venerdì 4 gennaio 2008

Repubblica 4.1.08
Una nuova biografia del filosofo scritta da Michele Ciliberto
Giordano Bruno, segreti e magia
di Franco Volpi


Il grande pensatore non è solo una figura chiave nella genesi della civiltà moderna, ma anche un pregevole scrittore

La lingua «in giova» e la bocca serrata in una morsa per impedirgli di parlare: così Giordano Bruno fu arso vivo in Campo dei Fiori a Roma il 17 febbraio del 1600. Tra le eresie per cui fu condannato al terribile supplizio dall´Inquisizione, figurava la tesi da lui sostenuta che «l´universo è uno, infinito, immobile». Alla lettura della sentenza il frate ribelle avrebbe gridato in faccia ai suoi accusatori che «se ne moriva martire e volentieri, et che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in paradiso». Analoga sorte fu riservata ai suoi libri per i quali si ordinò «che siano publicamente guasti et abbrugiati nella piazza di san Pietro, avanti le scale, et come tali che siano posti nel Indice de´ libri prohibiti».
Nonostante ciò, e benché la sua ipotesi sugli «infiniti mondi» fosse ancora troppo metafisica per essere presa in considerazione da scienziati come Tycho Brahe, Keplero e Galilei, l´opera di Bruno fu subito letta in tutta Europa e godette di una vasta fortuna. Le rocambolesche vicissitudini della sua vita, le sue peregrinazioni, lo scontro con l´Inquisizione e il processo tragicamente conclusosi - come racconta la nuova biografia di Michele Ciliberto (Giordano Bruno. Il teatro della vita, Mondadori, pagg 555, euro 30) - attirarono su di lui l´interesse del mondo colto europeo. Bruno si impose come figura chiave nella genesi del pensiero moderno, quale precursore di Spinoza, Leibniz e Schelling, e come uno dei fondatori della tradizione filosofica italiana.
In realtà, all´inizio prevalsero reazioni critiche o improntate alla cautela. È il caso di padre Mersenne, fedele alla Chiesa, ma anche di un libero pensatore come Pierre Bayle, il quale nel suo Dictionnaire respinge il panteismo bruniano che ridurrebbe l´universo alla sola Natura, privandolo di una vera trascendenza divina, e mette perfino in dubbio la morte per rogo. Poi qualche coraggioso - come il libertino Gabriel Naudé e più tardi il deista John Toland - cominciò a difenderlo, riconoscendogli il coraggio della verità e una eroica dedizione alla causa del sapere. Anche Diderot lo celebrò nella sua Encyclopédie, non nascondendo tuttavia un certo scetticismo circa le sue qualità di scienziato e stimandolo piuttosto come pensatore-poeta. Ad alimentare l´entusiasmo furono soprattutto i romantici, in particolare Schelling che lo tradusse in tedesco e ne esaltò il pensiero come anticipazione della propria filosofia della Natura intesa come Uno-Tutto. In Italia Bertrando Spaventa e poi Giovanni Gentile a consacrarlo quale grande classico della filosofia: il primo assegnandogli una funzione chiave nella circolazione delle idee che egli immaginava unisse la filosofia italiana e quella europea; l´altro celebrandolo come iniziatore della filosofia razionale moderna, insieme a Telesio e Campanella.
Nel frattempo, nell´inevitabile conflitto delle interpretazioni, si sono affermate due tendenze esegetiche: quella alimentata dalla tradizione laica e massonica che vede in Bruno il martire del libero pensiero, un moderno Socrate che affronta la morte per testimoniare la verità e difendere i lumi della ragione contro l´oscurantismo ecclesiastico (il monumento eretto nel 1889 in Campo dei Fiori è opera peraltro del Gran Maestro Ettore Ferrari). E quella avviata dalla studiosa inglese Frances Yates (Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza), che lo associa al neoplatonismo rinascimentale e lo presenta come mago esperto in arti mnemotecniche e iniziato ai misteri della tradizione ermetica. La Yates avanza anche l´intrigante congettura che Bruno fosse stato inviato in Inghilterra dal re di Francia per convertire alla religiosità neopagana gli ambienti colti della corte inglese, con la finalità di superare gli estremismi religiosi, sia puritani che cattolici, e di riavvicinare Francia e Inghilterra in funzione antispagnola. Una ipotesi, questa, confermata dalle ricerche dello storico inglese John Bossy (Giordano Bruno e il mistero dell´Ambasciata, Garzanti) secondo il quale Bruno avrebbe agito a Londra come spia dei francesi e avrebbe collaborato al tempo stesso, in un rischioso doppio gioco, con i servizi segreti inglesi per sventare i progetti dei cattolici contro Elisabetta.
La nuova biografia di Ciliberto, interamente basata su fonti originali, corregge forzature e unilateralità dell´una e dell´altra interpretazione offrendo un´immagine a tutto tondo del vulcanico personaggio e appassionando alle sue sfortune e alla sua opera anche il non specialista. Alla fine si fa largo il convincimento che Bruno sia da riscoprire, oltre che come filosofo della magia e del libero pensiero, anche come grande scrittore.

l'Unità 4.1.08

Clero e centrosinistra
Chiagne e fotte
di Paolo Flores d’Arcais


«Chiagne e fotte» (anche contratto in «chiagn’e fotte») è una delle più note espressioni del dialetto napoletano. Indica una persona che gode di privilegi e ciononostante si lamenta, quasi fosse discriminato. Un privilegiato a cui non basta mai, insomma. Non utilizzeremo questa perspicua ed efficacissima manifestazione del logos partenopeo a proposito della recente uscita del cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Santa Romana Chiesa (quasi un vice-Papa, per capirsi), perché le attuali norme sul celibato ecclesiastico renderebbero di cattivo gusto accostare a un prelato un qualsiasi riferimento sessuale, fosse anche giocoso o metaforico. E tuttavia, sentirlo dichiarare solennemente che «il Partito democratico non deve mortificare i cattolici», quando lo sport quotidiano in detto partito sembra semmai quello del «bacio della pantofola» e di ogni altro esagerato ossequio verso la Chiesa gerarchica, lascia davvero senza parole.
Cosa vuole di più il cardinal Bertone dal neo-segretario Veltroni, con il quale dice di essersi lamentato per le «derive» («laiciste», ça va sans dire) del nuovo partito, tali che gli fanno rimpiangere Gramsci e Togliatti (sic!)? Non gli basta che il centrosinistra abbia già scaricato in soffittaun pur timidissimo disegno di legge sui Dico o Pacs o come altro li si vuol innominare? Non gli basta che dopo aver doverosamente ascoltato la richiesta dell’Europa, che chiede a tutti i Paesi membri di non accettare discriminazioni tra le diverse preferenze sessuali (richiesta che l’Europa avanza col sostegno di gran parte delle forze politiche di destra), il centrosinistra si sia già rimangiato quel gesto di elementare civiltà, con risibili scuse tecnico-procedurali? Non gli basta che il governo continui a traccheggiare di fronte a una legge ignobile, che costringe le coppie che ricorrono alla fecondazione artificiale a rischiare di concepire bambini con gravissime malformazioni, legge che per fortuna più di un tribunale ha interpretato alla luce della Costituzione? Non gli basta che il centro-sinistra continui a impinguare e locupletare le scuole clericali, in spregio di un articolo della Costituzione che più chiaro non si può? Non gli basta che nella scuola pubblica (pubblica?) siano stati fatti entrare in ruolo migliaia di insegnanti di religione nominati dalla Cei, che potranno eventualmente passare a insegnare filosofia, storia, italiano (sempre restando di ruolo, senza concorso)? Non gli basta che in barba alla famosa commissione Levi-Montalcini, si continui a NON insegnare il darwinismo nei primi anni di scuola e fino all’adolescenza (contribuendo a farli restare bamboccioni)?
Non gli basta un meccanismo truffaldino dell’otto per mille che regala alla stessa Cei ogni anno qualcosa come un miliardo di euro (per non parlare dell’esenzione dall’Ici e altre regalie feudali)? Non gli basta una televisione pubblica (a chiacchiere) dove l’editorialista quotidiano dei Tg non è un giornalista, per lottizzato che sia, ma il Sommo Pontefice (di cui ci viene propinato ogni discorso, dichiarazione, elucubrazione, anatema, glossa) e dove la fiction ormai ha superato in devozione la «Legenda aurea» di Jacopo da Varazze, e in ogni dibattito “scientifico” è presente un esorcista?
Non gli basta. Tutta la Chiesa gerarchica - e il Papa in primo luogo - si accontenterebbe infatti solo di un programma davvero minimo: l’imposizione per legge a tutti i cittadini dei «valori non negoziabili», cioè della morale clericale su vita, morte, sessualità, educazione, ricerca scientifica. E questo centro-sinistra su qualche dettaglio ancora recalcitra. Sempre meno, del resto, visto che di fronte all’affondo anti-aborto del trio Ferrara-Ruini-Bondi (in ordine rigorosamente cronologico) e alla dichiarazione sanfedista della senatrice Binetti che voterà con Forza Italia, nessuno ha pronunciato l’ovvio “non possumus” laico, col suo inevitabile corollario: o lei (e altri sanfedisti come lei) o noi.
Le pretese di Bertone (che sono poi quelle di Ratzinger) non fanno che riportare in auge gli anatemi del Sillabo. I «valori non negoziabili» sono gli stessi di allora, solo che ora non li si invoca più contro le democrazie, si vorrebbe che diventassero la Costituzione stessa delle democrazie. Di fronte a tanta totalitaria pretesa, quello che lascia sgomenti è proprio la mancanza di reazione di chi si professa democratico.Perché, la laicità o il laicismo coerenti, che esigono uno Stato neutrale rispetto alle diverse morali di gruppo e personale, dove dunque si legiferi secondo il principio di Grozio («Etsi Deus non daretur», come se Dio non ci fosse), non costituiscono un estremismo ateo di segno analogo e contrario all’estremismo clericale che vuole imporre a tutti la propria morale per legge. L’opposto speculare di tale pretesa sarebbe quella di uno Stato che pretenda di imporre per legge, a tutti, l’aborto in caso di malformazione, o dopo «x» figli (per via della sovrapopolazione). O vieti l’insegnamento della religione, e a scuola abbia un’ora di «ateismo» settimanale. O in nome di una morale edonista esiga l’eutanasia per tutti i malati terminali in balia della sofferenza. O che, per stroncare la piaga delle ragazze madri, renda obbligatorio l’uso della pillola per tutte le minorenni. E via costringendo.
Tutte cose che un laico non si sognerebbe mai di chiedere. Perché laico significa democratico, e democratico significa laico. In una democrazia liberale i due termini si implicano a vicenda. E significano uno Stato che non impone a nessuno la morale di altri, ma rispetta la morale autonoma di ciascuno (fino a dove non distrugge l’autonomia dell’altro, ovviamente). Dunque, uno Stato che non impone a nessuno il divorzio, ma a nessuno impone l’indissolubilità del matrimonio. A nessuno impone la contraccezione, ma non impone le contorsioni dell’Ogino-Knaus a chi la contraccezione (sicura) la vuole praticare. A nessuno impone l’aborto terapeutico, ma a nessuno impone la nascita di un figlio non voluto. A nessuno impone l’eutanasia, ma a nessuno impone la tortura di una sofferenza terminale inenarrabile. A ciascuno, invece, garantisce la libertà di scelta.
Questa è l’autentica moderazione del laicismo più intransigente, il suo «giusto mezzo»: non tollerare che una parte della società imponga all’altra la propria morale, che un gruppo prevarichi facendo del proprio volere morale il dovere della totalità dei cittadini, ma rispettare l’autonomia morale di tutti e di ciascuno. Questi sono gli unici valori non negoziabili che dovrebbero accomunare, senza se e senza ma, tutti i democratici, di tutti i partiti (e più che mai di chi così ha deciso di chiamarsi).

Repubblica 4.1.08
La polemica. L'aborto è un dramma la moratoria è peggio
di Umberto Veronesi


La proposta di una moratoria per l´aborto andrebbe spiegata alla gente, prima che dibattuta in politica. Non tutti infatti hanno capito cosa vorrebbe dire nella sostanza. Se è un appello a non praticare l´interruzione volontaria di gravidanza, allora va contro la legge; se istiga a far nascere un neonato, anche con malformazioni gravi, destinato a non sopravvivere, allora è un invito alla crudeltà. Se invece rappresenta un´apertura alla riflessione sull´aborto, perché si crei più conoscenza e più responsabilità (soprattutto da parte dei maschi), con l´obiettivo di incrementare il livello di educazione sessuale e diffondere i principi della prevenzione, allora può essere un´occasione per un dibattito profondo. Non ci sono più dubbi: se si vuole evitare l´aborto bisogna mettere in atto delle misure preventive, che stanno nell´uso corretto delle pratiche anticoncezionali. Infatti una parte significativa delle interruzioni avviene per gravidanze non volute. Ora, obbligare una donna ad avere un figlio non desiderato significa da un lato infrangere il diritto all´autodeterminazione e alla libertà di scelta individuale, dall´altro far nascere un bambino non amato dai genitori, che non potrà che crescere infelice ed emarginato, quando non finirà in un cassonetto. Quindi l´interruzione di gravidanza, che oggi può essere ottenuta con la semplice assunzione di una pillola (la RU 486), è una scelta del male minore, come ha accennato ieri Massimo Cacciari, e come direbbe Paul Ricoeur. L´aborto è un evento drammatico e traumatico che tutti – indipendentemente da idee, convinzioni e principi – vorrebbero evitare: la legge 194 nasce per tutelare chi invece si trova costretto ad affrontarlo.
Si tratta di una legge civilmente avanzata che si basa sul fondamento che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile , riconosce il valore sociale della maternità e promuove la cultura della prevenzione. Il valore aggiunto di questa legge è allora proprio quello di introdurre nell´ordinamento giuridico delle finalità sociali e sanitarie, che invitano all´informazione e alla presa di coscienza dei cittadini, nel pieno rispetto del loro diritto all´autodeterminazione e alla libertà di scelta.
Non è un caso che i tempi della sua approvazione, nel ´78, furono tempi di dibattito acceso, politico ma soprattutto popolare, di manifestazioni nelle piazze e di cortei, che si conclusero con un referendum che raccolse un maggioranza a favore così schiacciante, da soffocare qualsiasi voce contraria. I risultati hanno dato ragione alla popolazione perché - vale la pena di ricordarlo ancora - il numero di aborti dagli anni ‘80 ad oggi è diminuito drasticamente. Il problema è piuttosto che la componente principale della legge, vale a dire la prevenzione e l´educazione sessuale per l´uso cosciente e sistematico dei metodi anticoncezionali, e la conseguente attivazione dei servizi socio-sanitari, non è stata applicata come previsto.
Vi sono anche casi legati alla povertà, che riguardano cioè coppie che desidererebbero un altro figlio, ma non hanno nessun mezzo economico per allargare la famiglia e dunque, se capita un gravidanza, si trovano costretti ad interromperla. È palese che occorrerebbero nuove misure sociali che tengano conto anche di quella parte di popolazione che oggi nel nostro Paese ancora "non può permettersi" di avere un altro bambino.
Ridurre l´interruzione di gravidanza è un obiettivo che va perseguito in ogni campo e con ogni mezzo. Nella mia professione di medico ho combattuto anch´io la mia battaglia. Mi sono battuto per non interrompere la gravidanza quando si manifesta un tumore al seno e neppure quando la gravidanza occorre in una donna già operata . Fino a pochi anni fa, l´aborto era un dogma intoccabile nel caso di tumore mammario, e io mi sono impegnato per dimostrare scientificamente che una gravidanza a termine non fa male, né durante né dopo la malattia; anzi, in qualche caso, potrebbe avere un valore protettivo. Questa conoscenza ha fatto nascere centinaia di bambini e reso felici altrettante donne, che inutilmente avrebbero sofferto un doppio dramma, quello della malattia e quello della mancata maternità.
Una prova in più, dunque che è con l´informazione e l´educazione, e non con il proibizionismo, che si combattono i mali. La lotta a un grande male, come l´aborto, se viene combattuto con una misura repressiva, come la proibizione, conduce ad un male ancora più grande, che è la clandestinità delle pratiche abortive, a svantaggio dei più poveri e dei più deboli. Invece l´intervento sulle cause che sono all´origine di ogni male, conduce alla via giusta: impedire che accada.

il Riformista 4.1.08
Laicità e dintorni
La sinistra, se c'è, batta un colpo


Il pil, già. Il pil è importante, figuriamoci. Però, pil a parte, al loro Family Day i socialisti spagnoli hanno risposto con una certa nettezza. Qui da noi, invece, stiamo ancora aspettando di capire, mesi dopo la versione italiana di quella manifestazione, cosa ha ascoltato Piero Fassino - all'epoca segretario del maggiore partito di centrosinistra - che proprio di ascolto, allora, parlò; e non di altro. Ma la cosa davvero preoccupante della attuale situazione italiana va addirittura al di là degli stessi contenuti e investe in pieno il ruolo che la sinistra intende svolgere per questo paese.
Nonostante ciò che pensa Prodi, il quale di recente ha rivendicato una affermata superiorità italiana relativa appunto al pil, va infatti ribadito che in Spagna il fronte laico la propria voce l'ha fatta sentire. Si potrà non essere d'accordo sul merito, appunto, ma è importante che le forze in campo siano schierate e riconoscibili. Soltanto così è possibile avviare un dialogo vero e far emergere gli obiettivi. In Italia, invece, più che altro sembra di assistere a un monologo. Nessuno o quasi, infatti, si contrappone al variegato fronte confessionale che ormai ha lanciato una vera e propria campagna politico-culturale dall'orizzonte più ampio che mai.
È sempre più chiaro che in pochi, a sinistra, facciano i conti con il fatto che tutte le battaglie combattute negli ultimi mesi - fecondazione assistita, testamento biologico, aborto, unioni civili, per citarne qualcuna - siano parte dello stesso pacchetto che parte dal diritto naturale e che non può che tornare lì. E non è tutto. Si tratta di una battaglia che, contando sulla inazione anche un po' arrogante della sinistra, il fronte cattolico sta vincendo non soltanto perché è in grado di ottenere risultati politici come la legge 40 o l'impasse sul testamento biologico o la tragicommedia surreale delle unioni civili in Campidoglio, ma soprattutto perché stiamo assistendo a una sorta di colonizzazione culturale senza precedenti.
Si pensi all'utilizzo dell'espressione "eticamente sensibile" ormai comunemente utilizzata senza che nessuno o quasi, da sinistra, abbia qualcosa da eccepire sul fatto che in questa categoria si faccia rientrare soltanto ciò che agli avversari piace. Oppure, si legga l'intervista a Giorgio Tonini pubblicata ieri dal Corriere della Sera nella quale, nell'affrontare le questioni sul tappeto, egli assume le regole imposte dall'avversario come fossero le regole del gioco senza battere ciglio. E si tratta di un esponente di primo piano del Pd, per di più vicinissimo a Walter Veltroni.
Sia chiaro, la Chiesa fa bene - anzi benissimo - a dire ciò che dice. Fa il suo lavoro, si potrebbe dire, ed è giusto che lo faccia. Quello di parlare, per la Chiesa, è addirittura un dovere oltre che un diritto. Però, la voce delle gerarchie vaticane non può essere l'unica ad innalzarsi forte e chiara in questo paese. Ieri su questo giornale il ministro Livia Turco si chiedeva dove fosse il mondo laico e dove fossero gli intellettuali. Già, dove sono? Perché il problema è proprio questo: non è la Chiesa che deve tacere - non sia mai - ma chi non è d'accordo che deve, finalmente, prendere il coraggio e parlare, rischiando, se è il caso, anche una sconfitta. Ma che parli!
E quindi ripetiamo le parole della Turco: dov'è il mondo laico? Oggi più che mai ci mancano Pasolini, Bobbio, Sciascia. Certo. Ma ci manca anche la politica, quella capace di fare una battaglia e di pensare in grande. Non semplicemente impegnata nelle manovre di cortissimo respiro. Cosa ne pensano Veltroni, Fassino, Rutelli, Marini, Bertinotti, D'Alema di tutto ciò? Questo paese - e gli elettori del Pd in particolare e della sinistra in generale - possono conoscere il loro pensiero su testamento biologico, aborto, eutanasia, coppie di fatto? Oppure sono destinati soltanto a leggere e ascoltare ripetitivi dibattiti su sicurezza, tasse e legge elettorale? Come mai su questo c'è la fila per parlare in tv e sui giornali mentre sull'aborto nessuno che apra bocca? Cosa è diventata oggi la sinistra? E il Pd cosa vuole diventare? Qualcuno è in grado di rispondere?
Magari, e sarebbe l'unica condizione posta, dicendo qualcosa di sinistra.

