mercoledì 9 gennaio 2008

I laici del Pd: «Nessun cedimento su etica e diritti»
Cento firme per l’appello, tra i promotori il ministro Pollastrini. Aborto, sì di Veltroni al dialogo con Ferrara

In testa la firma del ministro Barbara Pollastrini e quella del filosofo Salvatore Veca, a seguire quelle di intellettuali, parlamentari, amministratori, donne e uomini di diversa provenienza del Partito Democratico. Un appello per i diritti umani e civili, la libertà e responsabilità della persona, l’autonomia femminile, l’indipendenza e il principio di precauzione della scienza. Il documento - come spiegano i promotori - ha ottenuto già un centinaio di adesioni, sfruttando il semplice passaparola.
Intanto dopo l’offensiva aperta dalla Chiesa e da settori della destra contro la legge 194, partono le prove di dialogo. Il leader del Pd, Walter Veltroni, ribadisce che la legge non si tocca ma aggiunge che ritiene «utile» il dialogo di merito proposto da Giuliano Ferrara: «Non mi spaventa una discussione di merito che tenga a rafforzare gli aspetti di merito».


l’Unità 9.1.08
Parola di Chiara
di Maria Novella Oppo


LA SOCIOLOGA Chiara Saraceno ieri mattina a Omnibus ha detto delle parole così chiare e giuste sull’aborto che più di una spettatrice si sarà commossa. In particolare quando ha cercato di spiegare a Buttiglione che non si può obbligare la donna a partorire, perché «se non c’è il sì della donna, non c’è vita». Ecco il punto, portato alla sua estrema chiarezza. Ed è proprio il punto che molti uomini fanno fatica ad accettare. Non sopportano che le donne decidano del loro corpo e della loro vita, se non in funzione degli uomini. Per questo reagiscono malissimo a ogni no. La cronaca nera è piena di esempi estremi, mentre la cronaca politica è piena di esempi cinici. Come la richiesta di moratoria per l’aborto, che avvicina le donne al boia. Chi la propone finge di ignorare che l’unico modo per diminuire davvero il numero degli aborti in Italia è la legge 194. Ma a Giuliano Ferrara questo non interessa, mentre il fatto che il Papa si accodi ai furbetti del catechismo come Ferrara, per noi laici rappresenta il crollo dell’autorità morale della Chiesa.

l’Unità 9.1.08
Anarchia feudale e caso Napoli
di Bruno Gravagnuolo


Turati spregiato. Non solo Giovanni Belardelli non ha letto il libro su Turati di Spencer Di Scala (ed. «Critica sociale») di cui già vi parlammo, come ribatte Di Scala a Belardelli sul Corsera di lunedì. Ma in ogni caso non ne ha capito il «senso». E il senso era quello di riproporre all’attenzione la figura chiave di un socialista che per primo in Italia coniugò democrazia e socialismo. Senza sconti al Pci, che pur senza dirlo, ripercorse la sua strada. Come del resto preconizzò Turati all’atto della scissione di Livorno nel 1921: ritornerete sui vostri passi... Quanto a Berlinguer, non c’entra un’acca la «revisione» di Silvio Pons a riguardo. Fu ambivalente sull’Urss, malgrado lo strappo. E nondimeno calcò una pista riformista, con la sua politica del «patto tra produttori». Enunciato per primo da Turati a fronte di Giolitti nel 1920, in un celebre discorso. Turati debole coi massimalisti? No, ma oscillante sull’idea di governo e in più travolto dal 1914 e dal 1917! Difficile in quelle condizioni far prevalere il riformismo, con Mussolini che passa alla guerra, la crisi, l’Ottobre, il fascismo montante. Come che sia Turati meriterebbe almeno rispetto ed equanimità da storici. E non polemichette alla Belardelli.
Sfascio e partito personale Ha ragione Paolo Macry sul Corsera. La tragedia napoletana va vista anche dentro l’«anarchia feudale» sprigionata dalla deriva «federale» delle perifirie, a partire dagli anni 90. Con moltiplicazione dei centri di spesa, fine dei partiti nazionali, liquefazione della statualità, nascita di partiti personali e trasversali, miracolismo leaderistico: cento padelle e tanti «capataz». Non sarebbe l’ora di una profonda revisione di tante illusioni «maggioritariste» e decisioniste, che hanno squinternato la politica come fatto nazionale e di appartenenza? Sì, sarebbe l’ora. Ma non spunta ancora.
Dei delitti e delle pene Dice di non voler giudicare le donne che abortiscono bensì «l’omicidio», Giuliano Ferrara alla Stampa. Ma vorrebbe che il «concetto» fosse inserito nella Carta dei diritti dell’Onu. Sicché Ferrara sotto specie di moratoria lavora alla predefinizione etica di un reato: l’aborto. E poiché non v’è reato senza pena, al delitto seguirà la sanzione. Nullum crimen sine lege . E sine poena. Il resto sono chiacchiere (furbe).

l’Unità 9.1.08
Beni culturali, la girandola impazzita
di Vittorio Emiliani


Continua il valzer di nomine nel campo dei beni culturali e paesaggistici, tra dipartimenti
vari e soprintendenze: il risultato è quello di svuotarli di operatività e di senso politico

L’ultimo caso - clamoroso - è quello del Darc, dipartimento per l’arte contemporanea, retto con successo e capacità da Pio Baldi: con l’ultimo turbine di nomine l’hanno mandato a fare l’anno sabbatico

Un paradosso tutto italiano: da un lato si continua ad esaltare la quantità/qualità del patrimonio archeologico-storico-artistico-paesaggistico italiano, anche come fondamentale valore economico, occupazionale, attrattivo, etc. etc.; dall’altro la rete tecnica, scientifica e amministrativa preposta a tutelarlo, già debole, diventa precaria, con buchi evidenti di personale, uffici retti ad interim e, negli ultimi anni e mesi, un turbinoso valzer di nomine e di spostamenti o scossoni che certo non giovano all’autorevolezza delle Soprintendenze nei confronti delle Regioni, degli Enti locali, dei privati, del mondo artistico internazionale. Al contrario. Ma che politica si vuole attuare per i nostri pregiati beni culturali e paesaggistici? Con quali poteri e presidii su di un territorio molto diverso, e che quindi esige attenzioni e competenze specifiche? Qual è la ratio generale di tutto ciò?
Il caso più clamoroso - di cui ha parlato in cronaca di Roma anche questo giornale - è quello del Darc, dipartimento per l’arte contemporanea, retto con successo da un direttore generale della qualità di Pio Baldi, già valido soprintendente a Siena (con lui la lottizzazione di Monticchiello probabilmente non ci sarebbe stata, né lo scandalo di Casole d’Elsa) e nel Lazio e che, con l’ultimo turbinare di nomine si ritrova invece titolare di un «incarico di studio», una sorta di anno sabbatico. Baldi non ha commentato. Giustamente attende di vedere gli atti, le motivazioni. Certo, in molti gli hanno espresso pubblica solidarietà per il lavoro compiuto (ad esempio per il Maxxi, anche all’estero) mettendo in luce una delle contraddizioni più stridenti dell’ultimo giro di spostamenti qualificato al Collegio Romano come «normale avvicendamento». Anzi, il capo di gabinetto Guido Improta ha precisato che con l’entrata in vigore del nuovo regolamento (criticatissimo), se non si ruotassero i dirigenti dei BC ogni tre anni, «si tradirebbe lo spirito del decreto legislativo n.165/2001». Che, palesemente, impone regole politiche sbagliate ad una dirigenza tecnico-scientifica che ha nello studio e nel rapporto col territorio i suoi punti di forza. «Tradiamolo» pure lo spirito di un decreto legislativo se va contro ogni logica e ogni storia amministrativa.
Col governo Berlusconi si trattò di vero e proprio spoil system in base alle leggi Bassanini-Frattini (micidiali per una amministrazione tecnico-scientifica), con la rimozione e messa in disparte di Francesco Scoppola dalla direzione regionale delle Marche (dove aveva messo vincoli «pesanti» sulla zona di cave di Cagli e sul centro storico di Urbino), con l’«esilio» di Ruggero Martines da soprintendente a Roma (un classico promoveatur ut amoveatur) a direttore regionale in Molise e con la retrocessione di Mario Lolli Ghetti dalla Toscana alle Marche. Giustamente il ministro Francesco Rutelli ha nominato Giuseppe Proietti segretario generale, Scoppola direttore regionale in Umbria, Martines in Puglia con interim sul Molise e riportato Lolli Ghetti in Toscana. Poi però, questa estate, i primi valzer sconcertanti: uno dei più bravi fra i direttore regionali, Stefano De Caro, stimato archeologo, che tanto si era adoperato in Campania anche per i progetti finanziati dalla Ue, portato a Roma alla direzione generale dei beni archeologici dalla quale veniva però rimossa la apprezzata Anna Maria Reggiani spedita in Abruzzo nonostante gli appelli dei colleghi. A Napoli veniva mandata, al posto di De Caro, una semplice funzionaria, Vittoria Garibaldi con un (ricco) contratto privato da esterno, in attesa di concorso. Fra mille perplessità sul piano del metodo e dell’opportunità.
La più recente rotazione di incarichi - più un roteare che un ruotare - ha aggravato le perplessità, anche semplicemente funzionali.
Del caso più eclatante di Pio Baldi s’è detto. Incomprensibile oltre che grave. Al suo posto arriva un valido direttore regionale, Carla Di Francesco, che poco o nulla però si è occupata di arte contemporanea e che invece ha ben sostenuto la coraggiosa battaglia del sindaco di Mantova, Fiorenza Brioni, contro la devastazione della riva del lago di fronte al Castello di San Giorgio. In Lombardia - dove la Regione sta promuovendo la più vasta e dissennata «deregolazione» urbanistica lasciando costruire, in pratica, dovunque - va un direttore dell’Ufficio legislativo centrale. Prima che si sia ambientato e «armato», ce ne vorrà. Poi c’è il caso di Luciano Scala che stava operando bene alle Biblioteche e che viene paracadutato in un altro pianeta: alla direzione regionale della Campania da cui rientra Vittoria Garibaldi, scadutole l’anno di contratto esterno (e torna in Umbria da funzionaria in attesa di concorso). Paolo Scalpellini in pochissimi anni è transitato in Basilicata, poi in Sardegna, e da qui ora viene spedito in Calabria. E via ruotando, vorticosamente.
In compenso ci sono da molti mesi undici vincitori di concorso per soprintendenti ai beni storici e artistici i quali attendono di venire insediati. Pare che debbano fare dei corsi di management. Per ora studiano per conto loro o si girano i pollici. Un altro concorso, indetto per quattro posti per storici dell’arte (di recente quasi spariti dai piani alti del Ministero a tutto vantaggio di architetti e amministrativi), già viene maliziosamente chiamato dei «bocciati/redenti». Molte Soprintendenze archeologiche sono rette «ad interim», cioè malamente. Ma i dieci concorsi per archeologi sono da poco in atto e già alcune sedi vengono accorpate: per esempio se ne fa una sola nella vasta e diversa Sardegna unendo Sassari a Cagliari. Del resto, a Roma si è accorpata ai Beni architettonici quella Direzione generale dei Beni storici e artistici da cui nacque, coi beni archeologici, la tutela nel Belpaese. E ci è andato, direttore generale, un architetto, naturalmente: Roberto Cecchi, uno dei potenti nell’éra Urbani, non proprio memorabile.
Nel vorticare di nomine, spostamenti, rotazioni si intravvede un piano generale di ristrutturazione della rete di tutela che porti al suo miglioramento e potenziamento? Francamente no. Né si scorgono, ci sembra, i segni di una recuperata meritocrazia. La tutela esige anche stabilità di guida, di comando, conoscenza specifica della storia di un territorio. La precarietà induce allineamento, conformismo. A meno che i soprintendenti non debbano venire ridotti - come vogliono certe Regioni, a cominciare dal Friuli o dalla Toscana - a meri consulenti tecnici degli Enti locali ai quali intanto viene sub-delegata la tutela del paesaggio, poi si vedrà. A loro che anche l’ultima Finanziaria spinge invece a incentivare a tutto spiano l’edilizia onde trarne i proventi per turare le falle di bilancio. Nel fracassante silenzio generale, dei ministri del Paesaggio per primi. E col Consiglio Superiore dei Beni Culturali rivitalizzato per non venire poi ascoltato, nei rilievi e nelle proposte.

