sabato 29 dicembre 2007

l’Unità 29.12.07
Le unioni civili e la battaglia che non c’è
di Adriano Labbucci


Su l’Unità del 27 dicembre Vincenzo Vita ha scritto un articolo che prendendo spunto dalla vicenda del Registro delle unioni civili, bocciato dal Consiglio Comunale di Roma, svolge un ragionamento il cui centro è nella seguente affermazione «ogni occasione è buona per mettere in difficoltà il processo costituente del partito democratico (e il Sindaco di Roma, che del Pd è il segretario)».
Visto che di Roma si parla si può dire alla romana che Vita la “butta in caciara”, cioè parla d’altro, alza una cortina di parole per sfuggire al merito della questione, mischia le carte per confondere.
Io capisco la difficoltà a spiegare, ancora oggi a due settimane di distanza, quella scelta da parte del Pd di bocciare la proposta. Dire come è stato detto che il Registro è inutile si espone alla banale domanda: e allora perché, non cinque anni fa ma poco più di un anno fa, è stato scritto nel programma di Veltroni Sindaco? Troppi infatti si dimenticano di questo piccolo particolare.
L’impressione perciò è che il Pd sia rimasto folgorato non sulla via di Damasco, ma su qualche via più vicina a casa nostra.
Vita poi si domanda «forse che sulle unioni civili, obiettivo laicamente sacrosanto, si è fatto un passo in avanti?». Ma la domanda, di grande interesse, rimane a mezz’aria, sospesa, in attesa di una risposta che non arriva, forse perché ritenuta una domanda retorica.
Eppure la domanda non è retorica e ha bisogno di una risposta che non è particolarmente difficile ma al contrario evidente: non si è fatto nessun passo in avanti perché il Pd invece di sostenere la proposta coerentemente a quanto scritto nel programma ha votato contro insieme alla destra. E quindi la domanda nient’affatto retorica va rivolta al Pd.
Da tutta questa giostra il risultato è il seguente: al Parlamento tutto è bloccato per l’esiguità dei numeri e per le divergenze nell’Unione; e al Comune di Roma dove invece si poteva fare un passo in avanti, cercando così di spingere anche sulla vicenda nazionale, il Pd si è opposto. Sull’odg del PD lasciamo stare perché gli odg lasciano il tempo che trovano: se è bello resta bello se piove resta piove, come si dice sempre a Roma. Dalle compagne e dai compagni che con Vita alle primarie del Pd hanno promosso la lista «A sinistra» io, e non solo io, mi sarei aspettato qualcosa di diverso, tanto più in questa vicenda dove invece è prevalsa la logica di gruppo, l’unità del Pd, rispetto al contenuto.
Se si vuole giustamente ridare credibilità e autorevolezza alla politica, la prima cosa da fare è capovolgere l’ordine del discorso politico corrente che si chiede: cosa mi conviene, cosa è utile per me o per il mio gruppo? E sostituirlo con: che cosa è giusto, coerente rispetto ai valori e agli interessi che voglio rappresentare? E alle parole far corrispondere i fatti.
Se non si opera questo capovolgimento, prevale e prevarrà sempre più la politica usa e getta e l’indifferenza, virus mortale per la politica e quindi per la sinistra e per qualsiasi ipotesi di cambiamento.
Un’ultima osservazione. All’indomani della bocciatura del Consiglio Comunale è apparsa un’intervista a monsignor Sgreccia che a proposito delle coppie omosessuali affermava che quelle vanno aiutate con il sostegno psicologico e con terapie adeguate. Parole indicative di una subcultura alimentata da ignoranza e pregiudizio, lontana anni luce da quel simbolo di amore e misericordia rappresentato dal Cristo in croce. Ebbene: il giorno dopo in un lungo articolo su la Repubblica Walter Veltroni non trova l’occasione e lo spazio di una risposta, idem Vincenzo Vita. Perché?
Miriam Mafai ha scritto che l’Italia di trent’anni fa, quella del referendum sul divorzio e sull’aborto, era più laica e più avanzata sui diritti civili dell’Italia di oggi. Penso che ci sia un nesso tra l’assordante silenzio sulle parole di monsignor Sgreccia e l’arretramento culturale e politico che Miriam Mafai segnala. E che una delle risposte si trovi proprio in quella logica che dicevo prima: se è conveniente e utile polemizzare con un’esponente della gerarchia vaticana e rispondersi che non conviene, meglio far finta di niente, sorvolare; e invece prendersela con la sinistra, magari con l’aggiunta radicale, che fa tanto riformista e poi piace tanto ai giornali signora mia. Non capendo che qui il tema non è la disputa tra laici e cattolici, credenti e non credenti ma, per dirla con il cardinal Martini, tra pensanti e non pensanti. Ma così, è bene saperlo, si preparano solo ulteriori arretramenti perché le battaglie perse sono solo quelle che non si danno.
Presidente del Consiglio Provinciale di Roma

l’Unità 29.12.07
Caravaggio, l’ultima partita a tennis
di Egizio Trombetta


C’era di mezzo una donna: i due, non potendo sfidarsi a duello, si diedero appuntamento a Campo Marzio per una partita

Il pubblico seguiva dalle tribune otto giocatori sul campo. Ma a un certo punto le racchette sparirono e apparvero le spade

UNA PARTITA di pallacorda (così si chiamava il gioco con palla e racchetta nel Cinquecento) fu il teatro della morte di Ranuccio Tomassoni per mano di Caravaggio. Che fu aiutato da Fabrizio Sforza Colonna a nascondersi e poi fuggire

Un incontro di tennis o meglio di pallacorda cambiò per sempre la vita di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, il massimo esponente della scuola barocca, a seguito del quale uccise Ranuccio Tomassoni, uomo influente e ben introdotto coi Farnese. Era il pomeriggio del 28 maggio 1606, il pittore lombardo e Ranuccio Tomassoni si accordano per scontrarsi alla pallacorda così da chiarire una volta per tutte la loro supremazia su di una prostituta d’alto bordo, la senese di nome Fillide Melandroni, di cui entrambi erano amanti. Successe a Roma, al Campo Marzo in via della Pallacorda n.5, ora lì c’è un garage in via di ristrutturazione.

Quindi una donna, o forse due, furono la causa dell’inimicizia fra i due. La seducente Fillide, che fece da modella al pittore (nel 1600 col Ritratto della Cortigiana Fillide, quadro andato distrutto a Berlino nel 1945 a seguito dei bombardamenti durante seconda guerra mondiale) e forse anche Lavinia Giugoli,la chiacchierata moglie di Ranuccio, sarebbero state la causa per cui Tomassoni e Caravaggio arrivarono a duellare. I duelli però erano banditi a causa delle leggi «sistine» ancora vigenti, erano tempi in cui la Santa inquisizione manda a morte Giordano Bruno e Beatrice Cenci. Si doveva trovare un espediente affrontarsi e la pallacorda si prestava bene allo scopo. Secondo i piani il duello sarebbe dovuto fermarsi al primo ferimento di uno dei contendenti, senza andar oltre. L’appuntamento è vicino al campo di via di pallacorda, probabilmente proprio in Piazza Firenze. Con Ranuccio c’è suo fratello, il caporione Gian Francesco, e ci sono i suoi cognati, Ignazio e Federico Giugoli. Caravaggio si fa invece accompagnare dall’architetto Onorio Longhi, il capitano Petronio Troppa, e infine c’è il famoso quarto uomo rimasto sconosciuto per tutti questi secoli. L’identità del quarto uomo venne artatamente occultata negli atti del processo sotto un discreto N.N, Nescio Nomine. È evidente che l’N.N in questione poteva essere un rampollo di una grande famiglia, un personaggio da proteggere ad ogni costo. Dai quadri d’epoca si deduce che il campo era certamente allo scoperto, mentre il pubblico poteva seguire le vicende di gioco da «tribunette» coperte stile vittoriano. In quell’incontro di pallacorda si fece uso probabilmente di racchette anche se al tempo si potevano usare in alternativa i guantoni specifici. A dividere il campo non c’era la rete, come oggi si usa, ma la corda, è da cui deriva appunto il nome del gioco, «pallacorda». Come viene messo in evidenza dai documenti in nostro possesso, non fu una partita di singolare, ma fu un confronto quattro contro quattro. Due giocatori posizionati più avanti, in prossimità della corda, due giocatori posizionati dietro, come si dice ai tempi nostri «a fondo campo». Ad assistere allo scontro-incontro non c’è Fillide, non c’è Lavinia e non c’è tanto meno la donna ufficiale del pittore, Lena, con cui Caravaggio trascorre l’ultima notte romana. Non si sa molto dell’andamento dell’incontro, certamente fu un incontro equilibrato anche perché sarebbe stato difficile prevalere in un campo di dimensioni così ridotte, circa 9 metri per 27 e soprattutto con otto giocatori in campo. Le occasioni per tergiversare non mancarono e alla prima contestazione il «gioco» cambiò, sempre quattro contro quattro, ma le spade presero il posto delle racchette. Il Merisi, manco a dirlo, prese in consegna proprio il Tomassoni che nella concitazione cadde in terra. L’allora trentacinquenne pittore non ci pensò su due volte e ferì Ranuccio all’inguine con la punta della sua spada con la chiara intenzione di evirarlo. Fece male i suoi conti però perché recise malauguratamente l’arteria femorale di Ranuccio. Risultò subito evidente agli occhi dei presenti che la ferita subita dal Tomassoni era gravissima. Scapparono tutti, anche il pittore fu ferito gravemente, con Ranuccio morente rimase il bolognese ex-guardia di Castel Sant’Angelo Petronio Troppa, ferito mortalmente anche lui da Gian Francesco, il fratello del Tomassoni. A soccorrere Merisi ci pensò proprio il quarto uomo, il famoso N.N, che lo trascinò non nel più vicino ospedale e nemmeno a Palazzo Firenze presso il Cardinale Del Monte dove il Caravaggio alloggiò in passato, bensì lo portò fin casa sua, a Palazzo Colonna. Alla luce di recenti approfondimenti effettuati dallo storico dell’arte, esperto di caravaggio, Maurizio Marini risulta meno oscura l’identità del Nescio Nomine: «ulteriori approfondimenti - continua Marini - ci hanno portato a concludere che il Caravaggio quel pomeriggio ebbe facile accesso a Palazzo Colonna perché stava con qualcuno di casa. Il quarto uomo fin ora protetto dagli atti dalla discrezione di un Nescio Nomine è senza dubbio Fabrizio Sforza Colonna». Risulta anche evidente che il cosiddetto quarto uomo, benché non provocò il ferimento di nessuno, ebbe premura di sparire insieme al vero colpevole: «Fabrizio si trovava in una posizione difficile - sottolinea Marini -. Il giorno precedente entrò in città da interdetto a seguito di una condanna subita l’anno precedente. Per lui essere coinvolti in un omicidio era una situazione pericolosissima». È per questo motivo dunque che Fabrizio Sforza Colonna portò in gran fretta Caravaggio a Palazzo Colonna per poi fuggire via alla volta di Zagarolo. A suffragare ulteriormente la tesi del Marini c’è un esperto di storia del Tennis, l’olandese Cees De Bondt (autore del libro Royal Tennis in Renaissance Italy): «A Palazzo Colonna - spiega De Bondt - c’è stato sicuramente qualcuno interessato al gioco della pallacorda. Nel 1610, quattro anni dopo la sanguinaria partita, fu costruito nel Palazzo proprio una sala della pallacorda, dal lato di via della Pilotta».
La gran mole dei documenti in nostro possesso e utilizzati dallo stesso Marini per la sua opera (Caravaggio, pictor praestantissimus) sono raccolti nel libro di Mons. Corradini Caravaggio, Materiali per un processo. Lo stesso Monsignore precisa: «Le mie fonti - spiega Corradini - sono state ad esempio le relazioni dei birri successive allo scontro della pallacorda. Purtroppo il faldone del processo non fu mai ritrovato». È chiaro che fu fatto sparire.
Il resto della vita del pittore è noto, fu costretto a rimanere lontano da Roma fino alla fine dei suoi giorni. Morì a Porto d’Ercole, in circostanze non del tutto chiare, col rimorso per quanto commesso. Rimorso che fu ben rappresentato da un dipinto del diciassettesimo secolo La morte di Giacinto. Non sappiamo con certezza chi sia l’autore del quadro del quadro in questione (da non confondere con un dipinto di Giambattista Tiepolo del 1752-1753) anche se l’olandese De Bondt ha le idee abbastanza chiare in proposito: «Ho dedicato molto tempo nelle ricerche in merito a questo dipinto - spiega -. Dall’idea che mi sono fatto è probabile che il dipinto è stato realizzato dal francese Simon Vouet sotto ispirazione e suggerimento del poeta e scrittore italiano Gianbattista Marino, che era a Roma nei giorni dell’omicidio». Il ritratto fatto allo scrittore da parte di Caravaggio nel 1600 e i sonetti dello stesso poeta a lui dedicati sono la prova evidente del rapporto d’amicizia che c’era fra i due. È probabile dunque che Gianbattista Marino tentò di far trasparire il pentimento del pittore così da intercedere in suo favore.

