mercoledì 2 gennaio 2008

l’Unità 2.1.08
Integrazione. Il Ghetto dell’Identità
di Jean-Paul Fitoussi


La stessa persona può essere britannica di origine malese con caratteristiche razziali cinesi, agente di borsa, poeta...

Il richiamo alla identità nazionale non va trasformato in una cortina fumogena dietro la quale l’inclusione è un sogno immateriale

Una volta andai a prendere al suo albergo il Nobel per l’economia Amartya Sen e l’addetta alla reception mi chiese se ero il suo autista. Dopo un momento di esitazione, feci un cenno di assenso con il capo. Quel giorno, tra le mie varie identità, la più ovvia per l’addetta alla reception era quella di autista.
Questa sensazione dell’identità multipla è un qualcosa che lo stesso Sen ha sottolineato maliziosamente nel suo libro «Identità e violenza»: «La stessa persona può essere, ad esempio, un cittadino britannico, di origine malese, con caratteristiche razziali cinesi, un agente di borsa, un non vegetariano, un asmatico, un linguista, un culturista, un poeta, un nemico dell’aborto, un amante degli uccelli e uno che crede che Dio ha inventato Darwin per mettere alla prova i creduloni».
Appena un minimo di introspezione basta a dimostrare che la nostra difficoltà a rispondere alla domanda «chi sono?» deriva dalla complessità insita nel distinguere tra le nostre molte identità e nel distinguerne l’architettura.
Chi sono, in realtà, e perché dovrei accettare che altri riducano ad una sola delle sue dimensioni la mia persona e la ricchezza della mia identità?
Eppure in questo riduzionismo si nasconde uno dei concetti dominanti del mondo contemporaneo: il multiculturalismo, secondo cui una delle nostre identità deve prevalere su tutte le altre e deve fungere da unico criterio per organizzare la società in gruppi distinti.
Oggigiorno ci viene detto spesso che le persone dispongono di soli due modi per integrarsi in una società: il modello “britannico” del pluralismo culturale e il modello “francese” basato sull’accettazione dei valori Repubblicani e, soprattutto, del concetto di uguaglianza.
Secondo il comune buon senso, il modello sociale della Gran Bretagna si fonda sulla coesistenza tra comunità diverse, ciascuna delle quali continua ad osservare le sue convenzioni e tradizioni nel rispetto delle leggi del Paese - una informale federazione di comunità. Ma il comune buon senso è completamente in errore in quanto le leggi britanniche riconoscono agli immigrati provenienti da tutti i Paesi del Commonwealth una cosa straordinaria: il diritto di votare persino alle elezioni politiche generali.
I cittadini sanno per esperienza che la democrazia non consiste nel solo suffragio universale, ma comporta anche che ci sia una sfera pubblica aperta indistintamente e paritariamente a tutti.
In Gran Bretagna, pertanto, un gruppo numerosissimo di immigrati condivide con i cittadini nati nel Paese il diritto di partecipare al dibattito pubblico su tutte le questioni di interesse generale, sia di carattere locale che nazionale. Dal momento che l’uguaglianza fondamentale è garantita in questo modo, il sistema britannico riesce ad affrontare meglio di altri l’espressione delle diverse identità.
Oggi, tuttavia, lo stesso governo britannico sembra dimenticare le condizioni di fondo del modello britannico cercando di soddisfare il desiderio di riconoscimento pubblico di alcune particolari comunità attraverso la promozione ufficiale di cose come le scuole confessionali sovvenzionate dallo Stato.
Secondo Amartya Sen, questo comportamento è deplorevole in quanto porta le persone a privilegiare una delle loro identità - diciamo quella religiosa o culturale - su tutte le altre in un momento in cui è essenziale che tutti i bambini allarghino il loro orizzonte intellettuale. Abbracciando questa sorta di separatismo che queste scuole rappresentano, è come se la Gran Bretagna dicesse «questa è la vostra identità e non potete avere null’altro». Questo approccio si traduce in comunitarismo non in multiculturalismo.
Negli ultimi anni anche il modello “francese” è stato oggetto di errate interpretazioni dovute alla confusione sul suo principio portante - l’autentica inclusione nella vita della società che significa autentica uguaglianza sotto il profilo dell’accesso ai servizi pubblici, al sistema dello Stato sociale, alle scuole e alle università, all’occupazione e via dicendo.
Il repubblicanismo riconosce a ciascun individuo, a prescindere dalla sua identità, parità di diritti per arrivare all’uguaglianza universale. Non nega le varie identità e garantisce a ciascuna di esse il diritto di esprimersi nell’ambito della sfera privata.
La tentazione del comunitarismo, intorno al quale in Francia va avanti il dibattito da almeno un decennio, origina dal desiderio di trasformare il fallimento della vera uguaglianza in qualcosa di positivo. Il comunitarismo offre l’integrazione nell’ambito dello spazio differenziato delle varie comunità - una sorta di reclusione ad opera della civiltà, direbbe Amartya Sen.
Ma non si può travestire il fallimento da successo. Fintanto che le aree urbane saranno socialmente ed economicamente depresse, il comunitarismo servirà solamente a mascherare la violazione del principio di uguaglianza. I gruppi sociali vengono di conseguenza misurati sotto il profilo delle differenze “etniche” o “razziali”.
Proprio in quanto sono state trascurate le condizioni sociali del “modello francese”, il modello è allo stato attuale una contraddizione vivente del suo principio di fondo: l’uguaglianza. Per invertire la tendenza, il repubblicanismo francese deve, al pari del multiculturalismo inglese, contraddire se stesso per realizzare se stesso. I francesi debbono riconoscere che l’uguaglianza davanti alla legge è un principio fondante, ma debole; deve essere integrato da una più rigorosa visione del modo in cui si arriva all’uguaglianza.
Questa visione dovrebbe rendere gli sforzi repubblicani proporzionali all’importanza della condizione di svantaggio della gente proprio per liberarla dal peso delle condizioni di partenza. Una vera uguaglianza nella sfera pubblica - che è diversa a seconda dei valori e della storia di ciascun Paese - implica un livello minimo di accettazione della storia e dei valori di un Paese.
Dice Amartya Sen che ciò che si accetta in tal modo è in realtà l’identità nazionale. Ma questa identità deve essere aperta. È una identità che condividiamo vivendo insieme e attraverso quanto abbiamo in comune, a prescindere dalle differenze tra le nostre identità multiple.
Il grande romanziere britannico Joseph Conrad, nato Jozef Teodor Konrad Korzeniowski da genitori polacchi nell’Ucraina governata dalla Russia, disse che la parole sono il principale nemico della realtà.
Il richiamo alla “identità nazionale” non va trasformato in una collettiva cortina fumogena dietro la quale l’inclusione diventa un sogno immateriale che coesiste con il comunitarismo che sta ora emergendo dal suo fallimento.

Jean-Paul Fitoussi è professore di economia all’Istituto di studi politici di Parigi e presidente dell’Ofce (l’Osservatorio francese della congiuntura economica) sempre a Parigi.
© Project Syndicate/Institute for Human Sciences, 2007 Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 2.1.08
Giustizia. Dei Diritti e delle Paure
di Giovanni Maria Flick


Il paradosso è che ogni «falsa» emergenza si nutre poi dei rituali per esorcizzare l’insicurezza che la genera: questi ultimi, a loro volta, divengono occasione di ulteriore, falsa emergenza...

Esiste oggi, drammaticamente, un agitato sentire sociale che - più o meno consapevolmente - associa tutta una serie di fenomeni, assai diversi tra loro, incanalandoli nell’unico, grande filone «emergenziale». Così, sentiamo evocare il concetto di emergenza tutte le volte in cui si è in presenza di una violenza che oltrepassa l’episodicità; in cui si assiste a episodi delittuosi che hanno una parvenza di serialità, per provenienza e modalità; o in cui si è di fronte a quella microcriminalità diffusa, che si esprime con cadenze costanti.
La presenza multietnica nelle nostre metropoli viene vista, immediatamente, come un’emergenza epocale al pari della tutela delle vittime; in generale, il problema della sicurezza viene, sempre più spesso, spostato «verso l’alto».
Ossia in quel contenitore onnicomprensivo ormai conosciuto - anche dai non addetti ai lavori - come “diritto penale dell’emergenza”. In esso, oggi, si tende a far confluire un po’ di tutto: dalle emarginazioni sociali ai disadattamenti della convivenza tra etnie diverse; dalla rinascita del “diritto penale d’autore” ai malesseri sociali: arrivando, persino, ad includervi i disagi della famiglia o delle microconvivenze, se è vero che, persino in occasione di efferati delitti maturati in ambito domestico, abbiamo letto che la stessa violenza in famiglia o verso amici o conviventi costituisce la “nuova emergenza” criminosa.
Ogni “falsa” emergenza, si nutre poi, naturalmente, dei rituali per esorcizzare l’insicurezza che la genera: questi ultimi, a loro volta, divengono - per un’eterogenesi di fini di immediata leggibilità - occasione di ulteriore, falsa emergenza. Rispetto ad un’irrazionale paura collettiva, nulla ha maggiore capacità di aggregazione (a buon mercato; e con il rischio di un populismo a sua volta aggregante) della minaccia di repressione penale: una risposta esemplare (“tolleranza zero” e “risposte forti”); simbolica (le “leggi manifesto”, anche prescindendo dalla verifica dell’esistente normativo, magari mai attuato); emotiva (le categorie del Tatertip, appunto, oppure la repressione proclamata al di là ed indipendentemente da ogni effettività di tutela). (...) L’emergenza che mette alla prova i diritti fondamentali della persona non è la “falsa” emergenza dei fenomeni microsociali e della paura sociale che essi generano. Essa, purtroppo, assume contorni ben diversi - emblematici e reali, al tempo stesso - a seconda delle situazioni da cui origina; ed è un concetto che ovviamente si relativizza nello spazio e nel tempo, assumendo connotazioni di gravità assai variegate che, a loro volta, generano differenti livelli di compressione dei diritti fondamentali.
È possibile, infatti, che un contesto di eccezionalità si realizzi in un dato momento storico per eventi o fenomeni della più varia natura: può trattarsi di catastrofi naturali; di guerre; di scontri sociali e simili. Ed è ovvio che a ciascun fenomeno corrispondano esigenze di tutela altrettanto differenziate. È la nostra Costituzione, ad esempio, a prevedere che in presenza di motivi di sanità possa essere limitata dalla legge la libertà di circolazione e di soggiorno sul territorio nazionale e possa essere compressa la inviolabilità del domicilio attraverso la esecuzione di ispezioni secondo le leggi speciali. (...)
Di fronte a questa pluralità di accezioni, mi sembra opportuno fermarsi a riflettere sul fenomeno che presenta in atto i connotati di più alto allarme collettivo: il terrorismo internazionale. Sono, infatti, proprio le gravissime forme in cui quel fenomeno tragicamente si esprime a rappresentare di per sé (aggredendo i singoli Stati, attraverso la emblematicità ed estensione dei fatti di sangue) l’emergenza collettiva di più estesa e percepibile pregnanza. Da tutto ciò scaturisce, dunque, il rischio che a tale acme di terrore, finiscano per corrispondere - sull’onda di logiche eccessivamente “semplificatorie” - deprecabili rimedi, per così dire, uguali e contrari, che finirebbero per travolgere i valori su cui si fonda il concetto stesso dello Stato di diritto. Qualsiasi struttura costituzionale, infatti, non può rinunciare - pena la sua evidente incongruenza giuridica - alla individuazione di una soglia minima di garanzie che devono proteggere l’individuo in quanto tale, a prescindere dalle esigenze di salvaguardia dello Stato collettività o, financo, dello stesso Stato persona.
Spesso ci si interroga su quale sia il crinale che distingue il diritto di difesa dalla “ingiusta” compressione del diritto altrui; ed è altrettanto frequente il richiamo ad un machiavellico principio di “fine che giustifica i mezzi”. Ma, per non superare quell’invalicabile crinale che è patrimonio coessenziale dello stesso Stato di diritto, occorre che i valori dell’individuo - che corrispondono “naturalmente” ai valori della collettività in cui esso si esprime - non vengano compressi al di là della soglia (variabile ma sempre identificabile in concreto) che ne determinerebbe la sostanziale vanificazione. In tale prospettiva deve quindi essere vista con estremo favore la recente iniziativa delle Nazioni Unite sulla moratoria della pena di morte, giacché è proprio questa la base etico-giuridica su cui edificare uno “statuto” dei diritti dell’individuo che viva nella concretezza delle dinamiche istituzionali, al di sopra e se si vuole anche a prescindere da qualsiasi “Carta” meramente declamatoria. (...)
Che certi gradi di divaricazione tra sicurezza e legalità (e dunque anche rispetto alla dignità) possano sussistere, è inevitabile, entro certi limiti, anche in situazioni ordinarie. Ciò che invece rappresenta un rischio (e, dunque, la prova per i diritti fondamentali) è una sorta di “cronicizzazione” e di “normalizzazione” dell’emergenza, idonee a trasformare il ricorso a misure eccezionali - quali ad esempio, la limitazione o la sospensione di diritti fondamentali - in una sorta di prevenzione senza fine, giustificata dal pericolo del terrorismo.
In breve, il pericolo è quello di enfatizzare e di strumentalizzare paure ed insicurezze sociali per veicolare limiti alle libertà, secondo il criterio dell’innesto all’apparenza innocuo e senza effetti collaterali: come un veleno che - assunto in dosi insignificanti, ma continue - determina l’assuefazione e, quindi, la tolleranza dell’organismo. Ora, questo effetto di “mitridatismo sociale” verso l’indebolimento dei diritti - vale a dire: questa condizione di immunità a più veleni per la democrazia, raggiunta tramite l’assuefazione, a causa dell’assunzione costante di dosi non letali di compressione dei diritti - è, probabilmente, il rischio più serio per questi ultimi, proprio in quanto idoneo ad alterarne la prospettiva.
È un rischio causato non tanto e non solo dall’assuefazione a tale indebolimento, quanto e soprattutto dalla confusione tra due piani temporali completamente diversi. Si rischia, cioè, di confondere l’orizzonte storico dei diritti fondamentali con il transeunte dell’emergenza, annullando, in quest’ultimo, lo stabile assetto dei primi. Per semplificare, il rischio è quello di invertire le proporzioni temporali dei due termini: considerare l’emergenza quale condizione duratura dell’odierna civiltà, quasi un portato inevitabile ed ineliminabile delle contraddizioni di un mondo assai poco omogeneo; e considerare, per contro, i diritti quale variabile dipendente, elastica, come qualcosa che può e deve plasmarsi secondo la contingenza storica, comprimibile e riespandibile e, dunque, adattabile alle circostanze.
In breve, una concezione mobile della dignità umana e dei diritti che la presidiano: perché col terrorismo dobbiamo convivere; mentre i diritti li possiamo comprimere. Correlato a ciò, è il rischio di trasformare il diritto penale - opportunamente derogato nei suoi principi fondamentali: legalità, materialità, offensività, personalità della responsabilità, colpevolezza, proporzionalità, rieducazione, giusto processo - in un ordinario diritto penale “del nemico”; magari esteso - una volta che l'innesto nel corpo sociale abbia avuto i primi effetti di assuefazione - anche a campi diversi, a manifestazioni criminali comuni. Persino ad una microcriminalità colorita con le tinte fosche della xenofobia.
Sono solo scenari apocalittici ? Non credo. Sono scenari possibili, soprattutto se, culturalmente, passa l’idea di una inconciliabilità della tenuta dei diritti di fronte all’emergenza; se, cioè, si pensa (e quindi si agisce) come se (ancora una volta) uno dei due termini della relazione dovesse comunque annullarsi. E, poiché non è in nostro potere il porre fine all’emergenza, è intuitivo capire quale sarebbe il termine sacrificato.

Il testo è tratto dall’intervento di Giovanni Maria Flick al convegno organizzato dall’Associazione Silvia Sandano in onore di Aharon Barak e che si è svolto all’Università La Sapienza di Roma lo scorso 6 dicembre

l’Unità 2.1.08
La legge sull’interruzione della gravidanza
Parte la crociata contro la 194
Bondi si schiera con Ruini e Ferrara


Giuliano Ferrara «suggerisce», il cardinale Ruini dà l’ordine, Bondi esegue: è partita la crociata contro la legge 194 sull’interruzione della gravidanza. Legge da «aggiornare» secondo il coordinatore di Forza Italia, ma anche a destra molti sono perplessi.

