domenica 30 dicembre 2007

l’Unità 30.12.07
Cattolici, ora il cardinal Bertone rimpiange il Pci...
Attacco al Pd: «Non mortifichi i nostri valori»
Tonini: siamo nati per far convivere culture diverse
di Giuseppe Vittori


L’ITALIA NON È un Paese in declino, ma la troppa «litigiosità » frena le possibilità di crescita. Inoltre c’è un’Italia positiva, che lavora e s’impegna, del tutto ignorata dai mass media. Parole del segretario di Stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, che in un’intervista a tutto campo a Famiglia Cristiana riflette anche sugli attacchi alla Chiesa, sostenendo che «c’era più rispetto» ai tempi del Pci.
Bertone, nel numero del settimanale paolino in uscita il 6 gennaio, se la prende non solo con le inchieste tipo quella del «New York Times», ma anche con chi in Italia descrive un paese con toni da disfatta. «I profeti di sventura non mi piacciono - dice -. Vi sono critiche vere che vanno fatte, ma non si può presentare l’Italia sempre negativamente. È autolesionismo di fronte all’opinione pubblica internazionale e un danno per tutte quelle risorse vere, positive, per quell’Italia che resiste, che lavora, che s’impegna per gli altri».
Il cardinale ha fatto sapere di aver chiesto, nel recente incontro con Walter Veltroni, che «i cattolici non siano mortificati» nel Partito democratico. Con Veltroni, spiega il primo ministro del Papa, «ho auspicato che i cattolici non siano mortificati nel nascente Partito democratico e che ci si ispiri alla tradizione dei grandi partiti popolari, che avevano un saldo ancoraggio nei principi morali della convivenza sociale».
Quanto al più generale tema dei cosiddetti valori non negoziabilì, Bertone afferma: «È stato un anno molto impegnativo per i cattolici italiani. L’ultimo, diciamo, incidente di percorso è stato l’inserimento di una norma antiomofobia nel decreto sulla sicurezza, argomento del tutto diverso. La posizione della Chiesa non è partigiana, ma corrisponde al diritto naturale. Il partito comunista di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, non avrebbe mai approvato le derive che si profilano oggi. Grandi intellettuali comunisti e socialisti che ho conosciuto personalmente avevano una visione laica ma morale, cioè credevano in un progetto morale ed etico autentico».
I principi «non negoziabili» sono legittimi, ma «la politica è negoziato»: è in base a questo principio che, secondo il costituzionalista Stefano Ceccanti, va intesa la partecipazione dei cattolici nel Partito democratico. Come affrontare quelli che la Chiesa cattolica definisce principi non negoziabili? «La politica è negoziato», risponde uno dei giuristi più impegnati nell’elaborazione del ddl che il Governo presentò sulle coppie di fatto (Dico). «Ovviamente il negoziato ha sempre dei principi da cui si parte. Ma non si può chiedere a un partito politico pluralista che le sue posizioni coincidano con una delle posizioni di partenza. Si può invece chiedergli che non le ignori e che riconosca ad un persona il diritto a farle valere anche nel dissenso». Tra coppie di fatto e registri delle unioni civili, norme anti-omofobia e questioni bioetiche, secondo Ceccanti la strada da seguire è quella della sintesi tra culture.
Il Partito democratico nasce per «valorizzare l’apporto di culture diverse, e tra queste, in prima fila, c’è quella dei cattolici democratici impegnati in politica», sottolinea invece il senatore Giorgio Tonini, che, a commento delle dichiarazioni del cardinale Tarcisio Bertone sul Pd e i cattolici, concorda che «non è pensabile» un Pd che mortifichi i cattolici. «Non si può che convenire con l’appello del cardinale» e «la risposta è nelle cose stesse», aggiunge. Il consigliere di Walter Veltroni per i temi economici rifiuta le accuse del segretario di Stato Vaticano, secondo il quale «il partito comunista di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, non avrebbe mai approvato le derive che si profilano oggi». «Trovo che a volte da parte della Chiesa c’è un difetto di memoria», afferma Tonini. Tonini concorda che l’inserimento della norma anti-omofobia nel dl sicurezza sia stato un «incidente di percorso», come sostiene il primo ministro del Papa. «Quella espressa da Paola Binetti è una posizione cattolica molto autorevole, anche se non l’unica», rileva il senatore. «Nel Pd si lavora alla ricerca di una posizione comune e nessuno ha il diritto di ostracismo nei confronti degli altri, né il diritto di veto. Si tratta di ragionare insieme». Se nascesse una Cosa bianca e la Binetti vi convergesse semplificherebbe la vita del neonato partito? «Io ci tengo che la Binetti sia con noi», risponde Tonini. «Noi vogliamo fare un grande partito nazionale accogliente, che dialoghi col popolo del Family day così come in chi si è riconosciuto nelle battaglie di laicità. Vogliamo mettere insieme queste le storie». E sancire una disciplina di partito? «No - risponde Tonini - ma ricercare soluzioni condivise. È una ricerca che deve impegnare tutti. Bisogna lavorare per soluzioni condivise anche al di là degli schieramenti del bipolarismo italiano».

l’Unità 30.12.07
Quando le artiste dovevano pagare dazio
di Renato Barilli


L’ARTE DELLE DONNE documenta quattro secoli di pittura femminile, in un periodo nel quale la discriminazione impediva loro l’attività artistica: da Sofonisba Anguissola fino a Frida Khalo e Tamara De Lempicka

Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che la condizione umana è unica, dovunque e comunque venga manifestata, al di là delle differenze di sesso, di razza, di religione o altro. Non che sia indifferente recare i propri contributi dallo stato di uomo o di donna, o di ebreo o cristiano o maomettano. infatti sarebbe ugualmente pericoloso pretendere di annullare distinzioni del genere, che fanno tutt’uno con la personalità dei singoli, ma queste pur decisive modalità di essere non costituiscono di per sé il fine, l’oggetto dell’intervento culturale. Valgono in proposito certe similitudini offerteci dalla chimica, si pensi al ruolo enigmatico dei cosiddetti catalizzatori, che devono essere presenti, al compiersi delle grandi sintesi, per accelerarle o ritardarle, ma poi non se ne trova traccia nella composizione finale del prodotto. In parole povere, questo significa che non è indifferente giungere all’opera d’arte attraverso una sensibilità maschile o femminile, cristiana o ebraica, europea o asiatica, ma la si dovrà considerare come un coefficiente che facilita il compiersi di un certo processo; e tuttavia l’esito finale dovrà parlare a tutti, non restare appannaggio delle singole categorie da cui pure è venuto fuori.
Però, è anche vero che i fattori sociali ed economici hanno sempre agito potentemente di freno al darsi di questa ideale par condicio. Veniamo al tema che giustifica queste mie riflessioni di partenza, l’arte delle donne, che non per nulla è proprio il titolo di un’ampia mostra allestita al Palazzo Reale di Milano. Il lungo, secolare discrimine che ha pesato negativamente sulla condizione femminile in ogni aspetto dell’attività pubblica, professionale, si è fatto sentire non certo in misura più leggera per quanto riguarda l’arte, e dunque il numero delle donne artiste emerse, pur in un arco di grande sviluppo com’è stato quello dell’arte in Occidente, appare decisamente esiguo. In tal caso può essere lecito e utile aprire un dossier separato, mettere i paletti di un cordone doganale protettivo, agli sparuti apporti di questo settore di lavori, in modo da dargli un risalto particolare. Ma così come si mettono questi paletti protettivi, bisogna essere pronti a toglierli, non appena le condizioni di inferiorità vengano a cessare. Oggi la donna appare sempre più in grado di combattere ad armi pari con l’altro sesso, e dunque sarebbe fastidioso o addirittura dannoso mantenere le paratie stagne. Opportuno quindi il sottotitolo che delimita la mostra milanese, Dal Rinascimento al Surrealismo, cioè in sostanza dal Cinquecento alla metà del Novecento.
E anche nei quattro secoli circa di storia esaminati dalla rassegna si può notare un’accelerazione, nel senso che in partenza sono ben rari i casi di creatività al femminile coronati da successo, per il tardo Cinquecento non si va molto più in là di Sofonisba Anguissola e congiunte, o di Lavinia Fontana, per la quale scatta oltretutto un fattore che a quei tempi valeva a ridurre il peso discriminante a sfavore delle donne, la presenza di un genitore o di un nucleo familiare affermato. Il caso più alto di queste utili situazioni familiari lo si ha ai primi del Seicento tra un padre, Orazio Gentileschi, e una figlia, Artemisia, dove l’uno solleva l’altra ai migliori livelli. E anche la maturità della Scuola bolognese dà i suoi frutti, con Elisabetta Sirani, degna allieva dei Carracci e di Guido. Ma i casi recuperabili restano comunque rari, pur nel vasto ambito degli splendori dell’Occidente, anche se nel Settecento emergono le punte della Vigée Lebrun in Francia, e di Rosalba Carriera, a complemento della ricca situazione veneziana, mentre la prima delle rivoluzioni estetiche della contemporaneità, la sindrome tra Neoclassicismo e Romanticismo, ha la sua ninfa Egeria in Angelica Kauffmann. Anche nell’Ottocento trova conferma il fatto che solo là dove c’è maturità e ricchezza sociale, si aprono spazi agli apporti femminili, si vedano i casi di Berthe Morisot e di Mary Cassatt che entrano a far parte dell’Impressionismo, mentre nella più arretrata Italia, per tutto quel secolo, non riescono ad imporsi talenti di prim’ordine. La situazione si vivacizza con le avanguardie storiche, che non per niente hanno in genere nei loro programmi una revisione delle condizioni generali di vita, e come sempre è il nostro Futurismo a dare il giusto segnale, si veda il caso svettante di Benedetta, l’estrosa e dotata coniuge del capofila Marinetti. E c’è poi una ricca compagine presso le avanguardie sovietiche, dalla Gonciarova alla Exter. Ma è la larga condizione mentale dell’Espressionismo, a consentire una libera emersione dei talenti delle donne, che non solo pareggiano i conti con la controparte, ma talvolta vincono nei duetti stabiliti con i compagni di vita. La russa Werefkin appare più incisiva del coniuge Jawlenski, altrettanto si dica di Antonietta Raphaël nei confronti di Mario Mafai, la messicana Frida Kalho appare più acuminata e penetrante al confronto con Diego Rivera. Infine, proprio in occasione di una mostra al Palazzo Reale mi era già capitato di dire che Tamara De Lempicka batte ogni collega sul fronte del novecentismo. Man mano che si avanza verso l’oggi, gli apporti al femminile si infittiscono, infine, varcata la soglia del mezzo secolo, il cordone doganale non ha più molte ragioni di essere posto.

l’Unità lettere 30.12.07
La difficile battaglia contro l’anoressia


Cara Unità,
gli studi presentati nel congresso annuale della Eating Disorders Research Society e trattati nell’articolo di Paola Cicerone di lunedì scorso, forniscono a mio avviso un deludente quanto sconcertante quadro. Il termine anoressia deriva dal greco an orexsis che significa mancanza di desiderio e nello specifico, mancanza di desiderio alimentare. Ma nel villaggio globale urbanizzato sono presenti molteplici casi di anoressie, mancanza di desiderio culturale, di desiderio relazionale, di desiderio sociale, di sano desiderio sessuale, tutti indicatori di una società spenta senza valori se non il denaro. La psicoterapia comportamentale non può trattare l’anoressia alimentare, cercando di ristabilire un rapporto ottimale con il cibo, avulsa dal contesto della presenza delle altre mancanze di desiderio. È l’attuale modello urbano di società e del finto ed effimero benessere che deve essere messo in discussione. Dare valore alle idee, alla vita nostra e degli altri come momento magico e irripetibile, alla persona quale essere e non come Homo economicus destinato all’avere. Se l’Africa nera non è ancora stata contaminata da tali patologie le cause sono facilmente individuabili ma non così facilmente esportabili verso di noi!
Affrontare la complessità dell’esistenza nella nostra società di persone anoressiche che ritengo siano la maggioranza di noi, i timidi, gli umili, i fragili, con gli studi degli aspetti biologici e genetici o addirittura con terapie farmacologiche mi sembra un esercizio totalmente inutile.
Antonio Tagliaferri, Piacenza

