioni che si terranno il mese prossimo.
Per Ja Yong Soo, il cui padre era uno dei 218 giustiziati dalla polizia e dai soldati della Marina militare nell’isola meridionale di Jeju nel luglio e nell’agosto del 1950, la giustizia arriva con troppo in ritardo.
Dopo la lunga indifferenza dei precedenti governi, Ja e altri parenti delle vittime sono stati ricompensati il mese scorso scorso quando la Commissione ha finalmente stabilito che le uccisioni erano illegittime anche se è assai poco probabile che i responsabili tuttora vivi vengano processati.
«Molti di questi macellai e i loro figli oggi sono ricchi e potenti», ha detto Ja, 65 anni, parlando degli assassini di suo padre. «Cosa potrò dire quando morirò, incontrerò mio padre in paradiso e lui mi chiederà: “figlio mio cosa hai fatto per restituirmi l’onore?”».
Ja, estremamente commosso, ha incontrato Kim quando l’ex soldato ha testimoniato di recente dinanzi alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione. «Se sei veramente pentito perché non restituisci le tue medaglie al valor militare», gli ha chiesto. Kim ha ammesso di aver ricevuto l’ordine di giustiziare 170 persone a Hoengseong e a Wonju intorno al 28 giugno 1950. Ha detto che alcune delle vittime, il gruppo di “classe A” degli attivisti comunisti, erano “nemici” che avevano attaccato le stazioni di polizia. «Ma quelli che erano classificati di “classe B” e “C” erano contadini innocenti attirati dalla promessa dei comunisti di dare loro la terra», ha detto Kim. «Ancora oggi mi sento in colpa per averli uccisi. Chino il capo in segno di pentimento».
© International Herald Tribune Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 27.1207
La finanza e la shariah
di Karina Robinson


Il prezzo sempre più alto del petrolio sta rafforzando la «finanza islamica»
E questa boom costringe molte società occidentali a confrontarsi (senza preparazione) con le regole della Shariah

Sebbene alcuni segmenti dell’attività bancaria, quali la cartolarizzazione dei “mutui subprime” e il finanziamento dei “leveraged buyouts” (NdT, particolare tipologia di acquisizione di una società) siano in forte crisi, assistiamo ad una spettacolare crescita della finanza islamica.
La legge islamica, o Shariah, vieta il pagamento e il ricevimento di interessi sottolineando invece l’aspetto della suddivisione dei profitti. Inoltre proibisce gli investimenti in attività quali il tabacco, l’alcol e le scommesse.
Le risorse finanziarie, conformi alla Shariah, sono cresciute nell’ultimo anno di quasi il 30% superando i 550,5 miliardi di dollari, secondo analisi globali pubblicate questo mese dal periodico The Banker sulla base di dati forniti dalla società di consulenza «Maris Strategies».
La crescita è superiore alla maggior parte degli altri segmenti nel campo dei servizi finanziari e sembra destinata a continuare in quanto le banche - comprese banche occidentali quali la «Standard Chartered» e la «Goldman Sachs» - sembrano disposte a soddisfare la crescente domanda del miliardo e seicento milioni dei musulmani di tutto il mondo.
Un importante fattore di questo boom è il prezzo elevato del petrolio che ha portato ad un accumulo di ricchezza, tra gli altri, negli Stati del Consiglio di cooperazione del Golfo e in Iran. Inoltre Paesi come gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e la Malesia puntano ad incrementare le entrate pubbliche e a creare posti di lavoro facendo delle loro capitali centri della finanza islamica.
Il settore è ancora in fasce quando si parla di questioni come la trasparenza, la responsabilità e il rating e numerosi sono gli standard impiegati. Ciò comporta anche da parte occidentale, Inghilterra in particolare, una probabile sottovalutazione delle risorse complessive della finanza islamica.
«Le banche islamiche nel Regno Unito per quanto concerne le operazioni differiscono dalle banche del Bahrain che, a loro volta, sono diverse da quelle della Malesia e dell’Indonesia», dice Nabeel Shoaib, direttore di «HSBC Amanah», unità di finanza islamica della banca internazionale «HSBC». «È necessaria la standardizzazione della finanza islamica per evitare la frammentazione e per creare nuove classi di investimenti finanziari in grado di competere con la finanza convenzionale».
I progressi sono ostacolati dalle divergenze tra gli studiosi in ordine a ciò che è in armonia con la Shariah e ciò che non lo è. La Shariah non è una serie di leggi codificate, ma una serie di interpretazioni basate sul Corano e ne consegue che le decisioni sono influenzate dalle convinzioni personali e dalle influenze culturali, osserva Joe DiVanna, direttore di «Maris Strategies».
C’è anche carenza di studiosi esperti della Shariah a causa dell’enorme crescita negli ultimi anni della finanza islamica. E questi studiosi debbono prendere in esame i prodotti sempre più sofisticati che si stanno affacciando sui mercati finanziari - hedge funds in linea con la Shariah e pacchetti finanziari nei quali le azioni scelte sono in armonia con la Shariah.
Lo studio di The Banker sottolinea che la stragrande maggioranza delle richieste viene da clienti di meno di 30 anni di età interessati alla loro identità religiosa e culturale. Tuttavia c’è spesso uno scambio in quanto su molti mercati, i tradizionali prodotti di risparmio possono garantire un valore superiore. Ciò dovrebbe avvenire con sempre minore frequenza nella misura in cui vengono immessi sul mercato più prodotti islamici che rappresentano uno dei principali ambiti di crescita del settore.
Inoltre la crescita deriverà dalla fornitura di servizi a musulmani particolarmente agiati e, sul versante opposto, ai molti musulmani che non hanno un conto corrente bancario. Un settore cui viene ovvio pensare è quello del microcredito per evitare il pagamento di interessi.
Se prendiamo in esame i singoli Paesi, l’Iran è quello che detiene la maggior parte della finanza islamica con 155 miliardi di dollari, grazie al fatto che tutte le istituzioni debbono essere conformi alla Shariah e grazie anche al fatto che ha una popolazione di 71 milioni di abitanti. In Arabia Saudita e in Malesia le banche e le compagnie di assicurazione possono offrire anche prodotti convenzionali.
Ciò che sorprende esaminando la classifica dei Paesi, è il fatto che la Gran Bretagna, Paese non musulmano ma con due milioni di abitanti musulmani, figura al decimo posto con 10,4 miliardi di dollari di risorse conformi alla Shariah.
Ciò si deve in gran parte a «HSBC Amanah», che dispone di 9,7 miliardi di dollari in risorse conformi alla Shariah e che ha sede a Londra. Ma riflette anche il ruolo della City come primario centro di servizi finanziari globali con il governo britannico che svolge un ruolo di sostegno nello sviluppo del settore.
La Gran Bretagna intende diventare il primo governo occidentale ad emettere obbligazioni islamiche e ha già valutato le possibilità anche se l’ipotesi di emettere queste obbligazioni nella prima metà del 2008 è ormai tramontata a causa delle nuove complesse normative concernenti la legge islamica. Appena il mese scorso «Citigroup» ha annunciato un crollo del 57% dei profitti netti nel terzo trimestre, scesi a 2,38 miliardi di dollari, a causa dei “mutui subprime”, dei “leveraged buyouts” e dei derivati a reddito fisso.
«Citigroup» non è sceso in dettagli riguardo alla sua unità per la finanza islamica, una percentuale modesta rispetto alle altre unità, ma non modesta per tasso di crescita e per ambizioni: l’anno passato la banca americana figurava al nono posto per la sottoscrizione di obbligazioni e prestiti islamici; quest’anno, secondo Bloomberg, figura al primo posto con una quota di mercato del 12,5% e transazioni per 4,5 miliardi di dollari.

Karina Robinson è caporedattore di The Banker © International Herald Tribune Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Corriere della Sera 27.12.07
Il patto di Faust. Ceto medio e Stato resteranno alleati finché l'economia reggerà
Ma se la corsa cinese inciampa il regime potrà farsi aggressivo
Sempre più attraente, il modello Pechino non è però infallibile
di Ian Buruma


Paralleli storici
Per certi versi l'800 tedesco è quanto di più vicino al Modello Cinese.
Quel nazionalismo fu letale
10 % oggi sotto la soglia di povertà. Nel 1990 il 33% della popolazione era sotto la soglia di povertà

Il 2008 sarà l'anno della Cina. I Giochi olimpici — con la loro regia sicuramente impeccabile, senza l'ombra di un contestatore, un senzatetto, un dissidente religioso o altri guastafeste di sorta —, esalteranno con ogni probabilità il suo prestigio globale. E mentre l'economia americana continua a sprofondare nella spirale dei mutui immobiliari insolvibili, il boom della Cina non si arresterà. Nuove e spettacolari costruzioni, progettate dagli architetti più in vista sulla scena mondiale, faranno di Pechino e Shanghai i modelli dell'avanguardia del ventunesimo secolo. Gli imprenditori cinesi scaleranno tutte le classifiche degli uomini più ricchi del pianeta. E, nelle aste internazionali, gli artisti cinesi riusciranno a strappare quotazioni che i loro colleghi possono soltanto sognare.
Riemergere da uno stato di sostanziale miseria e da una sanguinosa tirannia nel giro di una generazione è un'impresa mirabile, e alla Cina va reso merito di tutto ciò. La sua fortuna, tuttavia, costituisce anche la sfida più significativa rivolta alla democrazia liberale sin dai tempi del fascismo, negli anni 30 del secolo scorso. E non perché la Cina rappresenti una seria minaccia militare. Il rischio di una guerra con gli Usa, o addirittura con il Giappone, non è che una fantasia nella mente di qualche fanatico e paranoico ultranazionalista. No, è nel campo delle idee che il Modello Cinese mette a segno le sue vittorie. Il successo materiale della Cina, con buona pace delle ripercussioni sull'ambiente naturale, fa del suo modello politico-economico un'attraente alternativa al capitalismo liberal-democratico.
Di più: un'alternativa concreta. A dispetto dei proclami di alcuni esperti e intellettuali, il capitalismo cinese non rispecchia quello europeo di ottocentesca memoria. Se due secoli fa, infatti, la classe operaia (per non parlare della popolazione femminile) in Europa non godeva del diritto di voto, tutte le classi sociali potevano contare su molteplici forme di vita organizzata indipendenti dallo Stato. Anche durante gli stadi più critici del capitalismo occidentale, la società civile in Europa e negli Stati Uniti poggiava su di un'estesa rete di circoli, partiti, società e associazioni, dalle chiese ai club sportivi. Lo stesso valeva per una Cina ancora lontana dalla democrazia, prima che il presidente Mao soppiantasse ogni potenziale minaccia al monopolio perfetto del Partito comunista.
Dopo il tramonto del Maoismo, la popolazione cinese ha riconquistato numerose libertà personali, ma non quella di organizzarsi politicamente (o in altro modo) sfuggendo al controllo del Partito. Il comunismo sarà anche fallito come ideologia, ma sotto questo particolare aspetto la Cina non è cambiata. Il Modello Cinese è talvolta descritto in termini tradizionali, come se la moderna politica del Paese fosse semplicemente una versione aggiornata del confucianesimo. In realtà, invece, una società in cui la corsa alla ricchezza da parte della classe dirigente viene esaltata più di ogni altra prerogativa umana, è ben lungi da qualsivoglia tradizione confuciana.
Si fa fatica, tuttavia, a negare il successo di tale modello. Se c'è un mito che la corsa cinese alla ricchezza ha sfatato, è l'idea confortante che dal capitalismo, e dalla crescita di una ricca borghesia, non possa che scaturire una democrazia liberale. Al contrario, è proprio il ceto medio benestante, subornato a suon di promesse di illimitati guadagni materiali, che spera di preservare l'attuale ordinamento politico. Può darsi sia, il loro, un accordo faustiano (la prosperità in cambio dell'obbedienza politica, o meglio dell'abdicazione), ma finora ha funzionato.
Il Modello Cinese non attrae soltanto le nuove élite della Cina costiera, ma esercita un ascendente globale. I dittatori africani — anzi: i dittatori di qualunque Paese — che sfilano sugli sfarzosi tappeti rossi srotolati al loro arrivo a Pechino, l'adorano. Si tratta infatti di un modello antioccidentale, e i cinesi non vanno in giro a predicare la democrazia. Anche se volessero, non sarebbero nelle condizioni per farlo. Esso, però, è anche fonte di ingenti somme di denaro, che finiscono per lo più nelle tasche di questi stessi despoti. Il punto, tuttavia, non è la corruzione. La vera vittoria è di natura ideologica. Dimostrando che l'autoritarismo può avere successo, la Cina assurge a modello per gli autocrati di ogni dove: da Mosca a Dubai, da Islamabad a Khartum.
Ed esercita una crescente attrattiva anche in Occidente. Uomini d'affari, magnati dei media, architetti: tutti si riversano in Cina. Quale location migliore, infatti, per fare affari, costruire stadi e grattacieli, o vendere tecnologia informatica e sistemi di comunicazione, di un Paese privo di sindacati indipendenti, nonché di qualsiasi forma di protesta organizzata che possa intralciare gli interessi economici? Le riserve sui diritti umani o civili, intanto, sono liquidate perché «polverose», o espressione dell'«arrogante imperialismo dell'Occidente».
C'è un «ma», tuttavia, che rovina tutto. Nessuna economia mantiene lo stesso ritmo di crescita all'infinito. Prima o poi, giunge una crisi. E che cosa accadrebbe, se il patto tra il ceto medio cinese e lo Stato monopartitico cominciasse a scricchiolare a seguito di una battuta d'arresto, o peggio di una recessione, nell'irrefrenabile corsa alla ricchezza materiale? È già accaduto in passato. Per certi versi, la Germania del diciannovesimo secolo, con la sua potenza industriale, il suo ceto medio istruito ma politicamente sterile, e la sua tendenza al nazionalismo aggressivo, è quanto di più vicino al Modello Cinese. Nel caso tedesco, il nazionalismo si rivelò letale non appena crollò l'economia, e i tumulti sociali minacciarono di sovvertire l'ordinamento politico.
Lo stesso potrebbe accadere in Cina, dove l'orgoglio nazionale rischia costantemente di scivolare in uno scontro con il Giappone, Taiwan e, alla lunga, con l'Occidente. Anche il nazionalismo aggressivo della Cina potrebbe rivelarsi letale, qualora la sua economia inciampasse. E poiché nessuno ha interesse a che ciò avvenga, non possiamo che augurarle il meglio per il 2008, e dedicare un pensiero anche a tutti i dissidenti, i sostenitori della democrazia e gli spiriti liberi che languono nei campi di lavoro e nelle prigioni, sperando che possano vedere il giorno in cui anche i cinesi saranno un popolo libero. Può darsi che sia un sogno ancora lontano, ma a che cosa serve l'atmosfera di Capodanno, se non a sognare?
(Traduzione di Enrico Del Sero)