Repubblica 9.1.08
Il ministro degli Esteri prepara una convention, i fedelissimi del premier si riorganizzano
Nel Pd si riarmano le correnti dalemiani e ulivisti all'offensiva
di Goffredo De Marchis


Nascono anche lobby tematiche. Un appello ai laici di Cuperlo e Pollastrini
Come risposta difensiva potrebbe costituirsi in area anche l´entourage del segretario

ROMA - Lui ha invocato fin dall´inizio «un partito senza correnti», viste come la peste della politica. Ma in questi giorni sono proprio gli uomini più vicini a Walter Veltroni e ai vertici del Partito democratico a chiedersi se non sia il caso di uscire dall´accerchiamento con una formula vecchia come il cucco ma sempre efficace. Il capo della segreteria di Dario Franceschini, Antonello Giacomelli, da qualche giorno fa sapere in giro che «abbiamo assolutamente bisogno di creare la corrente di Walter». È chiaramente una risposta istintiva e soprattutto difensiva di fronte ai segnali che arrivano chiarissimi dalle antiche aree di riferimento della Quercia, della Margherita, del Ppi: si stanno riorganizzando, altrochè. E non fanno nulla per nascondersi. Naturalmente, la componente più monitorata (e più pericolosa) per il vertice del loft è quella che fa capo a Massimo D´Alema. I dalemiani sono lo spauracchio dei veltroniani (e viceversa) da più di un decennio. Adesso gli uomini vicini al ministro degli Esteri hanno deciso di venire allo scoperto, proprio nel momento del massimo sforzo di costruzione del partito. Non a caso.
Il 26 gennaio, un sabato, D´Alema riunisce a Roma una convention sul Partito democratico. L´iniziativa ha una cornice autorevole, è organizzata dalla Fondazione Italianieuropei che quest´anno festeggia il suo decennale. Verranno invitati senza dubbio il segretario Veltroni e il premier Romano Prodi. Ma a suo modo quell´appuntamento vuole trasformarsi in una prova di forza e avrà ben poco di seminariale. Lo staff del titolare della Farnesina sta infatti cercando una sala che possa contenere quasi un migliaio di persone, una piccola folla. Qualcuno non potrà che interpretarla come una prova tecnica di corrente. Quel 26 ci saranno tutti i dirigenti dalemiani di stretta osservanza: Finocchiaro, Latorre, Violante, Fassino, Bersani.
I sintomi di un´offensiva dunque ci sono tutti. L´entourage del sindaco tiene d´occhio, da qualche tempo, un sito indipendente legato però a esponenti dell´area dalemiana. È www.leftwing.it. Sulla sua homepage campeggia un articolo anonimo severissimo con il segretario che s´intitola "Contro il veltronismo". Dove si invita Veltroni a convocare finalmente il congresso «per sottoporre la sua piattaforma al voto dei delegati». Ma altre spinte centripete si osservano sotto l´ulivetto del simbolo Pd.
Da qualche settimana Roberto Zaccaria e Mario Barbi stanno cercando di organizzare l´area che si richiama alla candidata delle primarie Rosy Bindi e Arturo Parisi. In sostanza, i prodiani doc. L´ex presidente della Rai dà spesso appuntamento agli "iscritti" nella vecchia sede di Santi Apostoli, Barbi cerca di convincere il ministro della Difesa a prendere le redini della componente. Finora invano, Parisi non vuole sentir parlare di correnti, pur avendo molte riserve sulla gestione di Veltroni.
Enrico Letta, altro sfidante di Veltroni il 14 ottobre, è stato l´unico a prendere alla lettera il segretario. Almeno all´inizio. Non riunì i suoi eletti nemmeno la notte prima della Costituente di Milano. Ma adesso i lettiani si muovono e intorno all´"associazione 360°", nata per iniziativa dello stesso Letta e di Umberto Ranieri, muovono i loro primi passi (hanno un sito web). Passi che per il momento coincidono con quelli dei dalemiani. Dalla legge elettorale al congresso, allo statuto, Letta e D´Alema si sono sempre trovati affiancati. Beppe Fioroni non ha certo smesso di tenere le fila dei dirigenti vicini a Franco Marini, una parte degli ex popolari. In questo gruppo il presidente dei deputati Soro è l´ufficiale di collegamento con Veltroni.
Il Pd insomma si sta organizzando seguendo la regola delle cosiddette aree politico-culturali, che tradotto significa: esplosione delle correnti. Proprio ciò che Veltroni voleva evitare. E accanto alle componenti classiche stanno nascendo anche gruppi di pressione interni (lobby, per la terminologia anglosassone) su temi specifici. I laici si sono strutturati ora intorno a un appello, pubblicato oggi dall´Unità e animato da Barbara Pollastrini e Gianni Cuperlo, ma firmato da 96 persone, tra cui Miriam Mafai, i cattolici Albertina Soliani e Stefano Ceccanti, il liberale Zanone. «Siamo inquieti, senza dubbio - sintetizza Cuperlo -. Non vediamo un punto di equilibrio e vorremmo approfondire temi che non sono solo etici, ma hanno a che fare con la crescita della società, con lo sviluppo». Zanone annuncia un convegno dei laici del Pd alla fine di gennaio con Bassanini e Enzo Bianco. A questa strutturazione laica si contrappone la piccola ma agguerrita pattuglia di teodem con Binetti, Carra e Bobba.
Siamo perciò al paradosso che il partito non c´è, ma le correnti sì. E per Veltroni, su questo terreno, si profila una sconfitta annunciata. A meno di non prendere per buone le voci maliziose su un suo "correntone" forte e ben strutturato. Guidato con polso fermo, riunioni continue e telefonate a tappeto dal fedelissimo Goffredo Bettini.

Repubblica 9.1.08
Processi di beatificazione, giro di vite di Benedetto XVI
Il richiamo di padre Amorth: tra i preti troppa rilassatezza nella lotta al demonio
Il Papa: più severità sui santi. L'esorcista: Satana anche in Vaticano
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - Giro di vite di papa Ratzinger sui processi di beatificazione e canonizzazione. Vescovi e postulatori - gli ecclesiastici che promuovono le cause di santificazione nelle diocesi - dovranno seguire norme più severe nell´iter istruttorio per la proclamazione di santi e beati. Presto sarà pubblicato un nuovo documento (Instructiones) per i processi canonici per imporre «più sobrietà, maggiore rigore, massima cautela e profonda accuratezza storico-documentale e nella raccolta delle testimonianze».
Quasi una rivoluzione annunciata all´Osservatore Romano, il giornale della Santa Sede, dal cardinale portoghese Josè Saraiva Martins, prefetto della Congregazione per le cause dei santi. Nel documento di 20 pagine - sarà presentato nella Sala stampa vaticana - si chiederà, spiega il cardinale, a vescovi diocesani e postulatori di essere più severi «nell´accogliere richieste di apertura di nuovi processi diocesani». Un provvedimento fortemente sollecitato dal papa, assicura Saraiva Martins, «per meglio rispondere allo spirito nuovo introdotto da Benedetto XVI nelle procedure del rito di beatificazione, innovazioni molto importanti, capaci di sottolineare in modo efficace la teologia della Chiesa locale così come è stata riaffermata con forza dal Concilio Vaticano II». Maggior rigore significherà meno cause, ma anche minor affollamento di istruttorie canoniche alla Congregazione per le cause dei santi dove sono al vaglio oltre 2.200 procedimenti, tra cui le attese beatificazioni di Giovanni Paolo II («Ma ci vorrà tempo», puntualizza il cardinale Saraiva Martins), del cardinale inglese Newman, che si convertì dall´anglicanesimo, e di Antonia Meo (Nennolina), che morì a sei anni e sarà, quindi, la più giovane santa. Saraiva Martins esclude, comunque, che in Vaticano si vuole così rispondere a chi accusa la Chiesa di essere una «fabbrica di santi», specialmente nel corso degli ultimi due pontificati (Wojtyla ha fatto 1345 beati e 483 santi; Ratzinger, 559 beati e 14 santi). «A chi parla di "fabbrica dei santi" - taglia corto il cardinale - non vale nemmeno la pena rispondere perché è gente che non capisce la grandezza della santità e dunque non sa che i santi sono voluti da Dio e non si fanno».
Possibili novità anche sugli esorcismi. Nella prima parte del 2008 Benedetto XVI potrebbe varare nuove norme per combattere il demonio. Lo ha annunziato nei giorni scorsi padre Gabriele Amorth, decano degli esorcisti, che in una intervista ad un giornale tedesco, Der Spiegel, ha lamentato che tra i preti c´è una certa «rilassatezza» nella lotta a Satana, «un peccato avvertito anche in Vaticano dove ci sono demoni e sette sataniche».

Repubblica 9.1.08
Un saggio di Anna Rossi Doria sul silenzio delle donne
La storia non scritta del femminismo
di Miriam Mafai


È stata un´utopia diventata concreta, una stagione felice e breve, chiusa irreparabilmente dagli eventi del 1977 culminati nell´uccisione di Aldo Moro