Corriere della Sera 4.1.08
L'intervista
Pierluigi Bersani: «Sui temi etici Veltroni dica parole chiare»
di Monica Guerzoni


Il ministro: un leader ha fortuna se segue gli interessi del Paese
Bersani: temi etici, Veltroni dica parole chiare
«Legge elettorale, non si torni alla casella di partenza. Il Pd? Serve un partito che decida»

ROMA — «Se si pedala, la bicicletta sta in piedi». Il governo Prodi va avanti su buone ruote, i dati fondamentali dicono che ripartire è possibile e la Finanziaria, con le semplificazioni fiscali e i crediti di imposta, darà la spinta per la ripresa. L'Italia ce la può fare e allora guai, avverte Pierluigi Bersani, a chi tenta di frenare la bici del Professore. Il governo nella visione del ministro per lo Sviluppo economico va di pari passo con le riforme, proporre il sistema francese vuol dire tornare alla «casella di partenza » e chi aspetta speranzoso il referendum potrebbe restare deluso: «Le riforme sono necessarie ma in questa fase delicatissima non si può perdere l'attimo, bisogna governare». Una critica diplomatica, ma serrata, alle ultime mosse di Veltroni.
Il quotidiano vicino a Rutelli, Europa, sospetta che Veltroni abbia deciso di staccare la spina al governo, mandando a monte il dialogo sulle riforme e la legislatura.
«Le fortune di un leader sono sempre legate agli interessi fondamentali di un Paese, fuori da lì non c'è fortuna per nessuno. E oggi l'Italia ha bisogno sia di essere governata sia di avere una riforma elettorale, ma non può precipitare in una fase ulteriore di incertezza e sbandamento. Se si perde di vista questo punto la cosa si fa davvero seria, ma io credo che tutti avranno il massimo di responsabilità».
Per Veltroni le riforme sono la priorità.
«Il sostegno al governo e le riforme sono obiettivi gemelli, senza un governo stabile in questo anno qui le riforme non si fanno e credo che sia nella coscienza di tutti. Dopodiché c'è un sentiero stretto attraverso il quale Prodi e Veltroni devono guidarci, con linearità».
Per D'Alema non è molto lineare aver rilanciato il sistema francese, teme che il segretario punti al referendum...
«Il governo, se pedala, fa stare in piedi la bici anche oltre il referendum. Lasciare il certo per l'incerto verrà percepito dai cittadini come un rischio e alla fine chi guarda al referendum come alle colonne d'Ercole potrebbe restare deluso. Bisogna lavorare intensamente sia dal lato del governo che da quello del Parlamento, con la legge elettorale».
Quale legge? Il Pd non ha una linea sulle riforme.
«Bianco e Violante stanno lavorando attorno a una correzione del modello tedesco, oltre che a modifiche costituzionali e regolamentari e dobbiamo perseguire con determinazione questa ricerca, senza dare l'impressione che vogliamo tornare alla casella di partenza. La riforma si fa in Parlamento ».
Pensa anche lei che il francese faccia saltare il banco?
«Il doppio turno è il nostro modello, ma è poco praticabile. Se teniamo il solco di un proporzionale con soglie di sbarramento sensate, che garantisca un assetto bipolare, il risultato possiamo raggiungerlo. Ed è di questo, per la verità, che si è discusso negli organismi dirigenti del Pd».
Di aborto non si è discusso. Anche lei, come altri ds, ha trovato assordante il silenzio del segretario?
«Su un tema del genere, quando avremo allestito un partito che decide, bisognerà dire una parola chiara. Serve un partito nel quale quell'elemento di coerenza, che non voglio chiamare disciplina, deve essere rivendicato».
Ce l'ha con la senatrice Binetti, che si appella alla libertà di coscienza e respinge la disciplina di partito?
«Il parlamentare non è pagato per interpretare tutte le mattine la sua coscienza, ma per decidere tenendo conto della coscienza di tutti, sennò la religione — come è giusto — assume un ruolo pubblico e la politica — per assurdo — diventa un privatismo coscienziale inutile alla collettività ».
Concorda con chi ha chiesto le dimissioni della Binetti?
«Non servono provvedimenti, ma regole. La Dc aveva molte cautele sul tema della coscienza, perché chi fa politica deve caricarsi della fatica e, a volte, anche della sofferenza della mediazione ».
La 194, dunque, non si tocca?
«Bisogna sempre continuare la discussione, perché è chiaro che le condizioni tecniche e scientifiche evolvono. Ma prima io voglio sapere se chi ha ostacolato la 194 riconosce o no che gli aborti si sono dimezzati».
È soddisfatto di come Veltroni sta costruendo il partito?
«È urgente radicarci nel territorio, perché un partito vive di battaglie e non di politica geometrica. Le commissioni stanno lavorando, ma preferirei che la discussione fosse più coinvolgente e aperta. In ogni caso il confronto sarà non su come e quando fare il primo congresso, ma su come determinare la struttura del partito».
Davvero guarda con fiducia alla verifica di governo?
«È governando che si trova la convergenza e io penso che si troverà. I voti al Senato sono pochi, ma non siamo stati con le mani in mano e nel 2008 dobbiamo mettere al centro dell'agenda la questione del potere di acquisto, problema non solo italiano che deve diventare il punto qualificante di un patto politico. Penso a tavoli su contrattazione, produttività e innovazione, fiscalità su salari e fiscalità locale, concorrenza e diritti del consumatore. Con qualche corollario.
Ad esempio?
«Un confronto tra banche, imprese e consumatori, perché la concorrenza nel settore bancario avvenga su una base di comportamenti più virtuosi».

l'Unità 4.1.08
Da Beauvoir al ’68: anniversari del 2008
di Maria Serena Palieri


1908, 1938, 1968, 1978. Un secolo fa nasceva Simone de Beauvoir, settant’anni fa il fascismo emanava le leggi razziali, quarant’anni fa esplodeva il Maggio, trent’anni fa Moro veniva sequestrato e ucciso. Anniversari con cifre tonde, saranno uno dei filoni della produzione libraria di questo 2008. Quello di Beauvoir cadrebbe il 9 gennaio, ma è in febbraio che, per il Saggiatore, tornerà in libreria Il secondo sesso, con un’introduzione di Julia Kristeva e una postfazione di Liliana Rampello che ne ricostruisce la fortuna in Italia. Per il settantennale delle leggi vergogna e/o annuncia invece la riedizione (in un unico volume) della straziante e deliziosa trilogia romanzesca di un’autrice che le ha vissute sulla propria pelle, Lia Levi, Una bambina e basta, L’albergo della magnolia e L’amore mio non può. Per il quarantennale dell’immaginazione che voleva andare al potere ecco, sempre per il Saggiatore, in uscita in febbraio la prima edizione italiana di Verso Betlemme, un libro di Joan Didion apparso negli Usa quell’anno: raccolta di reportages sull’America di «prima» da cui sarebbe nata una delle molte anime del Sessantotto, pacifista, alternativa, psichedelica. Torna sull’affare Moro Giovani Bianconi, inviato del Corriere della sera, con Eseguendo la sentenza, in uscita per Stile Libero in questo primo trimestre.
Naturalmente, questi sono solo aperitivi, perchè per almeno una di queste ricorrenze ci aspettiamo un diluvio editorial-mediatico: Il Sessantotto, con la voglia di resa dei conti definitiva con quel sogno, che circola a destra, e, d’altro canto, con i drappelli di protagonisti di allora ancora vivi e vegeti. Tra le testimonianze più attese quella di Rossana Rossanda, resa a Severino Cesari, per Einaudi, sotto il titolo La fine del mondo. L’industria degli anniversari è quel che è, un’industria. Però in certi casi è utile a fare il punto: dove siamo? Ecco, se quest’anno che finisce con l’«8» ci servisse a capire quanto l’Italia in cui viviamo è figlia di quella mostruosa e oscura primavera del ‘78, o dov’è finito - in prima linea o ancora più in retrovia? - il secondo sesso, a fare confronti tra l’islamofobia e l’antisemitismo, e a rinfrescarci la memoria di un certo splendido radicalismo di quel Maggio...

l'Unità 4.1.08
Anniversari. Il 4 aprile del 2008 sarà il quarantennale della sua uccisione. E arrivano libri, anche con «l’Unità»
Martin Luther King, il Messia nero dei diritti
di Danilo Di Matteo


Nel 1957 «quando un gruppo di noi costituì la SCLC, Southern Christian Leadership Conference, noi scegliemmo come motto ’Salvare l’anima dell’America’ (…) se l’anima dell’America si avvelenasse mortalmente, l’autopsia rivelerebbe una delle cause: il Vietnam. Essa non si può salvare finchè distrugge le speranze più profonde di uomini di tutto il mondo. È per questo che coloro tra noi che sono ancora convinti che l’America avrà un futuro sono proprio coloro che gridano la protesta e il dissenso e lavorano per la salvezza della nostra terra». Così disse Martin Luther King il 4 aprile 1967 (un anno prima di essere assassinato) alla Riverside Church di New York. La guerra sottraeva fondi ai programmi federali per l’emancipazione dei poveri e contraddiceva i grandi principi sui quali sulla carta si fondavano gli Usa. Per il pastore afroamericano gli ultimi anni furono più difficili che mai: abbandonato dalla grande stampa e dagli ambienti liberal bianchi per la radicalizzazione delle proprie posizioni, poco in sintonia con i metodi di lotta dei neri dei ghetti delle metropoli del Nord, che pure cercava di comprendere, percepito come distante persino da buona parte del movimento studentesco, per il quale pure la lotta contro la segregazione razziale nel Sud, con i sit-in e le marce, era stata un faro. Egli arrivò così a riecheggiare Malcolm X parlando del sogno che diveniva incubo. Ma non smise di guardare alla Dichiarazione d’Indipendenza e alla Costituzione, alle loro promesse di democrazia, libertà, possibilità per ciascuno di ricercare la felicità.
Da qui l’azione e la riflessione di King, figlio, nipote e pronipote di predicatori battisti di Atlanta, divenuto a sua volta pastore a Montgomery (Alabama), dove il primo dicembre 1955 una donna di colore, Rosa Parks, rifiutò di cedere il posto su un mezzo pubblico a un bianco e venne perciò arrestata: da ciò il celebre boicottaggio degli autobus da parte dei neri. Le idee nonviolente del Mahatma Gandhi erano piuttosto diffuse fra i leader afroamericani; King ebbe il coraggio, però, di tradurle in azione organizzata di massa, attribuendo ad esse un respiro cosmico: «Un fatto basilare della resistenza nonviolenta è che essa è basata sulla convinzione che l’universo è dalla parte della giustizia. Di conseguenza colui che crede nella nonviolenza ha profonda fede nel futuro. Questa fede è un’altra ragione per la quale il resistente nonviolento può accettare la sofferenza senza spirito di vendetta». E l’agape, l’amore gratuito, è la forza più grande di cui l’essere umano disponga. Di tutto questo ci parla Il sogno e la storia. Il pensiero e l’attualiatà di Martin Luther King (Claudiana, pp. 203, Euro 15), un’antologia critica a cura di Paolo Naso, a 40 anni dalla morte di King (mentre sempre da Claudiana il 4 aprile l’Unità offrirà ai lettori il «King» di Lerone Bennet). E la formula proposta risulta la migliore: più punti di vista con dieci brevi saggi di autori diversi, non solo italiani. Alla fine alcune apparenti contraddizioni sembrano dissolversi: per King, un legame profondo lega l’individuo alla comunità. È nel singolo che risiedono i diritti, i quali hanno senso se condivisi col prossimo. La comunità nera non è da intendere così come un’enclave, ma come luogo di apertura di un’identità alle altre (si guardi anche alla sua profonda amicizia con esponenti ebrei e all’attenzione alle altre denominazioni cristiane); da qui il celebre sogno, enunciato il 28 agosto 1963 a Washington: bianchi e neri gli uni accanto agli altri. Prima di morire King pensava a una seconda marcia nella capitale, contro la miseria, per i diritti sociali, per condizionare pesantemente le autorità federali. Ma per uno che come lui si era formato anche grazie al Social Gospel (il Vangelo sociale), pur non condividendone sempre l’ottimismo, non si trattava di una rottura. Era anzi un altro passo dell’Esodo degli ultimi, dei minimi, secondo un’immagine biblica tanto cara ai puritani.

il Riformista 4.1.08
Cattolici. Il mondo è cambiato
Lo dice Habermas, non io
di Alfredo Reichlin


Da comunista non pentito e non credente cerco un nuovo dialogo coi cattolici
Non possiamo rispondere con l'anticlericalismo della Rosa

Ringrazio per l'attenzione riservata al mio articolo su L'Unità e cerco di chiarire meglio il mio pensiero. Io non penso affatto di mediare tra fedi e principi assoluti. Per stare nello stesso partito l'importante non è che io creda nel Paradiso ma che sia io che Franceschini siamo convinti dalla necessità storico-politica di unirci per impedire la decadenza dell'Italia e per dare ad essa un nuovo posto nel mondo. Detta così non è poi nemmeno una grande novità. È accaduto altre volte nella nostra storia. Ma dov'è oggi il problema e dove sta la sua difficoltà? Sta (se vogliamo discutere seriamente) nel fatto che la politica è come evaporata mentre la nuova storia che si sta spalancando davanti all'umanità pone alle coscienze di tutti - e non solo a quelle religiose - problemi etici e interrogativi nuovi. Non è in discussione la laicità dello Stato, il quale nella sua autonomia è il garante della libertà di tutti e della pari dignità delle opinioni, e quindi non conosce "verità ultime". È altro. È come inverare in sistema di diritti e di libertà in un mondo in cui la politica è ridotta a sottosistema di questo tipo di economia mondializzata.
Dove i diritti di cittadinanza garantiti nel passato dai poteri dello Stato nazionale, la creatività degli individui e il libero sviluppo delle relazioni sociali e culturali sono totalmente subordinate allo scambio economico. Di fatto, alla capacità di consumo di ognuno. Altro che le ingiustizie sociali di una volta.
Si è creato così quel grande smarrimento e quel vuoto di significati che rende incerto il futuro. E a me sembra strano che Salvadori non capisca quello che ci stanno dicendo da tempo uomini come Habermas (non solo Reichlin) e cioè che sta qui la ragione per cui le religioni escono dal privato ed entrano nello spazio pubblico. Il che non comporta necessariamente ridurre l'autonomia dello Stato. E vorrei dire perché trovo questo atteggiamento preoccupante. Perché a che punto si sarebbe ridotto il grande pensiero laico, quello che ha fatto la Rivoluzione francese ed elaborato i diritti dell'uomo, se i suoi eredi pensassero che fenomeni clamorosi e impressionanti come il fondamentalismo islamico, il neo conservatorismo religioso americano o come certe spinte integriste del Clero italiano sarebbero figlie di cedimenti di qualche laico pentito. Io non sono di questo parere. E sento invece il bisogno che culture e concezioni ideali diverse non solo convivano ma comincino ad ascoltarsi così da mettersi in grado di leggere e interpretare il mondo, questo mondo: cosa che le vecchie culture del Novecento non sono più in grado di fare.
Naturalmente lo stesso cimento vale per i cattolici. Ho ritrovato un vecchio testo di Beniamino Andreatta che partiva dal fatto (son parole sue) che nei prossimi decenni la popolazione del pianeta raddoppierà nelle metropoli e nelle bidonville dell'Asia e dell'Africa, le riserve sfruttate nei millenni precedenti riveleranno i loro limiti fisici e quantitativi, la stessa valorizzazione della terra da parte dell'uomo non potrà essere condotta secondo l'ordine politico esistente. C'è allora bisogno - diceva Andreatta - di una diversa capacità di pensare la Politica e di progettarla secondo un ordine mondiale che possa essere alternativo rispetto allo Stato Nazionale. Occorre - aggiungeva questo leader cattolico - non ritirarsi nella privatizzazione della fede e assumere nuovo coraggio, affrontare i mutamenti sociali e soprattutto mirare ad un ordine costituzionale mondiale che sia rispettoso dell'uomo, in cui il cristianesimo si presenti, accanto alle altre fedi, culture e religioni, con la sua forza universale, e quindi come l'elemento legittimante di questa costruzione di un nuovo ordine mondiale. È quando manca lo Spirito - così concludeva - che non rimane altro che rifugiarsi nelle esperienze passate. Ma quando lo Spirito alita, allora nella storia si cerca di costruire ordini che corrispondono alla dimensione dei problemi.
Queste sono le sfide. Io non credo che noi possiamo limitarci a rispondere con l'anticlericlarismo della Rosa nel Pugno ( 3% dei voti) e nemmeno con la costituente di Bertinoro, cosa utile ma insufficiente. È tutto qui il mio pensiero di comunista non pentito e, per di più, non credente. E quando assisto a certe dispute provo una forte nostalgia per Gramsci e per Togliatti. Allora il grande problema storico (non ideologico) era molto diverso da adesso, ma una qualche analogia c'è. Allora bisognava dare una base democratica e quindi di massa allo Stato italiano dopo il fascismo. Bisognava quindi coinvolgere le masse popolari, in larga parte cattoliche. Gramsci aveva salutato la nascita del Partito Popolare di Don Sturzo come il più grande fatto politico dell'epoca e addirittura come il barlume di quella riforma religiosa (un rapporto più libero tra il credente ed il potere ecclesiastico) che l'Italia non aveva conosciuto mai. Togliatti votò l'articolo 7 (la costituzionalizzazione del Concordato) e al tempo stesso creò un partito di massa aperto ai cattolici in quanto chiedeva solo una adesione al programma e non ad una ideologia materialista. La conseguenza fu che Macaluso ed io assistemmo a quel fenomeno straordinario per cui i fulmini della scomunica papale contro i comunisti furono del tutto ignorati non solo dagli uomini ma dalle donne che costituivano il mondo popolare. Il più grande smacco di un Papa reazionario. E i comunisti crebbero in iscritti e in voti. Non così i socialisti.
Perché ricordo queste cose? Non perché la situazione attuale sia analoga. Tutto è cambiato. Quello però che è restato aperto è il grande problema della tenuta dello Stato italiano: insomma quella crisi della democrazia su cui non torno. Sono quindi io che chiedo a voi, amici miei, come mai non vi rendete conto che l'impresa più importante nella quale oggi impegnarsi è quella di organizzare un nuovo grande processo unitario. Chiedetevi anche voi come si possano garantire i diritti se l'Italia cessa di essere una nazione e diventa un luogo delle consorterie e delle piccole patrie nemiche tra loro. E domandatevi anche voi come si possano difendere i diritti del lavoro se le società moderne si trasformano in società di mercato. Non basterà fare appello ai sacri principi dello Stato laico. Quali forze noi mettiamo in campo? Quali strumenti materiali ma anche morali capaci di dare vita ad un nuovo umanesimo?

il Riformista 4.1.08
Alfredo tra Binetti e Odifreddi
di Emanuele Macaluso


Capire e spiegare perché Giuliano Ferrara fa la crociata contro l'aborto, sostanzialmente contro la legge che ne evita la pratica clandestina, non è facile. Anche per me che lo conosco da una vita (la sua) e gli sono amico. Ma non è di questo che oggi voglio scrivere. Mi interessa invece sottolineare come il Pd sia stato costretto, sui temi "eticamente sensibili" a difendere diritti acquisiti. Gli integralisti e la destra clericale sono riusciti a bloccare le leggi sulle coppie di fatto, sul testamento biologico, a chiudere ogni varco alla revisione della legge 40 (fecondazione assistita). Tutte norme che non obbligano nessuno ad usarle e non incidono sulle altrui libertà. La discussione invece, anche nel Pd, si è aperta sulla 194. Giuliano ha mobilitato il cardinale Ruini, ha resuscitato il "movimento per la vita" di Carlo Casini, ha messo in moto organizzazioni cattoliche e persone per rilanciare la campagna su una legge approvata dalla stragrande maggioranza degli italiani. Nel Pd, invece, si aspetta la Tavola dei valori a cui sta lavorando il mio vecchio amico Reichlin, il quale deve trovare la sintesi tra le posizioni di Paola Binetti e quelle di Piergiorgio Odifreddi. Buon lavoro.

il Riformista 4.1.08
Riforme. Veltroni spera in Silvio e prepara la risposta a D'Alema (su Repubblica)
Il Pd proprio non digerisce la crostata
di Tommaso Labate


Per quanto gelide siano state le affermazioni rilasciate ieri a Repubblica , la sonora bocciatura che Massimo D'Alema ha rifilato alla mossa Champs-Élysées di Veltroni-Franceschini non basta da sola a descrivere gli stracci che stanno volando da una parte all'altra del loft. Per avere chiaro il livello dello scontro in corso nella real casa democratica basta tenere presente un fatto: per tutta la giornata di ieri, gli uomini-macchina di «Walter» da un lato e «Massimo» dall'altro hanno fatto appello a tutte le rispettive truppe, anche ai "soldati" in vacanza, per far incetta di dichiarazioni e interviste l'un contro l'altro armate. L'argomentazione veltroniana è che il modello francese è sempre stata la prima scelta e che il Pd non può accettare compromessi al ribasso (il fronte dei dichiaranti va da Soro a Ceccanti). Quella dalemiana, che riprende il filo conduttore del colloquio del vicepremier con Repubblica , è che iniziative come quella presidenzialista di Francheschini rischiano di far saltare il dialogo al Senato sulla bozza Bianco (da Latorre a una Finocchiaro recuperata alla causa del ministro degli Esteri). Ma l'apice dello scontro deve ancora arrivare. Veltroni (sempre su Repubblica ) è pronto a replicare a D'Alema, che ha sua volta ha fatto il bis col Messaggero . Sostiene un veltroniano di rango: «Walter vuol dare l'ultimo colpo al sistema tedesco. La verità è che siamo ancora al Pds del 1994: Veltroni vuole il Partito democratico; D'Alema insiste su un partito socialdemocratico alleato col centro, sul centro-sinistra col trattino».
L'asse Walter-Silvio. Telefoni bollenti tra veltroniani e berlusconiani. A tenere il filo delle trattative sono Goffredo Bettini e Gianni Letta, che sono in costante contatto. Tanto costante che, dentro il Pd, gira la velenosa voce secondo cui i berlusconiani della prima cerchia fossero a conoscenza dell'intervista di Franceschini prima che la stessa finisse in edicola. La vera intenzione di Veltroni, che si nasconde dietro l'uscita franceschiniana e trova d'accordo anche il Cavaliere, è alzare il livello dello scontro per accantonare definitivamente il proporzionale tedesco. Senza il tedesco, addio alla nascita del centro auspicata da D'Alema e al "nuovo conio" vaticinato da Rutelli. Senza il tedesco, quindi, Walter e Silvio hanno campo libero. Guarda caso, quando il veltroniano Giorgio Tonini ha messo a verbale il suo «siamo disposti a mediare, non a cedere sul tedesco», il primo a spellarsi le mani per gli applausi è stato il forzista Renato Schifani («Le parole di Tonini riconducono il dibattito sulla legge elettorale nel giusto solco»).
Referendum e poi crostata. Oltre che a far saltare il tedesco e la rinascita del centro, l'accelerazione veltroniana sul modello francese serve ad agevolare (anche qui col sostegno dei berluscones ) la corsa verso il referendum. Tanto Veltroni quanto Berlusconi considerano in cassaforte il disco verde della Corte Costituzionale ai due quesiti principali promossi dal comitato Guzzetta (e i pareri di alcuni ex presidenti della Consulta vanno tutti in questa direzione). A referendum indetti (o anche dopo la consultazione), Walter e Silvio sarebbero d'accordo nel battere la strada di quel modello che, un decennio addietro, rappresentò la fetta più importante del patto della crostata bicamerale servita a casa Letta. Quel sistema è la spina dorsale del nuovo dossier sulle riforme che Veltroni ha chiesto prima delle vacanze ai suoi tecnici. E gli appunti di Vassallo sono già stati visionati dagli sherpa del Cavaliere.
Il gioco al buio. Massimo D'Alema ha ragione quando dice che Romano Prodi «non è per niente contento». Il Professore, che la conosceva in anticipo, ha condiviso "i toni" dell'ultima esternazione dalemiana (anche se continua a dire no al tedesco). Il gioco è al buio. E rischia di precipitare. Nel governo, forse. Dentro il Pd, di sicuro. (t.labate)