PIENA CONCORDANZA con le parole di monsignor Ruini, e l’annuncio di una mozione parlamentare per rivedere le linee guida della legge 194. Il coordinatore nazionale di Forza Italia, Sandro Bondi, premettendo di parlare «a titolo personale», plaude alle affermazioni dell’ex presidente della Cei, che in un’intervista al Tg5 si è detto favorevole alla proposta di una moratoria degli aborti lanciata dal direttore del Foglio Giuliano Ferrara dopo l’approvazione all’Onu della moratoria delle esecuzioni capitali. Ruini ha sostenuto la necessità di migliorare la legge sull’interruzione di gravidanza.
È un’iniziativa personale ma esprime valori condivisi da tutta Forza Italia, ha detto Bondi, che ha presentato alla Camera una mozione parlamentare per rivedere le linee guida della legge 194, sulla base della necessità di tenere conto delle nuove possibilità tecnologiche che rischiano di inficiarne i principi ispiratori». Lo ha annunciato lo stesso Bondi, sottolineando di «riconoscersi pienamente nelle parole di Sua Eminenza il Cardinale Camillo Ruini, intervenuto nel dibattito aperto dalla proposta di Giuliano Ferrara sulla difesa della vita.
«Parlo a titolo personale - spiega Bondi ma con la convinzione di dover rappresentare le ragioni dei laici come dei credenti di Forza Italia, uniti dalla difesa della dignità della persona e del valore sacro della vita. Ed è alla luce di questi valori che ho presentato la mozione parlamentare».
Ruini aveva apprezzato, nell’intervista alla tv Mediaset, la proposta di moratoria sull’aborto portata avanti da Giuliano Ferrara, ritenendo opportuno aggiornare la legge 194 sull’interruzione di gravidanza. «Credo che dopo il risultato felice ottenuto riguardo alla pena di morte fosse molto logico richiamare il tema dell’aborto e chiedere una moratoria - afferma il vicario del Papa per la diocesi di Roma - quantomeno per stimolare, risvegliare le coscienze di tutti, per aiutare a rendersi conto che il bambino in seno alla madre è davvero un essere umano e che la sua soppressione è inevitabilmente la soppressione di un essere umano».
«In secondo luogo - prosegue l’ex presidente della Cei - si può sperare che da questa moratoria venga anche uno stimolo per l’Italia, quantomeno per applicare integralmente la legge sull’aborto che dice di essere legge che intende difendere la vita, quindi applicare questa legge in quelle parti che davvero possono essere di difesa della vita e forse, a trenta anni ormai dalla legge - aggiunge Ruini - aggiornarla al progresso scientifico che ad esempio ha fatto fare grandi passi avanti alla sopravvivenza dei bambini prematuri». «Diventa veramente inammissibile - conclude il porporato - procedere all’aborto ad una età del feto nella quale egli potrebbe vivere anche da solo».
La posizione di Bondi si scontra però con quella dell’Udc, motivata dal vice presidente del Senato Mario Baccini. «Dobbiamo fare una seria promozione della vita - premette l’esponente centrista - in tutti gli ambienti e in tutti i segmenti della società. E solo quando saremo pronti e sicuri di vincere con convinzione, senza forzature, la battaglia in Parlamento - avverte Baccini - varrà la pena di proporre la revisione delle linee guida della 194, altrimenti si corre solo il rischio di rafforzare l’area abortista».

l’Unità 2.1.08
Sesso e metafisica nella Francia del Settecento
di Anna Tito


ARRIVA in edizione italiana Thérèse philosophe, capolavoro della letteratura erotica apparso nel 1748 e sequestrato per ben dodici volte. Attribuito a Denis Diderot, andò a ruba al mercato clandestino

Ecco infine proposto, in edizione italiana, grazie a Coniglio edizioni e alla cura dell’uomo di teatro e scrittore Riccardo Reim, Thérèse philosophe (pp. 140, euro 13), capolavoro della letteratura erotica del Settecento francese, apparso nel 1748, sequestrato per ben dodici volte, ristampato a sedici riprese, richiesto a migliaia di copie, e in cui gli argomenti filosofici in favore dell’ateismo e della sensualità vengono a intrecciarsi con la denuncia dei costumi del clero e le lezioni di contraccezione.
A conferma dell’intramontabile successo del libro libertino più venduto del XVIII secolo, nonché della sua incontestabile attualità, lo scorso aprile nel parigino Odéon-Théâtre de l’Europe, lo spettacolo della durata di 3 ore e 45 minuti messo in scena dal russo Anatoli Vassiliev, e dedicato a Thérèse, ha visto il tutto esaurito per la ventina e più di repliche proposte.
Primo in classifica, dunque, fra i best-seller «proibiti» dell’Illuminismo, venduti ovunque dagli ambulanti «sotto il mantello», Thérèse philosophe fu attribuito di volta in volta sia allo scrittore e filosofo fondatore dell’Encyclopédie Denis Diderot sia - come ebbe ad affermare il marchese Donatien-Alphonse-François de Sade nella sua Nouvelle Justine nel 1799 per indurre la propria eroina a «prosperare nel vizio» - a un altro «divino marchese», anch’esso libertino del Settecento, de Boyer marchese d’Argens. E lo pubblicava, così come altre opere censurate, la svizzera Société Typographique di Neuchâtel, fra le principali case editrici che fiorirono intorno ai confini francesi per soddisfare la domanda di edizioni pirata e di libri proibiti all’interno del Regno.
Come in molti classici della «tradizione pornografica», la narrazione di Thérèse consiste in una sequela di amplessi, ma in questo caso raccordati fra loro da dialoghi di argomento metafisico, che permettono ai partner di tirare il fiato e rimettersi in forze prima di rituffarsi nei loro piaceri, binomio tipico dello spirito libertino del Settecento, in cui Sesso e Metafisica andavano di pari passo.
La trama del romanzo appare semplice: ispirandosi a un clamoroso fatto di cronaca realmente accaduto alcuni anni addietro, l’anonimo autore narra di un padre gesuita, Girard, anagrammato in Dirrag, direttore di un istituto femminile di penitenza, che corrompe Caterina Cadière, fanciulla pia e innocente, figlia di un agiato commerciante di provincia e il cui cognome diviene, anch’esso anagrammato, Eradice; quando la ragazza rimane incinta a seguito dei frequenti «rapimenti mistici», per dirla con Thérèse, il religioso la induce all’aborto.
Al processo, nonostante l’indignazione generale, Girard viene assolto e Caterina condannata per diffamazione.
A questa vicenda il supposto Diderot o marchese d’Argens attinge per attaccare in maniera feroce il clero, la sua ipocrisia e la religione, tracciando un quadro senza veli della società e della Chiesa sotto il regno di Luigi XV: la protagonista, la filosofa Thérèse, compare come voce narrante che viene a renderci una descrizione quanto mai viva delle «avventure» più o meno mirabolanti e «sconvenienti» delle quali essa è sempre la segreta e attenta testimone, pronta a trarne sagge conclusioni «per amore della verità e del bene pubblico» e, in quanto a sé, graziosamente disposta a ricavarne «un’onesta contropartita», respingendo tutti i conformismi del suo tempo. E giunge alla conclusione che «non vi è bene e male che in rapporto agli uomini, non in rapporto a Dio». Delizioso e ben scritto - dal linguaggio estremamente garbato pur trattandosi di un’opera «pornografica» - il libello Thérèse philosophe presenta delle conversazioni sulla religione naturale «molto forti e pericolose».
Il 24 luglio del 1749 Diderot fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Vincennes, sospettato di essere autore dello «scandaloso» opuscolo, al quale però mai accennò in seguito, neppure per rinnegarlo.
Erano quegli gli anni in cui si andava in prigione, e molto facilmente, sostenendo tesi volte a scalfire il dogma religioso, sia con la satira sia con dissertazioni scientifiche e filosofiche. Ma era stato davvero lui a dar vita alle «piccole avventure» che la giovane Thérèse narra, senza troppe censure e senza soverchie ipocrisie, al suo «caro benefattore» Père Girard, e che ci fa partecipi delle vicende che costituiscono il suo «tirocinio» sulla via del piacere? Schedato come «cattivo soggetto» anche in quanto autore di I gioielli indiscreti e dell’empia Lettre sur les aveugles, si volle attribuire al fondatore dell’Encyclopédie anche la paternità di Thérèse philosophe.
Va riconosciuto che Diderot e Thérèse appartengono allo stesso mondo, libertino, insolente e spregiudicato del primo Illuminismo, per il quale non vi era nulla di intoccabile e nulla di sacro. L’autore di Thérèse attinge al serbatoio delle tesi libertine per attaccare il Cristianesimo sul piano filosofico e difenderlo come strumento politico e sociale.
Thérèse era una libertina, ma anche e soprattutto, philosophe, come sottolinea il titolo: ogni aneddoto diviene il pretesto per una dissertazione sull’esistenza, l’amore, la religione o le leggi, un esemplare trionfo dei sensi e dell’Illuminismo, a scapito, in particolare, del clero. E proprio questo spedì Diderot, autore o meno di Thérèse philosophe, a Vincennes: l’irriverenza nei confronti della religione e dei suoi ministri, nonché il costante riferimento alle vicende del suo tempo.

l’Unità 2.1.08
Mamma, ho perso la sinistra...
di Fulvio Abbate


Fra le domande che il nuovo anno ci consegna, ne esiste una molto grossa, ciclopica, che, comunque la si pensi, dovrebbe interessare, se non altro, le persone curiose, perfino coloro che, strada facendo, hanno scoperto una vocazione diciamo pure «neo-moderata», una vocazione che li rende perfettamente adeguati per raggiungere con soddisfazione il contenitore politico del Partito democratico. Fra le domande che l’anno appena cominciato ci offre, ce n’è appunto una che può riguardare sia la riflessione pura al limite della speculazione storico-filosofia modello base sia la partecipazione diretta a un’esigenza culturale e politica, forse perfino emotiva. Ed eccola la domanda che il 2008 si porta subito dietro, ma che dico?, ci piazza davanti agli occhi, come un grosso pacco da smistare: in Italia esisterà ancora una qualche forma di sinistra da qui a qualche mese? Fra le ragioni che rendono plausibile, se non proprio necessaria questa nostra semplice domanda, c’è innanzitutto un problema di ricorrenze storiche, ricorrenze importanti, ricorrenze del genere che impone di riflettere e discutere, ammesso che tu non sia proprio un indifferente, una persona assente alle passioni. Esatto: da poche ore, grazie alla presenza del numero 8, lo stesso cui viene attribuito un valore cristologico, ci sarà da fare i conti con almeno due anniversari: il primo, mostra l’eco dell’anno 1948, l’altro, e già ne abbiamo un certo sentore, inquadra invece le cifre del 1968, l’anno-categoria non meno per eccellenza, l’anno che consegna al curioso, e magari perfino al semplice uomo di mondo, un fardello di barricate e di domande, l’anno della rivolta, l’anno che, tanto per dirne una, ha messo fine al divieto di presentarsi a scuola in jeans: anzi in blue-jeans, come si diceva allora.
Dunque, insieme al ricordo del ’68, al di là dei mille luoghi comuni che già non stentiamo a immaginare, ci sarà modo di fare i conti con una domanda non eludibile. Assodato che, salvo imprevisti dell’ultima ora, al termine sinistra associamo alcune istanze necessarie a un processo di liberazione dal bisogno e dalle imposizioni dell’ordine borghese costituito, roba tosta come abolizione della proprietà privata e introduzione dell’amore libero per decreto ministeriale, assodato che si tratta di cose non negoziabili, ovviamente insieme all’affermazione di uno stato laico, ci sarà da chiedersi quali dei personaggi che fino a oggi hanno amato rappresentare il marchio della sinistra sapranno farsi carico di questo semplice programma politico. Forse Fausto Bertinotti? Forse Oliviero Diliberto? Forse Fabio Mussi? Forse Marco Rizzo? Esiste forse un nesso fra il futuro immediato e quell’UFO che da un po’ di tempo amiamo definire «Cosa rossa»? E se sì, in quali tempi e con quali parole d’ordine e aspettative? Parlo di UFO perché la visione delle due giornate costituenti che si sono svolte poco più di un mese fa nello spettrale scenario della Nuova Fiera di Roma non prometteva nulla di buono, mostrava un’assenza assoluto di simbolico a favore di un qualcosa che rimandava, complice il contesto architettonico, a un film tanto struggente quanto pessimista di Jacques Tati come Play Time.
Intendiamoci, non sta scritto da nessuna parte che la sinistra debba esserci per forza insieme a un suo organismo ufficiale ben definito burocraticamente, anzi, giusto per essere prosaici, non esiste nessuna prescrizione medica ad imporlo, ciononostante, perfino al di là di coloro che hanno scelto la confortevolezza neo-moderata del Partito democratico di Veltroni ed ex democristiani di sinistra, resta la domanda su dove in sua assenza potranno riunirsi coloro che per semplice indole non sanno fare a meno di coltivare la rabbia e la voglia di rivolta. Sarà pure una debole minoranza, ma dovrà esserci pure un ricovero, una palafitta, un campo profughi in grado di accogliergli. Gli anniversari, a meno che non si tratti di un evento privato, servono a riflettere anche su queste cose. Il ricordo del ’68 è già qui, e le risposte sono necessarie, doverose.

Repubblica 2.1.08
I 60 anni della Carta
Che cosa resta della nostra Costituzione
di Stefano Rodotà