Corriere della Sera 27.12.07
L'inchiesta. La procura ha emesso le ordinanze a partire dalle denunce dei familiari degli scomparsi di origine italiana
Da Roma richiesta d'arresto per 140 golpisti sudamericani
Mandato di cattura per i vertici delle dittature degli anni 70 e 80 responsabili del «Piano Condor»
di Alessandra Coppola


La fuga del capitano si è arenata nel porto di Salerno. Catturato alla vigilia di Natale, l'ufficiale in pensione della marina uruguayana, Jorge Néstor Tróccoli Fernández, è già nel carcere romano di Regina Coeli per essere interrogato.
È stata la sua presenza sulle coste campane, segnalata dall'Interpol, a far scattare la misura cautelare e una catena senza precedenti di ordini di arresto a essa collegati: 140 ordinanze emesse dal gip di Roma Luisanna Figliola su richiesta del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo per altrettanti esponenti di spicco delle giunte militari e degli apparati di intelligence che hanno soffocato il Sudamerica negli anni Settanta e Ottanta. «Il dream team della repressione», titolava ieri il quotidiano argentino Página/12: dagli ex golpisti a Buenos Aires Jorge Rafeal Videla ed Emilio Eduardo Massera al dittatore di Montevideo Jorge Maria Bordaberry, fino al capo della Dina, i servizi segreti cileni, Manuel Contreras. Molti sono già sotto processo in patria, per gli altri toccherà al ministero di Giustizia avviare le procedure di ricerca e sollecitare le eventuali estradizioni. «Questo procedimento è durato molto a lungo nella sua fase di indagini preliminari — nota con il Corriere l'avvocato di parte civile Giancarlo Maniga —. Ma, visto il risultato, valeva la pena aspettare».
La lunga e intricata tela tessuta in oltre nove anni dal pm Capaldo, e conclusa in 416 pagine di atti, ha ricostruito minuziosamente responsabilità e connivenze del «piano Condor »: il patto di «mutua assistenza » tra i regimi militari di Cile, Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay e Bolivia per lo scambio di informazioni e, soprattutto, per l'eliminazione dei presunti oppositori «izquierdistas». Il giovane uruguayano di origine italiana Bernardo Arnone, per esempio, militante del Partido per la victoria del pueblo, sequestrato a Buenos Aires il primo ottobre 1976, condotto al centro clandestino Automotores Orletti, quindi «trasferito» a Montevideo e fatto sparire. Una sorta di «extraordinary renditions » ai tempi delle dittature sudamericane, concluse con l'assassinio di 13 mila «sinistrorsi » sospetti. Così scompare Lorenzo Viñas, argentino di mamma marchigiana: il 26 giugno 1980, a Santa Fé sale a bordo dell'autobus destinazione Rio de Janeiro. Non arriverà mai: bloccato alla frontiera con il Brasile, viene portato in una prigione illegale, il corpo gettato nel Rio de la Plata.
A partire dai casi Arnone e Viñas e da altre 23 denunce di familiari di scomparsi di origine italiana, la procura di Roma ha stilato l'elenco di 146 indagati (sei deceduti), tra i quali lo stesso ex dittatore cileno Augusto Pinochet, morto due anni fa. Strage, sequestro di persona, omicidio plurimo aggravato. Le accuse sono tutte pesantissime. Con un posto «d'onore» per Santiago che avrebbe pianificato il patto del Condor nel '74 e dato l'avvio «ufficiale» con una riunione nell'ottobre del '75 nelle stanze della Dina. Particolari che sono emersi di recente, in gran parte dagli archivi scovati in un sobborgo di Asunción nel '92. Una mole di carte che anche in America Latina faticano a mettere insieme e che ora il lavoro romano può contribuire a decifrare.

Corriere della Sera 27.12.07
Scariche su piccoli con ritardi o autolesionisti
Zaini con elettroshock per ragazzini violenti
Boston, polemiche sulla terapia a scuola
Si chiama «terapia avversativa». Le scariche avvertono i bimbi che non devono compiere certi gesti
di Margherita De Bac


ROMA — Ricorda scene da riformatorio ottocentesco, dove i discoli subivano punizioni corporali. Invece è pura realtà quella che tutti i giorni si riproduce in una scuola a sud ovest di Boston, il Judge Rotenberg Educational Center in Canton. I ragazzi vengono richiamati all'ordine con scariche elettriche. Agli educatori basta la pressione di un telecomando, a sua volta collegato a elettrodi, contenuti in uno zainetto, applicati in genere alle gambe, alle mani, ai piedi o al torace.
Si chiama terapia avversativa e viene utilizzata come sostegno ad altri tipi di trattamento per studenti con ritardi mentali o autismo. Bambini non semplicemente indisciplinati. Molto di più. Violenti contro la propria persona e con gli altri, ma soltanto perché malati. Lo Stato di New York ha proposto l'abolizione del sistema dopo aver accettato per anni che alcuni studenti particolarmente difficili frequentassero l'istituto del Massachusetts. Il bando scatterà nel 2009, fino ad allora sono previste restrizioni nella somministrazione delle scariche.
Ma a non opporsi all'elettroshock sul corpo (mai al cervello, che però qualcuno ha proposto) sono proprio coloro che si supporrebbe dovrebbero pretenderne lo stop, i genitori.
Sentiamo le ragioni, riportate dal New York Times, della mamma, Susan Handon, di una ventenne: «Crystal è al Rotenberg da quattro anni. Dimentica presto le scosse. Se non le ricevesse non capirebbe che certi comportamenti come colpire la gente in faccia non sono accettabili, non lo deve fare. Ora potrò riportarla a casa».
L'istituto bostoniano è frequentato da bambini con gli stessi problemi di Crystal, a volte violenti, a volte autolesionisti. Le scariche li avvertono che non devono compiere certi gesti e così il dolore viene immediatamente associato all'idea del divieto. Simili pratiche ovviamente sono lontane anni luce dall'Italia a tal punto da essere sconosciute a diversi neuropsichiatri infantili. «Si tratta di un metodo di condizionamento attraverso stimoli negativi — dice Raffaella Tancredi, direttore del centro di riferimento per diagnosi e cura dell'autismo dell'Istituto Stella Maris a Pisa —. Non la condivido, preferisco ottenere i comportamenti desiderati dando in cambio al bambino una gratificazione, ad esempio il cibo che gli è più gradito o il permesso di svolgere l'attività che gli piace». Oltretutto, insiste la neuropsichiatra, da queste terapie cosiddette di rinforzo si ottengono «piccoli miglioramenti. Noi utilizziamo trattamenti basati sullo sviluppo ».
E' pienamente comprensibile il favore di genitori con figli autolesionisti, pericolosi per se stessi. Per autorizzare gli insegnanti a impartire le scosse devono rilasciare l'autorizzazione al giudice. Critico Pietro Pfanner, direttore del dipartimento di neuropsichiatria all'università di Pisa: «Un sistema medievale, grossolano e di efficacia non provata a livello scientifico».
Difende la terapia avversativa Michael Flammia, avvocato dell'Istituto Rotenberg: «L'intervento funziona anche in casi gravi per i quali sarebbero necessarie massicce dosi di psicofarmaci. Noi offriamo alle famiglie un'alternativa, una speranza ».

Una sconfitta per la scuola
di Fulvio Scaparro

Elettroshock per «educare» ragazzi ribelli? In Italia non verrebbe nemmeno in mente. Un danno per bambini e ragazzi, una sconfitta per genitori, scuola, terapeuti, istituzioni. Ma anche negli Stati Uniti, il fatto che se ne parli, non vuol dire certo che la proposta sia condivisa. Niente deve essere preso come oro colato e, di fronte a soluzioni simili, le reazioni critiche sono dominanti. Già il ricorso ai farmaci è discutibile e discusso, eppure esistono correnti forti che vorrebbero introdurli di prassi nei casi di incontenibilità non controllabile. E per qualcuno questi casi riguardano la stragrande maggioranza di ragazzi che per vari motivi non si adeguano alla disciplina in casa, a scuola, nella società. Fino a prova contraria, ogni terapia deve basarsi su una diagnosi e per arrivare a una diagnosi occorre anche indagare, operazione quest'ultima forse più difficile, o più amara, di quanto sembri. A volte da curare sono le relazioni, l'alimentazione, l'ambiente di vita in ogni suo aspetto. In ogni caso, la prima terapia consiste nella cura delle relazioni in famiglia, a scuola, ovunque il bambino viva. Quando, in alcuni casi, si rende necessario un intervento farmacologico occorre affidarsi a pediatri di grande competenza e sensibilità, consapevoli che l'irrequietezza, l'iperattività, i deficit di attenzione, molto diffusi oggi come ieri, non si risolvono con l'abuso di un'etichetta diagnostica, ADHD, che, soltanto negli Usa, è affibbiata a milioni di bambini.