l’Unità 30.12.07
Cronaca di una paura immaginaria
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Alcuni quotidiani, nelle loro pagine online, hanno chiesto ai lettori di indicare la parola che più di altre descrive o riassume il senso dell’anno che sta per finire. Ed ecco saltar fuori il “bamboccioni” di Padoa Schioppa, la “casta” di Stella e Rizzo; e poi “mutui”, “clima”, “Rom”, “carovita” e altre ancora. Tentati dal giochino, con fini però poco ludici, crediamo che una parola che ben descrive i primi anni di questo millennio, nelle democrazie occidentali, possa essere “insicurezza”. Un termine questo che per molti aspetti include la maggior parte delle indicazioni venute dai frequentatori di quei siti; che per altri, ben più complessi, rimanda a questioni esistenziali e antropologiche; e che, sopra ogni cosa, spiega, e al contempo reclama interpretazione, di questo tempo fatto di ansie, minacce percepite, incertezze sull’oggi e sul domani.
L’insicurezza, come cifra emotiva di interpretazione della vita e della realtà, evidentemente, è sempre esistita: ha a che fare con la nostra condizione di finitezza. Oggi, su quella condizione, si addensano paure motivate e inconsistenti, si accumula un capitale personale e sociale di stress, così che la precarietà della condizione umana finisce per essere percepita più come minaccia immanente e forse imminente - proveniente dall’esterno - che come dato naturale. Facile, d’altronde, se i fattori ansiogeni, di minaccia (presunta o effettiva), naturali non sono.
Una recente ricerca, «Indagine sul sentimento e sul significato di sicurezza in Italia», realizzata dalla Demos e curata da Ilvo Diamanti, sottolinea una serie di dati interessanti: di come le nostre paure vengano sempre più frequentemente proiettate su fattori al di fuori della portata di controllo e intervento dell’individuo. E di come, parallelamente, si sia spaventati tanto da dinamiche globali quanto da minacce a noi potenzialmente molto prossime. Emerge che la distruzione dell’ambiente rappresenta l’angoscia maggiore per quasi il 60% degli italiani; e risulta come la paura per il futuro dei propri figli (46% degli intervistati) e la paura di attentati terroristici (quasi il 40%) siano poi gli altri principali fattori di insicurezza. A seguire, la paura della povertà e della malattia; e preoccupazioni, variegate per frequenza nelle diverse fasce anagrafiche e nei distinti gruppi sociali, come poter un giorno percepire una pensione.
E la paura della criminalità? Non è scomparsa, anzi. Crescono la paura di furti, rapine, borseggi; nove persone su dieci pensano che la criminalità in Italia sia aumentata (ma solo cinque su dieci che ciò sia avvenuto anche a livello locale, nel loro luogo di vita).
Insomma; cresce la percezione di paura, nel suo complesso, e si nutre di preoccupazione per i cambiamenti globali in corso (maggiormente sentiti nell’elettorato di centrosinistra) e per fattori di ordine economico e riguardanti l’incolumità fisica (questi ultimi più presenti nell’elettorato di centrodestra).
La ricerca in questione mette in luce alcuni comportamenti e orientamenti che sembrano direttamente correlati a tali percezioni. Ecco dunque che il 44% degli italiani ha già blindato porte e finestre della propria abitazione, e che un altro 10% conta di farlo presto; ecco che un italiano su tre difende la propria casa con sistemi di allarme (anche qui, un restante 14% vorrebbe installarne uno prossimamente); l’8% degli intervistati, poi, dichiara di possedere un’arma e un altro 4% vorrebbe acquistarla. E molti, più in generale, chiedono un maggior controllo delle città e del territorio: l’89% degli intervistati sarebbe d’accordo ad «aumentare la presenza della polizia nelle strade e nei quartieri»; l’86% è favorevole «all’aumento di sorveglianza degli spazi pubblici attraverso telecamere», che emergono come lo strumento di controllo più apprezzato. E sale la paura dello straniero: il 47% degli italiani (è il dato più alto registrato in tal senso negli ultimi 10 anni) vede negli immigrati una minaccia; il 55% guarda con favore alle ordinanze dei sindaci contro lavavetri e venditori abusivi; un italiano su quattro ritiene che i campi rom vadano «sgomberati e basta» (ovvero, evacuati senza bisogno di misure ulteriori di collocamento delle persone sfollate).
Siamo un Paese spaventato, dunque. Impegnativo, e tuttavia necessario, comprendere il perché. Certo esistono fattori concreti e tangibili, dalla precarietà nel mondo del lavoro al peggioramento della qualità ambientale, dal caro prezzi alla disoccupazione. Ma ci sono anche altre spiegazioni, che hanno a che fare con un intreccio perverso di informazione tutta giocata sui registri del noir (per così dire) e sull’azione, irruenta e costante, di una politica che fa della paura collettiva una risorsa elettorale, proprio come il mercato dei beni di consumo ne fa una risorsa economica.
Comprensibile, ad esempio, che il pensiero del terrorismo spaventi. Più difficile credere che questa paura sia giustificata in un paese in cui l’eversione nazionale è poca cosa; e in cui il terrorismo internazionale non ha mai colpito. Perché gli italiani non temono le morti sul luogo di lavoro o le morti da incidenti stradali, assai più prossime, possibili e ingenti, di qualsivoglia attentato? Cosa sta cambiando in un paese che si dice disposto persino a essere spiato, ripreso costantemente da telecamere in ogni dove, pur di sentirsi al sicuro? E perché si continua a vedere nella criminalità una marea montante e una minaccia sempre più diffusa? Basterebbe analizzare i dati presentati dall’ultimo rapporto del Viminale sulla sicurezza per comprendere che in Italia certi allarmi sono ingiustificati (ancorché, certamente, il numero dei reati registrati annualmente meriti di essere abbattuto). Basterebbe pensare a come si vadano divaricando i dati relativi ai reati commessi e la percezione collettiva dei fattori di rischio che vengono dal crimine per imporre una discussione non superficiale sui dati di questa e di altre ricerche. Nel 2006, ad esempio, gli omicidi commessi nel paese sono stati 621, mentre nel 1991 erano 1901; il tasso di omicidi nel nostro Paese, oggi, è sensibilmente più basso di quello registrato in Paesi come la Finlandia o l’Olanda; parimenti, in Italia si rubano meno veicoli a motore di quanti se ne rubino in Francia, Danimarca Svezia e Inghilterra; si registrano meno furti in appartamento di quanti se ne hanno in Svizzera, Danimarca, Francia, Belgio. L’elenco potrebbe continuare, lungo e forse sorprendente. Pure, il dato centrale è che dai primi anni 90 ad oggi va aumentando la percentuale di italiani che si sentono quotidianamente minacciati da una pluralità di fattori di allarme. Alcuni reali, altri remoti, taluni quasi immaginari. Un buona politica e una buona cultura sono quelle che riescono a ridurre al minimo almeno quest’ultima categoria.

Repubblica 30.12.07
Adesso qualcuno dall’alto aiuti Dini
di Eugenio Scalfari


Il 2007 si chiude. E´ stato l´anno del distacco. Se vogliamo sintetizzarne l´elemento dominante rispetto a tutti gli altri, questo si impone per la sua coralità, al Sud come al Nord, tra gli uomini e tra le donne, tra i giovani e i vecchi: distacco, indifferenza, riflusso.
Insicurezza. Precarietà psicologica prima ancora che professionale.
Sensazione di impoverimento, in basso come in alto. Perdita di senso.
Quando una società si ripiega su se stessa e si rifugia nel suo privato, scompare uno dei suoi requisiti essenziali che è appunto quello della socievolezza.
Subentra solitudine. La scelta di fare da sé alla lunga non paga se non c´è più lo sfondo pubblico entro il quale collocare il proprio talento e la propria intraprendenza.
L´anno che sta per chiudersi è stato terribile da questo punto di vista, ma ci consegna almeno quest´insegnamento: la dimensione privata distaccata da quella pubblica non produce ricchezza morale né materiale.
Siamo diventati amorali e asociali. Fiori finti invece che fiori freschi, senza profumo, senza polline, senza miele.
Penso e spero che nel nuovo anno la gente metta a frutto questa lezione; butti alle ortiche l´indifferenza, riacquisti l´impegno civile. Le nazioni prosperano quando hanno coscienza di sé, altrimenti declinano. Da questo stato larvale dobbiamo uscire. Sta a noi farlo, a ciascuno di noi, per ritrovare socievolezza, creatività, allegria.
Fiducia in se stessi e negli altri. Amore di sé e amore del prossimo.
Credetemi, non c´è altro modo per uscire dall´apatia della volontà, dalla bulimia delle richieste corporative, insomma dal pantano.

Ho ascoltato la conferenza di fine d´anno del presidente del Consiglio. Aveva la voce rauca per un´infreddatura di stagione. Che ha dato maggior risalto alla fermezza e al senso delle sue parole. Ha rivendicato i risultati raggiunti nell´anno e mezzo trascorso da quando il suo governo si è insediato.
Questi risultati ci sono, sul fronte dell´economia lo dimostrano le cifre che non sono opinioni ma fatti.
L´opposizione ripete ogni giorno che questo è stato il peggior governo dell´Italia repubblicana ma le cifre non dicono questo, dicono anzi il contrario. Il deficit che fu ereditato nel maggio 2006 era al 4,3 quando Prodi prese il posto di Berlusconi e Padoa-Schioppa quello di Tremonti; ci eravamo impegnati a portarlo quest´anno al 2,4 e siamo attualmente al 2, viaggiamo cioè con un anno di anticipo rispetto agli impegni presi con l´Europa.
Probabilmente il deficit nei prossimi mesi scenderà ancora. La spesa corrente è rallentata. La lotta all´evasione ha fruttato finora 20 miliardi di maggiori entrate.
Questi miglioramenti hanno già consentito una Finanziaria che ha avviato un processo di ridistribuzione del reddito e di rilancio della crescita. Nei prossimi mesi bisognerà fare di più. L´8 gennaio ci sarà il primo incontro con le parti sociali. Riprende la concertazione a tre, con i sindacati e la Confindustria. Per stipulare un patto, accrescere la produttività e il reddito, sostenere il potere d´acquisto dei ceti in sofferenza, chiudere i contratti di lavoro.
Eppure questi risultati non si sono tradotti in un ritorno di fiducia.
Il governo viaggia ancora con un consenso bassissimo, sotto al 30 per cento.
E´ esposto al rischio di crisi ogni giorno. Ma non cade malgrado i cupi vaticini dell´opposizione. Il prossimo appuntamento di questa «via crucis» lo avremo il 21 gennaio quando si voterà la mozione di sfiducia contro il ministro dell´Economia, colpito da due sentenze del Tar del Lazio, rispettivamente sulla revoca di un consigliere di amministrazione della Rai e del Comandante generale della Guardia di Finanza.
Ho già scritto domenica scorsa su queste inquietanti sentenze della giustizia amministrativa, ma voglio tornarci ancora perché esse sono rappresentative d´una palese distorsione d´un principio essenziale dello Stato di diritto e della divisione dei poteri.
La giustizia amministrativa è nata centotrenta anni fa per tutelare gli interessi dei cittadini nei confronti di eventuali decisioni arbitrarie del governo. Ma negli anni più recenti la debolezza politica dei governi ha incoraggiato i tribunali amministrativi a proclamare la propria competenza anche sugli atti politici.
Quest´interpretazione estensiva da parte dei tribunali amministrativi non ha alcun riscontro né nella Costituzione né nell´ordinamento giudiziario e crea una situazione abnorme: si sottopone a giudizio un atto politico, si invade la sfera politica, si vieta ad un ministro politicamente responsabile dell´operato di un corpo militare posto alle sue dipendenze di esonerarne il Comandante pro tempore che ha perso la sua fiducia.
La cosa ancor più paradossale è che l´opposizione parlamentare, anziché unirsi alla maggioranza per riportare le competenze dei tribunali amministrativo nel loro alveo naturale, ne tragga invece spunto per sfiduciare quel ministro accettando e strumentalizzando un´invasione di campo molto grave.
So che il governo non ha ancora deciso se ricorrere in appello contro il Tar del Lazio al Consiglio di Stato. Ma non è il Consiglio di Stato, a mio avviso, a dover essere interpellato con un ricorso poiché qui non si tratta di rivedere ed eventualmente correggere una sentenza, bensì di mettere sotto esame uno sconfinamento della massima gravità da parte della giustizia amministrativa. E´ dunque materia per un verso della Corte di Cassazione e per un altro della Corte Costituzionale per dirimere un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.
* * *
Mi sono soffermato su questa inquietante vicenda perché essa è simbolicamente rappresentativa della devastazione avvenuta nella vita pubblica e nei rapporti tra i poteri costituzionali. Ma un altro esempio altrettanto simbolico lo si può ravvisare nel caso Alitalia.
Sappiamo quali siano stati i torti e gli errori dei governi succedutisi negli ultimi dieci anni per quanto riguarda la nostra ex compagnia di bandiera. Dieci anni fa l´Alitalia poteva ancora essere rilanciata, poteva unirsi in condizioni di forza con altre compagnie europee, poteva esser venduta a privati in grado di gestirla meglio. Non fu fatto allora né negli anni e dai governi successivi. I sindacati dell´azienda dal canto loro fecero la loro brava parte per appesantire il bilancio. Le società di gestione dei servizi aeroportuali fecero il resto sulla pelle degli utenti.
Adesso siamo arrivati al punto finale, il consiglio di amministrazione della società ha scelto all´unanimità l´Air France tra i contendenti rimasti in gara. Il governo dopo breve riflessione ha confermato quella scelta. Ci saranno ancora due mesi per metterne a punto le condizioni, ma la decisione è avvenuta e sembra la migliore. Air France è la più grande compagnia internazionale di trasporto aereo; l´Alitalia può trovare in quel quadro un suo ruolo, una sua vitalità e un suo rilancio.
A questo punto insorge la questione Malpensa che diventa una bandiera politica nelle mani di Bossi e di Formigoni.
Il capo della Lega, con la brutalità lessicale che gli è propria, minaccia insorgenza armata, blocchi stradali, occupazione di aeroporti in nome della Padania mortificata e offesa. Il governatore della Lombardia appoggia quelle minacce e mette il suo veto alla decisione del governo in nome della difesa di Malpensa.
Ma nessuno dei «protestanti» ricorda che il flop di Malpensa ha un nome ben preciso; si chiama Linate.
L´aeroporto di Malpensa ha perso ruolo e possibilità di successo in due fasi: la decisione, tutta lombarda, di conservare a Linate la tratta più redditizia del traffico aereo italiano, cioè Milano-Roma e, seconda fase, l´apertura e il potenziamento di decine di nuovi aeroporti proprio nella Padania a cominciare da Bergamo, da Padova, da Verona. Da questi aeroporti i passeggeri di voli intercontinentali partono a migliaia saltando Malpensa e dirigendosi direttamente a Parigi, a Francoforte, a Zurigo, dove trovano coincidenze in vari orari della giornata verso tutti gli scali del pianeta.
Chi ha vanificato gli investimenti fatti a Malpensa non è stata Roma, è stata Milano. Né Bossi né Formigoni misero un dito per contrastare quelle circostanze, a creare le quali hanno anzi collaborato per quanto stava in loro.
* * *
Dicevo che il governo ha dimostrato di voler rilanciare il proprio programma puntando sulla crescita senza abbandonare il rigore e discutendo questi suoi propositi con le parti sociali nei prossimi giorni. Ma si trova esposto continuamente al rischio d´esser battuto al Senato.
Lamberto Dini e una cinquina di senatori hanno ora lanciato l´ultimatum definitivo: elaboreranno un loro programma alternativo e lo presenteranno a Prodi; se lo accetterà integralmente, bene, altrimenti lo sfiduceranno unendo i loro voti a quelli dell´opposizione.
Qui si pone il tema (filosofico e psicologico), di interpretare il personaggio di Lamberto Dini.
E´ stato da giovane un brillante direttore del Fondo monetario internazionale. Stanco di vivere a Washington tornò in Italia dove entrò nella Banca centrale diventandone il direttore generale. Quando Ciampi lasciò l´Istituto, chiamato da Scalfaro alla presidenza del governo, Dini avrebbe voluto prenderne il posto, al quale tuttavia Ciampi non lo ritenne idoneo. Le ragioni non si sono mai sapute, ma debbono essere state piuttosto serie per indurre un personaggio come Ciampi a pronunciare il suo veto.
Si aprì allora per Dini la carriera politica che non fu certo avara nei suoi confronti: ministro del Tesoro con Berlusconi, fu autore della migliore riforma pensionistica tuttora in atto; poi presidente del Consiglio per due anni guidando un governo appoggiato dal centrosinistra e dalla Lega, che guidò con efficacia e discrezione. Eletto al Senato nelle liste dell´Ulivo è attualmente presidente della commissione Esteri. Ha 77 anni. Non li dimostra, ma li ha. Che cosa vuole Lamberto Dini? Pare che aspiri alla presidenza del Senato. Oppure al Tesoro. Oppure, a tempo debito cioè tra cinque anni, alla presidenza della Repubblica.
Ripercorrere il «cursus honorum» di Ciampi ad un´età ancora più tarda di lui: questo sembra il desiderio di Dini.
Desiderio arduo e tuttavia legittimo. Solo che la strada imboccata non è moralmente e politicamente la migliore.
Fabbricare a tavolino un programma quando si è stati eletti appena un anno e mezzo fa su un altro programma suffragato dal voto di molti milioni di elettori, è un comportamento bizzarro. Contrapporre il suo documento a quello che l´ha portato in Parlamento e che ha ottenuto risultati non disprezzabili, approvati anche dal Fondo monetario e dalle autorità europee, non dimostra doti di coerenza etica e logica, rivela anzi una subordinazione ai desideri berlusconiani. Subordinazione preoccupante dopo le notizie trapelate sulla compravendita di senatori da parte del Cavaliere.
Dini non fa parte (così si spera) della campagna acquisti di Berlusconi, ma dovrebbe preoccuparsi delle apparenze.
Non dovrebbe favorirne la circolazione facendosi lui promotore d´una crisi di governo qualora non sia approvato un testo da lui redatto e approvato da due senatori suoi amici. E´ ragionevole questo modo di procedere? Riapre la strada a cariche istituzionali?
Fossi in lui, manterrei più «aplomb», se mai cercherei di ottenere le preghiere della sua collega Binetti e l´intervento della Provvidenza per ascendere al Senato in una prossima legislatura. Abbia pazienza, senatore Dini.
Lei ha 77 anni ma, come ho già detto, non li dimostra.
Vedrà che dall´Alto qualcuno si muoverà in suo favore se lei troverà gli intermediari giusti. Come lei ben sa, è sempre questione di maniglie...