Stanno nascendo "costituzioni parallele" che, direttamente o indirettamente, mirano a mettere in discussione, o a cancellare del tutto, la prima parte della Costituzione italiana quella dei principi, delle libertà e dei diritti – varata esattamente 60 anni fa. Il più noto di questi tentativi è quello che le gerarchie cattoliche perseguono ormai da tempo, affermando la superiorità e la non negoziabilità dei propri valori e denunciando il relativismo delle carte dei diritti, a cominciare dalla Dichiarazione universale dell´Onu del 1948, considerate frutto di mediocri aggiustamenti politici. Ma non deve essere sottovalutato un prodotto di quest´ultima stagione, l´annuncio di "manifesti dei valori" ai quali le nuove forze politiche vogliono affidare una loro "ben rotonda identità". Il mutamento di terminologia è rivelatore. Non più "programmi" politici, ma manifesti, un tipo di documento che storicamente ha valore oppositivo, addirittura di denuncia dell´ordine esistente. E oggi proprio l´ordine costituzionale finisce con l´essere messo in discussione.
Viene abbandonata la politica costituzionale, già indebolita, ma che pur nei contrasti aveva accompagnato la vita della Repubblica, contraddistinto battaglie come quella dell´"attuazione costituzionale", segnato stagioni come quella del "disgelo costituzionale". Al suo posto si sta insediando un dissennato Kulturkampf, una battaglia tra valori che sembra muovere dalla impossibilità di trovare comuni punti di riferimento. L´identità costituzionale repubblicana è cancellata, al suo posto scorgiamo la pretesa di imporre una verità o la ricerca affannosa di compromessi mediocri.
Nel linguaggio di troppi politici i riferimenti alle encicliche papali hanno sostituito quelli agli articoli della Costituzione. Nelle parole di altri si rispecchiano una regressione culturale, una corsa alle risposte congiunturali, più che una matura riflessione sui principi che devono guidare l´azione politica. Ci si allontana dal passato senza la lungimiranza di chi sa cogliere il futuro.
Questo è forse l´effetto di un inesorabile invecchiamento della Costituzione della quale, a sessant´anni dalla nascita, saremmo chiamati non a celebrare la vitalità, ma a registrare la decrepitezza? L´intoccabilità della prima parte deve cedere ai colpi inflitti dal mutare dei tempi?
Ribadito che siamo di fronte a un tema distinto dalla buona "manutenzione" della seconda parte, che disciplina i meccanismi istituzionali, proviamo a saggiare la tenuta dei principi costituzionali considerando proprio questioni recenti, per vedere se non sia proprio lì la bussola democratica, liberamente e concordemente definita, alla quale tutti devono riferirsi. Partiamo dall´attualità più dura, dalle morti sul lavoro, delle quali la tragedia della Thyssen Krupp è divenuta l´emblema. L´articolo 41 della Costituzione è chiarissimo: l´iniziativa economica privata è libera, ma «non può svolgersi in contrasto con l´utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Questa sarebbe una incrostazione da eliminare perché in contrasto con la pura logica di mercato? Qualcuno lo ha proposto, ma spero che la violenza della realtà lo abbia fatto rinsavire. Oggi è proprio da lì che bisogna ripartire, da una sicurezza inscindibile dal rispetto della libertà e della dignità, dalla considerazione del salario non solo come ciò che consente di acquistare un lavoro sempre più ridotto a merce, ma come il mezzo che deve garantire al lavoratore ed alla sua famiglia «un´esistenza libera e dignitosa» (articolo 36). Questione ineludibile di fronte ad un processo produttivo che, grazie anche alle tecnologie, si impadronisce sempre più profondamente della persona stessa del lavoratore. La trama costituzionale ci parla così di una «riserva di umanità» che non può essere scalfita, ci proietta ben al di là della condizione del lavoratore, mette in discussione un riduzionismo economicistico che vorrebbe l´intero mondo sempre più simile alla New York descritta da Melville all´inizio di Moby Dick, che «il commercio cinge con la sua risacca».
Altrettanto irrispettosa della vita è la decisione del Comune di Milano di non ammettere nelle scuole materne comunali i figli di immigrati senza permesso di soggiorno. È davvero violenza estrema quella che esclude, che nega tutto ciò che è stato costruito in tema di eguaglianza e cittadinanza e, in un tempo di ripetute genuflessioni, ignora la stessa carità cristiana. Di nuovo la trama costituzionale può e deve guidarci, non solo con il divieto delle discriminazioni, ma con l´indicazione che vuole la Repubblica e le sue istituzioni obbligate a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l´eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (così l´articolo 3). E cittadinanza ormai è formula che non rinvia soltanto all´appartenenza ad uno Stato. Individua un nucleo di diritti fondamentali che non può essere limitato, che appartiene a ciascuno in quanto persona, che dev´essere garantito quale che sia il luogo in cui ci si trova a vivere. Hanno mai letto, al Comune di Milano, la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea? Sanno che in essa vi è un esplicito riconoscimento dei diritti dei bambini? Trascrivo i punti essenziali dell´articolo 24: «I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere… In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l´interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente». Di tutto questo, e non solo a Milano, non v´è consapevolezza, segno d´una sorta di pericolosa "decostituzionalizzazione" che si è abbattuta sul nostro sistema politico-istituzionale.
Ma seguire le indicazioni della Costituzione rimane un dovere. Certo, serve una cultura adeguata, perduta in questi anni e che ora sta recuperando una magistratura colta e consapevole, che affronta le questioni difficili del nascere, vivere e morire proprio partendo dai principi costituzionali, ricostruendo rigorosamente il quadro in cui si collocano diritti e libertà delle persone, risolvendo casi specifici come quelli riguardanti l´interruzione dei trattamenti per chi si trovi in stato vegetativo permanente, il rifiuto di cure, la diagnosi preimpianto. Ma proprio questo serissimo lavoro di approfondimento sta rivelando la distanza tra cultura costituzionale e cultura politica. Sembra quasi che, prodighi di dichiarazioni, troppi esponenti politici non trovino più il tempo per leggere le sentenze e le ordinanze che commentano, o non abbiano più gli strumenti necessari per analisi adeguate. Fioccano le invettive e le minacce: «invasione delle competenze del legislatore», «ricorreremo alla Corte costituzionale». Ora, se questi frettolosi commentatori conoscessero davvero la Corte, si renderebbero conto che le deprecate decisioni della magistratura seguono proprio una sua indicazione generale, che vuole l´interpretazione della legge "costituzionalmente orientata": Nel caso della diagnosi preimpianto, anzi, sono stati proprio i giudici a bloccare una pericolosa invasione da parte del Governo delle competenze del legislatore, che non aveva affatto previsto il divieto di quel tipo di diagnosi, poi introdotto illegittimamente da un semplice decreto ministeriale.
La stessa linea interpretativa dovrebbe essere seguita nella controversa materia delle unioni di fatto, al cui riconoscimento non può essere opposta una lettura angusta dell´articolo 29, già superata negli anni 70 con la riforma del diritto di famiglia. Parlando di «società naturale fondata sul matrimonio», la Costituzione non ha voluto escludere ogni considerazione di altre forme di convivenza, tanto che l´articolo 30 parla esplicitamente di doveri verso i figli nati "fuori del matrimonio"; e l´articolo 2, per iniziativa cattolica, attribuisce particolare rilevanza giuridica alle "formazioni sociali", di cui le unioni di fatto sono sicuramente parte. Linea interpretativa, peraltro, confermata dall´articolo 9 Carta dei diritti fondamentali che mette sullo stesso piano famiglia fondata sul matrimonio e altre forme di convivenza, per le quali è caduto il riferimento alla diversità di sesso. Che dire, poi, delle resistenze contro una più netta condanna delle discriminazioni basate sull´orientamento sessuale, che costituisce attuazione degli impegni assunti con i trattati europei e la Carta dei diritti? Dopo esserci allontanati dalla nostra Costituzione, fuggiremo anche dall´Europa e ci sottrarremo ai nostri obblighi internazionali?
Nella Costituzione vi sono molte potenzialità da sviluppare, come già è accaduto con il diritto al paesaggio e la tutela della salute. Quando si dice che la proprietà deve essere "accessibile a tutti", si leggono parole che colgono le nuove questioni poste dall´utilizzazione dell´enorme patrimonio di conoscenze esistente in Internet. E la rilettura delle libertà di circolazione e comunicazione può dare risposte ai problemi posti dalle tecnologie della sorveglianza e dalle gigantesche raccolte di dati telefonici. Vi è, dunque, una "riscoperta" obbligata di una Costituzione tutt´altro che invecchiata e imbalsamata, che regge benissimo il confronto con l´Europa, che rimane l´unica base democratica per una discussione sui valori sottratta alle contingenze ed alle ideologie. Questo richiede l´apertura di una nuova fase di "attuazione" costituzionale". Chi sarà capace di farlo?

Corriere della Sera 2.1.08
Cattolici e comunisti. Un incontro fuori tempo
di Ernesto Galli Della Loggia


Una parte significativa, qualcuno forse direbbe una gran parte, della storia politica dell'Italia repubblicana è stata occupata dal rapporto tra i cattolici e i comunisti. Entrambi legati profondamente alle masse popolari; entrambi animati da ideali universalistici fondati sulla solidarietà e sul rifiuto dei valori acquisitivi; entrambi estranei alla cultura delle élite statali tradizionali: dopo il 1945 tutto era fatto per avvicinarli. E infatti allora e dopo reciproche attrazioni ideologiche si fecero sentire non poco, specie tra gli intellettuali. Nell'incontro con i comunisti molti cattolici vagheggiarono il più facile compimento di una radicale promessa di giustizia sociale; nella collaborazione con i cattolici, dal canto loro, molti comunisti videro la premessa per un consenso delle masse popolari capace di rendere la «via italiana al socialismo » una cosa diversa dalla tenebrosa prospettiva sovietica. A fare in modo che l'incontro restasse almeno potenzialmente possibile in futuro ci pensarono due decisioni strategiche di Togliatti e di De Gasperi: da un lato il voto del Pci a favore dell'inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione, con cui i comunisti non solo sancirono la loro assoluta diversità dal laicismo delle vecchie élite liberal- democratiche, ma provvidero altresì a spogliare di qualunque riflesso internazionale con la Santa Sede ogni loro eventuale rapporto con i cattolici; dall'altro il rifiuto del leader trentino, a dispetto della scomunica del '49 e delle pressioni del «partito americano », di procedere alla messa fuori legge del Partito comunista.
Ma nella Prima Repubblica, come si sa, quell'incontro non ci fu, se non in forme spurie e provvisorie. Dovrebbe invece esserci ora nel Partito democratico, si dice. Si dice anzi che il Partito democratico in quanto tale sarebbe il sospirato frutto di quell'incontro a lungo rimandato. Così a lungo rimandato da avvenire però, oggi, in condizioni che lo rendono, a me pare, cosa assai diversa da quella che avrebbe potuto essere un tempo, e politicamente molto più problematica.
Tra l'Italia di appena ieri e l'Italia di oggi è infatti intervenuta una gigantesca cesura: il cattolicesimo ha virtualmente cessato di essere la viva matrice dei valori culturali e degli orientamenti pratici della maggioranza della popolazione. Sicché mentre un tempo per esempio la borghesia, pur se politicamente progressista, aveva tuttavia una morale sessuale e familiare in larghissima misura coincidente con quella tradizionale cattolica, oggi, invece, proprio su questi terreni «etici» essa tende a fondare e ad affermare la propria identità politica di sinistra, inalberando l'insegna della «modernità». E' la «modernità », infatti, è essa, oggi, che è divenuta, insieme alla sua sorella la «laicità», assai più della «giustizia» o della «solidarietà» il vero e massimo connotato ideologico dello schieramento progressista.
«Modernità» che naturalmente coinvolge— muovendosi in questo caso specialmente lungo linee generazionali — anche le classi popolari. Le quali, quindi, oggi tendono a non avere più nel retaggio cristiano quel tratto unitario, al di là della destra e della sinistra, che esisteva fino a un paio di decenni fa e che, come il Pci sapeva bene, esigeva il dovuto rispetto.
Ma anche sul versante cattolico c'è oggi, rispetto a ieri, un'importantissima novità.
Proprio in coincidenza con il ruolo via via sempre più centrale che la «modernità» ha acquistato sull'orizzonte dell'epoca, e dunque anche nella società italiana, proprio in coincidenza con ciò — per ragioni che devono sottrarsi a una banale ripulsa in nome della «ragione» o della «libertà» come invece ama fare tanto laicismo nostrano intellettualmente torpido — la posizione cattolica ha preso a identificarsi con una critica sempre più approfondita e combattiva verso la medesima «modernità». O perlomeno verso la sua vulgata più facile e più diffusa: accettando lucidamente, in questa prospettiva, anche il rischio di finire per rappresentare una posizione virtualmente di minoranza.
Ce n'è abbastanza, mi pare, per rendere l'amalgama che dovrebbe realizzarsi nel Partito democratico tra postcomunisti e cattolici tanto diverso da quello (eventuale) del passato quanto di assai problematica utilità politica. L'amalgama odierno, infatti, non solo urta da un lato contro un'ideologia identitaria diffusa nel popolo di sinistra (la cosiddetta «modernità-laicità»), che ieri non era significativa e che oggi invece ha acquistato un fortissimo rilievo politico, ma urta anche contro il nuovo orientamento del cattolicesimo di cui si è detto. E come se non bastasse non è per nulla certo, anche a causa della mutata incidenza quantitativa dei cattolici nel Paese, che esso sarebbe la premessa di quella grande maggioranza elettorale che invece avrebbe sicuramente arriso qualche decennio fa all'antico incontro tra cattolici e comunisti.

Corriere della Sera 2.1.08
La «cattocomunista» Il racconto dei contatti tra partito e Santa Sede
«Io, Rodano e i rapporti Chiesa-Pci. Non capirono Togliatti e Berlinguer»
di Paolo Conti


«Temi così i comunisti li hanno sempre vissuti con dolore e sensazione di sconfitta. Mai pensato l'aborto fosse un bene»

ROMA — «Leggendo le parole del cardinal Bertone viene in mente un proverbio antico: del senno di poi son piene le fosse ». Marisa Cinciari Rodano, classe 1921, deputata, poi senatrice e parlamentare europea comunista dal 1948 al 1989, ha scritto col marito Franco Rodano gran parte di quel particolarissimo capitolo politico che fu il cattocomunismo. Ovvio che abbia letto con attenzione le parole di Tarcisio Bertone sul laicismo del Pd («La Chiesa italiana era più rispettata ai tempi della Dc e del Pci; Gramsci, Togliatti e Berlinguer non avrebbero mai approvato le derive che si profilano oggi »), le reazioni di Massimo Cacciari e di Armando Cossutta.
Cosa le è venuto in mente? «Che a suo tempo la Chiesa non riconobbe il lavoro di Togliatti e di Berlinguer. Ed è stato un peccato. Un esempio. Il Pci votò, alla Costituente, per l'inserimento dell'articolo 7 nella Costituzione ». Si trattava dei Patti Lateranensi e della indipendenza e sovranità di Chiesa e Stato. Ricorda Marisa Rodano: «Fummo attaccati dal Psi e dal Pri. La risposta della Chiesa nella campagna elettorale del 18 aprile 1948 furono i comitati civici di Gedda e le pressioni sui bambini nelle scuole materne perché impedissero ai genitori di votare comunista. È ingeneroso cercare di utilizzare una rivisitazione autocritica del passato per attaccare il presente. Verrebbe da dire: ci potevate pensare allora...».
Marisa Rodano (al congresso dei Ds votò per la mozione Mussi, quindi non aderisce al Pd) mantiene la raffinata capacità di polemica politica e una memoria di ferro. Non pensa che Bertone abbia le sue ragioni per attaccare le spinte laiciste del Pd? «Siamo in un momento di grande frantumazione politica. Normale che in un partito pluralista, deciso a non avere un unico riferimento ideologico e impegnato a far convivere posizioni ideali differenti, si formino frange laiciste. Ma esistono nel contempo le posizioni filo-Opus Dei della senatrice Binetti». Un appunto a Bertone: «Il cardinale avrebbe dovuto apprezzare l'elaborazione di Bindi e Pollastrini per mediare sulle coppie di fatto tenendo conto delle esigenze di tutti. Quello sforzo si colloca proprio nella tradizione che Bertone mostra di apprezzare... ».
Ma com'erano i rapporti tra Chiesa e Pci nel dopoguerra? Proprio a casa vostra si incontrarono spesso Palmiro Togliatti e don Giuseppe De Luca, che godeva in Curia della piena fiducia di prelati come Tardini e Ottaviani. Una bella pagina di Filippo Sacconi, della Sinistra Cristiana, ricostruisce la cena della notte di Natale del 1944: voi Rodano, lei in cucina e suo marito ad allestire il presepe, De Luca, Togliatti con la Montagnana... L'incontro segreto tra gli ambasciatori di due mondi. La voce di Marisa Rodano si addolcisce: «Lo scambio culturale fu intenso, con un completo riferimento al patrimonio culturale del '900 e ai problemi che si aprivano. Senza presunzioni e senza preclusioni». La scena si ripetè nell'ottobre 1961 quando De Luca, ancora a casa vostra, suggerì a Togliatti di convincere Kruscev a spedire un distensivo messaggio a Giovanni XXIII per i suoi ottant'anni: «Erano alla consapevole ricerca di soluzioni per la grave tensione internazionale. Togliatti lo aveva già detto, la Chiesa poteva avere un gran ruolo nella promozione della pace». Nostalgia di quel livello di rapporti? «L'impressione è che molti settori della gerarchia ecclesiastica abbiano l'idea antica di una società italiana ancella della Chiesa. Invece l'azione pastorale dovrebbe preparare le coscienze all'accettazione di quei principi senza l'ausilio del braccio secolare... Se guardassero meno ai media e più al Paese si accorgerebbero di una realtà ben diversa dalle loro fobie».
Un ultimo accenno, attualissimo: «Bertone dovrebbe ricordare che la nostra distinzione tra il principio di una piena libertà d'azione della Chiesa e la laicità dell'istituzione statale è sempre stata chiara: non obbligare nessuno a una scelta, offrire opportunità a chi le desidera». Per esempio? «Non abbiamo mai sostenuto che divorzio e aborto fossero un bene, anzi: si tratta sempre di dolore e di sconfitte. Ma uno Stato laico deve assicurare libertà di risolvere certi problemi secondo la propria coscienza».

Corriere della Sera 2.1.08
Il Papa: negare la famiglia minaccia la pace
Affondo di Benedetto XVI. Napolitano lo rassicura: è tutelata dalla Costituzione
di Luigi Accattoli


Le parole del Pontefice pronunciate in piazza San Pietro in occasione della Giornata della pace

CITTÀ DEL VATICANO — Nuova chiamata del Papa a difesa della famiglia in occasione, ieri, della Giornata della pace e scambio di saluti e di messaggi con il presidente Giorgio Napolitano, che in risposta all'appello papale sulla famiglia «principale agenzia di pace» ha ricordato in un messaggio — indirizzato a Benedetto XVI — che la «rilevanza » della famiglia è «pienamente riconosciuta» dalla Costituzione italiana.
Il presidente della Repubblica aveva rivolto un saluto al Papa nel messaggio del 31 sera, auspicando che la collaborazione tra Stato e Chiesa sia accompagnata da «un misurato e schietto confronto tra l'Italia e la Santa Sede, com'è nei voti — ne sono certo — del Pontefice Benedetto XVI».
Il Papa ha ricambiato il saluto ieri al momento dell'«angelus », ringraziando il presidente della Repubblica Napolitano per le parole che gli aveva rivolto: «Ricambio ben volentieri il suo augurio formulando ogni migliore auspicio per la sua alta missione e per la concordia e la prosperità dell'amato popolo italiano ».
Questa è stata l'affermazione più importante venuta dal Papa durante la celebrazione in San Pietro per la Giornata della pace, giunta alla quarantesima edizione (la prima fu indetta da Paolo VI nel 1968): «La famiglia naturale, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, è culla della vita e dell'amore e la prima e insostituibile educatrice alla pace».
Parlando all'«angelus» dalla finestra dello studio, Benedetto XVI ha affermato che «chi anche inconsapevolmente osteggia l'istituto familiare rende fragile la pace nell'intera comunità, nazionale e internazionale, perché indebolisce quella che, di fatto, è la principale agenzia di pace».
Così ha spiegato l'aiuto della famiglia alla pace: «Lo stesso amore che costruisce e tiene unita la famiglia, cellula vitale della società, favorisce l'instaurarsi tra i popoli della terra di quei rapporti di solidarietà e di collaborazione che si addicono a membri dell'unica famiglia umana».
«Famiglia umana comunità di pace» era il titolo del «messaggio» che il Papa aveva inviato a metà dicembre ai capi di Stato e di governo di tutto il mondo in vista della Giornata di ieri. E ieri il Quirinale ha pubblicato il messaggio di risposta del presidente Napolitano: la famiglia «è da sempre al centro della sensibilità del popolo italiano» mentre la politica estera italiana mira a servire «l'Uomo, la sua dignità, il suo diritto a esistere e coesistere » e tende a ottenere questo obiettivo «attraverso la valorizzazione della società naturale costituita dalla famiglia, cui Ella si riferisce e la cui rilevanza è pienamente riconosciuta in Italia dalla Costituzione repubblicana». L'affermazione di una «profonda e sentita adesione» al messaggio papale è anche contenuta in una lettera di risposta del ministro degli Esteri Massimo D'Alema inviata al cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano.
Ad ascoltare il Papa nella piazza di San Pietro ieri a mezzogiorno c'erano 60 mila persone e tra esse i ventimila partecipanti al corteo di pace promosso dalla Comunità di Sant'Egidio. Il Papa ha benedetto la «fiaccola della pace» che un maratoneta porterà in Terra Santa per iniziativa del «Centro sportivo italiano».

