sabato 5 gennaio 2008

l'Unità 5.1.08
La storia della 194. Prezzemolo e cucchiai d’oro
l’Italia ai tempi delle mammane
di Adele Cambria


C’è qualcuno che si è incaricato di svegliare le coscienze, a cominciare da quelle delle donne incinte, le donne con la pancia… Ma avete mai sentito parlare di quei rituali primitivi in cui i maschi della tribù mimano le doglie del parto, nel momento in cui la loro donna le affronta? Avete mai sentito parlare di invidia (maschile) della gravidanza? È un pensiero che, lo ammetto, ha avuto il potere di riportarmi indietro di oltre quarant’anni. Una curiosità, però, vorrei che qualcuno me la sciogliesse…La moratoria delle pance, chiamiamola così, e perdonate se noi donne fummo materialiste ben prima di Carlo Marx, come si ottiene? Con un filtro magico alla Harry Potter che congelerà tutte le pance femminili gravide - e non solo quelle italiane ma pare anche europee - in attesa che «si riapra il dibattito»?
La questione dell’aborto. Quella era, lo scrissi su Tempo Presente nel 1974, «una lotta arretrata in un Paese arretrato, come nell’ultimo scorcio dell’Ottocento lo erano state le lotte operaie e contadine al grido di "Pane e lavoro!"». Quando di aborto si arrivò a discutere pubblicamente - avevano cominciato a farlo i radicali e le donne del Movimento di Liberazione della Donna - io avevo già avuto la fortuna di incontrare una ginecologa (triestina), che nel 1962, dopo la nascita del mio secondo bambino, mi aveva svelato l’esistenza del diaframma (più tardi avrei letto Il gruppo, istruttivo e divertente romanzo di Mary MacCarthy, pubblicato in Italia soltanto nel ’64). Avevo potuto quindi rendermi conto dell’enorme privilegio costituito dall’informazione, specie per le donne, anche se il titolare e i commessi dell’unica farmacia romana in cui il diaframma era in vendita - dietro presentazione di una ricetta medica ovviamente ambigua - ti porgevano l’oggetto e ,periodicamente, la crema di cui era necessario rifornirsi girando la testa dall’altra parte…
E fu così che in un pomeriggio nuvoloso del 1967, mi ritrovai al sit-in organizzato dai radicali e dallo Mld (Movimento di liberazione della Donna) in piazza Montecitorio, anzi seduta per terra attorno all’obelisco, insieme a forse una dozzina di donne: c’era Edda Billi, pioniera del femminismo romano, con un cartello dal significato parzialmente oscuro ai celerini che ci sorvegliavano,«Aborto libero e vasectomia», («Signora, che cos’è la vasectomia?», mi chiese uno di loro). E c’era una giovanissima Eugenia Roccella, credo sedicenne, con sua madre. L’impegno politico di Wanda si sarebbe presto rivelato costante: dalle labbra rosse del poster che disegnò per dire un gigantesco «No» alla abolizione referendaria della legge che introduceva il divorzio in Italia, alla partecipazione militante al centro antiviolenza di Palazzo Nardini al Governo Vecchio, occupato, nel 1976, per l’iniziativa della figlia.
I pochi uomini del Partito Radicale presenti quel giorno al sit-in, e che scandivano insieme a noi gli slogan - «Anticoncezionali gratuiti per non abortire, aborto libero per non morire» - ricordo che erano giovanissimi, ma non saprei dire se ci fosse, tra loro, anche Francesco Rutelli.
Nel 1970, al suo primo congresso, il Movimento di Liberazione della Donna lancia il dibattito politico sull’aborto,affermando: «La lotta per la liberalizzazione dell’aborto viene scelta dallo Mld come una battaglia per scardinare la sudditanza sociale della donna».
Il 1973 fu una data importante: con la pubblicazione di Effe, il mensile che, fin dal primo numero, esprimeva la doppia anima del movimento femminista italiano: quella «rivendicazionista» e l’altra, di ancor più lungo periodo, di trasformazione culturale. Tra le prime rivendicazioni, la fuoriuscita dall’aborto clandestino di massa. Il Codice Penale, (Codice Rocco, licenziato nel 1931 in regime fascista, e tuttora in gran parte vigente), definiva l’aborto un reato, e comminava 5 anni sia per la donna che abortiva - nel caso fosse sopravvissuta alle pratiche delle mammane - sia per chi la faceva abortire. Nello stesso Titolo decimo, «Dei delitti contro la sanità e l’integrità della stirpe», era incluso il reato di «Incitamento a pratiche contro la procreazione». Fino al 1971, quando una sentenza della Corte Costituzionale ha abolito questo articolo, il 553, e liberalizzato gli anticoncezionali.
E sempre nel 1973, quando il movimento delle donne cominciava già a disturbare la quiete pubblica, che il Tribunale di Padova decise di «dare un esempio»: conducendo sul banco degli imputati una ragazza «colpevole» di avere abortito quando aveva sedici anni, Gigliola Pierobon. La legge, pur severissima, restava fin’allora largamente inapplicata, perché si era ben consapevoli, anche da parte degli stessi magistrati, di quanto fosse inapplicabile: in un Paese in cui si stimavano da 800.000 a due milioni di aborti volontari all’anno. «I processi per aborto che si celebravano ogni anno erano sì e no uno ogni 10.000 aborti procurati» scrivono Elena Marinucci e Laura Remiddi, in un testo, Guida all’aborto legale, edito da Marsilio nel 1978, che ricostruisce anche la storia di «Otto anni di lotte in parlamento e nel paese».
Per Gigliola Pierobon cominciammo a raccogliere le firme con la seguente dichiarazione: «Ho abortito e/o ho aiutato un’altra donna ad abortire». Ne furono raccolte cinquemila. Consegnate al settimanale L’Espresso, non ricordo se furono mai pubblicate. Personalmente fui incaricata di telefonare a donne vip. Attrici, imprenditrici, collezioniste d’arte... Alcune si sottrassero protestando giustificazioni puerili. Monica Vitti: «Firmerei subito, ma i miei genitori stanno a Città del Messico, se leggono la notizia sul giornale gli prende un colpo!». Luisa Spagnoli: «Non posso coinvolgere l’impresa che ha il mio stesso nome». Avrei capito meglio un rifiuto leale. Come quello, comprensibile, di non poter aderire alla formula proposta perché non rispondente ai fatti del proprio vissuto.
Il processo a Gigliola diventò comunque il primo processo politico del Movimento femminista italiano: i magistrati se la cavarono con una sentenza di «perdono giudiziale», perché all’epoca la ragazza era minorenne; le militanti femministe più coraggiose, dalla Grande Madre del movimento romano, Alma Sabatini, alle più giovani Lara Foletti ed Antonella Del Mercato, si schierarono in prima fila tra il pubblico, e cominciarono a scandire lo slogan che ho citato. Furono fermate e poi denunciate.
Accelero il ritmo del mio calendario. Il 1975 vede un’immensa manifestazione di donne a Firenze… Ricordo una ragazza dai riccioli fulvi in gonnellone fiorito arrampicata sul Davide di Michelangelo, con il cartello «Più devianze meno gravidanze», ma c’è anche una giovanissima Emma Bonino… Il corteo protesta contro l’arresto di un medico, Canciani, che con il Cisa, fondato dalla radicale Adele Faccio, pratica l’aborto militante con il metodo karmann. L’arresto di Adele Faccio avverrà in pubblico, il 26 gennaio 1975, sul palcoscenico del Cinema Adriano a Roma. Con lei si consegna alle forze dell’ordine il segretario del Partito Radicale Gianfranco Spadaccia.
Nel 1976 accetto l’invito delle donne del Mld a candidarmi alle politiche in Calabria e in Puglia. Avevo detto sì perché donne che stimavo me l’avevano chiesto. Eppure vivevo un momento di rifiuto della «festa» femminista. Sentivo la fatica dell’appartenenza ad un popolo di vittime. Vittime dell’aborto clandestino. Nel mio viaggio di ritorno al Sud, dovunque ci fosse anche un piccolo gruppo di ragazze vibranti di passione intellettuale ed esistenziale per la scoperta del femminismo, c’era purtroppo quasi sempre una richiesta di aiutare una compagna che non poteva permettersi di avere un bambino… E non potevo non ammirare il coraggio e la solidarietà delle ragazze dello Mld che intervenivano con l’aborto militante… Le storie di aborti che ormai raccoglievo da anni non le ho dimenticate. Ne cito soltanto due: una giovane donna della Magliana, a Roma, venne a trovarmi a casa e mi raccontò l’incredibile comportamento dei medici: le avevano diagnosticato un «utero bicorne», per cui una ulteriore gravidanza - aveva già due figli - avrebbe messo a rischio la sua vita, e poi, senza darle informazioni sui contraccettivi, l’abbandonavano in pratica in mano alle mammane. La seconda storia me la raccontò Maria Occhipinti, l’eroina siciliana della rivolta dei «non-si-parte» (l’avrebbe poi scritta in un suo libro di racconti, Il carrubo). Una contadina della campagna vicino a Ragusa,aveva avuto sette figli e fatto altrettanti aborti dalla levatrice. Ma poiché suo marito «non si contentava» - mi raccontava pudicamente Maria- una notte scese nella stalla e senza mutande si sedette sullo strame, per prendere una infezione che la rendesse sterile».
Ancora a proposito di Sicilia: quando il Pci decise di impegnarsi su una legge che consentisse l’interruzione legale della gravidanza, Giglia Tedesco, donna indomita, partì per l’isola per parlare con le donne. «Ma lo sai che moltissime, tra le donne del popolo, sostenevano che la legge dell’aborto c’era già, però l’aborto dovevano farlo con le mammane, perché erano povere?!».
Dopo, nel 1978, fu la legge, la 194. Confermata dal referendum del 1981. Come i radicali (e anche tante femministe, a cominciare da Lidia Menapace), credevo che sarebbe stato meglio, innanzitutto per le donne, la "fuoriuscita" dal Codice Penale del reato d’aborto. Senza nessun’altra normativa se non quella che includesse l’intervento, in determinate condizioni di reddito, nell’ambito delle prestazioni riconosciute dal Servizio Sanitario Nazionale.
Oggi sono persuasa - come del resto Umberto Veronesi ha scritto ieri su La Repubblica - che l’informazione sulla contraccezione sia fondamentale. Ed aggiungo che -almeno per le cittadine italiane adulte, e ancora più per i loro partner- ormai non dovrebbe essere accettata la «distrazione» in materia… Da anni, poi, ritengo che la pillola RU486 aiuti qualsiasi donna ad assumersi la piena responsabilità della sua scelta. Senza voci soprattutto maschili a frastornarla.

l'Unità 5.1.08
In 30 anni evitate oltre 3 milioni di igv
Resta il nodo degli obiettori di coscienza


La legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza (ivg) compie quest’anno 30 anni e, a suo favore, porta numeri che non possono essere ignorati: nel trentennio, sono state evitate oltre 3.300.000 ivg, di cui 1.000.000 di aborti clandestini, e sono stati scongiurati centinaia di decessi legati appunto alla clandestinità. Resta il «nodo» obiezione di coscienza: oggi è obiettore il 60% dei ginecologi, il 46% degli anestesisti e il 39% del personale non medico, ed il fenomeno è più diffuso al Sud» E questo, lo conferma anche l’Istituto superiore di sanità, mette a rischio l’applicabilità stessa della legge.
Ancora numeri: si è passati da 235.000 aborti l’anno nel 1982 ai 130.000 del 2006 mentre, per quanto riguarda gli aborti clandestini, si è visto un calo dai 350.000 casi l’anno prima della legge ai 100.000 del 1983 fino ai 20.000 del 2006. Se gli aborti, complessivamente, sono dunque diminuiti (in 30 anni di 194 si stima che gli aborti legali siano stati circa 3,5 mln), dagli anni 90 si è però riscontrato nel nostro Paese un aumento di ivg tra le donne immigrate: «Si tratta nel 2006 del 30% di tutte le ivg, pari a 38.000 casi. Un fenomeno - spiegano ancora gli esperti dell’Istituto superiore di sanità - che si spiega con l’aumento della popolazione straniera e le maggiori difficoltà delle donne immigrate».
Sostanzialmente stabile, invece, il ricorso all’aborto tra le giovanissime: nel 2006 si registrano 4.000 ivg, pari al 3%, tra ragazze sotto i 18 anni e 10.000 aborti, pari all’8%, tra quelle sotto i 20 anni.

l'Unità 5.1.08
Aborto, sono tornati gli anatemi
di Vittoria Franco


La politica è diventata meno autonoma e ha lasciato spazio all’interferenza di altri poteri, in primis la Chiesa che intende imporsi come unica detentrice di valori positivi

