giovedì 10 gennaio 2008

l’Unità 10.1.08
Aborto, verità e menzogne
di Carlo Flamigni


La 194 è una legge che ha dato ottima
prova di sé: ha diminuito drasticamente
il numero di aborti con un tasso
di abortività tra i più bassi nel mondo
Quante altre leggi dello Stato
hanno funzionato altrettanto bene?

In questi giorni il Cardinale Ruini ha riaperto il problema della legge 194, quella sulla interruzione volontaria di gravidanza, affermando che i grandi progressi acquisiti nel campo dell’assistenza intensiva neonatale ne impongono una revisione. Alla sua dichiarazione hanno inevitabilmente fatto eco molti parlamentari cattolici e un gran numero di cattolici «della curva nord», quelli che si divertono a fare il tifo anche se non hanno mai dato un calcio al pallone e che comunque si distinguono sempre per aggressività, violenza e maleducazione (oltre, naturalmente, per la volgarità delle motivazioni che li ispirano). A dare ancor maggior rilievo a questa iniziativa è poi arrivato l’appoggio del Pontefice, che ha inneggiato alla proposta di una moratoria sull’aborto ottenendo nuovi consensi e nuove genuflessioni.
Questa ipotesi di una moratoria da imporre a un problema che rappresenta una tragedia personale per molte migliaia di donne mi sembra così offensiva che vivo ancora nella speranza che il Papa non abbia capito perfettamente il significato della parola, la lingua italiana ha le sue trappole. Ma «sospendere a tempo indeterminato» l’interruzione volontaria delle gravidanze, avrebbe un senso se si potesse contemporaneamente sospendere la violenza carnale, il disagio economico, la malattia, la cattiva abitudine di alcuni feti di nascere malformati, dite voi. Se questo è possibile, giuro, mi associo, faccio mia la proposta; se non è così, si tratta di un tale sberleffo alla sofferenza umana che vorrei proprio evitare di dare giudizi.
Immagino che, a provocare questi interventi, ci siano due ragioni: la prima, riconoscibile in alcuni eventi recenti (un feto è sopravvissuto dopo una interruzione volontaria di gravidanza) e nella attuale polemica (che ha investito anche il Comitato Nazionale per la Bioetica) che riguarda la rianimazione dei bambini nati con un peso particolarmente basso. Il secondo motivo è squisitamente politico e non poteva essere diversamente, date le propensioni (appunto, squisitamente politiche) del Cardinale Ruini: in effetti, da questo punto di vista, non c’era momento migliore per sollevare la questione, considerata la condizione di straordinaria difficoltà in cui versa il nuovo Partito democratico, pervaso dai soliti venti di guerra tra laici e cattolici e in trepida attesa di qualche nuovo intervento divino capace di modificare i già precari equilibri parlamentari.
Non credo sia possibile immaginare un momento migliore per confondere ulteriormente le idee di questi miei poveri compagni e non credo che sarebbe possibile immaginare un argomento più velenoso. Non ho nessuna simpatia per l’astuzia, un disvalore che dovremmo imparare a disprezzare, ma so riconoscere il merito.
Non mi è ancora ben chiaro se è in ballo una vera e propria modifica della legge o se si tratta più semplicemente di un tentativo di elaborare alcune linee guida che pongano dei limiti di tempo all’interruzione, quella regolata dall’articolo 6 che riguarda l’aborto dopo il 90° giorno. Secondo me la legge 194, che è tutto sommato una legge saggia, è già in grado di evitare questa sorta di problemi, basta leggerla - e attuarla - con attenzione. L’articolo 6, infatti, stabilisce che:
-l’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi 90 giorni, può essere praticata;
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Ma all’articolo 7, dopo una premessa che riguarda gli accertamenti sulla normalità del feto troviamo che:
-quando l’interruzione di gravidanza si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna, l’intervento può essere praticato anche senza le procedure previste…..Qualora sussista la possibilità di vita autonoma del feto l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso della lettera a) dell’articolo 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.
Dunque, nel caso in cui il medico riconosca al feto capacità di vita autonoma, la scelta di interrompere la gravidanza potrà essere fatta solo nel caso che lo stesso medico identifichi, nel proseguimento della gestazione, un grave pericolo per la vita della donna.
Ciò ci riconduce alla prassi in uso prima del varo della legge 194, quando l’interruzione della gravidanza poteva essere eseguita legalmente solo se si creavano le condizioni di uno stato di necessità (quando cioè il feto diviene «l’assassino di sua madre» - espressione utilizzata molti anni or sono da un rabbino - e non intervenire pur essendo consapevoli del grave pericolo al quale è esposta la vita della donna, significa assumersi la responsabilità della sua morte), in presenza del quale le altre norme debbono tacere.
Il problema vero, l’unico che mi sembra di scorgere in questo momento, riguarda il momento della gravidanza nel quale può essere identificato l’inizio della possibilità di vita autonoma.
Su questo punto c’è attualmente una discussione: è vero infatti che nessun feto sopravvive se costretto a nascere entro le 22 settimane di gestazione, ma è anche vero che nessun feto nato alla ventiquattresima settimana sopravvive se la madre lo partorisce in una remota località di montagna, o se è portatore di una grave malformazione per la quale deve essere sottoposto a intervento chirurgico; ed è altresì vero che esistono spesso problemi quando si deve datare una gestazione, che la prognosi è diversa se il parto è spontaneo o operativo e così via. D’altra parte stiamo parlando di eventi assai poco frequenti e che sarebbe possibile evitare del tutto stabilendo un unico principio: che tutte le indagini relative al benessere e alla normalità del feto si debbono concludere in tempo utile perché una eventuale interruzione della gravidanza possa essere eseguita entro la ventiduesima settimana.
Sul problema della sopravvivenza dei feti nati dopo la 22ma settimana vorrei intervenire in un altro momento, il tema è complesso (ne sta discutendo il Comitato Nazionale per la Bioetica) è ha bisogno di spazio. Anticipo solo i punti sui quali la discussione è più calda: è giusto intervenire sempre, sottoponendo il feto a cure intensive, o piuttosto è opportuno valutare caso per caso le probabilità di sopravvivenza e i rischi di handicap? E quale ruolo hanno i genitori: hanno il diritto di essere consultati (e di chiedere di veder rispettata la propria decisione) o sono realmente, come qualcuno afferma, confusi, disorientati e disinformati e vanno tenuti, affettuosamente, fuori dalle scatole? E cosa mi dite delle cure che debbono essere considerate sperimentali (che sono tantissime), non sarà che, almeno in questi casi il parere dei genitori è determinante? Problemi, come vedete, seri e concreti, certamente più seri e concreti delle baggianate sulle moratorie .
Non è però detto che le richieste di modificare la legge 194 si fermino qui. Francesco D’Agostino, in un confronto che abbiamo avuto su una radio romana, ha richiamato la mia attenzione sull’articolo 4 della stessa legge, nella parte nella quale si stabiliscono i motivi di una eventuale interruzione che possono essere considerati accettabili. Secondo D’Agostino la legge affida la decisione al medico, l’unica persona competente in grado di verificare l’esistenza di «circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua (della donna) salute fisica o psichica...». Per D’Agostino sarebbe dunque sufficiente, per una corretta attuazione della norma e per una lettura coerente del suo spirito, affidare realmente e completamente al medico la valutazione dell’esistenza di questo «serio pericolo».
A mio avviso questa interpretazione è del tutto sbagliata, e per due ragioni: la prima perché continuando nella lettura dell’articolo 4 si legge come questo pericolo deve essere valutato «in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali, o familiari, o alle circostanze in cui è avvento il concepimento, o a previsioni di malformazioni o anomalie del concepito» ed è chiaro che in quasi tutti di questi ambiti il medico non ha né competenza né capacità di intervento. Se poi si continua la lettura della legge si scopre, e questo è il secondo motivo del mio dissenso, che in tutto l’articolo 5 è delineato il percorso che la donna dovrà seguire, nei casi in cui esiste e in quelli in cui non esiste una urgenza, percorso che ha come unico impedimento un periodo di 7 giorni in cui è invitata a soprassedere.
Il compito del medico è dunque quello di valutare le circostanze che inducono la donna a chiedere l’interruzione della gravidanza, di informarla in merito ai suoi diritti e sugli interventi di carattere sociale ai quali può fare ricorso e di verificare l’esistenza di un carattere di urgenza. Al termine di tutto ciò egli può solo consegnarle un certificato nel quale sono attestate le sue intenzioni e chiederle di attendere per sette giorni: ma al termine di questi sette giorni, e quale che sia la personale opinione del medico, la donna può presentarsi a una delle sedi autorizzate e chiedere l’interruzione di gravidanza sulla base di quel documento, un documento che il medico deve consegnarle per forza.
C’è in molti, anche come conseguenza di una sottile opera di propaganda, la convinzione che i medici non facciano il loro dovere, che i consultori siano degli abortifici, che la legge 194 venga utilizzata come strumento di controllo delle nascite. In realtà, i medici hanno saputo interpretare correttamente la legge, i consultori fanno una straordinaria opera di sostegno e di informazione e le donne che hanno utilizzato l’interruzione di gravidanza alla stregua di un mezzo anticoncezionale non dovrebbero superare, secondo le valutazioni dell’Istituto Superiore di Sanità. l’1,6%. Insomma, la 194 è una legge che ha dato buona prova di sé, che ha diminuito il numero di aborti in modo significativo (erano 234.000 nel 1982, sono stati 129.000 nel 2005) con un tasso di abortività tra i più bassi nel mondo. Quante altre leggi dello stato hanno funzionato altrettanto bene?