Corriere della Sera 2.1.08
Russo Spena, di Rifondazione: dal Quirinale avrei voluto un richiamo alla laicità dello Stato
D'Alema, adesione all'appello di Ratzinger
Ma nell'Unione scoppia la polemica. Bindi con il Pontefice, no di Boselli
di Gianna Fregonara


ROMA — Se per Benedetto XVI la famiglia è la «principale agenzia di pace», per Massimo D'Alema la famiglia è innanzitutto «insostituibile». Così scrive il ministro degli Esteri nel rituale messaggio di auguri al segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone: «Esprimo profonda e sentita adesione» al discorso del Papa in occasione della Giornata della pace. Un tema, quello della famiglia scelto dal Pontefice per il messaggio pastorale per il 2008, «particolarmente propizio», secondo D'Alema.
L'elogio della famiglia da parte del vicepremier non è una novità. Proprio qualche settimana fa, intervenendo in una scuola romana, D'Alema aveva parlato del matrimonio, rispondendo ad una domanda sui gay: «Non sono favorevole al matrimonio tra omosessuali — ma lo Stato deve riconoscere loro diritti civili e sociali — perché il matrimonio tra un uomo e una donna è il fondamento della famiglia, per la Costituzione.
E, per la maggioranza degli italiani, è pure un sacramento».
Le parole del vicepremier e soprattutto la sua «adesione» all'insostituibilità della famiglia come «principale agenzia di pace», in un tempo in cui «la globalizzazione ha pervaso la società», fanno discutere la maggioranza. Se Rosy Bindi, ministro cattolico della Famiglia, non può che essere entusiasta delle parole del Pontefice, che considera un «messaggio aperto alla speranza e alla vita, una verità alla portata di tutti», perplesso è il socialista Enrico Boselli: «È vero che la famiglia è il nucleo fondamentale della società, ma la famiglia è cambiata in questi anni e non è solo quella fondata sul matrimonio: in Italia ci sono un milione di famiglie fondate non sul matrimonio ma sul rispetto e sull'amore». Insomma: «Quello che vale per il Vaticano non può valere per uno Stato laico». E proprio a questo proposito al leader socialista non è piaciuto il fatto che nel discorso di Capodanno, «molto positivo e bello», il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non abbia fatto «un accenno deciso di difesa dello Stato laico dall'offensiva integralista».
Anche Giovanni Russo Spena, capogruppo di Rifondazione al Senato, si sarebbe aspettato un richiamo più forte sia da Napolitano che da D'Alema sulla laicità dello Stato: «D'Alema avrebbe dovuto nel suo messaggio tener conto anche del fatto che i cattolici democratici in Italia sono laici». Quanto all'elogio della famiglia, nulla da dire: «Non è più — spiega Russo Spena — questione di negare il ruolo della famiglia come è avvenuto in passato».
Piacciono invece sia a Marina Sereni, vicecapogruppo del Pd alla Camera, che a Peppino Caldarola le parole di D'Alema: «La famiglia non è solo un tema religioso. È giusto promuoverla come luogo della solidarietà e della crescita sociale — argomenta Sereni —. Il punto è che non bisogna mettere in discussione i diritti individuali. Quando si parla di famiglia, si intende il modo di stare insieme degli italiani, matrimoni o no. Non siamo troppo sospettosi sulle parole». Altro discorso invece sarà la capacità del Parlamento «di legiferare e tutelare anche altri tipi di convivenza». «Ma in questo contesto non c'entra, siamo su un altro livello — insiste Caldarola —. Ed è evidente a tutti che non c'è parita concettuale tra famiglia e altri modelli di convivenza. Non possiamo accettare che una minoranza laicista pretenda di imporre il suo modello alla maggioranza degli italiani». Parole che fanno sussultare il radicale Guido Viale, che invece accusa il Papa di aver «chiamato la famiglia alla guerra, stabilendo un collegamento improprio con la pace per negare i diritti», intesi quelli di chi non si vuol sposare o dei gay. «Ormai la politica italiana si è clericalizzata — attacca infatti Franco Grillini, presidente onorario dell'Arcigay —. L'Italia è un Paese clericale senza religione, succube del Vaticano, da Napolitano in giù».

Corriere della Sera 2.1.08
Il sito di un'associazione culturale ha chiesto a luminari e filosofi di raccontare i propri errori e pentimenti
Quando lo scienziato confessa: ho sbagliato
di Paola De Carolis


Dalle teorie sull'evoluzione alle differenze tra razze, in rete i mea culpa degli studiosi
Biologi, zoologi, sociologi e filosofi: gli scienziati ammettono i loro errori. Ecco dove hanno sbagliato

LONDRA — «Quando pensare modifica la tua opinione è filosofia, quando Dio ti fa cambiare idea è fede. Quando i fatti ti fanno vedere le cose in modo diverso è scienza». Questa l'introduzione al quesito per l'anno posto da un'associazione culturale cui aderiscono i principali pensatori del momento, da Richard Dawkins, lo zoologo britannico autore del libro culto Il gene egoista e più recentemente L'illusione di Dio, allo psicologo Steven Pinker passando per il musicista produttore Brian Eno.
Se nel 2006 aveva domandato ai suoi iscritti quale fosse l'idea più pericolosa e nel 2007 su che cosa si sentissero ottimisti, per il 2008 Edge (il sito è www.edge.org) ha lanciato una provocazione: su cosa avete cambiato idea? E perché? L'obiettivo era spingere gli scienziati, gli scrittori e i ricercatori che utilizzano regolarmente il sito ad ammettere, in un certo senso, i propri errori.
Centinaia di loro hanno raccolto l'invito (a tanta solerzia ha forse contribuito il fatto che le ultime edizioni delle risposte sono state pubblicate sotto forma di libro), rivelando una gamma di dietro front tra il clamoroso e il simpatico.
Mark Pagel, biologo evoluzionista dell'università di Reading, sostiene ad esempio che parlare di differenze tra razze non debba essere tabù. «Gli ultimi studi sul genoma rilevano che c'è tra gli uomini grande diversità genetica. Ci accomuna il 99.5 per cento del patrimonio genetico, non il 99.9 per cento come invece si credeva in passato. Questa è una revisione notevole se pensiamo che con lo scimpanzé la somiglianza è del 98.5 per cento. Che ci piaccia o no, ci sono tra gli esseri umani differenze che possono corrispondere alle vecchie categorie di "razza". Questo non vuol dire assolutamente che un gruppo sia superiore all'altro, ma solo che sia lecito discutere di differenze genetiche tra la popolazione».
Per Pinker, invece, che oggi insegna a Harvard, è arrivato il momento di ricredersi sull'evoluzione umana: sino a poco tempo fa sosteneva che l'uomo si fosse isolato dal processo di selezione naturale e che la sua evoluzione si fosse arrestata. Non ne è più sicuro. «Nuove ricerche indicano che migliaia di geni, forse addirittura il 10 per cento del genoma umano, è stato recentemente soggetto a cambiamenti, una forte selezione che potrebbe aver accelerato le mutazioni nelle ultime migliaia di anni ».
Per Helena Cronin, filosofa della London School of Economics
e direttrice del centro sul darwinismo, se oggi il mondo sembra essere dominato dagli uomini, la colpa non è solo di una certa discriminazione e di differenze di gusti, temperamento e talento, ma anche di una superiore omologazione femminile: «Mentre le donne tendono ad essere a grandi linee dello stesso livello, gli uomini hanno come gruppo maggiore varietà. Il che vuol dire che ci sono tra i maschi più elementi meno intelligenti, ma anche più premi Nobel».
Che lo scienziato possa cambiare idea e sia in grado di ammetterlo, secondo Dawkins, è un bene. Anzi, gli fa onore, ha scritto lo studioso sul sito dell'organizzazione creata e diretta da John Brockman, impresario culturale definito «il grande enzima intellettuale del presente »: «Come saremmo inflessibili, rigidi e dogmatici altrimenti ».

Corriere della Sera 2.1.08
Un privilegio per spiriti liberi
di Edoardo Boncinelli


Cambiare idea è uno dei privilegi degli spiriti liberi.
Cambiare idea, ovviamente, quando ne vale la pena e sussistono tutte le condizioni per farlo o per doverlo fare; non cambiare idea tanto per fare o con una frequenza allarmante.
Se ciò vale per tutti gli spiriti liberi, è a maggior ragione appropriato se non necessario per uno scienziato. La scienza è per definizione un'avventura «aperta», un percorso mentale e sperimentale soggetto a continui cambiamenti e aggiornamenti.
L'avventura scientifica non avrebbe proprio senso se non dovesse continuamente considerare nuovi fatti e nuove idee. Sarebbe una religione, non una scienza.
In questo c'è stata anche un'evoluzione nel tempo.
Una volta era raro, anche se poteva succedere, che uno scienziato dovesse cambiare idea su cose importanti durante la sua vita. Oggi è probabilmente la regola, tanto veloce è il ritmo delle scoperte e del loro assorbimento concettuale.
Nella fisica delle particelle, nell'astrofisica, nella genetica e nelle neuroscienze le novità si succedono alle novità. Ne abbiamo viste delle belle e ancora tante ne vedremo.
Pensiamo ad esempio al problema della memoria.
Ancora non sappiamo come e dove stanno scritti i nostri ricordi. Si spera che presto lo sapremo, ma quante volte dovremo cambiare e ricambiare le nostre idee sull'argomento prima di imboccare la via giusta?

Corriere della Sera 2.1.08
Come Varsavia insorta cadde nelle mani dell’Urss
di Sergio Romano


Qualche riflessione sul mancato sostegno alla rivolta di Varsavia del 1944, da lei citato a disdoro dell'Urss. Le truppe sovietiche si trovavano sì appena oltre la Vistola, a una trentina di chilometri dalla capitale polacca, ma vi erano giunte stremate dopo 40 giorni di combattimenti nel corso di un'avanzata di 700 chilometri, scollate tra prime linee e reparti di sussistenza. E vi avevano trovato l'opposizione di fresche e compatte divisioni corazzate tedesche. Cinicamente attesero che questi ultimi schiacciassero l'insurrezione? Però nel frattempo l'Urss fece ben 2243 incursioni aeree sul nemico, effettuando anche lanci di munizioni, viveri e medicinali agli insorti.
Colpevole inerzia sulle rive del fiume? Ma perché? Gli alleati quanti mesi stettero inchiodati a Cassino, di fronte a un baluardo che, essendo un'abbazia e non un corso d'acqua, tutto sommato poteva essere aggirato?
Bruno Faccini, Milano

Caro Faccini,
A Cassino non vi erano migliaia di insorti che combattevano coraggiosamente e chiedevano di essere aiutati contro un nemico comune. Nei mesi in cui le divisioni di Rokossovskij presidiavano il quartiere Praga, sull'altra sponda della Vistola, e l'Armia Krajova (Esercito nazionale) ancora resisteva nel cuore della città, altre armate sovietiche occupavano gli Stati baltici, avanzavano verso Budapest, impegnavano i tedeschi in Slovacchia. Non credo che l'atteggiamento dell'Urss in quelle circostanze fosse dettato da ragioni puramente logistiche e militari. Come ricorda Norman Davies nel suo grande saggio storico su quegli avvenimenti («La rivolta. Varsavia 1944: la tragedia di una città fra Hitler e Stalin ») gli appelli degli insorti a Rokossovskij e una lettera del Primo ministro polacco, inviata da Londra a Stalin il 30 settembre, rimasero senza risposta.
Le ragioni di quel silenzio furono anzitutto politiche. Stalin non aveva ancora deciso quale sarebbe stata la sorte della Polonia nel dopoguerra, ma voleva saldare una volta per tutte i conti che si erano aperti con la guerra russo-polacca del 1920. Voleva conservare i territori conquistati con la spartizione del Paese nel 1939 e soprattutto evitare che la nuova Polonia fosse uno Stato indipendente, libero di fare la propria politica estera e di allearsi, all'occorrenza, con le potenze occidentali. Dopo la resa degli insorti e il ritiro delle truppe tedesche, quando l'Armata Rossa entrò nella città, l'Nkvd (il predecessore del Kgb) ordinò ai suoi uomini di controllare i movimenti della popolazione e «smascherare e arrestare» i capi dell'Armia Krajova e dei partiti politici sopravvissuti alla disperata resistenza contro i tedeschi nelle settimane precedenti. Si creavano in tal modo le condizioni per il regime da cui la Polonia sarebbe stata governata fino al successo della politica di Solidarnosc, alla fine degli anni Ottanta.
Questo non significa, caro Faccini, che le responsabilità fossero soltanto sovietiche. Pur fornendo aiuti agli insorti, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti si astennero dal fare pressioni su Stalin perché ordinasse alle sue truppe di avanzare. L'alleanza dell'Urss, in quel momento, contava ai loro occhi molto più della nazione polacca. Quando Churchill visitò Stalin a Mosca nell'ottobre 1944, gli porse una busta stropicciata su cui aveva annotato alcune cifre percentuali per descrivere l'influenza che gli anglo americani e i sovietici avrebbero dovuto esercitare congiuntamente nell'Europa centro orientale. I Paesi elencati erano cinque: Romania, Grecia, Jugoslava, Ungheria, Bulgaria. L'assenza della Polonia lasciava intendere che il Paese avrebbe fatto parte interamente dell'orbita sovietica. La politica britannica — scrisse George Orwell in un articolo del Tribune
apparso nel settembre 1944 — era ispirata dal principio «che non si deve protestare contro un male che non sei in grado di evitare».