Con una periodicità costante, ormai, c’è qualcuno che lancia anatemi contro la legge 194. È da quando è stata approvata, nel 1978, che ciò accade. Il referendum, che ha l’ha confermata con una stragrande maggioranza dei consensi, è stato il primo atto. Ricordo nei trent’anni successivi numerosi cortei e manifestazioni in sua difesa. Eppure resiste, e bene. Resiste perché è una legge saggia e lungimirante, che ha rappresentato una conquista di civiltà, ha superato l’aborto clandestino, di cui erano vittime molte delle donne costrette a farvi ricorso, ha fatto dimezzare il numero delle interruzioni di gravidanza, dal momento che punta principalmente sulla prevenzione, ma, soprattutto, mette al centro la maternità libera e responsabile. Un principio importante che andava in quegli anni a costituire un’ulteriore dimensione dell’autodeterminazione della donna. Con la contraccezione sicura che la scienza metteva a disposizione la maternità era stata, infatti, sottratta al destino naturale e consegnata alla responsabilità e alla libera scelta. Dopo secoli di subordinazione, le donne potevano così entrare finalmente nel pianeta libertà e godere del diritto di includere anche se stesse nelle scelte etiche, senza essere accusate di egoismo o di immoralità. Possibilità e libertà di decidere non vuol dire che la scelta sia scevra da conflitti, da sofferenza, da un sentimento di sconfitta e di scacco in caso di aborto. I dilemmi morali sono sempre terribili perché ci costringono a scegliere fra valori egualmente importanti, ma ciò accade quotidianamente nella vita delle persone concrete, quando fanno esperienza di scelte fra alternative di eguale valore. Nessuno può dire, tanto meno una legge, ciò che è giusto o sbagliato in assoluto nell’ambito delle scelte personali. Almeno non può farlo uno Stato democratico e laico, chiamato a non invadere la sfera privata. Alzano sempre di più la voce, invece, coloro che vorrebbero che ciò accadesse. Dopo il fallimento del referendum sulla legge 40 a causa del non raggiungimento del quorum, su cui la Cei aveva puntato, il fronte del fondamentalismo cattolico si sente forte e autorizzato a dettare l’agenda della politica. È accaduto in termini perentori coi Dico, col testamento biologico, con la legge 40, con tutte le questioni che abbiano non solo implicazioni etiche, ma anche di tutela dei diritti individuali; accade in queste ore sulla 194, con toni e linguaggio da crociata, in cui l’interruzione di gravidanza viene assimilata addirittura alla pena di morte. È raccapricciante che lo si possa anche solo pensare e servirsene - coma fa Giuliano Ferrara e sottoscrive mons. Bagnasco - per dileggiare e umiliare la dignità e la responsabilità delle donne; è segno di spregiudicatezza morale che le si usi come strumento di lotta politica che mira ad altro, a creare difficoltà alla maggioranza, minare alla radice la costruzione di un nuovo soggetto politico, tenere la politica in uno stato di debolezza utile a creare vuoti da colmare.
Una politica di progresso, che si pone come obiettivo la modernizzazione della società, deve reagire a questo attacco e non continuare a subirlo Stiamo costruendo un nuovo strumento della politica, che noi pensiamo più efficace e moderno, il Partito democratico. Non possiamo restare indifferenti a quello che sta accadendo nel segno di un regresso a tempi che furono e che sono stati superati da nuovi costumi e mentalità. Personalmente (ma so di avere la condivisioni dei più), mi piacerebbe una riflessione più attenta su questi temi e una chiarezza cristallina sulla fisionomia laica del nuovo Partito.
Sono convinta che, se avessimo costruito il Pd anche solo dieci anni fa, non ci saremmo trovati con quella che è diventata una vera e propria emergenza. Cosa è cambiato? Indico sommariamente due fattori. Il primo riguarda un indebolimento dell’autonomia della politica che ha lasciato spazio all’interferenza diretta di altri poteri, in primis la Chiesa che intende imporsi come unica ed esclusiva detentrice di valori positivi. Il secondo riguarda invece il fatto che i progressi della ricerca genetica e delle nuove tecnologie hanno posto in termini nuovi le questioni della vita e della morte e obbligano la politica a intervenire sul piano normativo. Nel nostro Paese per troppo tempo si è pensato che su questi argomenti potesse ancora valere il solo principio della libertà di coscienza, mentre occorre una nuova “etica del legislatore”, fondata sulla responsabilità e sulla ragionevolezza, capace di proporre mediazioni fra posizioni diverse. La coincidenza cronologica di questi due fattori ci crea i problemi che abbiamo sotto gli occhi. La risposta non è tacere o nascondere la testa nella sabbia, ma affrontarli con una discussione pubblica seria, pacata, guardando oltre le contingenze. Ho letto che qualcuno propone una riflessione sull’aborto. Facciamo una cosa più utile e lungimirante. Abbiamo il coraggio di mettere in agenda seriamente una riflessione su “politica, diritti individuali, laicità” e su “bioetica e leggi”. È un modo per cominciare a costruire un tessuto plurale e resistente nel tempo del nuovo partito, una dimensione culturale laica fondata realmente sull’autonomia della politica e su un pluralismo in grado di elaborare mediazioni. In questa direzione andrà il mio impegno nelle prossime settimane.

l'Unità 5.1.08
Anniversari. A 150 anni dalla nascita del grande avvocato socialista arriva un saggio di Spencer Di Scala che lo rivaluta, con una prefazione di Giuliano Amato
Quel Turati ha molto da dire, malgrado svolte e «controsvolte»
di Bruno Gravagnuolo


Il 27 novembre dell’anno appena trascorso è stato il centocinquantesimo della nascita di Filippo Turati, capo storico e tra i fondatori del socialismo italiano, nato a Canzo nel 1857 e morto in esilio a Parigi nel 1932. L’Unità ha celebrato degnamente la ricorrenza con un bel pezzo di Michele Prospero, attento ai grandi meriti del socialista lombardo, e anche ai suoi limiti. Tra i meriti, ricordiamo di passata, la nascita stessa del Psi nel 1895, e prima ancora nel 1892 del Partito dei Lavoratori. In una con la capacità di saldare tradizioni mazziniane e marxiste nel solco di un nuovo grande partito di massa, il primo in Italia. Tra i limiti l’incapacità di progettare concretamente l’ascesa al governo e al potere dei socialisti, fatto peraltro difficilissimo in quell’Italia di allora, retriva e anche sovversiva, e alla fine preda dell’«antipolitica» fascista.
Bene, arriva adesso il libro di uno studioso Usa, Spencer Di Scala, con l’autorevole prefazione di Giliano Amato, che fa invece di Turati un modello postumo da imitare per la sinistra: Filippo Turati. Le origini della democrazia in Italia (ed. Critica sociale, pp. 277, Euro 12). Libro acuto, che ha il merito di operare un parallelo tra il socialismo di Turati e quello del Pci. «Anacronistico» ma fecondo. In pratica secondo Di Scala, Turati anticipò la prassi comunista, con il suo soggetto di massa gradualista, riformista e in campo su tutti i temi della vita nazionale: un soggetto di fatto a vocazione di governo. E in effetti proprio il Pci di Togliatti, che mise a frutto tante intuizioni di Gramsci, fu capace di ereditare la migliore tradizione riformista, malgrado il radicamento «terzinternazionalista», e di portarla alle soglie del governo.
È una tesi ineccepibile, che viceversa lo storico defeliciano Giovanni Belardelli mostra di non gradire, sul Corsera di giovedi scorso: «Turati modello da non imitare». E in base a due ragioni. La prima per Berardelli è che il Pci non era affatto «riformista», ma anzi detestava quell’aggettivo. La seconda invece starebbe nella mancata lotta di Turati contro i massimalisti, che lo portò al fallimento e all’emarginazione. Analogamente al destino che dovrebbe toccare alla sinistra di governo di oggi, se non si libererà dai «radicali» (Rifondazione, etc.). È una tesi quella di Belardelli in gran parte erronea e propagandistica. Prima di tutto perché è innegabile che il Pci fosse di fatto «riformista» e a modo suo turatiano, almeno a partire dal 1956, e se non da prima. È falso poi che, come scrive Belardelli, persino i riformisti del Pci preferissero definirsi «miglioristi». In realta quando ciò accadde fu solo in chiave polemica ed episodica («sì siamo miglioristi»!). Ma la corrente riformista esisteva eccome, e non si vergognava affato di chiamarsi così. «Migliorista» fu termine spregiativo, che usò Ingrao contro i riformisti: «vogliono solo migliorare le cose». E che fu accolto sul piano «filosofico» da Salvatore Veca, con riferimenti a Dewey, Roosevelt («amelioration», miglioramento graduale). Quanto a Berlinguer, era un togliattiano «doc», che voleva l’incontro con i cattolici, nella prospettiva di un patto con i ceti moderati e la borghesia produttiva (e in questo proprio come Turati). Il fatto che Bertinguer, per motivi egemonici e ideologici, rifiutasse il riformismo, non toglie che il suo fosse riformismo integrale, basti pensare all’«austerità». Che era un modello di tipo neokeynesiano, in tutto e per tutto compatibile con la democrazia parlamentare. Ambiguo sull’Urss? Vero, ma vi fu anche lo «strappo» del 1982, che s’aggiungeva alla proclamazione della «democrazia come valore universale». E un insieme di posizioni che confermavano un dato: il Pci si proclamava comunista, ma era di fatto fuori da quella tradizione, malgrado gli arretramenti di Berlinguer. Il che conferma l’assunto del libro di Di Scala: Turati anticipò il Pci e il suo esempio andava considerato fin da allora, e va considerato anche oggi. Sì, oggi, quando massimalisti ormai non esistono più, e anche Rifondazione è turatiana senza dirlo.
E torniamo all’avvocato di Canzo. Tra i suoi errori principali vi fu non aver progettato fino in fondo un partito di massa. Aver ignorato il Mezzogiorno. Non aver concepito un vero «compromesso storico» di governo, adeguando il partito all’obiettivo. Non aver tentato di andare al governo con Giolitti o Nitti. Aver sottovalutato all’inizio il fascismo. Tutti errori dai quali il Pci tentò di guardarsi. Salvo che il Pci aveva un problema che Turati non aveva. Si chiamava Pci, e solo per questo non poteva governare. Finché per governare quel partito buttò il bambino e l’acqua sporca. Inclusa ogni idea di socialismo.

Repubblica 5.1.08
La paura può essere vista come un istinto che accompagna l'umanità nei secoli, o come un sentimento che muta a seconda delle epoche Oggi ha assunto una forma sfuggente che nasce dall'incertezza
di Zygmunt Bauman