Corriere della Sera 4.1.08
Teologia. Il saggio di Vito Mancuso al centro di un dibattito
L'anima razionale mette in crisi laici e credenti
di Edoardo Boncinelli


Revisioni. Per lo studioso le teorie di Darwin non spiegano completamente il disegno intelligente del creato

«Il principale obiettivo di questo libro consiste nell'argomentare a favore della bellezza, della giustizia e della sensatezza della vita, fino a ipotizzare che da essa stessa, senza bisogno di interventi dal-l'alto, sorga un futuro di vita personale oltre la morte».
Gronda giubilo, serenità, sicurezza e fiducia il nuovo libro di Vito Mancuso L'anima e il suo destino
(Raffaello Cortina), impreziosito da una lettera di Carlo Maria Martini. Farà certamente felici tutti quelli che amano sentir dire certe cose. Sentir dire che «sono convinto che esista una sapienza cosmica al governo del mondo a causa del progressivo incremento di ordine e di informazione che l'evoluzione del mondo manifesta»; sentir dire che «l'Idea è l'essere più concreto e reale che esiste, ciò che ci ha condotto all'esistenza e che ci mantiene in essa. Ed è in questa dimensione ontologica fondamentale, origine e fine dell'energia, che in questo momento, un momento che dura sempre, c'è il Cristo risorto, cioè l'Idea sussistente di Uomo in cui il Primo Principio ci ha pensati e ci penserà sempre »; sentire argomentare che «con anima si intende l'ordine assunto dall'energia che ci costituisce. L'anima è energia libera rispetto al corpo e gerarchicamente ordinata. Più c'è ordine, più sale la qualità dell'anima. La quantità e la qualità dell'energia ordinata produce diversi livelli ontologici dell'anima. Ho mo-strato che se ne possono dare cinque: anima vegetativa, anima sensitiva, anima razionale, anima spirituale, anima spirituale unificata dal volere sempre e solo il bene e la giustizia ».
L'anima è la vera protagonista dell'opera e campeggia fino dal titolo di questa possente saga spirituale. In un lirico crescendo, una vera gara a oltrepassare e oltrepassarsi, possiamo trovare in progressione paragrafi intitolati «Anima come vita », «L'anima delle piante e degli animali», «Anima come mente», «Anima come spirito» e «Anima come Spirito santo».
Più oltre apprendiamo che «se l'essere è energia, perché possa avvenire la costituzione di una porzione di energia come sostanza a sé, occorre l'ordine relazionale tra le componenti fondamentali dell'essere, a partire dalle onde-particelle subnucleari. Senza ordine non c'è consistenza d'essere, senza forma ci sarebbe solo energia informe». L'accenno alla fisica delle particelle elementari non è casuale; l'occhio di Mancuso spazia dappertutto: fisica atomica, biologia evoluzionistica, psicologia e sociologia d'oggi, oltre che, ovviamente, un patrimonio di citazioni bibliche. La considerazione di tutto ciò lo porta ad affermare che «come l'Inferno, che è il massimo del disordine, non esiste nel-l'eternità, allo stesso modo il Diavolo, che è la personificazione del disordine, non può esistere come sussistenza personale nell'eternità». Se è vero che l'uomo di oggi cerca certezze, qui ne può trovare a mannelli.
A proposito del processo evolutivo, ad esempio, ribadisce l'autore che nella storia c'è «un disegno, divenuto sempre più intelligente fino a produrre la stessa realtà dell'intelligenza, che si è faticosamente formato dal basso». Secondo lui il paradigma darwiniano «mutazione più selezione naturale» non può spiegare ciò che osserviamo, perché «è evidente come il caso con cui avvengono le mutazioni sia dominato da una legge superiore. Per il modello evoluzionistico ortodosso essa consiste nella selezione naturale, ma dicendo selezione naturale si nomina solo l'aspetto negativo di questa legge generale tendente all'ordine e alla crescente complessità, di cui occorre saper nominare anche il lato positivo, ben più fondamentale nella sua capacità di costruire relazioni e sistemi organizzati ».
La conclusione di questo libro— che vuole rivolgersi a «la coscienza laica», sulla base dell'assunto che «la vera laicità significa ritenere conclusivo non il principio di autorità ma la luce della coscienza» non può essere che un imperativo: «Amare la vita. alla fine tutto sta qui. Occorre mantenere in vita lo spirito dell'infanzia, la forza primigenia con cui la natura ci ha generato. Il messaggio di questo libro è che la vita non tradisce, e a chi, a sua volta, non la tradisce, essa dà in premio se stessa. Dice la sapienza di Israele: «Chi pratica la giustizia si procura la vita» (Proverbi 11, 19). Basta solo essere giusti. Tutto qui, qualcosa di molto semplice, che ogni uomo vede da sé. Simplex sigillum veri. Tanto semplice che lo capirebbe anche un bambino.
Con questo libro, una vera e propria epifania della vita, Mancuso eleva una sua cattedrale di concetti, di considerazioni e di proposte, nitida, edificante e senza una scalfittura, da sembrare finta. In essa non c'è una parola fuori posto e le frasi parlano da sé: ogni commento è superfluo. È perfetta nel suo genere. Ovviamente per chi riesce a crederci; e non devono essere pochi a giudicare dal successo editoriale. Ma se quello che afferma — più Capra che Carnap, per dire la verità — fosse tutto vero, possiamo ritenere che ciò sarebbe di per sé un bene?

Corriere della Sera 4.1.08
Storia. Le gesta dell'imperatore
Il cronista medievale che raccontò Federico II
di Armando Torno


Nicolò Jamsilla è il nome di un cronista medievale scelto nel 1726 dal Muratori per attribuire l'opera Le gesta di Federico II imperatore e dei suoi figli Corrado e Manfredi. Chi fosse veramente, è difficile ancora oggi scriverlo; di certo sappiamo che fu segretario dello stesso Manfredi e che l'Historia nacque probabilmente tra il 1258 e il 1266. Così scrive del sommo Federico (al quale si può perdonare la concessione di immergere le pettegole più volte nei corsi d'acqua): «La sua magnanimità fu temperata dalla saggezza... avrebbe fatto cose molto più grandi di quelle che fece se avesse potuto obbedire agli impulsi del suo animo senza il freno della filosofia».
Resoconto minuzioso, vergato in un latino interessante — è tale anche per le anomalie nell'applicazione della consecutio temporum e in taluni costrutti sintattici — ha trovato un'edizione, presso il tipografo-libraio Francesco Ciolfi di Cassino (tel. 0776-21227) e curata da Francesco De Rosa, degna del massimo rispetto: testo latino con varianti e traduzione, glossario, ottima introduzione. Non era un lavoro facile restituire in una buona lezione le gesta di Federico quando si pensa che persino al Muratori, nei Rerum Italicarum Scriptores, sfuggì imbecillis anziché imbellis (VIII, col. 512) e dominum anziché dominium (col. 544). De Rosa ci aiuta a rileggere correttamente le vicende di un uomo al quale arte di governare, cultura, diritto e dialogo con l'Islam devono moltissimo.
NICOLÒ JAMSILLA, Le gesta di Federico II CIOLFI EDITORE PP. 328, e 16


Repubblica 3.1.08
"Senza fondamento quel paragone con la pena di morte"
Cacciari: melassa di dispute politiche volgari. Prima nessuna dignità. Prima della legge c'era una situazione incivile e indecente che non garantiva alcuna dignità né rispetto per la donna
di Roberto Bianchin


MILANO - Soffre e si indigna Massimo Cacciari nel vedere questioni di grande respiro etico e filosofico, come le definisce, confondersi in «una melassa indigeribile di dispute politiche volgari», tra incomprensioni, incapacità di dialogo e «voglia di cattive guerre». Le fa la stessa impressione anche la proposta di moratoria sull' aborto? «L' equiparazione con la moratoria sulla pena di morte è una cosa del tutto illogica, che non ha alcun fondamento. Né scientifico né etico né altro. Non sta in piedi». Ma la legge 194 è modificabile, secondo lei? «Può darsi benissimo che vi siano delle esigenze di riforma. Ma non bisogna dimenticare cosa c' era prima: una situazione incivile e indecente, che non garantiva alcuna dignità né rispetto per la donna. Oggi le cose sono migliorate. Anche ammettendo che la legge sull' aborto sia un male, è certamente un male incomparabilmente minore a quello che c' era prima. Solo chi è in malafede può dire il contrario. Anche su questo la Chiesa dovrebbe ragionare». Cosa cambierebbe? «Eviterei chiacchiere e prediche e dispute filosofiche. I politici devono fare in modo di creare tutte le condizioni perché la donna sia messa in grado di affrontare con gioia il suo destino di madre. E di affrontare la maternità senza angosce, senza rischi, senza disagi. E su questo dovrebbero ragionare molti laici, che non capiscono che il problema del calo demografico è una questione di importanza vitale per il futuro». Restano nodi di fondo difficili da sciogliere. «Certo, se affrontiamo il problema dal punto di vista che abortire è come uccidere, ne segue che ogni atto che interviene in qualsiasi momento a interrompere questo processo, è un omidicio. Ma è un puro paradosso privo di ogni consistenza. Se ne discute da secoli, anche fra quei teologi che sostenevano che solo quando l' embrione si è formato c' è l' intervento di Dio. Ma chi sa davvero dov' è l' inizio di quella scintilla di vita che mi ha prodotto? Siamo in una materia che non è chiara né definita. Ma affrontarla come fa Ferrara è un "regressus" del tutto illogico». La Chiesa però si arrocca. «La Chiesa vive un periodo di grande angoscia. Dobbiamo confrontarci con lei con la necessaria asprezza ma con grande comprensione e rispetto. Solo così sarà possibile una sorta di dialogo. Mettendo anche in evidenza i suoi errori». Quali? «Quello fondamentale è di ergersi a giudice, e di usare nella sua polemica strumenti arcaici come il naturalismo reazionario in cui si rifugia, secondo cui la vita è questa cosa e non può essere altro perché è natura, escludendo qualsiasi intervento umano. La Chiesa ha ragione a denunciare il pericolo immenso di una scienza prepotente e autoreferenziale, ma si confronta malamente con questi argomenti naturalistici che verranno spazzati via. Rischierà di far vincere il nemico».

il Cittadino n. 3 Dicembre 2007
Psicoterapia. Un rimedio contro i nostri malesseri
I benefici dell'analisi collettiva
di Claudio Bonechi, Docente


“Sono convinto che Fagioli sia da prendere sul serio” scriveva Poggiali nel lontano 1979 in un suo corposo articolo sulla rivista “Psicoterapia e scienze umane”. Molti lo hanno fatto in silenzio, come eccessivamente preoccupati del loro stesso interesse verso un discorso teorico che non concede nulla ai compromessi e punta dritto all'oggetto da sempre più temuto: la psiche umana. Una minoranza, stimata nel tempo in alcune migliaia di persone, ha scelto invece di rivolgere a lui direttamente tante domande, su di sé, sui rapporti interpersonali, sulla società, sulla cultura, poste per lo più in un linguaggio difficile, quello dei sogni, alle quali lui ha sempre risposto puntualmente. Essendo psichiatra, quindi medico, le risposte di Fagioli andavano oltre il significato manifesto, individuando sempre una domanda di cura. Era il 1975 quando quella minoranza fece nascere i seminari settimanali di Analisi Collettiva; la gente che vi partecipava aumentò rapidamente, tanto che l'anno successivo venne aggiunto un secondo seminario, poi un terzo e infine un quarto. Non si trattava di seminari in senso comune, ma di vere e proprie sedute di analisi di gruppo, composto ognuno da più di cento persone, in luogo delle tradizionali dodici. Come era possibile curare così tante persone insieme? Fagioli ci riusciva, perché disponeva di una sua teoria ben fondata ed esposta in tre libri, “Istinto di morte e conoscenza” del '71, “La marionetta e il burattino” e “Teoria della nascita e castrazione umana” entrambi del '74; nell'80 era uscito anche un quarto libro, “Bambino, donna e trasformazione dell'uomo” mentre gli anni successivi hanno visto la produzione di innumerevoli materiali, tra articoli, video, film, disegni, lezioni universitarie, convegni, presenze in tv. La teoria di Fagioli, basata su sue geniali scoperte, rende possibile comprendere a fondo il funzionamento della psiche umana, rivelando tra l'altro l'infondatezza e la dannosità di quanto Freud e seguaci avevano predicato e praticato, nonché l'insufficienza della psichiatria attuale che non va al di là dell'impiego dei farmaci, notoriamente inefficaci. La sua impostazione è sempre stata di tipo medico: come il corpo, anche la mente è soggetta ad ammalarsi, non per fatti organici (per quelli cade nel dominio della neurologia) ma per cause che fanno capo al rapporto interumano. Con la teoria fagioliana, la malattia mentale, da sempre demonizzata o ritenuta incurabile, è divenuta affrontabile e curabile. Si sono formati nell'Analisi Collettiva più di centoventi fra psichiatri e psicologi clinici e svolgono la loro attività terapeutica con crescente successo. Oltre alla dimensione di cura, essa contiene quelle della formazione e della ricerca, che ben oltre la malattia mentale investono il rapporto uomo donna e quello con la politica e la cultura, secondo un orientamento inequivocabilmente di sinistra. Ormai l'immagine dell'Analisi Collettiva, inizialmente guardata da alcuni con sospetto e tacciata di settarismo pseudo religioso, si è imposta all'attenzione generale e sta diventando un punto di riferimento ineludibile per chiunque abbia a cuore l'evoluzione della realtà umana.

il manifesto 4.1.08
«Eventi critici», così si muore in carcere
Dopo appena un anno e mezzo, è svanito l'effetto indulto e i penitenziari sono di nuovo affollati. Anche le morti in cella non calano: 117, di cui 42 suicidi. Con qualche caso «sospetto»
di Dario Stefano Dall'Aquila


Si muore, nelle carceri italiane, prima e dopo l'indulto. Nell'anno appena terminato 117 morti, di questi 42 sono suicidi. Nel 2006 i morti sono stati 134, di cui 50 suicidi. Nel 2005 le morti sono state 172, 57 i suicidi. Si muore con la testa infilata in un sacchetto pieno di gas, impiccati con le proprie lenzuola, di overdose, di morti improvvise che non trovano spiegazioni ma che lasciano inspiegabili segni sui corpi. In termini tecnici, nella vita di un carcere, questi episodi si definiscono «eventi critici», un modo elegante per non usare le parole morte e violenza.
A volte si muore per non tornare indietro. E' il caso di Giuseppe Contini (48 anni), che si è impiccato nel carcere di Cagliari per tornare nell'Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Barcellona Pozzo di Gotto dove aveva trascorso cinque anni. Altre volte si muore perché non si vede una fine. Gianluigi Frigerio (50 anni) si è tolto la vita perché la sua misura di sicurezza, dopo sette anni, era stata nuovamente prorogata. Entrato per oltraggio a pubblico ufficiale, non era più uscito dall'Opg di Aversa.
«E' finito l'effetto dell'indulto - è il commento di Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone - ora è indispensabile la riforma del codice penale». Sono storie che andrebbero perse se non ci fosse chi le raccoglie, come Ristretti Orizzonti, agenzia di stampa dedicata al carcere, o l'associazione A Buon Diritto, o ancora Antigone.
Gli ultimi suicidi
Marco Erittu, 40 anni, muore il 18 novembre 2007 nella cella d'isolamento del carcere di Sassari. L'autopsia conferma la morte per asfissia impiccagione. Il giorno prima il detenuto ha scritto ai giudici sostenendo di temere per la propria vita. Angelo (20 anni), tossicodipendente, si è ucciso nel carcere di Reggio Calabria, il giorno del rientro dalla comunità terapeutica dove aveva cominciato un percorso bruscamente interrotto. Driss K. (25 anni), marocchino, detenuto nel carcere di Modena per furto, si è tolto la vita con il gas. Roberto Conte (43 anni), tossicodipendente con problemi psichici, si è impiccato invece nella sezione «a rischio» del carcere di Marassi, con delle lenzuola di carta. Un dramma evitabile, per Patrizia Bellotto della Cgil-Polizia Penitenziaria. «Il suicidio di questa persona deve pesare sulle coscienze di tutti, ma soprattutto di chi avrebbe dovuto e potuto garantire un nuovo corso al difficile lavoro del poliziotto penitenziario e invece si è reso complice ed ha alimentato un indecente sistema di favoritismi».
Il caso di Aldo Bianzino...
Ma ci sono altre storie inquietanti. La mattina del 12 ottobre 2007, a Città di Castello, i carabinieri arrestano Aldo Bianzino (44 anni) perché trovano alcune piantine di marijuana nel terreno del suo casolare. Condotto nel carcere di Capanne, viene sottoposto ad una visita medica e poi rinchiuso in una cella di isolamento. Secondo il padre «nel frattempo non c'è stata un'udienza di convalida dell'arresto, non è entrato in contatto con altri detenuti, non ha contattato nessuno esterno al carcere». La mattina del 14 ottobre Bianzino viene trovato morto. L'autopsia evidenzia lesioni al cervello e all'addome. Alcuni detenuti affermano di aver udito Bianzino chiedere aiuto. Un agente è indagato per omissione di soccorso. Una storia atroce, ma non unica.
...e quello di Marcello Lonzi
Nel carcere di Livorno, Marcello Lonzi viene trovato morto, coperto di sangue, con il volto tumefatto. L'autopsia dichiara la morte per cause naturali. E'l'11 luglio del 2003. La madre, Maria Cioffi, sporge denuncia. Si apre un'inchiesta. Dopo un anno il pm chiede l' archiviazione. Il 23 luglio 2004 si richiede un supplemento di indagine, sulla base di alcune fotografie che mostrano il corpo coperto di segni di striature viola sulla pelle gonfia e rialzata, «ecchimosi che - secondo il legale della famiglia - possono essere state fatte solo con un bastone, un manganello». Il gip dispone ugualmente l'archiviazione. Il 29 ottobre 2006, a seguito di richiesta della difesa, si procede alla riesumazione della salma per effettuare nuovi esami, sulla base dei quali, nell'ottobre 2007, la magistratura ha avviato nuove indagini.
I processi conclusi
F.R. (28 anni), detenuto nel carcere di Reggio Calabria, viene rinvenuto, in fin di vita, all'interno di uno dei cortili. Trasportato all'ospedale, muore dopo pochi giorni senza riprendere conoscenza. Gli accertamenti stabiliscono che il decesso è avvenuto a seguito di violenze, calci, pugni e corpi contundenti. Era il 29 luglio del '97. Il processo si è concluso, in via definitiva, il 5 ottobre 2005 con l'assoluzione di 19 imputati e la condanna di un agente penitenziario a 8 mesi per false dichiarazioni. Ora pende il ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo.
Nel 2007 è terminata con l'assoluzione la seconda tranche del processo contro gli agenti penitenziari del carcere di Sassari accusati di abusi, violenze e maltrattamenti. Sono stati, invece, rinviati a giudizio con l'imputazione di omicidio colposo e condotte omissive, due agenti di polizia del carcere di Secondigliano per il suicidio di un detenuto avvenuto nel 2002. Morti e suicidi che meriterebbero una seria prevenzione, procedure, indagini e processi rapidi e veloci, a garanzia di tutti, vittime e imputati. Perché il diritto alla vita vale anche tra le mura di un carcere.

il manifesto 4.1.08
Agnes Heller
Una società totalmente giusta non è affatto auspicabile
Incontro con la filosofa ungherese, che in questa pagina racconta i principali passaggi della sua vita, a partire dall'incontro casuale con Lukács. All'università la iniziò alla filosofia e ora torna nei suoi ricordi come «una rivelazione» Inizialmente non compresi neanche una parola di quel che Lukács diceva; mi fu chiaro, però, che era molto importante, per me, riuscire a capire proprio ciò che non capivo
di Giuliano Battiston


La filosofia deve servire alla comprensione del presente: questa certezza, che le è stata trasmessa da Lukács con il quale ha collaborato a lungo, è l'unica alla quale Agnes Heller ha sempre aderito senza riserve. Per il resto, la sua è una riflessione segnata dalla profonda diffidenza verso ogni forma di assunto dogmatico. Una diffidenza che l'ha portata a criticare aspramente qualunque monopolio ideologico, costandole cara. Quando in Ungheria invocava un socialismo democratico pluralista contro «la dittatura sui bisogni» del socialismo realizzato si trovò a subire l'ostracismo del Partito comunista ungherese, che vedeva in lei e negli altri membri della Scuola di Budapest dei pericolosi sabotatori dell'integrità marxista-leninista. Quando poi scelse l'esilio in Australia e negli Stati Uniti, e abbandonò progressivamente le lenti del marxismo, le ricaddero addosso le critiche o il disinteresse dei suoi vecchi estimatori. Erano gli stessi che negli anni '70 riconoscevano l'importanza della sua teoria sulla necessità di trasformare le forme della vita quotidiana, prima ancora delle istituzioni politiche; e che poi hanno mal digerito la sua apertura alle procedure liberal-democratiche, finendo con l'accusarla in sostanza dello stesso «reato» che le venne imputato nel 1973 dal Comitato Centrale del Partito comunista: «indirizzo ideologico eclettico e piccolo-borghese». A dispetto dell'eclettismo che alcuni vorrebbero attribuirle, Agnes Heller è stata, invece, profondamente coerente, difendendo con costanza il ruolo «demitizzante» della filosofia, che deve contrapporre «all'ambiguità immaginosa della mitologia l'univocità dell'argomentazione razionale», e mettere in questione l'ovvio, proprio perché tale. È seguendo questa idea della filosofia come interrogazione del dato e come disposizione a trasformarlo, che Agnes Heller ha abbandonato la rivendicazione di un accesso privilegiato alla verità; e con questo a ogni aspettativa messianica. Non per accettare il presente ma per aprirsi al futuro, perché - sostiene - «ogni messia è un falso messia, che chiude l'orizzonte delle possibilità future». L'abbiamo incontrata a Budapest, nel suo appartamento pieno di libri e di storie, e con lei abbiamo discusso del suo lungo itinerario filosofico.