Repubblica 30.12.07
Il pd, la laicità e la vergogna
di Piergiorgio Odifreddi


Caro direttore, nel suo editoriale "Non nominate il nome di Dio invano" del 27 dicembre 2007, Eugenio Scalfari ha ampiamente commentato "pensieri e parole" della senatrice Paola Binetti, citando in particolare il dialogo che ella aveva tenuto con me su "La Stampa" del 23 dicembre.
Il giornale indicava nei titoli lei e me come, rispettivamente, "l´anima teodem e quella atea del Partito Democratico", e l´espressione "anima atea" andrebbe forse sottolineata. Anzitutto, perché costituisce un ossimoro positivo e virtuoso da contrapporre, assieme ad "anima laica", a quelli negativi e viziosi di "ateo devoto" e "ateo in ginocchio". E poi, perché il suo singolare suggerisce e richiama, a differenza delle espressioni appena citate, la situazione di isolamento o di minoranza in cui si trovano nella nostra società odierna coloro ai quali essa viene applicata. Nella fattispecie, le anime laiche e atee non sembrano effettivamente essere molte nel Partito Democratico in generale, e nella Commissione dei Valori in particolare. Sembra infatti che la laicità e l´ateismo, che costituiscono una sorta di nudità teologica naturale, siano diventate quasi una vergogna da nascondere sotto i variopinti paramenti delle fedi e dei credi.
Non sono stati molti i commissari che hanno reagito alla prima bozza del Manifesto dei Valori del Partito Democratico, stilata dal filosofo cattolico Mauro Ceruti, che a proposito della laicità partiva dicendo che essa «è un valore essenziale del Pd», per continuare: «Noi concepiamo la laicità non come un´ideologia antireligiosa e neppure come il luogo di una presunta e illusoria neutralità, ma come rispetto e valorizzazione del pluralismo degli orientamenti culturali e dei convincimenti morali, come riconoscimento della piena cittadinanza – dunque della rilevanza nella sfera pubblica, non solo privata – delle religioni». Ora, io non mi sento di sottoscrivere nessuna di queste affermazioni. E poiché la Binetti mi aveva già accusato di avere dei pregiudizi nei confronti dei cattolici, ho ribadito alla Commissione di non credere di averne, così come non credo di averne nei confronti degli astrologi o degli spiritisti: semplicemente, mi limito a constatare che essi hanno visioni del mondo antitetiche a quella scientifica, e più in generale alla razionalità, e ne deduco che sarebbe bene che esse rimanessero confinate nel campo individuale. E, così come non propongo l´abolizione degli oroscopi, non propongo neppure di impedire le prediche: mi sembra sensato, però, pretendere che non sia sulla base di queste cose che vengano prese le decisioni politiche dei nostri governanti e del nascente partito.
Apriti cielo! Il deputato Francesco Saverio Garofani, membro del coordinamento nazionale del Pd, ha subito inveito sul sito del partito contro le mie "provocazioni" e la mia "idea caricaturale della laicità". E Ceruti gli ha subito fatto eco, affermando: «Odifreddi non si può nemmeno definire un laico. Diciamo che non è proprio interessato all´incontro con una cultura spirituale. Laicità per lui è sinonimo di diniego assoluto della religione. Ma il suo è un retaggio del passato».
Sarebbe troppo facile ribattere che se un diniego è retaggio del passato, a maggior ragione dovrebbe esserlo ciò che viene negato, che per forza di cose deve precedere la propria negazione. Mi sembra più costruttivo cercare invece di espellere una certa confusione di idee a proposito della laicità e dintorni, che sembra albergare nelle menti dei cattolici citati. Compresa la Binetti, che nel nostro dialogo ha ribadito più volte non solo di considerare se stessa laica, ma anche che la laicità è uno dei valori fondamentali predicati dal fondatore dell´Opus Dei: quel Josemarìa Escrivà de Balaguer, alla cui beatificazione in Piazza San Pietro hanno assistito il 31 maggio 2001 sia Veltroni sia D´Alema. A questo proposito la Binetti ha dichiarato, nel nostro colloquio su "La Stampa": "La circostanza che Veltroni e D´Alema apprezzino Balaguer è il segno che viene compresa la santificazione del lavoro promossa dall´Opus Dei". A me, invece, questo atto pubblico da parte del sindaco di Roma e dell´allora presidente dei Ds sembrano un perfetto esempio di come un politico laico non dovrebbe comportarsi, qualunque siano le sue credenze, secondo la mia definizione di laicità: agire come se la religione e la Chiesa non ci fossero, senza naturalmente far nulla affinché non ci siano. Questa posizione è un compromesso tra i due estremi del clericalismo e dell´anticlericalismo. Il primo va inteso come la pretesa di agire, e far agire, in ossequio alla volontà della religione e della Chiesa, e io non saprei trovarne una formulazione migliore dell´Articolo 7 della Carta delle Finalità del Campus Biomedico di Roma: "L´Università intende operare in piena fedeltà al Magistero della Chiesa Cattolica, che è garante del valido fondamento del sapere umano, poiché l´autentico progresso scientifico non può mai entrare in opposizione con la Fede, giacché la ragione (che ha la capacità di riconoscere la verità) e la fede hanno origine nello stesso Dio, fonte di ogni verità". A scanso di equivoci, questa non è un´invenzione di Borges: il Campus esiste veramente, in esso lavora la Binetti.
Non c´è bisogno di battersi in Italia contro l´anticlericalismo, che va inteso come la pretesa di agire per far sì che la religione e la Chiesa non ci siano: questi sì che sarebbero i veri retaggi del passato, dalla Rivoluzione Francese alla Guerra Civile di Spagna, ma per fortuna oggi nessuno li propone seriamente. Proprio per questo, però, la posizione intermedia del laicismo rimane scoperta sul fianco sinistro e viene percepita come un estremismo, quando invece essa è già il compromesso razionale tra le due opposte irrazionalità di coloro che vorrebbero imporre agli altri le loro credenze da un lato, e le loro avversioni a queste dall´altro. Naturalmente, non è affatto anticlericalismo, ma laicismo allo stato puro, rifarsi al motto risorgimentale della "libera Chiesa in libero Stato". Che la religione e il Vaticano abbiano la massima libertà di parola e di azione, senza che lo Stato interferisca né con l´una, né con l´altra. Ma che le stesse libertà le abbia anche lo Stato, senza dover essere costretto a subire la pressione ufficiale e ufficiosa delle gerarchie ecclesiastiche, a legiferare in ossequio alle loro credenze, e a pagare di tasca propria per la propaganda e gli affari altrui: in particolare, tra le tante revisioni costituzionali mettiamo mano anche all´Articolo 7, per ridare all´Italia la libertà che Mussolini e Togliatti le hanno tolta. Questo dovrebbe fare un partito democratico, e questo mi auguro che faccia il Pd nel nuovo anno.

Repubblica 30.12.07
La rivolta dei fuoricasta
India ancestrale


La recente marcia su New Delhi dei dalit, gli intoccabili, e degli adivasi, gli aborigeni, che formano un quarto della popolazione indiana e che rivendicano terre e diritti, è la manifestazione-simbolo della complessa guerra di tutti contro tutti che da anni dilania il paese dei bramini
Nonostante le numerose leggi garantiste e il sistema delle quote per pubblico impiego e università centinaia di milioni di cittadini sono ancora discriminati
Nel 2005 il ministero dell´Interno ha contato ventiseimila casi di violenze commesse contro le caste inferiori: case distrutte, omicidi, stupri

È la rivolta degli intoccabili. Erano più di ventimila nelle strade di New Delhi, qualche settimana fa, i manifestanti arrivati alla meta dopo quasi un mese di marcia. Migliaia e migliaia di dalit, gli intoccabili fuoricasta, e adivasi, gli aborigeni delle tribù cacciati in gran numero dalle terre e dalle foreste ancestrali per far posto a industrie, dighe, ferrovie e autostrade della moderna, «incredible India». Erano partiti da Gwalior, nel Madhya Pradesh, e lungo tutti i trecento chilometri del percorso avevano gridato sempre lo stesso slogan: «Hal karo, bhai, hal karo, zameen ki samasya hal karo!», risolvete, per favore risolvete il problema delle terre.
In un paese ormai abituato a rivolte, proteste e manifestazioni quotidiane di milioni di esclusi dal boom tecnologico, ben pochi giornali e tv hanno riferito di questa satyagraha su modello gandhiano dei poveri tra i poveri, giunti da tredici diversi stati della grande federazione. Nemmeno quando il 19 ottobre tre partecipanti, membri della tribù sahariya, sono stati investiti e uccisi da un camionista ubriaco. Forse qualche titolo in più l´avrebbero guadagnato assaltando per protesta autobus, posti di polizia o uffici pubblici, come è successo altrove. Ma, fedeli ai principi non violenti, hanno sepolto i loro morti, gli hanno reso un omaggio commosso e si sono rimessi in cammino verso la capitale.
La marcia Gwalior-Delhi è solo l´ultima delle clamorose iniziative prese "dal basso" per tentare di risollevare le sorti di centinaia di milioni di cittadini inesorabilmente legati a uno status sociale che ha matrici religiose antiche e, evidentemente, ancora indelebili nonostante la miriade di leggi garantiste scaturite dalla nobile Costituzione scritta sessant´anni fa dallo storico leader dei dalit Bhimrao Ambedkar.
Dalit e adivasi - rispettivamente il sedici e l´otto per cento della popolazione - hanno teoricamente goduto in questo ultimo mezzo secolo di privilegi impensabili nel passato, a partire dalle quote riservate di impieghi pubblici e posti nelle università. Ma una grande massa di almeno mezzo miliardo di esseri umani continua a essere in gran parte vittima dei pregiudizi inculcati a ogni livello nel dominante sistema induista di caste dei varna (letteralmente, i colori), formati dalle categorie "superiori" dei sacerdoti-intellettuali bramini, dei guerrieri kshatriya, dei commercianti vaisya, e da quella inferiore ma numericamente dominante dei servitori, o sudra, pari al cinquanta per cento del miliardo e cento milioni di indiani. Anche questi ultimi, raccolti sotto l´altrettanto discriminante denominazione di Obc (sigla inglese per "altre caste arretrate") subiscono a loro volta il peso di un´atavica sottomissione, di un peccato originale che nell´induismo significa "impurità", "intoccabilità". Come i dalit e gli aborigeni, ben pochi sudra-Obc hanno posti rispettabili o possiedono terre proprie, oltre a essere spesso vittime di abusi razziali. Ma il diritto alle quote riservate acquisito grazie al loro peso elettorale - più che a criteri di giustizia sociale - ha creato, all´interno del ginepraio di oltre tremila caste e sottocaste delle Obc, sacche di privilegio che sono andate a pesare, ancora una volta, sugli ultimi gradini del sistema.
È in questa fase storica che dal cilindro magico della «più grande democrazia dell´Asia» è emersa nel maggio di quest´anno Mayawati Kumari, una vera e propria regina dei dalit destinata - almeno nei suoi intenti - a cambiare per sempre il volto politico e sociale del continente. Le immagini della sua terza cerimonia d´investitura a primo ministro dell´Uttar Pradesh, il più popoloso Stato dell´India, sono state celebrate come le più significative icone della fine di un´era. Frotte di neo-ministri bramini, che in passato non avrebbero mai mangiato al suo stesso tavolo, si sono prostrati a toccarle la veste in segno di deferenza, dopo che con abile mossa strategica se li è fatti alleati per battere il precedente governo dominato dal potente clan Obc degli Yadav. In America, dove si guarda con attenzione inedita all´India, il settimanale Newsweek ha inserito Mayawati tra le otto donne più influenti del mondo e la sua ibrida alleanza intercasta è seguita con ansia crescente dallo stesso governo in carica a Delhi, consapevole che la politica liberista del Congresso ha lasciato indietro anche un numero consistente di bramini, incapaci di preservare i privilegi e stare al passo coi tempi.
E alla vigilia di Natale il partito di Sonia Gandhi ha dovuto assistere in Gujarat alla vittoria di un altro nemico altrettanto minaccioso, Narendra Modi, figlio di un venditore di tè e membro delle Obc nonché icona del Bjp, il partito castista e nazionalista per eccellenza, che tra il 1998 e il 2004 ha governato il Paese. Nonostante l´accusa di aver appoggiato le rivolte hindu che cinque anni fa costarono la vita a tremila musulmani, anche lui per la terza volta ha conquistato alle urne uno stato da trenta milioni di anime, raccogliendo i voti di elettori sia di casta alta che sudra come lui, compresi dalit e tribali. Il suo successo, attribuito al forte carisma e ai progressi economici nel suo stato fortemente industrializzato, di certo conferma che la dinamica dei varna e il loro peso in politica resta ancora un mistero insondabile.
Ma se è vero che il sistema delle garanzie sociali e la modernizzazione del Paese hanno spinto in alto milioni di ex paria istruiti verso le categorie del ceto medio, le motivazioni della marcia dei ventimila da Gwalior a Delhi e i settemilacinquecento casi di abusi contro i dalit nel solo Uttar Pradesh dall´elezione di Mayawati in poi, dimostrano che per masse di fuoricasta le discriminazioni sociali sono forse peggiori che nel passato. L´ultimo dato reso noto dall´Ufficio nazionale d´investigazione del ministero degli Interni riporta nel 2005 oltre ventiseimila casi di atrocità contro le caste inferiori. È stato calcolato che ogni ora - specialmente nelle aree rurali - due dalit vengono uccisi, due case di poveracci vengono distrutte e due donne violentate. Nello stesso lasso di tempo altrettanti intoccabili subiscono aggressioni per i motivi più disparati, una violazione ai rigidi divieti imposti dalla tradizione di entrare nei villaggi o nei templi delle caste alte, di attingere acqua dalla stessa fonte, di indossare le scarpe o il cappello al passaggio di un bramino, di intrattenersi fuori dai loro ghetti o - peggio di tutti - reclamare terre o innamorarsi di una persona d´altra casta. Che non si tratti di fenomeni relegati alle sole popolazioni arretrate delle campagne lo dimostra un recentissimo caso avvenuto nella tecnologica Hyderabad, capitale dell´Andra Pradesh, dove la figlia di un celebre attore di basso ceto, Chiranjeevi, ha sposato il figlio di un bramino tra scandali e minacce di morte.
Chi viaggia per l´India impiega anni a capire lo stratificato e sempre più sottile processo di esclusione che da almeno tremila anni affligge la società, complice l´ortodossa interpretazione delle sacre scritture dei Veda fornita dai loro depositari, principalmente gli intellettuali bramini che dominano il mondo dei media e della politica pur professando spesso una mentalità laica. Un fenomeno al quale non sono immuni gli stessi comunisti che governano su modelli capitalisti stati come il Bengala e il Kerala, al punto da trasformare in un caso nazionale l´impresa di Gaurishankar Rajak, un lavapanni del villaggio di Dumba, nel Jharkhand, che tutte le settimane da ventuno anni scrive a mano e distribuisce a sue spese in ciclostile un battagliero giornaletto dedicato ai problemi dei dalit come lui.
I casi eclatanti di cronaca non mancano mai, l´ultimo qualche tempo fa proprio in un villaggio dell´Uttar Pradesh governato da Mayawati, dove un´anziana dalit di nome Jeewam Shri è stata data alle fiamme dal padre di una ragazza di ceto elevato, che non voleva fidanzarla al figlio di Jeewam. Prima di morire la donna ha fatto il nome del suo aggressore ma, invece di ribellarsi, il promesso sposo e gli altri parenti hanno preferito abbandonare il villaggio. Spesso infatti la giustizia indiana procede con tale inefficacia o lentezza che le vittime diventano bersaglio di ulteriori violenze, com´è accaduto lo scorso anno a un attivista dalit del Punjab, Bant Singh, al quale sono stati mutilati tutti e quattro gli arti per aver cercato giustizia contro i violentatori di sua figlia, tutti membri di una casta superiore.
Anche casi di massacri contro intere comunità di intoccabili, pure riportati con grande risalto dalla stampa, sono finiti senza colpevoli. Come nello stato Far west del Bihar, dove opera la milizia dei latifondisti hindu Ranvir Sena. Con la giustificazione di voler fare piazza pulita dei maoisti naxaliti che si battono con le armi contro i soprusi dei proprietari terrieri bhumihar, il Ranvir Sena ha portato a termine dalla sua nascita nel ‘94 una clamorosa serie di stragi rimaste tutte impunite: le più eclatanti nel ‘97 a Laxmanpur Bathe (sessanta dalit uccisi tra cui ventinove donne e sedici bambini), nel gennaio del ‘99 a Shanker Bigha (ventitré vittime), e nel febbraio dello stesso anno a Narayanpur (dodici morti).
Ma il Bihar non è un´eccezione. A distanza di quindici anni, il governo del Rajastan non ha ancora pubblicato gli atti del processo senza colpevoli contro gli autori della strage di diciassette dalit bruciati vivi nel villaggio di Kumber. E per arrivare a tempi più recenti, nel Maharastra, a poche ore dalla capitale del commercio e dello spettacolo Mumbay, procede tra sospette lentezze il processo contro gli autori del linciaggio di massa avvenuto un anno fa nel villaggio di Khairlanji. La quarantenne dalit Surekha e sua figlia di diciassette anni sono state picchiate, stuprate e mutilate pubblicamente da centocinquanta powar e kalar (due caste classificate come Obc) che hanno anche bastonato a morte altri due figli. La colpa di Surekha era stata di testimoniare contro dodici membri delle caste superiori - tali si considerano anche molte Obc - che avevano ucciso un dalit per una contesa di terre. Per la prima volta l´episodio sembrò scatenare un movimento nazionale dei fuoricasta, che scesero in piazza in diversi stati e continuarono per giorni minacciando di marciare su Delhi. Ma, come sempre nella storia degli oppressi dell´India, non sono riusciti a trovare un´unità di intenti e di azione, divisi da odi, pregiudizi atavici e interessi di clan spesso determinati dalla confusione legislativa con cui vengono applicate in diversi stati e con diversi criteri le stesse leggi di garanzia.
Le quote di posti pubblici e di accessi universitari riservate a dalit, tribali e Obc (fino a un tetto del 49,5 per cento del totale fissato dalla Corte suprema), dopo aver scatenato le proteste e le ondate di suicidi di membri delle caste alte nel ‘90, sono state anche la causa di vere e proprie guerre tra poveri per stabilire gli aventi diritto. Nel complicato mosaico di clan e sottoclan avvengono infatti spesso cambi di status che seguono di regione in regione esigenze elettorali, prima che di censo. Una delle battaglie più sanguinose si è verificata a giugno in Rajasthan tra gujjar e meena, con trenta morti, cento feriti e il blocco di importanti arterie come la Jaipur-Delhi. I gujjar, ex pastori oggi catalogati come Obc, avevano visto ridotte le loro percentuali di posti riservati dopo il declassamento alla loro medesima categoria - sempre per motivi di quote - della popolosa ed elettoralmente potente comunità di proprietari terrieri jaat. Per recuperare parte dei diritti persi, i gujjar del Rajasthan hanno allora chiesto di autodeclassarsi al gradino di scheduled tribe, ovvero di tribù aborigena. Ma così facendo andavano a intaccare la percentuale di posti riservati già attribuiti ai clan tribali dei meena e dei bhil, che hanno risposto con altrettanta durezza, sia nelle piazze che in parlamento.
Ovunque, nell´India delle "mille rivolte" raccontata da Naipaul, ci si batte ormai con le unghie e con i denti per un posto in quota, affidandosi al partito che promette più posti in cambio di voti, alimentando le critiche di quanti temono che la spartizione tra caste finirà con lo sgretolare un sistema, magari ingiusto ma consolidato e efficace, di avanzamento per meriti. La realtà è che i meriti sono stati acquisiti dai ceti alti grazie al tradizionale accesso all´educazione, mentre i posti disponibili in uffici pubblici e scuole specializzate non sono facilmente moltiplicabili, specialmente oggi che avanza il processo di privatizzazione lasciato in mano alle grandi imprese dove non contano quote e leggi anti-apartheid.
Per questo la marcia dei ventimila da Gwalior a Delhi rischia di aver percorso invano la strada dell´utopia. Come Gandhi, otterranno forse ammirazione e rispetto ma non le loro terre ancestrali.