Questa nostra vita si è rivelata ben diversa da quella che avevano previsto e iniziato a progettare i saggi dell´Illuminismo e i loro eredi e discepoli. Nella vita nuova che essi immaginavano e intendevano creare, si sperava che l´impresa di domare le paure e di imbrigliare i pericoli da cui esse derivano potesse realizzarsi. Nel contesto liquido-moderno, invece, la lotta contro le paure si è rivelata un compito a vita, mentre i pericoli che innescano le paure hanno finito per apparire come compagni permanenti e inseparabili della vita umana, anche quando si sospetta che nessuno di essi sia insormontabile. La nostra vita è tutt´altro che priva di paure, e il contesto liquido-moderno in cui essa va vissuta è tutt´altro che esente da pericoli e minacce. Tutta la vita è ormai diventata una lotta, lunga e probabilmente impossibile da vincere, contro l´impatto potenzialmente invalidante delle paure, e contro i pericoli, veri o presunti, che temiamo. Essa può essere vista soprattutto come ricerca e verifica continua di stratagemmi ed espedienti che ci consentano di scongiurare, anche se solo temporaneamente, l´arrivo di pericoli imminenti – o meglio ancora di mettere da parte la preoccupazione che essi suscitano sperando che si esauriscano da sé o restino dimenticati finché occorre. La nostra inventiva in tal senso non conosce limiti. Gli stratagemmi sono numerosi, e più se ne usano, tanto meno sono efficaci. Eppure, con tutto ciò che li distingue, essi hanno una regola in comune: ingannare il tempo e sconfiggerlo sul suo stesso terreno; dilazionare la frustrazione, e non più la gratificazione.
Il futuro è nebuloso? Un´altra buona ragione per non farsene ossessionare. I pericoli sono indecifrabili? Un´altra buona ragione per dimenticarsene. Tutto va bene sinora: potrebbe andar peggio. Andiamo avanti così. Non preoccupiamoci prima del tempo se dobbiamo attraversare un ponte. Forse non ci arriveremo mai, oppure crollerà prima, o sarà spostato altrove. Perché preoccuparsi ora? Meglio seguire l´antica ricetta: carpe diem. O, più semplicemente: divertitevi ora, pagate dopo. O ancora, come vuole la versione aggiornata – offertaci dalle carte di credito – di quella collaudata saggezza: «meglio un uovo oggi che una gallina domani».
Viviamo a credito: nessuna generazione passata si è indebitata, individualmente e collettivamente, in modo tanto pesante (i bilanci statali un tempo puntavano al pareggio: oggi i «migliori» sono quelli che mantengono al medesimo livello dell´anno precedente l´eccedenza delle uscite sulle entrate). Vivere a credito ha i suoi piaceri utilitaristici: perché dilazionare la gratificazione? Perché aspettare, se la gioia futura si può assaporare «qui e ora»? È vero, il futuro è fuori controllo. Ma la carta di credito, come per magia, mette quel futuro, sgradevolmente elusivo, direttamente nelle nostre mani. Possiamo consumarlo, per così dire, in anticipo – finché c´è ancora qualcosa da consumare... Questa sembra essere l´attrazione latente del vivere-a-credito, il cui vantaggio manifesto, se si presta fede alla pubblicità, è puramente utilitaristico: dare piacere. E se il futuro sarà brutto come sospettiamo, possiamo consumarlo ora, finché è ancora fresco e intatto, prima che la catastrofe colpisca, e prima che il futuro stesso abbia la possibilità di mostrarci quanto sarebbe brutta. (Questo è, a pensarci bene, ciò che facevano un tempo i cannibali: divorare i nemici appariva loro come il modo più sicuro per risolvere definitivamente le minacce di cui costoro erano latori; un nemico consumato, digerito ed escreto non faceva più paura. Ma, ahinoi, è impossibile mangiare tutti i nemici. Mentre lo facciamo essi, invece di diminuire, sembrano moltiplicarsi.)
I mezzi sono i messaggi. Le carte di credito sono anch´esse messaggi. Se i libretti di risparmio ispirano certezza nel futuro, un futuro incerto reclama a gran voce carte di credito.
I libretti di risparmio nascono da un futuro degno di fiducia e si nutrono di esso: un futuro che certo arriverà e che, una volta giunto, non sarà tanto dissimile dal presente. Un futuro che si prevede darà valore a ciò cui noi diamo valore, rispettando i risparmi passati e premiando coloro che li hanno. I libretti di risparmio prosperano anch´essi sulla speranza/aspettativa/fiducia che - grazie alla continuità tra il presente e il futuro – ciò che si fa ora, nel presente, si accaparrerà il futuro, impegnandolo prima ancora che arrivi; ciò che facciamo ora «farà la differenza», determinerà la forma del futuro.
Le carte di credito, e i debiti che esse consentono di fare facilmente, dovrebbero atterrire i più miti tra noi, e turbare persino chi è più propenso al rischio; e se ciò non accade, lo si deve alla discontinuità che ipotizziamo: al presentimento che ci dice che il futuro che arriverà (se arriverà, e se ci saremo a testimoniarne l´arrivo) sarà diverso dal presente che conosciamo, pur non avendo idea di come e quanto lo sarà. Vorrà premiare, tra qualche anno, i sacrifici fatti oggi in suo nome? Ricompenserà gli sforzi compiuti per assicurarsi la sua benevolenza? O, al contrario, trasformerà in passività le attività di oggi, e in fastidiosi fardelli i carichi pregiati? Non lo sappiamo e non possiamo saperlo, e non ha molto senso cercare di vincolare ciò che non si può conoscere.
Indugiamo nella preoccupazione per i ponti che alla fine dovremo attraversare comunque; eppure non sono così lontani da poter rinviare a cuor leggero la preoccupazione che desta l´idea di doverli attraversare... Non tutti i pericoli appaiono abbastanza remoti da poterli liquidare come bizzarre creazioni di una immaginazione febbrile, o comunque come qualcosa di irrilevante rispetto alla voce in cima alla lista delle cose da fare. Comunque per fortuna abbiamo un modo di aggirare quegli ostacoli che si sono avvicinati troppo e non si possono più ignorare: possiamo pensare (e lo pensiamo) che siano dei «rischi».
Riconosciamo allora che il prossimo passo da compiere è «rischioso» (ossia che potrebbe rivelarsi intollerabilmente costoso, riesporci ad antichi pericoli o crearne di nuovi), e del resto ciò vale tendenzialmente per qualsiasi passo. È possibile che non raggiungeremo ciò che desideriamo, e che otterremo invece qualcosa di totalmente diverso e di assolutamente sgradevole; qualcosa che preferiremmo evitare («effetti secondari» o «danni collaterali» – così chiamiamo queste spiacevoli e indesiderabili conseguenze, in quanto non intenzionali e distanti dal bersaglio della nostra azione). E riconosciamo anche che essi possono sopraggiungere «inattesi» e, nonostante tutti i calcoli che avevamo fatto, possono coglierci di sorpresa e trovarci impreparati. Pur avendo pensato, valutato e dichiarato tutto ciò, in mancanza di un´opzione migliore procediamo lo stesso come se potessimo prevedere quali conseguenze indesiderabili richiederanno la nostra attenzione e la nostra vigilanza e come se potessimo monitorare i nostri passi in tal senso. Ciò non sorprende: possiamo preoccuparci solo delle conseguenze indesiderabili che siamo in grado di prevedere, e soltanto queste possiamo cercare di evitare. E dunque quelle che noi classifichiamo nella categoria dei «rischi» sono solo le conseguenze di questo tipo, quelle «prevedibili». I rischi sono i pericoli la cui probabilità noi possiamo (o crediamo di potere) calcolare: sono pericoli calcolabili. Una volta definiti in tal modo, i rischi sono la massima approssimazione possibile alla certezza (irraggiungibile, purtroppo).
Dobbiamo tuttavia notare che «calcolabilità» non significa prevedibilità: ciò che si calcola è solo la probabilità che le cose vadano male e che sopraggiunga il disastro. Il calcolo delle probabilità dice qualcosa di affidabile sulla distribuzione degli effetti di un gran numero di azioni simili, ma è quasi inutile come mezzo di previsione quando lo si impiega (alquanto impropriamente) per orientarsi in una specifica impresa. La probabilità, anche quella calcolata nel modo più rigoroso, non offre la certezza che i pericoli saranno, o non saranno, evitati in questo o quel particolare caso, qui e ora, o lì e allora. Ma il fatto stesso che abbiamo stimato le probabilità (e dunque, implicitamente, abbiamo evitato decisioni affrettate e non possiamo essere accusati di temerarietà) ci può infondere il coraggio di decidere se il gioco vale o non vale la candela, e offrire una certa dose di rassicurazione, pur se priva di garanzia. Prendendo in considerazione le probabilità facciamo qualcosa di ragionevole, e forse persino di utile; ora «abbiamo ragione» di considerare le probabilità negative troppo alte per giustificare la misura rischiosa, o troppo basse per dissuaderci dal correre il rischio.
Di solito, tuttavia, spostare l´attenzione dai pericoli ai rischi si rivela come un altro stratagemma; un tentativo di eludere il problema, più che un salvacondotto efficace. Come ha notato Milan Kundera in I testamenti traditi , il contesto della nostra vita è avvolto dalla nebbia, e non dal buio totale in cui non vedremmo niente e saremmo incapaci di muoverci: «nella nebbia si è liberi, ma è la libertà di chi si trova nella nebbia»; possiamo vedere a una decina di metri di distanza, possiamo ammirare i begli alberi sulla strada lungo cui camminiamo, vedere i passanti e reagire alle loro mosse, evitare di urtare qualcuno, accorgerci in tempo di un masso o di una buca sulla nostra strada, ma difficilmente possiamo vedere l´incrocio un po´ più avanti, o l´auto che si trova ancora a un centinaio di metri ma che si sta avvicinando a tutta velocità. Possiamo dire che, coerente con la «vita nella nebbia», la nostra «certezza» orienta e focalizza le nostre precauzioni sui pericoli visibili, noti e vicini, che è possibile prevedere e la cui probabilità può essere calcolata, mentre i pericoli decisamente più tremendi e spaventosi sono proprio quelli impossibili o drammaticamente difficili da prevedere: i pericoli non previsti, e con ogni probabilità imprevedibili.
Tutti presi dal calcolo dei rischi, tendiamo a trascurare questo problema più serio, e a evitare che le catastrofi che non potremmo impedire minino la sicurezza in noi stessi. Concentrandoci sui casi in cui possiamo fare qualcosa, non ci resta tempo per metterci a riflettere sui casi in cui ci è impossibile fare alcunché. Ciò ci aiuta a tutelare il nostro equilibrio mentale. Tiene a distanza gli incubi e ci permette di dormire la notte. Ma non ci rende necessariamente più sicuri. Del resto, questo approccio non rende i pericoli meno realistici. La nostra congettura/intuizione/diffidenza/previsione/ convinzione/certezza che le cose stiano così può schiacciare un pisolino, ma puntualmente si risveglierà. Di tanto in tanto, anzi sempre più spesso, i pericoli tornano a ricordarci fino a che punto essi rimangano realistici nonostante tutte le misure precauzionali prese. In modo ricorrente e abbastanza regolare essi vengono riesumati dalla fossa poco profonda in cui erano sepolti, a pochi centimetri dalla superficie della nostra coscienza, e brutalmente esposti sotto i riflettori della nostra attenzione; le catastrofi si susseguono, offrendoci premurosamente numerose occasioni per ricordarcene. (...)
Le occasioni di aver paura sono una delle poche cose che non scarseggiano in questi nostri tempi tristemente poveri di certezze, garanzie e sicurezze. Le paure sono tante e varie. Ognuno ha le sue, che lo ossessionano, diverse a seconda della collocazione sociale, del genere, dell´età e della parte del pianeta in cui è nato e ha scelto di (o è stato costretto a) vivere. Il guaio è che tali paure non sono tutte uguali fra loro. Dato che arrivano una alla volta, in successione ininterrotta ma casuale, esse sfidano i nostri (eventuali) sforzi di collegarle tra loro e ricondurle alle loro radici comuni. Ci spaventano di più perché risultano difficili da abbracciare nella loro totalità, ma ancor più per il senso di impotenza che suscitano in noi. Non riuscendo a comprenderne le origini e la logica (ammesso che ci sia), ci troviamo al buio e incapaci di prendere provvedimenti – e, a maggior ragione, di prevenire o contrastare i pericoli che esse ci segnalano. Siamo semplicemente privi di strumenti e capacità a tal fine. I rischi che temiamo trascendono la nostra capacità di agire; finora non siamo nemmeno riusciti a definire chiaramente come dovrebbero essere gli strumenti e le capacità adeguate – e dunque siamo ben lontani dal poter iniziare a progettarli e realizzarli. Ci troviamo in una situazione non molto diversa da quella di un bambino disorientato; per riprendere l´allegoria utilizzata tre secoli fa da Georg Christoph Lichtenberg, se un bambino urta contro un tavolo, dà la colpa a quest´ultimo, mentre per casi simili noi abbiamo coniato la parola «destino» contro cui lanciare accuse.
Il senso di impotenza che costituisce l´effetto più tremendo della paura nasce tuttavia non dai pericoli (veri o presunti) in quanto tali, ma dall´ampio quanto scarsamente attrezzato spazio che si spalanca tra i pericoli da cui promanano le paure e le nostre reazioni possibili e/o ritenute realistiche. Ma che le nostre paure «non siano tutte uguali tra loro» è vero anche in un altro senso: per quanto le paure che tormentano i più possano essere straordinariamente simili tra loro, si presume che ciascuno di noi vi si opporrà individualmente, con le proprie sole risorse, quasi sempre drammaticamente inadeguate. Non si vede quasi mai chiaramente in che modo le nostre possibilità di difesa possano guadagnarci dal mettere insieme le risorse di tutti e cercare modi per dare a tutti coloro che ne soffrono le stesse opportunità di sicurezza dalla paura. A peggiorare ulteriormente le cose, anche se e quando i benefici di una lotta comune vengano perorati in modo convincente, rimane aperta la questione di come fare per tenere uniti tutti i combattenti isolati. Le condizioni della società individualizzata sono inadatte all´azione solidale, e rendono difficile vedere una foresta invece che i singoli alberi. Inoltre le antiche foreste – paesaggio un tempo familiare e facile da riconoscere – sono state decimate, ed è improbabile che ne vengano piantate di nuove, dato che la coltivazione tende a essere demandata ai singoli contadini. La società individualizzata è contraddistinta da una dispersione dei legami sociali, che sono il fondamento dell´azione solidale. Essa si distingue anche per la sua resistenza a una solidarietà che potrebbe rendere tali legami durevoli e affidabili.

Traduzione di Marco Cupellaro © 2006, Zygmunt Bauman

Repubblica 5.1.08
Un dolore privato. Per la prima volta Giovanni Jervis racconta l'uccisione di suo padre. in uscita un carteggio
La tragedia del partigiano Willy
di Simonetta Fiori


Lo psicoanalista aveva undici anni nell´agosto del '44 quando il genitore venne impiccato
"Ricordo il giorno dell´omicidio. Ma di quelle emozioni non ho mai parlato volentieri"