«Ogni generazione ha diritto di scrivere per prima la storia degli eventi cui ha partecipato», scriveva Marc Bloch. Forse ne ha anche il dovere. Ma per il femminismo degli anni Settanta questo non si è ancora verificato. Qualcuno, o meglio qualcuna di coloro che hanno animato o partecipato al movimento femminista ci prova. Ma restano storie parziali, abbozzi di autobiografie, raccolte di documenti, primi avvii di ricerca. Anche quando chi scrive è stato tra i protagonisti di quelle vicende. E´ il caso di Anna Rossi Doria, uno dei nostri migliori storici, che ha dedicato gran parte del suo lavoro alla storia delle donne, e che non a caso ha scelto per questa sua ultima fatica un titolo allusivo e intrigante. (Anna Rossi Doria: Dare forma al silenzio, Viella, pagg. 320, euro 27).
Il silenzio delle donne, esordisce l´autrice, «è antico, profondo, tenace, particolarmente pesante nella sfera politica che fu a lungo, insieme al diritto, il luogo della massima esclusione delle donne. L´individualità e la cittadinanza, tra loro strettamente connesse, verranno conquistate dalle donne alla fine di un processo difficile e contrastato, durato nei paesi occidentali oltre un secolo e non interamente compiuto nemmeno oggi».
A questa tormentata vicenda sono dedicati i saggi della prima parte del libro. Vengono ricostruiti così momenti importanti della storia inglese americana e italiana degli ultimi due secoli segnati dalla lotta condotta da gruppi e associazioni femminili per accedere alla politica e ridefinirla. Si va allora da una analisi della legislazione vittoriana sul lavoro delle donne a una ricostruzione delle lotte e delle idee del suffragismo, fino ad una ricostruzione attenta della presenza delle donne sulla scena politica italiana sia nel dibattito politico nella fase della Resistenza (generalmente ignorato o sottovalutato) sia nella fase della conquista del voto e della elaborazione della nostra Costituzione.
Una seconda, corposa parte del lavoro della Rossi Doria è dedicata alle vicende del nostro femminismo. L´autrice ha incontrato a suo tempo il femminismo e lo ha vissuto intensamente «con l´entusiasmo», scrive «di quella che mi pareva un´utopia diventata concreta, una stagione felice e breve, chiusa irreparabilmente dagli eventi del 1977 e dal delitto Moro».
Secondo la periodizzazione della Rossi Doria, la stagione «felice e breve» del femminismo italiano può essere scandita in quattro fasi: la nascita (1968-1972), i collettivi (1972-1974), il movimento di massa (1974-1976), la crisi (1977-1979). E dalla crisi il movimento uscirà rifugiandosi nel lavoro culturale, nella pratica «intraducibile» dell´autocoscienza, fondando librerie, associazioni, riviste, circoli tra cui il famosissimo Virginia Woolf di Roma. Sarà il terrorismo, ha ragione la Rossi Doria, a chiudere, in modo drammatico, la disordinata ma felice stagione dei movimenti. Di tutti i movimenti, compreso quello dei giovani e degli operai. Ma il femminismo ostenta, come ci riferisce in una sua lontana ma importante ricerca Anna Maria Mori, la sua indifferenza rispetto al terrorismo. L´appello di quelle settimane al senso dello Stato e alla pietà per le vittime non raggiunge le donne che partecipano a quel movimento, non le riguarda.
La storia del femminismo (che è, evidentemente, cosa diversa dalla storia della donne) è ancora comunque tutta da scrivere, per metterne in luce limiti successi e paradossi. Il primo dei quali, scrive l´autrice, è quello per cui «le elaborazioni femministe che hanno prevalso negli anni Ottanta e Novanta, legate alla impostazione filosofica del pensiero della differenza hanno costruito e trasmesso una visione per cui proprio il femminismo italiano, che aveva avuto un carattere di massa superiore a quello di ogni altro paese, è stato invece rappresentato come un percorso di piccoli gruppi o singole pensatrici, sia pure grandi, Carla Lonzi su tutte». Una contraddizione, certamente. Confermata dal fatto che in generale il femminismo italiano, molto critico nei confronti del movimento di emancipazione che aveva contrassegnato tutta la storia del dopoguerra, si disinteressò alla elaborazione e alla conquista di leggi che pure hanno segnato un reale avanzamento della condizione delle donne nel nostro paese. Basti ricordare a questo proposito la legge sul divorzio e quella sull´aborto (confermate dai successivi referendum), quella sui consultori, sul nuovo diritto di famiglia, sulla parità. Leggi peraltro rivendicate da un vasto movimento di donne e salutate da quel movimento e dalla opinione pubblica democratica come uno storico successo.
In questa contraddizione (o in questo sovrapporsi) tra un vasto movimento di massa e il percorso ideologico di piccoli gruppi sta forse il mistero o il fascino del femminismo italiano. E la difficoltà di ricostruirne una storia completa, che tenga insieme le due anime o le due vicende: quella del movimento di massa e quello dei piccoli gruppi e di singole teoriche del «pensiero della differenza».
Ma sta qui anche, probabilmente, la radice del misterioso ma felice sopravvivere del movimento, nonostante gli anni che ci separano da allora e da quel dibattito culturale. Vanno ricercate probabilmente in quelle lontane contaminazioni (tra movimenti di massa e spinte culturali) e in quelle contraddizioni la capacità «carsica» del movimento, il suo improvviso o imprevisto riemergere, quasi a sorpresa, come è accaduto recentemente prima nel corso della manifestazione milanese a difesa della legge 194, poi nel corso della manifestazione romana contro la violenza.

Corriere della Sera 9.1.08
Un'ipotesi sulla vera patria del poeta
L'aedo Omero sui lidi albanesi
di Giovanni Mariotti


Virgilio racconta nel terzo canto dell'«Eneide» la nascita di una Ilio «piccola e simulata»

Come ha ricordato Luciano Canfora sul Corriere della Sera di sabato scorso, Omero non era, a detta di Vico, un singolo individuo, bensì un intero popolo; per il romanziere inglese Samuel Butler era una donna (ipotesi simpatica e anche credibile: i giapponesi hanno davvero, all'origine della loro letteratura, un Omero femmina, la Murasaki); e nelle ultime settimane l'austriaco Raoul Schrott ha formulato l'ipotesi che si trattasse di uno scriba della Cilicia al servizio degli Assiri. «Inventare Omero è un gioco innocente», ha scritto Canfora. La prendo come un'autorizzazione a giocare. Dopotutto il fatto che si tratti un gioco «innocente» non comporta che sia del tutto privo di significato. Attribuire una patria e un'identità a Omero vuol dire, per un occidentale, indicare la scaturigine della poesia... il luogo in cui, miticamente, si udì per la prima volta la musica dei versi. Io ho una mia ipotesi. Credo di sapere dove nacque Omero. Sette città greche si disputavano l'onore di avergli dato i natali... ma la città dove Omero nacque veramente non appartiene a quel novero.
Secondo una tradizione, ripresa da Virgilio nel terzo canto dell'Eneide, due esuli da Troia, la vedova di Ettore, Andromaca, e il mite e scolorito indovino Eleno, avevano fondato sulla Riviera albanese, dopo una vita travagliata, una sorta di piccola Troia anastatica uguale in tutto e per tutto a quella che avevano abbandonato. Una «Troia Miniatur ». Perché l'avevano fondata? Non certo per iniziare una nuova storia, con nuovi assedi e nuove battaglie e nuove flotte che avrebbero attraversato i mari, ma per sigillare le loro storie, che erano alla fine.
Lì, a Butroto (così era stata chiamata quella Ilio che Virgilio avrebbe definito «piccola e simulata»), in quelle case e in quelle vie che non erano tanto quelle di una «vera» città, quanto l'immagine, o la reminiscenza, o la rappresentazione di un'altra, nacque Omero. Forse furono proprio Andromaca ed Eleno, o perlomeno qualche Troiano o qualche Troiana che ne avevano condiviso il destino, a nominare per la prima volta davanti a quel ragazzino, a volte attento e a volte stranamente distratto e lontano, certi personaggi... o a raccontare episodi che sarebbero entrati a far parte, come tessere di un mosaico, dei suoi poemi. L'arido ruscello lungo il quale camminava si chiamava Xanto, ma non era il «vero» Xanto... e le porte sotto cui passava ogni giorno venivano chiamate Scee, ma non erano le «vere» porte Scee.
In quei luoghi Omero trascorse la giovinezza. Dalla riva del mare o da un'altura avrà osservato il profilo di un'isola i cui contorni si andavano via via dissolvendo, sino a diventare nuvola (si trattava di Corfù, dove più tardi avrebbe collocato Nausicaa, Alcinoo, la corte dei Feaci, e se stesso nelle vesti di Demodoco, l'aedo cieco...), e a partire da quel profilo sempre un po' velato... giacché gli occhi si andavano spegnendo... aveva immaginato un altrove fluttuante, porti e navi e isole ed eserciti e mostri che sarebbero esistiti soltanto in virtù dei suoi versi. Non sapeva se le storie che di continuo udiva raccontare (non si faceva altro, a Butroto, città di vecchi: non solo le voci, ma anche le pietre erano racconti) fossero accadute realmente oppure no, ma le sue parole non avevano bisogno della cosiddetta «realtà». Una copia che la evocasse, magari in modo infedele, una simulazione, un colore, una nuvola sul punto di disfarsi, nomi di isole e popoli sconosciuti che affioravano all'improvviso in mezzo al discorso, come profezie ed enigmi: era quanto bastava a muovere il suo canto. Niente accadeva a Butroto, perché tutto era già accaduto. Omero crebbe avvolto da uno strano senso di irrealtà. Via via che cresceva, il fruscio e il calpestio delle sillabe gli sarà sembrato più reale di qualsiasi altra cosa. Diventato aedo, ebbe a dire che gli dei avevano filato «la rovina per gli uomini perché avessero i posteri il canto». Memorabile esempio di cinismo professionale.
Da lì a qualche secolo il severo Platone avrebbe definito la poesia «mimesi di mimesi », imitazione di un'imitazione. Se avesse potuto ascoltarlo, è quasi certo che Omero... la cui patria era l'imitazione di un'altra... avrebbe gravemente assentito.

Il manifesto 9.1.08
Veltroni sale sull'elefantino: moratoria, parliamone
Il leader del Pd difende la 194 ma apre il «dialogo» con il direttore del Foglio. Livia Turco annuncia tra le polemiche l'arrivo in Italia della Ru486
di Eleonora Martini

(domani qui)

Il manifesto 8.1.08
lettera aperta
Unire la sinistra e fare presto
di Francesco Indovina
Agli onorevoli Oliviero Diliberto, Franco Giordano, Alfonso Pecoraro Scanio e Frabio Mussi


Cari compagni e cari amici,
gli Stati generali di dicembre avevano fatto sperare, almeno per le parole pronunziate da alcuni di voi in quella stessa riunione, in un processo di unificazione rapido e fortemente voluto.
Ad una sorta di stato di necessità è sembrato sostituirsi la consapevolezza che il passato di divisioni stava alle spalle e che era possibile costituire un soggetto politico nuovo e unitario.
Un soggetto politico che garantisse voce al lavoro, in tutte le sue articolazioni, e ne difendesse e migliorasse le condizioni; che si ponesse l'obiettivo non tanto di conservare lo «stato sociale» ma di costruirlo, il compianto Federico Caffè questo ci ricordava costantemente, tenuto conto delle nuove esigenze e dei mutamenti intervenuti nella società e nella struttura demografica (non minor stato sociale, ma migliore e più adeguato); che si facesse portatrice della ricostruzione della legalità in tutto il paese; che sapesse individuare una politica industriale in grado di garantire crescita, ammodernamento e rispetto per l'ambiente; che sapesse ampliare i diritti di cittadinanza compresi quelli all'informazione e alla partecipazione; che impegnasse il governo ad una politica estera di pace.
Gli Stati generali ormai sono dell'anno scorso, ma il nuovo anno non ci porta niente di buono. Mi si potrebbe dire che la «gatta frettolosa fa i gattini ciechi» ma un parto troppo prolungato può uccidere madre e neonato e ... fa stancare e addormentare i parenti e amici.
Era sembrato che l'invito a «far presto» che insistentemente Pietro Ingrao ci ha fatto, anzi vi ha fatto, non sia stato colto per il suo contenuto politico, ma attribuito all'esigenza di chi ha poco tempo.
Non deve essere difficile, almeno per tre delle quattro formazioni, mettersi insieme; sono unite da una tradizione che sebbene vissuta e ripensata in modo diverso, ha radici profonde e sicure. Si capisce che per i Verdi la questione è più complicata, ma se non hanno consapevolezza che solo nel nuovo soggetto politico le loro esigenze possono trovare un collocazione vitale, non è possibile ... morire (politicamente) con e per loro.
Fra pochi giorni ci sarà la verifica (che si spera non sia infausta), ma il «nuovo» soggetto politico parlerà ... a quattro voci. Così come per la riforma elettorale, dove chi difende i piccoli partiti non lo fa per affermare un principio democratico ma per un riflesso soggettivo, il che non depone a favore dell'unificazione dato che La sinistra l'arcobaleno non sarà, se sarà, un piccolo partito.
Non solo non c'è tempo, ma il tempo lavora contro. La nuova formazione ha bisogno di entusiasmo, di mobilitazione, di attenzione, non di sfilacciamento, di temporeggiamento, questo lavora contro nella società e dentro di ciascuno. Di questo non vi occupate, ma cosa credete che i compagni aspettano?
La sola idea di costruzione di una sinistra unita aveva acceso gli entusiasmi e aveva richiamato all'impegno molti. Ma il tempo passa e gli entusiasmi si affievoliscono e l'impegno non si sa dove collocarlo.
Tutti sappiamo che è complicato e difficile, che unirsi è molto più oneroso che dividersi, ma presuntuosamente si può dire che la società italiana di questa unione ha bisogno e ne sente l'esigenza. Fuori dal teatrino politico dentro i problemi.
Non ho altro titolo per scrivervi se non quello dell'entusiasmo che l'idea di un nuovo soggetto politico di sinistra mi ha sollecitato. Non potete mortificare me e tantissimi come me, anche perché la mortificazione della mia carne ricadrà su di voi.
Non faccio circolare questa lettera per chiedere adesioni, ma siate certi che potrei raccogliere centinaia di firme sotto l'esigenza del far presto.
Auguri e saluti.