Corriere della Sera 27.12.07
Sessant'anni fa veniva promulgata la Costituzione. Con un nuovo istituto di democrazia diretta
Referendum, quel no di Togliatti
Il leader comunista, che temeva l'«immaturità delle masse», fu il capofila degli oppositori Ma il futuro presidente Luigi Einaudi e Aldo Moro riuscirono a vincere tutte le resistenze
di Anna Chimenti


Con la promulgazione, il 27 dicembre 1947, giusto sessant'anni fa, della Costituzione italiana, anche il referendum, oggetto di una disputa assai accesa in Assemblea costituente, entrava formalmente a farne parte, anche se per 22 anni sarebbe rimasto nel cassetto. Oggi che un referendum, di nuovo, si prepara a incidere sulle sorti del governo e forse dell'intera legislatura, in attesa che la Corte costituzionale si pronunci, è interessante andare a rileggersi il dibattito tra i padri fondatori e scoprire che i loro timori e cautele erano tutt'altro che infondati.
La scelta non fu facile. Era complicato introdurre un istituto di democrazia diretta in un sistema parlamentare come quello italiano. Inoltre, mancavano riferimenti che consentissero ai costituenti di valutare preventivamente gli effetti delle loro decisioni. Un largo uso del referendum era previsto dalla Costituzione di Weimar, ma la debolezza e il tragico approdo di quell'esperienza ne facevano un precedente di cui diffidare. Negli Stati Uniti non esisteva l'istituto dello scioglimento delle Camere ed era quindi più avvertita l'esigenza di garantire al popolo un intervento diretto al di fuori delle scadenze ordinarie. Ciò accadeva anche in Svizzera dove, tra l'altro, le limitate dimensioni del Paese rendevano più praticabili esperienze di democrazia diretta.
Fin dalle prime battute in Assemblea costituente emersero diversi schieramenti. Al referendum si accostava senza entusiasmo gran parte della sinistra. I comunisti lo ammettevano in linea teorica come «strumento di democrazia» (Grieco), come «forma di controllo popolare» (Terracini), come «espressione di un diritto popolare», ma con cautele (Laconi). Togliatti, teorico dell'immaturità delle masse, finì per diventare il capofila degli oppositori. Via via ne furono sempre meno convinti i liberali, anche se Einaudi si schierò in difesa del referendum. A sostenerlo apertamente rimasero i cattolici, che lo avevano inserito nel primo programma del Partito popolare. E i repubblicani, perché la Repubblica era nata da un referendum. Per dare un'idea delle riserve che emergevano, si pensi che a un certo punto fu proposto dal cattolico Foschini e dal repubblicano Perassi di sottoporre le richieste di referendum al pagamento di una cauzione.
In Assemblea, la discussione partì dalla proposta Mortati, che conteneva quasi tutti i tipi di referendum, a partire da due ipotesi di consultazioni promosse dal capo dello Stato, con atto controfirmato dal presidente del Consiglio, per sospendere una legge approvata dalle Camere o per dar corso a un disegno di legge del governo respinto dal Parlamento: il popolo, in questi casi, sarebbe diventato arbitro di dissidi tra organi costituzionali. E non stupisce che, come ricorda Meuccio Ruini, rispetto a queste proposte «ci fu una generale levata di scudi ». Analoga fine fece l'ipotesi di referendum propositivo, a cui si oppose prima di tutti Umberto Terracini: i costituenti ritennero infatti che in questo modo il corpo elettorale avrebbe potuto incidere notevolmente nella determinazione dell'indirizzo politico del Paese, alterando gli equilibri interni della forma di governo.
Ma il compito di una demolizione pressoché totale del referendum se lo assunse Togliatti. Prima contestando il numero di 500 mila firme, a suo parere troppo basso, richiesto per il referendum di iniziativa popolare. Poi protestando contro l'ipotesi di referendum sospensivo di una legge, perché «con tale sistema un partito fortemente riorganizzato (ed è chiaro che Togliatti non pensava al suo) avrebbe la facoltà di sospendere la vita di tutte le assemblee, cioè la vita costituzionale del Paese». Infine, aprendo uno spiraglio a un'introduzione limitata, caratterizzata da «episodicità » ed «eccezionalità» dell'istituto. Motivo ricorrente nella politica comunista che porterà il Pci, negli anni Settanta, dopo il referendum sul divorzio, ad avanzare una serie di proposte correttive e limitative, per evitare — sono parole di Berlinguer — che il referendum diventi «strumento plebiscitario in contrapposizione alla democrazia parlamentare e rappresentativa».
La questione dei limiti diventò così terreno per un'intesa. L'accordo tacito, voluto da Einaudi e da un giovanissimo, ma già allora abile mediatore, Aldo Moro, fu di varare il solo referendum abrogativo, quello a minor tasso di rischio, imporgli confini molto ridotti e creare le condizioni per cui in pratica non si dovesse ricorrervi mai. E sarà Einaudi a vincere le ultime resistenze di Togliatti, con un'argomentazione, vista oggi, quasi ingenua. «Il referendum — dirà il futuro capo dello Stato — comporta ingenti spese e nessun partito vuole sprecare denaro (…), né preoccuparsi di odiosità presso gli elettori, disturbandoli continuamente per fare un referendum». Quanto simili previsioni dovessero rivelarsi avventate, lo si vedrà ventidue anni dopo, nel 1970: quando lo scambio tra l'approvazione della legge sul divorzio, subita da una Dc sotto pressione del Vaticano contrario allo scioglimento legale del matrimonio, e l'introduzione effettiva, attraverso una legge di attuazione, della consultazione referendaria che doveva servire a cancellare il divorzio, darà il via a una vera valanga di referendum ad opera dei radicali.

Corriere della Sera 27.12.07
Antologia. Le vite di santi e beati dal Rinascimento
Tra le braccia di Dio: estasi, visioni, agonie delle grandi mistiche
di Giorgio Montefoschi


«La mistica», così la descrive Carlo Ossola nell'ottima introduzione alla antologia einaudiana dei mistici italiani del Cinque e Seicento, «è un avanzare infinito verso ciò che si allontana». Splende, sopra questo orizzonte di tormento, la luce meravigliosa di due stelle. Due donne: Maria Maddalena de' Pazzi, Veronica Giuliani. Se l'esperienza mistica è una esperienza di vita e di perdita «che non si pensa, si compie» e, come scrive sempre Ossola, «al momento di enunciarla, argomentazione e articolazione semantica si ottundono»; insomma, le estasi, le visioni, le agonie d'amore sono assolutamente vere e però il linguaggio che dovrebbe esprimerle è un linguaggio balbettante, improprio, infinitamente perdente perché, scendendo da altezze inaccessibili, nulla più conserva della congiunzione amorosa e del perdersi in Dio, loro: Maria Maddalena e Veronica, di questa vicenda straordinaria, sono l'esempio più doloroso e fulgido.
Vorremmo tornare indietro ai primi del Seicento e sedere con le suore del convento fiorentino di Santa Maria degli Angeli, dietro alla porta della cella in cui Maria Maddalena era rapita, sentendosi «d'un subito» tutta unita con Dio, pacificata in una dolcissima quiete, annichilita dall'aridità e dallo sgomento, e credeva di vedere Gesù unirsi all'Anima Sposa, «mettendo il suo capo sopra quello di essa Sposa, e così gli occhi sua sopra quelli di lei, la bocca sua sopra quella della Sposa, e così le mani e i piedi, e finalmente tutti li altri sua membri, tanto che la sposa diveniva una cosa medesima con lui».
Vorremmo ascoltare, con le nostre orecchie, quella litania costituita di brevi frasi monche, intervallate dal silenzio, che le sorelle carmelitane trasmettevano le une alle altre, per timore di perdere anche una sillaba, come in un telegrafo senza fili nel corridoio oscuro. L'amore che unisce a Dio — diceva Maria Maddalena — ha varie forme: può essere «rilassativo», perché l'anima si abbandona; «ozioso», perché l'anima è muta e contempla; «ansioso », perché desidera che tutte le creature conoscano Dio. Ma l'ultimo, quello più vero, quello irrefrenabile con parole umane, è oscuro. È l'amore «morto» perché allora l'anima non desidera, non vuole, non cerca nulla, «vivendo come morta» in Dio, non sente più nulla.
Il nulla è al centro dell'esperienza mistica di Veronica Giuliani, vissuta un secolo più tardi. Badessa del convento delle cappuccine di Città di Castello, questa monaca illetterata capace di concessioni metafisiche — come quelle dello specchio o quella dell'identità fra amato o amante — degne di Platone, affidò, alle pagine del suo Diario,
parole definitive sul nulla. Veronica conosceva molto bene l'amore di Dio. «Aprimi, aprimi» le diceva il Signore, facendole capire però che voleva star solo con lei, il dominio del suo cuore lo voleva tutto. Lei apriva la porta del suo cuore e lo implorava: «Mio Signore, non fate più il fuggitivo, restate con me per sempre». Allora, il Signore la faceva come impazzire, trasportandola fuori di sé e nelle sue braccia; la baciava una, due, tre volte facendole scoppiare di violenza il cuore — «perché quando Iddio dà di questi baci, son cose tanto penetrative che pare metta sottosopra tutto il nostro in eterno»; poi, al quarto bacio, le diceva queste precise parole: «Ora piglio possesso di te e tu datti tutta a me».
Altre volte, invece, e molto spesso, il Signore non bussava alla porta, spariva e lei aveva l'impressione di trovarsi come dinanzi a una nebbia densissima o in mezzo al mare. Un giorno, il 13 gennaio del 1697, non potendo più resistere, corse nell'orto. Tirava una forte tramontana. Veronica cominciò a gridare. Correva da una parte e dall'altra, dicendo: «Mio Signore, non mi fate più penare, ritornate da me, io vi voglio, il cuor mio non può stare senza di voi. Io non cesserò di cercarvi sinché trovato non ho voi, mio bene infinito ». Quand'ecco che, a un tratto — scrisse — «parvemi di sentire un non so che di nuovo nel mio cuore, che mi batteva molto forte, ed anco vi era un gran dolore. Parvemi di sentire il Signore, ma non vedevo niente. Sentivo i suoi inviti e mi facevano volare per tutto l'orto».
Altre volte ancora, Dio non veniva affatto. Neppure le diceva: «Tu non devi amarmi come desideri, ma devi amarmi come io voglio». Era assente. Perduto. L'anima era perduta. E quello era davvero il nulla: la notte oscura del Getsemani e della fede, tanto oscura che non vi possiamo cercare nemmeno la fede. Ma lei, Veronica Giuliani, Dio non smetteva di cercarlo. Perché nonostante il dolore della sua privazione, anzi a causa di questo dolore, sapeva che Dio era in quella oscurità; era lì. Infatti, scrisse nel Diario, «chi lo vuole lo deve cercare fra il niente. Come noi conosciamo questo niente, possiamo dire che abbiamo trovato Iddio ». Di questo Dio, scrisse ancora «più se ne sente e meno si sente, perché nessuno lo può spiegare, né capire né comprendere».
nell'immagine: «Maddalena in estasi» (1606), olio su tela di Caravaggio (Archivio Corsera)


il Riformista 27.12.07
Donne e casa bianca. Veggente, suffragetta e socialista
Victoria, la candidata che ispirò Henry James
di Tonia Mastrobuoni


Fu tradita dalle suffragette più conservatrici
La parabola di una donna geniale che collezionò primati