Repubblica Roma 30.12.07
Ecco tutte le esposizioni imperdibili da vedere in città
Gauguin, Van Gogh e i dipinti pompeiani
di Renata Mambelli


Una tale densità di grandi mostre a Roma non si vedeva da tempo. Proviamo a metterne in fila alcune: il Maxxi di via Reni espone le fotografie di Ugo Mulas, testimone d´eccezione del mondo dell´arte dagli anni ‘50 in poi. Fino al 2 marzo. Alla Galleria Nazionale d´Arte Moderna sono esposti quadri di Vedova, Afro, Dorazio e degli altri protagonisti dell´arte italiana dagli anni ‘40 fino agli ‘80, appartenenti alla Raccolta Esso: fino al 24 febbraio. Aperta invece fino al 27 gennaio la mostra dedicata alla Pop Art (1956-1968) alle Scuderie del Quirinale, dalle scatole di Brillo di Andy Warhol ai quadri dell´italiano Tano Festa. Ancora Emilio Vedova, ancora alla Galleria Nazionale d´Arte Moderna, in una grande retrospettiva che copre l´intero arco della sua produzione, dal figurativo alle ultime opere degli anni 90: fino al 6 gennaio. Straordinaria la mostra a Palazzo Massimo, Rosso Pompeiano: splendidi esempi di pittura romana del periodo aureo, dal I secolo a. C al I secolo d. C., usciti dal Museo Nazionale di Napoli, fino al 30 marzo.
Alla Fondazione Memmo, a Palazzo Ruspoli, prosegue la mostra "Da Cranach a Monet, capolavori della collezione Perez Simon", con opere di Tiepolo, Goya, Canaletto, Rubens, Monet, Van Gogh, Renoir: fino al 27 gennaio. Imperdibile a Palazzo delle Esposizioni la grande mostra su Mark Rothko, settanta dipinti che ricostruiscono tutto l´itinerario del grande artista americano: fino al 6 gennaio (fate presto!). Paul Gauguin aspetta visitatori al Complesso del Vittoriano, fino al 3 febbraio, con 150 opere tra dipinti, sculture e ceramiche. Al Museo del Corso si respira invece profumo di Cina con "I capolavori della città proibita" che ricrea la vita di corte della dinastia manchu dei Qing: gioielli, dipinti, arredi, armi, smalti, abiti da cerimonia: fino al 20 marzo. Alla Galleria Borghese sono in mostra i capolavori di Antonio Canova, dalle Tre Grazie alla Naiade, fino al 3 febbraio, con prenotazione obbligatoria. Al Quirinale, nelle sale di Alessandro VII, sono in mostra i capolavori ritrovati, Nostoi, straordinari pezzi provenienti dai musei americani che se ne erano impossessati e ora restituiti all´Italia: fino al 2 marzo, con ingresso gratuito. A Palazzo Barberini quaranta tavole raccontano un Bernini poco noto nelle vesti di pittore: fino al 20 gennaio. Mentre al Chiostro del Bramante i protagonisti sono i Macchiaioli, con opere in mostra di Fattori, Lega, Signorini, fino al 3 febbraio. E per finire Fortunato Depero è all´Auditorium Parco della Musica con una bella mostra sulle sue scenografie e costumi per il teatro musicale: fino al 31 gennaio.

Corriere della Sera 30.12.07
Retroscena La strategia del «giorno per giorno»
Asse col Prc e caccia a due senatori cdl
di Maria Teresa Meli


Immaginare scenari eccessivamente futuribili, per Prodi, non è «utile». E allora, innanzitutto, «bisogna aspettare quel che deciderà la Consulta sui quesiti referendari ». Quanto agli alleati — quelli riottosi, quelli che protestano e quelli che potrebbero andare via —, Prodi ha già messo in atto la sua tattica. Del resto, nonostante l'aspetto bonario, l'uomo è un tipo che non molla: nemmeno il virus gastrointestinale che ha steso mezza Italia e che ha colto anche lui gli ha impedito di tenere la tradizionale conferenza stampa di fine anno. «Non mi sento bene, ma c'è chi sta peggio», ha detto agli amici che gli chiedevano perché non avesse rinviato l'incontro.
Ma tornando agli alleati. Innanzitutto c'è Rifondazione, che tanti sforzi ha fatto per questo governo e che ben poco ha ottenuto finora. L'altro giorno con il ministro del Welfare Paolo Ferrero il premier è stato molto conciliante: «Vedrai che questa verifica la faremo anche se a me quel nome non piace, ma capisco che dobbiamo mettere a punto delle cose del programma». Insomma, l'idea di Prodi è quella di tornare a fare asse con il Prc, perché ha capito che se c'è un partito che mai e poi mai staccherà la spina al suo governo quello è Rifondazione. D'altra parte Giordano lo ha spiegato a qualche alleato dell'Unione che avrebbe voluto avvalersi dell'aiuto del Prc per una crisi di governo: «Vi illudete se pensate che saremo noi a fare questa operazione. Se questo governo non vi soddisfa più prendetevi le vostre responsabilità alla luce del sole».
Perciò, anche se tra Prodi e Rifondazione non vi sono più i rapporti idilliaci di un tempo, il premier ha deciso di appoggiarsi al Prc per andare avanti. Tanto — è il suo ragionamento — il Pd non può opporsi se il governo concede qualcosina alla sinistra, perché io di quel partito sono il presidente. Ma Prodi non ha intenzione di abbandonare neanche Mastella, che finora si è schierato al suo fianco. Per questo continua a dire che i partiti piccoli vanno tutelati nella riforma delle legge elettorale. Su cui però lui non ha intenzione di intervenire pubblicamente perché vuole tenere il governo al riparo dalle polemiche. Comunque, il premier è «scettico» circa la possibilità di «un dialogo serio» con Berlusconi, che un giorno dice «una cosa e il giorno dopo un'altra». Ma ha deciso che non ostacolerà il lavoro avviato dal segretario del Pd Veltroni.
Ultimo problema, quello di Lamberto Dini. Prodi, però, pensa di averlo già risolto «sterilizzando» la questione grazie agli altri componenti del gruppo formato dal presidente della commissione Esteri del Senato. Ha convinto Willer Bordon e Roberto Manzione a isolare Dini. Di più, Manzione gli ha promesso, e l'altro ieri lo ha detto pubblicamente al Messaggero, di portare nel centrosinistra due esponenti della Cdl: Saro e Del Pennino. Così i margini della maggioranza al Senato si allargheranno. Di poco, certo, ma questo all'uomo del «giorno per giorno» basta per «andare avanti».
Fino a quando? Sembrava che Veltroni avesse ipotizzato fino al 2009 (anche Berlusconi ha confermato che «il leader del Pd non vuole arrivare oltre quella data perché non vuole farsi logorare»). Ma Prodi sorride e risponde serafico: «Nel 2009 ci saranno le elezioni europee ». Sembra proprio che la profezia di Francesco Cossiga sia destinata ad avverarsi: «Vedrete che Prodi non lo manderà via nessuno, rimarrà in sella per tutta la legislatura ». Nel Pd, notoriamente non proprio unito, qualcuno si rallegra e qualcun altro fa gli scongiuri...

il manifesto 30.12.07
Show del cardinal Bertone: la Chiesa una risorsa, caro Veltroni difendi i cattolici nel tuo partito
Troppo laico il Pd, ridateci Togliatti
di Daniela Preziosi


La Chiesa italiana era «più rispettata» ai tempi del Pci e della Dc. Oggi invece è sotto attacco. La posizione «di Gramsci e di tanti esponenti comunisti verso la religione era ben diversa da quella di certi laicisti attuali». Botti di fine d'anno, ancorché a mezzo stampa, da parte del cardinal Tarcisio Bertone, segretario di Stato Vaticano e potente ministro degli esteri (quindi, addetto anche ai rapporti con l'Italia) del pontefice Benedetto XVI. Una sua intervista che uscirà su Famiglia cristiana all'inizio dell'anno è stata anticipata ieri alle agenzie. Si tratta di un'omelia politica a tutto campo, dai rapporti con Cuba a quelli con la Cina e con Israele.
Soprattutto il cardinale si occupa dell'Italia, lo stato che contiene il Vaticano, o viceversa. L'Italia non è in declino, ma la troppa «litigiosità » frena le possibilità di crescita, dice. E poi entra nel dettaglio dell'agone politico. Ha incontrato Berlusconi e Veltroni, - i due che ora hanno deciso di cialogare - e «non è vero che le persone vengono a ricevere direttive dalla Santa Sede», assicura. «Certamente - aggiunge però - chiedono la nostra opinione». Che viene prontamente fornita. «Ci preoccupa la difesa dei valori della vita, del patrimonio morale e sociale che c'è nel dna del popolo italiano». Perché dev'essere chiaro, avverte, «la Chiesa è una risorsa anche per la comunità politica italiana». Ha il sacro dono della chiarezza, il cardinale. Ma se non bastasse, nei riguardi di Veltroni, leader del Pd e sindaco di Roma, è anche più esplicito: nell'incontro con lui, racconta, ha auspicato «che i cattolici non siano mortificati nel nascente Pd e che ci si ispiri alla tradizione dei grandi partiti popolari, che avevano un saldo ancoraggio nei princìpi morali della convivenza sociale». Auspicio legittimo, domandare è lecito. Il guaio è che, a giudicare dalla bocciatura del registro delle unioni civili a Roma, Veltroni sembra averlo preso alla lettera. Il 2008, si augura il segretario di Stato, dovrà andare meglio dell'anno concluso, «impegnativo per i cattolici». Il riferimento è chiaro, ancora una volta, ma se necessario viene esplicitato: «L'ultimo incidente di percorso è stato l'inserimento di una norma antiomofobia nel decreto sicurezza, argomento del tutto diverso. Il Pci di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, non avrebbe mai approvato le derive che si profilano oggi». Ha nostalgia di Togliatti, dell'articolo 7 della Costituzione che il Migliore fece approvare (e digerire) ai comunisti dell'epoca? Forse. Però un linguaggio così diretto e semplificato fa pensare che il cardinale rivoglia indietro don Camillo e Peppone. Che litigavano per copione, ma alla fine erano d'accordo.
Il ragionamento cade nel pieno del dibattito sulla laicità - dalle unioni civili alle norme antiomofobia, che stanno per tornare in parlamento. Così finisce per scatenare la tifoseria del centrodestra, che pure non riceve benedizioni dal porporato. Dall'Unione qualche commento, per lo più imbarazzato. «Paradossale nostalgia», quella bertonesca, secondo il socialista Roberto Villetti, che dimentica di dire che De Gasperi fu uno statista cattolico laico e liberale». E Armando Cossutta, anziano leader proprio di quel Pci che Bertone oggi vagheggia (ma che all'epoca avrebbe scomunicato): «Effettivamente il Pci ha sempre avuto un grande rispetto per la Chiesa». Ma non c'è paragone con l'oggi: «Difficile trovare nella storia della Chiesa in Italia posizioni tanto chiuse come quelle espresse da tanti esponenti del mondo ecclesiastico». Che hanno fatto «della fede un'arma di battaglia politica degna del più profondo medio evo».