Il manifesto 8.1.08
Vi ricorrono donne immigrate e giovanissime italiane, soprattutto nel sud. Parlano Buscaglia, Flamigni, Viale
Trent'anni dopo le mammane usano i farmaci
di Eleonora Martini


Esiste ancora in Italia l'aborto clandestino? La risposta, inaspettata forse, è sì. Non si muore più, per fortuna, perché si ricorre più ai farmaci che alla chirurgia, e le mammane rimangono solo un brutto ricordo del mondo precivilizzato. Ma il problema esiste ancora e riguarda sempre più donne immigrate e anche giovanissime italiane. Dati certi, ovviamente, non ce ne sono ma le ultime stime ottenute con differenti metodologie parlano di circa 15 mila casi l'anno, troppo pochi per essere presi in considerazione dalla relazione annuale dell'Iss. Nel 1998 erano invece circa 27 mila.
Che la legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza abbia funzionato in maniera eccellente, è, come ha ricordato ieri il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, un dato «ampiamente noto e incontrovertibilmente dimostrato, avendo ridotto il numero di aborti di circa il 56%» dal 1980 ad oggi. Il sottosegretario si riferisce a quelli legali, secondo il ginecologo Silvio Viale del Sant'Anna di Torino: «La 194 ha ridotto dell'80% gli aborti clandestini che nel 1982 erano circa 130 mila». Una pratica non debellata, dunque, e anzi a quanto pare perfino un po' in ripresa negli ultimi anni soprattutto tra le donne immigrate. Le quali, come ha sottolineato Manconi ricorrono all'aborto volontario e legale 3-4 volte di più delle italiane, arrivando a incidere per il 29,6% del totale nazionale. «La metà delle richieste di aborto da parte delle donne straniere - spiega il professor Mario Buscaglia, primario del San Carlo di Milano che ha studiato a lungo il tasso di abortività delle immigrate - avviene nel primo anno di permanenza in Italia e nel 25% dei casi nei primi tre mesi». Sono soprattutto le donne sudamericane e dei paesi dell'est europeo a ricorrere più facilmente all'aborto: «Dipende - aggiunge Buscaglia - dalla non conoscenza dei metodi contraccettivi e dalle gravi difficoltà economiche e di solitudine in cui spesso si trovano». A volte poi si aggiunge la paura, la mancanza di conoscenza e di fiducia nei servizi italiani, e così le donne preferiscono risolvere da sé. Il metodo più usato è l'assunzione di Citotec, un farmaco gastroprotettore per le ulcere e quindi prescrivibile dal medico (anche se con alcune restrizioni, introdotte ultimamente dell'Iss proprio per combattere questo tipo di utilizzo) ma che, come tutte le prostaglandine, viene venduto in molti paesi del mondo come farmaco abortivo. «L'Oms lo promuove al secondo posto dopo la Ru486», spiega il radicale Silvio Viale. «I cinesi invece, che usano la Ru486 dal 1988, spesso se la portano dietro clandestinamente - aggiunge Viale - Ma il fatto che sia illegale non vuol dire che questo tipo di aborto è anche insicuro, come è invece quello chirurgico a cui ancora alcune donne, soprattutto al sud, continuano a ricorrere clandestinamente. Il problema è che usano questi farmaci in modo errato». Viale racconta poi anche di donne italiane che «hanno vergogna e rifuggono il lungo iter stabilito dalla legge che le costringe a venire a contatto con decine di persone sconosciute». Oppure donne che si rivolgono al medico sbagliato: fanno la trafila, attendono l'appuntamento e solo dopo molti giorni, magari quando è troppo tardi, scoprono che si tratta di un obiettore di coscienza. «Provengono soprattutto dal sud Italia o da feudi del movimento per la vita come Pavia dove i medici sono praticamente tutti obiettori, ma abbiamo avuto notizie anche da donne incappate nel medico sbagliato perfino alla Mangiagalli di Milano». Viale ricorda che l'obiezione viene scelta ormai dai medici «solo per convenienza, o per stanchezza: non siamo tutelati dal sistema, per noi non ci sono indennità e abbiamo invece la responsabilità della vita della donna, al contrario di quanto avviene per chi lavora con le tossicodipendenze».
«Il problema è che in Italia esistono almeno due sistemi sanitari diversi: - aggiunge Carlo Flamigni, ordinario di Ginecologia di Bologna - quello del sud è pieno di medici obiettori e con poche strutture, mentre bisognerebbe investire sui consultori, agevolarne l'accesso, e far crescere la cultura del controllo della fertilità, come si faceva negli anni '70 quando si andava nelle fabbriche, nelle scuole, e le donne del movimento parlavano con i medici». La chiesa, conclude Flamigni, «allora era molto più invadente e aggressiva di oggi». «Negli anni '60 era proibito perfino parlare di anticoncezionali. Oggi è solo in difesa, munita non di un potere vero, personale, ma di un potere concesso dai politici».

Liberazione 8.1.08
Il giurista: agli antiabortisti non interessa la sopravvivenza dei feti, bensì imporre giuridicamente
un principio morale, senza curarsi dei suoi effetti drammatici. E' la fine della civiltà giuridica moderna Luigi Ferrajoli: «Immorale e fanatico
paragonare l'aborto alla pena di morte»
di Romina Velchi


Le tesi degli antiabortisti? Immorali. La moratoria sull'aborto? Vergognosa. Luigi Ferrajoli, docente Teoria Generale del Diritto all'Università Roma3, non esita a parlare di «fanatismo» a proposito della proposta di Giuliano Ferrara, subito raccolta e fatta propria dalle gerarchie cattoliche, di fare una moratoria sull'aborto dopo quella sulla pena di morte. Dice infatti il giurista, che ha appena dato alle stampe "Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia" (2 voll. - Laterza): «Pretendere la consacrazione giuridica di un prinicipio morale, accompagnata dalla totale indifferenza per i costi incalcolabili che l'affermazione giuridica di quel principio comporta per migliaia di persone, ha un nome specifico: fanatismo».

Professor Ferrajoli, cosa c'entra la moratoria sulla pena di morte con l'aborto?
Direi nulla. La pena di morte è la morte inflitta dallo stato ad una persona già nata; mentre l'aborto è la non nascita come persona. La prima è decisa dallo stato sul corpo di un cittadino; l'aborto è deciso dalla donna sul proprio corpo. Ma al di là di questo, la tesi di Ferrara (come tutte le tesi antiabortiste) dà per scontato che l'embrione sia una persona. E questa non è una tesi empirica, descrittiva, ma una tesi morale, che consiste in un giudizio di valore e come tale né vero né falso. Gli antiabortisti pretendono in realtà di imporre una propria concezione morale attraverso il diritto, contraddicendo la laicità dello stato.

Può spiegare meglio?
Il diritto non può decidere di questioni morali. Ciò che il diritto può fare è semplicemente stabilire un termine oltre il quale la questione cessa di essere morale e diventa giuridica. Il termine stabilito dalla legislazione italiana (tre mesi) è un termine convenzionale: è il tempo necessario e sufficiente alla madre per decidere. Ciò che è meritevole di tutela non è l'embrione in quanto tale, ma in quanto concepito, appunto, voluto come persona dalla madre. La messa al mondo di un figlio non è semplicemente un fatto materiale ma un atto di volontà.

Ma queste cose si sono già dette trent'anni fa, ai tempi del referendum. Perché, secondo lei, siamo di nuovo qui a ripeterle? In fondo la 194 ha funzionato, riducendo del 40% il numero delle interruzioni di gravidanza.
Penso che si tratti fondamentalmente di una questione di potere, nei confronti dello stato e nei confronti delle donne. Il fatto che la 194 abbia prodotto il crollo degli aborti dimostra che ciò che sta a cuore agli antiabortisti non è la sopravvivenza dei feti. Se questo fosse il loro problema, allora dovrebbero essere i primi difensori della legge 194. Ciò che gli sta a cuore invece è l'imposizione giuridica di un principio morale. E questo è immorale, perché l'affermazione di un principio viene sostenuta nell'indifferenza dei suoi effetti drammatici per le donne e gli stessi nascituri. Aggiungo che nella penalizzazione dell'aborto c'è una contraddizione con i principi consolidati del costituzionalismo democratico, della tradizione liberale e della stessa tradizione dell'etica laica.

Cioè?
E' uno dei principi classici della morale laica, e direi della morale in generale, la seconda massima kantiana: nessuna persona può essere trattata come un mezzo, come uno strumento per fini non suoi. Qui parliamo, viceversa, di imposizione alla donna di un comportamento e non semplicemente di un divieto: non si vieta solo alla donna di abortire, ma la si obbliga anche a diventare madre. Le si impone un comportamento, per altro, che significa uno stravolgimento di vita.

Vale la pena sottolineare che gli stessi che sono contro l'aborto sono anche contrari ai metodi contraccettivi che non siano "naturali".
Appunto considero immorali queste tesi, perché ledono la dignità della donna come persona, la sua libertà personale. C'è un classico principio di Stuart Mill: sul proprio corpo e sulla propria mente ciascuno è sovrano. Per questo considero vergognoso il paragone tra la pena di morte e l'aborto. Quella di Ferrara non è soltanto una provocazione, ma un'offesa al buonsenso e alla logica.

Eppure Ferrara dice di richiamarsi alla «luce della ragione», all'illuminismo, in pratica.
Per carità. Molti principi fondamentali dell'illuminismo vengono lesi dalla punizione dell'aborto. Citerò il primo, quello di offensività: non è giustificato punire se non condotte che il diritto penale è in grado di prevenire. Ne deriva il carattere costituzionalmente abnorme di qualunque norma penale contro l'aborto. Se è vero che, come abbiamo detto, gli aborti sono crollati, la legge che li punisce non ha alcuna funzione preventiva, nessuna capacità di intervento, qualunqua cosa si pensi dell'aborto. Quindi si tratterebbe di una norma che avrebbe l'unica funzione di imporre una determinata morale. Con il che si mette in discussione l'autenticità del diritto, ma anche quella della morale: una morale autentica non ha bisogno del sostegno armato del diritto. Aggiungo che dopo l'abolizione delle corvées e delle servitù personali, non è più concesso al diritto penale d'imporre un "fare"; il diritto penale può solo imporre un "non fare".

Il peccato, in altre parole, non può diventare un reato.
E' una pretesa in contrasto non solo con il principio di laicità ma col processo di secolarizzazione dello stato, che risale per l'appunto all'illuminismo. La convenzionalità del diritto è necessaria proprio per far convivere la pluralità delle morali. Quella di Ferrara è una proposta che contraddice proprio quel processo di separazione tra diritto e morale su cui si basa la civiltà giuridica moderna.