Hillary Clinton non è né la prima donna in corsa per la Casa Bianca né la prima candidata ad aver subito una vergognosa campagna "contro" basata sulle rughe, sulla vecchiaia e sul fatto di essere una «megera». Insomma, su dettagli che poco hanno a che fare con la politica. Ben peggio andò centotrentacinque anni fa alla sua "antenata", Victoria Claflin Woodhull, candidata dal Equal Rights Party alla poltrona più alta di Washington, suffragetta, socialista, propugnatrice del "libero amore". Ma rappresentata come «puttana», «strega» e «Mrs Satana» dagli avversari, compresa l'eroina dei diritti civili e autrice della Capanna dello zio Tom, Harriet Beecher Stowe. Così, finì che la Woodhull fu anche la prima aspirante presidente a passare il giorno delle elezioni americane, il 4 novembre 1872, in carcere.
Contrariamente ad Hillary, la prima donna che sia mai stata candidata alla Casa Bianca non era una senatrice ex avvocatessa di successo sposata con un ex presidente degli Stati Uniti. La sua epica biografia partiva decisamente da zero. Originaria dell'Ohio, figlia di un avvocato che entrava e usciva di prigione, legatissima alla sorella Tennessee, Victoria Claflin sposò appena quindicenne un medico, Canning Woodhull, che si rivelò ben presto un alcolista e un donnaiolo. Fu lei dunque, con la sua attività di maga e veggente, a garantire il sostentamento alla famiglia. Secondo alcuni biografi, durante questo primo, fallimentare matrimonio sarebbe nata la teoria successiva, spesso mal interpretata, del "libero amore". Che non ha a che fare con il sesso libero o la promiscuità sistemica, ma che è una risposta evidente, nella testa della Woodhull, all'ipocrisia imperante dell'epoca, che accettava l'adulterio degli uomini e non quello delle donne. Il legame tra uomo e donna doveva essere monogamo, ma il matrimonio fondato sull'amore, e dunque non durare per forza «finché morte vi separi». In un famoso discorso al terzo congresso delle suffragette americane del 1871, la Woodhull osservava in un magnifico passaggio che «il matrimonio si sforza di preservare la sua influenza e di mettere le persone in soggezione rispetto a quelli che vengono considerati dei principi di purezza morale. Si può facilmente stabilire che ciò ha avuto successo osservando come centinaia migliaia di donne che vengono chiamate prostitute, sono mantenute da centinaia di migliaia di uomini che dovrebbero essere chiamati prostituti anche loro, per le stesse ragioni, visto che ciò che trasforma una donna in una prostituta dovrebbe anche cambiare un uomo nella stessa cosa». Quanto al matrimonio, la Woodhull si domandava retoricamente se in un'«epoca illuminata» ci si potesse ancora sposare senza amore. E la risposta era «No!», perché «è solo una legge stupida e arbitraria che non trova riscontro in natura».
La battaglia della Woodhull nulla aveva a che fare dunque con il libertinismo: la prima candidata alla Casa Bianca si batteva in sostanza per la libertà delle donne di separarsi da mariti molesti e puntava il dito contro la doppia morale puritana, indulgente con gli uomini, molto meno col gentil sesso.
Divorziata - di conseguenza - dal primo marito alcolista e adultero, risposata con James Harvey Blood, a trent'anni o giù di lì (in realtà è alquanto dubbia la sua data di nascita, a causa della mancanza di registri affidabili in Ohio) la Woodhull si trasferì con la famiglia e l'inseparabile sorella Tennessee a New York. Lì continuò a guadagnarsi il pane come veggente, finché non assicurò un paio di giocate in borsa azzeccate al magnate delle ferrovie Cornelius Vanderbilt. Divenne la sua consulente spirituale e cominciò a ricevere una quota delle vincite dal grande Commodore. Poi, nel 1870, fondò assieme alla sorella - con il fondamentale sostegno di Vanderbilt - la Woodhull, Claflin & Company, un'agenzia di brokeraggio tutta al femminile. E mise a segno il primo di una serie di primati: Victoria Woodhull e la sorella Tennie furono le prime broker donne di Wall Street. Talmente brave da diventare ricche nel giro di pochissimo tempo e guadagnarsi il titolo di «regine della finanza» e «bewitching brokers» dal New York Herald.
Nello stesso anno le due sorelle dell'Ohio fondarono una rivista, sempre ispirata ai loro cognomi, la Woodhull & Claflin's Weekly che suscitò immediatamente una marea di polemiche perché pubblicò articoli rivoluzionari sull'"amore libero" e perché si proponeva apertamente di diffondere le idee socialiste. Per la Woodhull la religione, la politica e il socialismo erano «la trinità dell'umanità» come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo della tradizione cristiana. E sulla rivista comparvero articoli che chiedevano il suffragio universale e la licenza per le prostitute e che dibattevano sul vegetarianesimo, il sesso e le gonne corte. Il Woodhull & Claflin Weekly fu il primo periodico ad tradurre in inglese, il 30 dicembre del 1871, il Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels. E la Woodhull, altro primato, fondò la prima sezione newyorchese della Prima Internazionale.
Sempre nel 1871, la Woodhull comparve al terzo congresso annuale della National Woman Suffrage Association e pronunciò lo storico discorso già citato che suscitò l'entusiasmo del movimento e la proiettò alla guida delle suffragette. Soprattutto per una serie di passaggi logici inoppugnabili che dimostravano - richiamandosi al 14° e 15° Emendamento - perché le donne avessero costituzionalmente diritto al voto. Una delle frasi più applaudite fu: «le donne e gli uomini sono uguali dinanzi alla legge e uguali in tutti i loro diritti». Del resto, la Woodhull era convinta, come disse in un'altra occasione, che «le donne hanno ogni diritto; devono soltanto esercitarlo». Altro (quasi) primato: grazie alle sua capacità oratorie e argomentative, fu la seconda donna in assoluto a presentare una petizione al Congresso americano, dopo Elizabeth Cady Stanton.
Ma l'anno dopo, nel 1872, le insidie più grandi nell'ambito di una campagna violentissima scatenata da ogni parte contro la Woodhull ormai in corsa per la Casa Bianca, giunsero proprio dalle compagne di tante battaglie, cioè dalle suffragette. La Woodhull poteva contare sul sostegno dei sindacati, dei socialisti e dell'ala più progressista delle suffragette. Ma una parte del movimento femminista più conservatore non condivideva affatto il concetto del «libero amore», la critica aperta al matrimonio, le idee radicali sul sesso e sulle donne diffuse dalla sua rivista.
In generale, gli avversari di Woodhull si buttarono a peso morto su una campagna diffamatoria che la candidata respinse con sdegno, parlando di argomenti che toccavano troppo «il privato». Sulle prime, dunque, non rispose. Poi, commise un errore fatale. Non per moralismo, ma per mettere in evidenza il "doppiopesismo" e l'ipocrisia di uno dei suoi più agguerriti nemici, il reverendo Henry Ward Beecher, ne rese nota la relazione extraconiugale con Elizabeth Tilton. Il 2 novembre sulla rivista della Woodhull comparve un articolo che denunciava il fatto che uno dei più famosi predicatori d'America esercitasse in privato le pratiche del "libero amore" tanto criticate in pubblico, dal pulpito. L'articolo creò uno scandalo enorme ma nello stesso giorno la Woodhull fu sbattuta in prigione per aver diffuso «materiale osceno» attraverso la posta. La sua avventura presidenziale finì lì. La Woodhull finì in bancarotta, ma si trasferì a Londra dove sposò un ricco banchiere e morì nel '29, dopo una vita spesa a favore delle battaglie civili (non sempre condivisibili: era ad esempio una nota anti-abortista).
Neanche un gigante come Henry James le risparmiò un giudizio moraleggiante. Secondo i critici dietro il personaggio di Nancy Headway in The Siege of London si nasconderebbe proprio la Woodhull. All'inizio del racconto il ricco vedovo americano George Littlemore e il compatriota più giovane, Rupert Waterville incontrano la bellissima, vivace e un po' insolente americana Mrs Headway, emigrata in Europa e accompagnata da un giovanissimo aristocratico inglese, Sir Arthur Demesne. Waterville domanda a Littlemore se la ritiene «rispettabile». Littlemore, senza giri di parole, risponde di «no». E aggiunge: «era una donna affascinante, soprattutto per il New Mexico; ma ha divorziato troppo spesso - sembrava una sorta di tassa sulla credulità; deve aver ripudiato più mariti di quanti ne abbia mai sposati».

il Riformista 27.12.07
Appello. Per l'insegnamento della Cultura civica nella scuola italiana


Nel nostro paese sta maturando una crisi morale e politica assai grave che investe in particolare le nuove generazioni. Si tratta di un fenomeno di cui si avvertono i sintomi anche nel resto d'Europa, ma che in Italia è ormai così pervasivo da avere già provocato una profonda degradazione della convivenza civile e della vita democratica. Il peggioramento drammatico della qualità media del ceto politico, la crisi delle istituzioni, lo stato dell'informazione soprattutto televisiva, l'indebolirsi della solidarietà sociale, le tensioni provocate dai problemi derivanti dalle trasformazioni indotte nel mercato del lavoro e dall'accelerata immigrazione di massa generano, da un lato, sfiducia nella partecipazione politica e, dall'altro, forti regressioni di tipo comunitario, ghettizzazioni e manifestazioni di xenofobia. La scuola della Repubblica, che tutti sono obbligati a frequentare per almeno otto anni, è una delle istituzioni cui compete dare attuazione all'imperativo costituzionale di rimuovere gli ostacoli culturali e sociali che limitano la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impedendo il loro sviluppo umano e la loro partecipazione alla vita democratica del paese. L'introduzione negli anni Cinquanta dell'insegnamento dell'educazione civica nei programmi scolastici aveva indicato una forma concreta per assolvere alla funzione di «educare» all'esercizio della sovranità popolare alla quale sono chiamati tutti i cittadini.
Vari sono stati i motivi per i quali tale insegnamento non ha avuto gli esiti sperati: in particolare ha nuociuto l'assenza di una sua collocazione autonoma nei programmi e di una specifica preparazione professionale dei docenti. Invece è urgente introdurre un nuovo insegnamento che proponiamo di definire «Cultura civica», inteso a favorire una consapevole partecipazione dei giovani alla vita civile e democratica, a promuovere lo spirito di solidarietà, la comprensione delle esigenze di una società sempre più pluralistica e il valore delle diversità, a diffondere la convinzione che diritti umani e democrazia non sono mai conquiste acquisite una volta per tutte, ma rappresentano gli esiti di una storia tormentata e sempre a rischio di essere rimessi in discussione.
Per conseguire questo obiettivo è necessario che siano garantiti:
1) un insegnamento specifico e autonomo;
2) tempi e metodi adeguati;
3) una preparazione idonea degli insegnanti, in rapporto ai diversi gradi e ordini di scuola.
Nei primi anni di scuola s'impartiranno nozioni di comportamento civico, con l'ausilio anche di visite guidate ai luoghi istituzionali locali, di partecipazione a eventi pubblici, di interventi sul territorio, con l'intento di realizzare un maggior coinvolgimento nella tutela dell'ambiente e della vivibilità degli spazi comuni. Nella seconda metà degli anni dell'obbligo la Cultura civica sarà sviluppata estendendola a una prima conoscenza dei diritti universali, del significato della cittadinanza italiana ed europea e della carta costituzionale, con particolare riferimento ai principi fondamentali e ai diritti e doveri dei cittadini. Nel triennio delle scuole superiori si procederà allo studio del testo costituzionale integrato da informazioni sul contesto storico, sul dibattito culturale e sui valori che hanno ispirato la nascita della repubblica italiana, nonché allo studio del processo di integrazione europea, delle sue motivazioni e del comune patrimonio civico e costituzionale.
Giovanni Bachelet, Giulio Ercolessi, Sergio Lariccia, Giacomo Marramao, Enzo Marzo, Italo Mereu, Alessandro Pizzorusso, Clotilde Pontecorvo, Beatrice Rangoni Machiavelli, Stefano Rodotà, Carlo Augusto Viano, Marcello Vigli, Gustavo Zagrebelski
(per aderire: info@criticaliberale.it)

il Riformista 27.12.07
La Cina sta comprando dollari su dollari
Un'arma di ricatto più potente dell'atomica
È come se Cartagine avesse acquistato il debito di Roma
di Giampiero Giacomello