l’Unità 10.1.08
Il Pd: «Riconoscimento pubblico delle religioni»
La bozza del manifesto dei valori: laicità essenziale basta discriminazioni sessuali. Stop alle maxi-coalizioni
di Andrea Carugati


«UNA DEMOCRAZIA FORTE, in grado di decidere», perché la crisi italiana «non è un destino inevitabile». Un «bipolarismo maturo», con al centro i valori della Costituzione e il «rispetto degli avversari», non più indicati come nemici. Il manifesto del Pd, nella bozza (ancora provvisoria) elaborata dal presidente della commissione Alfredo Reichlin e dal relatore Mauro Ceruti, parte da qui: dall’idea di fare «un’Italia nuova», dalla «vocazione maggioritaria» che fa del Pd non il rappresentante «parziale» di segmenti della società, ma una forza in grado di «dare riposte adeguate di problemi concreti» dell’Italia nel suo insieme. Per questo punta moltissimo sull’idea di una «democrazia governante» e sul concetto di «alleanze per il governo» e non più «coalizioni eterogenee».
Il manifesto torna a più riprese sul tema della globalizzazione, e su come rispondere ai tanti interrogativi che essa produce, a partire dalle domande di senso delle nuove generazioni. Per questo nasce il Pd, dove «confluiscono grandi tradizioni, le esperienze e le culture migliori del riformismo italiano», consapevoli che da sole sarebbero inadeguate allo sforzo. L’Europa è uno dei punti di riferimento: un modello di «identità nella diversità» che il Pd vuole «realizzare al suo interno» (è l’unico riferimento al tema delle correnti, ndr) e promuovere «nell’intero paese». Dove si collocherà il Pd in Europa? Stringerà «stretti rapporti con tutte le forze europeiste del campo riformista e democratico». Quanto alla laicità, altro tema caldissimo, il testo spiega che essa è «un valore essenziale» del Pd. Come «garanzia di uno spazio pubblico e condiviso di libero confronto e decisione, autonomo rispetto a qualunque condizionamento mirante a imporre una visione culturale, ideologica o religiosa, agli individui, alla società e alle istituzioni democratiche». «Noi concepiamo la laicità non come il luogo di una presunta e illusoria neutralità, ma come rispetto e valorizzazione degli orientamenti, e quindi anche come riconoscimento nella sfera pubblica, e non solo privata, delle religioni, dei convincimenti filosofici ed etici, delle diverse forme di spiritualità». Energie morali che, «quando riconoscono il valore del pluralismo e del dialogo rappresentano un elemento vitale della democrazia». Grande spazio anche alla «libertà della ricerca scientifica», che il Pd sostiene «fermamente». E tuttavia, rispetto agli «inediti interrogativi di natura etica» sollevati dal progresso scientifico, il Pd sottolinea che «non tutto ciò che è realizzabile tecnicamente è eticamente accettabile, nè utile».
Si parla anche del ruolo della scuola come sistema «pubblico integrato» (che comprende anche le private), del ruolo della famiglia che va «incoraggiata con adeguate politiche di sostegno pubblico». E ancora: l’immigrazione non come «difficoltà da affrontare con politiche meramente restrittive», ma come opportunità»; la «dignità del lavoro» e la sua sicurezza: «Nessun riformismo può essere fondato su lavori “precari” e su “vite di scarto”»; la sicurezza e la legalità; la salvaguardia dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile. Molto soddisfatto Reichlin, che parla di «un grande passo avanti rispetto al manifesto dei saggi elaborato un anno fa. Il tema della laicità è affrontato in modo netto: da Habermas in poi è ovvio che le religioni abbiano diritto di parola nello spazio pubblico, ma lo Stato laico non accetta verità ultime». Soddisfatta anche l’ala sinistra, che in questa nuova bozza vede sottolineati a dovere i temi del lavoro e dell’ambiente e anche una nuova versione, «meno restrittiva», del passaggio sui limiti della ricerca. Resta irrisolto il tema della collocazione europea del Pd, e del rapporto con il Pse, che Sergio Gentili solleverà sabato alla riunione della commissione dei 100 per discutere la bozza. Interverrà anche Andrea Benedino, del gruppone laico guidato da Pollastrini e Cuperlo, per proporre emendamenti sulla laicità, nel senso di una più chiara esplicitazione dell’«autonomia della politica», e sulla definizione di famiglia «nella pluralità delle forme in cui si manifesta». Benedino festeggia anche un’altra novità: l’inserimento tra le cause di dicriminazione che il Pd intende combattere anche quelle fondate sull’orientamento sessuale. «È un risultato importante - spiega- maturato dopo le polemiche sul voto della senatrice Binetti in Senato».

l’Unità 10.1.08
Centinaia le adesioni in difesa della laicità


Sono giunte a 150 le adesioni al manifesto per la laicità nel Pd lanciato dal ministro Barbara Pollastrini e pubblicato ieri sull’Unità. Oltre a esponenti della società civile, il testo ha ricevuto l’adesione di diversi parlamentari. Gianni Cuperlo, lo ha inviato via e-mail a molti esponenti ex Ds chiedendo loro di firmarlo.
Il Manifesto ricorda i dibattiti sulla laicità e su specifici temi (Dico, testamento biologico, omofobia) degli ultimi mesi e sottolinea che tutta la discussione «accompagna, e per certi versi scandisce, la nascita del Pd, ne interroga scelte e cultura politica». Il manifesto si conclude preannunciando su questi temi un’iniziativa, lasciandosi un margine di scelta, anche se si è orientati per un seminario da svolgere già nelle prossime settimane, mentre oggi, forse domani, potrebbe essere attivo un blog attraverso il quale aderire all’appello. r i primi di marzo. Tra le adesioni arrivate ieri anche quelle dei professori Giorgio Marinucci o Giovanni Del Rio).

Repubblica 10.1.08
Il presidente della Camera incontra a La Paz il presidente Morales: "Qui soffia il vento del rinascimento politico"
Strappo di Bertinotti in Sud America: ecco la via "india" al socialismo
"Sotto questo tetto c´è posto per tante cose, che possono andare nella stessa direzione"
di Umberto Rosso


LA PAZ - La via "india" al socialismo. Forse, socialismo. L´ultimo strappo di Fausto Bertinotti si consuma nel palazzo del governo boliviano, dove trova appunto il primo presidente indio nella storia di quel paese. Ed è proprio nell´incontro con Evo Morales, clima quasi da rimpatriata fra amici dopo la recente visita a Roma del leader boliviano, nelle parole e nelle seduzioni del presidente con il maglione che promette la rivoluzione dolce, che Bertinotti scopre che è ormai tempo di un altro passo avanti, di liberarsi di un altro pezzo del vecchio bagaglio. «Morales? Personaggio straordinario, che sta cambiando faccia al paese in nome dell´indigenismo, dei diritti della sua gente, e non del socialismo. Penso che dobbiamo ripartire da qui». E "qui" vuol dire anche America latina dove, ha constatato Bertinotti, soffia il vento del «rinascimento politico», mentre l´Europa si dibatte in preda «a una fortissima crisi politica». Il cuore del cambiamento allora adesso batte da queste parti, fra i Caraibi e le Ande (e non a caso l´ex leader del Prc giusto pochi mesi aveva mandato in soffitta il progetto della Sinistra europea, il fronte dei partiti comunisti). A giorni ne parlerà a Caracas con l´altra grande stella del firmamento rivoluzionario latino, il comandante Chavez. E anche, con tutte le differenze politiche del caso, con i leader moderati del Perù Garcia e dell´Ecuador Correa. Addio dunque vecchia Europa e l´idea stessa di socialismo, che ancora poco tempo fa il presidente della Camera ha provato a riverniciare con l´etichetta "del XXI secolo", sembra uscire malconcia dall´impatto sudamericano. Dove appunto vince il modello indio e non quello caro alla tradizione dei partiti socialisti. «Qui non ragionano in termini destra-sinistra, ma la cifra è andina, ed hanno ragione». E giù allora picconate. «Guardando a queste esperienze, anche chi si pensa comunista o socialista deve liberarsi dell´idea dell´universalità, perché sotto questo tetto c´è posto per tante cose, che possono andare nella stessa direzione». Tradotto: de profundis per qualunque forma di internazionalismo, il cemento del socialismo "planetario". E conversando con Morales e i suoi, Bertinotti ha notato che il linguaggio stesso è diverso. «Io dicevo giustizia e loro parlano di armonia. Io di progetto politico e loro di vivere bene. Io di superamento del capitalismo e loro partono dalle esigenze concrete, il petrolio, il gas, l´acqua, e non dallo schema ideologico». Ognuno deve fare da sé.
«E vuoi vedere - scherza ma fino ad un certo punto il presidente della Camera - che a va a finire che il socialismo ce lo teniamo solo noi?». E così, mentre in Italia dentro la Cosa rossa si litiga ancora su simboli aggettivi e famiglie di appartenenza, Bertinotti lancia il suo messaggio che, decrittato in versione più politica, dice: sono battaglie passatiste, acceleriamo il nuovo soggetto e andiamo oltre il socialismo. E magari in questa chiave ritaglia per sé un ruolo sempre più ampio e da spendere lontano dai vecchi schemi di appartenza.
A Caracas incontrerà la madre di Ingrid Betancourt, da sei anni nella mani delle Farc («un gruppo che è finito per diventare una isolata ridotta militare»), alla quale offrirà solidarietà («non posso fare più di tanto, visto che perfino Chavez non riesce nell´impresa»), spiegando che sempre solo nel dialogo fra le parti c´è la via d´uscita. Come con i tanti che, profetizza Fausto, sono o stanno per diventare gli indigeni di casa nostra, perché una questione "indio" scoppierà anche in Europa. È già successo, spiega: la rivolta nelle banlieu parigine. E in Italia «ce ne accorgeremo presto, già se ne vedono i segnali». Il pensiero corre alla rivolta dell´immodizia a Napoli.