Corriere della Sera 2.1.08
L'edizione critica del testo di Manuele II Paleologo citato da Ratzinger a Ratisbona
Islam, il dialogo che non ci fu
Di Branco: confronto sempre aspro fra cristiani e musulmani
di Dino Messina


In questa nuova fase di confronto con l'Islam, anche alla luce del prossimo incontro di Papa Ratzinger con 138 intellettuali e teologi musulmani, è lecito chiedersi: quale dialogo ci fu nei secoli precedenti? Uno degli specialisti più adatti a rispondere è Marco Di Branco, docente di storia bizantina all'università della Basilicata, curatore dell'edizione critica del Dialogo della discordia uscito dalla Salerno editrice (e 8, pagine 78). Il dialogo della discordia non è altro che la settima controversia teologica tra Manuele II Paleologo, coltissimo imperatore dell'Impero romano d'Oriente, nato a Costantinopoli nel 1350 e morto dopo aver regnato per 34 anni il 21 luglio 1425, e «il persiano», in realtà un religioso turco identificabile con Haci Bayram Veli, fondatore di una confraternita sufi. Quel testo è diventato famoso il 12 settembre del 2006, perché citato da Papa Ratzinger nel controverso discorso di Ratisbona. Un discorso teso a favorire il dialogo interreligioso e che invece provocò un incidente diplomatico con le autorità religiose islamiche. Sotto accusa la frase di Manuele II Paleologo: «Dimmi che cosa avrebbe istituito di nuovo Maometto: non troverai che cose malvagie e inumane, come la sua idea di far progredire con la spada la fede che egli predicava».
«Bisogna distinguere — sostiene Di Branco — tra la tolleranza reciproca (vi sono state fasi in cui si è lasciata ampia libertà di culto) e dialogo religioso. Il testo di Manuele II Paleologo che io presento è in tal senso molto interessante perché dimostra l'impossibilità di un vero dialogo teologico tra i rappresentanti di religioni diverse, soprattutto di quelle monoteiste. Il vero scopo non è ascoltare le ragioni dell'avversario ma dimostrarne l'errore, metterne in luce la pochezza, quando si tratta di parlare del vero Dio. Che è uno solo, per i cristiani così come per i musulmani». E allora succede che nei testi cristiani come queste controversie di Manuele II, «il persiano», così definito in virtù della storica contrapposizione fra Persia e Grecia antica, si ritragga alle obiezioni più pesanti, sul più bello si ritiri con i suoi a meditare nella tenda, non venga mai fuori con argomentazioni di un qualche peso.
Secondo Di Branco, dunque, il dialogo religioso tra Islam e Cristianesimo è una chimera, oggi come ieri. Anche perché, spiega nella lunga introduzione alla controversia di Manuele II, non è mai esistita un'età dell'oro del dialogo interreligioso. Una tesi opposta a quella del teologo gesuita Samir Khalil Samir, il direttore del Centro di documentazione arabo-cristiana molto ascoltato dal Papa. Per Samir le controversie della letteratura medioevale possono costituire un modello per l'oggi: «I nostri predecessori — ha scritto il teologo gesuita — erano molto più vicini al pensiero patristico e nello stesso tempo al pensiero musulmano. E sono convinto che è precisamente questo il grande contributo dei cristiani dell'epoca, purtroppo assolutamente sconosciuto al pensiero cristiano mondiale. Sono stati loro i primi ad avere ripensato la fede in funzione dell'Islam e, in un certo senso, sono stati forse i primi cristiani in assoluto ad avere ripensato la fede cristiana in funzione di un'altra religione».
Il primo campione del dialogo interreligioso è Giovanni Damasceno, arabo di nascita e cristiano di fede, vissuto tra il 650 e il 750. Peccato, osserva Di Branco, che nel suo dialogo immaginario tra un saraceno e un cristiano a ogni obiezione di quest'ultimo il musulmano «finisca sempre per tacere in preda allo sconforto o addirittura per abbandonare la disputa con impotente dispetto». La stessa scena si ripete nella Bagdad abbasside della controversia tra il patriarca nestoriano Timoteo I (780-823) e il califfo al-Mahdi: «Più che con un dialogo abbiamo a che fare con un catechismo apologetico a uso delle comunità cristiane sottoposte alla dominazione musulmana». Mai un califfo avrebbe accettato di farsi trattare come avviene in questi dialoghi apologetici di parte cristiana.
A questo punto è d'obbligo chiedere a Di Branco cosa pensi della discussione che si è svolta nei mesi scorsi sui «cattivi maestri islamisti» e sul caso Tariq Ramadan, un personaggio che non corrisponde certo alla tipologia remissiva del «persiano » protagonista del dialogo. «Io credo — risponde Di Branco — che Tariq Ramadan abbia un approccio giusto sulle questioni politiche. Mi interessa molto lo sforzo di questo intellettuale musulmano, che ha scelto di vivere in Europa, di dialogare con l'Occidente sulle questioni sociali, portando avanti un discorso di inserimento e non di contrapposizione. Un'attitudine al dialogo che è tanto più interessante in quanto Ramadan è un personaggio molto ascoltato nelle sue comunità e, come ha visto bene Ian Buruma, il vero dialogo avviene con chi ha posizioni diverse dalle nostre, non con chi la pensa esattamente come noi. Tuttavia trovo che alcuni libri di Ramadan siano piuttosto discutibili. Penso al suo Maometto pubblicato in Italia da Einaudi: un'opera agiografica più che una biografia, una sorta di catechismo senza alcun valore scientifico. Meglio allora, se si vuol vedere com'era visto il Profeta dai musulmani, prendere la raccolta di fonti edita da Mondadori, Le vite antiche di Maometto.
Mi chiedo perché una casa editrice come l'Einaudi abbia accettato di pubblicare una siffatta opera: forse l'editore più che sulla validità del testo ha puntato sul richiamo rappresentato dal nome di Ramadan ».

Corriere della Sera Roma 2.1.08
Pollini klavier
A Santa Cecilia il suo progetto «Prospettive» con ospiti prestigiosi: dagli autori tedeschi a Nono
di Pietro Lanzara


Maurizio Pollini è uno dei rari artisti che contraddicono la regola aurea per la quale un successo moderato è autentico e un successo smodato un fallimento. I suoi trionfi sono sempre e comunque a priori. A conferma di un'altra contraddizione, lucidamente individuata da Julien Green nel fatto che la musica è il nutrimento del cuore ma il cuore è insaziabile. Da sabato il pianista torna a Santa Cecilia (Auditorium, viale de Coubertin, tel. 06.8082058) per i cinque concerti di «Prospettive Pollini» fra musica classica e contemporanea.
Il primo appuntamento (con repliche il 7 e l'8 gennaio) prevede l'incontro, finora mai avvenuto, fra Pollini e il direttore musicale dell'Accademia, Antonio Pappano: in programma il Primo Concerto di Brahms e due brani di Bruno Maderna, «Aura», un lavoro della maturità del compositore veneziano, e Canzone a tre colori, ispirata a musiche di Giovanni Gabrieli (1557-1612), anch'egli veneziano.
«L'Ottocento», ha affermato Emil Cioran, «conobbe due vette della malinconia: Brahms e Sissi». Il romanticismo del compositore tedesco concluderà anche la rassegna sabato 26 gennaio (con repliche il 28 e il 29), ancora sotto la direzione d'orchestra di Pappano, con il Secondo Concerto per piano accostato alle «Notations» di Boulez.
«Pollini Prospettive» proporrà l'11 gennaio Chopin (Preludio op. 45, Ballata op. 38, Scherzo n. 1 op. 20, Seconda Sonata op. 35) e Luigi Nono («Sofferte onde serene» per piano e nastro magnetico e la «La Floresta è jovem e cheja de vida» dal forte impegno politico). Sarà sul podio Marino Formenti, Barbara Hannigan soprano, voci recitanti Sara Ercoli, Margot Nies e Terence Roe, clarinetto Alain Damiens, percussioni dello Schlagquartett Köln, elettronica dello SWR-Experimentalstudio Freiburg, regia del suono di André Richard.
Il 18 gennaio Pollini eseguirà la Sonata n. 2 di Boulez, un brano da definire di Debussy, le Variazioni op. 27 di Webern. Il 22 gennaio il pianista sarà accompagnato dal compositore e direttore Peter Eötvos, dal Klangforum di Vienna e dal Quartetto Hagen: musiche di Karl-Heinz Stockhausen (Klavierstücke VII e VIII; Nr. 1/7 Kreuzspiel; Nr. 5 Zeitmasse; Nr. 1 Kontra- Punkte), Schoenberg (Drei Klavierstücke op. 11) e Brahms (Quintetto in fa minore op. 34).
Nella locandina del primo recital figurava inizialmente una novità assoluta commissionata dall'Accademia Nazionale di Santa Cecilia e da altre istituzioni musicali europee, il concerto per tromba e orchestra «Hard Pace» di Luca Francesconi, ma per ragioni organizzative l'esecuzione è stata rinviata al 26 aprile (repliche il 28 e il 29) sotto la direzione di Pappano e con la partecipazione del trombettista Hakan Hardenberger.

il Riformista 2.1.07
194 volte No
di Alessandro Calvi


Dunque, ci siamo. Seppure a titolo personale, Sandro Bondi ha presentato una mozione parlamentare per rivedere le linee guida della legge 194. Quella sull’aborto, per intendersi. Eccoci al naturale sbocco di un movimento inizialmente carsico ma poi assolutamente visibile con il Family Day. Forse qualcuno non aveva preso sul serio fino in fondo le intenzioni di chi, allora, scese in piazza per difendere la famiglia; quella costituzionalmente riconosciuta, però. Già, perché non si tratta di storie diverse: famiglia, aborto, fine vita, si tratta dei temi eticamente sensibili, come ai cattolici piace chiamarli, o più semplicemente dei temi che gli stessi cattolici considerano non negoziabili. Sono i temi sui quali spesso è intervenuto il cardinale Camillo Ruini che, ricordando l’iniziativa del Foglio per una moratoria dell’aborto, proprio sulla legge 194 è tornato con una intervista di fine anno rilasciata al Tg5 nella quale ha ribadito alcuni dei concetti chiave del pensiero della Chiesa sull’argomento: la 194 va quantomeno applicata tutta ma andrebbe migliorata aggiornandola. La nostra posizione è nota: siamo contrari a qualunque modifica della 194 in senso restrittivo. Pensiamo però che l’iniziativa di Bondi almeno un merito lo abbia: è il primo sbocco parlamentare di un percorso che viene da lontano e sollecita tutte le forze in campo a uscire dall’ambiguità. A cominciare dal Partito democratico.

il Riformista 2.1.07
Veltroni, Berlusconi e l’eterna filosofia del Gattopardo
di Emanuele Macaluso


E' consuetudine che quando un anno inizia, giornali e riviste si cimentino in bilanci sull’anno passato e in previsioni sul futuro. Noi non facciamo parte di questi astrologhi anche perché la vita è scandita da giorni, mesi, anni e secoli e il suo svolgimento non è segnato né da un fine anno, né da un fine secolo. Il fatto che tanti sacerdoti della modernità all’inizio di questo secolo e di questo millennio si siano svegliati e abbiano cancellato le “zavorre ideologiche”, i “comportamenti politici” e le “appartenenze” del passato lascia tuttora perplessi. A sentire come questi sacerdoti parlano o sparlano si avverte che non c’è niente di nuovo. Si ripropone la filosofia del Gattopardo: tutto cambia affinché nulla cambi. E la transizione italiana, iniziata ormai quindici anni fa, appare sempre più cristallizzata e senza punto di approdo.
La vicenda politica del Pd di Veltroni - specularmente quella del Partito del popolo di Berlusconi - è da questo punto di vista, emblematica. Il Cavaliere ha riciclato se stesso come capo assoluto di un “nuovo partito” che ripete i riti populisti che abbiamo già visto con Forza Italia. Il partito di Berlusconi prima, il partito di Berlusconi dopo: la filosofia del Gattopardo, appunto. Quel che è cambiato invece (almeno così pare) è il quadro politico in cui il partito personale operava: i vecchi alleati contestano la leadership berlusconiana e delineano scenari nuovi. Scenari che non hanno nulla a che vedere con la fine del secolo, del millennio o dell’anno, o i cambiamenti epocali che segnano il mondo. Sono processi politici che, più banalmente, si sviluppano in una continuità della nostra vita politica: episodi legati a questa o quella legge elettorale, o al referendum, all’interno di quella “transizione” che nei fatti non è più tale visto che il suo sbocco, appunto, non si intravede..
Nel Pd di Veltroni la situazione è certo diversa, ma fino a un certo punto: cosa è cambiato da quando Occhetto vedeva il partito come una carovana che si andava via via allungando, col risultato di dar vita a un partito (con D’Alema, Veltroni e Fassino) centralistico che faceva rimpiangere il centralismo democratico del Pci? Poi è venuto anche l’Ulivo e l’ulivismo per superare il vecchio partitismo e avviare la “contaminazione” (parola magica e mistificante) tra la cultura politica e i valori degli ex-Pci e degli ex-sinistra Dc. Quando, infine, i due partiti ulivisti hanno avvertito di essere “al capolinea” hanno fatto il passo grande, epocale: dall’Ulivo al Pd. Ma cos’è il Pd? È questo l’interrogativo che non si scioglie. Sono state istituite commissioni per scrivere tavole di valori, statuto, programmi e altro. Chi vuole il partito liquido e chi solido, chi con il congresso e chi con i gazebo, chi con organismi dirigenti e chi con il leader e il popolo. Ma quale è la realtà? La vera “contaminazione” è quella che ha coinvolto i vecchi apparati, che non sono più quelli che lavoravano nelle sedi dei partiti, ma sindaci, assessori, consulenti di sindaci, amministratori di società pubbliche e semipubbliche. Sono queste strutture che governano il Pd. È un caso che segretari regionali e provinciali siano anche sindaci o viceministri come succede in Calabria? Qui veramente c’è una mutazione genetica del partito, ma non è quella indicata da Veltroni nella sua lunga intervista al Foglio. No. La mutazione reale ha un segno ben diverso. E non ha a che fare con il transito da un secolo all’altro. È un processo che da anni ha interessato prima i Ds e poi la Margherita e non il Pd.
Anche in questo caso, la novità è il cambiamento del quadro politico nel governo e nella maggioranza che non esiste più, anche se c’è un governo in carica. Sono mesi che leggiamo dichiarazioni dei leader dei partiti di governo che rivelano un solo intendimento: come bloccare l’egemonismo del Pd. Lo scontro sulla legge elettorale nel centrosinistra ma anche nel centrodestra va letto in questo quadro.
Come si colloca, in questo scenario, la Costituente socialista? Può il Partito socialista essere una forza che influisce sul riassetto del sistema politico italiano? A nostro avviso una risposta sarà possibile nel momento in cui i leader della Costituente proporranno la loro strategia con più chiarezza di quanto non sia verificato sino a oggi. Innanzi tutto devono rilanciare un progetto autonomo del socialismo italiano in stretta correlazione con i processi in corso in Europa. Un progetto che superi nettamente la vicenda politica dello Sdi, certo meritoria per avere tenuto aperta una porta che tutti volevano chiusa, ma non più proseguibile.
La Costituente, per essere tale, deve essere in grado di coinvolgere forze politiche, sociali, culturali, civili che vogliono rompere le chiusure del centrosinistra prodiano e veltroniano e dare respiro nuovo alla battaglia del lavoro, dei diritti, delle libertà individuali e collettive, contro una destra becera, clericale e populista. E deve respingere le fumisterie ipocrite e bugiarde sui partiti di ieri e di oggi. Il Partito socialista può essere una forza moderna, in sintonia con tutto ciò che si muove in direzione del progresso sociale e della modernizzazione, senza rinunciare ad essere un partito organizzato, democratico aperto alle nuove generazioni. È questa la sfida a cui occorre dare una risposta non per demonizzare il Pd, ma per competere con esso sul futuro del Paese. Senza invocare demagogicamente gli spiriti del secolo e del millennio in cui viviamo come uomini o donne del tempo che abbiamo vissuto. Il tempo è nelle mani delle nuove generazioni.
Tratto dal prossimo numero de “Le nuove ragioni del socialismo”, in edicola dal 7 gennaio

il Riformista 2.1.07
La tavola dei valori di Reichlin
di Emanuele Macaluso


«I cattolici non siano mortificati nel nascente Pd», ha detto a Veltroni il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone. Sarebbe questo il problema del nascente Pd, oppure, quello di un condizionamento dell'integralismo cattolico? I temi che attengono alle libertà individuali, se incrociano la morale cattolica, sono contestati proprio all'interno del Pd e tutto il partito è paralizzato. È difficile immaginare cosa avrà potuto rispondere Veltroni al cardinale quando asseriva che con i comunisti Gramsci, Togliatti e Berlinguer, la Chiesa era più rispettata, dato che Walter non è mai stato comunista. Ma sull'oggi avrà chiesto precisazioni sugli atti di ostilità del Pd verso la Chiesa. Tuttavia, siccome la commissione che deve scrivere la Tavola dei valori è presieduta da Reichlin, che rivendica la sua antica militanza comunista, il cardinale può tranquillizzarsi. Alfredo infatti ha dichiarato che si potranno tenere insieme, non in una coalizione di governo, ma in un partito, gli eredi di Pci, Dc, Pli, Psi, cattolici integralisti e liberali libertari. Può darsi che il cardinale Bertone benedica la Tavola di un comunista gramsciano, togliattiano, berlingueriano, oggi anche veltroniano.

il Riformista 2.1.07
Il Pd e la sinistra che gioca col fuoco
Il partito della Nazione tratteggiato da Reichlin
di Massimo L. Salvadori


La continua ricerca di compromessi
L'Italia del Pd lontana dall'Europa più civile
Il partito della Nazione oltre i confini del vecchio laicismo