Liberazione 9.1.08
L'Ordine degli Psicologi condanna Cantelmi
Omosessualità una variante naturale della sessualità
di Aurelio Mancuso (Presidente Arcigay)


La presa di posizione dell'Ordine Nazionale degli Psicologi, che con chiarezza dichiara che uno psicologo non può prestarsi ad alcuna "terapia riparativa" dell'orientamento sessuale di una persona, segna finalmente un punto a favore del buon senso e del ripristino delle regole deontologiche e scientifiche. Ce n'era un gran bisogno in un paese dove l'aggressione fanatica del cattolicesimo integralista si fa sentire con sempre più grande virulenza, accreditando convinzioni religiose come pratiche terapeutiche.
Il richiamo del presidente dell'Ordine, Giuseppe Luigi Palma al Codice Deontologico che non può essere derogato in base a principi e convinzioni personali dello psicologico, pone ora questioni di tipo politico e sociale di grande importanza. Per esempio com'è possibile che circolino indisturbate sui mass media opinioni di psicologi e psichiatri che sostengono la possibile guarigione dall'omosessualità senza che alcun organismo di controllo, anche d'altri ordini professionali, intervenga? Perché solamente dopo il bel reportage di Davide Varì su Liberazione è stato possibile scoperchiare una realtà fatta di gruppi e confraternite che tentano di indurre le persone a percepire la propria sessualità come sbagliata, portatrice di conflitti, sofferenze, deviazioni? Da qualche anno denunciamo come associazioni lgbt la diffusione di una campagna di propaganda portata avanti da diversi medici e psicologi come con la fede, la disciplina, la volontà sia possibile redimere i fratelli e le sorelle omosessuali e lesbiche. La letteratura scientifica sul tema è vasta e ben argomentata anche in Italia, dove psichiatri come Paolo Rigliano e Vittorio Lingiardi o psicologi come Margherita Graglia e Luca Pietrantoni da tempo pubblicano testi tradotti anche in varie lingue, guidano corsi di formazione e d'informazione in tutto il paese.
Ora, con più forza, vogliamo sapere. Chiediamo a chi sa, a chi ha coperto, a chi ha subito, di parlare, di denunciare attività che sono illecite, che vanno contro le direttive degli ordini professionali, perché come afferma giustamente Palma: " i principi del Codice sono intimamente e inestricabilmente connessi con la cultura, il sapere e il saper fare dello psicologo. "Lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell'esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri…." e quindi "nell'esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all'autodeterminazione ed all'autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall'imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio/economico, sesso d'appartenenza, orientamento sessuale, disabilità".
Non ci interessano scontri frontali, feroci polemiche, il nostro primo compito è quello di tutelare la dignità e l'integrità psico fisica delle persone lgbt, per questo siamo alla ricerca di risposte concrete. Alcune mancano ancora. Per esempio cosa attende l'Ordine dei Medici a pronunciarsi così come ha fatto quello degli Psicologi? Tanti di questi fanatici mediconi che si aggirano indisturbati nelle riparate e silenziose stanze delle associazioni cattoliche, parrocchie, studi professionali privati (chissà se anche in quelli pubblici?) sono psichiatri, medici generici, immunologi, e così via. Non c'è nulla da dire? Come mai questo silenzio? E il ministro alla Salute non ha nulla da eccepire?
Oggi registriamo questo primo evidente successo del nostro paziente lavoro culturale e sociale, cui Davide con il suo reportage ha dato una decisiva mano. Il professor Cantelmi, su questo giornale e anche in successive dichiarazioni pubbliche ha invitato tutti noi ad un confronto pacato, a conoscere meglio e senza pregiudizi il suo lavoro. In una nota mi ha persino personalmente invitato a visitare il suo studio e a rendermi conto di persona delle attività che svolge il suo staff. Io pongo una domanda definitiva sono disposti Cantelmi, i suoi collaboratori, tutti gli altri psicologi e psichiatri cattolici sparsi in Italia che operano facendo riferimento alle teorie del fanatico americano Nicolosi, a dire con chiarezza che l'omosessualità è una variante naturale della sessualità e, che quindi, non deve essere curata?
Tutto il resto sono disgustosi giri di parole, che non ci interessano!

Liberazione 9.1.08
Dopo l'inchiesta pubblicata da Liberazione arriva il duro altolà
di Luigi Palma, presidente nazionale dell'ordine degli psicologi
«No alle terapie riparative per gay»
di Beatrice Macchia


Qualcosa si muove. Dopo l'inchiesta di Liberazione che ha smascherato un gruppo di noti psichiatri e psicologi che applicano la cosiddetta «terapia riparativa» per "guarire" dall'omosessualità, l'ordine nazionale degli psicologi prende posizione e per la prima volta bacchetta chi pensa che l'omosessualità possa essere ri-orientata verso l'eterosessualità.
Del resto il presidente dell'ordine, Giuseppe Luigi Palma, è fin troppo chiaro e duro: «In relazione alle polemiche innescate dal reportage di Davide Varì pubblicato su Liberazione - scrive in una nota il dottor Palma - lo psicologo non deroga mai ai principi del codice deontologico. Nessuna ragione nè di natura culturale nè di natura religiosa, di classe o economica può spingere uno psicologo a comportamenti o ad interventi professionali non conformi a tali principi». Ed ancora: «Lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell'esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri e quindi nell'esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all'autodeterminazione ed all'autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall'imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio/economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità». In conclusione, «è evidente quindi che lo psicologo non può prestarsi ad alcuna "terapia riparativa" dell'orientamento sessuale di una persona».
Immediata la reazione del deputato socialista, e psicologo, Franco Grillini, che accoglie «con soddisfazione il primo pronunciamento in assoluto sulla questione dell'Ordine degli psicologi». «Le parole del presidente Giuseppe Luigi Palma, che si richiama al codice deontologico - afferma Grillini - sono inequivocabili». Grillini rende inoltre noto di aver presentato un'interrogazione al ministro della Salute Turco «affinchè il Governo intervenga immediatamente e perchè anche l'ordine dei medici, in relazione agli psichiatri che sottopongono i propri pazienti alla conversione, prenda una netta posizione. Chiediamo altresì ad entrambi gli ordini di svolgere accurate indagini interne per stabilire quali e quanti psicologi e psichiatri non abbiano un comportamento deontologicamente corretto».
Grande soddisfazione la esprime anche Anna Paola Concia, del coordinamento politico nazionale del piddì: «Finalmente anche l'ordine degli Psicologi prende posizione sulle presunte terapie riparative adottate dal professor Cantelmi per guarire dall'omosessualità - dichiara Concia- E' un fatto importantissimo e di questo ringraziamo il presidente Giuseppe Luigi Palma. Una presa di posizione che avevo chiesto per arginare e fare luce su queste indegne e vergognose terapie adottate da alcuni psicologi cattolici contro gli omosessuali».
«L'omosessualità - prosegue la Concia - è una condizione umana, come l'eterosessualità. Una presa di posizione, quella del presidente dell'ordine degli psicologi, che dimostra chiaramente che Cantelmi è fuori dal codice deontologico della sua professione. La questione coinvolge non solo il mondo degli psicologi e dei psicoterapeuti, è coinvolta tutta la società. E questa presa di posizione deve far riflettere tutti quei politici e quei personaggi pubblici, come la Binetti e Volontè, che continuano a sostenere non solo Cantelmi, ma una campagna razzista contro l'omosessualità che tanti danni fa e tante vite mette a rischio».
«Il silenzio per loro ora è d'obbligo e chiedano scusa. Mi auguro invece che parlino coloro che hanno a cuore davvero l'equilibrio di tante e tanti giovani, e che - conclude Anna Paola Concia - nell'esercizio della loro professione sostengono e aiutano tanti omosessuali a vivere serenamente e trovare la loro dimensione di vita come è diritto di tutti i cittadini di un paese civile».

martedì 8 gennaio 2008

Corriere della Sera 8.1.07
Il ministro I tempi per l'interruzione terapeutica
Turco: al lavoro il Consiglio della Sanità «La legge non si tocca ma rivediamo i limiti»
di Margherita De Bac


ROMA — «La 194 è completa e lungimirante. Non va cambiata perché dice già tutto. Né linee guida regionali né mozioni parlamentari possono dare risposta al dibattito attuale », sostiene con vigore il ministro Livia Turco. Ma qualcosa di pratico per imprimere una svolta con azioni concrete è già in cantiere. E al Corriere annuncia di aver chiesto al Consiglio Superiore di Sanità un parere sui limiti oltre i quali l'aborto non andrebbe praticato.
Di cosa si tratta ministro?
«Il massimo organismo scientifico istituzionale dovrà decidere sulla base delle conoscenze e delle evidenze mediche se è possibile estendere a tutto il territorio nazionale specifiche indicazioni sulle capacità di vita autonoma del feto ».
Dunque raccomandazioni che serviranno agli operatori dei servizi pubblici per stabilire in base all'età gestazionale della donna i termini oltre i quali l'interruzione volontaria di gravidanza «terapeutica», oltre i 90 giorni, non va praticata. Oggi la legge non fissa confini precisi, ma nella realtà ospedaliera non si può abortire oltre la 24ma settimana. Per la prima volta verrà messa nero su bianco quale è la soglia da non oltrepassare. Al presidente del Css, Franco Cuccurullo, il ministro pone altri due quesiti che si collegano al primo. Un parere su come dovrà essere utilizzata nell'ambito della 194 la pillola abortiva Ru486, in arrivo a marzo. E una raccomandazione sulle cure ai neonati prematuri.
Ministro, almeno due ospedali italiani, la Mangiagalli e il San Paolo di Milano, non vanno oltre la 22ma settimana, che nella maggioranza dei casi è il termine valido per escludere la vita autonoma del feto e quindi consentire l'aborto. Il Css terrà conto di queste esperienze?
«Certamente sì. I due precedenti saranno un riferimento. Si parte dalla buona pratica clinica ».
E' la risposta al presidente della Lombardia Formigoni che ha annunciato linee guida regionali?
«Formigoni deve accettare il fatto che la legge 194 è nazionale e che le Regioni non possono regolarsi secondo il fai da te. Le linee guida sarebbero uno strumento per cambiare surrettiziamente, quindi non alla luce del sole ovvero in Parlamento, una legge garantista ed efficace. Gli aborti sono la metà rispetto al 1978».
Alla luce del sole ha agito Ferrara, col suo digiuno per la moratoria.
«Una moratoria sarebbe moralmente iniqua. Non riconosce il principio della responsabilità femminile. Prescinde dalla relazione madre-figlio. Prescinde, infine, dalle persone e proclama principi astratti, che creano confusione. I piani vengono confusi. La moratoria deve riguardare le leggi eugenetiche di Paesi dove l'aborto è un sistema di contraccezione. Non l'Italia».
Verrà fissata una soglia precisa?
«Sì, una soglia oltre la quale la gravidanza non va interrotta. Sarà un limite di riferimento, si deciderà sempre caso per caso. Credo che gli operatori si sentiranno rassicurati e garantiti. Da parte di un politico è una grande assunzione di responsabilità ».
La RU486 a marzo verrà registrata, si annunciano nuove polemiche. Come si prepara a ribattere?
«L'uso della pillola rientrerà nella legge 194, sarà data solo in ospedale sotto controllo medico. Ho chiesto un parere sulle modalità di impiego in modo da sgombrare il campo da ogni dubbio».
Neonati prematuri di peso estremamente basso, tra la 22ma e la 25ma settimana: una commissione è al lavoro da un anno. Non bastava?
«Non si può aspettare. Servono protocolli per definire gli ambiti temporali e le modalità di assistenza più idonei a garantire l'assistenza più appropriata a madre e bambino ».