il manifesto 30.12.07
La Costituzione : «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»
Buon anno a tutti, la guerra continua
Italia su più fronti. Dal conflitto afghano al Libano, dallo scudo antimissile di Bush ai nuovi cacciabombardieri iper-tecnologici. La finanziaria del 2007 fissa la spesa militare a 21 miliardi di euro, il doppio di quanto spetta ad atenei e ricerca
di Tommaso Di Francesco


Buon anno, la guerra continua. La finanziaria del 2007 attribuisce alla spesa militare italiana 21 miliardi di euro: è il doppio del bilancio di competenza per l'università e la ricerca ma ci colloca al settimo posto mondiale come spesa militare. Partecipiamo alla mutazione genetica della Nato che, dopo la guerra umanitaria contro l'ex Jugoslavia, è diventata forza d'intervento in tutto il mondo, dove ha dislocato 50 mila uomini, dai Balcani all'Afghanistan al Mediterraneo. E i nostri soldati, recitano i documenti strategici delle Forze Armate, sono pronti non a difendere il paese secondo il dettame costituzionale (artt. 11 e 52), ma anche «aree di interesse nazionale» in tutto il mondo al fine di salvaguardare i nostri interessi, se necessario con interventi «di prevenzione anche lontano dalla madrepatria» (con buona approssimazione alla guerra preventiva), anche in difesa del Muro di Shengen dall'«invasione» degli immigrati.
Così, di fronte al fallimento in Iraq, siamo venuti via da quella guerra fatta contro l'Onu e contro il popolo iracheno, ma esattamente pochi giorni fa nel Consiglio di sicurezza abbiamo votato a favore della continuazione della missione militare d'occupazione portata avanti dalla coalizione dei volenterosi capitanata dagli Stati uniti. E partecipiamo a una guerra, quella in Afghanistan, «con orgoglio», ha dichiarato a Kabul un inedito mascelluto Romano Prodi, nonostante la missione Onu abbia cambiato di segno da quattro anni e mezzo e sia diventata a tutti gli effetti della Nato. Ma c'è la svolta lessicale. Infatti non la chiamiamo guerra, pur partecipando ai comandi integrati che indicano all'aviazione Usa e Nato gli obiettivi «talebani» sul campo, con un numero così pesante di stragi fra i civili che quella guerra aerea, dalla quale dipende la fortuna delle truppe occidentali e quella del presidente Karzai, ha indebolito il governo afgano e allargato il seguito e l'influenza dei talebani che controllano più del 50% del territorio operando ormai dentro la cosiddetta «zona italiana» da sempre raccontata - chissà perché - come immune dal conflitto. Se dopo l'11 settembre l'obiettivo era fermare il terrorismo, di Al Qaeda o quant'altro ectoplasma, ora nell'area ad essere destabilizzato è addirittura il Pakistan - a partire dalle aeree tribali - dove i talebani sono stati inventati. Una destabilizzazione iniziata ben prima dell'estremo tentativo di Benazir Bhutto.
Siamo schierati in Libano dopo la guerra criminale di bombardamenti aerei israeliani dell'estate 2006, a seguito del rapimento sul confine di un militare israeliano. Avremmo dovuto schierarci alla frontiera, invece siamo dentro il territorio libanese con il dichiarato compito di tenere a bada la forza di Hezbollah e di influire positivamente sul processo democratico libanese. Hezbollah resta forte, il Libano è sempre nel caos.
Ma il fatto più grave di tutti è che le chiacchiere sull'impegno verso la questione palestinese, quella sì bisognosa di una «forza di interposizione» per liberare i Territori occupati ancora dal 1967, chiacchiere erano e chiacchiere sono rimaste. Anzi se ne ricava l'impressione che, alla fine, ad avvantaggiarsi realmente della nostra missione in Libano sia stata proprio la leadership israeliana con la quale abbiamo continuato a gestire un Trattato militare che sostiene da anni le sue Forze armate: ha infatti ottenuto l'isolamento politico ma soprattutto materiale dei palestinesi, che nell'angolo e affamati, si sono divisi ormai in un conflitto intestino tra Hamas e Fatah. Ora i palestinesi, tutti i palestinesi, attraversati dal Muro, dispersi in milioni di profughi nelle baraccopoli del Medio Oriente impediti nel movimento e in ogni diritto elementare e sempre più frazionati dagli insediamenti israeliani, vedono la prospettiva dello Stato di Palestina come una favola. La favola raccontata al recente vertice di Annapolis che rimanda a data indefinita il destino di milioni di disperati. È questo il risultato, il 2007 è stato l'anno della scomparsa della questione palestinese nel silenzio quotidiano che non conta nemmeno più lo stillicidio di «uccisioni mirate» causate ogni giorno da parte dell'esercito israeliano.
Infine siamo con migliaia di uomini in Kosovo - dove dopo la guerra è andata in onda una feroce contropulizia etnica contro le minoranze serbe e rom, a garantire il rispetto degli accordi di pace di Kumanovo che posero fine alla guerra «umanitaria» contro l'ex Jugoslavia - fatta contro il parere delle Nazioni unite - assunti poi nella Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell'Onu con cui si riconosceva il diritto alla Nato di occupare il territorio ma salvaguardando la sovranità della Serbia. Ora stiamo per costringere gli stessi militari a fare il contrario, vale a dire ad andare contro il quadro di legalità che ha istituito la missione dell'Alleanza atlantica. Perché arriverà la nuova missione «civile e di polizia» dell'Unione europea, con la quale si rileva l'amministrazione fallimentare dell'Unmik-Onu e si avvia la gestione «indolore» dell'indipendenza etnica del Kosovo - contro il Consiglio di sicurezza Onu, la Serbia e la Russia (e la Cina). Incuranti del fatto che la polveriera balcanica può riaccendersi subito.
Serviranno questi preparativi sui fronti di guerra, non chiamata tale ma così diventata in itinere, cambiando le carte in tavola, a «fermare il terrorismo« e a «difendere la democrazia»?
In realtà accade il contrario. Nessuna guerra riesce a fermare il terrorismo. E accade che tutte queste missioni militari all'estero siano state in questi giorni «prorogate» d'ufficio dal governo senza discussione. E accade che il nostro parlamento non sappia nulla di come e perché l'Italia si sia avventurata in uno spregiudicato mercato di armi sofisticate e abbia allargato, invece che restringere come da promesse elettorali, le sue servitù militari. Così con il Pentagono abbiamo firmato il memorandum d'intesa nel programma, costosissimo, degli F-35 Lightning, il cacciabombardiere Usa Joint Strike Fighter avviando nientemeno che «il più grande e tecnologicamente più evoluto programma della storia dell'aviazione», secondo le parole del sottosegretario alla difesa Forcieri. Lo stesso vale per le basi americane. Chiudiamo la Maddalena ma, manco fossimo al supermercato, cash&carry, allarghiamo la base di Vicenza ben sapendo che diventerà per gli Stati uniti il trampolino di lancio per operazioni militari di proiezione in tutto il mondo, e ristrutturiamo quella strategica di Sigonella. E, dulcis in fundo, il 2007 è stato l'anno dello scudo antimissile che Bush a tutti i costi vuole disporre subito in Europa, nella Repubblica ceca e in Polonia, alla frontiera russa, con la motivazione, insensata perfino per l'Intelligence americana, del pericolo dell'atomica iraniana.
Abbiamo apprezzato l'interrogativo del ministro degli esteri Massimo D'Alema, preoccupato delle reazioni russe all'imposizione dell'indipendenza del Kosovo: «Ma era davvero questo il momento di andare a piantare missili qui e là in Europa?». Sante parole. Ma allora perché, di nascosto dal parlamento, il ministro della difesa Parisi nel febbraio di quest'anno che muore è corso a Washington a firmare l'accordo quadro che dice sì allo scudo antimissile in Europa, in Italia e nel mondo? Perfino il presidente Napolitano dichiara che è ora che «ne parlino le Camere». Buon anno, la guerra continua.

sabato 29 dicembre 2007

l’Unità 29.12.07
Le unioni civili e la battaglia che non c’è
di Adriano Labbucci


Su l’Unità del 27 dicembre Vincenzo Vita ha scritto un articolo che prendendo spunto dalla vicenda del Registro delle unioni civili, bocciato dal Consiglio Comunale di Roma, svolge un ragionamento il cui centro è nella seguente affermazione «ogni occasione è buona per mettere in difficoltà il processo costituente del partito democratico (e il Sindaco di Roma, che del Pd è il segretario)».
Visto che di Roma si parla si può dire alla romana che Vita la “butta in caciara”, cioè parla d’altro, alza una cortina di parole per sfuggire al merito della questione, mischia le carte per confondere.
Io capisco la difficoltà a spiegare, ancora oggi a due settimane di distanza, quella scelta da parte del Pd di bocciare la proposta. Dire come è stato detto che il Registro è inutile si espone alla banale domanda: e allora perché, non cinque anni fa ma poco più di un anno fa, è stato scritto nel programma di Veltroni Sindaco? Troppi infatti si dimenticano di questo piccolo particolare.
L’impressione perciò è che il Pd sia rimasto folgorato non sulla via di Damasco, ma su qualche via più vicina a casa nostra.
Vita poi si domanda «forse che sulle unioni civili, obiettivo laicamente sacrosanto, si è fatto un passo in avanti?». Ma la domanda, di grande interesse, rimane a mezz’aria, sospesa, in attesa di una risposta che non arriva, forse perché ritenuta una domanda retorica.
Eppure la domanda non è retorica e ha bisogno di una risposta che non è particolarmente difficile ma al contrario evidente: non si è fatto nessun passo in avanti perché il Pd invece di sostenere la proposta coerentemente a quanto scritto nel programma ha votato contro insieme alla destra. E quindi la domanda nient’affatto retorica va rivolta al Pd.
Da tutta questa giostra il risultato è il seguente: al Parlamento tutto è bloccato per l’esiguità dei numeri e per le divergenze nell’Unione; e al Comune di Roma dove invece si poteva fare un passo in avanti, cercando così di spingere anche sulla vicenda nazionale, il Pd si è opposto. Sull’odg del PD lasciamo stare perché gli odg lasciano il tempo che trovano: se è bello resta bello se piove resta piove, come si dice sempre a Roma. Dalle compagne e dai compagni che con Vita alle primarie del Pd hanno promosso la lista «A sinistra» io, e non solo io, mi sarei aspettato qualcosa di diverso, tanto più in questa vicenda dove invece è prevalsa la logica di gruppo, l’unità del Pd, rispetto al contenuto.
Se si vuole giustamente ridare credibilità e autorevolezza alla politica, la prima cosa da fare è capovolgere l’ordine del discorso politico corrente che si chiede: cosa mi conviene, cosa è utile per me o per il mio gruppo? E sostituirlo con: che cosa è giusto, coerente rispetto ai valori e agli interessi che voglio rappresentare? E alle parole far corrispondere i fatti.
Se non si opera questo capovolgimento, prevale e prevarrà sempre più la politica usa e getta e l’indifferenza, virus mortale per la politica e quindi per la sinistra e per qualsiasi ipotesi di cambiamento.
Un’ultima osservazione. All’indomani della bocciatura del Consiglio Comunale è apparsa un’intervista a monsignor Sgreccia che a proposito delle coppie omosessuali affermava che quelle vanno aiutate con il sostegno psicologico e con terapie adeguate. Parole indicative di una subcultura alimentata da ignoranza e pregiudizio, lontana anni luce da quel simbolo di amore e misericordia rappresentato dal Cristo in croce. Ebbene: il giorno dopo in un lungo articolo su la Repubblica Walter Veltroni non trova l’occasione e lo spazio di una risposta, idem Vincenzo Vita. Perché?
Miriam Mafai ha scritto che l’Italia di trent’anni fa, quella del referendum sul divorzio e sull’aborto, era più laica e più avanzata sui diritti civili dell’Italia di oggi. Penso che ci sia un nesso tra l’assordante silenzio sulle parole di monsignor Sgreccia e l’arretramento culturale e politico che Miriam Mafai segnala. E che una delle risposte si trovi proprio in quella logica che dicevo prima: se è conveniente e utile polemizzare con un’esponente della gerarchia vaticana e rispondersi che non conviene, meglio far finta di niente, sorvolare; e invece prendersela con la sinistra, magari con l’aggiunta radicale, che fa tanto riformista e poi piace tanto ai giornali signora mia. Non capendo che qui il tema non è la disputa tra laici e cattolici, credenti e non credenti ma, per dirla con il cardinal Martini, tra pensanti e non pensanti. Ma così, è bene saperlo, si preparano solo ulteriori arretramenti perché le battaglie perse sono solo quelle che non si danno.
Presidente del Consiglio Provinciale di Roma

l’Unità 29.12.07
Caravaggio, l’ultima partita a tennis
di Egizio Trombetta


C’era di mezzo una donna: i due, non potendo sfidarsi a duello, si diedero appuntamento a Campo Marzio per una partita

Il pubblico seguiva dalle tribune otto giocatori sul campo. Ma a un certo punto le racchette sparirono e apparvero le spade

UNA PARTITA di pallacorda (così si chiamava il gioco con palla e racchetta nel Cinquecento) fu il teatro della morte di Ranuccio Tomassoni per mano di Caravaggio. Che fu aiutato da Fabrizio Sforza Colonna a nascondersi e poi fuggire

Un incontro di tennis o meglio di pallacorda cambiò per sempre la vita di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, il massimo esponente della scuola barocca, a seguito del quale uccise Ranuccio Tomassoni, uomo influente e ben introdotto coi Farnese. Era il pomeriggio del 28 maggio 1606, il pittore lombardo e Ranuccio Tomassoni si accordano per scontrarsi alla pallacorda così da chiarire una volta per tutte la loro supremazia su di una prostituta d’alto bordo, la senese di nome Fillide Melandroni, di cui entrambi erano amanti. Successe a Roma, al Campo Marzo in via della Pallacorda n.5, ora lì c’è un garage in via di ristrutturazione.