In un precedente articolo su questo giornale, ho sostenuto che con la nascita del Partito democratico è finita la storia della sinistra italiana come grande soggetto politico autonomo e auspicato che quanto della sinistra rimane sappia reagire seguendo l'unica via in grado di darle un qualche avvenire: trovare un accordo sulla base dei principi del socialismo democratico europeo. Un auspicio, questo, che a me pare dettato sia dalla ragione sia dal senso dell'interesse, poiché senza un tale accordo la parte maggioritaria bertinottiana che insegue il modello della Linke tedesca, senza però avere a fianco un grande partito come l'Sdp, e la parte minoritaria socialista sono solo destinate a sommare due debolezze dotate di scarsa capacità di attrazione anche verso coloro che, pur non condividendo il progetto del Partito democratico, al momento del voto potrebbero, e ben comprensibilmente, riflettere se valga puntare su forze troppo marginali.
Sennonché un simile auspicio, molto bene espresso anche da Paolo Franchi, sembra cozzare contro le resistenze che emergono, con motivazioni diverse ma convergenti nell'esito, da un lato nei tardocomunisti (impegnati in una trasformazione che ripercorre in sostanza la strada del Pci negli anni della sua crisi definitiva), dall'altro nel Partito socialista. Il risultato non potrebbe che essere una comune e, a questo punto, via via più rapida agonia della residuale sinistra italiana, ridotta a un'entità ininfluente. Aggiungo di ritenere che - se questa stessa sinistra dimostra di essere incapace di sottrarsi a una frammentazione che risponde ormai essenzialmente alle esigenze e ai tormenti ideologici del suo ceto politico ma non a quelle di chi rappresenta o potrebbe rappresentare - sia giusto che anch'essa paghi lo scotto a un meccanismo di sbarramento volto a impedire a tutte le forze politiche minori responsabili di un'intollerabile frammentazione partitica di acquisire in Parlamento e ancor più in seno al governo, in virtù di mere rendite di posizione, un potere decisionale non legittimato, vale a dire sproporzionato rispetto alle loro effettive quote di rappresentanza nel corpo elettorale.
Mentre la sinistra si avvolge nei suoi irrisolti dilemmi, il Partito democratico lavora per darsi una fisionomia, una cultura politica e una struttura, nel quadro di una strategia che, secondo le ambizioni pochi giorni or sono espresse da Giuliano Amato, mira a farne un partito del 40 per cento, in competizione con un partito di più o meno eguale stazza, capace ciascuno di tenere saldamente in mano le redini del Parlamento per la sua parte e, in caso di vittoria, la barra del governo. Ma ci si continua a domandare: quale tipo di partito intende diventare il Partito democratico? Si tratta di un interrogativo più che mai lecito e necessario, dal momento che esso è nato e si è dato un leader forte prima ancora di aver assunto propriamente un volto. Sono state tirate pennellate significative, ma il ritratto resta lungi dall'essere completo. Tra coloro che lavorano attivamente al fine di definirlo vi è Alfredo Reichlin, presidente della Commissione, composta da cento persone, incaricata di dare al partito una "carta dei valori". Ed è lui, in un articolo sull'Unità del 27 dicembre 2007 che ha avuto larga eco, a compiere un passo significativo: ci ha detto che il Pd mira a proporsi come "Partito della Nazione" con l'ambizione di rigenerare l'Italia.
Il discorso di Reichlin si snoda su due versanti. Il primo si esprime in forme retoriche; il secondo entra nel merito di questioni importanti. Quando Reichlin afferma che il dibattito nel seno della Commissione manifesta «una grandissima voglia di cose nuove», il desiderio di «una politica non politicante, più vicina alla gente, più ispirata a un'etica e ai grandi valori», il perseguimento di «una base culturale e morale» che fondi l'agire del partito e di «una nuova guida» atta a impedire la disgregazione della società italiana, non ci offre che l'esternazione di buoni sentimenti. Egli è personalmente molto uso agli aggettivi "nuovo" e "grande" in riferimento al carattere e alle aspirazioni del Partito democratico, ma questi termini sono di per sé quanto meno neutri e onnivalenti. Quale partito oggi in Italia non dice infatti di voler essere portatore di cose nuove e grandi?
Quando per contro entra nel merito di certe questioni, allora il nuovo e il grande delineati da Reichlin si caricano essenzialmente di contenuti tipici della tradizione italica, a partire dal proposito di dar vita a «un grande e inedito "partito della nazione"». Il Pci si era proposto come partito della classe operaia, delle masse contadine e degli intellettuali progressisti con la vocazione ad arrivare a comprendere nel suo seno tutte le componenti culturali, economiche e sociali "sane" necessarie a rispondere complessivamente ai bisogni e al governo della nazione passando attraverso una rivoluzione morale e intellettuale, in contrapposizione allo schieramento conservatore e moderato di cui la Dc costituiva il partito perno. Elemento cruciale della sua strategia era la conquista delle masse e delle correnti politiche cattoliche democratiche; dichiarata missione era salvare l'Italia dalle malefatte dei reazionari e dei conservatori. Dal canto suo la Dc si presentava a sua volta come Partito della nazione, della rappresentanza di tutti gli interessi vitali del paese e votato a salvare l'Italia dalla minaccia comunista. Ora che la classe operaia "è andata in paradiso" e che non ci sono più né il Pci né la Dc, Reichlin adegua e riorienta categorie del passato adattandole al presente in vista di una nuova sintesi: il Partito democratico, candidato sempre a salvare l'Italia e sempre attraverso una rivoluzione morale e intellettuale. E lo caratterizza come: «una forza di progresso più larga», che, al fine di poter liberare appieno le sue risorse morali e intellettuali, deve per un verso uscire «dai vecchi confini della sinistra» e per l'altro da quelli di un laicismo incapace di comprendere che le religioni «hanno cessato di essere un affare privato e sono entrate nello spazio pubblico». Il cuore della sintesi che ne deriva emerge con consequenziale limpidezza: far confluire in un unico partito, depurato delle obsolete contrapposizioni, le migliori eredità del Pci e della Dc: partiti che - e lo hanno già spiegato degli storici impegnati nella costruzione del Pd - sono state le uniche forze che hanno veramente contato nella Prima repubblica. Questi, dunque, il fondamento e la missione del nuovo Partito della nazione, chiamato a competere con il Partito del popolo italiano che ha in mente Berlusconi.
Reichlin vuole, insomma, un Partito della Nazione collocato contemporaneamente oltre i vecchi confini della sinistra e oltre quelli del vecchio laicismo. Per quanto riguarda la sinistra, egli ci fa pensare che essa possa in qualche modo restare in vita (purché, s'intende, si emancipi dalla tarlata camicia di Nesso di un socialismo autonomo), ma per ora non ci viene spiegato in quale modo. Per quanto invece attiene all'invito rivolto ai laici italiani a finalmente riconoscere senza settarismi lo spazio pubblico dovuto alle religioni, il suo discorso procede con argomenti che hanno dello stupefacente. Rivolgersi, infatti, ai laici, in Italia, di fronte alla situazione creatasi dopo il concordato del 1929, l'inserimento dell'articolo 7 nella Costituzione e seguenti sviluppi, chiedendo loro, se non vogliono ridursi a vecchi "laicisti", di aprirsi alla comprensione che non si può negare alle religioni (leggi: alla Chiesa cattolica) il diritto di essere presenti nello spazio pubblico, appare, dicevo, davvero stupefacente e offre uno straordinario esempio di come si possano alimentare delle vere e proprie leggende che letteralmente stravolgono la realtà delle cose. Poiché il problema si presenta nel nostro paese esattamente rovesciato. Che cosa è infatti se non un'occupazione massiccia della spazio pubblico la presenza in Italia - che dura da oltre settant'anni - di una Chiesa-Stato, di una Chiesa che ha goduto a partire dal 1929 e continua a godere di privilegi di ogni tipo da parte del nostro Stato, che fa sentire la sua voce quotidianamente dagli schermi televisivi e sui mass media con una larghezza e un peso che non hanno eguali in alcun altro paese dell'Occidente, che non si limita a far conoscere i suoi punti di vista al fine di orientare le coscienze e i comportamenti dei fedeli, ma è determinata a imporre al Parlamento e a tutti i cittadini quelle che essa ritiene le uniche buone leggi, ovvero quelle rispondenti ai dettati della sua unica verità, in tema di come si deve vivere, morire, fare l'amore, organizzare la convivenza degli uomini e delle donne? La questione non sta piuttosto nel fatto che in Italia è la Chiesa che mira sistematicamente e instancabilmente a restringere lo spazio pubblico ai laici sino a farlo rinsecchire del tutto? e che lo fa in virtù della sua forza di condizionamento anche politico ed elettorale, con una tale egemonia sulla politica da indurre ora tanti esponenti del nuovo Partito democratico a lanciare e a cercare di rendere credibile un assurdo allarme sulla minaccia "laicista" che vorrebbe ridurre la religione cattolica a "fatto privato"? Dobbiamo accettare che si presenti come innovativa e desiderabile un'idea di laicità a misura dei desiderata della Chiesa cattolica? Non ci si può meravigliare che le tesi di Reichlin ottengano il plauso e il gradimento di Bondi.
Questo Partito della Nazione che intende collocarsi al di là dei vecchi confini della sinistra, dei vecchi confini della laicità propria dei regimi democratico-liberali e dei confini del vecchio Partito socialista europeo, a mio avviso non fa altro che riproporre mutatis mutandis le peculiarità di un paese il quale, oggi attraverso la creazione di un soggetto "inedito" nato dalla combinazione di ex comunisti ed ex democristiani, continua a elaborare e cercare compromessi e soluzioni che ci allontanano maggiormente dall'Europa più avanzata e civile. Ma sia chiaro: questo soggetto avrà un successo proporzionale all'incapacità di quanto rimane di una sinistra divisa, che con le sue debolezze, i suoi ritardi, le sue irrisolutezze è giunta al punto di giocare letteralmente col fuoco.

il Riformista 2.1.07
Coppie di fatto e valori
Saranno temi eticamente sensibili, in realtà parliamo di diritti civili
La legislazione rifletta la ricerca di un punto d'incontro
di Luigi Manconi


Le parole del Pontefice e, appena prima, quelle del cardinale Tarcisio Bertone disegnano un quadro assai netto, e immutato e immutabile del sistema di rapporti tra fede e società e tra fede e politica, secondo le gerarchie della chiesa cattolica: a partire da ciò che viene indicato come un dogma e che rappresenta, invece, il punto più debole - sotto tutti i profili - dell'intera dottrina sociale della stessa chiesa. Ovvero la incondizionata coincidenza tra morale cristiana e diritto naturale. Sullo sfondo, l'irresistibile tentazione riduzionistica della chiesa attuale, che traduce - ahinoi (noi credenti e noi non credenti) - il messaggio cristiano e la sua ispirazione etica a manualistica sessuale, a precettistica coniugale, addirittura a prontuario ginecologico. E tuttavia, in questo quadro non esaltante, è possibile - a mio avviso - porre alcuni punti fermi per un approccio radicalmente diverso.
Partiamo da alcune considerazioni sufficientemente condivise, o condivisibili, per provare a formulare i criteri di una concezione razionale - non difensiva e non angusta - della laicità, adeguata alle società democratiche occidentali.
1) La professione di fede, quando non interpretata in senso integralista o fondamentalista, è un'esperienza non nociva, non superflua e nemmeno insignificante per la soggettività individuale e la vita sociale nei sistemi democratici. Essa può risultare, al contrario, un importante contributo alle relazioni collettive e alla identità (ovvero alle identità) culturale e spirituale delle società libere, alla loro crescita e alla loro capacità di integrazione.
2) La chiesa, le chiese hanno pieno diritto di parola, di presenza nello spazio pubblico e di interlocuzione con gli altri soggetti e con le altre istituzioni. La "ingerenza", quando esercitata con modalità visibili e dichiarate, negli ambiti sociali e nella sfera pubblica, non va in alcun modo sanzionata o combattuta.
3) La legislazione di una società democratica è sempre l'esito di un negoziato e di un compromesso tra opzioni politiche, culturali, morali e religiose o non religiose di diversa ispirazione. La legislazione ha il precipuo compito di ridurre gli effetti negativi prodotti dalle contraddizioni sociali e dalle situazioni di disuguaglianza e disparità, proprie di ogni società complessa, a seguito della scarsità di risorse disponibili (materiali e immateriali, economiche e simboliche …) e della loro non equa distribuzione. Ma questo non richiede esclusivamente una tecnica normativa: rimanda, inevitabilmente, a interpretazioni, antropologie, "concezioni del mondo". E interessa, pertanto, la cattolica Paola Binetti, il valdese Paolo Ferrero e i molti non credenti che hanno responsabilità di decisioni pubbliche. Ciò impone la ricerca di un punto d'incontro che salvaguardi il più possibile (o comprometta il meno possibile) i rispettivi interessi, le rispettive opzioni, i rispettivi valori. Una legislazione, in un regime democratico, non può essere di natura "cristiana" o di natura "socialista": nell'un caso come nell'altro si sacrificherebbe una quota significativa delle componenti che concorrono a costituire il patrimonio nazionale di identità, valori e opzioni morali. La soluzione, d'altra parte, non sta in una legislazione "laica" se con ciò si intende la rimozione da quella legislazione di qualunque ispirazione morale di derivazione religiosa o non religiosa: e, dunque, la sua riduzione a mera tecnica, a neutra amministrazione, a sistema organizzato in regole e veti, garanzie e obblighi. Questa "utopia laica" non funziona in quanto quella tecnica deve misurarsi con il corpo sociale, le sue patologie e le sue crisi, le sue emozioni e le sue sofferenze, le sue esigenze di tutela e le sue domande di libertà. Ciò richiede, sì, ordinamento e norme, politiche sociali e decisioni pubbliche razionali ed efficaci, ma esige anche "sensibilità": ovvero flessibilità e adattabilità, negoziato e mediazione. Tutto ciò prevede il riferimento a valori: e i valori, nelle società contemporanee, possono essere di ispirazione religiosa o non religiosa. Nell'Italia d'oggi ciò ha (dovrebbe avere) due conseguenze: la piena dignità di una ispirazione religiosa delle opzioni politiche; la pari dignità di una ispirazione non religiosa delle opzioni politiche. E, invece, si ha un gioco a somma zero: la piena dignità riconosciuta all'ispirazione religiosa (in Italia, cattolica) si è tradotta nell'ultimo sessantennio e, paradossalmente, con forza ancora maggiore nel decennio più recente, nell'egemonia di quella stessa ispirazione che, rifiutando pari dignità ad altre, si è fatta fatalmente integralismo. Fino al punto di negare alle altre opzioni, e proprio in quanto altre (ovvero di altra natura: non religiosa), alcun fondamento morale. Ciò si manifesta esemplarmente nella vicenda delle "coppie di fatto". Il presupposto del fondamento morale riservato al solo matrimonio (religioso o civile) impone l'esclusione dalle unioni civili di ogni possibile contenuto morale. A quelle unioni infatti, si concede - per via anagrafica o civilistica - il riconoscimento di alcuni diritti, ma non si attribuisce loro la costituzione morale (rappresentata da reciprocità, mutualità, progetti condivisi …) di una forma coniugale giuridicamente sancita e tutelata. Così facendo, non si realizza quel compromesso tra opzioni di diversa ispirazione, religiosa e non religiosa, postulato da una pluralità di esigenze: quella di salvaguardare il più possibile (o di compromettere il meno possibile) i diversi sistemi di valori e quella di accogliere bisogni sociali meritevoli di protezione giuridica ("le coppie di fatto"). Ciò rivela, in maniera inequivocabile come i temi che qualcuno definisce (Dio lo perdoni) "eticamente sensibili" rimandino - oltre che a importanti dilemmi etici - a diritti civili irrinunciabili. È ciò a rendere dirimente la questione delle unioni civili: non mero fatto simbolico, bensì significativo criterio di orientamento ("e di misurazione") della vocazione pluralista, prima ancora che laica, delle società democratiche.

il Riformista 2.1.07
Una raccolta di autobiografie dall'interno del Pci
Milleduecento modi di essere un militante comunista
La ricerca di Boarelli non ricorre a facili moralismi
di Alberto Palazzi