Repubblica 8.1.07
La Chiesa e gli atei devoti
di Gad Lerner


Come si innesca una mobilitazione della Chiesa nell´Italia del 2008? È evidente che siamo in presenza di un fatto nuovo, meritevole di una riflessione scevra da intenti polemici.
Il direttore del "Foglio", Giuliano Ferrara, mutuando i codici di mobilitazione e il linguaggio radicale, promuove l´idea di una moratoria sull´aborto, finalizzandola a un raduno mondiale da tenersi a Roma la prossima primavera. La vastità inaspettata delle adesioni cattoliche alla proposta di Ferrara sollecita il cardinale Camillo Ruini a farla propria, integrandola di suo con l´invito a modificare la legge 194. Più cauta, segue la benedizione del presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. "Avvenire" sostiene appassionatamente l´iniziativa, "Famiglia cristiana" pubblica un editoriale di appoggio. Infine manifesta il suo consenso lo stesso Benedetto XVI, pur evitando l´ambiguo sillogismo tra la moratoria sulla pena di morte decisa dall´Onu e la moratoria sull´interruzione di gravidanza proposta dagli antiabortisti.
La dinamica dei fatti esclude che siamo in presenza di una campagna congegnata e pianificata d´intesa con i vertici della Chiesa. Segnala piuttosto un salto di qualità nel rapporto da essa instaurato con il settore dell´intellighenzia che sbrigativamente ci siamo abituati a definire "atei devoti". All´attacco è partito Ferrara, gli altri hanno deciso di seguirlo attribuendogli semmai una funzione provvidenziale: la scissione del fronte laico. L´incrinatura di quello che nella loro semplificazione figura come il "pensiero unico" progressista, imbevuto di permissivismo e subalterno al dominio di una tecnoscienza amorale.
Non importa qui tanto chiedersi se l´inedita sollecitazione da cui ha preso le mosse la campagna antiabortista riveli una forza o una debolezza della Chiesa italiana, anche se a me pare evidente la risposta.
Limitiamoci a constatare: la gerarchia cattolica attribuisce una funzione cruciale, strategica, a personalità non credenti che propugnano i valori normativi della dottrina religiosa su un piano di mera convenienza razionale. Agli "atei devoti" la Chiesa non propone un cammino di conversione. Chiede loro di testimoniare che è possibile uniformarsi alle regole di convivenza da essa prescritte anche senza bisogno di credere.
L´entusiasmo, la gratitudine, l´ammirazione manifestati a Ferrara nelle centinaia di lettere che il "Foglio" sta pubblicando, evidenziano un sentimento di riscossa. Quasi che lo schieramento antiabortista di una frazione di non credenti restituisse a quei cattolici la perduta legittimità mondana. Questa è la sorpresa, questo è il miracolo che attendevano. Nell´accezione di Ruini, un personaggio come Ferrara non va atteso come il figliol prodigo ma semmai riconosciuto quale moderno profeta mediatico.
A questo punto la Chiesa sembra poco interessata al dialogo tra sensibilità diverse. Le quali si fronteggiano sperando, invano, di smascherare l´altrui incoerenza. Quanta compassione dedichiamo ai condannati a morte? Quanta alle vittime civili delle guerre? E alle vittime del terrorismo? E ai morti di Aids o di denutrizione? È sufficiente il nostro scandalo per le morti sul lavoro? O ancora, come obietta Giuliano Amato: gli antiabortisti potranno amare davvero gli embrioni quanto i bambini, restando però distratti nei confronti dei bambini emarginati?
Temo sia proprio sulla fatica della coerenza che non riusciremo a comprenderci. Ne difettiamo tutti, in gradi diversi. Capita che gli uni ne siano tormentati, nella personale responsabilità. Mentre altri denunciano proprio questa umana debolezza come morbo curabile solo da una terapia normativa a carattere religioso.
Così la relazione fra il dire e il fare passa in second´ordine, col declino della coerenza. La svaluta pure questa Chiesa ridotta a minoranza che, per recuperare centralità nella decisione pubblica, gradisce il soccorso degli "atei devoti" e la disponibilità intermittente di politici pronti a figurare clericali senza neanche bisogno d´essere cristiani. Che importa se agiscono per vocazione o per convenienza? È con il loro sostegno che la Chiesa s´illude di rifondare l´identità nazionale e occidentale perduta.
Sarkozy proclama in Laterano le radici cristiane della Francia prima d´involarsi a Luxor con Carla Bruni? Questa è la modernità del potere. Per lui è pronto un seggio nel pantheon dei santi protettori, e pazienza se oltralpe gli aborti non calano a differenza che in Italia.
Non c´è bisogno di giungere all´estremo di Gianni Baget Bozzo, che attribuisce a Berlusconi la funzione di uomo della Provvidenza, salvatore della tradizione cattolica nazionale minacciata dal dossettismo e dal prodismo. Basta ricordare l´assenza del minimo imbarazzo – nei vertici Cei - quando l´opposizione parlamentare alla legge sui Dico fu guidata da politici divorziati e conviventi, scatenati contro una larga parte del cattolicesimo democratico.
Essenziale, nell´impostazione di Ruini, è che le battaglie politico-culturali della Chiesa italiana figurino sempre promosse d´intesa con la nuova frazione laica, dunque motivate sul piano della razionalità anziché sul piano dottrinale. Ecco perché è meglio se gli "atei devoti" non si convertono. Il tempo in cui il cristianesimo andava testimoniato innanzitutto nella condotta di vita è sopravanzato dall´imperativo della nuova alleanza mondana.
Nessuno scandalo, dunque, se è "Il Foglio" a lanciare l´offensiva, rivolgendo a chi dissente l´accusa terribile di acquiescenza con "un fenomeno mostruoso per quantità genocida". L´analogia suggestiva ma fuorviante tra la moratoria sulla pena di morte (che implica un divieto legale ai boia di Stato) e il dramma dell´aborto (che invece richiama scelte individuali sempre ardue fra male minore e male maggiore) ha già prodotto un effetto nefasto. Le donne ne vengono retrocesse, esautorate da primo soggetto titolare di una responsabilità che in ogni caso ricade su di loro. Rischia di venirne travolta la stessa riflessione già da tempo in corso fra i medici e le associazioni di sostegno alla maternità: un confronto pacato, esente da demonizzazioni reciproche, da cui sono scaturiti protocolli ospedalieri condivisi che tutelano il feto con possibilità di vita autonoma.
A dare retta alla fotografia di un´Italia dedita alla pratica disinvolta dell´aborto, protesa nella ricerca del superuomo e nella soppressione dei deboli, parrebbe che l´esercizio di una rigorosa verifica etica sui poteri della tecnoscienza e sui limiti da imporle, sia istanza esclusiva degli antiabortisti. Ma per fortuna ciò è falso.
Rattrista la visione fosca di una società deragliata nella ricerca del piacere sessuale e nell´appagamento dell´io: da contrastare con il senso del peccato e con il codice della famiglia tradizionale. Ma colpisce soprattutto una Chiesa italiana talmente debole nella sua ispirazione evangelica da mettersi al traino di un pensiero settario, rinunciando al dialogo fiducioso con l´insieme del mondo laico. Tutto si tiene: il richiamo alla tradizione; la critica dell´esperienza post-conciliare; la reazione al terrorismo di matrice islamica; la crisi delle vocazioni e della pratica religiosa; il miraggio di una nuova leadership cristiana.
Una discussione libera sulle nuove frontiere della vita, e sulla necessità di riformulare insieme i codici della ricerca medico-scientifica, non trae alcun giovamento dalla moratoria sull´aborto. Dubito, peraltro, che la Chiesa stessa si vivifichi nell´investitura di eminenze laiche.

Repubblica 8.1.07
Londra, via alle castrazioni chimiche
Due detenuti per reati sessuali dicono sì per essere liberati. Ma è polemica
di E.F.


I conservatori e diversi criminologi: "Il miglior trattamento per queste persone è far sì che rimangano in prigione"

LONDRA - Nella speranza di ridurre i reati di natura sessuale, e forse anche di risolvere il problema delle carceri troppo affollate, il governo britannico punta sulla castrazione chimica. Il sistema approvato lo scorso anno fra aspre polemiche è entrato ufficialmente in vigore ieri nel Regno Unito quando due persone, detenute per stupro, hanno accettato di prendere dei farmaci, sotto forma di pillole e di iniezioni, che dovrebbero ridurre drasticamente la loro libido sessuale ed evitare il rischio di nuove violenze dello stesso tipo. In cambio, i due saranno rimessi anticipatamente in libertà. Ma esperti criminologi e forze dell´opposizione contestano il provvedimento, affermando da un lato che i reati a sfondo sessuale hanno una base psicologica più che fisiologica e dall´altro che chi si macchia di tali reati non può essere rilasciato in alcuna circostanza o condizione.
Già introdotto in vari paesi occidentali, tra cui Canada, Olanda, Svezia e Germania, la castrazione chimica porta a un radicale abbassamento dei livelli di testosterone o, addirittura, all´annullamento completo di questo ormone della sessualità maschile, con una diminuzione dell´interesse sessuale e dell´eccitamento o, appunto, una sua assoluta assenza. Tale condizione, tuttavia, viene mantenuta soltanto se si continua con la regolare somministrazione di farmaci orali e per iniezione, e da qui nasce un problema: non sono previsti controlli per accertare se gli stupratori e i pedofili che hanno accettato di sottoporsi al programma lo proseguono oppure se, dopo un po´ di tempo, interrompono la cura "anti-libidine". In effetti lo stesso ministero degli Interni britannico, annunciando l´avvio del programma, ha inviato una lettera a tutti i detenuti per reati sessuali spiegando di che cosa si tratta: «Sarete ancora in grado di avere rapporti intimi - afferma il messaggio - ma sarà molto più difficile. E´ comunque possibile calibrare il dosaggio dei farmaci in modo che possiate ancora fare sesso con un partner».
Secondo gli esperti consultati dal governo laburista di Gordon Brown, questo genere di trattamento dovrebbe funzionare soprattutto con stupratori, pedofili e altri colpevoli di delitti sessuali che hanno un´eccitazione facile e violenta e che tendono a sadismo, voyeurismo, esibizionismo, necrofilia. Ma vari criminologi si oppongono all´introduzione della castrazione chimica perché convinti che i reati sessuali non derivino da una condizione fisiologica "curabile" con un farmaco: siano cioè un problema più mentale che fisico. Contrario è anche il partito conservatore, il cui leader David Cameron ha bocciato senza riserve l´iniziativa: «Chi commette reati di natura sessuale deve essere punito e il miglior trattamento è fare in modo che resti in prigione».

Repubblica 8.1.07
Il business della salute
Per promuovere i loro prodotti le case farmaceutiche Usa spendono il doppio rispetto alla ricerca. Così il marketing persuade i medici
di Elena Dusi


Campioni omaggio, regali, convegni in località esotiche. Per pubblicizzare un prodotto e spingere i medici a prescriverlo le aziende spendono il doppio di quanto non costi produrlo e testarlo. E´ la conclusione cui è arrivato uno studio dell´università di Montreal. Un conflitto di interessi che pregiudica la scoperta di nuove medicine. E la nostra salute
Negli Stati Uniti le industrie di Big Pharma per ogni camice bianco spendono 40mila euro all´anno in autopromozioni