Che le finanze di uno stato siano anche il cardine del suo apparato bellico è una verità ben conosciuta sin dall'antica Grecia (il nervus belli secondo i Romani). Il sistema finanziario internazionale contemporaneo ha reso questa semplice verità più complessa e, a tratti, quasi paradossale. Che cosa infatti avrebbero pensato i Romani se Cartagine si fosse appropriata, legalmente, di una buona parte del loro debito pubblico?
Questa è la singolare situazione in cui si trovano Cina e Stati Uniti attualmente. Al momento i due paesi cercano di coesistere pacificamente e, se possibile, cooperare. I motivi potenziali di scontro non mancano (lo status di Taiwan, la sicurezza del Giappone, la domanda di energia eccetera); allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno molto lavorato per far entrare la Cina nell'Organizzazione Mondiale del Commercio e buona parte della ricchezza cinese proviene dalle esportazioni verso gli Stati Uniti. Nessuno dei due paesi poi sembra attratto da politiche mercantilistiche, che imporrebbero un pesante condizionamento dell'economia sulla base delle esigenze di sicurezza nazionale.
La Cina è una potenza regionale in Asia e dal 2020, con un'economia più grande di quella Usa, potrebbe competere con gli americani sul piano globale. Ma se già ora i due dovessero scontarsi duramente, la Cina potrebbe usare l'arma delle sue enormi riserve in dollari per indebolire pericolosamente le finanza (e quindi le armi) degli Stati Uniti. Nel 1977, la Cina disponeva di 2,3 miliardi di dollari in riserve valutarie, che, nel giro di 15 anni, aveva decuplicato (20,6). Nella decade successiva, queste riserve erano a loro volta aumentate di oltre dieci volte (286,4 miliardi di dollari). Con una progressione che ha quasi dell'incredibile, la Cina, negli ultimi cinque anni, grazie ad una fortissima crescita economica, è riuscita a quintuplicare persino le riserve del 2002, arrivando alla cifra record di 1433,6 miliardi (Settembre 2007). Ben 260 miliardi di tali riserve sono in buoni del tesoro Usa. Dati questi che nessun governo, nemmeno quello americano, potrebbe mai permettersi di ignorare.
Secondo alcuni osservatori però, anche in caso di crisi grave, la Cina non potrebbe permettersi di utilizzare questa arma finanziaria per mettere a tappeto il gigante americano. Se così facesse, destabilizzerebbe sì l'economia Usa, ma, allo stesso tempo, metterebbe in serie difficoltà la sua stessa economia, e siccome la pace sociale in Cina è (per ora) garantita dalla continua crescita economica, le conseguenze per il celeste Impero potrebbero persino essere peggiori. Insomma, quella nelle mani dei leader cinesi è una sorta di "testata termonucleare finanziaria", che sarebbe quindi di scarso peso in circostanze diverse da Armaggeddon.
I cinesi, si sa, non sono affatto stupidi, anzi. Sono perfettamente consapevoli delle conseguenze di una simile azione. Preferiscono allora adottare tattiche di "guerriglia finanziaria" con l'obiettivo, nel lungo periodo, di indebolire il loro avversario. Tutto ciò non è nuovo: nel 1999 due colonnelli dell'esercito del popolo pubblicavano un testo (Guerra senza limiti), nel quale si raccomandavano di non sfidare apertamente gli Stati Uniti, troppo forti militarmente per la Cina, quanto piuttosto di colpire furtivamente gli americani in settori strategici come le reti informatiche o l'economia appunto.
Lo strumento ideale, in quest'ultimo caso, sono i fondi sovrani. Molti governi con forti riserve di liquidità hanno istituito questi fondi allo scopo di investire il loro surplus finanziario. Il primo caso è stato quello del governo norvegese, il quale però rende noto regolarmente dove sono i suoi investimenti; lo stesso non si può dire dei fondi sovrani di paesi arabi o della Cina, i quali preferiscono nascondere tutto dietro una fitta cortina fumogena.
Il tentativo cinese di acquisire direttamente la compagnia petrolifera californiana Unocal due anni fa fallì a causa dell'aperta opposizione delle autorità americane. Lezione appresa. Il mondo della finanza offre una miriade di metodi legali per acquisire quote di società per azioni senza che poi si riesca effettivamente a risalire ai mandanti, specie se questi hanno un sacco di contante liquido in tasca. Il crimine organizzato docet. La Cina continuerà ad acquistare quote dell'economia americana, discretamente e in silenzio, ricordandosi che fu proprio Lenin a predire che, un giorno, sarebbero stati proprio i capitalisti a vendere la corda che sarebbe servita ad impiccarli.
L'autore è docente di Studi strategici all'università di Bologna


Repubblica 27.12.07
Non nominate il nome di dio invano
di Eugenio Scalfari


MI HANNO molto colpito i pensieri e le parole scritte nei giorni scorsi dalla senatrice Paola Binetti e da lei affidate in una lettera al «Foglio» che, a quanto lei stessa scrive, è ormai il suo giornale di elezione. Il testo di quella lettera è stato poi integralmente ripubblicato dal «Corriere della Sera». E di nuovo la senatrice ha ripetuto e ancor più estesamente formulato i suoi pensieri in un dialogo sulla «Stampa» con Piergiorgio Odifreddi.
Il tema di questi interventi è singolare. Viene affrontato per la prima volta nel mondo e per la prima volta nella Chiesa cattolica da parte d´un cattolico militante che si riconosce in un partito ed ha un seggio nel Senato della Repubblica. Si tratta dell´intervento di Dio nella formulazione delle leggi, sollecitato dalle preghiere della senatrice devota.
Ricordo il caso per completezza di informazione. Si votò pochi giorni fa in Senato la conversione in legge del decreto sulla sicurezza. Tra le varie norme ce n´era una che configurava come reato di razzismo la discriminazione nei confronti degli omosessuali effettuata con atti o parole di istigazione a discriminare. La Chiesa si allarmò per timore che la sua predicazione che considera l´amore tra omosessuali una devianza contro natura venisse giudicata reato penalmente perseguibile. Reclamò la cancellazione di quella norma e invitò esplicitamente i parlamentari cattolici a votare contro di essa.
Si trattava con tutta evidenza d´un intervento e d´una interferenza che violavano in modo grave le disposizioni concordatarie. Talmente scoperta – quell´interferenza – da richiedere una protesta formale del governo nei confronti della Santa Sede. Protesta che invece e purtroppo non c´è stata.
Il governo però, a sua volta allarmato dai possibili effetti di quell´interferenza clericale, pose la fiducia sul decreto e sui singoli articoli. I molti parlamentari cattolici che fanno parte della maggioranza votarono la fiducia pur con qualche disagio di coscienza. La Binetti, anch´essa con qualche disagio di segno opposto, votò invece contro la fiducia, cioè contro il suo partito e il suo governo, in obbedienza al dettame della gerarchia ecclesiastica romana.
Il Partito democratico nel quale la senatrice milita decise di mostrare comprensione per il suo voto di dissenso e di non applicare nei suoi confronti alcuna censura politica.
Quanto alla norma concernente l´omofobia, essa fu approvata per un solo voto. Quello contrario della Binetti (e l´altro egualmente contrario del senatore a vita Giulio Andreotti) furono infatti compensati da altri voti. Forse ispirati, questi ultimi, dal demonio. Non si sa e non si saprà mai.
* * *
Fin qui il caso Binetti. Niente di speciale: un caso di coscienza che avrebbe potuto far cadere il governo il quale riuscì tuttavia ad ottenere la fiducia e passare ancora una volta indenne in mezzo a tante traversie.
Trasferitosi l´esame della legge alla Camera, dove il governo dispone d´una più solida maggioranza, si scoprì però che proprio quell´articolo sull´omofobia era affetto da un errore di redazione. Si menzionava infatti come punto di riferimento della norma una direttiva dell´Unione Europea contenuta in un trattato che risultò non essere quello citato ma un altro. Insomma una citazione sbagliata, un errore di sbaglio come si dice in casi analoghi con qualche ironia.
Per evitare che l´emendamento dovesse nuovamente implicare un voto del Senato, il governo decise alla fine di far cadere l´articolo in questione per poi ripresentarlo in altro modo e con altro strumento legislativo.
Normale gestione d´una situazione parlamentare complicata.
* * *
Ma ecco a questo punto insorgere un secondo caso Binetti. Ben più clamoroso del precedente, anche se per fortuna senza effetti parlamentari immediati. E sono appunto le lettere al «Foglio» e il dibattito sulla «Stampa» dove la senatrice sostiene la tesi del miracolo. L´errore di sbaglio, la citazione incomprensibilmente sbagliata non si può attribuire, secondo la Binetti, ad una trascuratezza umana. Quella trascuratezza c´è indubbiamente stata, ma non è né dolosa né colposa. E´ talmente macroscopica e impensabile che non può che essere stata effetto d´un «intervento dall´Alto» – così testualmente scrive la Binetti – stimolato dalle sue preghiere.
La senatrice enumera altri casi di leggi e norme da lei ritenute indispensabili per il bene della comunità e della morale, che sono state approvate in Parlamento e da lei attribuite ad altri «interventi dall´Alto», anch´essi stimolati dalle sue preghiere.
Altre norme da lei desiderate e altre preghiere da lei elevate al cielo non hanno invece trovato ascolto (è sempre la senatrice che parla) ma ella non dispera che lo troveranno in un prossimo futuro.
Siamo di fronte ad un caso che, come ho prima accennato, non ha riscontro nella storia né parlamentare né religiosa di nessun Paese. Leggi e norme sull´approvazione delle quali si sarebbero verificati interventi di Dio in accoglienza di preghiere di parlamentari. Come giudicare simili affermazioni? Una presunzione inaudita? Un disturbo mentale? Una fede capace di muovere le montagne e quindi nel caso specifico di ottenere risultati parlamentari altrimenti inspiegabili? Una forma di fondamentalismo ideologico che può suscitare un anti-fondamentalismo di analoga natura ma di segno diverso?
* * *
Mi permetto di segnalare alla senatrice Binetti che il tipo di preghiere da lei elevate a Dio affinché intervenga nella legislazione italiana sono decisamente in contrasto con la costante dottrina della religione da lei professata.
E´ curioso che la senatrice non se ne renda conto. È ancor più curioso che sia io a segnalarglielo. Ciò crea una situazione a dir poco comica. Divertente. Paradossale.
La dottrina cattolica infatti ha costantemente incoraggiato la preghiera dei suoi fedeli. La preghiera privata ma soprattutto quella liturgica, tanto meglio se effettuata pubblicamente e coralmente nelle chiese o in qualsiasi sede appropriata.
Ha anche indicato – la dottrina – quale debba essere l´oggetto della preghiera. Non già invocare Dio a compiere miracoli su casi concreti come la guarigione da una malattia o, peggio, un beneficio immediato, una promozione, una vincita alla lotteria, l´ottenimento d´un posto di lavoro e simili.
L´approvazione di un articolo o di un comma o la vittoria d´un quesito referendario non sono state mai contemplate in questa casistica, ma ritengo che possano logicamente rientrarvi. Impegnare il nome e l´intervento di Dio in questi «ex voto» avrebbe piuttosto l´aria d´una provocazione e sfiorerebbe la blasfemia violando il comandamento mosaico che fa divieto di «nominare il nome di Dio invano».
L´oggetto della preghiera deve essere solo quello di chiedere a Dio che la sua grazia discenda sull´orante, che lo aiuti a sopportare il dolore e la sofferenza, che non lo induca in tentazioni, che lo liberi dal Male (cioè dal peccato), che fortifichi il suo amore per il prossimo.
Perciò lei fa benissimo, senatrice Binetti, a pregare affinché la grazia discenda su Giuliano Ferrara (nella sua lettera al «Foglio» c´è scritto anche questo) volendo, potrebbe anche cimentarsi a chiedere che la grazia divina scenda su di me. Non me ne offenderei affatto e sarebbe carino da parte sua.
Ma coinvolgere Dio nella discussione parlamentare, questo, gentile senatrice, è una bestemmia di cui forse lei dovrebbe confessarsi. Però da un sacerdote scelto a caso. Se va da sua eminenza Ruini sarebbe sicuramente assolta in terra. In cielo non so.
Post scriptum. «Il giusto modo di pregare è un processo di purificazione interiore. Nella preghiera l´uomo deve imparare che cosa egli possa veramente chiedere a Dio, che cosa sia degno di Dio. Deve imparare che non può pregare contro l´altro. Deve imparare che non può chiedere le cose superficiali e comode che desidera al momento, la piccola speranza sbagliata che lo conduce lontano da Dio. Deve purificare i suoi desideri e le sue speranze».
Queste parole si leggono nell´enciclica «Spe Salvi» di Benedetto XVI, a pagina 64 nell´edizione dell´«Osservatore Romano». Le rilegga, senatrice, e cerchi di capirne bene il senso. Soprattutto non si autogiustifichi: il Papa, nella pagina seguente, ne fa espresso divieto.