Corriere della Sera 10.1.08
Incontro con Morales «In Italia sistema da sbloccare, qui è rinascimento»
Bertinotti: socialismo? Basta Oggi credo nell'«indigenismo»
«Nelle banlieue gli esclusi d'Europa. Presto anche da noi»
«La democrazia rappresentativa va integrata al più presto con processi di partecipazione e convivenza»
di Andrea Garibaldi


«Siamo tutti un po' meticci»

LA PAZ (Bolivia) — Fausto Bertinotti è studioso di San Paolo e si potrebbe usare per lui un'espressione legata a San Paolo, «folgorato». Esce, Bertinotti, folgorato dagli incontri con il presidente boliviano Evo Morales (che lo ha insignito della Gran Croce dell'Ordine del Merito Civil del Libertador Simon Bolivar) e con il viceministro degli Esteri Hugo Fernandez, al Salon Olaneta del ministero. Esce con una domanda così: «Per la trasformazione della società e dell'uomo ci sono altre possibilità oltre il socialismo? Se la risposta è sì, la questione diventa per noi amara...». Prosegue: «Chi, in Europa, si pensa socialista e comunista deve smettere le sue pretese universali, togliere gli occhiali con cui guarda ogni evento. Ci sono, sotto il cielo, tante cose diverse».
Per Bertinotti, presidente della Camera, ritorno in Sudamerica, secondo viaggio, un anno esatto dopo il primo. Trasferte così lontane, così apparentemente periferiche, vanno giustificate, spiegate. Non si tratta di insegnamenti diretti da prendere. Oggi in Italia «il problema è lo sblocco del sistema politico, con una nuova legge elettorale, il superamento del bicameralismo perfetto e la riforma dei regolamenti parlamentari». L'America latina, invece, è «in pieno rinascimento politico: «Le sinistre latinoamericane si sono divise e uccise per decenni. Alla fine, si sono forse date degli anticorpi. Hanno scelto il senso di appartenenza a un destino comune. Vedi il Frente amplio uruguayano che va dagli ex guerriglieri tupamaros alla Democrazia cristiana e ha vinto». Ed ecco il linguaggio particolare che Bertinotti ha ascoltato nelle stanze del potere a La Paz, dove governa Morales, nato da una famiglia contadina di indios aymara. Racconta Bertinotti: «Mi hanno detto: voi parlate di "giustizia", noi di "armonia", voi dite di voler "vivere meglio", noi siamo per cercare di "vivere bene"».
Non è dunque necessario partire dalla critica del sistema, dall'esecrazione dell'attuale organizzazione del mondo, si può piuttosto muovere da ciò che genera sofferenze. L'idea che Bertinotti distilla è che «puoi sempre ricavare elementi riformisti da tutto ciò che vive», e cita il tentativo di Morales di restituire petrolio, gas e acqua che si trovano in Bolivia ai boliviani, di restituire i redditi delle terre agli indios che le abitano. Non mirando alla causa ma all'effetto, e questo è un bel passo indietro per una cultura che ha sempre combattuto per un mutamento strutturale. Il socialismo nasceva come internazionalista, ora ogni esperienza è storia a sé. Fa perfino una battuta, il fondatore di Rifondazione comunista: «Andrà a finire che il socialismo ce lo terremo solo noi in Italia! ».
In tale nuovo quadro pragmatico si tengono assieme l'esperimento moderato della Bachelet in Cile, il sindacal- riformismo di Lula in Brasile, perfino il neo peronismo dei Kirchner in Argentina. Il socialismo (però «del XXI secolo») di Chavez in Venezuela e infine l'ardito sforzo dell'indio Morales, qui. Il partito del presidente si chiama Mas, Movimento al socialismo, ma più di una volta — nei colloqui— la parola «socialismo» viene superata. Preferendo l'«indigenismo ». Spiega Bertinotti: «Significa far partecipare chi è escluso, dialogare con chi è diverso, cioè con più del 50 per cento della popolazione, con gli eredi degli abitanti di queste terre prima della conquista spagnola». E da noi, chi sono gli indigeni? «In Europa gli indigeni si trovano di certo nelle "banlieue" parigine. Da noi è più complicato, ma forse non dovremo aspettare molto per scoprirli...». Quelli di Pianura, i reietti dei rifiuti? Bertinotti consuma un altro salto ideologico, cerca di navigare in un mare sempre più aperto. Ne parla per tre volte nello stesso giorno, al Museo Nacional de Arte, all'Università Umsa e all'ambasciata italiana. Non è solo il socialismo in discussione. Anche la democrazia rappresentativa come la conosciamo «non basta più, va integrata con processi di partecipazione, convivenza. Non è questione di sentimentalismo, ma di sopravvivenza. Bisogna fare presto...».

Corriere della Sera 10.1.08
Campagna contro l’aborto, purché la faccia lo Stato
di Sergio Romano


Non vi è dubbio che sui temi etici vi siano strumentalizzazioni ideologiche in entrambi gli schieramenti. Ma se Ferrara o Ruini sostengono che l'aborto è diventato una pratica di controllo delle nascite e di selezione genetica (in Cina spesso non si fanno nascere le femmine) dicono una verità che tutti conosciamo. È altrettanto vero che in Italia la legge 194 non è applicata nella sua interezza perché l'art.1 che prevede attività di sostegno psicologico e sociale alle madri in difficoltà e offerta di alternative all'aborto, non è applicato nella maggior parte dei consultori che si limitano a rilasciare certificati per l'interruzione della gravidanza. E a rimetterci sono tante donne che rimangono traumatizzate per tutta la vita. Con buona pace di qualche obsoleta femminista e di Pannella.
Lorella Groten
oite41@yahoo.it
La tesi delle donne, delle femministe in particolare, è questa: è la donna che partorisce e deve quindi essere libera di decidere.
Giustissimo. La questione è: quando deve decidere?
Ci sono in commercio una quantità di contraccettivi, pillole, profilattici, spirali, spermicidi. Prima di far sesso, la donna può decidere se vuole o non vuole restare incinta. Ma la sua libertà di decidere non può tradursi in diritto di vita o di morte di un altro essere vivente.
Cinque milioni di aborti stanno a dimostrare quanto meno leggerezza.
Le leggi non sono neutrali, di fatto finiscono per favorire l'ecatombe di feti, assolvono la donna da ogni responsabilità. È vero che i principi etici sono diventati nelle nostre società marginali, ma questo non deve servire da pretesto per alimentare il degrado.
Francesco Bergamini
qoeref@netscape.net

Cari lettori,
L' interruzione di gravidanza fu approvata dalle Camere nella primavera del 1978 e venne confermata dal fallimento del referendum abrogativo del maggio 1981. La legge fu salutata come la conquista di un diritto e parve importante per due ragioni. In primo luogo perché permetteva alla donna di programmare la propria vita ed era quindi una conquista del movimento femminile; in secondo luogo perché fu considerata una terapia efficace contro la piaga degli aborti clandestini. Anche i dubbiosi e gli incerti dovettero piegarsi di fronte a questi due fattori. È bene ricordare, a scanso di equivoci, che gli italiani contrari all'abrogazione della legge furono 21.505.323 e rappresentarono il 68% degli elettori. Sarà difficile, e forse inopportuno, tentare di modificare una norma in cui la grande maggioranza degli italiani vide allora la conquista di un diritto.
È vero, tuttavia, che la legge sta producendo risultati sconcertanti e che il suo uso eugenetico rafforza dubbi e riserve. Francesco Bergamini ha ragione quando osserva che la donna dispone oggi di altri mezzi per sottrarsi alla prospettiva della gravidanza. Lorella Groten ha ragione quando constata che l'aborto non viene utilizzato soltanto per evitare la maternità, ma anche e soprattutto per «selezionare » il figlio desiderato. Non è necessario riconoscere il magistero della Chiesa cattolica per provare un forte disagio morale di fronte all'uccisione di creature viventi, spesso eliminate per scartare il «prodotto guasto». Può darsi che la modifica della legge n. 194 sia oggi, nell'attuale stato confusionale della politica italiana, un esercizio inutilmente rischioso. Ma questo non esclude la possibilità di una forte campagna anti-abortista.
Questa campagna, tuttavia, deve essere ispirata dagli interessi e dagli obblighi dello Stato, non dai precetti della Chiesa. Lo Stato non può predicare la virtù della castità e della continenza, non può erigersi a maestro di comportamenti morali, non può ignorare le richieste di una parte importante dei suoi cittadini. Deve limitarsi a constatare che l'età dell'attività sessuale si è fortemente abbassata e che il fenomeno dell'immigrazione crea un sottoproletariato promiscuo in cui la maternità è spesso il frutto casuale dell'ignoranza, della negligenza e della violenza. Se vogliamo ridurre drasticamente il numero degli aborti, dobbiamo accettare che l'educazione sessuale diventi, a partire dai tredici anni, una delle principali materie del programma scolastico e prevedere la distribuzione gratuita dei contraccettivi nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle borgate. La Chiesa è contraria a ciò che implicitamente giustifica la violazione dei suoi precetti. Ma uno Stato democratico e laico ha altre responsabilità e deve renderne conto ai propri cittadini, non alla Conferenza episcopale.


il Riformista 10.1.08
Caro Veltroni, ma perché sull'aborto
come interlocutore hai scelto Ferrara?
Le forze clericali vogliono mettere le mani sulla legge 194
di Andrea Benedino