L´associazione americana degli studenti di medicina ha proposto di integrare il giuramento di Ippocrate: «Prenderò le mie decisioni libero dall´influenza della pubblicità. Non accetterò denaro, regali od ospitalità che mi mettano in conflitto di interessi con la professione». Negli Usa, che da soli ingoiano la metà delle pillole del mondo, le industrie farmaceutiche spendono per ogni camice bianco l´equivalente di 40mila euro in marketing. Fra i mezzi di pressione più usati: visite dei rappresentanti farmaceutici, campioni omaggio di farmaci, regali, inviti ai congressi. Ma nel bouquet del dirigente di marketing non mancano i finanziamenti alle società scientifiche (che raccolgono tutti gli specialisti di una disciplina), l´accordo con i medici affinché conducano nuovi esperimenti su un farmaco per allargarne il raggio di prescrizione o l´acquisto di pubblicità sulle riviste di settore. Si arriva così all´assurdo: per pubblicizzare un farmaco si spende il doppio di quanto non costi produrlo e testarlo.
Il dato arriva da uno studio di due docenti dell´università del Québec di Montreal, Marc-André Gagnon e Joel Lexchin. «Le industrie farmaceutiche statunitensi nel 2004 hanno speso 57,5 miliardi di dollari per la promozione dei loro medicinali, contro i 31,5 miliardi spesi per ricerca e sviluppo di nuovi prodotti» scrivono sulla rivista Public Library of Science Medicine.
In euro la cifra si traduce in 39 miliardi contro 21,4 ed è indice di cattiva salute per due ragioni: da un lato il piatto della bilancia della pubblicità è sempre più pesante (la spesa secondo Gagnon e Lexchin cresce di un miliardo di dollari all´anno); dall´altro la ricerca di nuovi medicinali gira a vuoto o quasi. Il 90% dei profitti delle case farmaceutiche arrivano da prodotti vecchi, in commercio da più di 5 anni. Quasi la metà delle pillole "blockbuster" (campioni di vendite) entro il 2009 non darà più profitto perché i brevetti sono in scadenza. E il mancato guadagno per le aziende toccherà i 106 miliardi di euro l´anno. «In psichiatria è dai tempi del Prozac che non abbiamo novità di rilievo. Si conducono sperimentazioni sempre più complesse e costose per affinare la conoscenza dei farmaci tradizionali, ma di veri progressi neanche l´ombra» spiega Giovanni Battista Cassano dell´università di Pisa. Se una gamba zoppica (l´innovazione), la reazione delle case farmaceutiche sembra essere quella di rinforzare l´altra: la pubblicità.
La maggioranza dei medici nega che il marketing delle case farmaceutiche influenzi le loro prescrizioni. Ma il procuratore capo di Verona, Guido Papalia, la pensa diversamente. «Una nostra inchiesta nel 2003 ha coinvolto 2-3mila medici per comparaggio, ma la maggior parte dei casi è finita in prescrizione. Per altri professionisti accusati di corruzione e associazione per delinquere il dibattimento è ancora in corso. La casa farmaceutica Glaxo di fronte alle accuse ha finito con il patteggiare 2 milioni di euro per reato societario». Fra i regali ricevuti dai medici: computer, impianti stereo, libri o nei casi di comparaggio una percentuale sulle vendite dei farmaci. «L´inchiesta scattò a febbraio - racconta Papalia - e il mese dopo la Guardia di Finanza ci fornì i nuovi dati di vendita dei farmaci. In ogni regione d´Italia a eccezione del Lazio le prescrizioni erano diminuite tra l´8 e il 10%».
Il conflitto di interessi travalica i confini della professione medica per toccare il giornalismo. A gennaio 2003, dopo un convegno a Santo Domingo con una trentina di reporter invitati a spese della Schering, uscì la notizia di una nuova pillola anticoncezionale in grado di rendere la pelle più bella. La Medicines Control Agency (agenzia britannica per la regolamentazione dei farmaci) bollò quegli articoli come "pubblicità ingannevole".
«Le case farmaceutiche - concludono Gagnon e Lexchin - amano farsi raffigurare come enti impegnati a promuovere la nostra salute. Ma i nostri dati dimostrano che è il marketing la vera benzina che fa marciare i loro motori». Nel numero di venerdì scorso la rivista Jama (Journal of the American Medical Association) ha analizzato i rapporti finanziari fra singoli medici e industrie negli Usa. Sfruttando una legge sulla trasparenza che è stata introdotta in sei stati, la rivista è riuscita a documentare compensi che in alcuni casi sfondavano il tetto dei 600mila euro per un singolo professionista. Ma se in Europa e Stati Uniti alcuni codici etici e nuove leggi per la trasparenza aiutano quantomeno a far uscire dal torbido i legami fra medici e case farmaceutiche, è nei paesi emergenti che si consuma una vera guerra senza esclusione di colpi. Secondo l´azienda americana specializzata in studi di settore Ims Health, il futuro del mercato è nei 7 paesi "Pharmerging": Cina, Brasile, Messico, Corea del Sud, India, Turchia e Russia, che marciano con tassi di sviluppo del 12-13 per cento annuo. «Da noi - ha raccontato un medico indiano citato nell´ultimo rapporto "Farmaci, medici e cene" dell´associazione Consumers International - chi prescrive mille confezioni di un farmaco riceve un cellulare, 5mila danno diritto a un condizionatore, 10mila a uno scooter».

Corriere della Sera 8.1.07
Bilanci La compagna di Sartre a cent'anni dalla nascita: molto più di una first lady letteraria
De Beauvoir, l'utopia che non fallì
«Il suo femminismo ha vinto, per questo oggi sembra superato»
di Paola Capriolo


Filosofa e romanziera brillante; cofondatrice della rivista Les Temps Modernes; instancabile paladina di cause progressiste, dalla legalizzazione dell'aborto all'indipendenza algerina; detentrice per decenni, grazie al legame con Sartre, del ruolo di «first lady» nella cultura francese: tutto questo fu Simone de Beauvoir, della cui nascita ricorre adesso il centenario. Ma la sua fama internazionale è dovuta in primo luogo a Il secondo sesso, pubblicato da Gallimard nel 1949, un libro destinato a diventare una sorta di bibbia del femminismo stimolando generazioni di ragazze (compresa la mia) a coltivare per il proprio avvenire speranze e ambizioni ben diverse da quelle di «fare la velina» che pare vada per la maggiore tra le adolescenti di oggi.
Non sorprende che l'impegno per l'emancipazione della donna rappresenti uno degli aspetti più «attuali» del pensiero della de Beauvoir, capace di attirarle ancora l'appassionato interesse di schiere di studiose: in fondo, è l'unica utopia non fallita che il Novecento ci abbia lasciato in eredità, come lei stessa sembrava presentire, tanto da dichiarare in un'intervista: «La Rivoluzione non so, ma sono certa che le donne alla lunga vinceranno».
Eppure proprio il fatto che l'ideale di eguaglianza espresso in quelle pagine si sia in gran parte realizzato (almeno nei Paesi occidentali, e nonostante certe tendenze regressive) dovrebbe renderle obsolete, relegando definitivamente la loro autrice nell'innocuo album di famiglia della contemporaneità.
Cosa c'è di più ovvio, ormai, dell'affermazione che il destino della donna non deve obbligatoriamente ridursi a quello di moglie o di madre? O che le sue capacità in campo intellettuale e professionale non sono inferiori a quelle dell'uomo? E se la cruda analisi della corporeità e sessualità femminile poteva suscitare scandalo nel 1949, oggi appare così risaputa da risultare persino stucchevole.
Sembra dunque che la de Beauvoir «femminista» condivida il destino di tanti profeti: affondare nell'irrilevanza, quando i loro pensieri più arditi diventano senso comune. Se così non è, se a dispetto di tutto ciò Il secondo sesso merita ancora una rilettura, è perché non si tratta semplicemente di un testo sacro del femminismo (movimento cui l'autrice aderirà pubblicamente solo negli anni '70, facendo forse torto all'originalità della propria posizione iniziale) ma di una seria, tesa argomentazione filosofica, che prende le mosse dall'esistenzialismo di Sartre e dalla dialettica hegeliana (il rapporto servo-padrone, riletto in base all'interpretazione di Alexandre Kojève) per dissodare il terreno vergine della questione femminile.
Ne risulta l'idea della donna come «l'Altro», l'essere che l'uomo, nel riservarsi il rango esclusivo di soggetto, definisce a partire da se stesso in termini puramente negativi; una definizione così cogente, nella sua validità millenaria, da imporsi persino all'autocoscienza della donna. In questo senso la de Beauvoir può affermare che «donna non si nasce, ma si diventa »: la cosiddetta femminilità non è un dato di natura, ma un prodotto della storia e della civiltà, e come tale non appartiene alla sfera dei «progetti » che l'individuo, secondo i dettami dell'etica esistenzialista, si assume liberamente, bensì a quella greve e brutale della «situazione» con cui si trova suo malgrado a fare i conti, e che è chiamato a «trascendere» per attuare le proprie possibilità personali.
L'individuo, appunto: perché di questo si tratta. Non di sostituire a quella «inautentica» imposta dalla tradizione una pretesa autenticità femminile, che risulterebbe altrettanto generica e forviante, ma nell'affermare l'assoluta unicità e libertà di ogni individuo, nel cui progetto, nella cui definizione di sé, l'identità sessuale non assume necessariamente quel ruolo primario che il pensiero femminista si ostina ad accordarle.
Mi sembra che proprio questo sia l'aspetto più «attuale» e interessante del libro di Simone de Beauvoir: nella critica anticipata, in nome di un più profondo ideale di libertà e di eguaglianza, all'idea fin troppo diffusa negli odierni ambienti accademici di fare del «genere» la chiave di lettura universale cui sottoporre qualunque artista o filosofo, poeta o narratore che abbia avuto la ventura di nascere donna.

l’Unità 8.1.07
Simone de Beauvoir, la donna soggetto
di Anna Tito


ANNIVERSARI Il 9 gennaio di cento anni fa nasceva a Parigi la scrittrice, saggista e militante impegnata e anticonformista che ha fortemente influenzato il movimento femminista. Insieme a Jean-Paul Sartre formò una coppia leggendaria

Rimane sempre attuale l’opera dell’avanguardista, radicale, osannata, calpestata, ma anche, talvolta, odiosa scrittrice, saggista, militante impegnata francese Simone de Beauvoir, che ha influenzato generazioni di donne del mondo intero e di cui ricorre domani il centenario della nascita: basti dire che a vent’anni e più dalla scomparsa, l’algerina Fadela Amara, passata dal movimento femminista «Ni putes ni soumistes» (Né puttane né sottomesse) al ruolo di segretaria di Stato, ha voluto personalizzare i propri auguri di un Felice 2008 con una sua frase citazione: «Essere liberi significa volere che gli altri siano liberi».
Convegni, numeri speciali, ristampe, saggi biografici, trasmissioni televisive: la Francia celebra il centenario in grande stile. Fra le pubblicazioni, la più attesa Cahiers de jeunesse (1926-1930), finora inediti, che appariranno in marzo da Gallimard su iniziativa di Silvie le Bon de Beauvoir, figlia adottiva della scrittrice. Sempre da Gallimard è uscito Castor de guerre. Un portrait de Simone de Beauvoir (Gallimard, 584 pp.) di Danièle Sallenave, che riporta in epigrafe una frase dei Cahiers de jeunesse: «costruirò una forza in cui mi rifugerò per sempre».
Come narra nella sua autobiografia Memorie di una ragazza perbene (1958), Simone de Beauvoir, nata da una famiglia squattrinata della borghesia cattolica, lottò per affermare una propria personalità scandalosamente non conformista, a partire dal rapporto instaurato con il filosofo e scrittore Jean-Paul Sartre, padre dell’esistenzialismo e suo compagno che mai volle sposare, creando un sodalizio amoroso e intellettuale infinito, unico, la cui forza e complicità sono ormai mitiche. Solo la morte - avvenuta paradossalmente per entrambi un 14 aprile, del 1980 per lui, del 1986 per lei - riuscì a dividerli: «La sua morte ci separa, e la mia morte non ci riunirà. Ma è già molto bello che le nostre vite abbiano potuto accordarsi per tanto tempo». Con tale dichiarazione d’amore Simone de Beauvoir concluse La cerimonia degli addii (1981), crudissimo racconto di dieci anni di un incubo: la decadenza fisica del suo compagno di vita.
Un taglio di capelli sbagliato la indusse fin da giovanissima a portare una fascia sulla fronte che nascondeva i suoi purissimi lineamenti e le conferiva un aspetto austero. Era nel 1929 la più giovane laureanda in filosofia, la migliore, la seconda dopo Sartre. Insieme formarono una coppia leggendaria: «rispondeva esattamente all’augurio dei miei quindici anni: era il mio doppio. Quando lo conobbi, seppi che non sarebbe mai più uscito dalla mia vita», ricorda Simone. Era brutto, sporco, logorroico e vanitoso, ma «irresistibile e pensava sempre». Il «Castor» - come lui prese a chiamarla - intendeva godere appieno di un’indipendenza che sempre difese con tenacia, rigettando «tutte le servitù della vita delle donne», lavoro casalingo e maternità in particolare. Ma al suo «dolce coccodrillo» dal «sorriso buffo e tutti i denti di fuori» scriveva promettendo: «Farò la brava, laverò i piatti, spazzerò, andrò a comprare uova e dolcetti al rhum».
Entrambi vissero amori «contingenti/necessari» - secondo il «patto amoroso» che Sartre le propose, o impose, fin dall’inizio: passione americana per lei, con lo scrittore Nelson Algren, amante russa per lui, Olga, e tanti altri e altre. Tutte relazioni «secondarie» in quanto la loro doveva rimanere «assoluta». Simone, che insegnò per alcuni anni, «pescava nelle sue classi fanciulle dalla carne fresca di cui godeva, prima di rigettarle su Sartre», abitudine che le procurò una denuncia per «eccitazione di minore alla dissolutezza» nel 1943; in quell’anno apparve il suo primo romanzo, L’invitata, che delinea una figura di donna tesa a realizzarsi non solo nell’ambito delle mete che le concedeva la società, ma come essere libero e indipendente.
Dieci anni dopo Sartre adottò Arlette Elkaïm, con cui aveva vissuto una delle sue brevi relazioni, e lei fece buon viso a cattivo gioco. Anche perché, dal canto suo, aveva incontrato Sylvie Le Bon, che adotterà dopo la morte di Sartre, in un perfetto parallelismo delle forme: d’altronde «vi è una tale reciprocità fra noi», spiegherà in nel 1972 in A conti fatti, opera dedicata alla propria vecchiaia per rispondere al pubblico che l’aveva portata in auge per il saggio su la Vieillesse (1970).
Alla Liberazione, nel 1945, i due fecero parte del gruppo fondatore di Les Temps Modernes, rivista destinata a influenzare in maniera decisiva la vita intellettuale francese ed europea e a fare della coppia degli «intellettuali pubblici», quasi delle icone. Del nazismo e del fascismo i due non avevano compreso, o non avevano voluto comprendere, la portata ma vissero la Liberazione divenendo gli eroi di una Parigi letteraria desiderosa di vivere, di amare, di ridere.
Simone intraprese la redazione di Il secondo sesso, destinato a fare epoca, e ricevette il Premio Goncourt, nel 1954, per I Mandarini, brillantissima storia dell’intellighentia francese con i suoi limiti, le illusioni e le delusioni. Prese parte ai moti del maggio del 1968 e, in profondo accordo con la tumultuosa rivolta del movimento delle donne, si impegnò pubblicamente al loro fianco nel 1971, sottoscrivendo il Manifesto delle 343 per la libertà di abortire.