Quindi una donna, o forse due, furono la causa dell’inimicizia fra i due. La seducente Fillide, che fece da modella al pittore (nel 1600 col Ritratto della Cortigiana Fillide, quadro andato distrutto a Berlino nel 1945 a seguito dei bombardamenti durante seconda guerra mondiale) e forse anche Lavinia Giugoli,la chiacchierata moglie di Ranuccio, sarebbero state la causa per cui Tomassoni e Caravaggio arrivarono a duellare. I duelli però erano banditi a causa delle leggi «sistine» ancora vigenti, erano tempi in cui la Santa inquisizione manda a morte Giordano Bruno e Beatrice Cenci. Si doveva trovare un espediente affrontarsi e la pallacorda si prestava bene allo scopo. Secondo i piani il duello sarebbe dovuto fermarsi al primo ferimento di uno dei contendenti, senza andar oltre. L’appuntamento è vicino al campo di via di pallacorda, probabilmente proprio in Piazza Firenze. Con Ranuccio c’è suo fratello, il caporione Gian Francesco, e ci sono i suoi cognati, Ignazio e Federico Giugoli. Caravaggio si fa invece accompagnare dall’architetto Onorio Longhi, il capitano Petronio Troppa, e infine c’è il famoso quarto uomo rimasto sconosciuto per tutti questi secoli. L’identità del quarto uomo venne artatamente occultata negli atti del processo sotto un discreto N.N, Nescio Nomine. È evidente che l’N.N in questione poteva essere un rampollo di una grande famiglia, un personaggio da proteggere ad ogni costo. Dai quadri d’epoca si deduce che il campo era certamente allo scoperto, mentre il pubblico poteva seguire le vicende di gioco da «tribunette» coperte stile vittoriano. In quell’incontro di pallacorda si fece uso probabilmente di racchette anche se al tempo si potevano usare in alternativa i guantoni specifici. A dividere il campo non c’era la rete, come oggi si usa, ma la corda, è da cui deriva appunto il nome del gioco, «pallacorda». Come viene messo in evidenza dai documenti in nostro possesso, non fu una partita di singolare, ma fu un confronto quattro contro quattro. Due giocatori posizionati più avanti, in prossimità della corda, due giocatori posizionati dietro, come si dice ai tempi nostri «a fondo campo». Ad assistere allo scontro-incontro non c’è Fillide, non c’è Lavinia e non c’è tanto meno la donna ufficiale del pittore, Lena, con cui Caravaggio trascorre l’ultima notte romana. Non si sa molto dell’andamento dell’incontro, certamente fu un incontro equilibrato anche perché sarebbe stato difficile prevalere in un campo di dimensioni così ridotte, circa 9 metri per 27 e soprattutto con otto giocatori in campo. Le occasioni per tergiversare non mancarono e alla prima contestazione il «gioco» cambiò, sempre quattro contro quattro, ma le spade presero il posto delle racchette. Il Merisi, manco a dirlo, prese in consegna proprio il Tomassoni che nella concitazione cadde in terra. L’allora trentacinquenne pittore non ci pensò su due volte e ferì Ranuccio all’inguine con la punta della sua spada con la chiara intenzione di evirarlo. Fece male i suoi conti però perché recise malauguratamente l’arteria femorale di Ranuccio. Risultò subito evidente agli occhi dei presenti che la ferita subita dal Tomassoni era gravissima. Scapparono tutti, anche il pittore fu ferito gravemente, con Ranuccio morente rimase il bolognese ex-guardia di Castel Sant’Angelo Petronio Troppa, ferito mortalmente anche lui da Gian Francesco, il fratello del Tomassoni. A soccorrere Merisi ci pensò proprio il quarto uomo, il famoso N.N, che lo trascinò non nel più vicino ospedale e nemmeno a Palazzo Firenze presso il Cardinale Del Monte dove il Caravaggio alloggiò in passato, bensì lo portò fin casa sua, a Palazzo Colonna. Alla luce di recenti approfondimenti effettuati dallo storico dell’arte, esperto di caravaggio, Maurizio Marini risulta meno oscura l’identità del Nescio Nomine: «ulteriori approfondimenti - continua Marini - ci hanno portato a concludere che il Caravaggio quel pomeriggio ebbe facile accesso a Palazzo Colonna perché stava con qualcuno di casa. Il quarto uomo fin ora protetto dagli atti dalla discrezione di un Nescio Nomine è senza dubbio Fabrizio Sforza Colonna». Risulta anche evidente che il cosiddetto quarto uomo, benché non provocò il ferimento di nessuno, ebbe premura di sparire insieme al vero colpevole: «Fabrizio si trovava in una posizione difficile - sottolinea Marini -. Il giorno precedente entrò in città da interdetto a seguito di una condanna subita l’anno precedente. Per lui essere coinvolti in un omicidio era una situazione pericolosissima». È per questo motivo dunque che Fabrizio Sforza Colonna portò in gran fretta Caravaggio a Palazzo Colonna per poi fuggire via alla volta di Zagarolo. A suffragare ulteriormente la tesi del Marini c’è un esperto di storia del Tennis, l’olandese Cees De Bondt (autore del libro Royal Tennis in Renaissance Italy): «A Palazzo Colonna - spiega De Bondt - c’è stato sicuramente qualcuno interessato al gioco della pallacorda. Nel 1610, quattro anni dopo la sanguinaria partita, fu costruito nel Palazzo proprio una sala della pallacorda, dal lato di via della Pilotta».
La gran mole dei documenti in nostro possesso e utilizzati dallo stesso Marini per la sua opera (Caravaggio, pictor praestantissimus) sono raccolti nel libro di Mons. Corradini Caravaggio, Materiali per un processo. Lo stesso Monsignore precisa: «Le mie fonti - spiega Corradini - sono state ad esempio le relazioni dei birri successive allo scontro della pallacorda. Purtroppo il faldone del processo non fu mai ritrovato». È chiaro che fu fatto sparire.
Il resto della vita del pittore è noto, fu costretto a rimanere lontano da Roma fino alla fine dei suoi giorni. Morì a Porto d’Ercole, in circostanze non del tutto chiare, col rimorso per quanto commesso. Rimorso che fu ben rappresentato da un dipinto del diciassettesimo secolo La morte di Giacinto. Non sappiamo con certezza chi sia l’autore del quadro del quadro in questione (da non confondere con un dipinto di Giambattista Tiepolo del 1752-1753) anche se l’olandese De Bondt ha le idee abbastanza chiare in proposito: «Ho dedicato molto tempo nelle ricerche in merito a questo dipinto - spiega -. Dall’idea che mi sono fatto è probabile che il dipinto è stato realizzato dal francese Simon Vouet sotto ispirazione e suggerimento del poeta e scrittore italiano Gianbattista Marino, che era a Roma nei giorni dell’omicidio». Il ritratto fatto allo scrittore da parte di Caravaggio nel 1600 e i sonetti dello stesso poeta a lui dedicati sono la prova evidente del rapporto d’amicizia che c’era fra i due. È probabile dunque che Gianbattista Marino tentò di far trasparire il pentimento del pittore così da intercedere in suo favore.

Repubblica 29.12.07
Anni 70. Un decennio infelice
di Alberto Arbasino


La Triennale milanese ospita una scintillante rassegna che sembra molto un videogioco
I ricchi ormai si esiliavano a Montecarlo per non fare gli stronzi alla Scala contestata
Già a metà fra il ´63 e il ´68 si ritornava volentieri nella vecchia California
Passamontagne e spranghe in territori urbani piccolissimi tra strade plumbee
Ai giovani non importava più niente della letteratura non impegnata
Fra cortei armati e fumetti e canzoni e Cina e Cile, Moro e Pasolini muoiono in tutti i media

Coi soliti senni del poi (ma perché, poi?), naturalmente parrà molto "epocale" (o «un battito di farfalla»?) quella frattura tra il ´63 e il ´68. Prima, l´emergente Gruppo d´avanguardia giovane, generalmente ben visto dagli Antichi Maestri già un po´ emarginati nelle loro nicchie: Gadda, Anceschi, Palazzeschi, Ungaretti, Praz, Comisso. Fra centro e sinistra, nei territori mediatici lasciati usufruibili dagli incauti democristiani, tutto un Establishment clientelare e normalizzatore, di "midcult" e di mezza età: la generazione dei Moravia coi tradizionali poteri "egemonici" all´italiana, esercitati raccomandando o «tagliando i viveri» ai letterati subalterni che campavano di prestazioni precarie, senza ancora contratti o salari o assicurazioni o pensioni.
Qualche "posticino" già acquisito nelle carriere accademiche o pubblicistiche o radiofoniche poteva comunque garantire l´indipendenza alimentare e culturale di una letteratura sperimentale che profittasse del boom italico non solo per vendere bestseller. E senza le tradizionali sputtananti preghiere italiane ai Poteri di turno. Anche perciò continuarono poi lungamente le accuse di «volevano prendersi tutti i posti!», da parte degli intellettuali di regime o protesta che effettivamente, dopo il Sessantotto, si presero un mucchio di direttorati nelle strutture e prebende. Senza più curriculum, né concorsi, né titoli. Ma una volta sistemati, escono dall´attualità perché «non hanno più niente da dire». («Ditemi un titolooo!»).
Ma l´Establishment non aveva previsto il dopo. Solo cinque anni, ed ecco insorgere un inaspettato movimento generale collettivo, e assolutamente alieno da ogni letteratura, in lotta e guerra o guerriglia dura (come nelle rivoluzioni "da manuale") per abbattere l´Establishment (ora detto "Sistema"), e occupare direttamente i "Palazzi" direttivi. Magari a costo di ammazzamenti e ferimenti adesso commemorati, «per non dimenticare», in tanti luoghi della Memoria, monumenti ai Caduti, lapidi, "format", sceneggiati, e via.
Nella scintillante rassegna-videogioco sugli anni Settanta alla Triennale milanese, chissà se i giovani nati in seguito sapranno discernere se furono anni «formidabili» o «di piombo», o un´intrigante playstation. Qui, fra cortei armati e fumetti e canzoni in lp e Cina e Cile e video e sangue ed effimero, Moro e Pasolini vengono riammazzati in tutti i media, mentre non si ritrovano facilmente Feltrinelli o Calabresi o Casalegno o altri, lungo gli abiti di Fiorucci e i versi di De André, il juke-box e il Vietnam e i punk e la P38 o la P2. Ma non molti artisti o sarti o scrittori o musicisti emergenti dai "collettivi", come prima e dopo. E nemmeno concretezze dei capetti - dopo le spranghe e i manganelli - circa i treni dei pendolari, gli ambulatori per i poveri, l´assistenza ai neonati dopo le ammucchiate di massa. Mentre i ricchi ormai andavano in Svizzera anche solo per il dentista. E si esiliavano a Monte-Carlo per non fare gli stronzi alle contestate prime della Scala o nelle mitiche sparatorie stradali.
Già a metà fra il ‘63 e il ‘68, comunque, senza aspettare le successive scoperte e scopate di massa, si ritornava sempre più volentieri nella vecchia California per godersi allo stato nascente e con piacevolezza i "trends" che dopo qualche stagione sarebbero arrivati quali "novità" ideologiche e predicatorie anche da noi. Come in un ribaltamento di quel «piano inclinato» che era l´America secondo Oscar Wilde e Saul Steinberg, dove rotola tutto ciò che casca dall´Europa e prima o poi riappare a San Francisco.
E così, via! Le rivolte studentesche sull´erba, i figli dei fiori e dei funghi, i parchi e giardini lisergici e psichedelici, sconfinati, vastissimi, con culi e chitarre al vento, macché passamontagne e spranghe in territori urbani piccolissimi fra plumbee vie Carducci o Pascoli o Collodi o De Amicis... Altro che highways fra Sacramento e Big Sur e Tijuana... E le musiche sempre più amplificate, nelle prime discoteche di massa e di mandria, enormi e cascanti, in una grafica sinuosa e languida fra LSD e Art Nouveau per i poster e i dischi. E tutto un cinema molto sperimentale e poco adatto ai non-cinefili; e un teatro molto "off" con tutti seduti per terra impietosi e scomodi fra candelotti da processione alla Vergine. E officianti che scendevano a urlare «fuck!» trasgressivi, ma si offendevano a toccargli per provocazione il sedere. E parecchia cera colorata da fiaccolate per stragi orientali anche nei penetrali e ricettacoli dei piccoli supplizi ove si scatenavano praticamente le fantasie ancora originali dell´immaginario individuale, prima dell´omologazione globale imposta alle masse dalla «liberazione sessuale», e poi dalla grande paura per l´epidemia dell´Aids.
Autobiograficamente, appunto Off-off si intitolava un mio instant book di corrispondenze sul campo a caldo (con «quell´estate a Manhattan», appunto), uscito da Feltrinelli alle fine del ‘68. Con già dentro i vari trends che sarebbero poi stati scoperti e divulgati, serialmente e addirittura scolasticamente, nel corso dei nostri successivi anni Settanta. «Il sabato del Village»... Un Underground in tutti i sensi: le colossali discoteche supertecnologiche «da sballo» con le più recenti droghine rustiche o chimiche ma comunque subito mitiche, e le cantine sordide con recitanti ieratici e famelici, al Village. Cantine fra i docks e i macelli, invece, con marines e calciatori e cowboys forse neanche finti in "numeri" allora sensazionali di ring e gabbie e vasche per usi innominabili; e poster di protesta da "college" per la cameretta studentesca. Il New American Cinema decrepito dalla nascita, e la Factory di Andy Warhol (mio coetaneo per niente "impegnato") piena di trovate attonite ma vispissime, in paraggi allora succulenti. E il Living Theater, il Café La Mama, i Velvet Underground, The Mothers of Invention, i mini-circuiti di cooperative e monologhisti e travestiti e Pop Art non-correct, le disgraziate famose per qualche giorno al Chelsea Hotel e finite malissimo...
Oltretutto, negli Stati Uniti «on the road» come nell´Italia mediterranea, tradizionalmente i "ragazzoni" facevano le loro "ragazzate" («ah se ci fosse qui una bella ragazza!», «già, ma non c´è!») dall´Est al West fra ostelli e deserti remoti dalla cultura dei passamontagne, quando ancora prefissi come «omo» o «etero» si applicavano a concetti astratti come l´omonimia o l´eterogeneità dei fini. Non certamente al sesso spontaneo nelle docce. Non esistevano i "nomi", e quindi neanche le "cose", che tanti facevano tra acque e saponi o cespugli in Texas o a Hollywood, senza curarsi di etichettarle come "trasgressioni". Dopo le classificazioni e le suddivisioni e i distintivi, ecco invece la formazione dei piccoli ghetti specializzati: e ancora per primi a San Francisco, nel «Castro Village». Non più festose sfrenatezze in allegri bar o bagni "maledetti", bensì negozietti di ferramenta e plastiche e protesi ormai mediatiche e patetiche come i tacchi sadomaso nei grandi magazzini con liquidazione delle rimanenze. E sempre meno "Immaginazione", tra gli sfoghi serali pianificati a Houston come a New Orleans, Amburgo, l´Oktoberfest a Monaco, il Carnevale di Rio, la deplorevole Bangkok, con anziani "pasolinidi" in preda beata per frotte di atroci piccini.
Frattanto, «inter nos», questioni sempre meno gramsciane sui «gggiovani» già sviluppati quali protagonisti di contestazioni e consumismi e pubblicità rock... Quando la «Giovinezza» ricordava ancora troppo l´inno fascista ormai vecchio, la «Gioventù» era appena stata hitleriana nei cinegiornali, e qualunque «Fischia il sasso» col «ragazzo di Portoria» si era stati obbligati a cantarlo, non solo a Genova, in cortei di piccoli Balilla poco propensi alle adunate e ai motti come a ogni Doge o Duce sui palchi.
Dunque, all´epoca, avendo compiuto i 40 anni allo scoccare del decennio di piombo - e avendo scarso interesse per le ideologie e le canzoni e i vestiti e gli arredi e gli spettacoli italiani dell´epoca - si riproponeva il problema già avvertito negli anni Cinquanta: se stabilirsi con libri e tutto non a Roma bensì a Londra, o Parigi, o Broadway, o Hollywood, campando bene come "corrispondente" giornalistico, e coinvolto con la società culturale locale. Senza esporsi troppo al «quanto ti fermi ancora?», se non si partecipa ogni giorno e sera alle telefonate e iniziative e ricevimenti locali, come succede quando si rimane per un paio di settimane.
Oppure: far fronte, per ovvio e frainteso senso civico, a un desueto e sfottuto dovere di testimonianza storica e antropologica "on the spot" nello Stato di cui si ha la cittadinanza e i redditi? Senza magari smaccatamente abbandonarsi, secondi i regimi in auge, all´interminabile lagna del "presenziare" italiano: adunate, manifestazioni, commemorazioni, fiaccolate, cortei per innumerevoli vittime assolutamente indimenticabili, fin da piccini tra scuole e doposcuole e discorsi e lapidi e gite e cippi e steli e slogan; e poi, nella toponomastica e nelle pagine gialle e sui mezzi pubblici e radio-taxi, e "format" luttuosi in tv.
Allora: fare gli antitaliani contromano e controcorrente e "versus"? O intrupparsi in movimenti omogeneizzati e collettivi, a costo di comprarsi un passamontagne per le sfilate invece di un boxer per Malibu? Ingraziarsi movimenti «gggiovani» dediti alle ideologie stagionali, per poi diventare capiservizio e quindi «ad» e direttori e presidenti in tutti gli enti possibili? Bloccando per decenni le carriere e il curriculum delle successive generazioni di postulanti ormai anziani in crisi, quando ancora sui giornali si legge «un ragazzo di trentotto anni»...
Non per nulla, ai promettenti giovani degli anni Settanta, e anche a Giangiacomo Feltrinelli che me lo ripeteva, non importava più niente la letteratura "personale" degli scrittori non impegnati, ma soltanto le ideologie nei documenti collettivi anonimi. E Italo Calvino mi bofonchiava: «un altro che non vuol più credere alla letteratura?». In quel grigiore davvero plumbeo e terroristico, fra i mitra di strada e i Sex Pistols nelle discotechine due metri più sotto, e i conformismi minacciosi sempre più nuovi e massicci, chi poteva prevedere che tante Immaginazioni e Utopie sarebbero presto sfociate in un redditizio revival delle saghe familiari e degli intimismi con gioie e dolori, nonché infiniti thriller e killer di consumo per le immortali signore mie e le future casalinghe di Voghera?
Così, venne proprio intitolato In questo Stato un mio instant book sulle vivaci ricezioni romane e italiane ai telegiornali e ai gossip nei lunghi tempi del sequestro di Moro. Messo in un cassetto dai dirigenti della Feltrinelli d´allora, fu passato dal grande agente Erich Linder a Livio Garzanti, che subito lo pubblicò. (Come del resto, al crollo dei Muri nell´epocale Ottantanove, Elvira Sellerio seppe stamparmi in fretta La caduta dei tiranni. Poi, certo, passò la voglia di occuparsi narrativamente delle figurine e figurette che si incontrano negli «ambienti esclusivi» o nella cronaca giornalistica).
Ma intanto, per salutare la fine del «genere-Romanzo-non-merce», dopo i carissimi capolavori e le Grandi Incompiute del primo Novecento - in contemporanea con gli epiloghi della Sinfonia e dell´Opera e della Pittura: «signore e signori, si chiude!» - pareva piuttosto giusto dedicarsi ai "meta-romanzetti": «Super-Eliogabalo», «Principe costante», «Specchio delle mie brame». Mentre Calvino stesso faceva della meta-narrativa con «Se una notte d´inverno», Pasolini passava al cinema, Testori si buttava sul teatro... Però, con l´aggravarsi dei peggiori corsi e ricorsi più storici, riecco il dovere personale di ripassare a una funzione prettamente civile. Anche malgrado gli entusiasmi di chi aveva vent´anni anarchici proprio negli anni Settanta. E dunque viveva le stesse passioni antisociali dei ventenni nel 1870, o 1770, o eccetera. Quindi, scritti e pulsioni piuttosto congiunturali, con titoli di servizio: Equo canone, Confezioni per famiglie, Condizioni di impiego, Servizio non compreso, Priorità non acquisite... Come aveva insegnato Adorno, morto di contestazione appunto allora.
Ma intanto, fra un lutto e un piombo, anche lunghi viaggi nei più discussi paesi esotici: Cina, Giappone, Bali, Nepal, Giava, Iran, Malesia, Siam, Australia, Hawai... E moltissime visite alle grandi mostre e ai concerti che si continuavano a tenere a Londra, Parigi, Berlino, Amburgo, Amsterdam, Washington, Hollywood, Rio de Janeiro, Vienna, Monaco, Lisbona, Istanbul, Zurigo... Lasciando perdere con profitto tanti eventi "locali" poi proclamati formidabili e imperdibili, o magari stronzate.
Andando e tornando, si accumulavano così i materiali tradizionali e trasgressivi per Un Paese senza, antropologia dei caratteri e fantasmi italiani apparsa appunto nel 1980, alla chiusura del decennio infelice.
E il decennio successivo? Bella roba, gli anni Ottanta? E i Novanta? E nelle celebrazioni del quarantennale 1968-2008, che faranno i ventenni o trentenni «duemilaottini» di fronte a un Sistema o Establishment che è nuovamente riuscito a «metterglielo là», oltre alla "movida" e alla "vaiolance" a tutta birra? Con le bottigliette da spaccare contro i muri graffiti non più con «W la Figa» o «W il Duce» in gessetti e carboni ormai fuori commercio, ma in ghirigori acrilici per segnalare lo spaccio più vicino, o i «Dio c´è» per registrare il controllo malavitoso su un territorio... Annate e cause ed effetti ed eventi con martiri e vittime - nel secolo scorso e anche in questo - ancora una volta formidabili, belli e bellissimi con lutti imperdibili e happy hours indimenticabili, e quarantennalmente commemorabili e celebrabili nel 2048...