Repubblica 29.12.07
Anni 70. Un decennio infelice
di Alberto Arbasino


La Triennale milanese ospita una scintillante rassegna che sembra molto un videogioco
I ricchi ormai si esiliavano a Montecarlo per non fare gli stronzi alla Scala contestata
Già a metà fra il ´63 e il ´68 si ritornava volentieri nella vecchia California
Passamontagne e spranghe in territori urbani piccolissimi tra strade plumbee
Ai giovani non importava più niente della letteratura non impegnata
Fra cortei armati e fumetti e canzoni e Cina e Cile, Moro e Pasolini muoiono in tutti i media

Coi soliti senni del poi (ma perché, poi?), naturalmente parrà molto "epocale" (o «un battito di farfalla»?) quella frattura tra il ´63 e il ´68. Prima, l´emergente Gruppo d´avanguardia giovane, generalmente ben visto dagli Antichi Maestri già un po´ emarginati nelle loro nicchie: Gadda, Anceschi, Palazzeschi, Ungaretti, Praz, Comisso. Fra centro e sinistra, nei territori mediatici lasciati usufruibili dagli incauti democristiani, tutto un Establishment clientelare e normalizzatore, di "midcult" e di mezza età: la generazione dei Moravia coi tradizionali poteri "egemonici" all´italiana, esercitati raccomandando o «tagliando i viveri» ai letterati subalterni che campavano di prestazioni precarie, senza ancora contratti o salari o assicurazioni o pensioni.
Qualche "posticino" già acquisito nelle carriere accademiche o pubblicistiche o radiofoniche poteva comunque garantire l´indipendenza alimentare e culturale di una letteratura sperimentale che profittasse del boom italico non solo per vendere bestseller. E senza le tradizionali sputtananti preghiere italiane ai Poteri di turno. Anche perciò continuarono poi lungamente le accuse di «volevano prendersi tutti i posti!», da parte degli intellettuali di regime o protesta che effettivamente, dopo il Sessantotto, si presero un mucchio di direttorati nelle strutture e prebende. Senza più curriculum, né concorsi, né titoli. Ma una volta sistemati, escono dall´attualità perché «non hanno più niente da dire». («Ditemi un titolooo!»).
Ma l´Establishment non aveva previsto il dopo. Solo cinque anni, ed ecco insorgere un inaspettato movimento generale collettivo, e assolutamente alieno da ogni letteratura, in lotta e guerra o guerriglia dura (come nelle rivoluzioni "da manuale") per abbattere l´Establishment (ora detto "Sistema"), e occupare direttamente i "Palazzi" direttivi. Magari a costo di ammazzamenti e ferimenti adesso commemorati, «per non dimenticare», in tanti luoghi della Memoria, monumenti ai Caduti, lapidi, "format", sceneggiati, e via.
Nella scintillante rassegna-videogioco sugli anni Settanta alla Triennale milanese, chissà se i giovani nati in seguito sapranno discernere se furono anni «formidabili» o «di piombo», o un´intrigante playstation. Qui, fra cortei armati e fumetti e canzoni in lp e Cina e Cile e video e sangue ed effimero, Moro e Pasolini vengono riammazzati in tutti i media, mentre non si ritrovano facilmente Feltrinelli o Calabresi o Casalegno o altri, lungo gli abiti di Fiorucci e i versi di De André, il juke-box e il Vietnam e i punk e la P38 o la P2. Ma non molti artisti o sarti o scrittori o musicisti emergenti dai "collettivi", come prima e dopo. E nemmeno concretezze dei capetti - dopo le spranghe e i manganelli - circa i treni dei pendolari, gli ambulatori per i poveri, l´assistenza ai neonati dopo le ammucchiate di massa. Mentre i ricchi ormai andavano in Svizzera anche solo per il dentista. E si esiliavano a Monte-Carlo per non fare gli stronzi alle contestate prime della Scala o nelle mitiche sparatorie stradali.
Già a metà fra il ‘63 e il ‘68, comunque, senza aspettare le successive scoperte e scopate di massa, si ritornava sempre più volentieri nella vecchia California per godersi allo stato nascente e con piacevolezza i "trends" che dopo qualche stagione sarebbero arrivati quali "novità" ideologiche e predicatorie anche da noi. Come in un ribaltamento di quel «piano inclinato» che era l´America secondo Oscar Wilde e Saul Steinberg, dove rotola tutto ciò che casca dall´Europa e prima o poi riappare a San Francisco.
E così, via! Le rivolte studentesche sull´erba, i figli dei fiori e dei funghi, i parchi e giardini lisergici e psichedelici, sconfinati, vastissimi, con culi e chitarre al vento, macché passamontagne e spranghe in territori urbani piccolissimi fra plumbee vie Carducci o Pascoli o Collodi o De Amicis... Altro che highways fra Sacramento e Big Sur e Tijuana... E le musiche sempre più amplificate, nelle prime discoteche di massa e di mandria, enormi e cascanti, in una grafica sinuosa e languida fra LSD e Art Nouveau per i poster e i dischi. E tutto un cinema molto sperimentale e poco adatto ai non-cinefili; e un teatro molto "off" con tutti seduti per terra impietosi e scomodi fra candelotti da processione alla Vergine. E officianti che scendevano a urlare «fuck!» trasgressivi, ma si offendevano a toccargli per provocazione il sedere. E parecchia cera colorata da fiaccolate per stragi orientali anche nei penetrali e ricettacoli dei piccoli supplizi ove si scatenavano praticamente le fantasie ancora originali dell´immaginario individuale, prima dell´omologazione globale imposta alle masse dalla «liberazione sessuale», e poi dalla grande paura per l´epidemia dell´Aids.
Autobiograficamente, appunto Off-off si intitolava un mio instant book di corrispondenze sul campo a caldo (con «quell´estate a Manhattan», appunto), uscito da Feltrinelli alle fine del ‘68. Con già dentro i vari trends che sarebbero poi stati scoperti e divulgati, serialmente e addirittura scolasticamente, nel corso dei nostri successivi anni Settanta. «Il sabato del Village»... Un Underground in tutti i sensi: le colossali discoteche supertecnologiche «da sballo» con le più recenti droghine rustiche o chimiche ma comunque subito mitiche, e le cantine sordide con recitanti ieratici e famelici, al Village. Cantine fra i docks e i macelli, invece, con marines e calciatori e cowboys forse neanche finti in "numeri" allora sensazionali di ring e gabbie e vasche per usi innominabili; e poster di protesta da "college" per la cameretta studentesca. Il New American Cinema decrepito dalla nascita, e la Factory di Andy Warhol (mio coetaneo per niente "impegnato") piena di trovate attonite ma vispissime, in paraggi allora succulenti. E il Living Theater, il Café La Mama, i Velvet Underground, The Mothers of Invention, i mini-circuiti di cooperative e monologhisti e travestiti e Pop Art non-correct, le disgraziate famose per qualche giorno al Chelsea Hotel e finite malissimo...
Oltretutto, negli Stati Uniti «on the road» come nell´Italia mediterranea, tradizionalmente i "ragazzoni" facevano le loro "ragazzate" («ah se ci fosse qui una bella ragazza!», «già, ma non c´è!») dall´Est al West fra ostelli e deserti remoti dalla cultura dei passamontagne, quando ancora prefissi come «omo» o «etero» si applicavano a concetti astratti come l´omonimia o l´eterogeneità dei fini. Non certamente al sesso spontaneo nelle docce. Non esistevano i "nomi", e quindi neanche le "cose", che tanti facevano tra acque e saponi o cespugli in Texas o a Hollywood, senza curarsi di etichettarle come "trasgressioni". Dopo le classificazioni e le suddivisioni e i distintivi, ecco invece la formazione dei piccoli ghetti specializzati: e ancora per primi a San Francisco, nel «Castro Village». Non più festose sfrenatezze in allegri bar o bagni "maledetti", bensì negozietti di ferramenta e plastiche e protesi ormai mediatiche e patetiche come i tacchi sadomaso nei grandi magazzini con liquidazione delle rimanenze. E sempre meno "Immaginazione", tra gli sfoghi serali pianificati a Houston come a New Orleans, Amburgo, l´Oktoberfest a Monaco, il Carnevale di Rio, la deplorevole Bangkok, con anziani "pasolinidi" in preda beata per frotte di atroci piccini.
Frattanto, «inter nos», questioni sempre meno gramsciane sui «gggiovani» già sviluppati quali protagonisti di contestazioni e consumismi e pubblicità rock... Quando la «Giovinezza» ricordava ancora troppo l´inno fascista ormai vecchio, la «Gioventù» era appena stata hitleriana nei cinegiornali, e qualunque «Fischia il sasso» col «ragazzo di Portoria» si era stati obbligati a cantarlo, non solo a Genova, in cortei di piccoli Balilla poco propensi alle adunate e ai motti come a ogni Doge o Duce sui palchi.
Dunque, all´epoca, avendo compiuto i 40 anni allo scoccare del decennio di piombo - e avendo scarso interesse per le ideologie e le canzoni e i vestiti e gli arredi e gli spettacoli italiani dell´epoca - si riproponeva il problema già avvertito negli anni Cinquanta: se stabilirsi con libri e tutto non a Roma bensì a Londra, o Parigi, o Broadway, o Hollywood, campando bene come "corrispondente" giornalistico, e coinvolto con la società culturale locale. Senza esporsi troppo al «quanto ti fermi ancora?», se non si partecipa ogni giorno e sera alle telefonate e iniziative e ricevimenti locali, come succede quando si rimane per un paio di settimane.
Oppure: far fronte, per ovvio e frainteso senso civico, a un desueto e sfottuto dovere di testimonianza storica e antropologica "on the spot" nello Stato di cui si ha la cittadinanza e i redditi? Senza magari smaccatamente abbandonarsi, secondi i regimi in auge, all´interminabile lagna del "presenziare" italiano: adunate, manifestazioni, commemorazioni, fiaccolate, cortei per innumerevoli vittime assolutamente indimenticabili, fin da piccini tra scuole e doposcuole e discorsi e lapidi e gite e cippi e steli e slogan; e poi, nella toponomastica e nelle pagine gialle e sui mezzi pubblici e radio-taxi, e "format" luttuosi in tv.
Allora: fare gli antitaliani contromano e controcorrente e "versus"? O intrupparsi in movimenti omogeneizzati e collettivi, a costo di comprarsi un passamontagne per le sfilate invece di un boxer per Malibu? Ingraziarsi movimenti «gggiovani» dediti alle ideologie stagionali, per poi diventare capiservizio e quindi «ad» e direttori e presidenti in tutti gli enti possibili? Bloccando per decenni le carriere e il curriculum delle successive generazioni di postulanti ormai anziani in crisi, quando ancora sui giornali si legge «un ragazzo di trentotto anni»...
Non per nulla, ai promettenti giovani degli anni Settanta, e anche a Giangiacomo Feltrinelli che me lo ripeteva, non importava più niente la letteratura "personale" degli scrittori non impegnati, ma soltanto le ideologie nei documenti collettivi anonimi. E Italo Calvino mi bofonchiava: «un altro che non vuol più credere alla letteratura?». In quel grigiore davvero plumbeo e terroristico, fra i mitra di strada e i Sex Pistols nelle discotechine due metri più sotto, e i conformismi minacciosi sempre più nuovi e massicci, chi poteva prevedere che tante Immaginazioni e Utopie sarebbero presto sfociate in un redditizio revival delle saghe familiari e degli intimismi con gioie e dolori, nonché infiniti thriller e killer di consumo per le immortali signore mie e le future casalinghe di Voghera?
Così, venne proprio intitolato In questo Stato un mio instant book sulle vivaci ricezioni romane e italiane ai telegiornali e ai gossip nei lunghi tempi del sequestro di Moro. Messo in un cassetto dai dirigenti della Feltrinelli d´allora, fu passato dal grande agente Erich Linder a Livio Garzanti, che subito lo pubblicò. (Come del resto, al crollo dei Muri nell´epocale Ottantanove, Elvira Sellerio seppe stamparmi in fretta La caduta dei tiranni. Poi, certo, passò la voglia di occuparsi narrativamente delle figurine e figurette che si incontrano negli «ambienti esclusivi» o nella cronaca giornalistica).
Ma intanto, per salutare la fine del «genere-Romanzo-non-merce», dopo i carissimi capolavori e le Grandi Incompiute del primo Novecento - in contemporanea con gli epiloghi della Sinfonia e dell´Opera e della Pittura: «signore e signori, si chiude!» - pareva piuttosto giusto dedicarsi ai "meta-romanzetti": «Super-Eliogabalo», «Principe costante», «Specchio delle mie brame». Mentre Calvino stesso faceva della meta-narrativa con «Se una notte d´inverno», Pasolini passava al cinema, Testori si buttava sul teatro... Però, con l´aggravarsi dei peggiori corsi e ricorsi più storici, riecco il dovere personale di ripassare a una funzione prettamente civile. Anche malgrado gli entusiasmi di chi aveva vent´anni anarchici proprio negli anni Settanta. E dunque viveva le stesse passioni antisociali dei ventenni nel 1870, o 1770, o eccetera. Quindi, scritti e pulsioni piuttosto congiunturali, con titoli di servizio: Equo canone, Confezioni per famiglie, Condizioni di impiego, Servizio non compreso, Priorità non acquisite... Come aveva insegnato Adorno, morto di contestazione appunto allora.
Ma intanto, fra un lutto e un piombo, anche lunghi viaggi nei più discussi paesi esotici: Cina, Giappone, Bali, Nepal, Giava, Iran, Malesia, Siam, Australia, Hawai... E moltissime visite alle grandi mostre e ai concerti che si continuavano a tenere a Londra, Parigi, Berlino, Amburgo, Amsterdam, Washington, Hollywood, Rio de Janeiro, Vienna, Monaco, Lisbona, Istanbul, Zurigo... Lasciando perdere con profitto tanti eventi "locali" poi proclamati formidabili e imperdibili, o magari stronzate.
Andando e tornando, si accumulavano così i materiali tradizionali e trasgressivi per Un Paese senza, antropologia dei caratteri e fantasmi italiani apparsa appunto nel 1980, alla chiusura del decennio infelice.
E il decennio successivo? Bella roba, gli anni Ottanta? E i Novanta? E nelle celebrazioni del quarantennale 1968-2008, che faranno i ventenni o trentenni «duemilaottini» di fronte a un Sistema o Establishment che è nuovamente riuscito a «metterglielo là», oltre alla "movida" e alla "vaiolance" a tutta birra? Con le bottigliette da spaccare contro i muri graffiti non più con «W la Figa» o «W il Duce» in gessetti e carboni ormai fuori commercio, ma in ghirigori acrilici per segnalare lo spaccio più vicino, o i «Dio c´è» per registrare il controllo malavitoso su un territorio... Annate e cause ed effetti ed eventi con martiri e vittime - nel secolo scorso e anche in questo - ancora una volta formidabili, belli e bellissimi con lutti imperdibili e happy hours indimenticabili, e quarantennalmente commemorabili e celebrabili nel 2048...

Repubblica 29.12.07
I numeri. Fascino discreto tra scienza e arte
di Piergiorgio Odifreddi


Fin dalla più remota antichità i numeri hanno esercitato un fascino strano sugli uomini. E il sette ha il privilegio di corrispondere al numero dei corpi celesti allora conosciuti. Per chi aggiungeva a questi anche la Terra e le stelle fisse aveva importanza il nove. Ma già dai tempi di Pitagora si era creata un´analogia tra i sette corpi celesti e le note musicali ed è da questa associazione matematica che è nata la teoria pitagorica che mette in relazione la natura con la musica. Per i pitagorici, insomma, la matematica ha una doppia valenza: oltre che essere considerata una scienza è vista anche come linguaggio dell´arte. Il sette inoltre rappresentava un fenomeno misterioso, una specie di buco nelle capacità tecniche degli antichi Greci. Tutti i poligoni regolari, dal triangolo all´ennagono, potevano essere costruiti con riga e compasso tranne quello con sette lati. Un esercizio che si è dimostrato scientificamente impossibile solo 2000 anni dopo.
Ma quando si va a scavare nella storia più antica della matematica si trovano altre curiose testimonianze. Nel papiro egizio Rhind che risale al 1900 avanti Cristo c´è una filastrocca che racconta di sette gatti che cacciano sette topi che hanno mangiato sette sacchi di chicchi di grano con cui si sarebbero coltivati sette campi...
Newton, facendo esperimenti col prisma, isolò nello spettro della luce sette colori, come se fosse una scala musicale. Nell´artista inevitabilmente tutte queste associazioni creano stimoli per provocare infinite suggestioni.