Nell'introduzione alla «Filosofia radicale» lei sostiene che, affinché possa dirsi «autentica», ogni filosofia deve presentare qualche elemento autobiografico. Anche il suo percorso filosofico, del resto, è segnato da un continuo andirivieni fra la dimensione biografica e quella teoretica.
Il libro che lei ricorda rappresenta una vera e propria dichiarazione d'amore nei confronti della filosofia, una filosofia che oggi chiameremmo metafisica, e che tuttavia ritengo di potere amare ancora, sebbene sia consapevole che non possano più presentarsi le condizioni che l'hanno resa possibile. Ed è vero, è anche un'opera autobiografica dal momento che tra la mia vita e la mia filosofia è sempre esistito un rapporto molto diretto e profondo. Ma di quel libro mi piace ricordare soprattutto il radicalismo: credo la filosofia radicale sia, in genere, una forma di politica che si ammanta di un abito filosofico; del resto, per principio, ogni filosofia è radicale. Lo è perché opponendosi al pensiero ordinario, ci indica che quanto crediamo vero non lo è affatto, e ciò che riteniamo giusto è solo un'opinione.

Il suo primo incontro con la filosofia è coinciso con il suo primo incontro con György Lukács, al quale è rimasta legata fino alla sua morte nel 1971. È vero che si è trattato di un incontro accidentale, perché all'epoca, nel 1947, lei desiderava diventare piuttosto una scienziata?
È vero. Ho incontrato la filosofia grazie al mio fidanzato di allora, che mi portò nell'aula dove Lukács insegnava: mi trovai a seguire una delle sue lezioni, mi sembra si trattasse di una lezione sulla filosofia della storia, da Kant a Hegel. Ammetto di non avere capito neanche una parola di quel che disse in quell'occasione Lukács; capii però che era estremamente importante, per me, riuscire a capire proprio quel che non capivo. Fu così che abbandonai le mie lezioni di fisica e cominciai a seguire quelle di filosofia di Lukács. Fu una vera e propria rivelazione.

Il 15 febbraio 1971 il «Times Literary Suplement» pubblicò una lettera in cui Lukács faceva riferimento alla scuola di Budapest, sostenendo che i suoi rappresentanti erano «i precursori della letteratura filosofica del futuro». Ci racconta qualcosa di come è nata la scuola di Budapest?
È stata niente altro che l'ultima scuola di Lukács, che essendo convinto di possedere la verità eterna, credeva che quella verità sarebbe potuta sopravvivere solo se una scuola ne avesse garantito la diffusione. Non è un caso che sin dalla sua giovinezza, e per tutto il corso della vita, Lukács abbia sempre voluto creare attorno a sé delle scuole. Mihàly Vajda, Ferenc Fehér, György Màrkus ed io rappresentavamo il cuore filosofico della scuola, ma eravamo prima di tutto un gruppo di amici che a partire dal 1963, e fino all'emigrazione di fine anni '70, rimase molto unito. Abbiamo sempre riconosciuto Lukács come nostro maestro, sebbene non siano mai mancati conflitti anche aspri. Vivevamo come una sorta di «ecclesia pressa» di cui Lukács era il sacerdote, e dunque guardavamo poco all'esterno. Il gruppo ha continuato a lavorare anche dopo la morte di Lukács, nel 1971, ma venuto meno il nostro centro focale i conflitti crebbero, finché decidemmo di «chiudere» la Scuola.

Nel 1973, con una risoluzione speciale il Partito comunista ungherese bandì la vostra scuola, impedendo ai suoi membri qualsiasi possibilità di insegnamento, di ricerca e di pubblicazione. Ci riassume qualche passaggio di quello che è stato definito come il «processo ai filosofi»?
È stato chiamato così ma non c'è mai stato un vero processo. Con quella risoluzione il Partito elencava i nostri peccati per concludere che non potevamo far parte di istituti o accademie scientifiche, perché le nostre posizioni si allontanavano pericolosamente dal marxismo-leninismo. Tutti si aspettavano che avremmo accettato le regole del gioco, partecipando a una discussione sulle nostre idee organizzata dal Partito all'Accademia delle Scienze, il cui risultato era deciso in anticipo. Scrivemmo invece una lettera in cui dichiaravamo che, siccome non si dà discussione privata di questioni filosofiche, avremmo accettato solo un dibattito aperto, mediato dai giornali.

Secondo Lukács uno dei compiti principali della Scuola di Budapest era quello di promuovere la rinascita del marxismo, dimenticando tutto quello che il marxismo era stato dopo Marx. Tuttavia, lei stessa una volta ha sostenuto che quella favorita dalla scuola di Budapest fu una rinascita piuttosto singolare, perché coincise con la «costante e sistematica distruzione del marxismo».
La scuola di Budapest era formata da persone molto diverse tra loro, ognuna con i propri interessi particolari. Màrkus, per esempio, inizialmente era interessato all'interpretazione di Marx, ma poi si dedicò all'epistemologia e alla teoria della cultura; Vajda si occupò di Husserl e di Merleau-Ponty, mentre io lavoravo alla teoria della «vita quotidiana» e ai problemi del Rinascimento. Nonostante questa diversità, in un certo senso vivevamo insieme, discutevamo continuamente gli scritti di ognuno con grande profitto, e l'amicizia molto forte che ci legava riusciva a ovviare alle nostre differenze. Tutti noi riconoscevamo la necessità di tornare alle radici del marxismo, ma le differenze erano legate proprio al significato da attribuire a questo ritorno, che per noi si allontanava molto da ciò che intendeva allora Lukács. Nonostante questo, la scuola sopravvisse, e credo di potere dire che in qualche modo Lukács stesse «dalla nostra parte» anche quando criticammo la sua interpretazione delle radici del marxismo e la sua ontologia delle scienze sociali. Il compito che ci assegnavamo era lo stesso, ma i modi in cui lo interpretammo furono completamente differenti.

Alcuni lamentano il fatto che oggi il marxismo sia stato relegato a poco più di un innocuo esercizio accademico, come fosse un semplice documento storico-archeologico, che non permetterebbe di comprendere meglio il presente e tanto meno di trasformarlo. Il suo parere qual è?
Penso che non ci sia alcun futuro per gli ismi. Il marxismo è solo uno fra questi e, come lo strutturalismo e il funzionalismo, non avrà futuro, non nei prossimi venti o trent'anni,almeno. Questo non vuol dire che Karl Marx non fosse un genio, o che non si debba continuare a interpretarne i testi. Ma quando riconosciamo l'importanza dell'aspetto pratico della sua teoria al tempo stesso non dobbiamo dimenticare che molti altri filosofi possono rivendicarlo. Tutta la filosofia radicale del XIX secolo è orientata verso la dimensione pratica, e direi perfino che tutti i filosofi - da Platone a Leibniz - hanno desiderato esercitare una influenza anche politica.

Se assumiamo il suo punto di vista, secondo il quale «qualunque politica redentiva è incompatibile con la condizione politica postmoderna», allora dovremmo accettare «il meramente esistente» e la situazione presente come inalterabili? Oppure ritiene che ci sia ancora spazio per creare quella che lei ha chiamato «una utopia razionale»?
Dipende. Naturalmente la modernità va accettata. Non penso affatto che l'esistente sia necessario così com'è, ma riconosco che alcune cose sono impossibili, tanto l'abolizione del mercato quanto la libertà di creare istituzioni politiche o l'eliminazione della scienza e delle tecnologie. Tuttavia, all'interno di questo orizzonte sono ancora possibili rivoluzioni e transizioni: le rivoluzioni politiche sono frutto della stessa modernità, che ha creato sempre nuove forme politiche. Dunque, si può ancora agire, ma l'impossibile rimane impossibile.

Perciò sarebbero possibili delle trasformazioni all'interno delle coordinate già tracciate, ma non la costruzione di una società completamente «libera dal dominio», quella società che secondo lei è pensabile solo se crediamo alla chimera di una rivoluzione antropologica?
Una trasformazione antropologica - che forse non è impossibile ma molto improbabile - così com'è stata sognata da Kant e dallo stesso Marx parte dall'idea che ci sarà un tempo in cui l'uomo empirico e la specie umana verranno finalmente «riuniti», un tempo in cui ogni singola persona diventerà assolutamente buona e, dimenticando ogni elemento individualistico e particolaristico, finirà con l'assomigliare a Cristo. Da parte mia dubito innanzitutto che sia una prospettiva vivibile e desiderabile; se in tutta la storia del genere umano l'essenza umana è rimasta così com'è, perché dovrebbe improvvisamente cambiare durante la nostra particolare contingenza storica? Qual è il nostro privilegio? Chi e come ce lo avrebbe concesso? Sono domande che vanno affrontate.

Non a caso in «Oltre la giustizia» lei sostiene che «una società totalmente giusta è possibile ma non auspicabile». Ce lo spiega meglio?
Perché una società totalmente giusta, al di la della questione della sua realizzazione, non è auspicabile? Perché in una società simile nessuno potrebbe più dire «questo è ingiusto», il che ovviamente non è augurabile. Si tratterebbe di una società non dinamica, senza pluralismo delle opinioni, scontri e politica. È questo il mondo che vogliamo? Un mondo senza conflitti, un paradiso, un giardino dell'Eden? Non penso che vorremmo vivere in un posto simile, dunque non credo che una società totalmente giusta sia auspicabile.

giovedì 3 gennaio 2008

l’Unità 3.12.08
Assalto alla legge che dimezza gli aborti
Prima Ruini e Ferrara, poi Binetti e Buttiglione: riparte la crociata contro la 194
No compatto dell’Unione. Intervista a Livia Turco: la legge funziona e non si tocca


Turco: non si cambia una legge
che ha dimezzato gli aborti
di Federica Fantozzi

Dove sono le donne le femministe, gli intellettuali? Perché lasciano l’agenda politica a Ferrara e Ruini?

Si ricostruisca una forte mobilitazione sociale per una cultura progressista

È stanca ma «serena» il ministro della Salute Livia Turco, alla fine di una giornata che l’ha catapultata in un tourbillon di dichiarazioni, precisazioni e dati. Per colpa della “fiammata” del dibattito sull’ipotesi di rivedere la Legge 194.
Una legge che funziona, spiega lei: ha dimezzato le interruzioni di gravidanza, da 234mila nell’82 a 133mila oggi. Una legge che, al di là degli annunci politic, «nessuno oserebbe toccare perché il 95% degli italiani sarebbe contrario». Dunque: Ben venga il dibattito pubblico ma nessuna modifica».
Ministro, l’asse Ruini-Ferrara-Binetti-Bondi rischia di mettere in crisi la legge 194? O piuttosto il centrosinistra?
«Io sono molto serena. Maneggiando questa legge sono ben consapevole della sua forza. La 194 è saggia, lungimirante, umana. E soprattutto efficace. Qual è la sua colpa? Forse di avere dimezzato gli aborti dal momento della sua introduzione a oggi?»
Alla 194 qualcuno imputa di essere obsoleta e male applicata.
«Invece di montare casi politici converrebbe leggersi bene il testo. Si capirebbe che le accuse di eugenetica non stanno in piedi. I politici e i giornalisti recepiscano l’appello di Napolitano a prendere coraggio: si informino. La 194 è applicatissima. Il suo obiettivo è tutelare la maternita sociale e ridurre gli aborti. Bene: è stato raggiunto».
Quali sono i numeri?
«Dal 1982, anno del picco in cui ci furono 234mila interruzioni di gravidanza, siamo scesi oggi a 133mila. Significa -44,5%. Quasi un dimezzamento. Consideriamo poi che la legge è stata introdotta nel 1978: ma prima c’erano 300mila aborti clandestini. Io vorrei una società libera dall’aborto, ma questi dati sono un successo. Quando questa pratica tra le italiane è scesa del 60%, di cosa parla chi critica?».
Insomma la 194 è un successo?
«Sì, esatto. E io capovolgo la questione: indaghiamo piuttosto le ragioni di questo successo che risiedono nell’autodeterminazione della donna e nel principio della responsabilità della scelta».
Dunque l’attività di prevenzione non viene trascurata?
«No, affatto. Alla base dei numeri c’è un’attività di sensibilizzazione, cultura, educazione all’uso della contraccezione. Poi, sia chiaro, le Regioni provvedano a migliorare la quantità e l’attività dei consultori, e questo garantirà risultati sempre migliori e più efficaci».
Ministro, su questo dibattito di inizio 2008 si registra il silenzio dei big del suo partito. Leader e ministri del Pd, a eccezione di Barbara Pollastrini e dei vicecapigruppo Sereni e Zanda, non si pronunciano. Si sente sola?
«Ministri e leader devono fare la loro parte e la faranno, ma non mi bastano. Dove sono le donne? Le femministe? Gli intellettuali? Perché l’agenda politica deve essere imposta da Ferrara e Ruini, che fanno il loro mestiere? Negli anni 70 la legge 194 passò grazie a una forte mobilitazione femminile e culturale».
Ora tutto questo non c’è? Vede una fase di stallo nella difesa dei diritti civili?
«Io ho fiducia. Si ricostruisca una forte mobilitazione sociale per una cultura progressista. Nessuno oserà mettere in discussione la 194 perché il 95% degli italiani sarebbe contrario. Ben venga il dibattito pubblico, ma non ci sarà nessuna modifica».
È fondata l’osservazione che i progressi scientifici nella cura dei prematuri pongono problemi di compatibilità con l’aborto a 24 settimane? Secondo Ruini a quell’età il feto potrebbe sopravvivere da solo, mentre i medici temono che l’obbligo di rianimazione sconfini nell’accanimento terapeutico.
«È un problema serissimo. Su cui non decidiamo né io né Bondi né la Binetti bensì la comunità scientifica. Ginecologi e neonatologi hanno chiesto un punto di riferimento condiviso. Io ho riunito un tavolo di lavoro degli operatori del settore che produca una raccomandazione. Si dovrà tener conto dello sviluppo della diagnosi che fa sapere molto presto quali sono le condizioni del feto e del forte aumento dei bimbi prematuri».
È ormai chiaro che i temi etici sono il tallone d’Achille della maggioranza. La 194 spaccherà il centrosinistra?
«Non credo proprio. Se dai proclami politici si passerà ai fatti, al centrosinistra basterà leggere la legge e studiare i dati per presentarsi unito».
Cambiamo argomento Franceschini ha rilanciato il sistema elettorale francese. Una mossa che arricchisce il dibattito o aumenta la confusione?
«Indubbiamente c’è una confusione che non giova. Forse sarebbe il caso di evitare tanti annunci e trovare una sede dove discutere tra noi. Mi sembra una sommessa richiesta di buon senso».
Si susseguono lettere e annunci di Dini: o il suo mini-programma sarà approvato o voterà contro il governo. È il baluardo del rigorismo o è in malafede?
«Rispetto molto Dini che ha traghettato il Paese in un momento difficilissimo. Diciamo che a Natale è più facile trovare visibilità. Continuo a stimarlo e a ritenere che potrà arricchire il programma comune senza bisogno di ultimatum».

l’Unità 3.12.08
Flamigni: «Accertamenti per l’Ivg entro la 22ª settimana»


Secondo il pioniere della fecondazione assistita e membro del Comitato Nazionale di Bioetica Carlo Flamigni, la conoscenza scientifica «ci porta a dire che gli accertamenti per interrompere la gravidanza vanno conclusi entro la 22esima settimana». Infatti, per un prematuro «è a partire dalla 23esima settimana che crescono le possibilità di sopravvivere, cosa che trent’anni fa non era immaginabile o ipotizzabile. Fermo restando ovviamente l’esistenza di situazioni che mettono a rischio la vita della donna o del bambino stesso». Dopodiché, «questa cui assistiamo è una provocazione, un atto politico gravissimo: c’è la sinistra in estrema difficoltà e si affonda il coltello nella piaga».

l’Unità 3.12.08
Nati a 22 settimane. rianimare o no?


Cosa fare quando un feto, dopo un intervento di interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), dà segni di vita? La legge 194 afferma che in presenza di segni vitali il piccolo va rianimato. In tre documenti, gli orientamenti degli esperti.
Società scientifiche Nel loro documento si prevede l’astensione dalle cure intensive per i nati dalla 22/ma alla 24/ma settimana, per i quali le chances di sopravvivenza sono bassissime e i trattamenti sarebbero accanimento terapeutico.
Il 30-35% dei neonati prematuri, di 22, 23 o 24 settimane di gestazione, muore in sala parto; il 45% è sottoposto a cure intensive e muore durante la terapia, la sopravvivenza è del 25%, ma il 95% dei sopravvissuti riporta gravi handicap cerebrali.
Neonatologi cattolici Nel 2006, i neonatologi e il Centro di bioetica dell'Università Cattolica di Roma mettono a punto delle «linee guida per l'astensione dall'accani- mento terapeutico nella pratica neonatologica». In caso di età gestazionale incerta, l'indicazione è di rianimare il feto vitale «fatta salva la possibilità di rinunciare agli interventi successivi se c'è una situazione di incompatibi- lità con la vita». Sotto le 22 settimane, si prevede astensione da intubazione e ventilazione e il trattamento con sole cure palliative e analgesici; per feti vitali a 23 e 24 settimane intubazione, ventilazione e rianimazione cardiocircolatoria.
Codice Mangiagalli Nel 2004, la Clinica Mangiagalli di Milano emana una raccomanda- zione interna affinchè si evitino gli aborti terapeutici dopo la 22/a settimana.

l’Unità 3.12.08
Il voto «alla francese» fa arrabbiare la sinistra radicale
Franceschini rilancia doppio turno e presidenzialismo
Rifondazione: è una follia. Protesta Sd, An plaude
di Federica Fantozzi


SASSO NELLO STAGNO. Alla vigilia dell’avvio della discussione sulla bozza Bianco, Dario Franceschini rilancia a sorpresa il sistema elettorale francese e l’elezione diretta del premier. È un vespaio: all’apertura di An fanno da contrappunto la bocciatura di Rc e Sd, ma anche molte perplessità dentro il Pd.
In un’intervista a Repubblica il numero due del partito di Veltroni insiste sul 2008 come anno del cambiamento ribadendo la direzione di marcia: governabilità del Paese e limite alla frammentazione. Il sistema più adatto? «Il francese nella sua interezza. Ma non siamo obbligati a importarlo in blocco. Anche un proporzionale con sbarramento almeno al 5% sarebbe un passo avanti». Tappa successiva: l’elezione diretta o del presidente della Repubblica come in Francia o del capo del governo modello «sindaco d’Italia».
Torna così sull’(affollato) tavolo dei sistemi elettorali da scegliere l’uninominale a doppio turno in uso Oltralpe, di cui l’estate scorsa D’Alema tesseva le lodi sacrificandolo però al tedesco sull’altare delle «convergenze possibili». Adesso la mossa franceschiniana, ovviamente concordata con il suo leader, spariglia. Ma è (al momento) solo un segnale: se ci sarà il consenso necessario bene, altrimenti sia chiaro che la direzione di marcia è una e una soltanto. Veltroni vuole far sapere che la bozza Bianco, un mix tra il tedesco e lo spagnolo, è la linea Maginot delle garanzie bipolari.
«Il tedesco puro non è sulla scena» tagliano corto da Santa Anastasia. Nessuno si impicca al Vassallum (il sistema elaborato dal politologo Salvatore Vassallo su imput veltroniano) ma «la bozza Bianco è il punto massimo di mediazione». Insomma: un sistema dove la soglia del 5% è condizione necessaria per eleggere qualcuno in Parlamento ma può rivelarsi non sufficiente in assenza di un sostanzioso radicamento territoriale.
Nonostante le feste natalizie, la proposta di Franceschini suscita parecchie reazioni. Quasi tutte di segno negativo, se si escludono An e Udeur.
Di sindaco d’Italia Veltroni aveva parlato nel colloquio con Fini, e plaude Italo Bocchino: «L’apertura al presidenzialismo può cambiare direzione al dialogo in corso sulle riforme». Mentre per il partito di Mastella l’ipotesi è «condivisibile», con annesso invito a tenr conto dei partiti minori. Non si sbilancia Forza Italia: alla cautela di Martusciello e Quagliariello, sherpa azzurri sulla questione, segue l’ex ministro La loggia che prende tempo: «Vediamoci in Parlamento e discutiamone». Per la Lega nella maggioranza «regna sovrano il caos» mentre l’Udc mette il veto a «scorciatoie elettorali».
È dal centrosinistra però che arrivano le chiusure più nette. In prima linea i due capigruppo di Rifondazione: «proposta francamente irricevibile» per Russo Spena, «una vera follia, impraticabile e fuori dalla realtà» per Gennaro Migliore. Critica anche Sinistra Democratica: «C’è un evidente rifiuto di imparare dall’esperienza» scrivono in una nota Cesare Salvi e Massimo Villone, meglio un proporzionale al 5%. No nel «metodo» anche da Italia dei Valori: «Non è possibile - protesta Donadi - che ogni mattina ci si sveglia con uno dei dirigenti del Pd che propone il suo personale modello».
Perplessità dentro il Pd stesso. Rosy Bindi attacca:«Su temi così seri lanciare proposte estemporanee con interviste e comunicati stampa non serve a nulla, anzi rischia di compromettere un percorso già difficile». Il ministro della Famiglia invita a convocare l’Assemblea costituente del partito per decidere «insieme».
E il parisiano Franco Monaco si stupisce degli «stop and go e degli zig zag sulle riforme. Prima l’inopinata apertura al proporzionale e l’abbandono del maggioritario, ora il carico da novanta dell’elezione diretta». Per il deputato emiliano è imprescindibile «un confronto aperto nel Pd per stabilire una linea riconoscibile, meno ballerina».
Si vedrà tra una settimana. Appuntamento alla verifica del 10 gennaio. Perché sarà pure che il governo deve occuparsi della sua azione e il Pd di riforme, ma è impossibile non parlarsi.