Repubblica 29.12.07
I numeri. Fascino discreto tra scienza e arte
di Piergiorgio Odifreddi


Fin dalla più remota antichità i numeri hanno esercitato un fascino strano sugli uomini. E il sette ha il privilegio di corrispondere al numero dei corpi celesti allora conosciuti. Per chi aggiungeva a questi anche la Terra e le stelle fisse aveva importanza il nove. Ma già dai tempi di Pitagora si era creata un´analogia tra i sette corpi celesti e le note musicali ed è da questa associazione matematica che è nata la teoria pitagorica che mette in relazione la natura con la musica. Per i pitagorici, insomma, la matematica ha una doppia valenza: oltre che essere considerata una scienza è vista anche come linguaggio dell´arte. Il sette inoltre rappresentava un fenomeno misterioso, una specie di buco nelle capacità tecniche degli antichi Greci. Tutti i poligoni regolari, dal triangolo all´ennagono, potevano essere costruiti con riga e compasso tranne quello con sette lati. Un esercizio che si è dimostrato scientificamente impossibile solo 2000 anni dopo.
Ma quando si va a scavare nella storia più antica della matematica si trovano altre curiose testimonianze. Nel papiro egizio Rhind che risale al 1900 avanti Cristo c´è una filastrocca che racconta di sette gatti che cacciano sette topi che hanno mangiato sette sacchi di chicchi di grano con cui si sarebbero coltivati sette campi...
Newton, facendo esperimenti col prisma, isolò nello spettro della luce sette colori, come se fosse una scala musicale. Nell´artista inevitabilmente tutte queste associazioni creano stimoli per provocare infinite suggestioni.

Repubblica Roma 29.12.07
Maurizio Pollini. La grande musica come un racconto lungo nove serate
Parla il grande pianista all’Auditorium dal 5 gennaio con le sue "Prospettive", incontri fra artisti
di Leonetta Bentivoglio


Maurizio Pollini torna a Roma in gennaio per un progetto che riflette in pieno, nel rigore e nell´originalità delle scelte, la sua peculiare fisionomia di musicista. Quest´anti-divo adorato dal pubblico, e teso alla ricerca di una perfezione ideale, ha mostrato spesso, negli ultimi anni, il bisogno di delineare programmi rivelatori e sorprendenti, costruiti sul confronto tra musiche diverse e autori storicamente lontani. Reti di accostamenti trasversali «all´interno di quel gigantesco contenitore di stili e pensiero compositivo che è la storia della musica, da guardare come un unico racconto, non uniforme ma organico», afferma.
Così nascono i "Progetti Pollini", testimonianze di una ricchezza linguistica che supera ripartizioni per epoche e specialismi, e capaci di stimolare il pubblico comunicandogli la sfaccettata intensità dell´esperienza musicale. Ora, col titolo di "Pollini Prospettive", e ancora su invito di Santa Cecilia all´Auditorium (che ospitò un "Progetto Pollini" nel 2003), il più esigente e atteso tra i pianisti dà il via a una nuova serie, con cinque programmi e nove serate, dal 5 al 29 gennaio, suonando tra l´altro per la prima volta con Antonio Pappano, direttore musicale dell´orchestra ceciliana, il primo e il secondo Concerto per pianoforte di Brahms.
«Queste "Prospettive" tracciano un percorso parallelo tra musica romantica e contemporanea», spiega. «Ci saranno Chopin, il Boulez della Seconda Sonata, Stockhausen e Schönberg eseguiti nella stessa sera del Quintetto in fa minore op. 34 di Brahms, e ancora Maderna, Webern, Debussy, Nono...»
Luigi Nono sembra irrinunciabile nei suoi programmi.
«A Roma saranno eseguiti due suoi pezzi: ...sofferte onde serene..., che scrisse per me, e A floresta è jovem e cheja de vida, del periodo politico più acceso di Nono, dedicato al fronte di liberazione del Vietnam. Sempre attualissimo, perché da vivere e ascoltare come un manifesto contro ogni guerra».
Stockhausen è un altro dei compositori che esegue spesso.
«I suoi Klavierstücke sono tra le opere più notevoli scritte per pianoforte nella seconda metà del Novecento. In questa serie ci sarà una presenza forte di maestri della modernità più che di giovani compositori».
Pensa che oggi domini un pensiero musicale "debole"?
«No, sono convinto che ci siano giovani interessanti. Ma autori come Boulez, Nono e Stockhausen sono un riferimento obbligato per il progresso dell´ascolto e la comprensione della musica odierna. Certe composizioni sono state decisive per il rinnovarsi del linguaggio, e sono convinto che gli spettatori avvertano quanto siano necessarie e dense di ragioni critiche, anche se sembrano ostiche».
Lei dà l´immagine di un pianista che si è posto al servizio della musica, nell´estraneità a qualsiasi sfoggio di bravura.
«Ciò che conta è la capacità di trasmettere qualcosa del mondo di un compositore, e il viaggio di appropriazione dell´opera coinvolge la sensibilità dell´interprete, che serve l´autore in modo attivo e personale. Senza questo coinvolgimento, se non si sviluppano affinità, il nostro lavoro non ha senso».

Corriere della Sera 29.12.07
Il versante domestico del genio di Heidegger
di Armando Torno


Per il trentesimo della scomparsa di nonno Martin, la nipote Gertrud Heidegger ha raccolto — scegliendole e commentandole — le lettere che l'illustre filosofo scrisse alla moglie Elfride. Il melangolo, che tanti meriti ha in Italia per la diffusione degli scritti heideggeriani, pubblica la traduzione di tale epistolario sotto il titolo «Anima mia diletta!» (locuzione d'inizio di molte missive). Sono pagine che contengono diversi particolari della vita del pensatore. Si noti, per fare due esempi, che nel marzo 1933, dopo l'andata al potere di Hitler, Heidegger si reca da Jaspers (che aveva una moglie ebrea) e a Elfride racconta impressioni e l'avvenuto scambio di idee; nel 1939, «davanti alla sostanziale incertezza di un Occidente ovunque in armi», Heidegger scrive una frase impressionante: «Attualmente non si trova un punto fermo e quanto è stato finora è alla fine, anche se esteriormente i rapporti si conserveranno forse ancora a lungo».
Ma queste lettere restituiscono anche sentimenti, problemi e vicissitudini del filosofo che trovò sempre nella moglie un sostegno pratico e tentò di scrivere, senza riuscirvi, l'opera definitiva, lasciando ai posteri il compito di orientarsi verso un «altro inizio del pensiero » rispetto alla metafisica classica e moderna, ormai giunta al tramonto. Sappiamo infine dalla postfazione che Hermann, figlio legittimo di Martin e Elfride Heidegger, ebbe come padre naturale Friedel Caesar.
MARTIN HEIDEGGER, Anima mia diletta! Lettere alla moglie Elfride IL MELANGOLO PP. 383, e 28

Corriere della Sera Roma 29.12.07
Una mostra nello Studioangeletti sulla dimensione psichica dell'uomo
In viaggio sulla nave dei folli
Da Bacon a De Chirico, tante opere dai tratti visionari
di Valerio Magrelli


«Stultifera navis», ovvero «La nave dei folli» (in tedesco «Das Narrenschiff»), è il titolo di un libro che l'umanista tedesco Sebastian Brandt pubblicò nel 1494. Grazie a una équipe di illustratori scelti, fra cui Dürer, il testo fu arricchito da una serie di xilografie. Quanto al racconto, si tratta della storia di un gruppo di pazzi che, fra molte peripezie, si imbarca su una una nave per Narragonien, la terra promessa dei matti. Allo stesso periodo risale anche il capolavoro di Hyeronimus Bosch «La nave dei folli», un olio su tavola in cui viene ritratta una nave affollata che ha per nocchiere un suonatore di cornamusa, e per albero maestro, un albero della cuccagna.
Insomma, la bizzarra rappresentazione tardo-medievale era nota da secoli, ma a sottolinearne l'importanza è stato Michel Foucault. Il primo capitolo della sua «Storia della follia» spiega infatti che il potere espelleva i folli dalla città, per affidarli al controllo di marinai e battellieri.
Proprio in omaggio all'intuizione dello studioso francese, è stata inaugurata a Roma, presso lo Studioangeletti di via Gregoriana 5, l'esposizione «La nave dei folli », nata da un'idea di Cristiano Bernhard e Andrea Fogli. Partendo da una collezione di disegni e incisioni di artisti fra Otto e Novecento (e sotto la guida di un «capriccio » di Goya), l'allestimento verte su una genealogia di artisti dediti a scandagliare la dimensione psichica, con tratti potentemente visionari. Fra i 36 presenti, con Bellemer e Klinger, Ernst e Bacon, De Chirico e Licini, può essere curioso ricordare da un lato Giacometti, Kubin, Redon (che vedono tre loro mostre tuttora in corso a Parigi), dall'altro Eustachio, Gallo, Levini e Ontani (i cui lavori sono ospitati in questi giorni presso altrettante gallerie romane).
Molti i temi salienti, come quelli della vicinanza col mondo animale (come nella donna-elefante di Ziegler o nella maschera d'elefante di Cerone), o della suggestione esercitata da una sessualità violenta, spesso blasfema (dal «Pudore di Sodoma » di Rops, alla croce-escremento di Wols). Tuttavia, al di là della bellezza di molte opere (con le scoperte di nomi ancora poco noti quali Devriendt, Kraijer e Richar), il fascino di questo itinerario nella follia si deve all'intensità dell'effetto finale. L'osservatore, cioè, viene chiamato a una progressiva discesa nei paesaggi interiori. E allora si capisce l'ironico invito che Goya affida alle ombre dei suoi fantasmi: «Buon viaggio»!

il Riformista 29.12.07
L'obiettivo è fare le riforme di struttura
Guardando a Lombardi, Santi e Amendola
Dobbiamo basarci su un programma di rinnovamento
di Milziade Caprili