Repubblica Roma 29.12.07
Maurizio Pollini. La grande musica come un racconto lungo nove serate
Parla il grande pianista all’Auditorium dal 5 gennaio con le sue "Prospettive", incontri fra artisti
di Leonetta Bentivoglio


Maurizio Pollini torna a Roma in gennaio per un progetto che riflette in pieno, nel rigore e nell´originalità delle scelte, la sua peculiare fisionomia di musicista. Quest´anti-divo adorato dal pubblico, e teso alla ricerca di una perfezione ideale, ha mostrato spesso, negli ultimi anni, il bisogno di delineare programmi rivelatori e sorprendenti, costruiti sul confronto tra musiche diverse e autori storicamente lontani. Reti di accostamenti trasversali «all´interno di quel gigantesco contenitore di stili e pensiero compositivo che è la storia della musica, da guardare come un unico racconto, non uniforme ma organico», afferma.
Così nascono i "Progetti Pollini", testimonianze di una ricchezza linguistica che supera ripartizioni per epoche e specialismi, e capaci di stimolare il pubblico comunicandogli la sfaccettata intensità dell´esperienza musicale. Ora, col titolo di "Pollini Prospettive", e ancora su invito di Santa Cecilia all´Auditorium (che ospitò un "Progetto Pollini" nel 2003), il più esigente e atteso tra i pianisti dà il via a una nuova serie, con cinque programmi e nove serate, dal 5 al 29 gennaio, suonando tra l´altro per la prima volta con Antonio Pappano, direttore musicale dell´orchestra ceciliana, il primo e il secondo Concerto per pianoforte di Brahms.
«Queste "Prospettive" tracciano un percorso parallelo tra musica romantica e contemporanea», spiega. «Ci saranno Chopin, il Boulez della Seconda Sonata, Stockhausen e Schönberg eseguiti nella stessa sera del Quintetto in fa minore op. 34 di Brahms, e ancora Maderna, Webern, Debussy, Nono...»
Luigi Nono sembra irrinunciabile nei suoi programmi.
«A Roma saranno eseguiti due suoi pezzi: ...sofferte onde serene..., che scrisse per me, e A floresta è jovem e cheja de vida, del periodo politico più acceso di Nono, dedicato al fronte di liberazione del Vietnam. Sempre attualissimo, perché da vivere e ascoltare come un manifesto contro ogni guerra».
Stockhausen è un altro dei compositori che esegue spesso.
«I suoi Klavierstücke sono tra le opere più notevoli scritte per pianoforte nella seconda metà del Novecento. In questa serie ci sarà una presenza forte di maestri della modernità più che di giovani compositori».
Pensa che oggi domini un pensiero musicale "debole"?
«No, sono convinto che ci siano giovani interessanti. Ma autori come Boulez, Nono e Stockhausen sono un riferimento obbligato per il progresso dell´ascolto e la comprensione della musica odierna. Certe composizioni sono state decisive per il rinnovarsi del linguaggio, e sono convinto che gli spettatori avvertano quanto siano necessarie e dense di ragioni critiche, anche se sembrano ostiche».
Lei dà l´immagine di un pianista che si è posto al servizio della musica, nell´estraneità a qualsiasi sfoggio di bravura.
«Ciò che conta è la capacità di trasmettere qualcosa del mondo di un compositore, e il viaggio di appropriazione dell´opera coinvolge la sensibilità dell´interprete, che serve l´autore in modo attivo e personale. Senza questo coinvolgimento, se non si sviluppano affinità, il nostro lavoro non ha senso».

Corriere della Sera 29.12.07
Il versante domestico del genio di Heidegger
di Armando Torno


Per il trentesimo della scomparsa di nonno Martin, la nipote Gertrud Heidegger ha raccolto — scegliendole e commentandole — le lettere che l'illustre filosofo scrisse alla moglie Elfride. Il melangolo, che tanti meriti ha in Italia per la diffusione degli scritti heideggeriani, pubblica la traduzione di tale epistolario sotto il titolo «Anima mia diletta!» (locuzione d'inizio di molte missive). Sono pagine che contengono diversi particolari della vita del pensatore. Si noti, per fare due esempi, che nel marzo 1933, dopo l'andata al potere di Hitler, Heidegger si reca da Jaspers (che aveva una moglie ebrea) e a Elfride racconta impressioni e l'avvenuto scambio di idee; nel 1939, «davanti alla sostanziale incertezza di un Occidente ovunque in armi», Heidegger scrive una frase impressionante: «Attualmente non si trova un punto fermo e quanto è stato finora è alla fine, anche se esteriormente i rapporti si conserveranno forse ancora a lungo».
Ma queste lettere restituiscono anche sentimenti, problemi e vicissitudini del filosofo che trovò sempre nella moglie un sostegno pratico e tentò di scrivere, senza riuscirvi, l'opera definitiva, lasciando ai posteri il compito di orientarsi verso un «altro inizio del pensiero » rispetto alla metafisica classica e moderna, ormai giunta al tramonto. Sappiamo infine dalla postfazione che Hermann, figlio legittimo di Martin e Elfride Heidegger, ebbe come padre naturale Friedel Caesar.
MARTIN HEIDEGGER, Anima mia diletta! Lettere alla moglie Elfride IL MELANGOLO PP. 383, e 28

Corriere della Sera Roma 29.12.07
Una mostra nello Studioangeletti sulla dimensione psichica dell'uomo
In viaggio sulla nave dei folli
Da Bacon a De Chirico, tante opere dai tratti visionari
di Valerio Magrelli


«Stultifera navis», ovvero «La nave dei folli» (in tedesco «Das Narrenschiff»), è il titolo di un libro che l'umanista tedesco Sebastian Brandt pubblicò nel 1494. Grazie a una équipe di illustratori scelti, fra cui Dürer, il testo fu arricchito da una serie di xilografie. Quanto al racconto, si tratta della storia di un gruppo di pazzi che, fra molte peripezie, si imbarca su una una nave per Narragonien, la terra promessa dei matti. Allo stesso periodo risale anche il capolavoro di Hyeronimus Bosch «La nave dei folli», un olio su tavola in cui viene ritratta una nave affollata che ha per nocchiere un suonatore di cornamusa, e per albero maestro, un albero della cuccagna.
Insomma, la bizzarra rappresentazione tardo-medievale era nota da secoli, ma a sottolinearne l'importanza è stato Michel Foucault. Il primo capitolo della sua «Storia della follia» spiega infatti che il potere espelleva i folli dalla città, per affidarli al controllo di marinai e battellieri.
Proprio in omaggio all'intuizione dello studioso francese, è stata inaugurata a Roma, presso lo Studioangeletti di via Gregoriana 5, l'esposizione «La nave dei folli », nata da un'idea di Cristiano Bernhard e Andrea Fogli. Partendo da una collezione di disegni e incisioni di artisti fra Otto e Novecento (e sotto la guida di un «capriccio » di Goya), l'allestimento verte su una genealogia di artisti dediti a scandagliare la dimensione psichica, con tratti potentemente visionari. Fra i 36 presenti, con Bellemer e Klinger, Ernst e Bacon, De Chirico e Licini, può essere curioso ricordare da un lato Giacometti, Kubin, Redon (che vedono tre loro mostre tuttora in corso a Parigi), dall'altro Eustachio, Gallo, Levini e Ontani (i cui lavori sono ospitati in questi giorni presso altrettante gallerie romane).
Molti i temi salienti, come quelli della vicinanza col mondo animale (come nella donna-elefante di Ziegler o nella maschera d'elefante di Cerone), o della suggestione esercitata da una sessualità violenta, spesso blasfema (dal «Pudore di Sodoma » di Rops, alla croce-escremento di Wols). Tuttavia, al di là della bellezza di molte opere (con le scoperte di nomi ancora poco noti quali Devriendt, Kraijer e Richar), il fascino di questo itinerario nella follia si deve all'intensità dell'effetto finale. L'osservatore, cioè, viene chiamato a una progressiva discesa nei paesaggi interiori. E allora si capisce l'ironico invito che Goya affida alle ombre dei suoi fantasmi: «Buon viaggio»!

il Riformista 29.12.07
L'obiettivo è fare le riforme di struttura
Guardando a Lombardi, Santi e Amendola
Dobbiamo basarci su un programma di rinnovamento
di Milziade Caprili


Caro direttore, alla domanda che tu poni con nettezza («Caro Fausto, è dirimente l'adesione al Pse»), Bertinotti risponderà, se vorrà, da par suo e non posso certo parlare io per lui. Posso dirti, però, che cosa penso e articolare il discorso su un tema a me caro, quello di "quale" cultura politica e di "quali" riferimenti ideali (e, appunto, internazionali) debba dotarsi il nuovo soggetto unitario e plurale della sinistra. Non prima, però, di rispondere alla questione dei riferimenti internazionali che tu poni. Sollevi un tema importante e che sarà decisivo, nei prossimi anni, tema che andrebbe ampliato a una riflessione, di respiro europeo, su cosa voglia dire, oggi, la parola "socialismo", ma per quanto riguarda Rifondazione (non Bertinotti), la risposta, almeno per l'oggi, non può che essere negativa. La scelta di Rifondazione è stata ed è, da tempo, netta: costruire una sinistra alternativa (anticapitalista, femminista, pacifista e verde) a sinistra del Pse. Continuiamo a pensare che ci sia bisogno, in Europa, di una tale sinistra, anche se non pensiamo affatto che debba, per forza, essere "nemica" del Pse. Anzi, può e deve allearsi al Pse, ove ve ne siano le condizioni. Il successo della Linke in Germania dimostra peraltro che è possibile non solo concepire una forza che stia a sinistra della Spd ma anche che questa può rappresentare, davanti all'elettorato e a pezzi importanti di classe dirigente, una possibilità diversa. Altra questione riguarda le altre forze che con noi stanno contribuendo a far nascere la "Sinistra l'Arcobaleno": alcune di esse, a partire da Sd, si richiamano esplicitamente al Pse, come pure ve ne sono alcune che, rispetto al tema della collocazione internazionale, sono forse indifferenti, come i Verdi. Nessun problema, comunque, a dialogare e allearci con forze che si richiamano al Pse, anzi: non possiamo prescindere dall'alleanza con esse, in Italia e fuori. Il problema è in quale direzione vanno le scelte politiche che si compiono: personalmente non avrei alcun problema a un richiamo esplicito, per quanto riguarda l'insieme delle forze della sinistra d'alternativa, al mondo e alle figure del lavoro. Del resto, sono certo che un "Partito del lavoro" avrebbe, in Italia, un significato ben diverso dalle politiche e dalle scelte perseguite, almeno negli ultimi decenni, dal Labour Party inglese. Come pure penso che il problema dei rapporti tra forze diverse (Pse e Sinistra europea, ma anche Verdi e altre forze autonome) ma nutrite da una comune matrice - antica o moderna - al campo socialista o al socialismo europeo, si porrà di certo, nei prossimi anni. E che non potremo, ripeto, che ridefinire cosa voglia dire socialismo.
Un soggetto unitario e plurale della sinistra, come quello che vogliamo costruire, non potrà del resto che alimentarsi di diverse culture: importante è infatti non da dove veniamo ma dove vogliamo andare, e molto di quello che vogliamo costruire sta - sperabilmente - fuori di noi: nei partiti "tradizionali" e, molto di più, nei concreti processi sociali che investono oggi la società, a partire - e drammaticamente - proprio dal mondo del lavoro. Insomma, il punto dirimente non è imbrigliare od omologare in un unico contenitore - interno o internazionale - le forze che lavorano a costruire la Sinistra arcobaleno ma stabilire quali politiche queste debbano perseguire. Io penso che siano soprattutto quelle del lavoro.
Anche e soprattutto per questo motivo, non ho alcun problema a trovare, in alcune figure del passato, affatto o non solo di cultura comunista, ma di matrice e cultura socialista, ottimi e validi riferimenti. Quella del socialista autonomista Riccardo Lombardi e di altri due importanti nomi - a mio parere innervati da identica tensione riformatrice - della sinistra italiana, Fernando Santi e Giorgio Amendola. Di Lombardi ritengo centrale la tensione ideale che - spiegava proprio in un dialogo con te, sul Riformista , Fausto Bertinotti - «pur nella sua coerenza acomunista, non ha mai rifiutato l'idea di una rottura del sistema capitalistico, anzi la cercava». L'autonomismo lombardiano era cioè molto diverso dal pensiero riformista autonomista classico del Psi, che accettava supinamente l'idea di un compromesso strategico con il capitalismo, portandolo a essere sempre subalterno a esso (e alla Dc). Non a caso, il vero cavallo di battaglia lombardiano è sempre stato quello delle "riforme di struttura", da interpretarsi «come una serie di duri colpi all'accumulazione capitalistica, e quindi al sistema». Si trattava, allora come oggi, di osare anche l'accusa di "neo-giacobinismo", nel preparare e avallare l'esperimento del centrosinistra, di cui Lombardi rifiutava nettamente l'annacquamento del programma. Di fronte all'idea, cioè, che bisognasse allearsi - allora con la Dc, oggi col Pd? - "solo" per salvare la democrazia, Lombardi rompe. E torna a investire sul partito, nella speranza (allora risultata vana, speriamo non lo sia oggi) di accumulare e far crescere le forze di una sinistra (il più possibile unita) per rilanciare in grande stile le "riforme di struttura". Anche dall'opposizione, se non si può dal governo. Su altrettanto grandi riforme, il governo Prodi e l'Unione si erano impegnate, ma oggi segnano il passo.
Di come vanno interpretate e vissute le riforme di strutture parlava così, se pur con robusto realismo, una eccezionale figura di sindacalista socialista unitario della Cgil, Fernando Santi, al XX congresso: «Noi non propugniamo la trasformazione totale e immediata della nostra struttura sociale, ci rendiamo conto che abbiamo la possibilità di risolvere soltanto i problemi che sono maturi in noi. Il che non voleva dire, per Santi - e non vuol dire per noi della sinistra oggi - che «non perdiamo il contatto con la realtà. Il vuoto massimalismo è il peggior nemico di ogni serio movimento operaio organizzato».
Nessun vano sogno neogiacobino, dunque, ma crudo realismo. Che a maggior ragione si imporrà oggi e domani di fronte alla possibilità che il nostro maggiore e principale alleato, il Pd, possa virare sempre più verso accordi neocentristi e neoconfidustriali. La sinistra d'alternativa deve riprendere e rilanciare, dunque, l'autonomia del suo progetto, deve vivere nello spazio grande e nel tempo lungo, per creare una grande forza europea del XXI secolo. Se tale è l'ambizione, tutto va ripensato, compreso l'essere o meno alleati del Pd, in chiave strategica. Ecco perché, come ha detto Bertinotti, «riconosco al Pd il diritto di trovarsi gli alleati che vuole, ma voglio garantire a noi il diritto di tornare all'opposizione». Ciò non implica affatto che la scelta tattica e strategica della sinistra che ci stiamo impegnando a costruire debba, ineluttabilmente, essere quella di una sorta di auto-condanna all'opposizione e che tale forza non debba porsi, con intelligenza e serietà, il problema del governo. Anzi, tutt'altro. E qui sovviene la storia e la cultura politica del Pci, che non solo si è impiantato, in modo duraturo, nel profondo della società italiana, costruendo un vero partito di massa, ma non ha mai rifiutato "a prescindere" responsabilità di governo, né nel secondo dopoguerra né durante la solidarietà nazionale.
Una tensione nazionale e europea, riformista (nel miglior senso "socialdemocratico" del termine) e riformatrice, quella del Pci, presentissima già in tempi altrettanto lontani, nel sogno di un dirigente pienamente riformista, a mio parere, come Giorgio Amendola. Che già nel 1964 lanciava con coraggio l'idea di un "partito unico della classe operaia". Perché - scriveva su Rinascita in risposta a Norberto Bobbio - «in Italia l'unificazione non si può fare né su posizioni socialdemocratiche né su posizioni comuniste». «È sulla base di un programma politico di rinnovamento - continuava Amendola - che si dovrà formare il nuovo partito unico, aperto. Non un partito ideologicamente neutro - chiariva - ma nemmeno ideologicamente chiuso, un partito politicamente attivo, capace di convogliare attorno a un programma politico forze di diversa origine e ispirazione». Parole e concetti simili dovrebbero essere accolte e condivise da chi oggi lavora per la riuscita dell'attuale nostro progetto di unificazione di una sinistra socialista, comunista, pacifista, femminista e verde. È su questa base che mi voglio misurare nella costruzione di una nuova Sinistra che sappia interloquire - oggi dal governo, domani si vedrà - anche con i liberaldemocratici del Pd e di certo con forze di ambito socialista. In Italia come in Europa.