Repubblica 27.12.07
Se la ragione è un ferrovecchio
di Marco Lodoli


Ragione e cuore: l´equilibrio tra questi due motori della nostra esistenza è sempre difficile, basta poco a inaridirsi nell´astrattezza del pensiero o farsi travolgere dall´emotività. E la mia impressione è che in questo periodo storico i sentimenti abbiano scalzato brutalmente ogni riflessione, ogni modesto tentativo di mettere ordine nel tumulto del cuore. In classe ieri – a fine ora, sia ben chiaro – si chiacchierava di musica, di quali adesso siano i cantanti e i gruppi preferiti. Francesca mi ha confessato di stravedere per i Negramaro, e non è la sola, ovviamente, il complesso salentino va per la maggiore, fa il pieno in ogni concerto e piazza le sue canzonette d´amore in cima alle classifiche. Francesca ama da pazzi il cantante pelatino e scatenato, ricorda a memoria ogni sua intervista televisiva: in una aveva sintetizzato la filosofia del gruppo battendosi energicamente il petto e gridando tra gli applausi convinti della folla "conta solo il cuore, la testa a casa!" Avevo visto anch´io quella dichiarazione d´intenti, mi aveva agghiacciato.
Certo, i sentimenti sono alla base di ogni espressione artistica, grande o piccola che sia, Pascal ci ha spiegato l´importanza decisiva delle ragioni del cuore nel processo di conoscenza, il Romanticismo ha trovato nel sentimento il punto di contatto tra il finito e l´infinito, la Tamaro ha conquistato milioni di lettori esortandoli ad andare dove li porta il cuore: però bisogna stare attenti a non liquidare il pensiero razionale come un ferrovecchio del tutto arrugginito. La scuola per decenni ha insegnato il valore della ratio, del logos, delle regole grammaticali, della metrica, del canone, della misura, dello spartito, ha ricordato a milioni di studenti che già nel mondo greco il sentimento della ubrys, dell´eccesso, della smisuratezza era condannato dagli dèi in quanto portatore di rovina. Come un´onda il sentimento incalza, preme, sale, ma la ragione deve alzare le sue dighe, scavare canali, dirigere quella spinta per farla diventare utile e vantaggiosa per i campi scoscesi della vita: altrimenti è solo frenesia che inonda e distrugge. Il bene è un prodotto dell´intelletto, sostenevano Socrate e i professori, il risultato di una riflessione su di sé e sul mondo. E ogni artista sa che il primo verso viene dal cuore, ma poi serve un lungo lavoro per dare forma a quell´emozione. Tutto questo oggi è dimenticato, peggio ancora: disprezzato. Qualsiasi richiamo alla ragionevolezza viene considerato dai più giovani come un divieto da schifare e da abbattere. Il cuore comanda su ogni scelta, il cuore detta legge, va ascoltato e seguito senza alcuna esitazione, il sentimento è il sovrano assoluto. Eppure bisognerebbe ridare dignità al pensiero e mettere in guardia i ragazzi dalle carognate che il cuore può produrre. Chi uccide la fidanzata o la moglie per gelosia o brama di possesso obbedisce al cuore. Il serbo che sparava al croato vicino di casa seguiva la voce dissennata del cuore. I tutsi che ammazzavano gli hutu a colpi di machete ascoltavano i consigli folli del cuore. E i ragazzi che si buttano via in una notte decerebrata corrono dietro agli ordini del cuore. I sentimenti sono amplissimi: si ama e si odia, si combatte contro il male e lo si serve, si è generosi e prepotenti, disponibili e feroci, aperti e razzisti, fedeli e traditori, costruttori e distruttori.
Il cuore è neutro, permette e garantisce ogni azione, nobile o infame. E oggi spadroneggia senza più avversari, perché la razionalità è ormai sinonimo di meschinità, mediocrità, repressione degli istinti vitali. La razionalità invitava alla prudenza – "prudenza nun pregiudica" dicevano i vecchi romani – a soppesare, valutare, discernere, ci chiedeva di comprendere a fondo le situazioni, ci ricordava che la vita è difficile, a volte pericolosa, che bisogna sempre trovare il punto di equilibrio tra i propri istinti e il bene pubblico. Ma oggi deve "andarsene a casa", lasciare libero il campo alla veemenza acefala del cuore. E così il sentimento senza ostacoli finisce per abbattersi, l´euforia si capovolge in depressione, lo slancio cieco sbatte contro il muro dell´esistenza e subito cade sconfitto. Forse è giunto il momento di riprendere a ragionare, prima che il cuore giovane della nazione ceda per un collasso irrimediabile, schiantato dalla propria smania indistinta.

Repubblica 27.12.07
Perché in Cina il dissidente è invisibile
di François Jullien


In alcuni ambiti - come la politica - la Cina è ancora molto lontana dall´assumere i modelli occidentali. Prendiamo la nozione di libertà. Anche in questo caso dobbiamo tornare alla storia, addirittura alla protostoria europea. Da dove viene la libertà, qui da noi, in quanto esigenza politica? Viene dai greci, ed è stata inizialmente pensata come ciò che le città greche rischiavano di perdere se fossero state vinte dall´invasore, cioè dall´Impero persiano. È in queste antiche battaglie che si è forgiata la nozione di libertà, in contrapposizione a un nemico esterno.
Ora la Cina non si è mai trovata in una situazione analoga, in alcun momento della sua antichità. E dunque è evidentemente inutile cercare in Cina qualcosa che assomigli a quanto è avvenuto in Grecia, dove questa esigenza politica si è progressivamente interiorizzata e complicata, operando su un´idea di libertà come esigenza morale, e costruendo poi (in particolare presso gli stoici) la figura del soggetto come persona autonoma.
Di fronte a questa idea, cosa troviamo in Cina? Troviamo la nozione di disponibilità, che non ha nulla a che vedere con l´altra, ma che è al centro della saggezza cinese. La disponibilità è l´apertura ai diversi possibili; è l´arte di non privarsi di alcuna possibilità. È ciò che si mira a far capire in Cina, quando di Confucio viene detto: «Quando era opportuno assumere un incarico lo assumeva, quando era opportuno abbandonarlo lo abbandonava». Detto questo, si è detto tutto. Non si può dire di più, proprio perché la saggezza non è nient´altro che questo: "lo spirito del momento". Il saggio non si priva né della possibilità di assumere un incarico, né di quella di lasciarlo. Nei Dialoghi di Confucio vi sono passi in cui uno dei discepoli si stupisce che il maestro abbia potuto fare cose che sembrano al limite del lecito o dell´accettabile, come far visita a una cortigiana. Confucio non si priva nemmeno di queste possibilità: se possono servire ad incontrare il principe e a convincerlo di doversi correggere, perché no? È tutta una questione di momento, di "giusto mezzo", se si vuole – a condizione che non lo si intenda nel senso europeo.
Il giusto mezzo infatti non è – come si crede ancora troppo spesso in Europa – una banalità universale della saggezza, una nozione che sarebbe propria di ogni tempo e luogo. Il giusto mezzo del saggio cinese è quello del poter far altrettanto bene l´uno e l´altro degli estremi, non è affatto il tenersi sempre a metà strada tra l´uno e l´altro. Wang Fuzhi, un pensatore del XVII secolo a cui ho fatto spesso riferimento nel mio lavoro, diceva: «Tre anni di lutto in occasione della morte dei genitori non è troppo per il Saggio, così come bere senza contare i bicchieri in occasione di un banchetto». Il saggio può quindi immergersi nel lutto tanto quanto nell´ebbrezza, a seconda dell´occasione. L´essenziale è mantenere aperta ogni possibilità. Si capisce bene dove conduce l´atteggiamento opposto: se bevo tutti i giorni senza controllo, arriverò al punto di non poter più bere. Non sarò più in grado di riaprire la possibilità della sobrietà, mi troverò quindi nella dipendenza, ecc.
Trovo interessante questo pensiero perché ci fa uscire dalle idee preconcette sulla saggezza. Ora, è chiaro che una tale esigenza di disponibilità non lascia alcuno spazio allo sviluppo dell´idea di libertà. Semplicemente perché, secondo l´esigenza cinese, quella che è l´esigenza europea non può apparire se non come una forma di parzialità o di dipendenza. Ciò che manca alla Cina, e che le mancherà ancora a lungo, è il lavoro della Storia, tutto quel retroterra che ha formato l´Europa e che noi nemmeno più sospettiamo esserci stato. In particolare è il fatto che, da Platone a Montesquieu, non abbiamo mai smesso di pensare la libertà politica attraverso la comprensione dei regimi politici, opponendo le forme che le sono più favorevoli a quelle che lo sono di meno. E in Cina? Certo, è stata pensata la monarchia. Ma non si è pensato altro che questo: il principe, buono o cattivo; l´ordine e il suo contrario. Inutile cercarvi un qualsiasi pensiero sulle altre possibili forme politiche: aristocrazia, democrazia, ecc. Per questo, ancora oggi, l´idea comune, evidente per i cinesi, è che per assicurare l´ordine ci vuole un potere unitario. Ieri era il principe o l´imperatore, oggi è il partito comunista. Questo spiega perché, malgrado tutti gli orrori di cui è responsabile, il partito di Mao resta sempre un riferimento indispensabile per i cinesi.
Ma forse l´esempio più lampante ci viene dal considerare cosa è stato teorizzato in Cina a proposito della tirannide. Che fare quando c´è un tiranno al potere? Ebbene, ciò che ci dicono i pensatori cinesi è che anche in questo caso bisogna evitare di intervenire per rovesciarlo, lasciando svolgere i processi. L´idea è che conviene lasciare un dittatore tiranneggiare il suo popolo, perché allora sarà lo strumento della propria caduta, sarà lui stesso a erodere le proprie basi. L´idea di rivoluzione è un´idea che viene dall´Europa. La Cina non ha partorito questa nozione, l´ha assunta da noi alla fine del XIX secolo. Quel che mi sembra importante è che nel corso della loro Storia i pensatori politici cinesi siano giunti a questa idea così estrema, così sconvolgente: bisogna lasciare che il cattivo principe opprima il suo popolo. È là che si tocca con mano il dramma della Cina, ovvero il fatto che tutto è politico, perché essa non dispone di piani di intellegibilità diversi da quello dei processi, cioè dei rapporti di forza. L´unica alternativa è la possibilità taoista di ritirarsi tra le montagne e le foreste di bambù. ma non si tratta che di una sorta di margine della politica, molto fragile, che resta all´ombra del potere.
Schematizzando in modo estremo, direi dunque che la forza dell´Europa, la sua fecondità, è quella di essersi data in partenza due piani di intellegibilità, quello del politico e quello dell´ideale. È quello che viene già espresso dalla formula biblica: dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio. In un colpo solo è diventato possibile lavorare al tempo stesso sui due piani, anzi di farli giocare l´uno contro l´altro. È la presenza di questo frammezzo ad aver permesso l´emergere della figura dell´intellettuale in Europa, ed è la sua assenza che lo blocca in Cina. Come si può costruire una posizione di dissidenza intellettuale, se non è possibile appoggiarsi a un piano diverso da quello dei rapporti di forza? In nome di chi posso giudicare la Storia e pormi in un rapporto di rottura esistenziale con essa, se non posso affidarmi a qualcosa che assomigli a un piano ideale, se non posso mettere in gioco dei valori o delle essenze? È questo il punto in cui davvero si arena il pensiero cinese, e che permette di misurare la distanza tra l´intellettuale europeo e il letterato cinese. Certo, supponendo che gli sia concesso, un letterato può ritirarsi tra i suoi boschi di bambù, ma in nome di cosa potrà rompere con l´evoluzione della storia e dei rapporti di forza? Di sicuro non lo farà in nome di valori europei, come la giustizia o la verità! Dal mio punto di vista non si può comprendere ciò che accade oggi in Cina se non si tengono a mente questi dati e queste costrizioni "retrostanti". Bisognerebbe essere ciechi e sordi, è ovvio, per non vedere che esiste un´opposizione in Cina. Ma, al tempo stesso, cos´è che impedisce a questa opposizione di costituirsi come valida alternativa possibile? Mi si obietterà forse che bisogna tener conto della logica poliziesca tipica di ogni tirannia, e si conteranno le vittime del potere cinese e del suo totalitarismo. Tuttavia sostengo che la vera difficoltà si trova altrove, a monte, nelle modalità, nei piani e nelle operazioni di pensiero implicati dalla posizione di un soggetto che voglia essere giudice o critico. Quando si pensa ogni cosa in termini di regolazione e di armonia, infatti, e soprattutto quando ci si rivolge a persone per le quali l´unico modo accettabile di discorso, valorizzato da millenni di storia, è il discorso indiretto, che privilegia la discrezione e l´allusione, è semplicemente impossibile salire sulla scena e pronunciare il proprio "j´accuse".
Copyright Mimesis-François Jullien