l’Unità 3.12.08
L’economia cinese senza freni: anche nel 2008 una crescita a due cifre
Secondo le proiezioni il prodotto interno lordo crescerà del 10,8% contro l’11,5% del 2007. In leggero rallentamento il tasso di inflazione che è previsto al 4,5%


SENZA FRENI L’economia cinese continuerà a correre nel 2008 con un tasso di crescita a due cifre, mentre l’ inflazione rimarrà vicina al punto più alto del decennio.
È quello che afferma lo State Information Centre, un centro studi gestito dalla Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, una sorta di superministero dell’ economia responsabile tra l’altro dell’elaborazione dei piani quinquennali.
Secondo le proiezioni del Centro studi, il prodotto interno lordo della Cina crescerà del 10,8 per cento con una leggera diminuzione sul tasso registrato l anno scorso, stimato all’11,5 per cento.
Il rapporto del Centro studi, che rispecchia largamente i desideri del governo, aggiunge che l’inflazione sarà intorno al 4,5 per cento, anch’essa in leggero rallentamento rispetto al 2007, anno nel quale i prezzi sono cresciuti del 4,7 per cento.
Il governo, sottolineano gli autori dello studio, continuerà a prendere misure per il «raffreddamento» della crescita, che in alcuni settori è ritenuta eccessiva. Secondo gli economisti settori come quello dell’edilizia potrebbero avere un crollo improvviso, innescando una crisi generale.
La Banca del Popolo della Cina ha aumentato l’anno scorso per sei volte i tassi d’interesse nel tentativo di evitare il «surriscaldamento» dell’economia.
Il rapporto sostiene che quest’ anno anche il surplus commerciale della Cina - che raggiungerà comunque i 328,4 miliardi di dollari - comincerà a rallentare il ritmo di crescita a causa del «protezionismo straniero». Gli investimenti fissi passeranno da un tasso del 26,3 a quello del 24 per cento.
Un’incognita riguarda il valore della valuta nazionale, lo yuan, che ha chiuso il 2007 con un cambio di 7,30 col dollaro, il livello più alto mai toccato. Da quando, nel 2005, è stata allargata la fascia di oscillazione del valore dello yuan rispetto al dollaro, la moneta cinese è cresciuta del 12,5 per cento.
Il segretario al tesoro americano Henry Paulson ha riconosciuto che «il tasso di crescita dello yuan è aumentato», ma gli Usa non sono ancora soddisfatti e chiedono un’ulteriore, decisa, rivalutazione. Secondo alcuni economisti, la valuta potrebbe apprezzarsi del dieci per cento nel 2008.
Un altro fattore, questo però di medio periodo, destinato a ridurre la competitività dei prodotti cinesi è la nuova legge sul lavoro, entrata in vigore all’ inizio dell’ anno. La legge rende obbligatori i contratti di lavoro e pone dei seri limiti alla libertà di azione delle imprese in materia di orari e licenziamenti: secondo i calcoli più pessimisti, potrebbe provocare un aumento del 40 per cento del costo del lavoro.

l’Unità 3.12.08
Il senso di Herzog per la neve dell’Antartide
di Dario Zonta


CINEMA Con un’altra tappa del suo errare Werner Herzog ha partorito un film nell’Antartide «Incontri alla fine del mondo»: dove ha filmato scienziati, ricercatrici contorsioniste, avventurieri e un pinguino disperso

Una rassegna sul regista a Torino presenta questo film di persone e luoghi estremi

La prolificità di Werner Herzog (quattro film in tre anni) è pari alla sua curiosità inesausta per le cose del mondo, per i suoi spazi remoti e potenti, per le sue genti sorprendenti, per le sfide che questi intraprendono, estreme e significanti anche quando contro ogni evidenza e logicità. Il mondo Herzog l’ha girato in lungo e largo come un viaggiatore ottocentesco e lunatico, arrivando a toccarlo, unico regista, in tutti e sette i suoi continenti, ma anche anche oltre, nel «fuori mondo» de L’ignoto spazio profondo (documentario fantascientifico di erranti astronauti della Nasa alla ricerca di un’altra Terra da abitare) e, ora, nel «sotto mondo», quello che solletica la calotta polare nell’Antartico. Encounters at the End of the World («Incontri alla fine del mondo») è l’ultima fatica del regista tedesco che ha raggiunto il Polo Sud per filmare la comunità di ricercatori, scienziati e avventurieri che abita la remota stazione McMurdo, nei pressi di Ross Island.
Presentato tra l’altro all’Idfa (International documentary film festival di Amsterdam), la più imponente rassegna europea del cinema documentario dove si danno imprescindibile appuntamento i «commisioning editors», i «buyers» e i direttori di festival di tutto il mondo, Encounters avrà la sua anteprima italiana al Museo del cinema di Torino che dal 15 gennaio allestisce una retrospettiva sul regista tedesco con proiezioni di film, sue lezioni, una mostra di foto scattate da Herzog e un concerto con musiche da lui scelte.
Werner Herzog ebbe a dire una volta, vestendo l’abito del filosofo, che «una società che non sia più in grado di creare immagini nuove e sorprendenti è in crisi». Il regista tedesco intende il «nuovo» come qualcosa di «mai visto» o di «mai visto così». Il viaggio al Polo Sud, sopra e sotto la calotta, rappresenta un’altra frontiera, un’altra estasi, un’altra eclissi, un’altra morte dopo aver visto in faccia il cuore della natura, ovvero l’unico mondo possibile.
Ma alla fine Herzog che cosa cerca in questo suo continuo errare? Se stesso, nient’altro che se stesso, per dare ragione a un sentimento e a una ossessione. E così l’eccentrica comunità di scienziati e avventurieri della stazione di ricerca è alter ego di Herzog. Tra i convitati a questo banchetto al termine della notte ci sono, tra gli altri: una ricercatrice contorsionista che di giorno studia e di sera, per intrattenere gli astanti, si piega dentro una valigia munita di quattro fori per gambe e braccia; un biologo cellulare, amante dei film catastrofisti degli anni cinquanta, che infligge ai suoi colleghi la visione di Assalto alla terra, un classico a della science-fiction in cui enormi formiche radioattive assaltano Los Angeles; un compositore che ama tuffarsi nelle zone artiche e le cui riprese sottomarine del Mar Rosso congelato hanno indotto Herzog alla nuova ventura (con l’aiuto di Discovery Channel).
Come suo solito il regista intesse il racconto per immagini con la sua voce off di un inglese teutonico, ironico, stralunato e profondo, voce che rende «mai viste così» immagini di sicura inquietudine e fascino, sempre pervase dal senso di morte. Una scena rimarrà alla storia: quella del pinguino disorientato. Con un’ottica a lunga distanza, da documentario naturalistico alla National Geographic, Herzog riprende un pinguino che si distacca dal gruppo di quelli che s’immergono in mare, direzionando il suo incedere verso le montagne e assicurando a se stesso sicura morte. Perché lo fa? Gli scienziati rispondono da scienziati, parlano di disorientamento. Herzog da filosofo e regista ci restituisce un’immagine di impossibile lucidità, un bagliore di suicidio, forse quello dell’uomo, ominide pinguinesco, che volta le spalle alla natura (l’istinto per gli animali) e abbraccia l’avventura e la fine… at the end of the world.

l’Unità 3.12.08
I maschi immaturi della nostra ricca società
di Gianni Celati


A PARTIRE DA «AMARCORD» di Federico Fellini una riflessione inedita di Gianni Celati sugli stereotipi nazionali e le inclinazioni sessuali degli italiani: come il prolungare l’adolescenza diventa funzionale alla retorica della forza

Uno dei più importanti filosofi italiani, Gianbattista Vico, diceva che i miti sono interpretazioni del mondo visto dai «primi filosofi» dell’umanità. Questi filosofi parlavano in «caratteri poetici», cioè a dire, in immagini e metafore di ciò che impressionava i loro sensi. La «scienza poetica» riguarda le capacità immaginative che ci aiutano a comprendere gli antichi miti. A fianco del sistema astratto della scienza cartesiana, Vico propone una scienza del sensibile: una scienza della comprensione narrativa o immaginativa ottenuta grazie alle fantasie della mente. Nella sua Scienza Nuova dice: «La fantasia non è nient’altro che una serie di ricordi che si manifestano», intendendo con questo che la memoria è sempre attivata da finzioni immaginative come quelle che si trovano nella poesia.(...)
Fellini era certamente consapevole del pensiero di Vico e nulla è più vicino alla sua presa di posizione poetica. (...)
Amarcord, girato nel 1973, è uno dei film più felici e ariosi della storia del cinema. Il titolo significa «mi ricordo» nel dialetto del posto in cui Fellini è stato allevato, sebbene il film non abbia nulla a che vedere con una narrazione autobiografica. Piuttosto, sembra essere una sapiente applicazione del concetto vichiano che «la memoria è lo stesso che la fantasia». Infatti, si tratta di ricordi fantastici, sempre nella forma di visioni sorprendenti, quale la memorabile immagine del pavone che appare durante la nevicata invernale.
Sono ricordi di un modo di vedere il mondo che è ancora stupefatto per ciò che vede, come nelle «favole antiche» di cui Leopardi parla in uno dei suoi poemi. Soprattutto, sono ricordi delle fantasie maschili sulle donne, dall’età dell’adolescenza alla maturità. In questo senso, l’intero film è una poetica dell’immaginazione maschile.
Amarcord è ambientato sulla costa adriatica durante il periodo fascista, ed è la storia della vita in una piccola città dove si conoscono tutti. Questa piccola cittadina, riempita di ricordi di fantasie sessuali, fornisce forse il migliore scenario per uno studio degli impulsi sessuali e di come essi siano essenzialmente diversi rispetto a un desiderio espresso pubblicamente e interiorizzato nel privato, il desiderio alimentato dal sogno hollywoodiano di amore e felicità.
In Amarcord Fellini concepisce due esempi opposti. Il primo è la storia della parrucchiera Gradisca, la bellezza desiderata da tutti gli uomini, che va al cinema da sola per andare in estasi alla vista di Gary Cooper. La scena finale del film è dedicata al suo matrimonio, e al banchetto sentiamo qualcuno dire: «Gradisca ha trovato il suo Gary Cooper». Poi vediamo il marito che la porta via dalla città verso una nuova vita: è calvo, sgraziato, sovrappeso, è un carabiniere (i carabinieri sono spesso il bersaglio di scherzi in quanto comunemente considerati un po’ ridicoli) vestito in uniforme da cerimonia ma con una faccia deprimente. La storia della Gradisca è una triste e buffa parabola sulle mitologie del cinema americano, in cui ciò che è sempre in gioco sono i «sogni» delle persone, che è come dire, i clichè interiorizzati dal desiderio.
L’esempio opposto in Amarcord è quello in cui la famiglia del protagonista principale va a prendere lo zio matto dal manicomio per portarlo a fare una passeggiata in campagna, dopo la quale lo zio matto si arrampica sulla cima di un albero e urla: «A vòi na dôôôna!» (Voglio una donna). Attraverso il film ci imbattiamo negli scheletri sessuali negli armadi e nei desideri interiorizzati in forma di clichè. Il pianto dello zio ci dice la nuda verità. Non vuole questa o quella donna in particolare; i suoi desideri non racchiudono alcuna speciale fantasia. Lui vuole solamente dell’altra carne con cui congiungersi nell’atto sessuale. E così continua a gridare dalla cima dell’albero, finché una suora nana non si presenta per tirarlo giù, usando solo due parole «Vieni giù!». Il desiderio si rivolge sempre ad una rappresentazione per darle significato, mentre gli impulsi primari appartengono alla mobilità della materia. Non appena gli impulsi vengono elevati al livello del desiderio in cui «i sogni devono realizzarsi», entriamo in un sistema di confusione mentale. È per questo motivo che lo zio matto vien giù dall’albero e parte con la suora nana senza proferire parola, come sbalordito.
L’automa femminile e i suoi pezzi di ricambio
L’addomesticamento dell’individuo borghese ha luogo attraverso una separazione tra mondo pubblico e mondo privato. In questo modo tutte le possibili combinazioni di individui e generi sono tenuti sotto controllo. Non è come il tipo di separazione testimoniata nei clan maschili e femminili delle società più antiche e primitive. Piuttosto, ha molto di più in comune con l’allevamento del bestiame, dove il toro e lo stallone vengono accoppiati con le femmine solo quando ce n’è bisogno. In associazione ai precetti della Chiesa cattolica (per esempio, quelli espressi dai preti in 8 e ½ che pensavano che tutte le donne fossero maligne tentatrici), la separazione tra i sessi ha assunto una forma molto più rigida in Italia rispetto agli altri paesi. Questo potrebbe aiutarci a spiegare la libidine che circola in una folla di uomini italiani quando fissano una donna, come se la vedessero attraverso una distanza insuperabile.
La donna che passa per strada rappresenta una generica imago per gli uomini che la fissano, un donna qualsiasi che è parte del mondo esterno, desiderabile per lo più perché ella è esterna al controllo dell’ambiente domestico. In un certo modo questa donna viene percepita come un automa dai maschi che guardano, forse anche un bell’automa, ma i cui attributi femminili sono tuttavia più o meno come i pezzi di ricambio di un giocattolo meccanico sessuale. Mi sto riferendo a una buffa scena di Amarcord, in cui un gruppo di scolari vengono mostrati mentre spiano i sederi di alcune contadine. Imitando le loro percezioni, Fellini ci fa vedere il sedere femminile come se fosse staccato dal corpo. Questo film attira la nostra attenzione su come ciascuna parte dell’automa femminile giochi un ruolo differente nelle fantasie sessuali maschili. (...)
La fragile essenza del maschile
In un’intervista Fellini dice: «Amarcord era un film sul dire addio ad una delle stagioni della vita, a quella incorreggibile adolescenza che minaccia di restarci attaccata per sempre…». Sta parlando del bisogno di separarsi da un passato pieno di «ombre, grovigli, legami che sono ancora vincolanti». Dice che anche il fascismo gioca un ruolo in quel passato, l’essenza psicologica del fascismo in particolare, che consiste «in un arresto alla fase adolescenziale». Perciò, «fino a un certo punto, fascismo e adolescenza restano come periodi storici permanenti delle nostre vite». Ha a che fare col familismo che domina la vita italiana, con l’idea che l’altra gente debba sempre pensarci come una madre o un padre, sia che si tratti di un’autorità politica o della Chiesa cattolica, la Madonna e i suoi miracoli, o la televisione coi suoi quiz e i giochi a premi. Questo è il senso di un film che prova a salutare l’«inguaribile adolescenza». (...) In una delle più belle scene di Amarcord, i cinque o sei scolari che formano il gruppo dei protagonisti riuniti per masturbarsi in una vecchia automobile, mentre si masturbano, ciascuno di loro chiama il nome della donna che più desidera, come un antico poeta che invoca la sua musa. E c’è qualcosa di davvero poetico in questa scena, nella quale l’immaginazione riscatta lo stato di separazione tra esseri viventi o esistenze che si trovano sparse nel mondo. Persino la vecchia auto sembra trarre piacere dalla gioia del momento, coi suoi fanali su e giù mentre tiene il tempo con le brame masturbatorie dei ragazzi. Ma allo stesso tempo, in questa meravigliosa scena, ciò che si incontra è l’estrema debolezza insita nel maschile, una fragilità costitutiva che ha a che fare con la sua essenza illusoria e adolescente.
Il miracolo comico della scena con l’auto è l’effetto dei fanali che si muovono all’unisono con le mani dei ragazzi. Ma questo non è ciò in cui consiste il maschile. Per svilupparsi dalla sua base genericamente organica, il maschile deve diventare una specifica rappresentazione del desiderio sessuale. Ma questo pone un problema difficile: se quegli esseri così diversi da noi, le donne, saranno d’accordo nel diventare parte della rappresentazione in cui noi uomini siamo così tenacemente presi. Questo emergerà come una delle forze della propaganda emotiva fascista, che risolverà il problema nella forma di una fede mistica nel maschio dominante (e i suoi rappresentanti).
Verso la fine di Amarcord c’è un’altra scena che è tratteggiata ancor più finemente. Nel piccolo luogo di vacanza balneare dove il film è ambientato, è la fine della stagione estiva. Il gruppo di ragazzi va al Grand Hotel a spiare attraverso il buco della serratura dell’hotel. Ciò verso cui essi guardano è una terrazza, che in estate era piena di bellissime donne straniere e latin lover a caccia. È una scena muta in cui i ragazzi fingono di ballare con una donna, suonare uno strumento o girare vorticosamente come incantati, seguendo la musica che annuncia sia la fine della stagione sia la fine dell’infanzia. Ma il ritornello musicale funziona anche come promemoria che sebbene le cose giungano a una fine, le stesse cose poi riappaiono, in un eterno ritorno.
Ora i cinque ragazzi non si muovono più come gruppo, ma come individui, ciascuno di loro immerso nei suoi propri pensieri. Ed è questo il punto di svolta dell’adolescenza: quando pensare ti rende diverso da qualsiasi altro, o piuttosto ti trasforma in un individuo, quando devi affrontare il problema di essere un individuo invece di essere un membro radicato nell’aggregato familiare. Ma è anche il punto in cui la fragile essenza maschile è rivelata. Poiché l’atto di pensare lo trasforma in un individuo, ora egli è esposto al tiranneggiamento sociale che solitamente gli fornisce una sorta di sicurezza.
Questo è ciò che era il fascismo: un prolungamento dell’adolescenza per mezzo dell’intimidazione, ove l’attività del pensare (che ci espone all’esperienza dell’essere individui) viene o messa da parte per principio o soffocata dalle violenze. Questo è ciò che intende Fellini quando afferma che il fascismo era «un rifiuto di approfondire la propria relazione individuale con la vita, per pigrizia, pregiudizio o convenienza». E così, generazione dopo generazione, la costitutiva fragilità maschile viene sommersa dalla retorica della forza.