il manifesto 29.12.07
Al confessionale del partito
Le autorappresentazioni pubbliche dei militanti comunisti rilette nel volume «La fabbrica del passato» di Mauro Boarelli per Feltrinelli. Documenti importanti per comprendere la formazione dei quadri del Pci
di Cesare Bermani


Forse il più grande archivio della scrittura popolare esistente al mondo è quello delle autobiografie richieste dai partiti comunisti ai propri militanti sin dall'origine dell'Internazionale comunista.
Nel decennio successivo alla Liberazione anche il Partito comunista italiano richiedeva ai propri militanti la narrazione della propria autobiografia. Mauro Boarelli, nel suo La fabbrica del passato (Feltrinelli, pp. 288, euro 19) ha studiato i racconti stilati da 1024 militanti, prevalentemente bolognesi, conservati presso l'Istituto Gramsci dell'Emilia Romagna. Ne deriva un'antropologia dei militanti comunisti nel Pci stalinista di quel decennio. Queste autorappresentazioni - soprattutto quando venivano chieste oralmente alla Scuola centrale di partito di Bologna - si tramutavano in un esame di coscienza pubblico che si concludeva ritualmente con l'ammissione dei difetti da correggere, con il riconoscimento del partito come strumento fondamentale della propria motivazione politica e con l'impegno ad adoperarsi per la realizzazione dei buoni propositi dichiarati. A turno gli ascoltatori si trasformavano da inquisitori in inquisiti, in uno scambio di ruolo che abituava al controllo reciproco tra militanti, fondamento della pratica denominata «critica e autocritica», strumento che finiva per invadere anche la vita privata e che trovava sanzione nello statuto del partito.
A scuola dai gesuiti
Il metodo rivelava un inconfessato peso della religione cattolica sul nascente «partito nuovo» togliattiano e richiamava per analogia il perinde ac cadaver dei gesuiti. Afferma oggi uno dei militanti comunisti intervistato da Boarelli: «Io ho fatto una breve esperienza cattolica. Quindi ho frequentato i circoli cattolici, vedevo che c'era la tendenza a sentirsi sempre in colpa, cioè a ricercare fin nel profondo le più piccole colpe che tu potessi avere, le tue abitudini di vita o cose di questo genere, e io questo l'ho ritrovato nei corsi di partito. Allora mi sembrava una bella cosa. Mi sembrava intanto di liberarmi di scorie, di colpe. Poi il piacere di dire agli altri: "Guardate io sono un esempio per voi.perché a lavorare mi comporto così, perché nella vita mi comporto così, perché i comunisti devono essere così"».
Mario Spinella, che dirigeva la scuola di Bologna, scriveva nel 1948 su «Rinascita» che queste confessioni pubbliche «non avvenivano senza scosse, senza crisi. Non è raro vedere compagni che hanno dietro le spalle anni di vita illegale e di lotta partigiana, che hanno resistito senza battere ciglio alle torture della polizia, con le lagrime agli occhi per la raggiunta consapevolezza delle proprie deficienze di carattere». Solo sette anni dopo, sulla stessa rivista, Carlo Salinari avrebbe notato che in quell'articolo «sembrava che il principale compito della scuola di partito fosse di abituare gli allievi all'esercizio dell'autoflagellazione». E nell'estate dell'anno successivo lo stesso Spinella avrebbe ricordato «con raccapriccio l'esaltazione che gli venne fatto di compiere della pratica confessionale delle autobiografie pubbliche».
A Milano quando, nel 1957, un IX congresso del Pci milanese elesse una nuova segreteria, Armando Cossutta, Rossana Rossanda e Francesco Scotti, entrati nell'Ufficio Quadri, si trovarono di fronte a schedari da dove - scrive Rossanda - «vennero fuori pacchi di biografie con sfoghi di cuore e miserande confessioni di colpe personali (del tipo: ho tradito mia moglie)». Sicché Cossutta «propose di dare il tutto alle fiamme senza leggere. C'era qualosa di torbido in quel bisogno di aprirsi al dirigente come a un sacerdote.. Quegli schedari andarono distrutti».
Quelle autobiografie - ha ricordato Giuseppe Marino nel suo Autoritratto del Pci staliniano (Editori Riuniti, 1991) - potevano infatti servire all'occorrenza «per più puntuali indagini e accertamenti, relativi al carattere, alle capacità e al livello di cultura, persino alla moralità, alle abitudini e ai comportamenti nella vita privata» dei vari militanti, ma «non di rado si concretizzavano in vere e proprie note caratteristiche riservate, cioè precluse alla conoscenza dei rispettivi intestatari e conservate negli archivi delle Federazioni per l'uso discrezionale che avrebbero potuto farne i dirigenti di grado superiore», trasformandosi così in uno strumento di discriminazione all'interno del partito. Erano il sale dello stalinismo e la loro distruzione - avvenuta solo dopo il XX Congresso del Pcus (febbraio 1956) e l'VIII Congresso del Pci (giugno 1956) - sta a simboleggiare veramente la fine di un'epoca.
Però è una fortuna che non tutti abbiano preso la decisione dei tre dirigenti milanesi, perché comunque in quelle confessioni una generazione di comunisti ha raccontato se stessa, anche se accettando di sottoporsi a una «prassi pedagogica» che piacerebbe a tutti noi che non fosse mai esistita.
La biblioteca del militante
Quei materiali gettano una vivida luce sul modo di essere e sulla cultura di quella generazione di militanti comunisti. Per esempio, attraverso quelle autorappresentazioni, Boarelli ne ha potuto ricostruire le letture, i loro libri: Il tallone di ferro di Jack London, Furore di John Steinbeck, La madre di Maksim Gor'kij, Come fu temprato l'acciaio di Nikolaj Ostrovskij e Storia del Partito comunista (bolscevico) dell'Urss, la Bibbia dello stalinismo supervisionata da Stalin stesso.
Questi libri vengono sottoposti a un'interessante analisi, che mette in luce come essi influenzassero non poco le stesse autorappresentazioni. Per esempio, nel romanzo di Ostrovskij, il protagonista dice alla donna che ama: «Sarei un cattivo marito se ti lasciassi credere che appartengo prima a te e poi al Partito. Io apparterrò prima al Partito e poi a te e agli altri parenti». E anche nelle autorappresentazioni sono frequenti affermazioni similari, per esempio: «Rispetto e voglio bene a mia moglie. Però al di sopra di tutto questo, il Partito».
Nelle autorappresentazioni Boarelli ha notato anche tracce di una dimensione religiosa, messianica e millenarista, che è pure ben presente nei libri di London e Gorkij, dove la similitudine con Cristo accomuna taluni loro personaggi e dove il movimento rivoluzionario che essi rappresentano ha un carattere religioso. Entrambi questi scrittori giungono infatti a identificare religione e socialismo, non poi così diversamente dall'evangelismo socialista di Camillo Prampolini, del quale ci sono in numerose autorappresentazioni vistose tracce.
Mi sono iscritto alla Fgci alla fine del 1955 e di quel partito stalinista ho conosciuto, per fortuna, soltanto i rantoli. Però nella mia biblioteca quei libri ci sono tutti, anche se ho subito avuto una netta ripulsa del manuale ispirato e in parte scritto da Stalin. Ricordo che Stefano Schiapparelli, già segretario della federazione del Pci di Novara, era solito ripetermi che un comunista doveva leggere non più di due libri e che uno dei due fosse la Storia del Partito comunista (b.) dell'URSS.
All'atto dell'iscrizione al partito gli dissi che l'avevo letta e che se, dopo averla letta, chiedevo ancora l'iscrizione dovevo proprio essere comunista.

venerdì 28 dicembre 2007

l’Unità 28.12.07
Campidoglio, sulle foibe la sinistra contro il Pd
Si vota il bilancio, passa un emendamento di An sui «viaggi di studio». E la maggioranza si spacca
di Maristella Iervasi


VENERDÌ 21 dicembre. Nell’aula Giulio Cesare del Campidoglio occhi puntati sul bilancio di previsione 2008 del Comune. Ma nella manovra è passata in secondo piano un’accesa discussione: per il finanziamento di 55mila euro per un progetto di memoria sulle foibe. Cos’era successo? Alleanza Nazionale tempo fa aveva presentato un emendamento a favore dei viaggi di studio per conoscere la tragica storia delle Foibe. Progetto sulla memoria che, a sorpresa, quel venerdì precedente il Natale, fu inserito nel maxi emendamento presentato dalla Giunta capitolina, comprendente anche altri progetti, come la notte bianca della solidarietà, sempre proposta da Alemanno di An e il museo della Shoa. Immediate le proteste della sinistra. Il Consiglio comunale alla fine ha comunque approvato il maxi emendamento con 45 voti a favore, 5 contrari (3 di Rifondazione, uno del Pdci e uno di Sinistra democratica) e un astenuto.
Come è ovvio, la sinistra si è arrabbiata non appena ha letto il testo del maxi emendamento, scatenando un’accesa polemica. «Abbiamo fatto tante riunioni maggioranza e non siamo mai stati avvertiti: né nel merito e né nel metodo», replica ora Adriana Spera di Rifondazione comunista. Ma andiamo con ordine. Dopo lo stupore in aula, un pezzo della maggioranza ha chiesto il voto per parti separate, ovvero ha votato contro la parte riguardante le foibe.
«È inaccettabile - ha detto il capogruppo del Pdci Fabio Nobile - che all’interno del maxi emendamento della giunta si finanzino espressamente iniziative di propaganda della destra. È il solito tentativo di dar vita a un’iniziativa che dà una lettura distorta e revisionista della storia». E prontamente gli ha fatto subito eco il capogruppo di Sinistra democratica Roberto Giulioli: «La parte relativa alle foibe - ha sottolineato l’esponente di Sd - non c’era quando abbiamo concordato il maxi emendamento. Non è detto che la maggioranza debba approvare tutti i passaggi. La destra si è contrattata il proprio voto di bilancio sulla base di alcuni finanziamenti che ha ricevuto». Di tutt’altro avviso il capogruppo del Pd, Pino Battaglia, che ha tentato di fare da paciere: «Facciamo parte della maggioranza - ha ricordato ai colleghi - e ci siamo impegnati a votare il maxi emendamento», ha precisato. E sul merito ha aggiunto: «Sarebbe ora di fare un dibattito sereno sulla memoria. Le vittime delle violenze sono tutte uguali. Poi, chi vuole usare eccidi per bilanciarne altri commette un grave errore».
Ma Adriana Spera è irremovibile. Ancora oggi dice: «Non si possono portare gli studenti a visitare le foibe - sottolinea il capogruppo del Prc - e non spiegargli che in quei luoghi i fascisti organizzarono i primi campi di concentramento. E poi vorrei proprio sapere come avvengono questi viaggi-studio». Non si da pace la capogruppo: «Avrei preferito più sedute di Consiglio che mettere le istanze della destra in giunta. Invece...». E racconta che nelle diverse riunioni di maggioranza avevano concordato la manovra: «Abbiamo chiesto di non aumentare le spese e abbiamo proposto di definanziare l’intervento di restauro al Flaminio e quei soldi spenderli per bonificare gli argini del Tevere e dell’Aniene ma anche in opere di manutenzione usufruibili dai cittadini, come strade, marciapiedi e corridoi della mobilità. L’assessore Causi ci rispose che ci avrebbe pensato se fare o meno lo storno al Flaminio. Non ci ha detto, però, che nel frattempo aveva recuperato risorse per accontentare An. Per lealtà, dovevamo essere informati. Poi potevamo condividere o meno. E invece ecco che hanno messo sullo stesso piano chi ha combattuto contro la dittatura e chi l’ha sostenuta».

l’Unità 28.12.07
Desaparecidos italiani: «Processo per 140 indagati»
È la richiesta della magistratura: alla sbarra andrebbero dittatori e esponenti delle giunte militari sudamericane