l’Unità 8.1.07
La fama mondiale arrivò col «Secondo sesso»


Quando, nel giugno del 1949, apparve il primo tomo de Il Secondo sesso, lo scrittore vicino alla destra François Mauriac confidò a un collaboratore di Les Temps modernes: «So ormai tutto della vagina della vostra padrona», alias Simone de Beauvoir che, con Jean-Paul Sartre era fra i guru del neonato periodico.
Il saggio fece scalpore, sia a destra sia a sinistra: a quei tempi il termine «femminismo» non esisteva, neanche per i comunisti francesi, impegnati nella guerra fredda.
Si trattava di un libro di mille e più pagine, audace, libero e ambizioso, che riuniva tutte le rivendicazioni delle prime femministe per dar loro una voce unica, fondata su una profonda conoscenza filosofica, storica, scientifica e sociologica dell’autrice, per la quale «la donna» è un «prodotto elaborato dalla civiltà».
Le donne si sentivano condannate a una vita già predisposta di madre, sposa, casalinga.
Spiegando loro che non dovevano sottoporsi al determinismo biologico, Simone de Beauvoir ha inteso trasmettere un messaggio di libertà, evidenziando gli aspetti culturali di una femminilità designata come l’insieme dei ruoli assegnati dalla cosiddetta Natura.
Nonostante il linguaggio difficilmente abbordabile, Il secondo sesso vendette ventiduemila copie in una settimana.
Con due brevi frasi «Non si nasce donna, lo si diventa», Il secondo sesso ha smontato le tranquille certezze del patriarcato trionfante. Ma il libro non nacque da un desiderio militante di rivincita, poiché Simone de Beauvoir era una donna appagata, che aveva ottenuto quanto voleva.
Il volume non fu il manifesto di alcun movimento e non diede vita ad alcuna ondata femminista, pur precedendo di vent’anni la nascita del Movimento di liberazione delle donne e di dieci la pubblicazione negli Stati Uniti della Mistica della femminilità di Betty Friedan. Tradotto negli Stati Uniti nel 1953, divenne il testo fondatore del movimento femminista.
a.t.

l’Unità 8.1.07
IERI E OGGI Il Saggiatore ripubblica il suo «manifesto». Rileggerlo significa capire il filo rosso che lo lega alla querelle di oggi, sulla legge 194 e l’autodeterminazione
Celebrarla o liquidarla? Ecco il suo posto nel pensiero femminile
di Maria Serena Palieri


Prendiamo le pagine dei giornali italiani di questi giorni e seguiamone due temi: la fragorosa campagna contro la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, nelle pagine della politica, è il primo, l’affacciarsi del centenario della nascita di Simone de Beauvoir - venuta al mondo il 9 gennaio 1908 - nelle pagine culturali, è il secondo. C’è un nesso? Naturalmente sì. Anche se, fin qui, nessuno l’ha evidenziato e, abbiamo il sospetto, nessuno lo farà nei prossimi giorni.
Il nesso è questo: Simone de Beauvoir è stata la donna che in anni lontanissimi, nel 1949, ha pubblicato in Francia un’opera, Il secondo sesso, uno dei cui architravi teorici era il rifiuto della maternità come destino biologico della donna. Trent’anni dopo, e dopo che il mulino della Storia aveva molto lavorato, nel nostro Paese veniva approvata una legge, la 194 appunto, fondata sul principio di «autodeterminazione»: le cittadine italiane «autodeterminano», cioè scelgono e decidono da sé, la propria sessualità, procreazione, contraccezione.
Questa parola, autodeterminazione, sembra, ora, troppo raffinata per resistere nel disonesto fracasso con cui si svolge la nuova disputa sulla 194: perché anche stavolta, come periodicamente avviene, si usa il tema dell’aborto come trappola per arrivare ad altro. «Altro» (far cadere il governo, rifare la Dc ecc...) considerato d’importanza superiore rispetto a quel diritto che, quindi, si può usare come un randello.
Eppure «autodeterminazione» è uno di quei concetti che in democrazia maturano sotterraneamente in tempi lunghi, poi emergono alla luce e s’impongono e che, alla democrazia, fanno fare un salto avanti. Com’è, mettiamo, per il concetto di «multiculturalismo». Il soggetto egemone - il maschio, i cristiani e le cristiane, i bianchi e le bianche - si accorge di non esistere solo lui. E che il suo stare al mondo s’incrocia con quello di altre e di altri.
Fin qui il centenario di Simone de Beauvoir, da noi, ha suscitato sui giornali articoli che rivisitano l’icona gauchiste alla luce di nuovi dati sul suo galleggiare disinvolto nella Francia di Vichy. O pezzi in sé seri, ma titolati a effetto, «Simone la misogina». Insomma, alle prime avvisaglie del centenario, l’aria che tira è questa: ecco l’occasione giusta per liquidare Simone de Beauvoir, dama supponente.
In giro la misoginia (quella maschile) non manca: ce n’è un nuovo sussulto. Ciò che va avvenendo per Beauvoir è avvenuto in modo più soft a ottobre scorso, quando il Nobel a Doris Lessing è stato accolto come il riconoscimento a una signora fuori gioco per l’età o, all’opposto, come il premio a una scrittrice il cui merito consisteva non nell’essersi battuta contro discriminazioni di razza e di sesso, ma nello sparare sul femminismo di oggi.
Un centenario - per quel che contano gli anniversari - dovrebbe servire ad altro: a passare al setaccio la farina del pensiero e dell’opera del celebrato e vedere quanto ne resta e quanto è crusca. Perciò aspettiamo l’uscita in febbraio, per il Saggiatore, della nuova edizione del Secondo sesso. Ad accompagnarlo saranno la prefazione di una delle menti femminili più vigili di Francia, Julia Kristeva, e la postfazione di Liliana Rampello sulla faticosa e fertile vita che il libro ha avuto nella nostra cattolicissima Italia. L’aspettiamo perché di questo c’è bisogno: rileggere «il» libro di Beauvoir - il contributo più poderoso e scandaloso di questa scrittrice - e rileggerlo come un tassello di un edificio-chiave del Novecento, la storia del pensiero femminile.

il Riformista 8.1.07
Walter porta nel loft la bozza Bianco concertata con FI
Veltroni accoglie gli emendamenti forzisti
I tre canali di comunicazione col Cavaliere. Durante l'esecutivo, nuovi attacchi a D'Alema
di Tommaso Labate


«Qui la riforma elettorale non c'entra nulla. L'obiettivo è screditare Walter, arrivare a dimostrare che non controlla il partito». Che la settimana del Pd fosse destinata a iniziare sempre all'insegna della guerra interna tra Veltroni e D'Alema lo si è capito dal fitto giro di telefonate mattutine tra i fedelissimi del segretario. Oggetto: l'intervista rilasciata all' Unità da Anna Finocchiaro. Al segretario del Pd, le parole che la capogruppo al Senato ha affidato al quotidiano fondato da Gramsci - soprattutto quelle dedicate a chi agita ed evoca «il fantasma» della grande coalizione (leggasi: Veltroni) - non sono piaciute per nulla.
Anche per questo, aprendo la riunione dell'esecutivo del loft, il segretario ha fatto perno sul ragionamento della Finocchiaro («Come ha detto Anna, ripartiamo seriamente dalla bozza Bianco») per poi porre l'accento su tre punti irrinunciabili. Per Veltroni (e Franceschini, visto che il segretario ha poi lasciato al numero due l'onere e l'onore della relazione), il testo della bozza al Senato deve prevedere il voto unico («No al voto disgiunto»), recupero dei resti e premio di maggioranza al partito più forte. Dietro i tre dettagli tecnici, si nasconde un'unica verità: la versione della bozza Bianco disegnata dai leader del Pd non piacerà a D'Alema, a Rutelli, al Prc, ai centristi né - tantomeno - ai "piccoli"; ma è la copia carbone dello schema che i forzisti della prima cerchia berlusconiana vanno ripetendo da settimane. La saldissima e proficua tela dei contatti tra l'inquilino del Campidoglio e quello (ancora in ferie) di palazzo Grazioli si articola su tre livelli: a quelli politico (Bettini-Letta) e tecnico (Vassallo-Quagliariello), si è aggiunto in questi ultimi giorni un altro tavolo a due posti, occupati dal democrat Franceschini e dall'azzurro Elio Vito, che si occupano del coté Montecitorio.
Oltre che per (ri)lanciare la crostata veltronian-berlusconiana sulla bozza Bianco, nell'esecutivo di ieri i veltroniani si sono occupati (senza citarli direttamente) di D'Alema e dei dalemiani. Così Goffredo Bettini: «Io ho condiviso le idee che Franceschini ha espresso nella sua intervista. Ma se anche si fosse trattato di stupidaggini, a nessun dirigente politico doveva saltare in mente di dargli del matto». Quindi è stata la volta di Giorgio Tonini che, riferendosi al dalemiano Nicola Latorre, ha scandito: «Noi stiamo facendo di tutto per arrivare a un accordo sulla riforma. Lo stesso non si può dire di un nostro senatore che incontra segretamente i rappresentanti dell'Udc per rilanciare il tedesco puro».
Le posizioni dentro il Pd restano distanti. E il comune appellarsi alla scatola (ancora da riempire) della bozza Bianco rappresenta l'intento di simulare la distensione nascondendo la polvere sotto il tappeto. «Visto che non sono scemi, vorrà dire che sono confusi», è la frase che continua a ripetere D'Alema a chi gli chiede un commento sul trittico di interviste veltroniane servite da Franceschini, Bettini e dal segretario stesso negli ultimi giorni. Per la resa dei conti, interviste permettendo, bisognerà attendere la prossima riunione della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama. Quella in cui Bianco, anticipando la Consulta, potrebbe mostrare qualche carta.
Quanto al redde rationem sul Pd, occhi puntati sulla prossima riunione della commissione Statuto. Su questo fronte, ieri sono stati siglati due accordi di una "pace armata": congresso non oltre il 14 ottobre 2009 e gestione collegiale della tesoreria. Restano aperti i nodi sull'iscrizione degli aderenti (che votano il segretario) e la composizione dell'assemblea nazionale. A chi fosse interessato a trovare una parvenza di posizione più o meno condivisa da tutto il Pd, occorre guardare al dibattito sulla monnezza napoletana. Veltroni e D'Alema, seppur tra tanti distinguo, hanno difeso la posizione espressa da Bassolino su Repubblica . All'esecutivo del Pd, si è discusso anche dell'emergenza partenopea. «Andrò presto a Napoli», ha chiarito il sindaco di Roma. Poi si è ricominciato a litigare sulla data dell'assemblea costituente. «A marzo», ha detto Franceschini. «Entro gennaio», ha poi chiesto a mezzo agenzia Rosy Bindi.