Ex libris
Un italiano ha ucciso una ragazza romena:
io propongo l’espulsione di tutti gli italiani dall’Italia.

l’Unità Roma 3.12.08
Santa Cecilia. Due secoli nelle prospettive di Pollini


Con il titolo di "Prospettive" Maurizio Pollini torna nella capitale per Santa Cecilia, presentando all’Auditorium un articolato ciclo di concerti - tre da camera e due sinfonici replicati tre volte, per un totale di nove appuntamenti - che si svolgeranno dal 5 al 29 gennaio.
Il pianista non è nuovo a simili imprese, per la prima volta lanciate nel 1994 a Salisburgo con il titolo di "Progetto Pollini", da lì trapiantato a Tokio e a New York nello scorcio di fine secolo e poi anche a Roma nel 2003. Come alcuni sapranno si tratta di una serie di programmi molto diversi, con musiche talvolta lontane sia nel tempo che nell’estetica, che prevedono la presenza di musicisti specializzati nell’esecuzione di determinati autori, questa volta il Klangforum Wien e il Quartetto Hagen.
A caratterizzare "Prospettive" 2008 il confronto tra alcuni compositori dell’Otto e del Novecento: trait-d’union sembra essere la figura di Brahms, presente in tre programmi e di cui Pollini, esibendosi per la prima volta con la direzione di Antonio Pappano, eseguirà i concerti per pianoforte e orchestra, il primo nell’appuntamento d’apertura e il secondo in quello di chiusura. Oltre l’mmancabile Frédéric Chopin e sul versante francese Claude Debussy, spiccano anche personalità come Bruno Maderna, Pierre Boulez, Luigi Nono, Anton Webern e Karlheinz Stockhausen, la cui presenza tuttavia non è un omaggio alla sua recente scomparsa, essendo già programmata da tempo l’esecuzione dei suoi "Klavierstücke" di cui Pollini è senz’altro interprete di riferimento, nonché di altri brani come "Kontra-Puncte".
Una simile proposta, ben lontana dall’eclettismo, trova fondamento nel particolare temperamento artistico di Pollini, incline a guardare alla musica attraverso grandi campiture -di qui probabilmente il titolo «Prospettive». Inoltre Pollini è interprete del tutto particolare, piuttosto inquieto e in molti casi recalcitrante a cristallizzare la propria lettura di un brano, che spesso si trasforma nel contesto in cui viene eseguita. In proposito basterebbe ricordare nell’appuntamento di apertura del Progetto Pollini 2003 come la sua esecuzione di Schönberg e Beethoven presentasse il primo come un classico e il secondo come un modernista. C’è anche un preciso gusto intellettuale nel forgiare certi accostamenti, come nel caso di Nono e Chopin: «Accumuna questi due musicisti così diversi -ha dichiarato recentemente Pollini- lo sdegno verso l’ingiustizia». Nel caso di Chopin si trattava dell’occupazione della Polonia, per Nono il risentimento contro la guerra animava «A Floresta é jovem e cheja de vida», dedicato nel 1966 al fronte di liberazione del Vietnam. E tuttavia, anche in brani di grande e sincero impegno politico come questo di Nono per Pollini rimane essenziale il valore estetico, in una ricerca ancora vigile e inesausta della profonda unità che solca la storia della musica.
www.santacecilia.it - 06 80 82 058

Repubblica 3.1.08
Quei crimini della Wehrmacht
di Vanna Vannuccini


Torna in Germania la polemica sul ruolo dell'esercito
La Wehrmacht e i suoi orrori nascosti

Un documentario in tv sul libro in cui sono pubblicate le intercettazioni dei colloqui fra i generali tedeschi fatti prigionieri dagli inglesi
Un ulteriore colpo al tentativo di scaricare sulle sole Ss la responsabilità delle atrocità commessa durante la Seconda guerra mondiale

I generali della Wehrmacht si misero d´accordo per scaricare sulle SS tutta la responsabilità dei crimini di guerra. E alcuni, come l´ufficiale della riserva Eberhard Wildermuth, che poi fu ministro della Ricostruzione nel primo governo Adenauer, avevano già delineato la strategia per costruire l´immagine di una Wehrmacht dalle mani pulite. Fu un´immagine dura a morire, che resistette fino alla metà degli anni 90, quando un milione e mezzo di tedeschi visitarono la contestata mostra itinerante sui «Crimini della Wehrmacht».

«Che faccia! La tollererebbe una faccia così nel suo reggimento, Signor Generale?» Quando Kurt Meyer, soprannominato "Panzermeyer", arriva come unico generale delle SS a Trent Park, la tenuta nobiliare tramutata in campo di prigionia per gli ufficiali tedeschi di alto rango, i generali della Wehrmacht storcono il naso. Da tempo si sono messi d´accordo per scaricare sulle SS tutta la responsabilità dei crimini di guerra. Alcuni, come l´ufficiale della riserva Eberhard Wildermuth, che poi fu ministro della Ricostruzione nel primo governo Adenauer (una strada a Stoccarda porta ancora il suo nome), delineano già la strategia per costruire l´immagine di una Wehrmacht dalle mani pulite, alla cui ombra gli sgherri del regime consumavano i loro delitti efferati. Fu un´immagine dura a morire, che resistette fino alla metà degli anni 90, quando un milione e mezzo di tedeschi visitarono la contestata mostra itinerante sui «Crimini della Wehrmacht».
Il dibattito si è riacceso in questi giorni in Germania dopo che la Zdf ha mandato in onda una serie televisiva su Trent Park, basata sul libro Intercettati (Verlag) dello storico tedesco Soenke Neitzel. Neitzel ha pubblicato ampi estratti delle intercettazioni che l´intelligence britannica fece, dall´agosto del ´42 all´autunno del ´44, dei discorsi dei generali tedeschi. Churchill aveva protestato per il trattamento lussuoso che era stato loro riservato a Trent Park, ma l´intelligence aveva insistito che un buon cognac francese davanti al caminetto avrebbe sciolto loro la lingua, e aveva avuto ragione. Pur consapevoli di poter essere ascoltati, le notizie della radio, la lettura dei giornali (a volte falsificati dall´intelligence), l´arrivo di sempre nuovi prigionieri e gli agi fecero presto dimenticare i sospetti.
Nessuno del resto immaginava che vi fossero microfoni dappertutto e che ogni parola venisse sistematicamente registrata da emigranti tedeschi che lavoravano per l´esercito britannico. I colloqui sono stupefacenti per franchezza. I generali parlano dei crimini commessi dai loro reggimenti, discutono di strategia, sembra che si sentano ancora nei loro quartier generali intenti a spostare le bandierine di carta sulle mappe geografiche. Naturalmente ogni spostamento significava migliaia di morti - altrui e propri - ma questo non importava. Parlano di «vittorie perdute» come se fossero partite di bridge. Una cacofonia di arroganza e prudenza. Radere al suolo, liquidare, fare tabula rasa sono i verbi più usati. La guerra di annientamento era l´insegna anche della Wehrmacht.
Che cosa pensavano di Hitler, di come sarebbe andata a finire la guerra, chi vedevano come futuri protagonisti della scena mondiale? E perché la Wehrmacht combatté fino all´ultimo, quando la guerra era ormai sicuramente perduta? «Questi protocolli sono un´occasione straordinaria per gettare uno sguardo nella mentalità della Wehrmacht» dice Neitzel. «Sarà interessante anche vedere le differenze rispetto agli italiani, anche loro ospiti di Trent Park. Il più importante tra loro era il generale Giovanni Messe, che dopo la guerra diventa capo di Stato Maggiore dell´Esercito, una figura significativa. Anche loro parlano liberamente dei crimini commessi in Grecia e nei Balcani. All´inizio della guerra sono molto positivi sui tedeschi, poi il giudizio gradualmente cambiò. Sarà interessante studiare quanto fascisti fossero i comandi dell´esercito italiano, una cosa che la storiografia non ha ancora fatto appieno».
Neitzel, insieme a Amedeo Osti del Deutsch-Historisches Institut, sta lavorando a un progetto triennale per esaminare le 50.000 pagine di intercettazioni di cui finora ha pubblicato solo la parte relativa alla Wehrmacht. Quelle pagine erano state rese accessibili dall´Archivio di Stato britannico dal 1996, ma nessuno storico le aveva ancora studiate. Neitzel c´è capitato per caso, dopo aver trovato dei riferimenti nel libro dell´americano Michael Gannon.
C´è un tipico ufficiale tedesco? «A Trent Park ci sono due gruppi: quelli che difendono Hitler a spada tratta, sono imbevuti di dottrine razziste e antisemitismo (discutono seriamente se i russi siano da considerarsi bestie, come sostiene Hitler, o uomini). Come il generale Cruewell, che fino all´ultimo crede nella vittoria: gli americani si ritireranno, dice, quando si renderanno conto che il bacillo ebraico ha infiltrato il loro popolo. Sono gli ebrei che vogliono annientarci uno ad uno. Sanno che il pensiero nazionalsocialista si diffonderà nel mondo e cercano spasmodicamente di salvarsi, sostiene. Ma c´è anche una minoranza non nazista che stigmatizza i crimini di guerra. Uno dice che la Germania merita di perdere la guerra per quello che ha commesso, un altro, il generale von Choltitz, riconosce: anche noi siamo colpevoli. Però poi viene fuori che anche la divisione del generale bavarese von Thoma, il più antinazista di tutti, aveva eseguito il Kommissarbefehl, l´ordine del Fuehrer di fucilare i prigionieri russi. E Cruewell commenta: era davvero così sbagliato quell´ordine? Perfino coloro che sono a favore dell´attentato a Hitler del 20 luglio, e vorrebbero la fine della guerra per evitare inutili spargimenti di sangue, non sono disposti a lanciare per radio un appello alla resistenza, come proponevano gli inglesi. La soglia da superare era troppo alta», dice Neitzel.
«Parigi brucia?» s´informò personalmente Hitler dal generale von Choltitz, che secondo gli ordini ricevuti avrebbe dovuto combattere fino all´ultimo uomo o radere al suolo la capitale francese prima di ritirarsi. Choltitz non lo fece e fu celebrato dopo la guerra come il salvatore di Parigi. Ma egli stesso rivela di non aver avuto abbastanza bombe. E parlando con Thoma ammette di aver partecipato ai massacri degli ebrei: «Il compito più duro che ho eseguito - e tuttavia l´ho condotto alle ultime conseguenze - è stata la liquidazione degli ebrei», afferma. In un´altra occasione racconta: «Arrivai all´aeroporto dopo la caduta di Sevastopol insieme al Capo di Stato Maggiore. Il comandante venne ad accoglierci, si sentivano degli spari. State facendo delle esercitazioni? chiesi. E lui: Per l´amor di Dio, non posso parlare. Qui da giorni vengono fucilati gli ebrei».
Al che il generale Broich aggiunge: «Ma la storia più ridicola è quella che racconta Wildermuth. In una fabbrica croata erano stati uccisi un paio di tedeschi, non una cosa grossa, ma il comandante del battaglione decise una rappresaglia dura e fece uccidere tutti i 600 operai, inclusi i capisquadra tedeschi, dei quali nessuno si era ricordato. Tornò al campo dicendo: per Dio, hanno fatto fuori anche i miei! La vicenda fu regolata senza chiasso». Choltitz racconta anche di quando al Gauleiter di Oldenburg, Karl Roever, che lo congratulava per il suo reggimento che era appunto di Oldenburg, osò dire che i suoi uomini non sopportavano più l´uccisione degli ebrei e la persecuzione delle suore e dei frati cattolici. E´ l´ordine del Fuehrer! urlò Roever, intimandogli di mandare un rapporto ogni giorno in cui non fossero stati uccisi almeno mille ebrei. «Che diranno quando troveranno le fosse comuni in Polonia?» si chiede il generale d´artiglieria Neuffer. «Ho visto un treno a Ludowice diretto a Minsk, era terribile, carico di uomini donne bambini piccoli, da inorridire. Naturalmente non sono poi andato a vedere come venivano uccisi». Naturalmente. I generali avevano uno chauffeur che risparmiava loro certe visioni. E se proprio non potevano sottrarsi, aiutava, come racconta un altro, la bottiglia di vodka nello zaino.
«Perché la Wehrmacht abbia continuato a combattere fino all´ultimo se lo chiedevano anche gli inglesi», spiega Neitzel, «e in effetti a Trent Park questo era un tema spesso discusso. Ma la maggioranza era talmente impregnata di ideologia nazista da sostenere che i russi volevano sterminare il popolo tedesco e che l´unico modo per impedirlo fosse perdere con onore. Quando arrivano gli ultimi alti ufficiali fatti prigionieri nella primavera del ´45 e dicono che la guerra è persa, gli altri chiedono: perché allora avete continuato a combattere? E qui è chiaro come sia difficile uscire dal sistema militare in cui questi ufficiali sono inseriti. Come vi immaginate una cosa simile? rispondono. Gli americani attaccano e noi non spariamo? Tutti, nazisti e antinazisti, parlando delle loro esperienze di guerra dicono sempre: ho combattuto fino all´ultima pallottola, il mio battaglione è stato l´ultimo a ritirarsi. Era questo l´ethos militare». Alla fine qualcuno sarebbe anche pronto a collaborare, come fecero gli ufficiali tedeschi prigionieri a Mosca, ma i britannici non fanno offerte, convinti che il militarismo tedesco fosse un male non minore del nazismo.

Repubblica 3.1.08
La scienza. Così i rimpianti fanno ammalare
di Benedict Carey


È difficile sopportare le proprie rinunce. Gli psicologi: pensate alle cose positive
Le scelte perdute fanno ammalare corpo e mente
Pensare sempre a ciò che si è perduto conduce soltanto in un vicolo cieco

Da una quindicina di anni a questa parte gli psicologi stanno studiando in che modo i rimpianti piccoli e grandi, recenti e lontani possano influire sul benessere mentale delle persone. Hanno dimostrato che recriminare sulle strade che non si sono scelte è un esercizio emotivamente logorante e sterile. Pare che altrettanto vero, quanto meno nel lungo periodo, sia ciò che in fatto di rimpianti è risaputo, ovvero che a fare più male è ciò che non si è fatto.

La festa di fine anno ideale dovrebbe prevedere un voucher psicologico da utilizzare il giorno seguente per una sessione post-mortem con gli amici. Una chance per assaporare le figuracce della serata, scommettere su chi è andato a casa con chi, eleggere l´ospite che ha maggiormente bisogno di entrare in terapia, presenti inclusi. Un´opportunità per prevenire il tradizionale tracollo del mattino dopo nell´auto-analisi. Lì, dopo tutto, si aggirano veri fantasmi, quelli della peggior specie, le versioni alternative del nostro Io. L´Io che non ha lasciato gli studi ed è arrivato alla laurea, per esempio. L´Io che è riuscito a far funzionare il proprio matrimonio. O l´Io che ha insistito a cantare, scrivere commedie e dipingere facendone una carriera. Alcuni psicologi chiamano questi fantasmi i "possibili Io perduti".
Da una quindicina di anni a questa parte gli psicologi stanno studiando in che modo i rimpianti - piccoli e grandi, recenti e lontani nel tempo – influiscono sul benessere mentale delle persone. Hanno dimostrato che ruminare sulle strade che non si sono scelte è un esercizio emotivamente logorante e sterile. Pare che altrettanto vero, quanto meno nel lungo periodo, sia ciò che in fatto di rimpianti è risaputo, ovvero che a fare più male è ciò che non si è fatto.
Tuttavia, studiando i possibili Io perduti gli psicologi sono arrivati a capire in modo più esaustivo ed esauriente in che modo i rimpianti plasmino la personalità. I ricercatori hanno scoperto che la gente ripensa ai propri errori passati o alle occasioni perdute in molti modi: alcuni tendono a fissarvisi e corrono un elevato rischio di soffrire di problemi d´umore, altri invece hanno imparato a ignorare i rimpianti e paiono vivere vite più a cuor leggero, anche se più superficiali. A metà strada tra questi comportamenti, vi sono poi coloro che camminano con circospezione sul campo minato delle scelte passate, dissotterrando con coraggio gli ordigni ancora innescati e facendo il possibile per disinnescare quelli ancora attivi.
Uno studio del 2003 della Concordia University di Montreal e dell´Università della California a Irvine ha evidenziato che i giovani adulti che avevano ottenuto un alto punteggio in fatto di misurazione del loro benessere psicologico tendevano a pensare alle decisioni rimpiante come a qualcosa di imputabile soltanto a loro stessi. Al contrario, i più anziani tendevano a rimpiangere alcune decisioni prese, secondo loro, insieme ad altri.
Laura A. King, psicologa dell´Università del Missouri, ha fatto descrivere ad alcuni soggetti il futuro che si immaginavano di avere prima che un evento alterasse il corso della loro vita, per esempio un divorzio. Da questa ricerca è emerso che coloro che erano in grado di scrivere o parlare del loro futuro perduto senza precipitare nella disperazione tendevano ad aver sviluppato un´altra qualità, detta complessità. La dottoressa King ha seguito per anni vari gruppi di persone, scoprendo che questa abilità ad auto-analizzarsi si sviluppa col tempo. I bravi terapeuti conoscono da sempre il valore che ha considerare le scelte rimpiante collocandole nel contesto di ciò che si è guadagnato, oltre che di ciò che si è perduto. «L´idea di fondo è quella di far sì che la gente prenda le distanze da quel ruminare continuo "se i miei genitori avessero fatto questo…se io non avessi fatto quell´altro, allora avrei davvero quello che voglio"» esemplifica il dottor Gary Kennedy, direttore del dipartimento di psichiatria geriatrica del Montefiore Medical Center nel Bronx. «Procedere così è come cacciarsi in un vicolo cieco».
Copyright New York Times-la Repubblica (Traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica 3.1.08
Il futuro impossibile
di Umberto Galimberti


I rimpianti non si limitano a rovinare la vita e la salute mentale, ma rivelano una pericolosa destrutturazione della nostra temporalità, dove il passato divora il presente e il futuro e, senza futuro, non c´è vita che possa dischiudersi a un avvenire. Sia Giuda che Pietro, ad esempio, tradiscono il loro Maestro. Giuda si fa divorare dal passato e perciò conclude col suicidio la sua esistenza. Pietro invece relega nel passato il tradimento e concede al futuro una possibilità di riscatto.
Quando il passato assorbe tutto il nostro spazio temporale, il presente diventa il tempo dell´incessante lamento, fatto di "se", "se non", "se avessi", "se non avessi", e il futuro si dischiude come ambito di vuote intenzioni. La vera perdita sottesa al rimpianto, infatti, non è il desiderio inattuato, l´occasione mancata, la carriera sfumata, l´amore perduto, ma la capacità di darsi il futuro. Esemplare a questo proposito è l´espressione di Rousseau: "Per me la previsione ha sempre sciupato il godimento. Ho visto il futuro solo perdendoci", dove ritorna il motivo della "perdita" come perdita della possibilità di fare nuove esperienze.
Nel rimpianto si estingue l´attività con cui tendiamo verso l´avvenire, e al suo posto subentra l´attesa dove un futuro senza progetti viene insignificante verso di noi. Insieme all´attività si spegne il desiderio che per sua natura è proiettato in avanti e col desiderio la speranza che non è vuota consolazione, ma apertura alle possibilità a venire, che ci evita di trattenerci nella prigione di un presente che, senza prospettive, si risolve nella malinconica memoria di un passato immodificabile.
La noia che proviamo quando ascoltiamo chi, con rimpianto, ci parla del suo passato è forse la più palese testimonianza che in lui le sorgenti della vita si sono inaridite, perché ogni progetto, prima ancora di nascere, è già catturato dal rimpianto che lo immobilizza in un passato senza avvenire e senza oblio, il quale, diciamolo, non è un difetto della nostra memoria, né un principio di economia mentale, ma la grande regola del passato, senza la quale la vita non potrebbe esprimere un presente, né progettare un avvenire.
Ma là dove il passato non è superato, anche la libertà viene trattenuta in quello sguardo retrospettivo dove il rimpianto si ripropone in quelle modalità ossessive che assediano il presente e lo rendono inidoneo al futuro. Il rimpianto dunque non è da coltivare. E coloro che si soffermano o vi indugiano pensano di soffrire per il loro passato. In realtà ciò di cui davvero soffrono è l´incapacità di darsi un futuro.

Repubblica 3.1.08
Il mondo classico. Quel che resta di greci e romani
di Maurizio Bettini


Arriva in Italia il monumentale saggio dello storico Robin Lane Fox
Un viaggio che arriva fino in Afghanistan dove si veneravano gli dei dell´Olimpo
Un grande affresco che inizia con Omero e si chiude con l´imperatore Adriano