Repubblica 27.12.07
Un anno per Galileo
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha consacrato il 2009 all’astronomia
di Franco Pacini


Sono molti i grandi interrogativi sull´universo e sulla materia
Ma un´indagine rivela che molti ragazzi non sanno perché il giorno si alterna con la notte

Ironia del destino: nello stesso giorno in cui i giornali riportavano la notizia che circa metà della popolazione italiana ignora che l´alternanza giorno-notte è dovuta alla rotazione della Terra, le agenzie di stampa riferivano che l´Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sollecitata dal nostro paese, ha proclamato il 2009 «Anno Mondiale dell´Astronomia».
Si tratta di un evento particolarmente significativo anche perché la data si lega al 400mo anniversario delle prime osservazioni di Galileo con un cannocchiale. Queste mostrarono che la Terra non è il solo mondo nell´universo ma ne esistono tanti altri. Fra il 1609 e il 1610, nello spazio di pochi mesi, Galileo poté osservare le montagne della Luna, i crateri, i deserti. Seguirono poi le osservazioni dei satelliti di Giove, le fasi di Venere, le protrusioni laterali intorno a Saturno, quelle che sappiamo essere gli anelli. Non vi è dubbio che queste scoperte siano state una pietra miliare nello sviluppo della civiltà umana.
Proprio per questa grande rilevanza scientifica e storica, l´Assemblea Generale della Unione Astronomica Internazionale (IAU) aveva approvato nel 2003, all´unanimità, la proposta dello scrivente (allora Presidente della IAU) di richiedere alle Nazioni Unite la proclamazione di un Anno Mondiale dedicato all´Astronomia.
In occasioni precedenti la stessa cosa era stata fatta per la Matematica (2000) e per la Fisica (2005, centesimo anniversario della teoria della relatività).
Contestualmente la Unione Astronomica Internazionale chiese al Governo Italiano di presentare formalmente la proposta alle Nazioni Unite. Il lungo processo di approvazione, condotto con intelligenza dalla nostra diplomazia, si è ora concluso positivamente.
Negli anni scorsi, l´Accademia Americana delle Scienze ha notato che in questi ultimi decenni il susseguirsi di importanti scoperte astronomiche è pari solo a quello verificatosi nell´epoca di Galileo. Gli astronomi di oggi sono infatti impegnati nel cercare risposta alle domande fondamentali sull´Universo. Come nascono, vivono e muoiono stelle e pianeti? Come funziona il Sole? Come sono nate le Galassie? Come è nato e come finirà l´Universo? Come è nata e quanto si è diffusa la vita nel cosmo?
Nell´arco del secolo che si è appena concluso sono stati raggiunti risultati fondamentali relativi alla vita e alla morte delle stelle. Si e capito per esempio che gli elementi chimici presenti oggi nel cosmo sono il prodotto di trasformazioni nucleari che liberano energia e consentono al Sole e alle altre stelle di brillare per miliardi di anni, formando elementi sempre più complessi.
In questo modo si sono formati anche gli elementi chimici che formano il nostro corpo, all´interno di stelle successivamente esplose. Il materiale espulso e poi servito a formare nuove generazioni di stelle e pianeti e, in ultima analisi, noi stessi.
Lo studio delle stelle e della evoluzione cosmica ci dice in sostanza che noi siamo davvero «polvere di stelle».
Non meno impressionante e stata la scoperta che l´Universo e costituito soprattutto di materia invisibile, di un tipo sconosciuto alla fisica di oggi. La sua esistenza ci viene rivelata solo dalla attrazione che essa esercita sulla materia ordinaria circostante. Si tratta di uno dei grandi misteri della scienza, oggetto di studi e ardite speculazioni ai confini fra la fisica e la astrofisica.
Che dire poi della esplorazione del sistema solare, di pianeti come Marte particolarmente simili alla Terra, alla ricerca di indizi che possano far pensare alla esistenza di fenomeni biologici? La recente scoperta di molti pianeti intorno a stelle lontane incoraggia a pensare che tali fenomeni possano essere relativamente comuni nell´Universo.
Il fascino di una scienza che più di tutte colpisce il grande pubblico può quindi fungere da cavallo di Troia per il sapere scientifico in genere, specie fra i giovani. Val la pena ricordare proprio l´esplicito invito di Galileo affinché gli scienziati comunichino i risultati dei loro studi utilizzando un linguaggio che tutti possono capire e non solo il latino dei «dotti».
Oltre che realizzare insieme un programma di eventi internazionali coordinati dalla IAU, i differenti paesi elaboreranno un proprio programma nazionale. Le celebrazioni non dovranno essere limitate a mostre, convegni, eventi vari, ma è importante che in questa occasione si possano realizzare infrastrutture destinate a far parte del patrimonio del Paese, secondo la falsariga seguita negli anni scorsi per ricordare la scoperta dell´America.
In tal modo questo evento potrà dare un forte contributo alla conoscenza della scienza contemporanea, un´esigenza ribadita recentemente da un apposito gruppo di lavoro interministeriale sulla diffusione della cultura scientifica, presieduto da Luigi Berlinguer. Nel contesto dell´Anno dell´Astronomia è particolarmente importante che si realizzi anche il progetto per un «Museo dell´Universo» sul colle di Arcetri (Firenze), dedicato alla didattica e divulgazione dell´astronomia e alla esplorazione spaziale.
Il Museo dell´Universo, la casa dell´esilio di Galileo e i moderni enti di ricerca già presenti verrebbero a formare sul colle di Arcetri una suggestiva «Città di Galileo» valorizzando insieme la scienza contemporanea e una fondamentale eredità storica.
Per sostenere questo progetto è stato costituito un Comitato Promotore comprendente altissime figure della società civile e della scienza e sono state identificate possibili sorgenti di finanziamento privato. C´è da augurarsi che l´approvazione dell´Anno dell´Astronomia da parte delle Nazioni Unite coincida con l´effettivo varo del progetto.
Alcune settimane fa, ad Atene, l´Unione Astronomica ha tenuto un affollato convegno preparatorio per presentare e discutere le attività durante l´Anno dell´Astronomia. Le idee sono tante e affascinanti, tutte rivolte a far conoscere al grande pubblico le più recenti scoperte sull´universo. Purtroppo il confronto ha mostrato che l´Italia è in grave ritardo rispetto a molti altri paesi per insufficienza di finanziamenti e carenze organizzative.
Sarebbe triste se il ritardo nei finanziamenti o una visione dell´evento puramente celebrativa dovessero lasciare l´Italia sostanzialmente ai margini del grande evento che il nostro paese ha avuto la capacità di promuovere.

Repubblica 27.12.07
Un libro di Barbara Strauch e le ricerche di Jay Giedd
Nella testa di un ragazzo
di Massimo Ammaniti


Nel cervello degli adolescenti, dicono i nuovi studi, avviene una sorta di potatura neuronale dovuta alla crescita

Ma che ci avrai in quella testa?»: si tratta di una domanda che ogni genitore di un ragazzo o di una ragazza adolescente rivolge frequentemente al figlio di fronte ai suoi comportamenti incomprensibili. A questa domanda la psicoanalisi ha già cercato di rispondere, tuttavia si aprono nuove prospettive con la ricerca neurobiologica che ha iniziato a studiare il cervello degli adolescenti con le più moderne tecniche di visualizzazione cerebrale, come ad esempio la risonanza magnetica funzionale.
L´interesse per le nuove scoperte sul cervello degli adolescenti è grande, come viene raccontato nel libro divulgativo The primal teen (pubblicato in Italia da Mondadori col titolo Capire un adolescente, pagg. 237, euro 8) scritto dalla giornalista del New York Times Barbara Strauch, che ha raccolto in modo sistematico le ricerche più significative, intervistando i protagonisti di questa vera rivoluzione scientifica. Infatti fino a qualche anno fa si riteneva fra i ricercatori nel campo dello sviluppo umano che la maturazione cerebrale avvenisse fondamentalmente nei primi tre anni di vita, quando ad esempio le connessioni cerebrali aumentano solo nel primo mese di circa 1000 miliardi in coincidenza delle forti stimolazioni ambientali. Come spesso succede in campo scientifico l´introduzione di nuove tecniche di studio apre nuovi mondi sconosciuti, come è avvenuto col cervello degli adolescenti.
Una delle scoperte più interessanti è stata fatta da Jay Giedd, direttore di uno dei laboratori più prestigiosi negli Stati Uniti. Con le sue ricerche Giedd ha scoperto che negli anni immediatamente prima dell´adolescenza si verifica un fenomeno imprevisto, ossia un ispessimento della sostanza grigia cerebrale provocato da una moltiplicazione delle ramificazioni dei neuroni, per cui la rete dei circuiti cerebrali diventa ancora più fitta.
Durante l´adolescenza questo fitto bosco cerebrale va incontro ad un processo di potatura: non sopravvivono tutti i circuiti ma solo quelli che veramente servono. Questa osservazione confermerebbe il concetto di darwinismo neurale sostenuto dal Premio Nobel Gerald Edelman, secondo cui si verifica a livello cerebrale la selezione competitiva dei gruppi neuronali che favorisce quelli maggiormente in grado di adattarsi alle condizioni ambientali. In altri termini Giedd spiega questo stesso fenomeno in adolescenza col principio «se non lo usi lo perdi» per cui solo i circuiti più utili nel corso dello sviluppo sopravvivono diventando più rapidi, efficienti e direzionati.
Anche altre importanti trasformazioni avvengono provocate dagli ormoni sessuali della pubertà che attivano fortemente il sistema limbico, che interviene nella regolazione delle emozioni. Non a caso gli adolescenti presentano alti e bassi di umore, in alcuni momenti sono pieni di entusiasmo e di allegria mentre in altri momenti sono depressi, annoiati o risentiti, una sorta di tempesta emotiva che è stata descritta da studiosi come Stanley Hall o come Anna Freud.
Ma altre aree cerebrali giocano un ruolo particolare, ossia quelle connesse alla dopamina, il magico neuromodulatore che ci dà un senso di benessere e di soddisfazione. Negli adolescenti l´accumulo di dopamina va incontro ad una rapido esaurimento, provocando un senso di vuoto e di malessere. Questo può contribuire a spiegare alcuni comportamenti tipici degli adolescenti, che sembrano ricercare forti stimolazioni nel proprio ambiente. Ad esempio correre dei rischi, come guidare il motorino in modo spericolato, fa sentire bene l´adolescente favorendo la secrezione di dopamina. Altri comportamenti tipici di questa età sono la ricerca di sensazioni come anche delle novità, che danno luogo a stimolazioni nuove ed eccitanti. Naturalmente questi meccanismi cerebrali si intrecciano con le dinamiche psicologiche che caratterizzano l´adolescenza, al punto che può essere difficile distinguere il mondo fisico da quello mentale.
Prendiamo ad esempio la ricerca di novità che, se da una parte attiva la produzione di dopamina, dall´altra contribuisce al processo di distacco dell´adolescente dalla famiglia spingendolo ad esplorare nuovi ambienti e a ricercare nuove relazioni. Questi sviluppi più recenti della ricerca ci fanno vedere che il dualismo fra corpo e mente, come d´altra parte quello fra genetica ed ambiente, è un retaggio del passato mentre possiamo riconoscere una continuità organizzativa fra il piano biologico e quello psichico.
Le implicazioni di queste ricerche sull´adolescenza sono molte.
Infatti la forte attivazione del cervello emozionale, in assenza di un´adeguata maturazione dei lobi frontali e prefrontali, che si verifica solo nella tarda adolescenza, spiega il perché gli adolescenti agiscano impulsivamente senza valutare adeguatamente le conseguenze delle proprie azioni. Tali capacità vengono acquisite solo con la maturazioni dei lobi prefrontali e frontali che diventano la vera bussola del comportamento. Credo che tutto questo debba essere considerato nel rapporto con gli adolescenti di modo che gli adulti siano in grado, se necessario, di frenarli, di indirizzarli ed eventualmente di mettere dei limiti definiti, naturalmente in un clima di comprensione.