Forse sono l'ultimo a dover parlare. Non sono donna, non sono padre e non sono neppure eterosessuale, e di conseguenza non vengo considerato come naturalmente predisposto alla procreazione. Però l'idea che il segretario del mio partito scelga come interlocutore per discutere di aborto Giuliano Ferrara (che peraltro non ha molti titoli più di me a questo riguardo) mi urta nel profondo, perché va di fatto a riconoscere una patente di legittimità alle posizioni di chi, con la sua proposta di «moratoria», ha equiparato di fatto quelle donne che abortiscono a delle assassine, o peggio a dei «boia». Certo, Veltroni nella sua lettera al Foglio difende la 194, e certo, difende pure a spada tratta la posizione della ministra Turco, e certo, essendo noi tutti dei veri e autentici democratici, a un sano dibattito non diciamo mai di no, ma perché proprio Ferrara?
L'ho già scritto altre volte: reputo Walter Veltroni troppo intelligente e troppo attento all'importanza della comunicazione per non comprendere come il valore simbolico della sua disponibilità a incontrare Giuliano Ferrara per discutere della moratoria dell'aborto sia infinitamente superiore al contenuto della posizione politica da lui espressa nella sua lettera al Foglio . Perché rischia di rappresentare la prima vera breccia in quel muro che da decenni impedisce alle forze clericali di questo paese di mettere le mani sulla 194, che poi significa mettere le mani sul corpo delle donne, sulla loro libertà di scelta e di autodeterminazione e più in generale sul valore di uno Stato laico che si rifiuta di trasformarsi in Stato etico. Perché era assolutamente logico pensare che nella folle strategia di conquista di un consenso egemonico nella società da parte delle gerarchie ecclesiastiche, dopo il risultato che è sotto gli occhi di tutti di aver impedito qualsiasi nuova legge che ampliasse i diritti civili dei nostri cittadini (dalla procreazione assistita, al testamento biologico, al divorzio breve, alle unioni civili) il passo successivo sarebbe stato quello di provare a mettere le mani, magari servendosi dell'aiuto di qualche ateo devoto, su quella legge - la 194 - che nell'immaginario collettivo di questo paese ha rappresentato e ancora rappresenta, assieme alla legge sul divorzio e al nuovo diritto di famiglia, quel complesso di leggi che hanno emancipato l'Italia dal condizionamento eccessivo della Chiesa cattolica nella vita dei cittadini.
Viene quindi da pensare che il senso di questo gesto apparentemente folle se non "contro natura" di Veltroni stia proprio lì: nel segnare un passo avanti verso l'apertura di un dialogo che possa consentire a quelle forze di provare a piantare con forza una bandierina, seppur piccola, sulla cima della 194, magari nella speranza che possa col tempo provocare quella valanga da essi auspicata in grado di trasformare per sempre il valore che quella legge rappresenta per le donne italiane, e più in generale per i laici di questo paese. Nel rendere palese all'opinione pubblica che nemmeno la 194, per quanto difesa e sostenuta a parole, può più rappresentare quel santuario inviolabile che finora è stata per le donne e i laici di questo paese, perché della sua riforma si può e si deve discutere, addirittura con i peggiori interlocutori.
Di questo stiamo discutendo in realtà, non di altro. Di come attraverso una serie di gesti simbolici - il voto contro il registro delle unioni civili a Roma e appunto il dialogo con Ferrara sulla moratoria degli aborti - la nuova stagione inaugurata da Veltroni stia mutando nel profondo il Dna della sinistra democratica e laica di questo paese.
Bene ha fatto quindi il presidente nazionale dell'Arcigay Aurelio Mancuso nei giorni scorsi, in un articolo scritto con perfida e sapiente ironia, a chiedere anch'egli un confronto alla pari di Ferrara con la Commissione che sta scrivendo il Manifesto dei Valori del Pd. Bene farebbero a chiedere un confronto serrato con Veltroni il movimento delle donne, gli scienziati, i medici, i ricercatori. Perché da troppo tempo questo partito (e anche quelli che l'hanno preceduto) non parla più coi movimenti e non si confronta con la realtà della vita delle persone, troppo chiuso com'è nella sua fortezza assediata. Perché il rischio che corriamo è che questo Pd dialoghi e interloquisca solo con chi alza la voce con prepotenza, con chi non si fa scrupolo di strumentalizzare il dramma delle donne che abortiscono pur di affermare il proprio dominio sull'agenda politica del paese. Perché ha ragione Mariella Gramaglia quando afferma che «la ragione per cui la moratoria dell'aborto sta nell'agenda politica è che la signoria dell'immaginario collettivo e dei canali attraverso cui si struttura è saldamente nelle mani degli uomini».
È un bene quindi che i laici del Pd - come annunciato nell'appello promosso da Barbara Pollastrini, Salvatore Veca, Gianni Cuperlo, Miriam Mafai e tanti altri tra cui chi scrive - stiano finalmente iniziando a organizzarsi, a esprimere con forza le loro preoccupazioni per questa fase confusa che stiamo attraversando. Non si tratta affatto di rinchiudersi in un recinto identitario, ma piuttosto di ridare una voce chiara e forte a quelle tante e a quei tanti che in questi mesi una voce non l'hanno avuta, che non capiscono più cosa sta succedendo, e che rischierebbero di trovarsi presto senza un partito di riferimento se nel Pd non venissero fissati paletti chiari su diritti civili, laicità ed etica. Perché è proprio l'assenza di questa voce che consente a chi urla più forte di farsi ascoltare e di divenire l'unico vero interlocutore. Perché è importante che Veltroni sappia, quando incontrerà l'orco Ferrara, che saranno in tante e tanti in quel momento nel Pd a pensare, come io penso, «not in my name».
componente commissione nazionale Manifesto dei Valori del Pd

il Riformista 10.1.08
Incontri. oggi il sindaco di Roma in udienza
L'esordio vaticano da leader del Pd
Veltroni ascolta l'agenda di Ratzinger
Tempo fa il caos in Campidoglio sul registro delle unioni civili
di Paolo Rogari


Walter Veltroni, negli anni passati, già aveva partecipato in qualità di sindaco di Roma alle udienze che, come vuole la tradizione, il Papa concede ai rappresentanti degli enti locali del Lazio al finire delle festività natalizie: un incontro storicamente speciale visti i vincoli profondi e antichi che uniscono il successore di Pietro alla città di Roma. Ma l'udienza del 2008 in programma quest'oggi nella sala Clementina del Vaticano - la terza del pontificato di Ratzinger, la terza a cui partecipano, oltre a Veltroni, Enrico Gasbarra e Piero Marrazzo - ha un sapore differente, visto che è la prima volta che vi prende parte da leader del Partito democratico: un progetto politico osservato con attenzione dalla Santa Sede anche a motivo dell'eterogeneità delle forze (cattoliche e laiche) che ne fanno parte.
Come negli appuntamenti precedenti, il Pontefice si premunirà di offrire ai tre amministratori alcuni spunti di riflessione per una politica territoriale consona all'idea di società propria della dottrina sociale della Chiesa. Spunti di riflessione, dunque - e non diktat -, spunti che, dal punto di vista del Vaticano, si inseriscono in un naturale terreno di collaborazione tra la Chiesa e le istituzioni e servono da base per un confronto che continuerà nei mesi a venire e che, per quanto riguarda Veltroni, non potrà non avere una sua eco anche nelle scelte che il neo costituito Pd dovrà prendere in futuro.
Il discorso di oggi di Benedetto XVI, come quelli passati pronunciati agli enti locali del Lazio, contnerrà molto probabilmente una parte dedicata alla necessità di valorizzare la famiglia fondata sul matrimonio e alla preoccupazione per le proposte che vogliono legalizzare le unioni di fatto. Su questo punto Veltroni ha dovuto gestire una situazione difficile qualche settimana fa, quando c'era all'ordine del giorno in Campidoglio, su iniziativa della sinistra, l'istituzione di un registro per le unioni civili. Ed è ovviamente in situazioni come questa che la Santa Sede si fa sentire, e scruta con particolare attenzione e preoccupazione l'operato del leader del Pd.
In occasione degli appuntamenti pubblici con il Papa, Veltroni ha sempre tenuto un comportamento che in Vaticano giudicano impeccabile: seduto con reverenza in prima fila, al momento dei saluti (a differenza di molti dei suoi collaboratori) si è sempre inchinato a baciare l'anello papale. Ma nonostante la forma resti importante, è ovviamente sulla sostanza che la Santa Sede lo aspetta al varco. E, in particolare, è sulle temi eticamente sensibili che il Vaticano si aspetta prese di posizione aperte, che consentano (sempre dal punto di vista della Chiesa) un confronto serio, magari serrato, ma non ideologico.
In merito alle proposte di moratoria dell'interruzione volontaria della gravidanza, per le gerarchie ecclesiastiche già si sono espressi direttamente il cardinale vicario di Roma Camillo Ruini e il presidente della Cei Angelo Bagnasco. Mentre il Papa, tre giorni fa, di fronte al corpo diplomatico, ha chiesto un impegno della comunità internazionale nella difesa della sacralità della vita. Parole che hanno ripreso altri precedenti interventi del Pontefice volti a ricordare la necessità di difendere la vita dal suo concepimento al suo naturale tramonto. Su questo tema, anche in passato, il Papa si era espresso in modo chiaro e ulteriori eventuali interventi non dovrebbero andare oltre il già detto.
Accanto ai temi etici, verranno affrontati anche quelli sociali, a partire dalle politiche di integrazione che negli ultimi mesi, soprattutto a Roma, hanno mostrato, a giudizio del Vaticano, parecchie crepe. Anche nell'udienza dello scorso anno c'erano stati importanti accenni in merito: Senza la capacità di gestire i flussi migratori, e senza offrire agli stranieri concrete possibilità di integrazione, non è possibile governare una situazione che rischia sempre più di degenerare. In questo senso non erano mancate, prima di Natale, prese di posizione critiche da parte di alcuni esponenti della Santa Sede anche per il cosiddetto suk di via della Conciliazione, che chiedevano agli amministratori locali politiche d'integrazione incentrate sì sulla comprensione, ma anche sull'equilibrio. Alla cosa potrebbe essere fare qualche accenno anche oggi il Pontefice.