ROMA La magistratura romana vuole processare i 140 tra dittatori, esponenti delle giunte militari e dei servizi di sicurezza di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay, Perù e Uruguay in carica a cavallo degli anni '70 e '80 accusati a vario titolo della morte di 25 cittadini di origine italiana nell'ambito delle attività di repressione degli oppositori previste dal cosiddetto «Piano Condor». Per questo motivo le ordinanze di custodia cautelare volute dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, nel momento in cui saranno notificate ai fini dell'estradizione in Italia, e al riguardo sarà interessato nei prossimi giorni il ministero della Giustizia, conterranno anche l'avviso di chiusura delle indagini, l'atto che precede la richiesta di rinvio a giudizio degli indagati. Omicidio plurimo aggravato, strage e sequestro di persona i reati contestati, a seconda delle singole posizioni, ai destinatari dei provvedimenti firmati dal gip Luisanna Figliolia.
Nomi eccellenti figurano nell'elenco dei destinatari delle misure cautelari: i dittatori Jorge Rafael Videla (Argentina), Jorge Maria Bordaberry ed il suo successore Gregorio Alvarez (Uruguay), l'ex predidente del Perù (1975-80) Francisco Morales e l'ex primo ministro Pedro Richter Prada (1979-80). Inoltre gli ex ministri argentini Walter Ravenna (Difesa), Juan Carlos Blanco e Alejandro Rovira (Esteri), l'ex capo della marina uruguayana Victor Ibargoyen, l'ex ministro dell'Interno paraguayano Sabino Augusto Montanaro Ciarletti (1967-89), l'ex capo dei servizi segreti cileni (Dina) Manuel Contreras, già condannato a 20 anni di carcere in Italia per tentato omicidio del presidente della Dc cilena Bernardo Leighton, avvenuto a Roma nell'ottobre del 1975, e l'ex colonnello brasiliano Carlos Alberto Ponzi. Le ordinanze di custodia erano in origine 146 (61 argentini, 33 uruguayani, 7 boliviani, 4 peruviani, 11 brasiliani, 23 cileni e 7 paraguayani), ma nel frattempo sei indagati sono morti. Una misura cautelare è stata eseguita in Italia ed ha riguardato Nestor Jorge Fernandez Troccoli, uruguayano di 60 anni già esponente dei servizi segreti della marina accusato della morte di sei italiani. L'uomo, ricercato anche dalle autorità del suo paese, si è consegnato qualche giorno fa alla polizia di Salerno, città dove risiede dal 1995, dopo aver letto su un quotidiano che era ricercato in patria sempre per vicende legate ai desaparecidos. Interrogato ieri a Regina Coeli dal gip Figliolia alla presenza di Capaldo, Troccoli ha detto di avere «solo obbedito agli ordini» e di non aver «ucciso nessuno». «Il mio compito - ha aggiunto - era solo di raccogliere informazioni e di fornirle ai miei superiori». A Troccoli si imputa il concorso negli omicidi di sei cittadini di origine italiana: si tratta di Ileana Sara Maria Garcia Ramos de Dossetti, Edmundo Sabino Dossetti Techeira, Yolanda Iris Casco Ghelpi de Elia, Julio Cesar D'Elia Pallares, Raul Edgardo Borelli Cattaneo e Raul Gambaro Nunez. Il suo difensore, Adolfo Domingo Scarano, ha annunciato che impugnerà l'ordinanza di custodia cautelare davanti al tribunale del riesame «perchè non sussistono le esigenze cautelari ed i pericoli di inquinamento delle prove e di fuga dell'indagato».

l’Unità 28.12.07
Governo o società, le due anime del Pci
di Michele Prospero


A un convegno dell’Istituto Gramsci nel ’64 venne rimarcata la storicità e non la naturalità dell’istituto familiare

Nel ’68 le due letture diverse della realtà, una legata al dato politico, l’altra alla egemonia culturale cozzarono duramente

Nel periodo della grande espansione quello di Berlinguer e della solidarietà nazionale, avvenne un’altra collisione

GIUSEPPE CHIARANTE ricostruisce vent’anni di esperienza politica nel Partito comunista, dalla fine dei Cinquanta ai Settanta, vent’anni accompagnati dalla stessa polarità: il progetto di una alternativa sociale e quello di governare l’Italia

In questo libro di testimonianza (Con Togliatti e con Berlinguer, Carocci, pagg. 261, euro 22,50), Giuseppe Chiarante ricostruisce vent’anni di un’esperienza politica singolare. Egli infatti è l’unico politico ad essere stato sia nel consiglio nazionale della Dc che nel comitato centrale del Pci. Esponente della sinistra Dc sensibile all’insegnamento dossettiano, Chiarante aderì al Pci nel 1958 insieme ad un drappello di dirigenti soprattutto lombardi. Erano anni di enormi difficoltà per i comunisti, ancora alle prese con i contraccolpi del ’56 e con l’abbandono di un gran numero di intellettuali. Chiarante compiva, da questo punto di vista, una scelta in netta controtendenza in soccorso di un partito assediato. Pur venendo dal mondo cattolico, egli difficilmente può essere catalogabile nella formula del cattocomunista. Contatti soprattutto nei primi anni con Rodano ci furono, ma Chiarante si contraddistinse da subito per una sensibilità molto laica. Anzi proprio sui temi oggi chiamati eticamente sensibili, egli prese posizione con un rigore logico che Togliatti in prima persona gli riconobbe, contestandogli tuttavia la mancanza di senso della realtà.
Il nodo del contendere era anche allora la famiglia, al centro di un convegno dell’istituto Gramsci svoltosi nel 1964. Chiarante vi partecipò condividendo le posizioni che rimarcavano la storicità, non la naturalità dell’istituto familiare. La critica della concezione cristiano-borghese della famiglia, che a Frattocchie fu abbozzata, comportava la necessità di una profonda riforma della legislazione per toccare il rapporto tra i sessi. Erano i primi e timidi passi verso un nuovo diritto di famiglia e verso il divorzio. I rilievi di Togliatti riguardavano la pretesa astrattezza delle questioni relative alle libertà civili e personali. Come a dire, le reali questioni politiche sono altre.
Chiarante si schierò, in questi anni di lenta disgregazione della grande sintesi togliattiana, con la corrente della sinistra ispirata da Ingrao. Allievo anch’egli di Banfi, Chiarante condivideva i mutamenti di politica culturale tentati da Rossana Rossanda per andare oltre il rigido storicismo del Pci. Nelle argomentazioni della sinistra comunista lo attraevano in particolare una voglia di aggiornamento del catalogo degli autori. Per dare il senso della difficoltà di andare oltre gli schemi dello storicismo assoluto allora imperante, Chiarante ricorda un articolo di Carlo Salinari in cui si disquisiva sul posto ben diverso da conferire in una biblioteca ideale a Marx e a Wittgenstein. Dell’ingraismo Chiarante apprezzava soprattutto l’abbandono della lettura del caso italiano in termini di arretratezza da colmare con politiche di responsabilità nazionale. Si trattava del punto di forza del realismo politico di Togliatti e soprattutto di Amendola che raccomandava moderazione e senso del limite indispensabili per tamponare la deficienza di un coerente e moderno soggetto politico della borghesia.
Secondo Chiarante l’approccio di Amendola (ma un pessimismo cupo sulle disgregatrici tendenze sotterranee della società italiana lo coltivava anche Togliatti) si situava in un’ottica di rivoluzione passiva. La categoria di Cuoco viene impiegata nel senso che la modernità in Amendola è solo subita, non orientata con sfide che incidano anche sul versante etico-politico generale. Amendola affidava al Pci, d’intesa anzitutto con i socialisti, il compito di incalzare i governi in nome di obiettivi di riforma proclamati solo a parole. Ai comunisti toccava quindi rimediare al fallimento dei propositi riformatori del centro sinistra. La categoria che Chiarante contrappone a questo criterio che gli pare viziato da moderatismo è quella di egemonia: ossia la capacità di orientare le innovazioni mutando anche i rapporti di forza nella società. Una visione alternativa di società, un modo diverso di guidare lo sviluppo e di agire nelle nuove contraddizioni erano il cuore della posizione di Ingrao. A una parte della sinistra ingraiana, quella raccolta attorno al Manifesto, Chiarante rimprovera tuttavia una contraddizione piuttosto vistosa tra la lettura modernizzatrice delle nuove tendenze del capitalismo e i richiami a figure e luoghi del terzomondismo (Castro, Mao).
Ciò ovviamente non vuol dire che differenze di analisi si risolvano con misure disciplinari esemplari per combattere lo spirito di frazione. E a questo riguardo fu senza dubbio scritta una brutta pagina della storia del Pci. In fondo nel Pci si agitavano, a partire dagli anni sessanta, due letture molto diverse della realtà italiana. Una era più legata al dato politico, alle opportunità cioè di costruire lo spazio per una alternativa di governo. In questa posizione si riconoscevano quanti pensavano a un Pci che non si limitasse a giocare in un ruolo sempre identico di opposizione. L’altra tendenza era invece più interessata ad una alternativa di società. Nel ’68 queste due sensibilità cozzarono in modo evidente. Chiarante ricorda l’estraneità profonda di Amendola e il fastidio quasi fisico di Bufalini verso le forme della mobilitazione studentesca. La polarità tra alternativa di governo e alternativa di società non è mai stata risolta dalla sinistra.
Dentro il Pci vigeva peraltro la regola tipica della soluzione trasformista, ossia dominava un grande centro, visto come asse portante che di volta in volta compiva parziali oscillazioni verso destra o sinistra. Il segretario, di norma a vita nel suo incarico, registrava gli spostamenti di sensibilità dandone espressione soprattutto nella diversa composizione della segreteria o dell’ufficio politico. Un grande centro regnava ricorrendo alla proverbiale potatura delle ali (di cui anche Chiarante fu vittima con la mancata elezione al comitato centrale nel corso dell’XI congresso). La forte contrapposizione tra la destra e la sinistra interna non impediva però il riconoscimento politico del merito. Chiarante rammenta che a volerlo deputato fu proprio Napolitano cui attesta nel libro limpidità e lontananza dallo spirito di frazione, dalla mentalità clientelare.
Erano ormai gli anni settanta, gli anni di Berlinguer e di un Pci in grande espansione. L’inserimento dei comunisti nell’area del governo, non a caso, vedeva Berlinguer attorniato da una segreteria in gran parte composta da esponenti della "destra". Nell’esperienza della solidarietà nazionale le due anime del Pci vennero però a collisione: da una parte misure parziali di risanamento, dall’altra obiettivi di più ampia rigenerazione. Ricorda Chiarante che le due anime erano presenti nella stessa figura di Berlinguer. Egli per un verso recepiva gli echi di una interpretazione catastrofista del capitalismo di cui si sottovalutavano le crisi come rigenerazioni o distruzioni creatrici. Per un altro, oltre agli accordi tra le classi sociali per impedire imminenti catastrofi, Berlinguer suggeriva l’austerità come occasione di rigenerazione qualitativa della società. Tra progetto e governo insomma non si trovò la matassa della mediazione e venne così smarrita anche la carta di creare almeno nuovi equilibri nel sistema politico per non rimanere in mezzo al guado. Si dovette convivere, per dirla con Chiarante, con la necessità della rivoluzione passiva e con il sogno dell’egemonia.

l’Unità 28.12.07
Dal Tiepolo a Rothko: evoluzione rosa
di Marco Di Capua


AL PARTICOLARE TONO del colore che ha preso il nome dal pittore veneziano, Calasso ha dedicato un libro. Uno spunto per tracciare un percorso monocromatico attraverso la storia dell’arte

Prima dell’epoca dei brevetti, cioè prima dello stupendo blu Klein, si sono impressi solo a forza di stile, nella memoria ottica del mondo, il rosso Tiziano (non Valentino) e il rosa Tiepolo. La connessione quasi karmica di un colore col nome di un pittore ti fa pensare come anche quel colore abbia amato quel pittore. Che l’abbia scelto, non so se mi spiego: giungendo dall’anonimato ha desiderato accasarsi, e si è legato a uno solo.
Il che non è mica sempre così. Kandinsky, per esempio, ha diffusamente parlato di tutti i colori, li ha corteggiati a lungo, ma si può forse dire che sia stato corrisposto da qualcuno di essi in modo esclusivo? Sono le prime cose che mi sono venute in mente leggendo Il rosa Tiepolo, il libro che Roberto Calasso ha dedicato al grande pittore veneziano del 700 (pp. 320, euro 32, Adelphi). Dove quel colore, il rosa, è percepito appena come un’essenza di energia, un bagliore che migra, come la fiamma di una candela già mezzo disciolta a una nuova (tipica metafora del processo di reincarnazione), in certe pagine di Proust: sulla vestaglia di Odette, sul mantello da sera della duchessa di Guermantes, nella fodera di una vestaglia di Albertine.
Per poi riapparire, sempre per Calasso, negli affreschi terminali di Palazzo Reale a Madrid - là c’è uno straccio rosa che sventola in cima a un pennone - ed estinguersi col suo celebre autore, anomalie entrambi, sopravvivendo sotto mentite spoglie solo sulle labbra dei mercanti di tessuti, gli unici ormai a dire: rosa Tiepolo.
Aperta parentesi, e senza andare troppo lontano guardiamoci attorno: il rosa è un colore che amano sia Paul Gauguin (mostra al Vittoriano) che Mark Rothko (mostra al Palazzo delle Esposizioni). Il primo lo incastra tra i prediletti gialli e gli adorati rossi nonché tra gli ammirati blu-viola: è il colore della strada per l’Idillio a Tahiti e dei fiori pendenti sul Mese di Maria. Il secondo lo abbandona tra gli aranci e i bianchi della sua prima fase astratta quando, infelicissimo e melanconicamente ebraico, si addentra in un universo elegante e drammatico tutto grigi, marroni e neri presaghi, per non uscirne mai più. Rosa è addirittura un intero periodo (tutto felicità classica e sentimentalità iberica dopo le tetraggini di quello blu) di Picasso, mentre poi diventa corpo monumentale e femminile con Matisse e il suo Nudo rosa. Chiusa parentesi.
Ma per quanti siano i motivi che conducano un colore a discendere come una grazia sull’opera di un artista, questi restano nell’imponderabile, e parlarne troppo non si può. Così ho cercato di capire le ragioni di una predilezione evidente e più espressa, quella di Calasso per Tiepolo. E le virtù tiepolesche, le qualità qui tirate in ballo, secondo me sono queste. Abituati come siamo a schiere di artisti che si presentano come grandi pensatori oltre che come sommi incapaci, Tiepolo fa la sua figura: egli non pensa ma agisce, opera, crea. Non parla di sé, sa tacere, la sua biografia è neutra: incredibile per noi, eccellenti intenditori di noi stessi, quando d’altra parte non siamo nessuno (accidenti, e questa chi l’ha detta?). Gli basta un incarico, una commissione, l’assegnazione di un soffitto da mutare in cielo, nei più bei cieli fatti a mano da un pittore, e Tiepolo fa meraviglie. La bravura, l’estro e l’invenzione, la capacità di eseguire rapidamente qualsiasi cosa, la leggerezza e un caleidoscopio di gesti sono talenti che a un certo punto (ma quando è stato?) caddero in sospetto: accademia! scenografia! Tra sé e l’opera Giambattista non pone ostacoli. L’arte è la facilità difficile a farsi. E lui è il maestro della sprezzatura, quella specie di rarissimo dono di cui seppe parlare in modo indimenticabile Cristina Campo ne Gli imperdonabili. A Calasso piace Tiepolo, che è il principe degli inattuali (non è antico né moderno, la modernità l’ha rimosso), dei laterali, dei refusées, coloro per i quali l’arte - la letteratura? - è assoluta, la storia è fantasmagoria e la vita teatro. Accanto a sé, in questa bella parzialità contromano e contropelo rispetto alle mode e alle voghe, Calasso vede Baudelaire, un certo atteggiamento reattivo di Baudelaire, mentre difende Tiepolo dal pregiudiziale tribunale di Roberto Longhi e del suo principale testimone d’accusa, Caravaggio.
Se ho capito un po’ Calasso, ma magari mi sbaglio, lui è uno che se vede una figura dipinta sopra un muro o un soffitto o una tela, la prende sul serio, ci crede. Si chiede chi sia e cosa faccia: che favola raccoglie attorno a sé. Ogni quadro è un racconto potenziale che va svolto: ne è prova il tratto metodologico di questo libro, l’unico possibile, il face to face tra scrittura e immagini. Questa è idolatria, naturale reverenza verso la figura, proprio come quella che per Calasso sentiva Tiepolo. Lo dico con ammirazione, ovvio. Perché se la vita è teatro (e non televisione o cronaca nera o sociologia), prendere sul serio il teatro - o quei suoi fermo-immagine che la pittura ci mostra - vuol dire prendere sul serio anche ciò che tu pensi sia l’essenza, una rifrazione fugace e profonda, della vita. Il suo apparire non retoricamente «vero» ma artefatto, folgorante, calibrato, spettacolare, intenzionale, misterioso. Illuminante. Non so se mi spiego. Ora: capite bene che tutto ciò non è che vada per la maggiore. In gran parte, la cultura d’avanguardia, o ciò che di essa marcescendo ci domina, è cresciuta sopra una nota di disprezzo per il «letterario», il «decadente», il «misticheggiante» (questi, i soliti capi di accusa), salvo poi nutrire nostalgie segrete per tutto ciò, lancinanti come fitte intercostali.
A Madrid, alla fine, Mengs soppianta Tiepolo. Il quale scompare, ed è subito dimenticato. Ma non è emozionante il fatto che di lì a poco lo vendichi proprio Francisco Goya? La sveltezza, la mercurialità intelligente del luminoso pittore degli arazzi fa fuori l’imbonitore neoclassicista. Proprio col giovane Goya, la felice stravaganza tiepolesca, quella sua gran festa, lentamente scopre il suo fondo pauroso, fatale. E come per Rothko, il rosa diventa nero.