ROMA. «Ci sono cose intime di cui non si parla in pubblico. È un problema di pudore. E le lettere di mio padre, la sua fine tragica, sono state per me a lungo una questione più privata che pubblica». Una storia di famiglia delicata e inaccessibile, protetta da Giovanni Jervis con quel tratto di rigore assorbito nelle sue valli valdesi, ma anche con un robusto spirito polemico che - sostiene - è l´altra faccia della sua professione, psichiatra e psicoanalista tenuto al paziente ascolto del malato. «Lei dice che la mia testimonianza è trattenuta? Certi ricordi personali appartengono al mondo delle confidenze, tutto qui».
Settantaquattro anni, affilato nel pensiero e nella fisionomia, Jervis è stato protagonista della battaglia condotta al fianco di Franco Basaglia contro i "manicomi" quali strutture repressive. Per anni s´è adoperato per mettere in pratica i suoi convincimenti sul territorio di Reggio Emilia. Ha scritto saggi importanti sull´identità, è stato membro del consiglio editoriale dello Struzzo nei tempi aurei di Giulio Einaudi, ha insegnato Psicologia dinamica alla Sapienza, ma sempre fuggevole è l´accenno a quel padre martire della Resistenza, massacrato dai tedeschi a 43 anni. Ora che Bollati Boringhieri ripropone il carteggio tra il padre Guglielmo (Willy) e la madre Lucilla Rochat con le lettere di Giorgio Agosti, Jervis ha accettato per la prima volta di scrivere della sua adolescenza in guerra. Una testimonianza esemplare per sobrietà e antiretorica, ma come trattenuta da un sentimento di pudore: si ferma sulla soglia dell´orrore, per riprendere dai giorni festosi della Liberazione. (Un filo tenace. Lettere e memoria 1944-1969, a cura di Luciano Boccalatte, introduzione di Giovanni De Luna, pagg. XLVI-240, euro 20).
Quel che Jervis non racconta è l´uccisione del padre, un brillante ingegnere della Olivetti che scelse il partigianato in Giustizia e Libertà: prima incarcerato dai tedeschi e torturato, poi fucilato, trascinato nella polvere per le strade di Villar Pellice - il cuore delle sue valli e della sua fede valdese - infine impiccato a un albero della piazza centrale. Era il 5 agosto del 1944. D´una solida famiglia borghese d´origine britannica, Willy aveva aderito alla Resistenza dopo l´8 settembre. Arrestato nel marzo del 1944, le lettere scritte alla moglie dalle Carceri Nuove di Torino sono uno straordinario impasto di dignità, fede e impulso morale. «Ci troveremo certo di là», incoraggia Lucilla il 17 luglio. «Non piangetemi, né chiamatemi "povero". Muoio per aver servito un´idea». Le ultime parole, poco prima della fucilazione, furono da lui incise con una punta sul retro d´una copertina nera d´una piccola Bibbia. «Amore mio caro, temo che non ci sia oggi più speranza. Sia fatta la volontà di Dio. Penserò sempre a voi». Non c´è rabbia né rancore. Non c´è odio. Grazie a quel libro sacro, il corpo sfigurato di Willy viene riconosciuto da Tini Jahier, un padre valdese legato alla famiglia. Giovanni ha solo undici anni.
Professor Jervis, chi le disse di suo padre morto?
«Ho un ricordo molto vivo di quel giorno, ma non so esattamente chi mi diede la notizia: e poi di tante situazioni intensamente emotive non ho mai parlato volentieri. Del resto, a lungo considerai la corrispondenza tra mio padre e mia madre come qualcosa di privato. È stato mio cugino, lo storico Giorgio Rochat, a farmi capire che quelle lettere potevano avere un interesse sul piano umano, etico e politico».
Quando le lesse la prima volta?
«Tardi, molto più avanti nel dopoguerra. Ero già adulto».
Che impatto ebbe?
«Mi apparvero come qualcosa di molto delicato, da custodire con attenzione. Perfino il nostro sguardo, quello mio e di mia sorella, mi sembrava invadente, come di chi guarda attraverso il buco della serratura».
In che misura quelle missive hanno contato nella sua formazione?
«Non credo siano state influenti. Più rilevante il fatto d´aver perso tragicamente il padre a undici anni. E il lascito morale dell´antifascismo».
Ma quei documenti ne sono la sintesi simbolica. Mi viene in mente, anche se il paragone per alcuni versi è improprio, l´ultima lettera che Giaime Pintor lasciò al fratello Luigi. Questi ne rimase schiacciato.
«Ma si capisce che anche per me fu un´emozione molto forte. Quando mio padre era agli arresti a Torino, una volta ritirammo dal carcere una cartella di cuoio: dentro una tasca interna era nascosto un suo biglietto. Lo trovai io, ed è ancora viva l´impressione della scoperta. Ma per fortuna fui risparmiato dal carico emotivo di quella corrispondenza. Era un dialogo tra i miei genitori, non mi investiva direttamente».
Quelle parole scritte qualche giorno prima di morire - «Non piangetemi, non chiamatemi povero, muoio per aver servito un´idea» - furono fatte proprie dalla retorica antifascista e consegnate alla silloge einaudiana delle Lettere di condannati a morte, quasi uno stereotipo del martirologio resistenziale.
«Ecco, è proprio la traduzione pubblica d´una questione privata che a lungo mi ha suscitato qualche resistenza».
Si coglie nella sua testimonianza come un´insofferenza verso la monumentalizzazione della figura paterna.
«E´ stato mio padre, che detestava la retorica e le parole roboanti, a immunizzarmi dall´enfasi e dai toni esagerati. Anche mia madre, donna assai colta e pungente, aveva uno sguardo affettuosamente scettico verso le cose del mondo. Da ragazzo a Firenze, dove ci trasferimmo nel dopoguerra, ero infastidito dagli accenti un po´ caricati che intravvedevo nell´oratoria di Piero Calamandrei o di Paolo Barile. Parte dell´intellettualità antifascista fiorentina mi appariva un po´ piagnona».
Conta in questo suo riserbo la radice valdese?
«Sì, ma non solo. Debbo molto anche a mio nonno materno, un medico socialista che aveva in cura personaggi come Luigi Russo ed Ernesto Codignola. Sono cresciuto in un ambiente libero da fanatismi, mai in famiglia ho respirato sentimenti d´odio o desiderio di vendetta».
In questo è stato un bambino molto protetto.
«Sì, il mondo degli adulti ha come filtrato l´odio che annidava fuori. Anche sotto il fascismo i miei genitori mi davano l´impressione d´essere meno incerti degli altri».
Quando ha capito chi era Guglielmo Jervis?
«Mah, non c´è mai stata una rivelazione postuma e fulminea. Io già a undici anni avevo capito chi era mio padre: un antifascista militante, non un Robin Hood. Stavo molto con i miei genitori, seguivo le loro conversazioni a tavola. Che da qualche parte fossero nascoste minacce terribili lo intuii la prima volta nell´estate del 1943, quando sentii un signore ebreo fare un riferimento ai vagoni piombati. Seguì un lungo silenzio».
La sua ricostruzione degli eventi successivi - la fuga da Ivrea, l´arrivo a Torre Pellice, la vita con un padre clandestino - si caratterizza per una tonalità inusuale. Anche il ritratto dell´ufficiale nazista che ispeziona la vostra casa dopo l´arresto di suo padre appare poco convenzionale. Sulla rabbia sembra prevalere il rispetto.
«Lo ricordo alto, elegante nella sua divisa da SS, sostanzialmente educato. Forse è solo una questione di cultura: era un uomo coltivato e con mia madre si stabilì un rapporto corretto, compatibilmente con quella situazione. Una volta scrutò con attenzione la nostra radio, poi andandosene disse più o meno: "Se si vuole sentire certe stazioni, è meglio poi che si sposti la manopola". Per chi ascoltava Radio Londra era prevista la fucilazione».
Quali sono stati i suoi sentimenti quando in tempi recenti hanno tentato di riabilitare "i ragazzi di Salò"?
«Questa domanda presuppone che io parli da figlio di martire…».
Il fatto di essere figlio di Guglielmo Jervis non è dettaglio irrilevante.
«L´elemento emotivo pesò moltissimo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, quando assistetti alla nascita del movimento qualunquista di Giannini, poi a quella del Movimento Sociale e all´amnistia di Togliatti. In anni più recenti, invece, hanno prevalso considerazioni di carattere politico ed etico. Sono queste che mi hanno indotto a rendere pubbliche le lettere di mio padre negli anni Novanta, quando hanno cominciato a diffondersi teorie storiche revisioniste».
La testimonianza di suo padre tradisce uno spirito religioso molto forte.
«Sì, certo. Per me invece quella valdese, più che una fede, è identità culturale e impronta etica… nel bene e nel male».
Nel male, lei dice. Ma in che senso?
«Penso alla rigidità e al moralismo, in cui pure mi riconosco. Non è un caso che tra gli intellettuali che ho frequentato l´indole in cui mi sono più rispecchiato è quella tormentata di Franco Fortini. In lui confluivano le componenti ebraica e valdese. Un carattere affascinante ma anche insopportabile, duro, spigoloso. Ne accettavo con tenerezza gli aspetti più antipatici perché in fondo mi ci ritrovavo».
Professore, non le voglio rubare il mestiere, ma non crede che il suo ostinato silenzio sul modo in cui è morto suo padre sia segno d´una rimozione, forse un modo per proteggersi da un dolore troppo grande?
«Può darsi, non lo escludo. Certo niente avviene a caso».

Corriere della Sera 5.1.08
Il Pd e il sistema francese. Girandole elettorali
di Giovanni Sartori


Il nostro stupidume politico quest'anno ha celebrato ed esibito il suo meglio attorno a Capodanno. Perché la proposta elettorale di Dario Franceschini, il numero due di Veltroni, supera ogni precedente primato per: 1)incomprensibilità, 2)confusioni a catena.
Primo: incomprensibilità. Vale a dire, non si capisce quale sia l'intento. La proposta Franceschini a chi giova? A chi o cosa serve? Come osserva D'Alema: «Con questa mossa si rovescia il tavolo delle riforme... si rischia di sfasciare tutto». Siccome i tempi per concludere qualcosa sono strettissimi, la mossa potrebbe avere un senso soltanto se Franceschini sa già che la Corte costituzionale boccerà il referendum. Il che allungherebbe i tempi per il negoziato parlamentare. Ma l'ipotesi che Franceschini «sappia già» è offensiva per la Corte e non può essere accolta senza prove. Resta allora l'ipotesi che Veltroni usi Franceschini per sfasciare tutto e, appunto, andare al referendum. Il che farebbe dubitare del buon senso del leader del Pd. Perché con il referendum passerebbe un premio di maggioranza spropositato che lui ha poche probabilità, al momento, di vincere. Come si vede, gira e rigira la mossa di Franceschini è incomprensibile. A meno che non sia soltanto improvvisata.
Secondo: confusioni a catena. La proposta Franceschini è, in realtà, una variopinta insalata di proposte (al plurale). Non propone soltanto il sistema francese (elezione diretta del capo dello Stato) ma anche, in alternativa, il già defunto modello israeliano (elezione diretta del capo del governo altrimenti nota come «il sindaco d'Italia»), come se fossero soluzioni interscambiabili. L'abbaglio è colossale. Inoltre, rilanciare un'idea sbagliata (il premier-come-sindaco) è di per sé una pessima idea.
Aggiungi che il sistema francese viene chiamato «presidenzialismo» anche se da anni ci sgoliamo a spiegare che il sistema presidenziale è quello americano, mentre il sistema francese è semi- presidenziale o, all'inverso, semi-parlamentare. Che è tutt'altra cosa.
Anche il fatto che entrambe queste proposte siano oggi inattuali perché richiedono una riscrittura radicale della Costituzione sembra sfuggire a Franceschini, che se la cava cambiando le carte in tavola, e cioè riducendo il sistema francese (il semi-presidenzialismo) al puro e semplice sistema elettorale adottato in Francia, e cioè al doppio turno. Ora, il doppio turno è una tecnica elettorale praticata in tutta Europa sin dall'Ottocento. Pertanto dicendo «alla francese» ci riferiamo soltanto alla soglia di passaggio al secondo turno (ballottaggio) che in Francia è oggi del 12,5 per cento.
Un altro aspetto che stupisce dell'alzata d'ingegno di Franceschini è che ignora del tutto il modello spagnolo ricucinato ad uso e gradimento di Veltroni dai suoi «professorini ». Che sia questo, allora, il bersaglio occulto di Franceschini? Direi di no, anche perché il Nostro ignora, alla stessa stregua, la «bozza Bianco» (ispirata al modello tedesco) che è il testo parlamentare che ha le maggiori probabilità di essere varato. Allora qual era l'intento della sparata di Capodanno di Franceschini? Forse lo sa soltanto Veltroni visto che il Nostro ne è il vice.

Corriere della Sera 5.1.08
La sfida della «moratoria» Il partito democratico e l'«appello» del Foglio
E dal Pd: Walter, incontra Ferrara
Caldarola: confronto utile. Bobba: bene invitare un «esterno»
di Roberto Zuccolini


Sul «Foglio» L'appello di Giuliano Ferrara al segretario del Pd in un editoriale di ieri: «Sveglia Walter!»
Caldarola Nei discorsi portati avanti da Ferrara ci sono tracce di verità
Bobba Apriamo un laboratorio di riflessione su certi temi nel Pd
Lucà L'intero dibattito sulla 194 è partito col piede sbagliato


ROMA — Alfredo Reichlin, a caldo, aveva pronunciato il suo «no» alla richiesta di Giuliano Ferrara. Perché a suo giudizio la legge 194 non può essere all'ordine del giorno del comitato messo in piedi per discutere il cosiddetto manifesto dei valori del Pd. In altre parole, per uno dei più autorevoli «saggi» del nuovo soggetto unitario, non avrebbe senso accogliere l'«audizione» del direttore del Foglio: «Le sedi più opportune per discutere le leggi dello Stato sono i gruppi parlamentari».
Ma il giorno dopo cominciano a spuntare, nel partito di Walter Veltroni, i favorevoli all'evento che permetterebbe a Ferrara di spiegare ai vertici del Pd la sua battaglia per una «moratoria dell'aborto». Giuseppe Caldarola, ad esempio, non fa fatica a dire di sì: «Si può discutere se la sede giusta sia il comitato che sta redigendo il manifesto, ma è fuori di dubbio l'interesse e l'utilità che può avere un incontro del genere». Prima di tutto «perché si tratta di temi che devono interessare il nostro partito». E poi, confessa: «Nei discorsi portati avanti da Ferrara ci sono tracce di verità. Certo, fino a qualche anno fa avrei detto subito di no, ma nel frattempo molte cose sono cambiate: ci sono stati rilevanti progressi della scienza e fanno riflettere. Anche perché non dobbiamo dimenticare che la 194 non è di quei testi da ascrivere fra le leggi "di libertà", ma fra quelle di "dolorosa necessità"».
Anche il teodem Luigi Bobba apre all'ipotesi: «Non avrei nulla in contrario. Che male c'è invitare un esterno a discutere con noi? Occorre però fare in modo che l'evento non resti un fatto isolato. Per non renderlo irrilevante ». Secondo l'ex presidente delle Acli bisogna infatti «aprire all'interno del Partito Democratico un vero e proprio laboratorio di riflessione su certi temi». Una riflessione «accurata » che porti però ad alcune decisioni «prese a maggioranza», così come avviene in altre formazioni politiche. Altrimenti, avverte Bobba, «anche sulla revisione della 194 si correrà il rischio di una nuova gara a chi alza la propria bandiera identitaria senza confrontarsi e senza cercare di capire gli altri». Cioè «pura propaganda». Insomma, «che l'incontro con Ferrara sia inserito in un metodo di lavoro più largo».
E così, mentre la maggioranza del partito preferisce non pronunciarsi, emerge quindi una disponibilità al confronto espresso da voci sia cattoliche che laiche del Pd. Anche perché nel frattempo Ferrara ha continuato a spiegare le sue ragioni sulle colonne del Foglio, con un'ampia offensiva. Resta però, al tempo stesso, un'avversione non solo laica, ma anche cattolica all'«audizione» richiesta ufficialmente con un fondo apparso il 3 gennaio.
Basta sentire cosa dice al riguardo il leader dei cristiano sociali (confluiti a suo tempo nei Ds e ora nel Pd), Mimmo Lucà: «Non è costume di un partito invitare un esterno alle riunioni dei propri organismi. Credo che Ferrara, come tanti giornalisti, abbia comunque tutti i mezzi per far conoscere la propria opinione e farla valere. Se fosse già avviata un'iniziativa parlamentare potrebbe anche avere un senso, ma così com'è stata richiesta l'audizione è da bocciare. Resta comunque, da parte mia, la convinzione che il dibattito sulla 194 sia partito con il piede sbagliato. Prima di alzare un polverone bisognerebbe che tutti capiscano come stanno le cose. Facciamo un'indagine, approfondiamo il tema e riuniamo gli organismi del Pd per discuterne. Nel frattempo credo che sia importante rispettare lo spirito e la lettera della legge».