Caro direttore, alla domanda che tu poni con nettezza («Caro Fausto, è dirimente l'adesione al Pse»), Bertinotti risponderà, se vorrà, da par suo e non posso certo parlare io per lui. Posso dirti, però, che cosa penso e articolare il discorso su un tema a me caro, quello di "quale" cultura politica e di "quali" riferimenti ideali (e, appunto, internazionali) debba dotarsi il nuovo soggetto unitario e plurale della sinistra. Non prima, però, di rispondere alla questione dei riferimenti internazionali che tu poni. Sollevi un tema importante e che sarà decisivo, nei prossimi anni, tema che andrebbe ampliato a una riflessione, di respiro europeo, su cosa voglia dire, oggi, la parola "socialismo", ma per quanto riguarda Rifondazione (non Bertinotti), la risposta, almeno per l'oggi, non può che essere negativa. La scelta di Rifondazione è stata ed è, da tempo, netta: costruire una sinistra alternativa (anticapitalista, femminista, pacifista e verde) a sinistra del Pse. Continuiamo a pensare che ci sia bisogno, in Europa, di una tale sinistra, anche se non pensiamo affatto che debba, per forza, essere "nemica" del Pse. Anzi, può e deve allearsi al Pse, ove ve ne siano le condizioni. Il successo della Linke in Germania dimostra peraltro che è possibile non solo concepire una forza che stia a sinistra della Spd ma anche che questa può rappresentare, davanti all'elettorato e a pezzi importanti di classe dirigente, una possibilità diversa. Altra questione riguarda le altre forze che con noi stanno contribuendo a far nascere la "Sinistra l'Arcobaleno": alcune di esse, a partire da Sd, si richiamano esplicitamente al Pse, come pure ve ne sono alcune che, rispetto al tema della collocazione internazionale, sono forse indifferenti, come i Verdi. Nessun problema, comunque, a dialogare e allearci con forze che si richiamano al Pse, anzi: non possiamo prescindere dall'alleanza con esse, in Italia e fuori. Il problema è in quale direzione vanno le scelte politiche che si compiono: personalmente non avrei alcun problema a un richiamo esplicito, per quanto riguarda l'insieme delle forze della sinistra d'alternativa, al mondo e alle figure del lavoro. Del resto, sono certo che un "Partito del lavoro" avrebbe, in Italia, un significato ben diverso dalle politiche e dalle scelte perseguite, almeno negli ultimi decenni, dal Labour Party inglese. Come pure penso che il problema dei rapporti tra forze diverse (Pse e Sinistra europea, ma anche Verdi e altre forze autonome) ma nutrite da una comune matrice - antica o moderna - al campo socialista o al socialismo europeo, si porrà di certo, nei prossimi anni. E che non potremo, ripeto, che ridefinire cosa voglia dire socialismo.
Un soggetto unitario e plurale della sinistra, come quello che vogliamo costruire, non potrà del resto che alimentarsi di diverse culture: importante è infatti non da dove veniamo ma dove vogliamo andare, e molto di quello che vogliamo costruire sta - sperabilmente - fuori di noi: nei partiti "tradizionali" e, molto di più, nei concreti processi sociali che investono oggi la società, a partire - e drammaticamente - proprio dal mondo del lavoro. Insomma, il punto dirimente non è imbrigliare od omologare in un unico contenitore - interno o internazionale - le forze che lavorano a costruire la Sinistra arcobaleno ma stabilire quali politiche queste debbano perseguire. Io penso che siano soprattutto quelle del lavoro.
Anche e soprattutto per questo motivo, non ho alcun problema a trovare, in alcune figure del passato, affatto o non solo di cultura comunista, ma di matrice e cultura socialista, ottimi e validi riferimenti. Quella del socialista autonomista Riccardo Lombardi e di altri due importanti nomi - a mio parere innervati da identica tensione riformatrice - della sinistra italiana, Fernando Santi e Giorgio Amendola. Di Lombardi ritengo centrale la tensione ideale che - spiegava proprio in un dialogo con te, sul Riformista , Fausto Bertinotti - «pur nella sua coerenza acomunista, non ha mai rifiutato l'idea di una rottura del sistema capitalistico, anzi la cercava». L'autonomismo lombardiano era cioè molto diverso dal pensiero riformista autonomista classico del Psi, che accettava supinamente l'idea di un compromesso strategico con il capitalismo, portandolo a essere sempre subalterno a esso (e alla Dc). Non a caso, il vero cavallo di battaglia lombardiano è sempre stato quello delle "riforme di struttura", da interpretarsi «come una serie di duri colpi all'accumulazione capitalistica, e quindi al sistema». Si trattava, allora come oggi, di osare anche l'accusa di "neo-giacobinismo", nel preparare e avallare l'esperimento del centrosinistra, di cui Lombardi rifiutava nettamente l'annacquamento del programma. Di fronte all'idea, cioè, che bisognasse allearsi - allora con la Dc, oggi col Pd? - "solo" per salvare la democrazia, Lombardi rompe. E torna a investire sul partito, nella speranza (allora risultata vana, speriamo non lo sia oggi) di accumulare e far crescere le forze di una sinistra (il più possibile unita) per rilanciare in grande stile le "riforme di struttura". Anche dall'opposizione, se non si può dal governo. Su altrettanto grandi riforme, il governo Prodi e l'Unione si erano impegnate, ma oggi segnano il passo.
Di come vanno interpretate e vissute le riforme di strutture parlava così, se pur con robusto realismo, una eccezionale figura di sindacalista socialista unitario della Cgil, Fernando Santi, al XX congresso: «Noi non propugniamo la trasformazione totale e immediata della nostra struttura sociale, ci rendiamo conto che abbiamo la possibilità di risolvere soltanto i problemi che sono maturi in noi. Il che non voleva dire, per Santi - e non vuol dire per noi della sinistra oggi - che «non perdiamo il contatto con la realtà. Il vuoto massimalismo è il peggior nemico di ogni serio movimento operaio organizzato».
Nessun vano sogno neogiacobino, dunque, ma crudo realismo. Che a maggior ragione si imporrà oggi e domani di fronte alla possibilità che il nostro maggiore e principale alleato, il Pd, possa virare sempre più verso accordi neocentristi e neoconfidustriali. La sinistra d'alternativa deve riprendere e rilanciare, dunque, l'autonomia del suo progetto, deve vivere nello spazio grande e nel tempo lungo, per creare una grande forza europea del XXI secolo. Se tale è l'ambizione, tutto va ripensato, compreso l'essere o meno alleati del Pd, in chiave strategica. Ecco perché, come ha detto Bertinotti, «riconosco al Pd il diritto di trovarsi gli alleati che vuole, ma voglio garantire a noi il diritto di tornare all'opposizione». Ciò non implica affatto che la scelta tattica e strategica della sinistra che ci stiamo impegnando a costruire debba, ineluttabilmente, essere quella di una sorta di auto-condanna all'opposizione e che tale forza non debba porsi, con intelligenza e serietà, il problema del governo. Anzi, tutt'altro. E qui sovviene la storia e la cultura politica del Pci, che non solo si è impiantato, in modo duraturo, nel profondo della società italiana, costruendo un vero partito di massa, ma non ha mai rifiutato "a prescindere" responsabilità di governo, né nel secondo dopoguerra né durante la solidarietà nazionale.
Una tensione nazionale e europea, riformista (nel miglior senso "socialdemocratico" del termine) e riformatrice, quella del Pci, presentissima già in tempi altrettanto lontani, nel sogno di un dirigente pienamente riformista, a mio parere, come Giorgio Amendola. Che già nel 1964 lanciava con coraggio l'idea di un "partito unico della classe operaia". Perché - scriveva su Rinascita in risposta a Norberto Bobbio - «in Italia l'unificazione non si può fare né su posizioni socialdemocratiche né su posizioni comuniste». «È sulla base di un programma politico di rinnovamento - continuava Amendola - che si dovrà formare il nuovo partito unico, aperto. Non un partito ideologicamente neutro - chiariva - ma nemmeno ideologicamente chiuso, un partito politicamente attivo, capace di convogliare attorno a un programma politico forze di diversa origine e ispirazione». Parole e concetti simili dovrebbero essere accolte e condivise da chi oggi lavora per la riuscita dell'attuale nostro progetto di unificazione di una sinistra socialista, comunista, pacifista, femminista e verde. È su questa base che mi voglio misurare nella costruzione di una nuova Sinistra che sappia interloquire - oggi dal governo, domani si vedrà - anche con i liberaldemocratici del Pd e di certo con forze di ambito socialista. In Italia come in Europa.

il manifesto 29.12.07
Al confessionale del partito
Le autorappresentazioni pubbliche dei militanti comunisti rilette nel volume «La fabbrica del passato» di Mauro Boarelli per Feltrinelli. Documenti importanti per comprendere la formazione dei quadri del Pci
di Cesare Bermani


Forse il più grande archivio della scrittura popolare esistente al mondo è quello delle autobiografie richieste dai partiti comunisti ai propri militanti sin dall'origine dell'Internazionale comunista.
Nel decennio successivo alla Liberazione anche il Partito comunista italiano richiedeva ai propri militanti la narrazione della propria autobiografia. Mauro Boarelli, nel suo La fabbrica del passato (Feltrinelli, pp. 288, euro 19) ha studiato i racconti stilati da 1024 militanti, prevalentemente bolognesi, conservati presso l'Istituto Gramsci dell'Emilia Romagna. Ne deriva un'antropologia dei militanti comunisti nel Pci stalinista di quel decennio. Queste autorappresentazioni - soprattutto quando venivano chieste oralmente alla Scuola centrale di partito di Bologna - si tramutavano in un esame di coscienza pubblico che si concludeva ritualmente con l'ammissione dei difetti da correggere, con il riconoscimento del partito come strumento fondamentale della propria motivazione politica e con l'impegno ad adoperarsi per la realizzazione dei buoni propositi dichiarati. A turno gli ascoltatori si trasformavano da inquisitori in inquisiti, in uno scambio di ruolo che abituava al controllo reciproco tra militanti, fondamento della pratica denominata «critica e autocritica», strumento che finiva per invadere anche la vita privata e che trovava sanzione nello statuto del partito.
A scuola dai gesuiti
Il metodo rivelava un inconfessato peso della religione cattolica sul nascente «partito nuovo» togliattiano e richiamava per analogia il perinde ac cadaver dei gesuiti. Afferma oggi uno dei militanti comunisti intervistato da Boarelli: «Io ho fatto una breve esperienza cattolica. Quindi ho frequentato i circoli cattolici, vedevo che c'era la tendenza a sentirsi sempre in colpa, cioè a ricercare fin nel profondo le più piccole colpe che tu potessi avere, le tue abitudini di vita o cose di questo genere, e io questo l'ho ritrovato nei corsi di partito. Allora mi sembrava una bella cosa. Mi sembrava intanto di liberarmi di scorie, di colpe. Poi il piacere di dire agli altri: "Guardate io sono un esempio per voi.perché a lavorare mi comporto così, perché nella vita mi comporto così, perché i comunisti devono essere così"».
Mario Spinella, che dirigeva la scuola di Bologna, scriveva nel 1948 su «Rinascita» che queste confessioni pubbliche «non avvenivano senza scosse, senza crisi. Non è raro vedere compagni che hanno dietro le spalle anni di vita illegale e di lotta partigiana, che hanno resistito senza battere ciglio alle torture della polizia, con le lagrime agli occhi per la raggiunta consapevolezza delle proprie deficienze di carattere». Solo sette anni dopo, sulla stessa rivista, Carlo Salinari avrebbe notato che in quell'articolo «sembrava che il principale compito della scuola di partito fosse di abituare gli allievi all'esercizio dell'autoflagellazione». E nell'estate dell'anno successivo lo stesso Spinella avrebbe ricordato «con raccapriccio l'esaltazione che gli venne fatto di compiere della pratica confessionale delle autobiografie pubbliche».
A Milano quando, nel 1957, un IX congresso del Pci milanese elesse una nuova segreteria, Armando Cossutta, Rossana Rossanda e Francesco Scotti, entrati nell'Ufficio Quadri, si trovarono di fronte a schedari da dove - scrive Rossanda - «vennero fuori pacchi di biografie con sfoghi di cuore e miserande confessioni di colpe personali (del tipo: ho tradito mia moglie)». Sicché Cossutta «propose di dare il tutto alle fiamme senza leggere. C'era qualosa di torbido in quel bisogno di aprirsi al dirigente come a un sacerdote.. Quegli schedari andarono distrutti».
Quelle autobiografie - ha ricordato Giuseppe Marino nel suo Autoritratto del Pci staliniano (Editori Riuniti, 1991) - potevano infatti servire all'occorrenza «per più puntuali indagini e accertamenti, relativi al carattere, alle capacità e al livello di cultura, persino alla moralità, alle abitudini e ai comportamenti nella vita privata» dei vari militanti, ma «non di rado si concretizzavano in vere e proprie note caratteristiche riservate, cioè precluse alla conoscenza dei rispettivi intestatari e conservate negli archivi delle Federazioni per l'uso discrezionale che avrebbero potuto farne i dirigenti di grado superiore», trasformandosi così in uno strumento di discriminazione all'interno del partito. Erano il sale dello stalinismo e la loro distruzione - avvenuta solo dopo il XX Congresso del Pcus (febbraio 1956) e l'VIII Congresso del Pci (giugno 1956) - sta a simboleggiare veramente la fine di un'epoca.
Però è una fortuna che non tutti abbiano preso la decisione dei tre dirigenti milanesi, perché comunque in quelle confessioni una generazione di comunisti ha raccontato se stessa, anche se accettando di sottoporsi a una «prassi pedagogica» che piacerebbe a tutti noi che non fosse mai esistita.
La biblioteca del militante
Quei materiali gettano una vivida luce sul modo di essere e sulla cultura di quella generazione di militanti comunisti. Per esempio, attraverso quelle autorappresentazioni, Boarelli ne ha potuto ricostruire le letture, i loro libri: Il tallone di ferro di Jack London, Furore di John Steinbeck, La madre di Maksim Gor'kij, Come fu temprato l'acciaio di Nikolaj Ostrovskij e Storia del Partito comunista (bolscevico) dell'Urss, la Bibbia dello stalinismo supervisionata da Stalin stesso.
Questi libri vengono sottoposti a un'interessante analisi, che mette in luce come essi influenzassero non poco le stesse autorappresentazioni. Per esempio, nel romanzo di Ostrovskij, il protagonista dice alla donna che ama: «Sarei un cattivo marito se ti lasciassi credere che appartengo prima a te e poi al Partito. Io apparterrò prima al Partito e poi a te e agli altri parenti». E anche nelle autorappresentazioni sono frequenti affermazioni similari, per esempio: «Rispetto e voglio bene a mia moglie. Però al di sopra di tutto questo, il Partito».
Nelle autorappresentazioni Boarelli ha notato anche tracce di una dimensione religiosa, messianica e millenarista, che è pure ben presente nei libri di London e Gorkij, dove la similitudine con Cristo accomuna taluni loro personaggi e dove il movimento rivoluzionario che essi rappresentano ha un carattere religioso. Entrambi questi scrittori giungono infatti a identificare religione e socialismo, non poi così diversamente dall'evangelismo socialista di Camillo Prampolini, del quale ci sono in numerose autorappresentazioni vistose tracce.
Mi sono iscritto alla Fgci alla fine del 1955 e di quel partito stalinista ho conosciuto, per fortuna, soltanto i rantoli. Però nella mia biblioteca quei libri ci sono tutti, anche se ho subito avuto una netta ripulsa del manuale ispirato e in parte scritto da Stalin. Ricordo che Stefano Schiapparelli, già segretario della federazione del Pci di Novara, era solito ripetermi che un comunista doveva leggere non più di due libri e che uno dei due fosse la Storia del Partito comunista (b.) dell'URSS.
All'atto dell'iscrizione al partito gli dissi che l'avevo letta e che se, dopo averla letta, chiedevo ancora l'iscrizione dovevo proprio essere comunista.