E il rosso di Tiziano sarà in mostra a Venezia
Intorno alla metà del 500, già quasi sessantenne, Tiziano scopre un nuovo modo di dipingere: il colore si stende veloce e libero sulla tela e si sovrappone in corpose pennellate, le forme si scompongono, si accentua una grande sensualità e contemporaneamente una profonda spiritualità. Con una tecnica straordinariamente anticipatrice crea una pittura teatrale che sembra legarsi all’opera del Tasso e agli scritti di Ariosto degli anni ’30 del 500. A questa stagione di Tiziano sarà dedicata una mostra che, dal 26 gennaio, esporrà alle Gallerie dell’Accademia di Venezia 28 capolavori dipinti dal 1550 sino alla morte (1576). E le immagini proseguono oltre la mostra, nelle collezioni permanenti delle Gallerie dell’Accademia, dove si incontrano i contemporanei, Giorgione, Veronese e Tintoretto.

Repubblica 28.12.07
"Il diavolo fa paura esorcisti in ogni diocesi"
Vaticano, progetto allo studio per il 2008
Padre Amorth: "Il Papa vuole combattere frontalmente il Maligno"
di Marco Politi


CITTÀ DEL VATICANO - Padre Gabriele Amorth, il più celebre fra gli "ammazza-diavoli" italiani, esulta alla prospettiva che su indicazione di papa Ratzinger ogni diocesi del mondo potrebbe avere uno o più esorcisti in pianta stabile. Troppi demoni scorrazzano per il pianeta e bisogna contrastarli. «Decine di vescovi - sostiene Amorth - vivono sotto peccato mortale, perché non delegano i propri sacerdoti ad effettuare esorcismi». Il risultato? «Decine di migliaia di poveri fratelli e sorelle assediati dal diavolo, costretti a girovagare in lungo e in largo per trovare un esorcista con regolare mandato». L´anziano religioso paolino loda il pontefice senza riserve: «Grazie a Dio, abbiamo un Papa che ha deciso di combattere frontalmente il diavolo. Benedetto XVI crede nell´esistenza e nella pericolosità del Maligno. E ciò sin dai tempi in cui era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede».
La voce di una prossima istruzione papale viene riportata dal sito papanews, secondo cui il documento sarebbe in preparazione e verrebbe pubblicato nei primi mesi del 2008. L´indicazione sarebbe di individuare per ogni diocesi dei sacerdoti «specializzati» per trattare i casi di fedeli posseduti dal Maligno. Contemporaneamente verrebbe consigliato di adottare anche nella liturgia post-conciliare la preghiera di invocazione a San Micheledi come combattente contro i demoni. La preghiera fa già parte stabilmente della messa tridentina.
Negli uffici vaticani la voce non ha trovato al momento conferma. Padre Lombardi, portavoce della Santa Sede, non ne ha sentito parlare e dubita che vi sia un documento pronto per la pubblicazione. Ma non è un mistero che via sia una parte della gerarchia ecclesiastica che - anche dinanzi al diffondersi tra il vasto pubblico di credenze rivolte alla magia, ai maghi e ai poteri occulti - ritiene importante non lasciare la materia a esorcisti-fai-da-te o magari a sette religiose che promettono la «liberazione» dal Maligno e dalle sue opere. Le norme attualmente in corso nella Chiesa cattolica lasciano alla discrezionalità e alla saggezza di ogni vescovo di decidere se nella suo diocesi vi sia bisogno o no di uno o più esorcisti.
Padre Amorth è invece convinto che i vescovi debbano essere «obbligati ad incaricare un numero stabile di esorcisti per ogni diocesi» Se non lo fanno, sottolinea polemicamente il religioso, è «perché essi stessi non sempre credono all´esistenza del diavolo».
A riprova dell´atteggiamento papale, Amorth rievoca l´udienza che Benedetto XVI ha concesso l´anno scorso ad un gruppo di esorcisti in Vaticano: «Ci esortò a impegnarci sempre di più nel nostro ministero».

Corriere della Sera 28.12.07
Gli alleati Il Pdci: la faremo noi, sul programma. Ferrero (Prc): concretizzare i buoni propositi. Mastella: sistema di voto, è stato corretto
«Verifica, parola vecchia». Ma la sinistra incalza Romano
di Roberto Zuccolini


ROMA — La verifica? Per Romano Prodi è quasi una «parolaccia». Dice in conferenza stampa che è «un termine vecchio» e che ha non alcuna voglia di usarlo. Ma per i suoi alleati, quelli che la verifica, in modi diversi, l'avevano chiesta a gran voce resta comunque all'ordine del giorno. A partire dalla sinistra radicale. Oliviero Diliberto fa parlare il numero due del Pdci, Orazio Licandro, e rivolta il discorso: «La verifica la faremo noi sul programma». Quello scritto per la campagna elettorale del 2006, s'intende. E giù, con una raffica di punti «pesanti» da affrontare a gennaio: «Abolizione del conflitto di interessi, legge sulle unioni di fatto, aumento dei salari e delle pensioni basse ».
Anche Rifondazione Comunista non molla. È vero che è soddisfatta e che il segretario Franco Giordano applaude di fronte all'apertura di Prodi sul sostegno ai salari. Ma il ministro Paolo Ferrero invita a «concretizzare i buoni propositi ». E il capogruppo al Senato, Giovanni Russo Spena, spiega quali saranno le prossime mosse del partito: «Anche a noi in realtà non piace la parola verifica. L'abbiamo usata per significare il nostro forte malessere di fronte a certi ritardi nella politica sociale. Ma la sostanza non cambia: a metà gennaio vogliamo rilanciare anche altri argomenti rimasti in sospeso: la legge Amato- Ferrero e la politica internazionale. Chiediamo una concretizzazione della conferenza di pace sull'Afghanistan, finora solo promessa, e una moratoria per la base di Vicenza».
Metà gennaio. Sì, perché tutti gli alleati «minori» di Palazzo Chigi (in pratica tutta la coalizione eccetto il Pd) ricordano che il primo appuntamento fissato, quello del 10 gennaio, sarà comunque dedicato alla legge elettorale. Tema sul quale lo stesso Prodi è intervenuto rassicurando proprio chi teme di essere schiacciato dall'accordo tra il Partito Democratico e Forza Italia. Tra i più contenti c'è Clemente Mastella: «Il Presidente del Consiglio è stato corretto quando ha parlato di riforma elettorale. Del resto, non è possibile che qualcuno possa pensare a maggioranze diverse in Parlamento. Perché, se al Senato l'Unione soffre, alla Camera ha un solido vantaggio. E questa volta, a differenza del '98, non mi sembra affatto che Prodi voglia mettersi da parte». In altre parole: «La verifica si deve fare comunque, a partire dalla legge elettorale. Altrimenti, il premier lo sa bene, sarà Palazzo Madama a farla».
Ma quello della legge elettorale è un tema sensibile per tutti i partiti «minori» dell'Unione. Che potrebbero rinunciare ad altre cose, ma non accettare di scomparire «per decreto». Come invoca anche il socialista Enrico Boselli: «Non c'è dubbio che il governo abbia raggiunto risultati positivi e importanti, soprattutto in campo economico. Ma è anche vero che resta ancora tanto da fare e che ci sono molti problemi sul tappeto. Tra questi c'è quello della legge elettorale che non può essere risolto dall'intesa tra Veltroni e Berlusconi: quell'accordo trasformerebbe l'attuale bipolarismo imperfetto in un bipartitismo coatto, come ha ricordato giustamente lo stesso Prodi. A questo punto mi auguro davvero che la verifica di gennaio non solo si faccia come previsto, ma che sia anche vera e seria».

il Riformista 28.12.07
Caro Pd, come fai a conciliare l’inconciliabile?
di Paolo Franchi


Una diecina di anni addietro Bruno Contrada chiese di incontrarmi per raccontarmi la sua storia, il suo processo, il retroscena che lui intravedeva nelle istituzioni in cui lavorava: un’operazione volta a incastrarlo. In quell’occasione gli consigliai di abbandonare questi scenari e dire ai giudici come stavano le cose negli anni in cui a Palermo guidava la squadra mobile e altre strutture della polizia. Anni in cui non c’era ancora il pentitismo. È noto a chi ha seguito criticamente l’operato della polizia nella lotta alla mafia che i funzionari più esperti, capaci e affidabili potevano allacciare rapporti con mafiosi in disgrazia o fautori di una linea non violenta al fine di attingere informazioni per colpire la mafia vincente, violenta e dominante. Il tentativo di “usare” mafiosi contro mafiosi è una pratica antica della polizia italiana: a volte con esiti positivi, altre con compromessi che hanno disonorato lo Stato.
ugenio Scalfari si dichiara «molto colpito» da alcune recenti affermazioni di Paola Binetti, che testimoniano delle convinzioni della senatrice attorno all’intervento divino nella formulazione delle leggi e al ruolo della preghiera (nella fattispecie, la preghiera della Binetti) nel sollecitare l’intervento in questione. Sarà forse perché la mia laicità è di stoffa più rozza: ma la questione non riesce ad appassionarmi più di tanto. Nel senso che, per quanto mi riguarda, Paola Binetti può in tutta tranquillità immaginare che Nostro Signore, dando ascolto alle sue preghiere, abbia provveduto a indurre legislatori pasticcioni a inserire un riferimento clamorosamente errato al Trattato di Amsterdam nelle norme contro l’omofobia contenute nel decreto sulla sicurezza, con tutte le (arcinote) conseguenze del caso. E pure nel senso che, a differenza di Scalfari, non credo spetti ai laici sindacare su come, dove e per che cosa i credenti, nel rispetto della Costituzione e delle leggi, possano pregare.
Io sono rimasto «molto colpito», piuttosto, da quanto ha scritto sulla Stampa, sempre ieri, sempre a proposito della senatrice teodem, Walter Veltroni. Secondo il quale Paola Binetti sbaglia «a considerare l’omosessualità come una malattia, in quanto tale meritevole solo di essere curata». Questa, per il segretario del Pd, è una tesi non solo errata, perché l’omosessualità è «una condizione umana» che va rispettata, non una patologia, ma pure pericolosa «perché induce, o almeno asseconda, il misconoscimento dei diritti delle persone omosessuali a condurre una vita normale». Il comportamento del sindaco e del Pd nel Consiglio comunale di Roma sulle unioni di fatto continua a non convincermi neanche un po’, ma stavolta non sono d’accordo: sono d’accordissimo. Bravo Walter. E bravo due volte. La prima per aver pronunciato parole assai chiare. La seconda per averne tratto, nel medesimo scritto, le conseguenze logiche: il Pd si batterà, assicura Veltroni, «per contrastare (…) ogni forma di intolleranza e discriminazione, tanto più se violenta, correlata con l’orientamento sessuale delle persone», e farà tutta la sua parte perché vengano riconosciuti, «con legge nazionale, i diritti delle persone che vivono nelle unioni di fatto, indipendentemente dal loro orientamento sessuale».
Fatte le dovute congratulazioni, credo sia giusto anche ragionare un po’ su queste affermazioni. Ripeto: sull’omosessualità e sul riconoscimento delle unioni di fatto la penso esattamente come Veltroni. Ma non credo sia contestabile in alcun modo il diritto di Paola Binetti (e, diciamolo più apertamente, della Chiesa, o di una parte grande, e attualmente dominante, della Chiesa) di pensarla all’opposto. È importante che tutti interroghino e si interroghino, l’importanza, anzi, la necessità del reciproco rispetto e del reciproco ascolto sono fuori discussione, e non mi pare di dire niente di nuovo: che la religione abbia a che fare con lo spazio pubblico, a chi è nato e cresciuto nel Paese della questione romana era noto prima che questo pontefice e i suoi vescovi (non solo Paola Binetti) ce lo ricordassero con tanta forza e, se permettete, con tanta durezza. Ma, per decisivo che sia, non è questo, sul piano politico, il punto all’ordine del giorno. La domanda che attende ancora una risposta, forse perché una risposta non c’è, è un’altra, semplice semplice, che vorrei porre nella speranza che qualche capogruppo democrat capitolino non salti su a darmi del laico estremista, o, dio ci scampi, del laicista. Come è possibile trovare, nel Partito democratico ben prima che in Parlamento, non dirò un punto di vista comune, ma una mediazione ragionevole e accettabile per tutti tra posizioni non solo assai lontane, ma, a me sembra, inconciliabili? Sarò un laico un po’ rozzo, ma una soluzione fatico a vederla, e il bell’intervento di Alfredo Reichlin sull’Unità di ieri (ma che c’entrano, Alfredo, i guelfi e i ghibellini?) non mi aiuta a individuarla. Se qualcuno pensa di averla, farebbe bene a renderla nota.

il Riformista 28.12.07
Quanto dobbiamo temere il Dragone?
L'Occidente arranca e "la Cina si avvicina"
sarà questo il tema del prossimo decennio
di Bruno Villois