Corriere della Sera 5.1.08
Da nuovi documenti rivelazioni (curiose) sull'opera del grande scienziato
Leonardo, il genio tuttofare Era anche esperto di vino
di Carlo Pedretti


E a Milano lavorò a diversi modelli del leone robot
Una prima versione dell'animale meccanico porta la data del 1509: celebrava l'entrata in città di Luigi XII

Leonardo da Vinci visse a Milano, dove operò come pittore, architetto e ingegnere, per diciotto anni al servizio degli Sforza dal 1482 al 1500 e ancora dal 1508 al 1513 al servizio dei governanti francesi e quindi dello stesso re Luigi XII. Del periodo sforzesco sono ben noti i suoi capolavori di pittura, dalla «Vergine delle rocce» e dai ritratti maschili e femminili al Cenacolo e alla decorazione della Sala delle Asse al castello. Documenti storici e i suoi stessi manoscritti forniscono informazioni su altri aspetti della sua attività durante quel primo periodo, soprattutto come architetto e tecnologo oltre che come scultore col progetto del colossale monumento equestre a Francesco Sforza rimasto incompiuto con l'ingresso dei francesi nel 1499. Del secondo periodo si sa ancora ben poco: nulla di certo per quanto riguarda committenze di opere artistiche da parte dei francesi e solo qualche indizio di opere di architettura e idraulica per gli stessi. Lo stesso governatore francese elogia le prestazioni di Leonardo con una lettera del 16 dicembre 1506 alla Signora Fiorentina affermando che «il nome suo, celebrato per pictura è oscuro a quello che meritarla essere laudato in le altre parte che sono in lui de grandissima virtute» e precisa che, richiesto «de disegni et architettura e altre cose pertinenti alla condizione nostra» (cioè come governatore e quindi luogotenente del re in tempo di guerra), «ha satisfacto cum tale modo, che non solo siamo restati satisfacti de lui, ma ne havemo preso admitatione ». Se Leonardo, come è prevedibile, sarà al centro delle celebrazioni milanesi del 2015, sarebbe bene non insistere troppo sulla sua opera artistica ormai studiata a fondo e concentrarsi invece sugli aspetti scientifici e tecnologici della sua opera, che dal 1508 in poi si presenta ancora con allarmanti lacune dovute soprattutto dalla mancanza di documenti.
Ma a cercar bene prima o poi i documenti saltano fuori anche se da tempo perduti o dimenticati, per esempio quello che prova come il 9 dicembre 1515 Leonardo fosse di nuovo a Milano da dove avrebbe scritto al suo castaldo (fattore) a Fiesole per dirgli come meglio coltivare le vigne per produrre vino migliore di quello che gli aveva appena inviato. A Milano Leonardo avrebbe potuto incontrare il re Francesco I che a metà dicembre si sarebbe recato a Bologna per lo storico incontro col papa Leone X. Solo di recente si è potuto accertare che cinque mesi prima il nuovo re veniva accolto dalla comunità fiorentina di Lione dal leone meccanico di Leonardo come operazione politica che faceva capo al papa mediceo (vedi «Corriere della Sera», 17 novembre scorso).
La prova che il re avesse accolto con ammirazione il singolare capolavoro tecnologico al punto di volere Leonardo al proprio servizio si ricava da un altro documento pure scoperto di recente e non ancora pubblicato: il 16 marzo 1516 il celebre e potente Grande Ammiraglio di Francia, Guglielmo Gouffier signore di Bonnivet, scrivendo ad Anton Maria Pallavicino a Roma lo prega fra l'altro di sollecitare Leonardo a trasferirsi in Francia dove il re e sua madre lo aspettano a braccia aperte. Il Bonnivet proprio nel 1517 iniziava la costruzione del grandioso portocanale di Le Havre con accorgimenti innovativi nei quali un nostro ingegnere portuale, Agatino d'Arrigo, non aveva esitato a riconoscere, nel 1940, un'idea di Leonardo.
Ma c'è di più. Un documento scoperto di recente mostra che una prima versione del leone meccanico di Leonardo, non ancora programmato a camminare, era già stata realizzata per l'ingresso di Luigi XII a Milano il primo luglio 1509: «In su l'entrata del Re in Milano, oltre al altre ghale ( feste di gala, ndr), Lionardo da Vinci, pictor famoso e nostro fiorentino excogitò una tale intramesse ( intermezzo). Figurò un lione ( nell'interlinea: sopra la porta) el quale giacendo, alla venuta del re si levò in piè: e colla brancha s'apersi il pecto e di quello trasse palle azurre piene di gigli d'oro; quali gittò e seminò per terra. Di poi si trasse il cuore e premendolo n'( ne fece) uscire medesimamente gigli d'oro. A dimostratione come marzocco dei fiorentini figurato per tale animale haveano piene le viscere di gigli: fermassi oltre ( il re) ad tale spectacolo piaqueli e molto se ne allegrò».
Questo è scritto su una strisciolina di carta inserita fra i fogli 16 e 17 nel quinto e ultimo volume della Historia fiorentina di Piero Parenti – storico e cronista fiorentino del primo '500 –, opera solo in parte pubblicata e conservata manoscritta nella Biblioteca Nazionale di Firenze. Questo ultimo volume, infatti, è ancora inedito. Si tratta dunque di un documento di immensa importanza per gli studi su Leonardo. Lo ha pubblicato in modo esemplare Jill Burke con un saggio intitolato «Meaning and Crisis in the Early Sixteenth Century: Interpreting Leonardo's Lion», nell' «Oxford Art Journal» nel 2006.
L'evento al quale questo nuovo documento si riferisce è l'ingresso a Milano di Luigi XII il primo luglio 1509 dopo le vittorie riportate nella campagna contro Venezia, a cominciare con la battaglia di Agnadello del 14 maggio di quell'anno, la vittoria che segnò il successo della Lega di Cambrai in quanto fu seguita dalla rapida e disastrosa ritirata dell'armata veneta, lasciando il passo all'invasore, senza colpo ferire, per tutto il territorio bergamasco, via via fino a Brescia.
Nei mesi di quelle operazioni Leonardo era a Milano. E infatti lo stesso storico fiorentino aggiunge alcune straordinarie precisazioni sul ruolo di Leonardo come regista dell'ingresso trionfale del re: «Adoperassi assai nel disegno della pompa Lionardo da Vinci famoso nostro pictore Fiorentino, il quale fece molti ornamenti a uso d'archi trionfali per le strade coperte con molte diversità di tende e con trionfo drieto della victoria con molte imagini di Città expugnate etc.».
Una cronaca contemporanea, il «De bello veneto» di Bernardino Arluno, descrive minuziosamente quegli apparati senza nominare Leonardo, ma lo storico milanese Baldassare Oltrocchi, nel 1777, aveva sostenuto che solo Leonardo avrebbe potuto occuparsi di tale impresa. Ci sono voluti più di due secoli per provare che aveva ragione.

Corriere della Sera 5.1.08
Al Cern, centro europeo di ricerche nucleari di Ginevra, sta per essere acceso l'acceleratore più potente del mondo
Fisica, l'ora della rivoluzione
di Carlo Rubbia


Rubbia: «Con l'Lhc sveleremo la natura della materia»

La ricerca fondamentale sembra oggi un po' dimenticata di fronte agli straordinari entusiasmi per gli sviluppi tecnologici e ambientali. Ciononostante la ricerca fondamentale, quella esclusivamente guidata dal desiderio umano di conoscere e di sapere, è ora in una fase di straordinario progresso. E in questo gli enti europei Cern, Eso, Esa e italiani Infn e Asi continuano ad avere un ruolo determinante.
Il 2008 si annuncia come un anno molto interessante per la fisica delle particelle e per l'astrofisica. La densità e la composizione della materia ed energia nell'Universo sono di importanza fondamentale. Stiamo adesso arrivando ad una svolta, come è stato dimostrato dal premio Nobel per la fisica 2006 a John Mather e George Smoot per i loro studi sul Big Bang con il satellite Cobe, lanciato dalla Nasa nel 1989. Queste misure, che hanno aperto alla cosmologia il ruolo di una scienza esatta, proseguite con il satellite Wmap e il futuro satellite europeo Planck, stabiliranno con ancora più dettaglio il comportamento dell'Universo «bambino», nel primo istante in cui la luce si separò dalla materia, offrendoci oggi, 12 miliardi di anni dopo, questa meravigliosa immagine sferica dell'Universo incandescente. Con simili misure si è riusciti per la prima volta a «pesare» l'Universoeaconfermare con una precisione del 2% il valore predetto dalla cosiddetta teoria inflazionaria, basata sulla meccanica quantistica dei primissimi istanti della creazione dell'Universo.
Oggi sappiamo, dunque, che la materia luminosa contribuisce solamente con una piccolissima frazione, lo 0.5% della massa dell'Universo, mentre la materia ordinaria, quella di cui è costituito il mondo a noi visibile, rappresenta solo il 6%. Quantunque le stelle siano straordinariamente interessanti e attraenti alla vista, esse rappresentano in realtà solamente una frazione piccolissima della materia e dell'energia complessive presenti nell'Universo. Come risaputo da parecchi decenni, la maggioranza della materia e dell'energia dell'Universo sono «oscure », invisibili all'astronomo e quindi solo indirettamente osservabili attraverso gli effetti indotti.
La fisica delle particelle elementari ha tra i suoi compiti principali anche quello di aiutarci a comprendere quale ne sia l'origine, accomunando la fisica dell'infinitamente piccolo delle particelle elementari e quella dell'infinitamente grande della cosmologia. E' questo uno dei compiti principali del nuovo Lhc (Large Hadron Collider), che entrerà presto in funzione al Cern.
La fisica nucleare associata alla cosmologia ci ha permesso di ricostruire recentemente e con precisione il processo di nucleosintesi degli elementi della materia ordinaria (per intenderci i noti elementi della chimica) che, come descritto nel famoso libro di Steve Weinberg, avvenne nei famosi «tre minuti» dopo il Big Bang. Sappiamo oggi che questa materia ordinaria, quella di cui noi ed ogni oggetto esistente sulla Terra sono costituiti, rappresenta solo una piccola frazione della materia ed energia dell'Universo. Tutta la materia con cui siamo a visibile contatto fa parte di questo 6%. E i rimanenti 94 %?
Intuitivamente ci si aspetterebbe che l'Universo sia sinonimo di materia ordinaria. Oggi sappiamo che questa intuizione è grossolanamente falsa, come è dimostrato dal valore globale della materia osservata dell'universo e dalla forte insufficienza della nucleosintesi. Sappiamo dunque che vi è molta più materia di quanto sia dato dalla materia ordinaria: quest'ultima non è la forma dominante della materia nell'Universo. Quantunque la quantità di questa materia oscura sia oggi compiutamente confermata da un gran numero di osservazioni, la sua vera natura rimane ancora un completo mistero.
La fisica delle particelle elementari propone una soluzione attraente a questo problema ipotizzando che siano particelle elementari residuate dal Big Bang. Particolarmente interessante sono le cosiddette particelle «supersimmetriche», battezzate «Susy», di massa sufficientemente elevata per non essere state finora prodotte artificialmente ad esempio con l'acceleratore Lep del Cern, ma che lo potrebbero essere con la nuova grande macchina Lhc e i relativi esperimenti. Esse sono fortemente sostenute da teorie che hanno come scopo quello di unificare le forze della natura. La possibilità che le particelle Susy possano anche costituire la materia «oscura» è una straordinaria coincidenza e un'alternativa da studiare con vigore, anche se evidentemente la soluzione del puzzle offre molte altre possibilità.
Quantunque Susy sia un candidato convincente, i fisici delle particelle elementari lo devono ancora scoprire. Non va dimenticato che la Natura ha in riserva molte altre alternative tra cui altre particelle stabili, sufficiente pesanti e senza interazioni apprezzabili, genericamente chiamate Wimp, o Weakly Interacting Massive Particles, le quali potrebbero giocare il ruolo della materia «oscura».
L'enorme numero di particelle «oscure» generate dal Big Bang nel cosmo, sia Susy o altre, dovrebbe produrre come conseguenza qui sulla Terra un impressionante flusso di milioni di particelle per ogni centimetro quadrato. E' quindi anche possibile ricercare questi Wimp grazie alle rarissime collisioni in laboratori sotterranei, dove la presenza di altri eventi ordinari è fortemente attenuata. Il ben più piccolo esperimento Warp nel Laboratorio Nazionale del Gran Sasso dell'Infn, oggi in fase di avanzata realizzazione e a cui io partecipo personalmente, costituisce l'esperimento più avanzato mondialmente in questo campo. Evidentemente le due ricerche, quelle della produzione artificiale di tali particelle al Cern con l'Lhc e quelle dell'osservazione del flusso naturale proveniente dal Big Bang con Warp sono esperimenti complementari, ma ciononostante in diretta concorrenza per una possibile scoperta.
Più in generale, al fine di dare risposta alle molte questioni fondamentali, nuovi dati sperimentali cosmologici e di laboratorio sono urgentemente necessari, sia in astronomia che nelle particelle elementari, come ad esempio nella ricerca di nuove particelle esotiche e non interagenti, e in fisica nucleare, ad esempio per comprendere a fondo la nucleosintesi. Abbiamo davanti a noi un affascinante e multidisciplinare periodo di scoperte, nelle quali gli esperimenti più precisi e sensibili saranno i migliori. E a tale fine, nuovi strumenti e, permettetemi di dirlo, anche nuovi finanziamenti sono necessari.
Ma, ancora più importante, è che oggi ci troviamo di fronte una vera concordanza nei primi istanti dell'Universo e una guida su dove dirigere la ricerca sperimentale. Questa situazione ricorda quella delle particelle elementari negli anni Ottanta quando fu completato il Modello Standard. La scoperta sperimentale nel laboratorio della natura della materia «oscura» e la sua dominanza nella dinamica del cosmo sarebbe una straordinaria rivoluzione di portata confrontabile alla rivoluzione copernicana quando fu compreso che la Terra non era il centro dell'Universo o alla rivoluzione darwiniana quando si capì che l'uomo era solo l'ultimo elemento di una lunga catena di evoluzioni della specie. In questo nuovo ed eccitante periodo di sviluppi rivoluzionari, la scienza europea e in particolare quella italiana non possono restare indietro.
*Premio Nobel per la fisica