Esiste ancora il mondo classico? La domanda potrebbe suonare bizzarra, specie in Italia - paese nel quale, come diceva Aldo Palazzeschi, è attuale solo il passato. E in effetti in Italia il passato continua ad essere attuale: sì, ma quale? Per trovare una risposta, occorre spostare l´obiettivo su un fenomeno che ha esercitato una notevole influenza sulla nostra percezione dell´antichità, ossia l´ingresso nel nuovo millennio. Fra le molte conseguenze che tale passaggio ha comportato, infatti, c´è anche questa: una volta tagliato il simbolico traguardo del duemila, è come se il mondo classico si fosse ulteriormente distaccato dalla nostra continuità culturale. Se fino alla conclusione del secondo millennio la percezione dell´antichità rimontava almeno agli inizi del primo, e oltre, dopo l´ingresso nel terzo millennio c´è stato come uno scorrimento nella graduatoria temporale: e l´antichità percepita, quella sentita come contigua alla nostra modernità, si è identificata piuttosto con il medioevo. Il quale costituisce per l´appunto il passato che è oggi "attuale" in Italia.
Le motivazioni di questo mutamento di percezione non sono da attribuire solo al passaggio di millennio. Tutti ricorderanno, per esempio, il dibattito sulle "radici cristiane" della cultura occidentale. Questa discussione presuppone che le origini, il punto iniziale della nostra cultura - come appunto sono le radici per una pianta - coincidano con il cristianesimo, e quindi non debbano risalire più indietro. Cosa che, di fatto, taglia fuori dal nostro passato vivente personaggi come Omero, Platone o Virgilio. E anche quando si propone di sostituire questa dizione con l´altra di "radici classiche e cristiane", il problema in realtà non si sposta: perché, così facendo, della cultura classica si tende a privilegiare solo quanto sarebbe confluito nel filone cristiano.
Il fatto è che l´antichità greca e romana si sta riducendo ad un´anima trasmigrante - quando si manifesta, lo fa perlopiù sotto altre sembianze. C´è il classico che si reincarna nella cultura cristiana e quello che trasmigra nei prodotti della fiction di massa, come Il gladiatore o Troy (per non parlare delle Termopili ridotte a video game); c´è il classico che rinasce nei personaggi del melodramma, da l´Incoronazione di Poppea a Norma, riscuotendo anzi un discreto successo di pubblico e di studi; e c´è quello che fa capolino tra gli elmi e le corazze della pittura rinascimentale, amato dagli storici dell´arte e dai frequentatori dei musei. Sempre più spesso, insomma, abbiamo a che fare con i greci o i romani "di qualcun altro", sempre meno con quelli che appartenevano solo a se stessi.
È questo il panorama in cui si affaccia l´ultima fatica di Robin Lane Fox, lo storico antico di Oxford noto per la sua biografia di Alessandro Magno. Il titolo di questo nuovo libro, tradotto da Davide Tarizzo e corredato di una speciale bibliografia per il lettore italiano curata da Marco Bettalli, è molto eloquente: Il mondo classico. Una storia epica della Grecia e di Roma (Einaudi, pagg. 708, euro 32). Dunque al centro del quadro c´è lui, il mondo da cui ci stiamo in qualche modo distaccando. Ma per quale motivo questa storia vuol essere addirittura "epica"? Soprattutto perché, in un sol colpo, si raccontano ben nove secoli di storia, quelli che intercorrono fra Omero e l´imperatore Adriano. Dalle origini della cultura greca, Lane Fox ci conduce fino al 138 dopo Cristo, anno in cui l´imperatore si spense a Baia. La scelta di arrestare il proprio epos con questa data, svela le intenzioni non solo storiografiche, ma soprattutto narrative dell´autore. Perché questo è il libro di uno storico che ha voglia di raccontare, e che per farlo sceglie una tecnica letteraria piuttosto originale. I lettori che Lane Fox ha in mente, infatti, sono due: esterno il primo, interno il secondo. Il lettore esterno siamo noi, uomini del terzo millennio, a cui lo storico si rivolge «senza dare per scontata nessuna familiarità con l´argomento». Quanto al lettore interno, si tratta appunto del personaggio con cui l´epos si conclude: Adriano.
Per comprendere le ragioni di questa scelta, basta ricordare che il "grechetto", come lo chiamavano i maligni, attraversò senza sosta i territori del suo impero essenzialmente per «visitare tutti i luoghi di cui aveva letto», come scrisse un biografo; e che nella sua celebre Villa di Tivoli volle riprodurre il Liceo, l´Accademia, il Pritaneo, il portico Pecile, la valle di Tempe e perfino l´Ade.
In altre parole, sui secoli che lo avevano preceduto Adriano rivolse per primo uno sguardo "classico", considerandoli in qualche modo un periodo concluso, un tesoro di memorie che occorreva non solo conoscere, ma anche tutelare. In questo modo il lettore interno dell´opera di Lane Fox finisce per identificarsi con il lettore esterno, noi; che al mondo classico ci rivolgiamo - o meglio, dovremmo rivolgerci - con un sentimento simile.
Lungo il cammino di questo epos narrativo, dunque, Adriano ci viene incontro ben prima dell´ultimo capitolo, quello che gli è dedicato. Nelle pagine sui grandi regni ellenistici, per esempio, è lui che ci accompagna nella visita di Alessandria, sede della celebre biblioteca; mentre sugli spettacoli pubblici inaugurati a Roma da Augusto, già sentiamo posarsi lo sguardo dell´imperatore che centocinquanta anni dopo dovrà promuovere anche lui musica, danza e teatro. A questo punto, si potrebbe sospettare che anche il mondo classico di Lane Fox sia quello "di qualcun altro", come sopra si diceva; in altre parole che sia "il classico di Adriano".
Non è così, lo storico non cede alle lusinghe della reincarnazione. Al contrario, per descrivere il mondo classico Lane Fox sceglie sempre un punto di vista estremamente "interno" ad esso - fino al punto di ricorrere direttamente alle tre categorie che gli antichi stessi utilizzavano per parlare della propria società: giustizia, lusso e libertà.
Né può essere un caso che, a dispetto del lettore interno che si è scelto, Lane Fox non faccia mai menzione della Yourcenar. Preferisce raccontarci piuttosto di Apollonio, il funzionario di Tolomeo II che in Egitto rivoluzionò l´arte del giardinaggio e della coltivazione - sulla scorta di Teofrasto, il filosofo che studiò con passione la fioritura del ciliegio e le differenze fra il pero selvatico e quello domestico. Né l´autore esita a condurci fino in Afghanistan, sulle rive del fiume Amu Daria. Nel sito di Ai-Khanum sorgeva infatti una grande città ellenistica, fra le cui rovine sono state ritrovate, incise, le massime di Delfi; laggiù gli antenati dei Talebani veneravano gli dei della Grecia. Una grande lezione che la storia antica può dare a tutti coloro che promuovono la separazione, o il conflitto, fra le culture.
Se dovessimo davvero perdere i contatti con il mondo classico, che cosa accadrebbe? Facile prevedere che il Colosseo sarebbe ben presto considerato opera di creature astrali, come Stone Henge, mentre l´eroe greco Edipo verrebbe definitivamente abbandonato "sul monte Citterio", come del resto ha già scritto un mio studente. Ma non si tratta solo di questo. I greci e i romani avevano già capito molto della vita e della politica, dimenticare la loro lezione sarebbe un peccato. Quando Adriano abbandonò al loro destino le terre di là dal Tigri e dall´Eufrate, prese esempio da Catone il vecchio. Secondo il quale «occorreva lasciar liberi i popoli che non potevano essere protetti». Forse, se il presidente Bush avesse letto questa frase, avrebbe desistito dall´idea di "proteggere" l´Iraq.

Corriere della Sera 3.1.08
Gli ex «compagni» e il duello sui valori
Reichlin: Macaluso attacca? È un vecchio amico
di M. Gu.


ROMA — Si erano tanto amati, avevano militato per decenni nello stesso partito (il Pci), avevano diretto lo stesso quotidiano ( L'Unità), ma la nascita del Partito democratico sembra averli irreversibilmente divisi. Alfredo Reichlin, presidente della commissione Manifesto del Pd, ha sostenuto sin dal principio il matrimonio tra cattolici e laici mentre Antonio Macaluso — giornalista, scrittore, ex deputato ed ex senatore — ne è da sempre un fiero oppositore.
E così ieri il secondo, dalle colonne del Riformista, è tornato a punzecchiare il primo. Sotto il titolo La tavola dei valori di Reichlin, Macaluso ironizza sull'ex compagno di viaggio cui tocca mediare tra le istanze dei cattolici e quelle dei laici e dice che il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, può dormire tranquillo. «Alfredo ha infatti dichiarato che si potranno tenere insieme gli eredi di Pci, Dc, Pli, Psi, cattolici integralisti e liberali libertari», scrive Macaluso. E conclude sferzante: «Può darsi che il cardinale Bertone benedica la Tavola di un comunista gramsciano, togliattiano, berlingueriano, oggi anche veltroniano». Alle quattro del pomeriggio Reichlin risponde al telefono della sua casa romana e giura di non aver letto il Riformista. «Non voglio polemizzare con il mio vecchio amico Macaluso — si limita a commentare —. Perché nessuno dice che io sono reichliniano? Ma guardi un po' se alla mia età, dopo essere stato miscredente per tutta la vita, dovevo andarmi a infilare in una polemica tra laici e cattolici...».

Corriere della Sera 3.1.08
Le discutibili tesi di Spencer Di Scala
Turati, modello da non imitare
di Giovanni Belardelli


Fu sicuramente un riformista ma troppo debole con i massimalisti del partito socialista

È Filippo Turati che la sinistra riformista dovrebbe riconoscere oggi come proprio precursore? A sostenerlo con decisione è uno storico americano, Spencer Di Scala, in un libro ( Filippo Turati. Le origini della democrazia in Italia, edizioni di Critica Sociale, pp. 277, e 12) dedicato al tragitto politico del leader socialista dal 1892 alla vigilia della Grande Guerra (libro purtroppo funestato da molti refusi e troppi americanismi: valga per tutti Adowa per riferirsi alla sconfitta di Adua del 1896). Di Scala, con l'autorevole avallo di Giuliano Amato che ha scritto la prefazione al volume, rimprovera agli ex comunisti, divenuti oggi esponenti del Pd, di non aver saputo o voluto riconoscere che ogni loro passo in direzione del socialismo democratico era già stato compiuto, decenni prima, da Turati. Non escluso lo stesso progetto di «compromesso storico », che secondo Di Scala non sarebbe stato altro che la ripresa di antiche posizioni turatiane. Ma è davvero questo, cioè che si proclamino finalmente e francamente «turatiani», che dovremmo chiedere a Veltroni, D'Alema o Fassino? Sia consentito dubitarne.
In realtà lo studioso americano ripropone, forse con qualche estremizzazione, una tesi che in passato ha avuto ampio credito a sinistra, quella secondo la quale il Pci, a partire dalla segreteria di Berlinguer se non da prima, sarebbe stato un partito comunista solo di nome e riformista invece nei fatti, cioè nelle battaglie condotte, negli obiettivi perseguiti. Ma è una tesi che appare priva di reale fondamento, soprattutto oggi che conosciamo quanto il Pci berlingueriano sia rimasto legato fino all'ultimo a un orizzonte ideologico fatto di anticapitalismo, di profonda diffidenza per gli Stati Uniti, di fiducia nella possibilità di riformare i regimi di «socialismo reale». Dopo l'accurato studio che Silvio Pons, storico e direttore dell'Istituto Gramsci, ha pubblicato sull'argomento un anno fa, l'idea di un Berlinguer riformista inconsapevole è divenuta del tutto improponibile: del resto, basta ricordare come nel Pci degli anni Settanta-Ottanta il termine «riformismo» ricevesse connotazioni senz'altro negative, tanto che la corrente che meno era lontana da posizioni riformiste, quella di Giorgio Napolitano, arrivò ad utilizzare, per definirsi, il neologismo «migliorista».
Ma c'è anche un'altra ragione che rende poco convincente — e poco consigliabile — la sollecitazione a considerare Turati come il padre nobile dell'attuale sinistra riformista. Come si ricava dalla stessa ricostruzione che Di Scala compie di un periodo cruciale per i destini del socialismo italiano, il decennio 1892-1912, il riformismo turatiano fu sconfitto per molte ragioni ma anche per una sua debolezza intrinseca, per la difficoltà a separarsi del tutto dalla mitologia socialista rivoluzionaria: non a caso Turati e i suoi seguaci amavano definirsi «riformisti rivoluzionari » per distinguersi da Bissolati e da Bonomi, i riformisti di destra che vennero espulsi dal partito al congresso di Reggio Emilia, nel 1912. E proprio in quell'occasione Turati mostrò il limite appena detto, giacché non seppe individuare nei rivoluzionari — che, Mussolini in testa, volevano espellere la «destra» riformista — i suoi veri e irriducibili avversari, finendo anzi con il favorire la loro vittoria. Ottenne così il disastroso risultato di rimanere di fatto ostaggio in un partito egemonizzato dall'estrema sinistra.
Qualcosa del genere accadde di nuovo dopo la prima guerra mondiale, quando Turati e i riformisti, pur trovandosi a far parte di un partito socialista su posizioni «massimaliste » e che dichiarava di voler «fare come in Russia», non riuscirono ad abbandonarlo di loro iniziativa e ne furono poi espulsi nell'ottobre 1922, quando ormai la situazione politica del Paese era largamente compromessa. La sinistra riformista di oggi — pur in un contesto storico, com'è evidente, del tutto diverso — sembra soffrire di un'analoga difficoltà a condurre fino in fondo la sua battaglia contro la sinistra massimalista. Ma proprio questo, appunto, rende poco auspicabile che essa, come le suggerisce invece Di Scala, vada a cercare ispirazione in ciò che fece o non fece Filippo Turati quasi un secolo fa.

il Riformista 3.1.08
Sembra un dibattito surreale, invece è tutto vero
di Paolo Franchi


C'è qualcosa di surreale nell’idea stessa di prendere partito dalla moratoria sulla pena di morte approvata dall’assemblea delle Nazioni Unite per mettere mano a una mobilitazione internazionale in favore di una moratoria sull’aborto. Ma c’è qualcosa di peggio, qualcosa di profondamente malato, in un Paese in cui si fa leva su una simile pensata per riaccendere la discussione sull’opportunità di rivedere una legge, la 194, approvata dal Parlamento, confermata da un referendum popolare, da molti, anche fuori d’Italia, considerata come un modello di saggezza e di equilibrio. Anche i modelli, ci mancherebbe, possono, anzi, debbono essere analizzati criticamente, rivisitati, adeguati ai tempi; e si può discutere pure su quanto e come siano stati effettivamente messi in pratica. Non saremo certo noi a sottrarci a un confronto di questo tipo. Ma non siamo neanche così sprovveduti da credere che oggi diete natalizie, appelli cardinalizi, iniziative parlamentari più o meno trasversali servano a indurci a ragionare pacatamente su come applicare meglio la legge. Perché è proprio la 194 per quello che ha significato e per quello che significa, in primo luogo per le donne, ad essere pesantemente chiamata in causa. E quindi è la 194 per quello che ha significato e per quello che significa, in primo luogo per le donne, ma più in generale per la nostra idea di società, che noi difenderemo e chiameremo a difendere. Senza se e senza ma. Pronti a confrontarci su tutto con tutti. Ma solo dopo aver rintuzzato l’attacco.
Qui non si sta parlando solo di aborto, così come ieri non si parlava soltanto di fecondazione e domani, se non riusciremo a invertire la china, non si parlerà soltanto di divorzio. Si parla (si dovrebbe parlare) dei princìpi costitutivi della nostra società, delle forme e dei caratteri della nostra convivenza: la Costituzione di cui celebriamo il sessantesimo anniversario in materia ci dice molto, non tutto. Questi princìpi, queste forme e questi caratteri, ne siamo assolutamente convinti, vanno (in parte) ridefiniti insieme da laici e cattolici, anche se noi preferiremmo poter dire: da credenti e non credenti. Ma perché questo confronto e questa intesa siano possibili c’è una condizione imprescindibile, senza rispettare la quale nessun dialogo, o almeno nessun dialogo tra pari, è immaginabile. La condizione è che nessuno si consideri portatore di verità assolute, di valori non negoziabili e, di conseguenza, di diritti di veto (e di diritti di revanche) inalienabili; e che tutti siano gelosissimi custodi dei propri diritti e delle proprie convinzioni, ma nello stesso tempo rifuggano dalla tentazione di imporle con le buone o con le cattive a quella porzione, grande o piccola che sia, del proprio prossimo che ha altri diritti e altre convinzioni da salvaguardare. Per dirla in sintesi estrema, viene difficile pensare che a incorrere in una simile tentazione siano i laici.
Ovvietà? Mica tanto, se è vero, come è vero, che sono così in pochi a ricordarle e a pronunciarle ad alta voce, tra un dibattito e l’altro sul crescente ruolo delle religioni nello spazio pubblico. Mica tanto, se attorno a questi temi si aggroviglia a dismisura la fase costituente del nascente Partito democratico. Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere, coglie lucidamente, dal suo punto di vista, un aspetto cruciale del problema. Di qua un mondo “progressista” che pochissimo ha da spartire con gli antichi ideali della sinistra, e invece inalbera per unici vessilli la “modernità” e quella “laicità” che le è sorella.
Di là un mondo cattolico «che ha preso a identificarsi con una critica sempre più approfondita e combattiva verso la medesima “modernità”, o perlomeno verso la sua vulgata più facile e diffusa». Come immaginare, in un simile contesto, di rinverdire i fasti dell’antico dialogo tra il Pci e i cattolici, oltre tutto nello stesso, costituendo partito? Fatichiamo a immaginarlo anche noi, e restiamo in attesa di qualche delucidazione più convincente di quelle sentite sinora. C’è molto da discutere, dentro e fuori il Pd, sui rapporti con i cattolici e con la Chiesa ma pure sull’idea di sinistra: noi non riusciamo a pensarne una che stia nella “modernità” senza esercitare, dal governo come dall’opposizione, un suo punto di vista critico. Benissimo, discutiamo: almeno non correremo il rischio di morire di noia. Ma ricordandoci bene che, senza ottemperare tutti alla banalissima e liberalissima condizione sopra descritta, il dialogo non andrebbe da nessuna parte. La libertà è sempre la libertà di chi la pensa diversamente. Laico o cattolico che sia.

Liberazione 3.1.07
Ruini-Binetti, operazione moratoria: l'aborto per dare scacco alla Sinistra
di Antonella Marrone


La senatrice teodem pronta a votare la mozione Bondi: «Nel Pd e in Parlamento siamo più di quanti si creda a ritenere indispensabile
la rivisitazione della 194». A pochi giorni dalla verifica di maggioranza la questione etica torna ad agitare l'Unione e i laici in Parlamento

Non è per fare facile dietrologia. Non ci piace granché immaginare cose "non reali". In genere mettiamo i fatti uno dietro l'altro e le risposte arrivano da sole: lo abbiamo fatto per la questione sicurezza, per la legge elettorale, per la questione dei redditi.
Ora, in vista di una verifica che dovrebbe chiarire le idee ai partiti della maggioranza - ma basterebbe far rileggere il programma, sottoscritto prima delle elezioni, ai più "indisciplinati" - guarda caso, si torna a parlare di 194. Di temi eticamente sensibili che, notoriamente, mettono in crisi, prima di tutto il Pd, poi, a seguire potrebbero mettere in crisi il governo. L'idea di una "moratoria" sull'aborto è un'idea intellettualmente e politicamente sciatta. Oggi leggerete sul nostro giornale molti articoli su questo tema: le opinioni della politica, quelle della ministra della Sanità, leggerete i risultati (ottimi) dell'ultima indagine ministeriale sulla 194, le "incursioni" del Movimento per la vita nelle maglie della legge, la impossibile convivenza accanto alla legge 40, le manipolazioni confessionali sul corpo delle donne. Leggerete che cosa pensano le donne, soprattutto. Leggerete cifre, discorsi e dichiarazioni. Tutto molto sensato e verificato. Ma avrà poco a che fare con quanto si vuole fare. L'operazione moratoria sta funzionando, con i risultati che avevamo già previsto ieri: non si parlerà nella verifica né di salari, né di Bossi-Fini né di altro se non si affronterà la questione aborto. Questione che, naturalmente, non è in questo momento tra le priorità della popolazione italiana. Eppure la politica, che avrebbe molte e più serie questioni di cui occuparsi, questioni "praticamente sensibili" nella vita degli esseri umani, si trova costretta ad occuparsi di fondamentalismo cattolico. E' troppo ipotizzare che questa vicenda dell'aborto, lungi dall'interessare per il merito è, invece, strumentalmente utilizzata come metodo, ovvero come un sasso lanciato nello stagno per provocare onde concentriche sempre più pericolose per le sorti del governo? In un momento in cui è altissima la tensione nel paese per quanto riguarda il lavoro e le condizioni di vita, si decide che i temi fondamentali sono altri: i rom e l'aborto. Non è un esempio di politica "irrazionale". Al contrario. E' tutto molto chiaro e lucido: c'è un obiettivo da perseguire che è, ancora e sempre, quello di contrastare una politica di Sinistra. Con l'operazione moratoria la Chiesa (e i suoi indispensabili "cristiani mediocri") ha buttato là il suo "ballon d'essai": se riesce questa, probabilmente, riesce ad avere in mano tutto. In fondo dopo aver impedito una legge avanzata sulla fecondazione assistita, dopo aver impedito una legge tout court sulle unioni civili, colpire la legge sull'aborto è d'obbligo.

Liberazione 3.1.07
Turco: «La 194? Va beatificata! Sfido chiunque a toccarla»
di Angela Mauro


La ministra della Sanità: «Parlano i dati: dal '78 aborti in calo»
«Non ci riusciranno. E' tutta una tempesta in un bicchier d'acqua...
Sono serena. Ma auspico che la società civile si faccia sentire. Dove sono finite le femministe?»