Le manca solo la democrazia. E non è un dettaglio

L'occidente arranca e la Cina conquista, questo potrebbe essere il tema caldo del prossimo decennio. Tanti i motivi che animeranno un quadro che in grado di produrre a noi europei non pochi grattacapi. Cambieranno molte cose negli equilibri globali e noi di certo non ci guadagneremo. Sono ormai oltre 10 gli anni in cui la Cina ha messo la freccia e, mese dopo mese, ha superato un infinità di traguardi, meno uno, forse quello più importante, almeno per chi come l'Occidente lo ha ritenuto base della propria esistenza civile, essere una democrazia con diritti, doveri e possibilità di cambiare governo e parlamento. Per il resto una corsa libera che ha frantumato ogni tipo di record ed ha portato gli eredi di Mao ad essere la seconda (o terza) potenza economica mondiale. Una straordinaria trasformazione di una civiltà da agreste ad industriale è all'origine del boom. Ogni anno milioni di primitivi contadini hanno abbandonato l'umile terra e sono diventati operai. Centinaia di milioni lo hanno già fatto, altre centinaia lo faranno prossimamente. L'industria di qualunque specie ha avuto la capacità di acquisire tecnologie, a volte anche vetuste, di importarle a basso prezzo e di riutilizzarle, in barba ad ogni logica ecosostenibile, disponendo di immani numeri di risorse umane. Ne è derivata una potenza industriale in grado di sommergere di prodotti a basso costo l'intero Occidente e contemporaneamente di poter alimentare i consumi interni su medie elevatissime ma ancora insignificanti se paragonate ai nostri livelli, meno del 45% per i cinesi contro oltre il 70% dell'occidente. Il Pil è impazzito in una corsa esasperata e la crescita a due cifre è stata una costante che anno dopo anno ha portato l'economia cinese ad essere pronta a raggiungere e secondo alcuni superare quella nipponica, adesso non resta che la statunitense. La domanda ormai non è più se questo avverrà ma quando avverrà. I più ottimisti pensano alla fine del prossimo decennio, i pessimisti al termine del prossimo lustro. Intanto alcune certezze si stanno consolidando, tra queste la più appariscente riguarda lo shopping che ha raggiunto dimensioni planetarie. Il fondo nazionale China Investment Corporation, braccio armato della Banca Centrale Cinese si è appena comprato il 10% della prestigiosa banca d'affari americana Morgan Stanley, sborsando 5 miliardi di dollari, cifra di per sè esorbitante per qualunque soggetto occidentale, insignificante per la potentissima banca nazionale di Pechino, che ha al suo attivo ben 1500 miliardi di dollari di cui 800 investiti in buoni del tesoro Usa. Numeri sproporzionati per qualunque altra economia del globo e, a sentire le dichiarazioni del presidente del citato fondo, sono appena all'inizio di un nuovo percorso effettuato su un autostrada a cinque corsie senza barriere di accesso. Siamo prossimi ad un'invasione che non ha precedenti nella storia dell'economia mondiale. Un invasione, sulla carta pacifica, basata sulla ingente e crescente disponibilità di liquidità che ad oggi non sembra poter aver rallentamenti. La finanza globale guarda ormai alla Cina come l'eldorado del mondo e non passa giorno che guru e analisti non citino il mercato borsistico cinese come quello su cui puntare per fare affari e vedere moltiplicati in breve tempo i propri investimenti. Chiunque si quoti oggi alla borsa di Hong Kong raggiunge strabilianti risultati. Un esempio nostrano riguarda Robe di Kappa Cina che al primo giorno di quotazione ha superato i 3 miliardi di dollari. L'omologa italiana è attestata sui 100 milioni di euro. Gli inviti ad investire in Cina non fanno null'altro che indebolire ulteriormente le nostre economie, ma si sa i soldi vanno dove si fanno altri soldi e i nostri mercati finanziari non sono certo oggi in condizioni di controbattere al loro. Vi è poi un altro serio e sottovalutato problema. Da anni parte rilevante delle forniture occorrenti all'industria occidentale viene realizzata in Cina. Le stime parlano di oltre il 40% di prodotti e non si parla di produzioni contraffatte ma di articoli e merci che sono loro commissionati dalle maggiori multinazionali del mondo. Questa sarà un'ulteriore forma di pressione che il governo cinese metterà in atto, con il rallentamento delle produzioni che noi non siamo più in grado di realizzare a causa delle differenze dei costi, se i nostri stati decideranno di porre dei freni allo shopping di imprese ed istituzioni da parte Cinese. Un primo monito in proposito è già arrivato dalle autorità di Pechino in merito ad eventuali azioni protezionistiche, tanto da minacciare conseguenze a chi porrà in atto simili azioni. I primi a saperlo sono proprio gli americani visto che ormai Pechino è il maggior creditore del Paese a stelle e strisce, con i suoi 800 miliardi di dollari investititi in titoli del tesoro Usa. Fatta la nuda e cruda analisi non resta che soffermarsi sui rimedi o almeno sul da farsi. Per l'Europa prima di tutto va consolidato il concetto di Stato, non solo monetario ma globale, Inghilterra compresa. Abbiamo bisogno di rafforzare sotto un'unica regia il sistema continentale e renderlo più omogeneo nelle tre componenti che consentiranno di affrontare la sfida: 1) riduzione dei deficit pubblici e organizzazione dello stato sociale, 2) diminuzione dell'imposizione fiscale in modo da favorire e attrarre investimenti, 3) massicci investimenti in ricerca, innovazione e formazione. Purtroppo per noi siamo assai lontani dal raggiungere l'obbiettivo di essere uno stato Europa e quindi i tre cardini citati sono oggi, anche per i più virtuosi, una chimera. La creazione del valore sarà l'unica componente in grado di contrapporsi allo strapotere organizzativo ed economico degli eredi di Mao. Non resta che sperare in un colpo d'ala dei nostri governanti per creare quelle condizioni che facciano decollare il progetto Europa. Se accadrà la nostra forza d'urto sarà in grado di arginare e forse anche conquistare, se no abituiamoci a passare da trainanti a trainati e purtroppo non è una differenza di poco conto.

Liberazione 28.12.07
Il Vaticano, l'anomalia italiana e la "questione cattolica"
Il Piddì tra delusioni laiche e furori clericali
di Rina Gagliardi


Veltroni smentisce le posizioni teologiche di Binetti e rilancia l'impegno sui diritti civili
ma il partito resta comunque più arretrato della "normalità" europea e forse della vecchia Dc

Sulla fondamentale questione della laicità - che poi coincide per larghissima parte con quella della natura dello Stato e dei diritti civili "indisponibili" - il Partito Democratico rischia di giocarsi molta della sua credibilità (e aggiungiamo: delle sue potenzialità democratiche). Lo attestano l'ancora scottante "caso Binetti" (chiamiamolo così), ma anche il dibattito che ne è già seguito e che è destinato a seguirne. Lo dimostrano il disagio evidente che serpeggia nelle file dei militanti, oltre che dei dirigenti, dei deputati e dei senatori ulivisti. Ora, su La Stampa di ieri, Walter Veltroni assume (finalmente?) una posizione chiara: le tesi binettiane sull'omosessualità, assimilate tout court a una malattia da curare, sono "sbagliate e pericolose", dice il leader del Pd. E lo stesso leader ribadisce l'impegno del maggior partito italiano a portare fino in fondo la legge sulle unioni civili, del resto prevista dal programma originario dell'Unione senza alcuna discriminazione nei confronti dell'orientamento sessuale delle persone. Bene, vien da dire. E' pur vero che Veltroni non ha nulla da dire sul mancato voto di fiducia al governo, nonchè sulla ardita architettura di giustificazioni teologiche che la senatrice Binetti ha poi diffuso tramite Il Foglio . E' altrettanto vero, però, che l'impegno laico assunto dal massimo livello del Pd sembra "correttivo" anche della recente (e sconcertante) vicenda romana, nel corso della quale proprio il Pd ha impedito un sostanziale passo in avanti su un diritto civico che, nel comune sentire, ha ormai assunto un carattere "basico". Ma forse la riflessione deve cominciare - o ricominciare - proprio da qui. E lo faremo attraverso un paio di domande, nient'affatto retoriche.
Primo. E' sensato che il Partito Democratico, nato nel 2007 con grandi ambizioni ideali e politiche, rischi di essere, in tema di laicità, un partito assai più arretrato di quel che fu la Democrazia Cristiana? Sembrerebbe un fatto alquanto "illogico", per quanto sappiamo bene che la storia non si è mai basata, in realtà, su un progresso lineare - così come appare quasi una bizzarria che, se il parlamento attuale dovesse legiferare oggi sul divorzio, trentasette anni dopo l'approvazione effettiva della Fortuna-Baslini, nessuna legge divorzista avrebbe la possibilità di passare. Secondo Alfredo Reichlin (che scrive un impegnato articolo su l'Unità di ieri) queste apparenti stravaganze e queste sostanziali regressioni sono il frutto della crisi della politica, e degli sconvolgimenti profondi indotti dalla globalizzazione, che ha macinato "identità" e "consuetudini culturali" profonde, e in conseguenza ha consentito alla religioni la possibilità di occupare un inedito spazio pubblico. Si può convenire, certo, che i processi intervenuti in questi ultimi due decenni hanno drammaticamente indebolito alcuni fondamentali "caposaldi" della sinistra e delle sue battaglie: la disgregazione sociale e culturale che avanza, il mercato mondiale assunto come principio sovraordinatore di tutto, comprese le relazioni interpersonali, la drammatica condizione di insicurezza e di paura che vivono i popoli e i cittadini hanno determinato un vuoto gigantesco, fatto soprattutto di negazione del futuro, nel quale l'ideologia religiosa si è inserita con forza, anzi con prepotenza, riproponendo assolutismi, dogmatismi, certezze, ahimè, a buon mercato. Si può perfino aggiungere che, a tutto questo, ha contribuito anche una coscienza laica debole, troppo spesso incline, appunto, a un "pensiero debole" o debolmente relativistico. Ma, se questo è il complesso orizzonte con il quale bisogna misurarsi senza alcuna iattanza, non è di questo che in verità oggi stiamo discutendo - ma di qualcosa di molto più "semplice" e, se mi è consentito, di molto più pedestre. La globalizzazione ha certo dispiegato i suoi effetti devastanti anche in Paesi come la Spagna, la Francia, la Germania, così come la crisi della politica è fenomeno europeo, e anzi mondiale. Ma in tutti questi luoghi, a noi vicinissimi, i diritti civili su cui l'Italia sta arrancando costituiscono un dato più che acquisito - sono una "normalità" che nessuno mette in discussione, e se mai, come è noto, ci sono Paesi come la cattolicissima Spagna che sono andati ben oltre Pacs, Dico e Cus. E in quale altra regione d'Europa ogni volta che si propone un tema così detto "eticamente sensibile" ci si deve misurare con tanta intensità con le ultime dichiarazioni del Papa, o del cardinal Bertone, o delle alte gerarchie ecclesiastiche?
La risposta, dunque, è anche e soprattutto un'altra: l'"anomalia" italiana, dove ha sede la Chiesa Cattolica (per altro istituzione ecumenica e non certo nazionale) e dove oggi - oggi in specie - la Chiesa stessa ha scelto di concentrare non il suo magistero spirituale, ma il suo interventismo politico - laico, laicissimo, terrestre - e la sua forza di condizionamento. Privilegiando, a differenza del precedente pontificato certo nient'affatto definibile come progressista, i temi "morali" a quelli della pace e della guerra, prediletti dal "reazionario" Karol Woytjla. E archiviando, nella sostanza, la grande rivoluzione del Concilio Vaticano II.
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Seconda domanda: ma perchè questo interventismo politico ha tanta e tale efficacia? Certo, al fondo, per molte delle ragioni sopra ricordate. Ma anche per una ragione che vale la pena di discutere: la scelta del Partito Democratico nel suo insieme (non solo cioè della sua componente cattolica) di considerare come interlocutore privilegiato il potere Vaticano. Secondo una delle (non buone) tradizioni del Pci, anzi, il rapporto con le alte gerarchie ecclesiastiche (scusate la brutalità: con quelli che comandano nella Chiesa) coincide tout court (ed anzi la esaurisce) con la "questione cattolica". Prova ne sia la formula, secondo noi del tutto fuorviante, che oramai ha ripreso a circolare: quella che divide il mondo in "laici e cattolici" (lo fa anche Alfredo Reichlin nell'articolo citato). Come dire: da una parte i non credenti, gli agnostici, o gli atei, che sarebbero i laici; dall'altra, tutti coloro che professano una fede, e quella cattolica specialmente, che alla laicità non sono ancora pervenuti. Se questa fosse la partizione reale a cui attenersi, certo, non resterebbe altro - ad un partito come il Pd - che lavorare ad un nuovo difficile "compromesso storico", o meglio storico-spirituale, alla ricerca di una sintesi, assai improba, tra queste due distinte e lontane Weltanschaung . Ma non è vero che questa è la partizione giusta e reale: la divisione reale passa (mi si scusi se mi ripeto) tra laici e clericali, tra i sostenitori della laicità dello Stato, qualunque sia la loro fede d'appartenenza, e i nuovi fondamentalisti religiosi, che pretendono di regolare le leggi dello Stato italiano secondo le loro convinzioni. Non occorre, insomma, essere miscredente per essere laico - come avrebbe potuto la Dc, se no, essere un partito sostanzialmente laico? Non è necessario, viceversa, essere iscritti alla Uaar per praticare la tolleranza democratica e il rispetto di ogni condizione diversa dalla propria. Appunto: non solo la gran parte dei cattolici italiani ha maturato una coscienza laica, ma quello che chiamiamo "mondo cattolico" è abitato da convinzioni e pratiche molto diverse tra loro - e spesso molto lontane dal neotemporalismo ruinian-ratzingeriano.
Se si assumesse quest'ottica, la si smetterebbe, chissà, di porsi dilemmi insolubili: per esempio, tra la necessità del rigore laico nell'iniziativa legislativa, ma anche nella dimensione etico-morale, e la necessità, che anche noi riteniamo essenziale, del confrontodialogo con il mondo cattolico, nel suo insieme, nelle sue articolazioni, nelle sue sensibilità. Anche e proprio sulle questioni morali, la dottrina della Chiesa è stata, nella storia, di straordinaria duttilità. Qualche esempio? Tommaso d'Acquino, che non era proprio un passante nella realtà ecclesiale, considerava l'aborto lecito fino ai primi quaranta giorni di gravidanza, in quanto era al quarantesimo giorno per i maschi (e assai di più per le femmine) che l'anima faceva il suo ingresso nel corpo - e, come è noto, è stato comunque molti secoli dopo che il Vaticano ha dichiarato l'illeceità dell'aborto, segno che per quasi due millenni l'ha ritenuto non condannabile. Il celibato ecclesiastico risale, come norma rigida, alla Controriforma - si dia un'occhiata ai costumi non precisamente casti dei pontefici, dei cardinali e di gran parte dei prelati fino al Rinascimento compreso. Il culto della famiglia così detta "naturale" ha, a sua volta, una codificazione ancora più recente, così come l'ossessione omofobica - e non ha alcun fondamento evangelico (quando sua madre, Maria, andò a cercarlo con i suoi fratelli, non rispose forse Gesù, indicando i suoi compagni di apostolato, "questi sono i miei fratelli?" E quante volte ha ricordato di esser venuto su questa terra per dividere il padre dalla madre, il fratello dal fratello, il figlio dai genitori?). Infine, per arrivare ai nostri giorni, quanti sono nella realtà i cattolici (a cominciare da Pier Ferdinando Casini) che rifiutano l'indissolubilità del matrimonio e accettano il divorzio? Solo per dire che ieri come oggi la morale cattolica è molto spesso un elastico (contrariamente a quel che accade ad alcuni di noi, non credenti e kantiani), e che anche con questa umana elasticità, in buona o in cattiva fede che sia, va esercitato il confronto. Solo per ribadire che il punto di riferimento esclusivo dei laici, credenti o non credenti che siano, non può esser costituito dalle gerarchie dei potenti, ma deve coinvolgere tutti, da Ratzinger a don Ciotti, anche sì, per costruire il solo spazio comune possibile: quello che contamina fecondamente le identità più diverse, senza consentire a nessuna sopraffazioni, privilegi, spazi precostituiti, rendite di posizione. Questo ci permettiamo di dire anche ai dirigenti del Partito Democratico, se vogliono davvero costruire, come dice Reichlin, "un partito della nazione" e non una post-Dc che oscilla tra delusioni laiche e furori clericali.