Aprile on line 10.1.08
La laicità perduta...
di Carla Ronga


Correva l'anno 2007: i mass media s'interrogano intere settimane sul gabinetto più consono per un transessuale; di P.A.C.S. o di D.I.C.O., dopo tante promesse, neppure l'ombra. Al contrario, il centrosinistra si spacca sul Family day mentre la controffensiva laica stenta a riempire piazza Navona; si scrivono leggi speciali contro gli immigrati violenti mentre le donne subiscono violenza da mariti e compagni al motto "i panni sporchi si lavano in famiglia!"; il Pd inciampa a Roma sul registro delle coppie di fatto dopo l'appello vaticano ai consiglieri comunali cattolici: "sarebbe un offesa al carattere sacro della città".
Corre l'anno 2008, anno importante in quanto segna il quarantennale del '68: i diritti civili vengono bollati come temi "eticamente sensibili", una sorta di "politically correct" che provoca, nel migliore dei casi, l'immobilismo e, nel peggiore, una regressione integralista che appare in tutto il suo "peso" quando il papa si scaglia contro l'aborto, e il suo fedele scudiero Ferrara orrendamente equipara la pena di morte con l'interruzione volontaria di gravidanza.
Voi che ne dite: noi laici, dove abbiamo sbagliato?

il manifesto 10.1.08
Ratzinger arriva alla Sapienza
Il Papa all'inaugurazione dell'Anno accademico della prima università romana
Dopo le proteste, l'ingresso in Aula Magna è previsto subito dopo la cerimonia d'apertura del Rettore. Docenti e studenti preparano la «difesa della Minerva»
di Eleonora Martini


Faranno quadrato attorno alla Minerva, dea del conflitto e della conoscenza, per difenderla dal «Papa inquisitore». Molti studenti e docenti dell'università romana La Sapienza sono già in agitazione all'idea di quale sarà la «riflessione» che Benedetto XVI offrirà alla comunità universitaria il 17 gennaio prossimo, quando per la prima volta varcherà la soglia di un ateneo italiano e lo farà, nel più grande d'Europa, in occasione dell'inaugurazione del 705esimo Anno accademico. La giornata è dedicata quest'anno alla moratoria sulla pena di morte e il tema sarà al centro di ogni intervento previsto. Ed è molto probabile che Ratzinger, il quale pronuncerà il suo discorso alla presenza del segretario del Pd Walter Veltroni e del ministro Fabio Mussi, uno dei quattro segretari della Sinistra arcobaleno, non perderà l'occasione per proporre di nuovo ai giovani aspiranti laureati italiani il parallelo tra l'aborto e la pena di morte.
Ma il Papa farà il suo ingresso nell'Aula Magna solo pochi minuti dopo che si sarà conclusa la tradizionale cerimonia accademica, come aveva già precisato il rettorato rispondendo al professore emerito Marcello Cini che dalle colonne di questo giornale aveva inoltrato la propria lettera di protesta sottoscritta poi da molti altri docenti italiani. Il Santo padre cioè sarà accolto solo dal rettore Renato Guarini e da uno studente, scelto probabilmente con una certa ironia per il nome: Christian Bonafede. A Veltroni e Mussi invece solo la possibilità di un saluto privato - trasmesso come tutto il resto della giornata in diretta su Rai Uno - assieme alle altre autorità accreditate. Subito dopo Ratzinger si recherà a fare visita ai gesuiti della Cappella universitaria e di fatto, senza mai uscire dalla città universitaria, sarà di nuovo in territorio vaticano.
Ovviamente ci saranno anche molti studenti e docenti che lo accoglieranno felici, ma sono tanti coloro che trovano a dir poco sconveniente che l'apertura dei lavori universitari veda la presenza di un pontefice neo tradizionalista come Benedetto XVI, «un teologo la cui lectio magistralis di Ratisbona sollevò dure reazioni in tutto il mondo islamico e che oggi si appresta a dare avvio ad una nuova crociata contro le donne e gli omosessuali», come dice uno studente appartenente a uno dei tanti collettivi in ebollizione. «Tradizione e innovazione: ci sono slogan che riescono a catturare la realtà, o il suo triste vuoto. Questo è tutto ciò che possiamo riconoscere allo slogan scelto dalla Sapienza per autocelebrare un simulacro, cioè le macerie del "tempio della conoscenza"», scrive la Rete per l'Autoformazione (Rpa) nell'appello con il quale si indice un'assemblea pubblica di discussione per martedì 15 gennaio. Ovviamente nel mirino ci sono soprattutto i due esponenti del centrosinistra: «Chi meglio di Veltroni può interpretare lo slogan: tradizione, "ma anche" innovazione? Chi più di Mussi, ministro senza qualità, ha bisogno della forza della reazione per poter mettere piede in un'università che ne ha subito l'assenza e la debolezza?», attaccano gli studenti. Che, insieme ai Collettivi studenteschi stanno organizzando la protesta anche perché quel giorno La Sapienza verrà chiusa, militarizzata come tutto il quartiere con una presenza massiccia di polizia e carabinieri. «È indegno che quel giorno si impedisca l'ingresso degli studenti all'università - accusa Francesco della Rpa, che insieme ai Collettivi studenteschi sta preparando le manifestazioni di protesta - per questo facciamo appello a tutta la società laica di venire a difendere simbolicamente la Minerva, la potenza dei saperi di parte e del conflitto». Nel pomeriggio invece Facciamo Breccia prepara un'ironica via crucis dentro la città universitaria giocando sul travestitismo dei preti e puntando il dito contro l'omofobia e la misoginia della Chiesa. Una tappa verso la manifestazione nazionale No Vat del 9 febbraio prossimo.
Non è la prima volta che un Papa entra nel tempio delle scienze: per rimanere solo alla storia recente La Sapienza venne visitata da Paolo VI nel '64 e da Wojtyla nel '91. Il quale poi inaugurò l'anno accademico di Roma Tre nel 2002 alla presenza di Letizia Moratti e Claudio Scajola. Ma allora la maggior parte del centrosinistra e anche del Pd erano dall'altra parte della «barricata».

il manifesto 10.1.08
Il Pd è laico per statuto, ma famiglia e religione sono tanto importanti
Pronta la bozza per il partito di Veltroni, ma parte lo scontro tra appelli contrapposti. E si organizzano le correnti. Quelli di Letta: se il segretario perde le elezioni si dimetta
di Mi. B.


La bozza del Manifesto dei valori del Pd è pronta, ieri è stata consegnata ai cento componenti della commissione dai suoi estensori - il presidente della stessa commissione Alfredo Reichlin e Mario Ceruti - e sabato sarà discussa. Nove pagine in cui si afferma che «la laicità dello stato e delle istituzioni è un valore essenziale dell'impegno politico e sociale» del partito, aggiungendo però che essa va intesa «come rispetto e valorizzazione degli orientamenti culturali, e quindi come riconoscimento della rilevanza nella sfera pubblica, e non solo privata delle religioni». Un successo rivendicato tra gli altri da Giorgio Merlo che proprio ieri chiariva che «i cattolici sono determinanti» e che «non trova spazio il tentativo, patrocinato da qualche esponente del Pd, di ridurre il sentimento religioso a un fatto meramente privato». E così è.
Nella bozza il Pd viene presentato come «un partito aperto» in cui «le diverse storie politiche, culturali e umane che sono venute a formarlo sono fattore di arricchimento e fecondazione reciproca». La laicità, è scritto ancora, consiste nella garanzia di uno spazio pubblico e condiviso di libero confronto e decisione, autonomo rispetto a qualunque condizionamento mirante a imporre una visione (di ordine culturale, ideologico, religioso), agli individui, alla società e alle istituzioni». Ma qui i cattolici incassano la «rilevanza nella sfera pubblica» della religione. Nella bozza è scritto poi che la famiglia, «il primo luogo relazionale, affettivo e formativo dove si sviluppa l'identità, l'inserimento sociale e la dignità della persona», va incoraggiata con « politiche di sostegno pubblico». Per quanto riguarda la scuola, si parla del «sistema scolastico pubblico integrato» caro al ministro Fioroni.
Sabato la discussione, dunque. Di fatto già aperta insieme allo stesso cantiere del Pd. E recentemente scaldata da questioni come il registro delle unioni civili che il comune di Roma non ha potuto istituire (proprio per la contrarietà del sindaco Veltroni) e dal nuovo scontro sulla legge 194. Insomma, quello della laicità è un nodo irrisolto, lamentano i laici del partito che hanno firmato un appello «per un nuovo civismo» pubblicato ieri dall'Unità. Un documento che ha raccolto 150 adesioni promosso dalla ministra Barbara Pollastrini e da Gianni Cuperlo e firmato tra gli altri da Miriam Mafai (che su Repubblica aveva parlato di sconfitta del Pd a proposito del registro delle coppie di fatto). Nell'appello si segnala come nella «inevitabile» discussione su Dico, testamento biologico, fecondazione assistita, aborto, rispetto dell'orientamento sessuale si scorga una «sovrapposizione di concetti che preoccupa» perché «si scambia di frequente la richiesta di legittimi diritti civili per tematiche etiche». Il che «rende più confusa la discussione e la ricerca di un approdo condiviso». I firmatari, che annunciano per i primi di marzo un incontro pubblico, manifestano «inquietudine» sia per le posizioni «che restituiscono all'omosessualità una patente di malattia da curare» (leggi Paola Binetti), e più in generale per «la difficoltà del nuovo partito di elaborare sul terreno della cittadinanza, dei diritti e delle responsabilità del singolo, una chiave indispensabile della propria identità».
Nel frattempo nel «partito aperto» di Veltroni, non solo su questi temi, si moltiplicano iniziative di gruppi (ma non si chiamino «correnti»...). Ieri il «gruppo dei 60», i cattolici democratici ex Ppi di Franceschini e Fioroni che promossero il manifesto contro le ingerenze dell'episcopato sulle unioni civili, ha rilanciato la sua associazione «Quarta fase» che aprirà a fine febbraio una sede a Roma. Per un altro verso si fanno avanti anche i «lettiani»: con un emendamento alla bozza statuto chiedono che in caso di sconfitta alle elezioni il segretario del Pd si dimetta.