La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti 1945-1956 , di Mauro Boarelli, (Feltrinelli, 2007, 19 euro) ci fa conoscere la pratica della redazione della propria autobiografia che fu obbligo per tutti gli iscritti al Pci nell'Italia del dopoguerra, per i più semplici militanti come per i dirigenti, fino a quando non tramontò assieme allo stalinismo, attorno al 1956. La fonte documentaria del libro è la ricca raccolta di autobiografie che proviene dalla scuola del Pci di Bologna (che fu la più importante scuola di partito dopo quella nazionale delle Frattocchie di Roma), ma la ricerca di Boarelli ci prospetta la possibilità di una comprensione del fenomeno comunista e delle sue radici che va molto oltre l'interesse di queste biografie dal punto di vista della storia strettamente politica. Queste autobiografie, racconti di persone semplici, se si leggono con sola attenzione alle tematiche della cronaca politica loro contemporanea confermano in modo generico quello che è già ben noto; e se invece si leggono come ha fatto Boarelli, ascoltando quello che i narranti rivelano di se stessi, allora aprono la possibilità di tornare a comprendere la motivazione di molte scelte che furono razionali e necessarie date le premesse esistenziali delle persone che le compirono. Il libro non è un saggio di storia politica, ma piuttosto è una visione del movimento comunista in termini di una profonda antropologia politica e nasce dall'esigenza di avviare a un percorso di ricerca storica che si affranchi dalla banalizzazione corrente che intende la vicenda del movimento comunista come una sorta di fenomeno meramente criminale. Boarelli è consapevole che proprio noi italiani avremmo oggi la necessità di raggiungere un giudizio più maturo su questa parte del nostro passato, e nell'introduzione ci avverte che stiamo pagando un prezzo di civiltà accettando acriticamente la vulgata dominante.
La ricerca di Boarelli non contiene apologia, non ricorre a facile moralismo, non indulge alla retorica del mistero: ci fa sentire la scelta delle persone come un fatto umano, consono all'esperienza che esse vissero. Il fondo archivistico comprende più di 1200 biografie, e talune hanno più redazioni: la pratica dell'autobiografia serviva a ciascuno per definire la propria identità di militante, e le successive riscritture corrispondono al raggiungimento di determinati obiettivi di maturazione personale. La prassi dell'autobiografia rispondeva alle necessità di una pedagogia autoritaria, verso la quale si avvertì qualche voce critica anche prima del suo tramonto nel 1956. Vi sono tracce di questa prassi anche al tempo della guerra di Liberazione, ma lì l'autobiografia sembra funzionale a semplici esigenze pratiche di controllo dei precedenti politici di chi voleva unirsi alla lotta e non mostra i caratteri di controllo delle coscienze che invece sono lampanti nelle autobiografie della guerra fredda e nelle critiche e censure a cui esse erano sottoposte dai dirigenti della scuola di partito.
Certamente era una prassi impressionante di controllo autoritario; sarebbe errato però volervi vedere una contrapposizione netta tra dominanti e dominati, tra controllori che considerano se stessi dei maggiorenni, a cui spetterebbe la tutela, e controllati minorenni. L'autobiografia riguardava tutti, e tutti erano egualmente persuasi della necessità di tollerare grandi rinunce alla propria individualità e ai tratti spontanei del proprio carattere per omologarsi allo stile di pensiero della grande comunità emarginata, o autoemarginata, del partito, fuori della quale vi era solo il pericolo del ritorno a una condizione di subalternità disperatamente priva di identità umana. Coerentemente, il fondo archivistico comprende anche l'autobiografia del secondo direttore della scuola, Memo Gottardi, uomo di osservanza stalinista e segnato dalle esperienze più importanti della vita militante, e che sperimentò l'emigrazione in Unione Sovietica e la detenzione nelle prigioni dell'Nkvd tra il 1938 e il 1940, nel periodo più intenso delle persecuzioni estese agli elementi politicamente fedeli.
Le autobiografie differiscono per il livello dell'acculturazione degli autori - rudimentale in taluni, discretamente educata dalla scuola in altri, e per la loro diversa sensibilità individuale. In genere sono la testimonianza di un percorso di emancipazione in cui l'aspetto economico riceve scarsissimo interesse e rilievo - in fondo, l'unica esigenza prettamente economica che viene espressa da tutti i loro autori è quella di affrancarsi dalla miserabilità assoluta, dalla privazione dei mezzi di sussistenza elementari - e che ruota intorno alla costruzione di un'identità umana, in cui la persona si fa capace di interpretare logicamente il suo mondo, e così si rende degna del rispetto di sé. E questo è il fattore fondamentale che non deve scomparire dalla nostra attenzione, se vogliamo che la storia del fenomeno del comunismo nel Novecento si elevi a una capacità di giudizio priva di retorica moralistica.

Repubblica 30.12.07
Torna il 29 febbraio. Un giorno "magico" che sbuca dalle nebbie della storia e dagli artifici della scienza, e che ci invita a riflettere sul tempo e i suoi trabocchetti
di Pino Corrias


Il 29 febbraio 2008, giorno a sorpresa regalato dagli astronomi di Giulio Cesare e poi di Gregorio XIII, serve ad aggiustare i nostri calendari ma anche a svelare l´errore che ci si annida dentro. E ci fa comprendere che, nonostante i perfetti calcoli della nuova fisica basati sulle oscillazioni atomiche del cesio, il tempo può essere misurato, descritto, piegato, eppure non sarà mai scalfito il mistero della sua sostanza
Nel 1582 il Papa cancellò dieci giorni In una notte, tra stupore e tanti tumulti, il mondo passò dal 4 al 15 ottobre
Il calendario gregoriano è in eccesso di ventisei secondi e fra tremila anni ci ritroveremo con un giorno ditroppo
Un´aura magica accompagna questa anomalia, come se un numero stravagante fosse il segno del destino e non una semplice convenzione umana

Siamo fatti di acqua e di tempo. Evaporiamo con lentezza: 365 giorni all´anno. Ma con l´errore di un giorno. L´anno bisestile (che ci aspetta) aggiusta l´errore. Rimuove l´imperfezione di quel giorno. Risarcisce lo sbaglio di quelle 5 ore, 48 minuti, 46 secondi che il calcolo degli uomini cancella per quattro anni di seguito. L´anno bisestile rimette le lancette dell´anno al loro posto tra il sole, la luna, il capriccio di molti dei e la matematica degli uomini. Inventa il trecentosessantaseiesimo giorno. Lo infila in coda al mese più corto. Lo nomina 29 febbraio, il giorno che qualche volta c´è. E che quest´anno, nell´anno bisestile 2008, cadrà di venerdì.
Quel giorno in più sarà la nostra finestra sul tempo. L´eccezione che svela la trama dei nostri calendari che da molte migliaia di anni provano a misurarlo, descriverlo, piegarlo, senza mai scalfire il mistero della sua sostanza. Perché cosa sia il tempo ancora nessuno lo ha scoperto - «Se non me lo chiedo so cos´è, ma se me lo chiedo non lo so», scriveva Sant´Agostino - sebbene ci imprigioni dal primo all´ultimo istante, onda lentissima nel vuoto, fiume tra le sponde buie dello spazio. Inafferrabile. Ma calcolabile nei suoi segmenti ricorrenti. Maneggiabile nelle sue forme ridotte che ci danzano intorno. Al ritmo di un anno alla volta, di un mese, di un giorno. Un anno ogni quattro stagioni intorno al sole. Un mese ogni quattro lune intorno alla Terra. Un giorno, ogni sole che tramonta, e che poi risorge, intorno all´Uomo.
Superstizioni dicono che quel giorno in più, il giorno bisestile, sia nefasto. Che l´intero anno porti male, come tutte le anomalie in natura. Ma nulla di memorabile e di nero ha mai confermato il sospetto. Neppure il penultimo, l´anno Duemila, con il suo corto circuito di zeri che avrebbe inceppato l´intelligenza portatile dei nostri computer, generando il buio nel nuovo Millennio e poi l´apocalisse. Come se la stravaganza di un numero non fosse convenzione umana, artificio contabile d´inchiostro, ma il segno del destino.
In verità il male, anche quello catastrofico delle profezie, si è sempre equamente distribuito sulla superficie dei giorni. Dai tempi imprecisi del primo calendario conosciuto, l´osso d´aquila ritrovato presso il villaggio di Le Placard, vecchio di tredicimila anni, dove l´uomo neolitico, di un clan probabilmente nomade, ha inciso le tacche delle fasi lunari. È la luna, con le sue notti periodiche, la falce che diventa piena e poi scompare, il modo più immediato e perciò più antico, di calcolare il misterioso flusso del tempo.
La scienza nasce da quei calcoli. E tutti gli dei si ergono da quelle immense ricorrenze di stelle all´orizzonte e di costellazioni che sorgono e scompaiono secondo un disegno sconosciuto, ma incontrovertibile, come fa il destino quando si svela. Per i popoli nomadi la notte è la prima tavola su cui contare il tempo. Per le comunità stanziali lo è il sole che fa germogliare i campi oppure li rende sterili. Gli egizi, nei loro calendari, aggiungono le inondazioni del Nilo. Gli Aztechi, il fuoco dei vulcani.
Per tutti il tempo è una freccia che viaggia in una sola direzione, dal seme, al frutto, alla polvere. Il passato non torna, se non nei sogni e nella nostalgia. Il presente ci scappa come sabbia tra le dita. Il futuro è incalcolabile nonostante i numeri, nonostante la scrittura, nonostante la fede che promette un aldilà perpetuo, capace di sconfiggere la declinazione ultima del tempo, l´eternità della morte. Il tempo è la nostra lotta perpetua.
Non per nulla la fibra dei nostri calendari viene dal più grande condottiero romano, Giulio Cesare, che conquistò il mondo conosciuto, e poi da un papa guerriero, Gregorio XIII, anno 1582, che masticava bacche di ginepro, faceva strage di Ugonotti, soffriva di insonnia, «teneva in gran parsimonia il tempo, di tutte le cose la più preziosa». Il tempo, a quel tempo, era in ritardo. Dieci giorni sull´equinozio di primavera, secondo i matematici. Accumulati dall´errore di certi aggiustamenti che Cesare, nell´anno 46 avanti Cristo, dopo la campagna d´Egitto, aveva introdotto per conteggiare la sua gloria e i raccolti. Sosigene di Alessandria era l´astronomo che Cesare condusse a Roma per riformare il tempo. Unificarlo. Secondo la scienza egizia, i calcoli caldei, le osservazioni babilonesi.
L´anno solare era già la misura della vita degli uomini e di tutte le cose. Diviso in dieci mesi fino a Tito Livio. Diviso in 365 giorni, ma con quella imperfezione di quasi sei ore che Sosigene, l´astronomo, calcolò di aggiustare una volta ogni quattro anni. Infilando quel giorno in più tra il 23 e il 24 febbraio, chiamandolo «bis sexto antes kalenda martias», due volte il sesto giorno prima del primo marzo. Giorno bisesto, per l´appunto.
Cesare promulga il tempo nuovo. Il calendario diventa "Giuliano". In suo onore si nomina il settimo mese. E per suo volere il Capodanno si sposta al primo giorno di gennaio. Tre secoli dopo, Costantino, che si proclama imperatore per volontà di Dio e che alla spada romana affianca la croce, introduce la settimana, dedicando la domenica alla preghiera, ma non ancora al riposo. La preghiera si avvera. La Chiesa romana si impadronisce del tempo. Fissa al 6 gennaio la nascita di Gesù. Poi la retrocede al giorno sacro del culto di Mitra, la festa del sole, che in tutto l´impero cade il 25 dicembre. Inglobandola la cancella, per sostituirla col Natale. Inizia da quella nascita la numerazione del tempo. Il matematico Dionigi nomina Uno quell´anno, non conoscendo lo Zero. Tutte le festività diventano cristiane.
Ma l´imperfezione dei calcoli resta umana. Come lo sono le conseguenze dell´errore, undici minuti non contabilizzati ogni anno. Per questo Gregorio XIII, padrone del suo tempo, consulta i più grandi matematici, i signori di tutti i calendari, confronta le misurazioni astronomiche, accerta lo scarto accumulato che fa cadere l´equinozio di primavera non più il 21, ma l´11 marzo, in anticipo di dieci giorni. Con danni al calendario della fede che fissa la Pasqua dopo l´ultimo novilunio e non ammette deroghe. Per questo Gregorio elabora una decisione spettacolare.
Nel memorabile anno 1582, il papa impugna lo scettro del tempo e con la bolla Inter gravissimas cancella dieci giorni dal calendario. In una sola notte il mondo cristiano passa dal 4 al 15 ottobre. Propagando stupori, genuflessioni e proteste. Contadini chiedono il risarcimento di quelle ore non vissute, di quei semi non piantati. Le banche non sanno come conteggiare gli interessi sui prestiti. Debitori rifiutano di onorare le scadenze cancellate. I fedeli temono che scompaginando i giorni del calendario, preghiere destinate ad altri santi finiscano inascoltate. A Francoforte scoppiano tumulti. E nelle Fiandre si litiga fino al successivo dicembre, quando la bolla papale viene accolta, e il tempo passa dal 21 al 31 dicembre, cancellando per quella volta il Natale.
In quattro secoli quel calendario diventa universale. Entra in vigore in Inghilterra nel 1752. In Russia nel 1918. Nella Grecia ortodossa nel 1932. In Cina si affianca ai suoi anni zoologici. La persistenza d´altri conteggi - quelli ebraici, islamici, buddisti - consente l´equivalenza degli anni, senza smentire la scansione dei mesi e dei giorni. Si inceppa nella sola Francia di Robespierre e Danton che polverizza la Bastiglia, si impadronisce dello spazio con il calcolo decimale, promette di governare gli uomini in nome di un´era nuova. E perciò anche di un nuovo calendario, affinché il trionfo sia completo, come da allora in avanti faranno altre rivoluzioni, celebrando i giorni della vittoria, prima di insanguinarli.
Il calendario Gregoriano ha unificato il tempo. Introdotto la data. Reso pensabile l´ordine cronologico degli eventi. Lineare. Fino a certe soglie del nostro Novecento, quando il romanzo e la psicoanalisi hanno scoperto che il tempo interiore degli uomini non è affatto unico, ma scorre tra il cuore e la memoria a velocità sempre differenti. Fino a certi calcoli della nuova fisica che lo ha reso infinitamente esatto, secondo le oscillazioni atomiche del Cesio, ma ne ha messo in discussione la durata eterna, perché non esisteva un attimo prima del big bang e prima o poi smetterà di esistere. Sempre che il prima e il poi abbiano ancora un senso.
Dicono i matematici dei nuovi calcoli che l´anno gregoriano sia in eccesso di tre millesimi di giorno. E che tra tremila anni ci troveremo con un giorno di troppo, obbligati a ordinare un nuovo anno bisestile alle nostre imperfette procedure. Fatevi un appunto per quel giorno.

L’Unità 27-12-07
Serve un Partito della Nazione
di Alfredo Reichlin


Sto partecipando, come presidente della Commissione incaricata di redigere una «carta dei valori» del Partito Democratico e insieme al relatore professor Mauro Ceruti, a una esperienza nuova e difficile. Cento persone che discutono, ma anche scrivono, mandano testi, messaggi, pensieri. Metà donne, molti a me sconosciuti, un mondo diverso dalle vecchie nomenclature politiche. Il clima generale è quello di una grandissima voglia di cose nuove, la domanda impellente è quella di una politica non politicante, più vicina alla gente, più ispirata a un’etica e ai grandi valori. Il dibattito è serio. Per cui, davanti a certe caricature, io mi scoraggio e mi chiedo se non ci sia niente da fare di fronte all’Italia di sempre: i guelfi contro i ghibellini, la difesa delle proprie bandierine, anche al costo di lasciare che altri decidano del nostro avvenire.

Per quanto mi riguarda, sento acutamente la responsabilità grande che pesa su di noi.

Da quanti anni un partito italiano - sinistra compresa - non tentava di definire, sia pure per sommi capi, non un programma (ne abbiamo fatti tanti) ma una base culturale e morale che giustifichi il suo esistere come partito e non come federazione di forze diverse oppure semplice alleanza elettorale?

Forse questa è solo una velleità. Ma se abbiamo una qualche consapevolezza della situazione in cui ci muoviamo, tra speranze e delusioni, dominata com’è dal rischio che senza una nuova guida la società italiana si disgreghi e lo Stato-nazione non regga alle sfide del mondo, allora c’è poco da fare: l’impresa di dar vita non a un altro partitino, ma a un grande e inedito «partito della nazione» cementato da una comune idea dell’Italia e del mondo del 2000 appare davvero senza alternative che non siano catastrofiche. Questo a me sembra il tema di fondo. È dentro questo grande tema altamente politico, nel senso del presente come storia, che si garantisce il pluralismo e il rapporto tra laicità e religione.

Non voglio entrare nel merito. Dico solo che un partito, sia pure post ideologico e pluralista, se vuole mandare al Paese un messaggio unitario credibile, deve avere una identità e un cemento. Qui sta il compito difficile nostro, di queste cento persone. Da un lato avere ben chiaro che questo partito può nascere solo se tiene insieme in questo passaggio d’epoca laici e cattolici, dall’altro che la ragione dello stare insieme sta non in un elenco astratto di principi ma nelle cose. Le cose nuove, grandissime, perfino sconvolgenti, del mondo perché sono esse che interrogano tutte le vecchie culture, anche quelle laiche e reclamano nuove risposte. Da tutti. Ed è esattamente la necessità di queste risposte che ci impone un impegno comune.

Stiamo attenti a non litigare su niente, il «chi siamo» deriva dal fatto che il Paese capisca a cosa serviamo. E a che cosa io mi chiedo se non a costituire quel partito della nazione che oggi manca, il quale abbia la forza di restituire «lo scettro al principe» cioè ridare alla politica il potere di decidere? Solo così la democrazia si può salvare, in quanto la politica cessi di essere una tecnica per la spartizione del potere, un potere per altro residuo rispetto a quello soperchiante dell’economia mondializzata e ritrovi così la sua fondazione etica, il suo rapporto con la società e con le domande, i bisogni e i pensieri della gente.