Corriere della Sera 5.1.08
Omero non conosceva la scrittura Braille
di Luciano Canfora


In Germania, ma anche in Turchia, va di moda Omero. Omero in greco vuol dire «ostaggio», e può essere sia maschile che neutro. Inoltre può anche significare «colui che si accompagna a qualcuno» e assumere quindi il valore di «cieco». Poiché del poeta si sa ben poco, se ne può fare, volendo, a partire dal nome, un «vate cieco». L'iconografia si spreca, e anche Foscolo nei Sepolcri se lo figurò così. Per Vico, Omero era un nome che designava un intero popolo nell'età della sua fanciullezza. Soluzione protoromantica di grande suggestione ma di nessuna utilità quando si affronti la domanda: chi scrisse l'Iliade el' Odissea? Gli antichi ne sapevano quanto noi, visto che almeno sette città si contendevano l'onore di aver dato i natali al poeta e d'altra parte la biografia omerica attribuita ad Erodoto è solo un simpatico romanzo. Il gioco di «inventare Omero » (titolo di un libro dell'italo britannica Barbara Graziosi) è innocente e può essere uno «spassatempo» esattamente come «lo cunto de li cunti».
Il romanziere inglese Samuel Butler pubblicò a Londra nel 1897 un libro dal titolo L'autrice dell'Odissea e pensava di aver trovato le prove interne di tale soluzione femminile del problema; infatti — notò — Nausicaa dice ad Ulisse: «ricordati che mi devi la vita». Un italiano di recente ha piazzato Omero nel Baltico, ma già a Tacito risultava che qualcuno avesse visto in riva al Reno un altare consacrato a Ulisse. Niente paura dunque se un austriaco buontempone, Raoul Schrott, vuol fare di Omero uno scriba della Cilicia al servizio degli Assiri e spostare Troia sulla costa di fronte a Cipro. Passi per lo scriba (forse c'era il braille). La cosa che fa specie è che in grandi Paesi di cultura i maggiori quotidiani discutano sul serio di siffatte trovate.

il Riformista 5.1.08
Laicità. Difende solo i privilegi legati alla propria essenza divina
Rileggere Gramsci per capire l'escalation della Chiesa
di Orlando Franceschelli


Almeno qualche ragione Gramsci ce l'aveva di sicuro. Non solo quando invitava a «comprendere bene la posizione della Chiesa nella società moderna». Ma anche quando, verso la fine dei Quaderni, giudicava «non molto esatto» pensare che la Chiesa cattolica abbia «virtù di adattamento e di sviluppo inesauribili». La Chiesa infatti affronta questioni nuove come ad esempio quella sociale - o quelle etiche, aggiungeremmo oggi - ritenendole non «di prima linea», ma di riserva. Ed è disposta a lottare veramente «solo per difendere (…) i privilegi che proclama legati alla propria essenza divina». Una riflessione riaffiorata alla mente quasi con forza in questi primi giorni del 2008. Segnati, da un lato, dalla timidezza da più parti - e non a torto - rimproverata al nascente Partito democratico in fatto di laicità e temi etici. E, dall'altro, dal formidabile crescendo con cui i più alti rappresentanti della gerarchia sono tornati a rivendicare alla Chiesa il ruolo di garante della "vera laicità" e dei valori etico-politici degni dell'uomo. In una logica di neointegralismo antimoderno che suona come riprova non solo dell'attualità del timore gramsciano, ma anche dei rischi di nuovo conformismo neoguelfo che sarebbe interesse di tutti non assecondare.
Un crescendo, si diceva, davvero formidabile. Il segretario di stato Bertone ha evocato con nostalgia il Pci di Gramsci, Togliatti e Berlinguer per ammonire persino il Partito democratico a non emarginare i cattolici al proprio interno. Il vicario di Roma Ruini, all'unisono con Giuliano Ferrara, ha chiesto di nuovo la revisione della legge sull'aborto. Il presidente della Cei Bagnasco ha ricordato come la «vera laicità» risieda unicamente nella tutela dei «valori fondamentali dell'umanità dell'uomo» di cui la Chiesa si sente depositaria in ragione della sua stessa missione divina. Da assolvere «a prezzo di qualunque sacrificio». E controcorrente. Fino al punto, come a più riprese ha ribadito Benedetto XVI, di ritenere addirittura una minaccia per «gli stessi fondamenti della pace» tutti coloro che non fanno proprio il significato religioso attribuito dalla gerarchia «alla famiglia naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna».
Certo, l'accusa di essere anche guerrafondai rivolta alle donne e agli uomini che pensano di essere in grado e liberi di decidere come organizzare e vivere, con amore e rispetto reciproci, la propria vita sessuale e di coppia, costituisce una novità anche rispetto alla Nota con cui la Cei mobilitò i cattolici contro la minaccia portata dai Dico alla dignità umana. Ma forse proprio la riflessione di Gramsci aiuta a capire anche questi ulteriori - ultimi? - episodi di escalation integralista. Mediante i quali la Chiesa - meglio: la gerarchia - non esita a difendere il privilegio della propria missione divina rivendicando semplicemente l'esclusiva dei valori fondamentali e non negoziabili della "verità dell'uomo", che la coscienza moderna potrebbe solo oscurare (Benedetto XVI).
Gramsci individuava nella controriforma il primo "punto di rottura tra democrazia e Chiesa". Bisognosa, contro i luterani, di ricorrere "in grande stile" al braccio secolare. Ovviamente, oggi nessuno è più esposto a simili minacce. E nessuno chiede alla Chiesa di rinunciare alla sua essenza divina. Ma è innegabile che il modo in cui la gerarchia è tornata a esercitare i privilegi legati a una simile "essenza", implica proprio una nuova rottura tra Chiesa e coscienza moderna.

il Riformista 5.1.08
Berlusconi e Veltroni d'accordo per presentarsi al voto da soli
Anche con il referendum la situazione non cambia molto
di Giuseppe Tamburrano


Sì, è vero! Dini «facci un regalo» (Il Riformista del 27 dicembre 2007). Basta con gli annunci: prendi una decisione. E aggiungo: se Dini e gli altri senatori del suo gruppo o in bilico tolgono la fiducia al governo, Prodi dovrà dimettersi e aprire la crisi. Una volta crisi del genere si chiamavano «crisi al buio»: questa sarebbe al buio pesto. Anche perché su una nuova legge elettorale ogni giorno aumenta la Babele: ora ci si è messo anche Franceschini con la proposta del sistema francese e dell'elezione diretta del capo dello Stato.
Vorrei tentare di fare un po' di luce: il capo dello Stato non scioglie le Camere senza aver fatto un tentativo di formare un nuovo governo. È probabile che cerchi di promuovere un governo «istituzionale» in grado di cercare una maggioranza per una nuova legge elettorale - anche perché egli non si stanca di ripetere che non è opportuno votare con quella in vigore. Obiezione: sono in parecchi a ritenere - compreso Prodi - che se cade il governo si deve andare subito a elezioni anticipate.
Io credo che la formazione di un governo istituzionale non rinvierebbe a lungo le elezioni: poiché su una nuova legge elettorale non vi è, come ho detto, una maggioranza possibile, il governo avrebbe vita breve tanto da condurre lo stesso a elezioni anticipate e impedire quindi il referendum. Ma anche ammesso che la Corte dichiari legittimo il referendum, che si raggiunga il quorum elettorale e i quesiti siano approvati e che il risultato diventi legge di immediata attuazione con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, lo scenario non cambierebbe gran che. Il quesito referendario elimina dalla legge attuale la coalizione come beneficiaria del premio di maggioranza riservandolo solo alla lista che prende più voti (anche uno) di ciascuna delle altre in competizione. Si tenga però conto che la legge attuale stabilisce che il premio di maggioranza va alla coalizione o alla lista che ha preso più voti. Se, vigente l'attuale legge, non si formano coalizioni, oppure una lista singola prende più voti di tutte le altre, comprese quelle risultanti da coalizioni, il premio va alla lista più votata, come nell'ipotesi referendaria.
E qui si apre lo scenario politico. Io sono convinto che Veltroni e Berlusconi abbiano trovato l'intesa su un punto: andare al voto da soli. Veltroni lo proclama un giorno sì e uno pure: il Pd andrà alle elezioni da solo. E le ultime manovre di Berlusconi trovano una spiegazione "razionale" solo alla luce del disegno di scaricare gli ex alleati della Casa delle libertà e fare da solo il pieno dei voti del centrodestra fino a Storace.
Orbene si vada al voto anticipato subito o dopo un passaggio «istituzionale» con un governo Marini o di «attesa», guidato per la prima volta da una donna, Anna Finocchiaro, esponente di primo piano del partito più forte della maggioranza, Pd e Ppl andranno alle urne da soli e uno dei due prenderà la maggioranza assoluta alla Camera e assai probabilmente anche al Senato (non credo che una lista - o coalizione - della Cosa bianca anche con Montezemolo, Pezzotta e soci potrebbe piazzarsi al primo posto).
È certo che molti, specie i partiti medio-piccoli, insorgerebbero: essi però possono solo paralizzare il Parlamento in vita, ma dopo lo scioglimento potrebbero fare poco o niente. È probabile che Veltroni incontrerebbe molti ostacoli nel suo partito. Ma alla fine prevarrebbe lo spirito di corpo: e se Veltroni evita di dar vita di nuovo a una coalizione con la sinistra radicale, riproducendo i guai attuali, alla fine il Pd fronteggerà Berlusconi da solo a solo.
Si può osservare che una maggioranza conquistata col 30% dei voti o anche meno ricorda in modo sinistro la legge Acerbo fascista oppure che può essere a ragione considerata una «truffa». Ma questa eventualità è ineludibile perché è nella legge attuale e nel referendum: tertium non datur. Inoltre qualcuno osserva che essa è implicita nei sistemi uninominali a un turno, di cui nessuno contesta la democraticità. Io aggiungerò - solo per spirito di obbiettività - che in una competizione come quella descritta si avrebbe un effetto «voto utile». Berlusconi martellerebbe il popolo di centrodestra con lo slogan: se non volete far vincere un comunista dovete votare per me. E Veltroni risponderebbe: se non volete il Cavaliere nuovamente a Palazzo Chigi votate per me. Probabilmente il vincitore otterrebbe più del 30%: Amato ha ipotizzato due partiti all'incirca al 40%.
È certo, comunque, che da quella competizione uscirebbe una maggioranza (abbastanza) omogenea. Io chiederei a entrambi i maggiori partiti di impegnarsi a promuovere come prima cosa una riforma elettorale e istituzionale seria. Auspico - da decenni - il sistema francese che diventerebbe fattibile se Franceschini parla non a titolo personale. Andremo incontro a una specie di III Repubblica?