il manifesto 10.1.08
Cosa rossa. Sinistra al palo, si aspetta la Corte
Lo sfogo di Salvi «Unità? A un mese dagli stati generali siamo allo stallo». Il Pdci ai compagni del Prc: il modello finto tedesco è un golpe. Noi non lo voteremo mai»
di Daniela Preziosi


E' ferma al palo la sinistra unita sotto la troppo variopinta insegna dell'arcobaleno. Per Cesare Salvi «a un mese dagli stati generali, non riusciamo a trovare una posizione unitaria. Lo vediamo sulla legge elettorale». Se va avanti così l'unità resterà una chimera. Si sfoga, il capogruppo di Sinistra democratica al senato. Si sfoga, si «preoccupa» e si «rammarica» per lo stato dei rapporti a sinistra. Le divisioni a palazzo Madama sulla bozza Bianco sono profonde, almeno per ora. Rifondazione è possibilista sulla bozza Bianco, almeno a certe condizioni (Giovanni Russo Spena snocciola tre no: no a un sistema maggioritario, no al referendum e no a un sistema bipartitico). Sd, Pdci e Verdi la bocciano, anche se con sfumature diverse. Differenze che non promettono niente di buono.
Troppo inclemente la diagnosi di Salvi? In teoria le cose non starebbero così. Ieri, alla camera, su un altro tavolo, i quattro dell'arcobaleno ( in realtà erano tre, Giordano, Pecoraro Scanio e Mussi, Diliberto mancava a causa di un'influenza, ma poi c'erano i ministro Paolo Ferrero e Alessandro Bianchi) hanno raggiunto una posizione unitaria sui salari, da portare oggi al primo round della verifica con il governo. Ma per il secondo round, quello sulla legge elettorale, previsto per il 20 gennaio, al momento non c'è nessuna possibilità di un'orientamento unitario. Primo, tutto dipende dalla decisione della Consulta sull'ammissibilità del referendum. Da cui, secondo, discenderanno gli orientamenti definitivi della discussione sulla legge elettorale.
E siccome l'unità sulla legge elettorale è come dire l'unità sulle prospettive - nel caso lo sbarramento al 5 per cento sarebbe un argomento convincente per sollecitare i quattro partiti verso un'unità praticata, oltreché dichiarata - ha ragione Salvi quando dice che la sinistra unita per ora è in alto mare. A un mese dalla celebrazione degli stati generali alla nuova Fiera di Roma, con tanto di scenografie, simbolo e bella ciao. Da allora il progetto è allo stallo, «non si sono fatti passi in avanti», insiste Salvi, «noi crediamo in quel progetto ma rischia di essere dissolto dalle controversie dei ceti dirigenti e politici».
Ma al momento, di una legge elettorale condivisa neanche a parlarne. Letteralmente. Un tabù: lo riferiva ieri Manuela Palermi del Pdci all'uscita del vertice della sinistra al senato: «Non ne abbiamo parlato perché siamo divisi. Non possiamo farci la guerra tra di noi. Per me la bozza Bianco è un colpo di Stato». Un golpe, quindi, non una proposta ma «una provocazione», dice la senatrice, «un evidente frutto dell'accordo tra Berlusconi e Veltroni. Entrambi la utilizzano per arrivare al referendum evitando che il parlamento lavori ad una proposta seria». Ed è «imbarazzante» che il presidente Bianco «insista a voler votare martedì la bozza, quando la stragrande maggioranza della Commissione (Pdci, Verdi, Sd, An, Udc, Costituente socialista, ndr) si è espressa in modo contrario». Parla a suocera perché nuora intenda. Dove la nuora, Rifondazione, a detta di Pier Ferdinando Casini, è propensa se non vicina all'accordo con Pd, Forza Italia e la stessa Udc sul sistema tedesco. Sistema tedesco, poi? Per il Pdci la bozza Bianco non ha niente a che vedere con la Germania. Ieri i comunisti italiani hanno diffuso uno studio commissionato per simulare gli effetti di un'eventuale riforma secondo i criteri della 'bozza Bianco', almeno quelli noti. Risultato: un massacro per i piccoli, dalla rossa Umbria sarebbe proibitivo per il Pdci far eleggere un senatore. Difficile anche per il Prc. La sentenza di Palermi: «Una riforma suicida, non la voteremo mai, in nessuno delle sue possibili versioni».

mercoledì 9 gennaio 2008

I laici del Pd: «Nessun cedimento su etica e diritti»
Cento firme per l’appello, tra i promotori il ministro Pollastrini. Aborto, sì di Veltroni al dialogo con Ferrara

In testa la firma del ministro Barbara Pollastrini e quella del filosofo Salvatore Veca, a seguire quelle di intellettuali, parlamentari, amministratori, donne e uomini di diversa provenienza del Partito Democratico. Un appello per i diritti umani e civili, la libertà e responsabilità della persona, l’autonomia femminile, l’indipendenza e il principio di precauzione della scienza. Il documento - come spiegano i promotori - ha ottenuto già un centinaio di adesioni, sfruttando il semplice passaparola.
Intanto dopo l’offensiva aperta dalla Chiesa e da settori della destra contro la legge 194, partono le prove di dialogo. Il leader del Pd, Walter Veltroni, ribadisce che la legge non si tocca ma aggiunge che ritiene «utile» il dialogo di merito proposto da Giuliano Ferrara: «Non mi spaventa una discussione di merito che tenga a rafforzare gli aspetti di merito».


l’Unità 9.1.08
Parola di Chiara
di Maria Novella Oppo


LA SOCIOLOGA Chiara Saraceno ieri mattina a Omnibus ha detto delle parole così chiare e giuste sull’aborto che più di una spettatrice si sarà commossa. In particolare quando ha cercato di spiegare a Buttiglione che non si può obbligare la donna a partorire, perché «se non c’è il sì della donna, non c’è vita». Ecco il punto, portato alla sua estrema chiarezza. Ed è proprio il punto che molti uomini fanno fatica ad accettare. Non sopportano che le donne decidano del loro corpo e della loro vita, se non in funzione degli uomini. Per questo reagiscono malissimo a ogni no. La cronaca nera è piena di esempi estremi, mentre la cronaca politica è piena di esempi cinici. Come la richiesta di moratoria per l’aborto, che avvicina le donne al boia. Chi la propone finge di ignorare che l’unico modo per diminuire davvero il numero degli aborti in Italia è la legge 194. Ma a Giuliano Ferrara questo non interessa, mentre il fatto che il Papa si accodi ai furbetti del catechismo come Ferrara, per noi laici rappresenta il crollo dell’autorità morale della Chiesa.

l’Unità 9.1.08
Anarchia feudale e caso Napoli
di Bruno Gravagnuolo


Turati spregiato. Non solo Giovanni Belardelli non ha letto il libro su Turati di Spencer Di Scala (ed. «Critica sociale») di cui già vi parlammo, come ribatte Di Scala a Belardelli sul Corsera di lunedì. Ma in ogni caso non ne ha capito il «senso». E il senso era quello di riproporre all’attenzione la figura chiave di un socialista che per primo in Italia coniugò democrazia e socialismo. Senza sconti al Pci, che pur senza dirlo, ripercorse la sua strada. Come del resto preconizzò Turati all’atto della scissione di Livorno nel 1921: ritornerete sui vostri passi... Quanto a Berlinguer, non c’entra un’acca la «revisione» di Silvio Pons a riguardo. Fu ambivalente sull’Urss, malgrado lo strappo. E nondimeno calcò una pista riformista, con la sua politica del «patto tra produttori». Enunciato per primo da Turati a fronte di Giolitti nel 1920, in un celebre discorso. Turati debole coi massimalisti? No, ma oscillante sull’idea di governo e in più travolto dal 1914 e dal 1917! Difficile in quelle condizioni far prevalere il riformismo, con Mussolini che passa alla guerra, la crisi, l’Ottobre, il fascismo montante. Come che sia Turati meriterebbe almeno rispetto ed equanimità da storici. E non polemichette alla Belardelli.
Sfascio e partito personale Ha ragione Paolo Macry sul Corsera. La tragedia napoletana va vista anche dentro l’«anarchia feudale» sprigionata dalla deriva «federale» delle perifirie, a partire dagli anni 90. Con moltiplicazione dei centri di spesa, fine dei partiti nazionali, liquefazione della statualità, nascita di partiti personali e trasversali, miracolismo leaderistico: cento padelle e tanti «capataz». Non sarebbe l’ora di una profonda revisione di tante illusioni «maggioritariste» e decisioniste, che hanno squinternato la politica come fatto nazionale e di appartenenza? Sì, sarebbe l’ora. Ma non spunta ancora.
Dei delitti e delle pene Dice di non voler giudicare le donne che abortiscono bensì «l’omicidio», Giuliano Ferrara alla Stampa. Ma vorrebbe che il «concetto» fosse inserito nella Carta dei diritti dell’Onu. Sicché Ferrara sotto specie di moratoria lavora alla predefinizione etica di un reato: l’aborto. E poiché non v’è reato senza pena, al delitto seguirà la sanzione. Nullum crimen sine lege . E sine poena. Il resto sono chiacchiere (furbe).