Liberazione 28.12.07
Un processo fragile e il bisogno di forme nuove per partecipare
Sinistra: cultura dell'unità e quattro urgenti passi avanti
di Paul Ginsborg


Sarebbe, credo, un errore immaginare il processo unitario della sinistra italiana come una marea crescente, un lento ma costante movimento in una direzione sola. Tutta l'esperienza e la fatica degli ultimi mesi ci suggerisce un'altra immagine, meno rassicurante ma più veritiera. E' quella di un processo fragile, capace di notevoli passi in avanti, come quelli della manifestazione del 20 ottobre e dell'assemblea dell'8 e 9 dicembre, ma anche di forti battute d'arresto, segnalate dal ricorrente predominio della cultura dei distinguo su quella dell'unità. Forte, inoltre, rimane la possibilità che tutto si fermi improvvisamente. In questa nostra declinazione modesta di un tema universale - la dialettica dell'uno/molti - tuttora soverchiante è la presenza dei "molti" e appena visibile quella dell' "uno".
Non per questo dobbiamo scoraggiarci. Prima di tutto, come ha suggerito benissimo Rossanda, dobbiamo avere «più attenzione, anche più pietà, l'uno per l'altro, l'una per l'altra». Vanno ascoltate con grande attenzione le ragioni di coloro che rimangono titubanti, e rispettate le culture e le provenienze diverse. Non possiamo pensare di trovarci subito d'accordo su tutto. Troppe sono le sedimentazioni, le diversità e le diffidenze, soprattutto - almeno nella mia esperienza limitata - a livello personale. Di fronte a queste realtà bisogna elaborare un metodo per cui si registrano i distinguo ma si cerca contemporaneamente l'azione condivisa.
Ho l'impressione che un po' alla volta sia questo che sta succedendo a livello territoriale - un quartiere dove "la Sinistra l'Arcobaleno" decide di coordinarsi, un consiglio provinciale dove propone unitariamente una mozione su Vicenza, una regione, l'Umbria, che in questi giorni ha aperto un Tavolo regionale e programma iniziative in preparazione della conferenza programmatica di febbraio. Si comincia, fra mille difficoltà, la pratica del lavoro insieme.
Non basta. Bisogna inventare nuove forme che rafforzino la cultura dell'unità. Non per cercare l'unità in sé, ma perché essa ci offre la possibilità di contare di più, di elaborare una visione del riformismo radicale, di pensare e scrivere collettivamente "a sinistra"...
E di rappresentare degnamente in Parlamento i movimenti e le proteste che altrimenti non avrebbero alcun ascolto, di sperimentare e proporre nuove forme della politica e della democrazia, sia al nostro interno che all'esterno, nel mondo asfittico della politica nazionale.
Quattro suggerimenti di metodo, telegraficamente. Primo, la necessità impellente di un tesseramento diretto, individuale, a "la Sinistra l'Arcobaleno". Tanti di noi non abbiamo in tasca alcuna tessera di uno dei partiti esistenti e vogliamo aderire all'aggregazione che nasce ora, per poter tracciare insieme i suoi lineamenti.
Secondo, incoraggiare e promuovere il lavoro decentrato - dei singoli territori e città, ma anche degli incontri trasversali, come gli autoconvocati o l'incontro tra la rete di donne e l'associazione fiorentina per la sinistra unità e plurale - iniziative che possano dare ricchezza al processo nel suo insieme.
Terzo, pensare sistematicamente al contenuto democratico dei prossimi mesi. L'assemblea romana era bella ma poco democratica. La carta d'intenti, come ha scritto Lea Melandri su Liberazione , era pre-confezionata. In questa fase i quattro segretari devono aprire ad altre soggettività per poter decidere insieme le prossime mosse. Sarebbe un errore pensare che tutto vada in frantumi senza un controllo stretto dall'alto. Bisogna fare bene le cose già annunciate. La due giorni prevista per il prossimo febbraio, per esempio, di cui tuttora mancano notizie precise, deve assumere una forma democratica e deliberativa. Certe parole utilizzate finora - "pronunciamento popolare", "grande campagna di ascolto nel Paese" - non sono rassicuranti. Tante persone ci guardano, un po' curiose e un po' scettiche. Vogliamo rispondere alle loro aspettative solo con la vecchia politica?
Ultimo, senza aspettare nessuno, la necessità di discutere sulla forma e le regole della nuova aggregazione politica. E' un lavoro difficilissimo, senza molti suggerimenti dal passato. Come si fa a controllare la gerarchia maschile, la personalizzazione della politica, il narcisismo, le clientele, i dettami dei media? O la politica è solo, inevitabilmente, questo?

Liberazione 28.12.07
Razionalisti non si nasce, si diventa
Spinoza è tra noi. Parola di Deleuze
In libreria per Ombre Corte, e a cura di Aldo Pardi, "Cosa può un corpo?", le lezioni del filosofo francese sui testi spinoziani
Una lettura dall'effetto terapeutico, capace di andare alla radice delle servitù che ancora oggi imprigionano menti e corpi
di Girolamo De Michele


Ci sono molte ragioni per regalarsi la lettura delle Lezioni su Spinoza di Gilles Deleuze, sino a ieri disponibili solo online in francese e adesso tradotte e curate col titolo Cosa può un corpo? per Ombre Corte (pp. 202, euro 18,50) da Aldo Pardi, autore di un densissimo saggio prefatorio, all'interno di una la felice congiuntura editoriale: sono da poco disponibili la prima traduzione integrale dei testi spinoziani (Baruch Spinoza Opere , Mondadori, Meridiani Classici dello Spirito, pp. 1885, 55 euro) e il primo dei due volumi che raccolgono tutti gli scritti brevi di Deleuze ( L'isola deserta e altri scritti. 1953-1974 , Einaudi, pp. 380, euro 24). Tre testi che, letti in contaminazione, evidenziano come nel pensiero di Gilles Deleuze si esprima oggi la forma di spinozismo più adeguata al tempo presente.
La prima fondamentale ragione è l'aspetto terapeutico che oggi riveste l'opera di Spinoza: in un'epoca caratterizzata dal governo politico delle passioni tristi, la sua lettura è liberatoria per la sua capacità di andare alla radice delle servitù che imprigionano le menti e i corpi. Ma attenzione: non si tratta di una fuga nell'intellettualismo, né di una riabilitazione dell'aspetto consolatorio della filosofia che lo stesso filosofo olandese disdegnava. La conoscenza dei rapporti tra mente e corpo è, per Spinoza come per Deleuze, sempre pratica: ciò che è in gioco è sempre un concreto incrociarsi e scontrarsi di rapporti di potere, affetti, costruzioni sociali. Lo stesso corpo individuale è una costruzione sociale, un progetto politico: la sua espressione (lo mette bene in luce Pardi nella Prefazione) e la sua interpretazioni sono impensabili senza la comprensione adeguata delle stabilizzazioni imposte dai dispositivi di assoggettamento e dalle forme di riproduzione del potere. La prassi spinoziana (degli spinozisti come del cittadino Baruch Spinoza) era (ed è) affermazione, nel pensiero come nella vita, di un'altra società, di uno scarto rispetto al grado di esistenza e di libertà concesso dal potere: «una società dove il diritto si potesse compiutamente esprimere come potenza collettiva» (Pardi, p. 31).
Ma la potenza del pensiero spinoziano comporta un rischio: che lo spinozismo, magari proprio nella sua versione deleuziana, scada a riproposizione di affermazioni filosofiche con valore di slogan a fronte della crisi dei movimenti e dell'attuale inadeguatezza delle loro prassi. Inadeguatezza che ha la sua radice nell'incapacità di uscire dall'autoreferenzialità, nella chiusura nei localismi e nei soggettivismi: nell'inadeguata capacità di raccordare le lotte e i movimenti locali, i loro spazi e luoghi. Moltitudine, immanenza, molteplicità rischiano così di diventare verbosi artifici buoni a coprire i buchi, le lacune, le fratture - e talvolta effettivamente si assiste al compiaciuto bearsi di simili flati vocis . Contro questa perversione dello spinozismo vale come antidoto quel Deleuze che non ha mai smesso, per tutta la sua vita, di affermare che non basta evocare l'immanenza: bisogna costruirla. Così come non basta invocare la razionalità o la socialità dell'essere umano, socialità e razionalità sono costruzioni. «Non si nasce esseri sociali. Nessuno nasce "socievole"» (p. 82), né si nasce razionali, lo si diventa: «Spinoza non pensa assolutamente come un razionalista - per i razionalisti esistono la ragione e le idee, e se ne avete una, le avete tutte: siete razionali. Spinoza pensa invece che si diviene razionali, o saggi, cosa che cambia del tutto il senso del concetto di ragione» (p. 59).
Divenire sociali e razionali è questione di incontri, e gli incontri sono questione di percezioni, adeguate o meno: per Spinoza la percezione è un problema politico, è forse il problema politico, dal quale tutto scaturisce. Ogni incontro è infatti una composizione che esprime il massimo grado di potenza possibile. Una cattiva, cioè inadeguata, percezione dei corpi, della società, dell'altro condurrà ad una cattiva composizione, esattamente come il veleno è un cattiva composizione per il mio corpo: stiamo parlando ancora di metafisica, stiamo facendo della fenomenologia, o stiamo parlando di analisi sociale, dunque di politica? E' del tutto evidente che questa distinzione non ha senso: il giudizio politico è espressione di una prassi, la quale esprime il massimo livello di composizione dei rapporti di cui posso essere capace a partire dall'adeguatezza o meno della mia comprensione degli elementi costituenti. E' per questo che l'etica di Spinoza non è un'etica del dovere, ma un'etica della potenza: «Spinoza non fa mai della morale, per la semplice ragione che non si chiede mai cosa si "deve" fare. Piuttosto, si interroga su cosa si è in grado di fare, sulla potenza» (p. 55). E sulla potenza Deleuze ci dà una lezione, la settima, che da sola vale l'intero libro, dove l'etica viene rifondata secondo potenza all'interno di un discorso sul limite percettivo e l'uso del colore nella pittura bizantina che sfocerà nei colori di El Greco, pittore molto amato da Deleuze.
Soprattutto - ecco un'altra ragione per leggere questo libro - non ci si chiede mai "cosa posso sperare?": la speranza, come l'invidia, la paura, l'ambizione, è una passione triste. Non per caso non si incontra il tema della speranza in queste lezioni: la speranza è, per Spinoza, una fluttuazione dell'animo speculare alla paura, della quale viene creduta essere il rimedio. Dall' Etica al Trattato politico , Spinoza non ha incertezze nel collegare speranza e paura all'immagine, auspicata o temuta, di una cosa futura del cui accadere dubitiamo. Chi vive nella speranza o nel timore rinuncia a vivere la propria vita in favore o per timore di un'altra vita che non è, e che forse potrà essere. Con le parole di Nietzsche: non è un rimedio alla sofferenza, ma un prolungamento indefinito della sofferenza. Vincolare un altro alla promessa di un beneficio futuro è un modo per assoggettarne tanto il corpo quanto la mente, scrive Spinoza nel Trattato (II.10): costringerne l'anima a cercare di salvarsi piuttosto che insegnarle a vivere la vita. Il governo politico della tristezza non è altro che questo: vincolare la privazione di vita a una speranza, e questa a una «grande speranza che deve superare tutto il resto». Che tale speranza sia un Dio «che può proporci e donarci ciò che da soli non possiamo raggiungere» ( Enciclica Spe Salvi ), o che siano i dispositivi che ci vincolano alla rassegnata accettazione della nostra incapacità a costituirci liberamente al di fuori dei processi di assoggettamento, promettendoci la sicurezza in cambio dell'autodeterminazione: il risultato resta interno alla produzione sociale della paura, del timore, del bisogno di rassicurazione.
Essere spinoziani è una questione di stile: significa rifiutare questi mediocri pastori di anime e di corpi, queste menti frustrate dalle proprie catene che proiettano sul corpo sociale le proprie servitù. Significa scommettere sulle pratiche costituenti di liberazione piuttosto che sui predicatori di tristezza: «Eppure ci sono persone che la coltivano con assiduità... L' Etica è una denuncia radicale di tale atteggiamento - vedete quanto Spinoza sia distante dal giustificare anche minimamente la brama di potere: solo le persone frustrate pretendono il potere, per rivalsa. Per questo sono pericolose. Solo i frustrati costituiscono sistemi di potere basati sulla tristezza. Hanno bisogno della tristezza degli altri. Possono regnare solo facendoli schiavi, perché la schiavitù è precisamente il regime in cui la potenza diminuisce. Gli uomini di potere instaureranno sempre regimi basati sulla tristezza. Per capirci: "Fate penitenza!", oppure: "Odiate questo o quello!". Non avete nessuno da odiare? Odiate voi stessi! La cultura della tristezza, la tristezza come valore, tutte le frasi che dicono: "Per crescere bisogna soffrire", tutte queste cose per Spinoza sono abominevoli. Scrive un'etica proprio per dire: "Non è vero! Proprio per niente!"» (p. 115).