Repubblica 27.12.07
Nasce il gigante cinese dell'auto
Fusione tra Saic e Nanjing: "Siamo pronti alla competizione mondiale"
L’obiettivo è arrivare a produrre oltre 2 milioni di auto entro il 2010
di Giorgio Lonardi


MILANO - Costruire un colosso automobilistico cinese in grado di competere con i giganti stranieri come Toyota e Volkswagen. È questo l´ambizioso obiettivo della fusione annunciata ieri a Pechino fra la Saic Motor Corp (azienda quotata controllata da Shanghai Automotive Industry, il maggior costruttore di auto del Paese) e Nanjing Automobile Group Corp, la società che ha appena acquistato la quota Fiat nella joint-venture costituita con Torino nel settore auto.
Il nuovo gruppo, sostengono gli analisti, ha le carte in regole per produrre oltre 2 milioni di auto entro il 2010 aumentando la propria competitività anche sulle maggiori piazze internazionali. «Per affrontare la concorrenza globale», ha spiegato Hu Maoyuan, presidente di Saic, «abbiamo bisogno di fusioni e di un avanzamento del processo di consolidamento del mercato». Già nel 2007 il mercato cinese sarà il secondo del mondo con 8 milioni di auto vendute.
La struttura dell´operazione, fortemente voluta dal governo di Pechino, è semplice. Saic Motor, infatti, sborserà 2,09 miliardi di yuan, pari a 285,7 milioni di dollari, per le attività di assemblaggio e produzione auto di Nanjing, proprietario del marchio Mg. Mentre la Yuejin, cioè la casa madre di Nanjing, avrà in cambio 320 milioni di azioni, pari a una quota del 4,9% di Saic Motor, dalla Shanghai Automotive Industry. «Entrambi i partner», dichiarano le due imprese, in un comunicato «sono complementari l´una con l´altra e potranno migliorare le loro risorse in termini di disponibilità finanziarie, ricerca e sviluppo, marketing, produzione e gestione dei fornitori».
Le due imprese coinvolte nella fusione hanno dimensioni molto diverse. Shanghai Automotive, azionista di Saic, è il numero uno fra i produttori cinesi con il 17,44% del mercato locale di veicoli. Nel primo semestre del 2007 il gruppo guidato da Hu Maoyuan (coinvolto in importanti joint-venture con Volkswagen e General Motors), ha venduto quasi 450 mila auto mentre Nanjing Automobile Group fra gennaio e novembre di quest´anno si è fermata a quota 86 mila. In ogni caso Nanjing controlla un asset molto prezioso per lo sviluppo del nuovo gruppo. Si tratta non solo del marchio ma soprattutto dello stabilimento produttivo inglese di Mg Rover. Una vera e propria piattaforma che servirà alla vendita di auto cinesi sul mercato europeo.
Ad ogni modo la fusione fra Saic e Nanjing sarà solo l´inizio di un processo di consolidamento dell´intero settore auto in Cina. Oggi, infatti, compresi gli stranieri ci sono ben 47 produttori sul suolo cinese. Troppi per il governo di Pechino che ha chiesto alle sue aziende di fondersi e raggrupparsi per fronteggiare la concorrenza internazionale. Nel 2008, ad esempio, Toyota conta di aumentare le sue vendite in Cina del 43% raggiungendo le 700 mila unità mentre Volkswagen punta ad una crescita del 13% fino a 900 mila vetture dopo un primo balzo del 30% compiuto nei primi nove mesi del 2007.

Liberazione 27.12.07
L'idea di una una svolta liberal-autoritaria dilaga in molti campi
Anche sulle politiche culturali un dittatore buono: il mercato
di Stefania Brai


Efficienza, concorrenza, merito. Sono i cardini dell'economia di mercato individuati sul Corriere della Sera da Michele Salvati in base ai quali può realmente progredire la società. Un leader forte non solo per il Partito democratico ma anche per l'Italia, un leader in grado di prendere decisioni senza i lacci e lacciuoli del confronto e del potere di veto: è la ricetta individuata da Giorgio Tonini per governare il Pd e l'Italia, il quale riconosce che c'è una cultura diffidente, un po' anche in tutto il centro sinistra, che ha radici lontane… che risale alla lotta antifascista, resistenza che però "va vinta", naturalmente.
Non entro nel merito tragico dell'idea di società e di democrazia che si vuole prefigurare, ne ha parlato splendidamente Rina Gagliardi su Liberazione del 23 dicembre scorso. Voglio solo osservare che nelle politiche per la cultura dal primo governo di centro sinistra, passando per Berlusconi e arrivando ad oggi, non solo l'idea che sia il mercato l'unico regolatore ma anche quella che la privatizzazione delle istituzioni culturali avrebbe garantito "efficienza, efficacia ed economicità" attraversa da tempo le forze politiche, anche della sinistra. Così come l'idea che le nomine delle istituzioni culturali siano un fatto anch'esso "privato", in senso oggettivo e soggettivo, e di esclusiva competenza dei governi. I lavoratori di quei settori, i lavoratori della cultura, non hanno motivo di avere voce in capitolo.
È depositata in Parlamento una proposta di legge di riforma del cinema a firma Partito democratico nella quale si prefigura la costituzione di un Centro nazionale per il cinema - che dovrebbe essere un organismo autonomo e rappresentativo delle forze produttive ed artistiche del settore - nel quale tutto il potere decisionale è messo nelle mani di un direttore che non risponde a niente e a nessuno se non al ministro di turno.
Risale al primo governo Prodi la trasformazione degli enti lirici in fondazioni private. Risale al governo Berlusconi ma non è stata ancora abrogata la norma che, al limite della costituzionalità, mette limiti alla contrattazione integrativa. Sempre a tutela dell'efficienza e dell'economicità.
È di qualche mese fa il ricorso all'Autorità garante del più importante teatro privato di Roma contro il "monopolio" dei teatri pubblici della capitale, in nome della libertà di mercato e della concorrenza.
E' di poco tempo fa la nomina del nuovo presidente della Biennale di Venezia e la riconferma da parte del ministro per i Beni e le attività culturali di Marco Muller alla direzione del settore cinema. Conferma che per legge spetta al consiglio di amministrazione.
È sempre di pochi giorni fa la nomina del nuovo direttore del teatro stabile di Torino. E' di questi giorni la nomina del nuovo consiglio di amministrazione del teatro stabile di Roma e della sua direzione.
Si tratta delle più importanti istituzioni culturali del nostro paese.
Quando parliamo di teatri stabili o di fondazioni lirico sinfoniche parliamo di quegli spazi che vogliamo realmente pubblici, nella proprietà così come nella "missione", che dovrebbero non solo rappresentare il punto più alto di ricerca e di innovazione, di conservazione e trasmissione della memoria, ma anche divenire luoghi "del" territorio, luoghi nei quali, al centro come nelle periferie delle grandi città, sia possibile produrre, sperimentare, proporre, discutere, fruire della cultura. Luoghi nei quali entri la scuola e che entrino nella scuola. Luoghi di formazione, professionale e culturale. Luoghi del presente, per il futuro. Luoghi di identità e luoghi di innovazione. Luoghi delle diversità e di costruzione di saperi e di conoscenza. Luoghi della stabilità contro ogni provvisorietà.
E quando parliamo della Biennale di Venezia parliamo della più grande istituzione culturale del nostro paese e la più importante nel mondo; parliamo di una istituzione che va ripensata con un progetto che ne faccia un laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione, discussione ed elaborazione che coinvolga tutta la città, le forze culturali e le avanguardie di tutto il mondo. Che trasformi le "mostre" dei diversi settori in momenti espositivi di un'attività e una ricerca durata tutto l'anno. Venezia e la Biennale vanno ripensate insieme: l'una ha bisogno dell'altra, non si cambia l'una senza cambiare l'altra, con un progetto permanente che coinvolga - sul piano ideativo e su quello logistico - tutta la città.
Allora, senza entrare nel merito e senza discutere di nomi alcuni dei quali possono essere pienamente condivisibili, è la filosofia di cui parlavo all'inizio che va respinta e combattuta. L'idea che le decisioni importanti e difficili vanno prese da chi detiene il potere in quel momento, senza impedimenti "democratici" di alcun genere.
I nomi di chi è chiamato a guidare strutture così importanti per la produzione culturale del nostro paese non possono rispondere né a criteri di "efficienza, efficacia ed economicità" né a valutazioni personali di più o meno illuminati "principi". Devono essere fatte con criteri trasparenti e pubblici, in base a progetti culturali trasparenti e pubblici, che rispondano all'unico criterio possibile: l'utilità culturale e dunque sociale dell'istituzione.
Un ultimo punto. Tra pochi mesi scadrà finalmente il mandato di Alberoni al Centro sperimentale di cinematografia. Stanno già avvenendo manovre interne ed esterne per preparare le nuove nomine del cda e del presidente. Chiediamo fin da adesso che sia elaborato e reso pubblico un progetto che ridia al Centro il ruolo di alta formazione professionale che tutto il mondo gli riconosceva, che lo faccia ritornare ad essere luogo pubblico di formazione, ripristinando borse di studio e sganciando la formazione dal mercato e dalle imprese di produzione. E su questo progetto, e solo in base a questo, siano nominati i nuovi vertici.
*Resp. Naz. Dip. Cultura Prc-Se

Liberazione 27.12.07
Parla la presidente dell'Ordine degli psicologi del Lazio
Zaccaria: «La terapia riparativa non esiste. L'ordine interverrà»
di Beatrice Macchia


Marialori Zaccaria, presidente dell'ordine degli psicologi del Lazio e membro del consiglio nazionale, ha appreso con sgomento l'esistenza delle pratiche terapeutiche per "guarire dall'omosessualità". «Leggendo l'inchiesta di Liberazione emerge uno spaccato che va contro il codice deontologico della nostra professione». Ed ancora: «Arriveremo fino in fondo a questa storia e accerteremo eventuali responsabilità di colleghi psicologi». Insomma una presa di distanza netta e decisa nei confronti di chi applica terapie medioevali.
Dottoressa Zaccaria, a quanto pare ci sono suoi colleghi che vanno in giro a guarire dall'omosessualità. Che ne pensa?
Prima di tutto ci tengo a sottolineare il fatto che il professor Cantelmi è uno psichiatra e non uno psicologo.
E sulla terapia riparativa? Che validità scientifica ha?
Le terapie riparative non esistono. E' come se un eterosessuale seguisse corsi terapeutici per diventare omosessuale. L'articolo 4 del nostro codice disciplinare parla chiaro: lo psicologo deve rispettare il diritto del paziente astenendosi dall'imporre il proprio codice di valori. Insomma, non deve esserci alcuna discriminazione in base alla religione, l'etnia, l'estrazione sociale, lo stato socio-economico, il sesso, l'orientamento sessuale e la disabilità.
C'è chi sta chiedendo interrogazioni parlamentari per chiedere l'espulsione degli psicologi coinvolti. Come ordine farete qualcosa?
Accerteremo senz'altro eventuali responsabilità.
A quante pare le terapie riparative hanno molti "pazienti", come spiega questo fenomeno?
Purtroppo le persone che hanno un diverso orientamento sessuale vivono ancora tante discriminazioni sociali. Una discriminazione che di per sè crea disagio. Quindi chi ha difficoltà pensa di risolvere le cose rivolgendosi a chi promette strane guarigioni. Voglio però ribadire che la "terapia riparativa" dell'omosessualità non esiste. Già un secolo fa Freud sosteneva che l'omosessualità non è una malattia. Chi dice il contrario dice una falsità scientifica e noi interverremo con una segnalazione alla commissione deontologica. Nello stesso tempo è evidente che bisogna organizzare eventi informativi e formativi adeguati.