l’Unità 9.1.08
Beni culturali, la girandola impazzita
di Vittorio Emiliani


Continua il valzer di nomine nel campo dei beni culturali e paesaggistici, tra dipartimenti
vari e soprintendenze: il risultato è quello di svuotarli di operatività e di senso politico

L’ultimo caso - clamoroso - è quello del Darc, dipartimento per l’arte contemporanea, retto con successo e capacità da Pio Baldi: con l’ultimo turbine di nomine l’hanno mandato a fare l’anno sabbatico

Un paradosso tutto italiano: da un lato si continua ad esaltare la quantità/qualità del patrimonio archeologico-storico-artistico-paesaggistico italiano, anche come fondamentale valore economico, occupazionale, attrattivo, etc. etc.; dall’altro la rete tecnica, scientifica e amministrativa preposta a tutelarlo, già debole, diventa precaria, con buchi evidenti di personale, uffici retti ad interim e, negli ultimi anni e mesi, un turbinoso valzer di nomine e di spostamenti o scossoni che certo non giovano all’autorevolezza delle Soprintendenze nei confronti delle Regioni, degli Enti locali, dei privati, del mondo artistico internazionale. Al contrario. Ma che politica si vuole attuare per i nostri pregiati beni culturali e paesaggistici? Con quali poteri e presidii su di un territorio molto diverso, e che quindi esige attenzioni e competenze specifiche? Qual è la ratio generale di tutto ciò?
Il caso più clamoroso - di cui ha parlato in cronaca di Roma anche questo giornale - è quello del Darc, dipartimento per l’arte contemporanea, retto con successo da un direttore generale della qualità di Pio Baldi, già valido soprintendente a Siena (con lui la lottizzazione di Monticchiello probabilmente non ci sarebbe stata, né lo scandalo di Casole d’Elsa) e nel Lazio e che, con l’ultimo turbinare di nomine si ritrova invece titolare di un «incarico di studio», una sorta di anno sabbatico. Baldi non ha commentato. Giustamente attende di vedere gli atti, le motivazioni. Certo, in molti gli hanno espresso pubblica solidarietà per il lavoro compiuto (ad esempio per il Maxxi, anche all’estero) mettendo in luce una delle contraddizioni più stridenti dell’ultimo giro di spostamenti qualificato al Collegio Romano come «normale avvicendamento». Anzi, il capo di gabinetto Guido Improta ha precisato che con l’entrata in vigore del nuovo regolamento (criticatissimo), se non si ruotassero i dirigenti dei BC ogni tre anni, «si tradirebbe lo spirito del decreto legislativo n.165/2001». Che, palesemente, impone regole politiche sbagliate ad una dirigenza tecnico-scientifica che ha nello studio e nel rapporto col territorio i suoi punti di forza. «Tradiamolo» pure lo spirito di un decreto legislativo se va contro ogni logica e ogni storia amministrativa.
Col governo Berlusconi si trattò di vero e proprio spoil system in base alle leggi Bassanini-Frattini (micidiali per una amministrazione tecnico-scientifica), con la rimozione e messa in disparte di Francesco Scoppola dalla direzione regionale delle Marche (dove aveva messo vincoli «pesanti» sulla zona di cave di Cagli e sul centro storico di Urbino), con l’«esilio» di Ruggero Martines da soprintendente a Roma (un classico promoveatur ut amoveatur) a direttore regionale in Molise e con la retrocessione di Mario Lolli Ghetti dalla Toscana alle Marche. Giustamente il ministro Francesco Rutelli ha nominato Giuseppe Proietti segretario generale, Scoppola direttore regionale in Umbria, Martines in Puglia con interim sul Molise e riportato Lolli Ghetti in Toscana. Poi però, questa estate, i primi valzer sconcertanti: uno dei più bravi fra i direttore regionali, Stefano De Caro, stimato archeologo, che tanto si era adoperato in Campania anche per i progetti finanziati dalla Ue, portato a Roma alla direzione generale dei beni archeologici dalla quale veniva però rimossa la apprezzata Anna Maria Reggiani spedita in Abruzzo nonostante gli appelli dei colleghi. A Napoli veniva mandata, al posto di De Caro, una semplice funzionaria, Vittoria Garibaldi con un (ricco) contratto privato da esterno, in attesa di concorso. Fra mille perplessità sul piano del metodo e dell’opportunità.
La più recente rotazione di incarichi - più un roteare che un ruotare - ha aggravato le perplessità, anche semplicemente funzionali.
Del caso più eclatante di Pio Baldi s’è detto. Incomprensibile oltre che grave. Al suo posto arriva un valido direttore regionale, Carla Di Francesco, che poco o nulla però si è occupata di arte contemporanea e che invece ha ben sostenuto la coraggiosa battaglia del sindaco di Mantova, Fiorenza Brioni, contro la devastazione della riva del lago di fronte al Castello di San Giorgio. In Lombardia - dove la Regione sta promuovendo la più vasta e dissennata «deregolazione» urbanistica lasciando costruire, in pratica, dovunque - va un direttore dell’Ufficio legislativo centrale. Prima che si sia ambientato e «armato», ce ne vorrà. Poi c’è il caso di Luciano Scala che stava operando bene alle Biblioteche e che viene paracadutato in un altro pianeta: alla direzione regionale della Campania da cui rientra Vittoria Garibaldi, scadutole l’anno di contratto esterno (e torna in Umbria da funzionaria in attesa di concorso). Paolo Scalpellini in pochissimi anni è transitato in Basilicata, poi in Sardegna, e da qui ora viene spedito in Calabria. E via ruotando, vorticosamente.
In compenso ci sono da molti mesi undici vincitori di concorso per soprintendenti ai beni storici e artistici i quali attendono di venire insediati. Pare che debbano fare dei corsi di management. Per ora studiano per conto loro o si girano i pollici. Un altro concorso, indetto per quattro posti per storici dell’arte (di recente quasi spariti dai piani alti del Ministero a tutto vantaggio di architetti e amministrativi), già viene maliziosamente chiamato dei «bocciati/redenti». Molte Soprintendenze archeologiche sono rette «ad interim», cioè malamente. Ma i dieci concorsi per archeologi sono da poco in atto e già alcune sedi vengono accorpate: per esempio se ne fa una sola nella vasta e diversa Sardegna unendo Sassari a Cagliari. Del resto, a Roma si è accorpata ai Beni architettonici quella Direzione generale dei Beni storici e artistici da cui nacque, coi beni archeologici, la tutela nel Belpaese. E ci è andato, direttore generale, un architetto, naturalmente: Roberto Cecchi, uno dei potenti nell’éra Urbani, non proprio memorabile.
Nel vorticare di nomine, spostamenti, rotazioni si intravvede un piano generale di ristrutturazione della rete di tutela che porti al suo miglioramento e potenziamento? Francamente no. Né si scorgono, ci sembra, i segni di una recuperata meritocrazia. La tutela esige anche stabilità di guida, di comando, conoscenza specifica della storia di un territorio. La precarietà induce allineamento, conformismo. A meno che i soprintendenti non debbano venire ridotti - come vogliono certe Regioni, a cominciare dal Friuli o dalla Toscana - a meri consulenti tecnici degli Enti locali ai quali intanto viene sub-delegata la tutela del paesaggio, poi si vedrà. A loro che anche l’ultima Finanziaria spinge invece a incentivare a tutto spiano l’edilizia onde trarne i proventi per turare le falle di bilancio. Nel fracassante silenzio generale, dei ministri del Paesaggio per primi. E col Consiglio Superiore dei Beni Culturali rivitalizzato per non venire poi ascoltato, nei rilievi e nelle proposte.

Repubblica 9.1.08
Il ministro degli Esteri prepara una convention, i fedelissimi del premier si riorganizzano
Nel Pd si riarmano le correnti dalemiani e ulivisti all'offensiva
di Goffredo De Marchis


Nascono anche lobby tematiche. Un appello ai laici di Cuperlo e Pollastrini
Come risposta difensiva potrebbe costituirsi in area anche l´entourage del segretario