«Sfido chiunque a toccare la legge 194». Livia Turco parla con tono vigoroso, ma sereno. L'appello di Ruini, la moratoria dell'aborto sostenuta anche da Giuliano Ferrara sul Foglio , la mozione di Bondi per individuare linee guida per la legge del '78, l'occhiolino che la Binetti strizza a Forza Italia invocando «maggioranze trasversali» sul tema. E' tutta una «tempesta in un bicchier d'acqua», è sicura la ministra della Salute, convinta che «nessuno riuscirà a rivedere quella che definisco una legge saggia ed equilibrata». Insomma, la minaccia non esiste per la Turco che però chiama la società civile a farsi sentire su certi temi. E l'invito a "vigilare sul Palazzo" ha il sapore di una critica aspra alle «femministe troppo silenti». Anche alla luce della manifestazione del 24 novembre scorso che, secondo la ministra, avrebbe dovuto «dire qualcosa di più serio su queste tematiche: mi auguro ci sia un prosieguo di quella mobilitazione».
Ministro, pur considerando le conquiste scientifiche degli ultimi anni, lei sostiene che non è il caso di modificare la legge 194, che molti laici considerano datata. Il suo è realismo? Cioè: non tocchiamo la legge perchè in questo clima si rischia di regredire?
La mia reazione nasce dal rispetto dei dati e dal rispetto delle persone. Considero un problema il fatto che si discetti sulla 194 e sul diritto all'aborto senza guardare i dati. Dall'approvazione della legge in poi, c'è stata una consistente e costante riduzione del ricorso all'aborto. Un picco è stato registrato nel 1982, con oltre 234mila interruzioni di gravidanza. Ma si deve considerare che prima che la 194 entrasse in vigore, si registravano 300mila aborti clandestini all'anno. Nel 2006 gli aborti sono stati poco più di 130mila, con un decremento pari al 44.6 per cento rispetto ai dati dell'82. Altro che rivedere la legge: bisognerebbe beatificarla! Negli ultimi trent'anni ha abortito il 60 per cento in meno delle donne.
Lei dice che andrebbe beatificata, ma la Chiesa sembrerebbe aver ripreso la battaglia contro la 194 accennata al momento dell'approvazione della legge 40. Come risponde la politica?
Non vedo l'attacco. Sono serena, di una serenità diretta, nel senso che tocco con mano il tema, i dati. Per questo, sulla base di questo, sono serena.
Non si può non vedere che Ruini ha trovato subito sponde in Parlamento. La teodem Binetti apprezza la mozione proposta da Bondi e si dice pronta a votare con Forza Italia. Ma la Binetti è del Pd...
Bondi ha rettificato le sue dichiarazioni, precisando che non vuole rivedere la legge, ma individuare delle linee guida.
Quindi, la sua mozione può essere oggetto di discussione per accordi bipartisan?
Bisogna che entri nel merito, io parlo solo sulla base dei contenuti. Le linee guida non riguardano la modalità della legge, ma sono un atto amministrativo e non sono previste dalla 194. Io, che mi sono battuta sempre per l'autodeteminazione delle donne, vorrei che nessuna donna fosse costretta ad abortire per ragioni economiche o sociali, penso che bisogna lavorare per prevenire l'aborto tra le donne immigrate e in questo senso ho pensato a una campagna informativa che dovrà migliorare anche le attività dei consultori. Credo poi che bisogna migliorare la prevenzione nei confronti dei giovani e poi è vero un dato: noi, di fronte a una evoluzione delle tecniche e delle conoscenze scientifiche e mediche, non possiamo rimanere immobili. Oggi ci sono forme di diagnosi in grado di accertare le malformazioni ed è altrettanto vero che si verificano parti molto pre-termine. Voglio dire che si pone il problema dell'assistenza delle nascite molto premature. Il dibattito è in corso: ho previsto una raccomandazione agli operatori, un tavolo di lavoro della comunità scientifica, sono in attesa di risposte.
Torno sulla politica. Vista la "fine" che ha fatto in Parlamento il riconoscimento delle unioni di fatto, per non parlare del dimenticato dibattito per modificare la legge 40, è proprio sicura che non ci sia nulla da temere per la 194?
La 194 ha dimostrato di essere una legge così equilibrata e saggia, lungimirante, moderna e umana. Voglio proprio vedere chi la mette in discussione, chi mette in discussione la forza di quella legge. Tutto questo parlare è una tempesta in un bicchier d'acqua. E lo dico non perchè sottovaluti la forza di un clima culturale che disconosce la responsabilità delle donne e il principio etico della scelta riconosciuto dalla legge. Lo dico perchè ne sono convinta. Comunque, ci vorrebbe un po' meno silenzio femminile su questi temi. Se si è sulla difensiva, forse significa che bisognerebbe fare qualcosa di più.
Magari la società civile è un po' silente perchè delusa dalla politica, da un centrosinistra che aveva ispirato altre aspettative sui temi della laicità e non solo. No?
Parlare delle spaccature dell'Unione è un comodo alibi. Se si è preoccupati per come vanno le cose nel Palazzo, a maggior ragione si dovrebbe "alzare la voce". La politica non è solo quella che fanno i ministri. E la società? E i movimenti? E le mie amiche femministe che fine hanno fatto?
Beh, hanno organizzato una manifestazione sui diritti delle donne il 24 novembre a Roma...
Sì e se avessero detto qualcosa di più serio su questo, sarebbe stato meglio. Mi auguro che ci sia un "dopo" rispetto a quella mobilitazione, mi auguro che abbia continuità. Insisto sulla necessità di pratica sociale, di attivismo da parte dei movimenti, delle associazioni. C'è un silenzio assordante: ti pare che debba essere sola a difendere la 194? Perchè non ci sono le "Giuliane Ferrara" donne che propongono i dibattiti sulla bioetica? Siamo silenti, non sotto attacco. Il riconoscimento delle unioni civili non è passato perchè in Parlamento non c'era la maggioranza...
Appunto, torniamo sulla debolezza dei numeri del governo Prodi al Senato. Prevede un braccio di ferro sui temi della laicità in sede di verifica programmatica nell'Unione a gennaio?
Voglio prima sottolineare che quella maggioranza è stata eletta dagli italiani: forse c'è bisogno di un po' di lavoro nella società... Quanto alla verifica, escludo un braccio di ferro su questi temi. Almeno cerchiamo di non inventarci i problemi. Nessuno mette in discussione la 194 in maggioranza. Semmai andrebbe applicata meglio chiedendo anche alle regioni di applicarla per bene. Non inventiamoci i fantasmi. E' forse scritto nel programma dell'Unione che la 194 va rivista?
No, ma sa che per molte altre questioni il programma dell'Unione non è stato rispettato...
Il contenuto di quella legge ha passato anche la prova del referendum. Sfido chi la vuole toccare: non ci riuscirà.
Con la Binetti come la mettiamo?
La stimo e la apprezzo, ma lei è una parlamentare del centrosinistra. Non è il centrosinistra e non è il Pd.
A proposito di Pd, il dibattito sui temi etici e sui diritti civili è caldo anche da quelle parti. Si viaggia verso la costituzione di un apposito comitato?
L'ambizione del Pd è superare il conflitto tra laici e cattolici, questa è la grande speranza per la forza di una cultura progressista. Il comitato? Credo che nel Pd sia necessario un luogo permanente per l'ascolto e la discussione.

Liberazione 3.1.07
Per una politica di donne e uomini che rifiuti come misura di sé la suggestione del sacro
di Elettra Deiana e Imma Barbarossa


Perché partire dall'indecifrabile risposta del Cristo, così come è narrata dall'evangelista Luca, per ri-stabilire il nomos, addirittura il "vero" nomos, della laicità, in questa epoca storica così restia a farsene carico seriamente?
Poiché la lunga riflessione di Fausto Bertinotti su "Cosa è di Cesare e cosa di Dio" è comparsa su un quotidiano politico come Liberazione , c'è da supporre che o lo stesso Presidente della Camera o il direttore Sansonetti pensino che si tratti di una riflessione importante, collegata - o da collegare - alla nostra attuale e faticosa ricerca politica.
Siamo mosse quindi a scrivere le nostre osservazioni sia da questa empirica constatazione sul valore politico che viene attribuito alla pubblicazione in questione sia però soprattutto dal lungo percorso di decostruzione critica intorno alla connessione tra politica e sacro che accompagna il nostro percorso di femministe dentro Rifondazione comunista. La riflessione di Fausto Bertinotti va decisamente nella direzione di suggerire l'opportunità - nell'agire politico - di una connessione dell'umano col divino - e la "politica come mediatrice alta" che si faccia carico dell'uno e dell'altro, ipotizza il Presidente - secondo una propensione già da lui in altre circostanze manifestata ma che questa volta si circostanzia e sostanzia di suggestioni e riferimenti concreti presi con voluttà dalla tradizione testamentaria cristiana. L'affascinante narratore evangelista Luca e l'apostolo Paolo di Tarso, convertito sulla via di Damasco, raffinato ideatore di una ieratica città di Dio ad esclusiva dimensione, relazionalità e significato maschile. Mulier taceat in ecclesia e niente fu più micidiale del suo magistero per delineare l'ostile segno patriarcale del cristianesimo fin dalle origini, a dispetto della koiné cultural-religiosa medio-orientale, così intrisa dell'elemento femminile, in cui era maturata l'avventura umana del profeta Gesù di Nazareth.
Perché dunque partire da là? Perché proporlo con tanta evidenza su un quotidiano politico di sinistra? Per squisita esercitazione intellettuale? Per opportunità politica in un mondo in cui i teodem e gli atei devoti si moltiplicano come funghi? Oppure per convincimento profondo sulla ineluttabile e inestricabile connessione tra l'umana vicenda e la rinnovata propensione umana al divino, sia pure ancora una volta nella forma un po' primitiva delle verità rivelate? Ci sembra quest'ultima la spiegazione più appropriata ma anche quella più spiazzante e problematica.
Noi proviamo a dire ancora una volta che il fondamento della convivenza umana, di una convivenza molteplice plurale differente, dinamica e in trasformazione verso una nuova koiné umana, solidale e includente, come una globalizzazione che si sottragga all'autodistruzione oltre che una nuova idea di sinistra imporrebbero, tutto questo deve trovare il suo fondamento in primis e soprattutto nell'autonoma capacità degli umani, donne e uomini, di pensare e agire il presente e, in questo modo, costruire il futuro, in rinnovati processi di emancipazione e liberazione che alimentino efficaci e responsabili dispositivi di autodeterminazione. Il nomos della laicità sta in questo, essenzialmente in questo: non è un'ideologia dello Stato che impone i suoi diktat in nome della laicità - come la Francia sul velo - né è riducibile a norme di funzionamento delle istituzioni, ancorché importanti, né però può essere mai il frutto impossibile di un gioco di equilibrio tra un dio che gioca a rimpiattino nelle coscienze umane e una politica che proprio "nel" e "per" farsi mediatrice soccombe. Anche se fosse una politica che si esercita strenuamente e altamente sul terreno dell'incontro tra le due sfere, come ipotizza il Presidente, oggi più che mai sarebbe esercizio inutile, perché i tempi della storia vanno in tutt'altra direzione e perché è nella natura delle cose umane che questo accada. Perché, chiediamo, Dio dovrebbe concedere alla politica il potere di mediare tra Lui e Cesare? E alla suggestione epistemologica del Presidente racchiusa in quel "Cosa è di Cesare e cosa di Dio" ci sentiamo di rispondere «Non vogliamo niente che sia o dell'Uno o dell'Altro». Soprattutto perché Cesare e Dio non sono più soltanto metafora di sfere e poteri diversi ma forme incarnate del potere, quello neo-temporalista della Chiesa di Roma e quello plebiscitario e cesarista della politica. Anche a sinistra. Non amiamo né chi si fa Re né chi si fa Dio e non vogliamo una politica che per rimediare al suo drammatico vuoto di senso storico cerchi di nuovo il fondamento del sacro. Sarebbe grottesco oltre che dannoso.
Ci sembra invece che questa tentazione percorra la riflessione di Fausto Bertinotti, con particolare evidenza nella parte riguardante il "tempo che passa" e il "tempo che arriva": il banale trascorrere della vicenda umana, da una parte, la pregnante attesa dell'avvento dall'altra. Le suggestioni paoline sono qui fortissime nel senso di influenzare, a noi sembra, anche una rinnovata idea della rivoluzione. La rivoluzione come attesa di un tempo straordinario che non ha nulla a che vedere con il tempo di qua, e dunque con l'umano di qua, con l'humana condicio e la fragilità delle nostre vite, al punto che lo schiavo, invasato dall'attesa dell'avvento, rifiuti la libertà perché altra è la posta in gioco della sua attesa. L'avvento come nuova metafora della rivoluzione, in una sorta di socialismo escatologico?
La dimensione sacrale del potere politico - ovviamente in forme e dosaggi diversi a seconda dell'epoca storica - è intrinseco da sempre alla costruzione stessa del potere, anche quando a esserne inventori e facitori siano uomini lontanissimi da una fede o propensione religiosa, anche quando la cosa avvenga in opposizione al potere della Chiesa di Roma, anche quando il nuovo potere politico contenga germi profondi di democrazia e attivi meccanismi che tendenzialmente mettono in discussione il suo stesso ruolo e la sua funzione. La crisi della modernità sta anche in questo.
La connessione tra politica e sacro è ovviamente cosa diversa dai rapporti tra la sfera religiosa e quella politica, di cui la politica si deve sensatamente e con senso del limite occupare, e dall'uso reciproco che ognuna possa fare dell'altra, che la politica invece deve accuratamente evitare. Ma quella connessione parla di altro, di una ricerca di auto-legittimazione del potere, di un bisogno di investitura dall'alto, della ricerca di un altrove, di una trascendenza che conferisca autorità e autorevolezza durature al potere. di una forza trascendente che lo consacri oltre il carattere umanamente transeunte del potere.
Fausto è sempre stato affascinato dal «siamo in questo mondo ma no di questo mondo». E' sempre Paolo di Tarso che parla. Al contrario, noi pensiamo di essere "di questo mondo" oltre che "in questo mondo" e che tutto quello che possiamo fare per trasformarlo sia qui. In questo mondo e nel tempo del mondo. Soprattutto se si tratta della politica. La politica nelle nostre mani, come le donne amano dire.

Liberazione lettere 2.1.08
Laicità. Bisogna sapere chi è "Cesare"
Caro Piero, quelli di "quel che è di Dio" dichiarano che potenzieranno la rete dei media per far capire le proprie posizioni a quelli di "quel che è di Cesare". Rimane un piccolo dettaglio: sapere chi è Cesare. Sappiamo che cosa indichino alcuni con la parola dio, ma sul senso corrente della parola Cesare deve essersi creato col tempo un malinteso. Gli ingenui vedono Cesare nella costituzione Italiana, la quale però, all'Art. 7, contempla la simultanea presenza di due Cesari, entrambi indipendenti e sovrani. Qualcuno più accorto identifica Cesare nella attività di esazione delle tasse, ma c'è chi, esentato dai pagamenti, si colloca inevitabilmente più in alto. I nostalgici individuano Cesare nel potere esecutivo, ma quelli che stanno più in alto, stavolta in nome della non negoziabilità dei temi etici, non schiodano dalla privilegiata posizione. La maggioranza degli italiani infine confida nel caro vecchio potere legislativo, ma il fantomatico Diritto Naturale di quelli che stanno sopra a Cesare finisce col mortificarne ineluttabilmente l'attività. Siamo arrivati a questo punto: si è costituito un nuovo Cesare, divinamente più Cesare del nostro, al quale bisogna dare sia quel che è di dio sia quel che è di Cesare. E Cesare non è altro che l'evoluzione del vecchio potere temporale della Chiesa. Paradossalmente soltanto l'ateismo può dare a dio quel che è di dio, perché ha ben chiara l'idea di Cesare. Buon 2008 a tutti.
Roberto Martina via e-mail

l'Unità lettere 2.1.08
Quel che è di Dio e quel che è di Cesare: ma chi è Cesare?
Cara Unità,
quelli di «quel che è di Dio» dichiarano che potenzieranno la rete dei media per far capire le proprie posizioni a quelli di «quel che è di Cesare». Rimane un piccolo dettaglio: sapere chi è Cesare. Sappiamo che cosa indichino alcuni con la parola dio, ma sul senso corrente della parola Cesare deve essersi creato col tempo un malinteso. Gli ingenui vedono Cesare nella Costituzione Italiana, la quale però, all’Art. 7, contempla la simultanea presenza di due Cesari, entrambi indipendenti e sovrani. Qualcuno più accorto identifica Cesare nella attività di esazione delle tasse, ma c’è chi, esentato dai pagamenti, si colloca inevitabilmente più in alto. I nostalgici individuano Cesare nel potere esecutivo, ma quelli che stanno più in alto, stavolta in nome della non negoziabilità dei temi etici, non schiodano dalla privilegiata posizione. La maggioranza degli italiani infine confida nel caro vecchio potere legislativo, ma il fantomatico Diritto Naturale di quelli che stanno sopra a Cesare, finisce col mortificarne ineluttabilmente l’attività. Siamo arrivati a questo punto: si è costituito un nuovo Cesare, divinamente più Cesare del nostro, al quale bisogna dare sia quel che è di dio sia quel che è di Cesare. E Cesare non è altro che l’evoluzione del vecchio potere temporale della Chiesa. Paradossalmente soltanto la laicità può dare a dio quel che è di dio, perché ha ben chiara l’idea di Cesare.
Roberto Martina

Liberazione 2.1.08
Natale, Quelle divinità dimenticate
Cara "Liberazione", come tutti gli anni le gerarchie ecclesiastiche hanno lamentano la "laicizzazione" del Natale. Per questo motivo ritengo utile ricordare alcune divinità ancora più trascurate di Gesù nonostante siano nate nel medesimo giorno da una vergine, abbiano dispensato miracoli, si siano accompagnate a dodici discepoli e siano risorte tre giorni dopo la loro morte. Horus (3000 a.c.), Attis (1300 a. c.), Mithra (1200 a. c.) e Krishna (900 a.c.) per citare solo le più note dal momento che si tratta del medesimo mito, il transito del "Dio Sole" attraverso le dodici costellazioni e la sua "resurrezione" dalle "tenebre" dell'inverno, che si trasferisce da una cultura all'altra. Assolutamente reali sono invece gli enormi costi sostenuti per mantenere le differenti caste sacerdotali che, di volta in volta, hanno svolto la funzione di intermediatrici con le suddette divinità.
Marco Bertinatti ateo impertinente


Un primo sgambetto alla legge 40
di Eros Cococcetta


Una recente sentenza del Tribunale di Firenze ha ammesso la diagnosi preimpianto quando sussiste il rischio di gravi malattie genetiche trasmissibili al feto. È una sentenza eroica nella direzione della laicità dello Stato (ma troppo spesso in Italia, in tutti i settori, i miglioramenti vengono da singoli eroi invece che dalle istituzioni).
Una sentenza che scardina la legge n. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita, legge paradigmatica delle storture e degli orrori a cui può giungere un Parlamento, il cui unico scopo dovrebbe essere il bene della collettività. Una legge giustamente definita medioevale (ma forse neppure nel medioevo avrebbero avuto il coraggio di emanarne una del genere), che è entrata a gamba tesa nel rapporto (privatissimo) medico–paziente, essendo evidente che l’infertilità è una patologia (anche se qualche deputato è giunto perfino a negare questa evidenza, parlando di disagio). È come se il legislatore avesse emanato una legge per dire ai cardiologi come si curano le patologie cardiache.
Alla base della norma ci sarebbe l’idea di difesa della vita. Ma l’embrione è vita biologica e non vita umana e quest’ultima ha inizio con la nascita (come era già noto anche ai tempi dell’antica Roma). E’ solo con la nascita, grazie allo stimolo luminoso che colpisce la rétina – che come è noto è materia cerebrale – che si attiva il cervello e quindi inizia il pensiero–immagine, il respiro e la vita di relazione.
Se l’embrione non si impianta non ha nessuna possibilità di svilupparsi, come pure se il feto non supera almeno la 24ª settimana non ha alcuna possibilità di sopravvivere. Se si vuole tutelare la vita in generale allora bisognerebbe tutelare anche gli animali e le piante, che invece finiscono puntualmente sui nostri piatti. Per non parlare dei milioni di uomini, donne e bambini che ogni anno muoiono di fame o per malattie che nei Paesi ricchi sarebbero facilmente curabili. Come mai il Papa si preoccupa di tutelare l’embrione e non la vita e la salute delle persone?
Qual è il rapporto che il Papa ha con la realtà?
Inoltre, come ampiamente accertato dalle statistiche, dopo l’entrata in vigore della legge sono diminuite le gravidanze delle donne costrette a sottoporsi a queste cure. Quindi, una legge del tutto inefficace che, con un totale rovesciamento della realtà, è giunta ad assicurare all’embrione una tutela perfino maggiore rispetto a quella della donna, cioè di una persona adulta e perciò meritevole di ogni tutela giuridica anche sotto il profilo costituzionale, come prevede l’art. 32: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo (è evidente che per individuo si intende una persona e non certamente un embrione o un feto).
Ma si tratta anche di una legge gravemente classista, per cui le coppie più abbienti con due ore di volo possono andare in qualsiasi Stato europeo (dove la fecondazione assistita, ivi compresa quella eterologa, è ampiamente tutelata), mentre le coppie meno abbienti sono costrette a ricorrere al servizio sanitario nazionale e a sottostare alle gravi e assurde limitazioni imposte dalla legge, che, tra l’altro, costringono il medico a violare il giuramento di Ippocrate, non essendo più possibile adottare per la paziente la migliore terapia possibile. Pena, addirittura, gravi sanzioni amministrative o penali (artt. 12, 13 e 14) per il medico che oltrepassa i molteplici limiti imposti dalla legge. Cioè è diventato reato (nei casi previsti dalla legge) sottoporre una donna o una coppia con problemi di infertilità alle necessarie cure mediche, il cui solo fine è quello di dar loro la gioia di un figlio.
Inoltre, non si può non rilevare che questa legge è un caso eclatante di abuso di potere politico (Stato-Leviatano). Una classe politica rappresentativa di uno Stato laico (in questo caso la destra con l’ausilio di una rilevante percentuale di deputati della Margherita) avrebbe dovuto capire, senza neppure discutere, che una legge del genere non si poteva fare perché i cittadini sono maggiorenni e vaccinati e sanno da soli come comportarsi, soprattutto quando si tratta di ricorrere a cure mediche (nessuno obbliga una coppia a ricorrere alla fecondazione assistita).
Ma l’arroganza del potere della Chiesa e dei deputati che prima di votare telefonano in Vaticano per ricevere istruzioni, evidentemente non ha limiti.
Finché in Parlamento ci saranno a dettare legge deputati e senatori come Paola Binetti (che ha ammesso di aver fatto uso del cilicio e recentemente ha invocato la discesa dello Spirito Santo sul Senato), i problemi del nostro amato e disgraziato Paese non potranno che aggravarsi. Abbiamo un Parlamento che invece di emanare leggi che vanno nella direzione di risolvere i problemi dei cittadini, emana leggi che li aggravano.
Però dall’attuale governo, soprattutto dalla sinistra (vista la deriva clericale del Pd), ci sarebbe da aspettarsi una reazione agguerrita, di cui finora non si vede traccia, mirante ad abolire o quantomeno a modificare questa legge inqualificabile.
Ma per battere questa deriva clericale è necessario che la sinistra si attrezzi con una teoria convincente ed adeguata.
Quando il cardinale Barragan, in risposta alla sentenza, asserisce falsamente che distruggere gli embrioni equivale ad un assassinio (influenzando l’opinione di milioni di italiani), la sinistra dovrebbe rispondere, verbalizzare, fare cultura, spiegare perché le posizioni della Chiesa e della destra sono sbagliate e violente nei confronti delle donne, considerate alla stregua di una incubatrice (basterebbe citare i molti scienziati esperti del settore, tra cui anche premi Nobel, che hanno spiegato molto chiaramente come stanno le cose). Solo così la sinistra potrà risvegliare nei cittadini l’orgoglio laico ed il sogno di una società migliore, ormai sopiti dalla mancanza di teoria.
Un impegno altrettanto forte occorre anche per altri temi rilevanti (eticamente sensibili) che finora non hanno avuto alcuna tutela giuridica, quali le coppie di fatto, l’eutanasia, il testamento biologico.
Eros Cococcetta