Liberazione 2.1.08
Giordano: «Ok verifica, ma senza garanzie. Per la maggioranza è l'ora della verità»
Salari, prezzi e diritti. I temi caldi del confronto. E sulla Sinistra: occorre fare presto. Altrimenti, rischiamo di diventare tutti residuali

di Rina Gagliardi


«Quello che serve è invertire il trend del declino e della sfiducia»
«Noi non rivendichiamo obiettivi "di parte", nessuno può più negare la drammaticità -sociale ed esistenziale - della condizione lavorativa».
Sul caro prezzi: «Serve un intervento dello Stato. Penso a quel che fece Sarkozy nel 2004»

Franco Giordano sta trascorrendo a Parigi questi (per lui rari) giorni di tregua e di riposo quasi forzato: gli torneranno utili per prepararsi alle durezze del 2008 e del gennaio 2008 in specie. In questa intervista, con il segretario di Rifondazione comunista abbiamo parlato di molte cose e, giocoforza, delle scadenze ravvicinate della politica. La verifica? «Le possibilità concrete di una svolta ci sono, ma se mi chiedi garanzie non le posso dare a nessuno». I temi essenziali? «I salari, cioè intanto la chiusura immediata del contratto metalmeccanico. I prezzi, cioè un intervento forte dello Stato, un po' come fece in Francia l'allora ministro Sarkozy nel 2004. La precarietà, dove intanto è essenziale ricostruire una griglia organica di diritti. I diritti civili, dove temo sia ormai evidente l'inaffidabilità laica del Pd e del suo gruppo dirigente». Il processo unitario a sinistra? «I tempi devono essere rapidissimi, se non vogliamo disperdere il patrimonio accumulato con la manifestazione del 20 ottobre e l'assemblea generale della Nuova Fiera». Non inganni la natura apparentemente "perentoria" di queste (ed altre) affermazioni: Giordano, tra i pochissimi politici italiani di formazione ingraiana, è uno che coltiva anche e soprattutto l'arte del dubbio - e della complessità. Ma la fase attuale gli appare davvero drammatica, nelle sue tendenze di fondo, nei pericoli che avanzano di "declino irreversibile" della politica e di frammentazione sociale: da qui, come direbbe Ingrao, l'urgenza del fare e del provarsi, in tutti i modi, a costruire anticorpi, argini, una nuova soggettività antagonista - insomma, quella alternativa generale di società che finisce oggi per costituire la sola àncora di salvezza immaginabile per la società. Ma ecco l'intervista.

Nel suo messaggio di fine d'anno, il presidente della Repubblica ha negato la tesi del "declino" dell'Italia e ha anzi sostenuto che ci sono le energie necessarie per uscire dalla crisi. Ti sembra questa un'analisi condivisibile?
Credo che il presidente Napoletano abbia in mente soprattutto la sfera dell'economia, e che la sua diagnosi "ottimista" sia relativa, appunto, alle possibilità di ripresa economica del Paese. Ma quando si parla di "declino", si ha da intendere, secondo me, una dimensione che va ben oltre l'economia: ed in questo senso ho la sensazione che sia un atto un declino culturale profondo. Una crisi che macina le basi stesse della coesione sociale e del senso comune, e tende a frammentare tutto, i corpi sociali come le idee - e perfino l'"io individuale", sempre più diviso. Un processo che si riflette su tutti gli altri terreni - economico e sociale, prima di ogni altro - e che ha tra le sue radici (e paradossalmente anche tra i suoi effetti) una svalorizzazione del lavoro a dir poco drammatica, come tutti abbiamo potuto vedere nella tragedia più che esemplare della Thyssen Krupp. Parlo dell'Italia, naturalmente, oltre la congiuntura politica, e mi pare che la società stia davvero per implodere.

Quali sono le ragioni specifiche di una situazione così cupa? Quelle più autoctone e "nazionali", voglio dire, che si intrecciano ai processi già ampiamente analizzati di natura generale, la globalizzazione capitalistica, il disordine mondiale, le guerre, i fondamentalismi?
E' evidente che in Italia i fattori che tu citi operano con particolare forza e, direi, "virulenza": per esempio, dal punto di vista culturale, oltre che da quello sociale e politico, l'egemonia del mercato, assunto come paradigma del benessere ed anzi come principio informativo e dominante di tutta l'organizzazione sociale, sta producendo effetti devastanti. Ma da noi, diversamente da altri grandi paesi europei (Francia, Germania, per altro certo non indenni dai fenomeni della così detta postmodernità), agiscono anche poteri che stanno prendendo il sopravvento per assenza di anticorpi adeguati: penso alle gerarchie ecclesiastiche, ai vertici della Chiesa Cattolica, che mai come in questo periodo sono stati tanto forti, tanto capaci di incidere sulla politica concreta. E penso ai poteri malavitosi, alla grande criminalità organizzata, specie al Sud, che tendono a crescere, a controllare territori e pezzi rilevanti dell'economia. Questi poteri, scusa il bisticcio, sono oggi più potenti di quanto non siano stati negli ultimi decenni: perché non trovano di fronte a sé una alternativa culturale adeguata, socialmente radicata, un contropotere massiccio quale è stato (lo dico senza nostalgie di sorta) il Partito Comunista Italiano. A contrastare il loro dispiegarsi, ci sono, insomma, tanti movimenti, spesso generosi e coraggiosi, molte iniziative di sinistra, un certo numero di campagne d'opinione: che, però, nel loro insieme, non configurano - non riescono ancora a configurare - "un altro Paese".

Insomma, vuoi dire che non configurano una Sinistra grande e dotata della forza e dell'efficacia necessarie?
Esattamente. Manca una sinistra non solo capace, come tale, di presentarsi alle elezioni e di prendere molti voti. Non solo capace di agire nella sfera della politica e delle istituzioni. Ma gramscianamente capace di produrre egemonia in quanto portatrice di cultura della trasformazione. Questo è, da tempo, il mio personale rovello: la ricostruzione di una soggettività politica che sia in grado di contrastare il declino di cui dicevamo. Anzi tutto prospettando un'idea altra di società, e quindi misurandosi con la forza dei poteri forti, promuovendo battaglie sociali e civili generali, intervenendo nel "senso comune" disgregato. Se non nasce questa nuova soggettività, le lotte singole, anche le più determinate, e la generosità dei movimenti, tendono a rifluire, o a farsi parziali. Ed essa può nascere, deve nascere, in tempi rapidissimi, e non può imitare i vecchi modelli: non può essere una sorta di "heri dicebamus", come se la lunga sconfitta di questo trentennio fosse soltanto una parentesi, secondo la (pessima) lezione di Croce sul fascismo. Deve essere, appunto, il nuovo spazio pubblico dove riprende vita la cultura della trasformazione, e la sua connessione con il "qui ed ora" della battaglia sociale e politica.

Tutto giusto, Franco, tutto condivisibile. Ma non stai un po' sottovalutando la portata dell'impresa, le sue asperità materiali, se così si può dire? Nelle ultime settimane, nella discussione sul governo Prodi e sulla riforma elettorale, tra le forze che compongono il panorama attuale della sinistra sono tornate a manifestarsi differenze significative. Come le si supera, in concreto?
I contrasti tra noi, il Pdci, i Verdi e Sinistra democratica (e di ciascuna di queste forze con le altre) ci sono: sarebbe inutile negarlo, e sarebbe idealistico non vedere i problemi che abbiamo di fronte. Detto questo, però, non ti sembri astratto il mio giudizio di fondo: tutto questo ha la sua rilevanza, soprattutto nella sfera quotidiana, ma riguarda l'epidermide. E' schiuma. Ha a che fare con differenze tattiche, che a loro volta sono relative alla collocazione contingente e al mondo separato della politica. Se guardiamo invece alla sostanza, se mettiamo al centro - scusa se ripeto, ma credo proprio che "repetita iuvant" - l'urgenza di una nuova cultura della trasformazione, se insomma affrontiamo il processo di costruzione di un a sinistra unitaria e plurale con l'occhio rivolto alla società, scopriamo che si tratta di un bisogno largamente diffuso, e condiviso, al di là delle appartenenze - e anche al di là della pulsione all'autoriproduzione di sé che tende logicamente ad esserci e ad agire come fattore di freno. Ci servono, ci sono essenziali, in sostanza, passi lunghi. Altrimenti, rischiamo di diventare tutti residuali. O meglio ininfluenti - e questo, in tutta evidenza, è un rischio che si avverte, per la sinistra, in tutta Europa.

Quanto all'innovazione che tu auspichi, anzi che giudichi necessaria nella costruzione di questa nuova soggettività unitaria e plurale, non c'è il consueto rischio, invece, che tutto si riduca, appunto, ad un auspicio, o al massimo a un'intenzione?
Anche qui: il rischio che tutto rimanga solo una chiacchiera, c'è, e come, così come quello che spinge le vecchie strutture, i gruppi dirigenti, quelli ristretti e quelli "larghi" a non cedere spazio a nessun altro. Con questa consapevolezza, e con queste avvertenze, dobbiamo provarci - per amore e per forza. Paul Ginsborg ci ha proposto un'idea che mi pare feconda: il nuovo soggetto politico dovrà modellarsi su uno schema binario, costituito, per un verso, dalle forze politiche organizzate, e dalla società auto-organizzata, autorappresentata, per l'altro verso. E' una riflessione che ci dovrà impegnare molto seriamente.

Veniamo alla "famigerata" verifica. Il tema da cui partire, o meglio, da cui ripartire, è il lavoro - e il salario. Nonostante Padoa Schioppa…
Lo diciamo da sempre, ma ora mi pare che nessuno possa più agevolmente negare la drammaticità - sociale ed esistenziale - della condizione lavorativa, in quanto tale. Il lavoro non vale più nulla, specie il lavoro operaio, al lavoro sono oggi negati non solo il riconoscimento necessario, ma perfino i diritti elementari, ed ora anche il diritto alla vita. La tragedia della Thyssen Krupp, da questo punto di vista, concentra in se stessa, come in un tragico caleidoscopio, tutti i problemi del lavoro operaio: i salari troppo bassi, gli straordinari (e quindi gli orari di lavoro) che si allungano a dismisura, i ritmi che si fanno insopportabili, la sicurezza che viene meno - e la soggettività operaia che viene distrutta, cancellata, umiliata. Dunque, oltre le lacrime di coccodrillo versate da Confindustria, c'è una prima cosa urgentissima da fare: chiudere il contratto metalmeccanico, consentire all'aumento (110 euro) chiesto dai sindacati, ricominciare a mettere al centro della politica la dignità e i diritti del lavoro. Senza consentire alle pretese confindustriali che chiedono di legare il salario alla produttività: se sono vere le cifre dell'Istat, secondo cui nell'ultimo quinquennio i salari hanno perso 1900 euro e nello stesso periodo i profitti sono aumentati dell'85 per cento, una tale pretesa ha tutta l'aria di una truffa. Inammissibile, come l'ipotesi politica generale che muove il padronato e, temo, il Partito Democratico: che è poi quella di far saltare il contratto nazionale. In sostanza: al primo punto, ci sono i salari, da aumentare in termini consistenti, oltre il semplice recupero dell'inflazione, anche attraverso la detassazione. Per tutte queste ragioni, esprimo una radicale avversità alle posizioni espresse in questi giorni dal ministro del Lavoro, Cesare Damiano.

Contratti, detassazione delle retribuzioni, insomma un intervento vero di redistribuzione della ricchezza. E poi?
Non poi, ma contestualmente, è urgente la questione del caroprezzi. Qui serve un intervento dello Stato forte e determinato: forse sarà l'aria di Francia che mi influenza, ma penso a quel che fece Sarkozy nel 2004, quando, di fronte all'allarme del carovita, convocò tutte le associazioni dei commercianti e lanciò un ultimatum: sei mesi di tempo per frenare i prezzi, o lo Stato era comunque pronto ad intervenire d'autorità. Ha funzionato abbastanza - è la prova che la politica, lo Stato, possono esercitare un potere non soltanto repressivo, come vuole la tendenza sicuritaria attuale. Inoltre, per tutelare ulteriormente le classi più povere, si può operare sulle tariffe sociali, sull'energia, sul blocco ai prezzi dei beni di prima necessità.

Non mi pare che il ministro Padoa Schioppa concordi con questa idea di una redistribuzione sostanziosa, e non contingente, della ricchezza…
Al ministro Padoa Schioppa voglio dire soltanto una cosa: non possiamo procedere come se giocassimo a guardie e ladri. Dove lui fa la guardia all'economia, al rapporto debitoPil, alla sanità dei conti, e noi siamo - saremmo - quelli che cercano di rubare risorse ai supremi interessi dell'economia, per diffonderle ai nostri "rappresentati". Non è così, non può essere così: questa è una rappresentazione dialettica di comodo. Falsa. La verità è che la redistribuzione sociale, l'aumento dei salari, il blocco dei prezzi, il varo di un piano che contrasti la precarietà servono al Paese, nel suo insieme: non sono una prerogativa della sinistra, non sono soltanto rivendicazioni sindacali. Se una parte crescente del Paese, a cominciare dalla classe operaia, è sempre più povera, marginalizzata, inerme, privata di diritti, è la qualità di ciò che chiamiamo "sviluppo" a risentirne, gravemente. E' il paese che si marginalizza e si deprime, come dicono i sociologi. E', in ultima istanza, la democrazia che fa giganteschi passi indietro.

E quindi?
Quindi, il punto essenziale è uscire dallo schema miope e corporativo del padronato, un padronato che persegue interessi a breve e non è in grado di pensare in grande. Anche Confindustria, come larga parte della società italiana, tende a vivere in un ipertrofico presente, il suo - e ad uccidere il tempo, trasformando il classico "carpe diem" (che era poi la capacità di cogliere l'attimo e di affermare comunque la propria capacità di scelta) nel più banale "prendi i soldi e scappa". Appunto, il governo dovrà pur scegliere, non tra noi, sinistra, e i moderati dell'Unione, non tra la sinistra politica e Confindustria, ma tra la rappresentanza politica di Confindustria, con le sue pretese, i suoi ricatti, la sua invadenza, e gli interessi generali del paese. Questo mi pare sia il punto che sfugge al ministro dell'economia. Vale anche, tutto questo, sul cruciale capitolo della lotta alla precarietà, sul quale si dovrà ripartire da dove ci si è fermati, inopinatamente, nel protocollo sul Welfare - magari guardando, oltre che ai vertici confindustriali, ad alcune realtà imprenditoriali, dove già si applica il termine massimo dei trentasei mesi come somma di contratti interinali e contratti a termine.

E il doloroso capitolo della laicità, cioè dei diritti civili?
Anch'esso, come del resto il nodo paceguerra e le prospettive della formazione e della ricerca, sarà parte integrante della verifica…

…o del "punto", come dicono da palazzo Chigi..
….lo dicono nel tentativo di ridimensionare la portata di una discussione, e di un bilancio, che noi non intendiamo certo come rituale, o formale. Ma, tornando ai diritti civili e alla laicità, il problema più serio è diventato quello della totale inaffidabilità laica del Pd e del suo gruppo dirigente: quando una senatrice pur umanamente rispettabile come Paola Binetti invoca Dio per spiegare le sue posizioni o le sue scelte di voto, come nemmeno fa il più esasperato degli integralisti islamici, non è possibile, non è accettabile che una tale farneticazione assuma lo status di un'interlocuzione politica obbligata - o peggio privilegiata. Non è sensato un tale spostamento di asse nel cammino che ci separa, a tutt'oggi, da alcune leggi chiave della modernità civica. Dovremo riparlarne, a lungo, durante e dopo la verifica…

Ultima domanda: abbiamo qualche speranza di farcela? O le sorti del governo Prodi sono segnate?
Se guardo ai numeri del Senato, non posso che trarne una conclusione negativa: in ogni caso, questo governo e questa maggioranza sono a rischio costante, anche del ricatto dei singoli o delle giravolte dei microgruppi. Ma se uno si sforza di guardare oltre, e di mettersi in connessione con il malessere profondo della società, le conclusioni possono essere diverse, e la nostra forza ben maggiore. Come dicevo prima, noi non rivendichiamo obiettivi "di parte", non innalziamo le nostre bandierine: proponiamo il tema generale di una politica capace di invertire il trend del declino e della sfiducia di massa. Non sarà facile per nessuno, se si avvia una discussione vera, "bocciare" le nostre proposte. Insomma, questo è il momento delle scelte vere, per il governo e per questa maggioranza. Le possibilità concrete di farcela ci sono. Ma se mi chiedi garanzie, non sono in grado di darle a nessuno.