Dal Congresso di Vienna ai teocon: il vizio di decidere per gli altri
Cara Unità,
194 anni fa si teneva a Vienna l’omonimo Congresso. A parte la casuale coincidenza con il numero della legge diventata l’oggetto dell’ultima volgare scorreria teocon, c’è da registrare l’odiosa analogia tra i due avvenimenti: uomini che senza legittimazione alcuna impongono ad altri esseri umani le proprie regole di comportamento e il proprio credo, stabilendo a proprio piacimento regole e diritti, in spregio alla democrazia, alla convivenza civile e ai sentimenti dei popoli.
Roberto Martina

Cara Unità,
quando oramai si è sparsa la voce che uno è intelligente, sembra impossibile affermare il contrario e le sue corbellerie vengono considerate delle “provocazioni”. Così è per Giuliano Ferrara. Ma qualcuno, oltre al sottoscritto, ricorda le lezioni di sesso che il novello paladino della battaglia contro la legge 194 ideò e condusse per la Fininvest alcuni anni orsono? Ora, che la Chiesa pretenda di insegnarci come dobbiamo fare l’amore e come dobbiamo fare i figli è il vero ostacolo sulla via della laicità del nostro Paese, ma prendere lezioni sull’argomento dall’intelligente Ferrara non è un po’ troppo?
Paolo Izzo, Roma

Agi 4.1.08
left - Ambiente: Lester Brown, prezzi cibo saliranno ancora

(AGI) - Roma, 4 gen. - La nostra civilta' e' in pericolo perche' stiamo finendo
le scorte di grano e i prezzi degli alimenti non faranno che aumentare. E'
l'allarme lanciato da Lester Brown, presidente dell'Earth Policy Institute di
Washington, secondo cui "l'aumento del prezzo del cibo degli ultimi tempi non
e' un fatto temporaneo. L'anno prossimo sara' peggiore". Intervistato
da 'Left', la rivista diretta da Pino Di Maula, Brown illustra le tesi
contenute nella terza versione del suo bertseller, in uscita a meta'
gennaio: "Plan B 3.0 Mobilizing to save civilization". La conversione crescente
di terreni a usi non agricoli, la costruzione di strade e case, l'eccessivo
pompaggio di acqua e lo smodato consumo di risorse mettono il sistema sotto
pressione. "Se i prezzi continuano ad aumentare, vedremo ancora piu' gli Stati
andare in crisi". Per Brown la questione ambientale e' ogni anno piu' urgente
ed il fattore tempo sta diventando la risorsa piu' scarsa. I cambiamenti
climatici non investiranno solo l'Occidente (con lo scioglimento dell'Artico e
della Groenlandia il livello del mare salira' di sette metri e tante citta', a
cominciare da Venezia, dovranno essere abbandonate) ma anche Cina e India:
molti fiumi asiatici gia' ora sono secchi e se cio' accadra' al Gange i
problemi diventeranno ingestibili. "La verita' - conclude Brown - e' che siamo
tutti coinvolti. O ci salviamo tutti assieme o decliniamo tutti assieme". Per
ridurre le emissioni di C02 e affrontare le questione del cambiamento climatico
serve una ristrutturazione economica da tempi di guerra, "molto simile a quella
americana del 1942, dopo l'attacco giapponese a Pearl Herbor". La proposta e'
di ridurre le tasse sul reddito e aumentare quelle sui combustibili fossili: in
questo modo non combiera' la quantita' di tasse che paghiamo ma su cosa le
paghiamo. Tutto cio' incoraggerebbe automaticamente gli investimenti nelle
energie rinnovabili e scoraggerebbe quelli in centrali elettriche a carbone.
Tocca agli Stati Uniti - spiega Brown nel numero di 'Left' del 10 gennaio -
passare all'azione. "se lo fara', gli altri seguiranno". Il vento sara' la
fonte alternativa che si sviluppera' di piu': "entro il 2020 il 40%
dell'elettricita' mondiale verra' dall'eolico. Il resto sara' fornito
dall'energia solare, dalle biomasse e dal gas naturale". Il nucleare invece, a
suo giudizio, appare un'opzione non praticabile e economicamente non valida.
(AGI) Ing

Liberazione 4.1.08
Aborto e legge elettorale
Veltroni e il "gioco multiplo delle alleanze"
di Rina Gagliardi


Spiace doverlo dire, diciamo così, a muso duro: il Partito Democratico - che tra le proprie aspirazioni (e ispirazioni) costitutive aveva quella di rafforzare la politica italiana - sta diventando il principale fattore di disorientamento e di destabilizzazione della politica stessa. Spiace, perché, per quanto lontani siamo dal Pd, non consideriamo certo positivo un processo critico di questa portata, di questa natura e, soprattutto, di questa velocità. Ma i fatti più recenti, ahimè, ci dicono che esso rischia di essere soltanto agli inizi. Sulla spettacolare offensiva contro la legge 194, e sul pasticciatissimo dibattito sulla riforma elettorale, il partito di Veltroni appare non solo in preda alla schizofrenia e ad insanabili contraddizioni intestine, ma vittima di una pericolosa sindrome autoreferenziale. La pericolosa tendenza a "dettare l'agenda" delle priorità al Paese, al Governo Prodi, all'Unione - in ultima analisi, all'intera politica nazionale.
Stiamo parlando di questioni di grandissima rilevanza politica, sociale, culturale, a loro modo fondative, non certo di faccende secondarie. L'aborto, in primo luogo. Grazie alla geniale astuzia di Giuliano Ferrara (ma in verità per ragioni assai più generali e di fondo: l'americanizzazione galoppa a grandi passi), le alte gerarchie vaticane, dal cardinal Ruini al presidente della Cei Bagnasco, hanno scatenato un'aggressione frontale contro una delle poche leggi civili ancora in vigore in questo Paese - la legge che ha sconfitto l'aborto clandestino e che, come ha detto Livia Turco, ha prodotto in un paio di lustri il dimezzamento della pratica di interruzione della gravidanza. Un attacco, dunque, "a freddo", pretestuoso, strumentale. Ma, se era logico che le destre e i clericali si buttassero sull'occasione per loro ghiotta, perfino per un banale fine di cattiva propaganda o per una corposa battaglia simbolica, che cosa c'è stato di logico nella risposta del Piddì? Nulla. La senatrice Paola Binetti (per la quale personalmente nutriamo grande stima e simpatia) ha rilanciato, come per riflesso pavloviano, le sue più che note posizioni fondamentaliste, la ministra della salute ha (per fortuna) replicato come di dovere, insieme ad alcune altre (poche) figure femminili di spicco del centrosinistra. Ma che cosa pensi sull'argomento il principale partito italiano resta un mistero - un quiz insoluto. O meglio, anzi peggio, resta per ora agli atti che nel Pd hanno pari dignità, e piena legittimità, tanto l'integralismo cattolico quanto una "normale" posizione laica - civile. Resta quindi la sensazione di una totale inaffidabilità di questo partito su tutti quei terreni che hanno a che fare non con la laicità, ma con l'idea di Stato e con la tutela di alcuni diritti civili basici. E resta, sullo sfondo, un imbarazzo, una propensione difensiva, un'assenza di determinazione a dir poco allarmanti
Secondo capitolo, la riforma elettorale. Per un normale cittadino, è già molto difficile seguire la discussione, cogliere il senso concreto, e le conseguenze, di un meccanismo piuttosto che un altro, insomma partecipare alla contesa sul sistema francese, tedesco, spagnolo, o sul metodo D'Hont, o sul "Vassallum": l'unica cosa chiara, finora, era l'avvio di un dialogo, forse costruttivo, tra tutte le forze politiche, e nella sede giusta, vale a dire il Parlamento. Ma ora? Ora succede che, alla vigilia di una scadenza politica delicata come la verifica di gennaio, il numero due del Pd, Dario Franceschini (ormai di convinta fede veltroniana) se ne esce con una proposta - francese e presidenzialistica - che ha l'effetto di una bomba. Proprio come se nulla, finora, fosse accaduto. Proprio come se la "bozza Bianco" - la proposta sulla base della quale lavorerà il Senato - non fosse mai nata. Proprio come se l'intenzione reale, nemmeno tanto celata, fosse quella di far saltare l'intero banco e prepararsi al referendum Gazzetta, quello che vuole ridurre a due i partiti italiani capaci di rappresentanza istituzionale. Logico, in questo caso, che una parte del Pd non ci stia - e non ci stiano personalità significative del partito come Massimo D'Alema, Pier Luigi Bersani e Luciano Violante, per citare solo le reazioni pubbliche più forti. Quindi? Quindi, la riforma elettorale, da tema di confronto tra i partiti (tutti), è già diventato quasi il più consistente tema di scontro all'interno del Partito Democratico. Non solo. In tutta evidenza, non siamo certo soltanto ad una pur cospicua divergenza di opinioni, o di posizioni, sul sistema di voto, ma ad un conflitto politico più generale: il quale ha come vera posta in palio la sorte del governo Prodi, oltre che gli equilibri interni del Pd, e il "gioco multiplo delle alleanze" (e delle scomposizioni) tra il premier, i vicepremier, il leader democratico, il presidente del Senato.
Vedete bene che, a questo punto, la modellistica elettorale c'entra poco. Ancor meno c'entrano i famosi interessi generali del Paese, citati a proposito e a sproposito.
Ora, noi non arriviamo a sospettare, come molti sospettano, che Walter Veltroni stia lavorando contro questo quadro politico perché teme che, se esso superasse le forche caudine della primavera 2008, "rischi" di filare dritto fino alla fine della legislatura. Né pensiamo che l'attuale sindaco di Roma preponga ogni altro obiettivo politico al consolidamento della propria leadership, fino al punto da mettere in atto un'operazione "palingenetica" - detto brutalmente, un'operazione che spazzi via, dal partito nuovo che ha in mente, tutte le figure ingombranti del passato (comunista e democristiano). Ma una cosa ci pare abbastanza inoppugnabile: non si fa un partito "a vocazione maggioritaria" senza determinarne un profilo chiaro, un programma generale comprensibile, un gruppo dirigente vero, nuovo o vecchio o misto di nuovo e di vecchio che sia. In breve: sulla riforma elettorale, il Partito Democratico oscilla tra un'armata Brancaleone e un grosso container pieno di buchi.
Che dire? Forse, tutto questo è frutto, invece, di un calcolo di diabolica furbizia. Forse, una volta consumata l'idea della sintesi, nel Pd "a vocazione maggioritaria" si ritiene che l'unica strada percorribile sia quella di ospitare, su ogni tema, tutte le posizioni possibili - in modo da catturare il consenso degli elettori più svariati. Così, sull'aborto si cerca il sostegno del fronte clericale come di quello laico, la vicinanza al Vaticano come alle donne, l'approvazione degli "atei devoti" (e del pensiero forte reazionario) come degli atei tout court. E sulla riforma elettorale si va alla caccia di proporzionalisti come di maggioritaristi, di "tedeschisti" come di "francesisti". Eccetera eccetera. Alla fine, il Pd si conferma, come abbiamo pensato fin dall'inizio, come un Partito così nuovo che non ha più nulla a che fare con un partito: In realtà, è una Grande Famiglia: cioè il luogo dove notoriamente la violenza patriarcale fa le sue maggiori vittime. Dove, insomma, si litiga, ci si scanna, ci si uccide.

il manifesto 8.1.08
Ascesa e crollo di un boss nella Napoli del Seicento
Alla vita di Masaniello e al suo mito in Europa è dedicato un volume di Silvana d'Alessio, pubblicato per Salerno. Dai documenti raccolti dalla storica emerge la figura di un giovane capopopolo ben inserito nel racket che all'epoca dominava la città
di Marina Montesano


«Mendace riparazione / di un delitto preordinato/ il sepolcro di Masaniello / qui era ma fu tolto / per mire politiche / di un dispotico sovrano / nel 1799 / durante la rivoluzione partenopea». Con queste parole, incise su una lapide, viene celebrata la memoria del «capopopolo» Masaniello, elevato dalla tradizione risorgimentale a precursore della rivoluzione in nome di indipendenza e libertà. Una tradizione, quella degli studi su Masaniello, che appartiene al contempo alla storiografia e al mito, e a cui una biografia di recente pubblicazione (Silvana D'Alessio, Masaniello. La sua vita e il mito in Europa, Salerno Editrice, pp. 428, euro 27) a ragione dedica ampio spazio.
Si può anzi affermare che l'opera di Silvana D'Alessio sia divisa in tre parti: la prima dedicata alla biografia vera e propria di Masaniello, la seconda intitolata, appunto, «Breve storia del mito», e la terza che documenta, attraverso un apparato di note e bibliografia davvero imponenti, tutto il lavoro svolto dalla storica per collazionare fonti e studi sull'argomento. L'autrice sceglie, per questo suo lavoro, un orientamento nel quale in effetti le fonti sono assolutamente protagoniste e parlano spesso, attraverso lunghe citazioni, al lettore, mentre le opinioni di chi scrive sono decisamente in secondo piano; quasi che al lettore spetti l'ultima parola.
Il contesto delle vicende storiche in cui visse Masaniello viene posto, forse per questa ragione, in secondo piano. È dunque opportuno ricordarlo, almeno per rapidi tratti. Nella prima metà del Seicento, larghe zone d'Europa erano scosse dalla cosiddetta Guerra dei Trent'Anni, una successione di conflitti che, sia pure interconnessi, opponevano fra loro in diverse fasi numerosi Stati dell'Impero e Stati nazionali. Nella sua ultima fase, fra 1635 e 1648, furono soprattutto Francia e Spagna ad affrontarsi: ed è alla fine di questo periodo, appena prima della Pace di Vestfalia (1648), che si colloca la rivolta napoletana del 1647.
Come in molti altri casi, l'insurrezione popolare si accompagna e viene fomentata da interessi di politica internazionale. Nel corso di tutta la guerra dei Trent'Anni, il sostegno italo-castigliano agli imperiali era continuo; nel 1640 erano scoppiate altre insurrezioni all'interno dei territori della monarchia spagnola, allora guidata da Filippo IV. In Portogallo era salita al trono la dinastia dei Braganza, che separò per sempre quella corona dalla monarchia. Anche la Catalogna rivendicò la sua autonomia politica, con il sostegno francese e l'appoggio di autonomisti aragonesi e valenziani; ci vollero oltre dieci anni perché Barcellona si arrendesse alle forze casigliane inviate per ripristinare l'autorità del re.
Anche in Sicilia, in Sardegna e nel Milanese si registrò un atteggiamento francese di deciso sostegno a ogni ribellione antiasburgica, che tuttavia rimasero fedeli alla monarchia. E pure la rivolta napoletana capeggiata da Masaniello si colloca in quest'asse, e ugualmente la fedeltà dell'aristocrazia locale alla monarchia spagnola finì per decretarne il sostanziale fallimento.
Ma chi erano i rivoluzionari? La biografia di D'Alessio, focalizzando l'attenzione soprattutto sul personaggio Masaniello, lascia un po' in ombra il contesto locale, e in particolar modo quel nucleo di esponenti dei ceti borghesi, professionisti e ricchi artigiani, che ruotavano intorno a Giulio Genoino, un personaggio attivo già dagli anni Venti del Seicento, e che all'epoca della rivolta di Masaniello era ormai ottuagenario. L'età ormai più avanzata ha fatto propendere numerosi storici a identificarlo non tanto come il primo «mandante» di Masaniello, quanto piuttosto quale tramite fra gli interessi del suo ceto (e presumibilmente della corona di Francia) e la plebe dalla quale proveniva Masaniello.
Le pagine più interessanti della biografia sono proprio quelle dedicate alla figura del giovane capopopolo, che era certo un umile pescivendolo, ma che allo stesso tempo appare ben inserito nel racket che sembra dominare la Napoli dell'epoca. Poco più che ventenne, Masaniello aveva alle spalle un passato di contrabbandiere che l'aveva condotto più di una volta in carcere; conosceva avvocati (cioè appartenenti a quel ceto di professionisti che sosterrà la rivolta) che lo avevano aiutato in tali situazioni, e verso i quali, non casualmente, i rivoltosi si dimostreranno molto accomodanti; era insomma un personaggio verso il quale facilmente si poteva volgere l'attenzione di quanti avevano interesse a pilotare una insurrezione della «plebe» napoletana: sembra insomma che si possa intravedere, dalla vasta messe di fonti riportate alla luce da Silvana D'Alessio, un piccolo boss dei bassifondi della città partenopea.
Quando la situazione cominciò a sfuggire di mano, il Genoino fu pronto a lasciare il suo protetto in balia di una congiura ordita dal viceré, duca d'Arcos. Ormai Masaniello si sentiva assediato e abbandonato, al punto da richiedere lo sloggio di decine di famiglie che abitavano intorno alla sua residenza, alimentando così l'insoddisfazione della stessa plebe che l'aveva brevemente eletto a suo eroe. È la fase della cosiddetta «pazzia» di Masaniello, che potrebbe esser dovuta alla paranoia dettata dalla situazione, a quel punto obiettivamente disperata, nella quale ormai versava, ma anche - viene suggerito da diverse fonti - a un avvelenamento, magari a base di oppiacei, di quanti volevano affrettarne la caduta.

il manifesto 5.1.08
La bandiera rossa sventola su Montecitorio
Per 15 minuti, il primo maggio 1924, in pieno fascismo, «lo stracciaccio rosso di Mosca» viene issato sul balcone del Parlamento. Il gesto eroico è di Guido Picelli, deputato indipendente comunista, leader degli Arditi del popolo. Presto un film sulla sua vita
di Giancarlo Bocchi*


Il primo maggio 1924 non è un giorno di festa. Mussolini, che ha preso il potere da quasi due anni, ha abolito la Festa internazionale dei lavoratori. Malgrado l'imposizione del regime fascista le astensioni dal lavoro sono comunque massicce. Pattuglioni di agenti di polizia e di carabinieri si aggirano per le vie arrestando gli operai che non possono giustificare l'astensione dal lavoro. Solo nella capitale i lavoratori arrestati sono più di mille.
È in questo contesto che Guido Picelli, deputato comunista, già comandante degli Arditi del popolo durante la vittoriosa Battaglia di Parma del '22 contro migliaia di squadristi di Italo Balbo, progetta e attua un'azione solitaria e clamorosa. Picelli vuole sfidare il regime fascista proprio nel palazzo del Parlamento ormai in mano ai fascisti, anche grazie ai brogli elettorali.
Nelle elezioni che si sono svolte da poco la lista nazionale del fascio littorio ha riportato, secondo i conteggi ufficiali, 4 milioni di voti e eletto 356 deputati. Più i 19 fascisti eletti in una lista civetta. La sinistra ha ottenuto al Nord più voti dei fascisti, ma il risultato elettorale complessivo è disastroso. I socialisti hanno perso i 3/5 dei voti, mentre il Pc ha ottenuto un piccolo successo, eleggendo 19 deputati. Tra questi l'«indipendente» e ex deputato socialista Guido Picelli.
Il sistema delle preferenze indicate dal Partito è rigido. Ma Picelli vince ugualmente. È l'unico a essere eletto al di fuori delle preferenze del Partito, grazie al largo seguito popolare che ha in Emilia.
Picelli è alto, ha gli occhi intensi, luminosi e magnetici. Ha un portamento elegante e fiero che incute rispetto. Quella mattina del primo maggio del 1924, all'ingresso della Camera dei deputati i commessi lo salutano con deferenza, rispetto e forse commentano tra di loro: «L' on. Picelli è veramente matto a venire qui proprio oggi». È un giorno di tensione. Decine di deputati fascisti bivaccano nell'edificio.
Ma Picelli è uno che non ha paura di niente e di nessuno. Sulla tempia ha una cicatrice. È il segno di un colpo di rivoltella ricevuto nel marzo 1923. Un fascista di Parma aveva mirato dritto alla sua fronte e gli aveva sparato a bruciapelo. Per fortuna o per caso, Picelli si era salvato con un movimento istintivo della testa.
Negli ultimi mesi è scampato a numerose aggressioni che potevano diventare mortali. Con l' aiuto dei popolani dei borghi dell'Oltretorrente ha organizzato una rete segreta di percorsi e vie d'uscita per fuggire con gli uomini della sua organizzazione clandestina dei «Soldati del popolo» agli agguati e agli attentati squadristi. Per organizzare la resistenza e partecipare alle riunioni politiche riesce ad attraversare gran parte della città di Parma passando per i tetti delle case. Frequentemente salta dalle finestre e passa per gli scantinati e i sotterranei seguendo percorsi sconosciuti a altri. Per i fascisti locali è diventato l'imprendibile. Picelli non è un politico di primo piano come Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci o Palmiro Togliatti. Ma al contrario dei dirigenti può vantare di essere l'unico che ha sconfitto sul piano militare i fascisti durante la Battaglia di Parma, nelle 5 giornate dell'agosto 1922.
Per il proletariato italiano Picelli è una leggenda. Una leggenda che «ha un coraggio di ferro», come dicono i popolani della sua città. Anche per questo motivo è molto temuto dai fascisti, fuori e dentro il Parlamento.
Nell'ottobre 1923 venne organizzato un complotto (come poi avverrà mesi dopo per Matteotti) per farlo fuori. Vincenzo Tonti, infiltrato, strumento del regime, preso dal rimorso e affascinato dalla nobiltà d'animo di Picelli denuncia pubblicamente: «Gli orditori del complotto erano divisi da due opinioni: secondo alcuni l'on. Picelli doveva essere bastonato a sangue (...) secondo altri, egli doveva scomparire addirittura». Chi erano gli organizzatori del complotto? Tonti denuncia il generale Agostini, il generale Sacco, il vicequestore Angelucci e Italo Balbo. Il complotto doveva avere inizio proprio davanti alla Camera dei deputati. Un portiere infedele, vedendo uscire Picelli, doveva avvertire i sicari del regime.
Ma quel primo maggio del 1924 Picelli non si cura dei complotti e dei rischi che corre. Ha in testa l'azione che deve portare a termine. È deciso, determinato. Dopo essere riuscito a seminare i pedinatori, a far perdere le sue tracce agli sbirri che lo seguono giorno e notte, attraversa i corridoi di Montecitorio con l'aria decisa di chi ha un lavoro urgente da fare. In mano ha il solito bastone da passeggio, che a volte gli serve come arma di difesa, e tiene sottobraccio qualcosa di morbido avvolto in una carta. Sale lo scalone del palazzo e senza dare nell'occhio arriva al primo piano. Attraversa alcune sale, si dirige verso la grande finestra prospiciente il balcone sulla facciata principale sulla piazza di Montecitorio .
Picelli esce sul balcone, scarta il pacchetto che aveva sottobraccio e srotola un grande drappo rosso ornato di falce e martello. L'asta portabandiera che si protende sulla piazza è nuda. Il tricolore sabaudo viene inalberato solo durante le sedute del Parlamento. Ma in quel momento non c'è alcuna bandiera perché la nuova legislatura non è ancora iniziata. Picelli con l' aiuto di alcuni pezzi di spago fissa il vessillo rosso sull' asta .
Dalla piazza i passanti, le forze dell'ordine e i fascisti guardano allibiti il vessillo rosso dei lavoratori e del comunismo che sventola placidamente sul palazzo del parlamento del regno. Picelli, anche approfittando del trambusto e confusione, scende tranquillamente le scale ed esce dal palazzo. Nessuno lo ferma. Nessuno gli chiede niente.
Il suo non è un atto per riaffermare lo slogan bordighista «Rosso contro tricolore», ma piuttosto un gesto simbolico per affermare che la Festa dei lavoratori non si tocca.
La polizia, dopo aver rimosso il corpo del reato dall' asta del palazzo del Parlamento, svolge intense e urgenti indagini. Benito Mussolini, che non si è ancora trasferito a Palazzo Venezia e alberga da presidente del consiglio nel vicino palazzo Chigi è furioso: «Ancora quel Picelli!». Probabilmente in Mussolini quel giorno riaffiorano i timori espressi prima della marcia su Roma: «Non possiamo arrivare a Roma lasciandoci alle spalle una situazione scoperta e pericolosa come quella di Parma». I primi rapporti di polizia arrivano alle 16.30 dello stesso giorno nelle mani del capo della polizia: «Verso le ore 14, l' on. Dudan, entrato con l'ing. Foscolo del Comune di Roma, nel salone di lettura della Camera, si era accorto che era stato attaccato all'asta della bandiera, posta al balcone di centro del 1° piano del Palazzo di Montecitorio, un drappo rosso (...). Immediatamente l'on. Dudan si era affrettato a togliere quel drappo, informandone successivamente la Questura della camera. Questa avrebbe raccolto sufficienti elementi per ritenere autore del gesto inconsulto l' on. Picelli, deputato di Parma, che non è stato più rintracciato nel locali della Camera».
Il rapporto del questore, il giorno dopo si si arricchisce di particolari : «Alle ore 13.45 di ieri l' on. Dudan e l' architetto Fasolo (Foscolo nel secondo rapporto di polizia diventa Fasolo) del comune di Roma, saliti al salone dei giornali, alla Camera dei Deputati, notarono che un individuo vestito di nero, sbarbato, si ritirava dal balcone prospiciente su piazza Montecitorio, allontanandosi frettolosamente dal salone stesso. Insospettito, l' on. Dudan si avvicinò al balcone e si accorse che un drappo rosso era stato legato all' asta della bandiera». Quindi, secondo i documenti ufficiali , la bandiera rossa dei lavoratori e del comunismo sventolò per almeno 15 minuti sul palazzo del Parlamento italiano.
L'epilogo della clamorosa azione avviene alle 17.30 dello stesso giorno. Picelli viene rintracciato dalla polizia in via Uffici del Vicario e «tratto in arresto». Secondo il rapporto della Questura «L' on. Picelli confessò (sic) il fatto aggiungendo di aver voluto compiere una affermazione di carattere sentimentale e politico». Il questore inviperito per la beffa arresta Picelli «per delitto di offesa alla bandiera nazionale, ai sensi dell' articolo 115 Codice Penale».
Come ricordò Umberto Terracini anni dopo, Picelli compì l' azione «temerariamente e di sua iniziativa» aggiungendo poi che «dopo che essa fu compiuta certamente nessuno dei compagni di partito gliene fece rimprovero».
Dopo poche settimane, l'10 giugno 1924, viene rapito e assassinato a Roma da sicari fascisti il deputato socialista Giacomo Matteotti. Il 30 maggio 1924 Matteotti aveva preso la parola alla Camera elencando tutte le illegalità e gli abusi commessi dai fascisti per vincere le elezioni. Nel discorso venne pronunciata la profetica frase: «uccidete pure me, ma l'idea che è in me non l'ucciderete mai». Il corpo di Matteotti viene ritrovato il 16 agosto in un bosco nel comune di Riano a 25 km da Roma. L'intero paese è scosso da un'ondata di sdegno e d' indignazione. Il regime fascista vacilla.
Il 17 luglio al Comitato Centrale del Partito, Picelli propone la linea dell'azione: «L' organizzazione di carattere militare deve essere rafforzata. Da un momento all' altro noi possiamo essere trascinati sul terreno dell'azione e guai se il Partito non fosse in condizione di compiere interamente il suo dovere...». Come ai tempi della battaglia di Parma del 1922, il suo appello all'«unità e all' azione» non sarà ascoltato.
* cineasta