ROMA - Lui ha invocato fin dall´inizio «un partito senza correnti», viste come la peste della politica. Ma in questi giorni sono proprio gli uomini più vicini a Walter Veltroni e ai vertici del Partito democratico a chiedersi se non sia il caso di uscire dall´accerchiamento con una formula vecchia come il cucco ma sempre efficace. Il capo della segreteria di Dario Franceschini, Antonello Giacomelli, da qualche giorno fa sapere in giro che «abbiamo assolutamente bisogno di creare la corrente di Walter». È chiaramente una risposta istintiva e soprattutto difensiva di fronte ai segnali che arrivano chiarissimi dalle antiche aree di riferimento della Quercia, della Margherita, del Ppi: si stanno riorganizzando, altrochè. E non fanno nulla per nascondersi. Naturalmente, la componente più monitorata (e più pericolosa) per il vertice del loft è quella che fa capo a Massimo D´Alema. I dalemiani sono lo spauracchio dei veltroniani (e viceversa) da più di un decennio. Adesso gli uomini vicini al ministro degli Esteri hanno deciso di venire allo scoperto, proprio nel momento del massimo sforzo di costruzione del partito. Non a caso.
Il 26 gennaio, un sabato, D´Alema riunisce a Roma una convention sul Partito democratico. L´iniziativa ha una cornice autorevole, è organizzata dalla Fondazione Italianieuropei che quest´anno festeggia il suo decennale. Verranno invitati senza dubbio il segretario Veltroni e il premier Romano Prodi. Ma a suo modo quell´appuntamento vuole trasformarsi in una prova di forza e avrà ben poco di seminariale. Lo staff del titolare della Farnesina sta infatti cercando una sala che possa contenere quasi un migliaio di persone, una piccola folla. Qualcuno non potrà che interpretarla come una prova tecnica di corrente. Quel 26 ci saranno tutti i dirigenti dalemiani di stretta osservanza: Finocchiaro, Latorre, Violante, Fassino, Bersani.
I sintomi di un´offensiva dunque ci sono tutti. L´entourage del sindaco tiene d´occhio, da qualche tempo, un sito indipendente legato però a esponenti dell´area dalemiana. È www.leftwing.it. Sulla sua homepage campeggia un articolo anonimo severissimo con il segretario che s´intitola "Contro il veltronismo". Dove si invita Veltroni a convocare finalmente il congresso «per sottoporre la sua piattaforma al voto dei delegati». Ma altre spinte centripete si osservano sotto l´ulivetto del simbolo Pd.
Da qualche settimana Roberto Zaccaria e Mario Barbi stanno cercando di organizzare l´area che si richiama alla candidata delle primarie Rosy Bindi e Arturo Parisi. In sostanza, i prodiani doc. L´ex presidente della Rai dà spesso appuntamento agli "iscritti" nella vecchia sede di Santi Apostoli, Barbi cerca di convincere il ministro della Difesa a prendere le redini della componente. Finora invano, Parisi non vuole sentir parlare di correnti, pur avendo molte riserve sulla gestione di Veltroni.
Enrico Letta, altro sfidante di Veltroni il 14 ottobre, è stato l´unico a prendere alla lettera il segretario. Almeno all´inizio. Non riunì i suoi eletti nemmeno la notte prima della Costituente di Milano. Ma adesso i lettiani si muovono e intorno all´"associazione 360°", nata per iniziativa dello stesso Letta e di Umberto Ranieri, muovono i loro primi passi (hanno un sito web). Passi che per il momento coincidono con quelli dei dalemiani. Dalla legge elettorale al congresso, allo statuto, Letta e D´Alema si sono sempre trovati affiancati. Beppe Fioroni non ha certo smesso di tenere le fila dei dirigenti vicini a Franco Marini, una parte degli ex popolari. In questo gruppo il presidente dei deputati Soro è l´ufficiale di collegamento con Veltroni.
Il Pd insomma si sta organizzando seguendo la regola delle cosiddette aree politico-culturali, che tradotto significa: esplosione delle correnti. Proprio ciò che Veltroni voleva evitare. E accanto alle componenti classiche stanno nascendo anche gruppi di pressione interni (lobby, per la terminologia anglosassone) su temi specifici. I laici si sono strutturati ora intorno a un appello, pubblicato oggi dall´Unità e animato da Barbara Pollastrini e Gianni Cuperlo, ma firmato da 96 persone, tra cui Miriam Mafai, i cattolici Albertina Soliani e Stefano Ceccanti, il liberale Zanone. «Siamo inquieti, senza dubbio - sintetizza Cuperlo -. Non vediamo un punto di equilibrio e vorremmo approfondire temi che non sono solo etici, ma hanno a che fare con la crescita della società, con lo sviluppo». Zanone annuncia un convegno dei laici del Pd alla fine di gennaio con Bassanini e Enzo Bianco. A questa strutturazione laica si contrappone la piccola ma agguerrita pattuglia di teodem con Binetti, Carra e Bobba.
Siamo perciò al paradosso che il partito non c´è, ma le correnti sì. E per Veltroni, su questo terreno, si profila una sconfitta annunciata. A meno di non prendere per buone le voci maliziose su un suo "correntone" forte e ben strutturato. Guidato con polso fermo, riunioni continue e telefonate a tappeto dal fedelissimo Goffredo Bettini.

Repubblica 9.1.08
Processi di beatificazione, giro di vite di Benedetto XVI
Il richiamo di padre Amorth: tra i preti troppa rilassatezza nella lotta al demonio
Il Papa: più severità sui santi. L'esorcista: Satana anche in Vaticano
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - Giro di vite di papa Ratzinger sui processi di beatificazione e canonizzazione. Vescovi e postulatori - gli ecclesiastici che promuovono le cause di santificazione nelle diocesi - dovranno seguire norme più severe nell´iter istruttorio per la proclamazione di santi e beati. Presto sarà pubblicato un nuovo documento (Instructiones) per i processi canonici per imporre «più sobrietà, maggiore rigore, massima cautela e profonda accuratezza storico-documentale e nella raccolta delle testimonianze».
Quasi una rivoluzione annunciata all´Osservatore Romano, il giornale della Santa Sede, dal cardinale portoghese Josè Saraiva Martins, prefetto della Congregazione per le cause dei santi. Nel documento di 20 pagine - sarà presentato nella Sala stampa vaticana - si chiederà, spiega il cardinale, a vescovi diocesani e postulatori di essere più severi «nell´accogliere richieste di apertura di nuovi processi diocesani». Un provvedimento fortemente sollecitato dal papa, assicura Saraiva Martins, «per meglio rispondere allo spirito nuovo introdotto da Benedetto XVI nelle procedure del rito di beatificazione, innovazioni molto importanti, capaci di sottolineare in modo efficace la teologia della Chiesa locale così come è stata riaffermata con forza dal Concilio Vaticano II». Maggior rigore significherà meno cause, ma anche minor affollamento di istruttorie canoniche alla Congregazione per le cause dei santi dove sono al vaglio oltre 2.200 procedimenti, tra cui le attese beatificazioni di Giovanni Paolo II («Ma ci vorrà tempo», puntualizza il cardinale Saraiva Martins), del cardinale inglese Newman, che si convertì dall´anglicanesimo, e di Antonia Meo (Nennolina), che morì a sei anni e sarà, quindi, la più giovane santa. Saraiva Martins esclude, comunque, che in Vaticano si vuole così rispondere a chi accusa la Chiesa di essere una «fabbrica di santi», specialmente nel corso degli ultimi due pontificati (Wojtyla ha fatto 1345 beati e 483 santi; Ratzinger, 559 beati e 14 santi). «A chi parla di "fabbrica dei santi" - taglia corto il cardinale - non vale nemmeno la pena rispondere perché è gente che non capisce la grandezza della santità e dunque non sa che i santi sono voluti da Dio e non si fanno».
Possibili novità anche sugli esorcismi. Nella prima parte del 2008 Benedetto XVI potrebbe varare nuove norme per combattere il demonio. Lo ha annunziato nei giorni scorsi padre Gabriele Amorth, decano degli esorcisti, che in una intervista ad un giornale tedesco, Der Spiegel, ha lamentato che tra i preti c´è una certa «rilassatezza» nella lotta a Satana, «un peccato avvertito anche in Vaticano dove ci sono demoni e sette sataniche».

Repubblica 9.1.08
Un saggio di Anna Rossi Doria sul silenzio delle donne
La storia non scritta del femminismo
di Miriam Mafai


È stata un´utopia diventata concreta, una stagione felice e breve, chiusa irreparabilmente dagli eventi del 1977 culminati nell´uccisione di Aldo Moro

«Ogni generazione ha diritto di scrivere per prima la storia degli eventi cui ha partecipato», scriveva Marc Bloch. Forse ne ha anche il dovere. Ma per il femminismo degli anni Settanta questo non si è ancora verificato. Qualcuno, o meglio qualcuna di coloro che hanno animato o partecipato al movimento femminista ci prova. Ma restano storie parziali, abbozzi di autobiografie, raccolte di documenti, primi avvii di ricerca. Anche quando chi scrive è stato tra i protagonisti di quelle vicende. E´ il caso di Anna Rossi Doria, uno dei nostri migliori storici, che ha dedicato gran parte del suo lavoro alla storia delle donne, e che non a caso ha scelto per questa sua ultima fatica un titolo allusivo e intrigante. (Anna Rossi Doria: Dare forma al silenzio, Viella, pagg. 320, euro 27).
Il silenzio delle donne, esordisce l´autrice, «è antico, profondo, tenace, particolarmente pesante nella sfera politica che fu a lungo, insieme al diritto, il luogo della massima esclusione delle donne. L´individualità e la cittadinanza, tra loro strettamente connesse, verranno conquistate dalle donne alla fine di un processo difficile e contrastato, durato nei paesi occidentali oltre un secolo e non interamente compiuto nemmeno oggi».
A questa tormentata vicenda sono dedicati i saggi della prima parte del libro. Vengono ricostruiti così momenti importanti della storia inglese americana e italiana degli ultimi due secoli segnati dalla lotta condotta da gruppi e associazioni femminili per accedere alla politica e ridefinirla. Si va allora da una analisi della legislazione vittoriana sul lavoro delle donne a una ricostruzione delle lotte e delle idee del suffragismo, fino ad una ricostruzione attenta della presenza delle donne sulla scena politica italiana sia nel dibattito politico nella fase della Resistenza (generalmente ignorato o sottovalutato) sia nella fase della conquista del voto e della elaborazione della nostra Costituzione.
Una seconda, corposa parte del lavoro della Rossi Doria è dedicata alle vicende del nostro femminismo. L´autrice ha incontrato a suo tempo il femminismo e lo ha vissuto intensamente «con l´entusiasmo», scrive «di quella che mi pareva un´utopia diventata concreta, una stagione felice e breve, chiusa irreparabilmente dagli eventi del 1977 e dal delitto Moro».
Secondo la periodizzazione della Rossi Doria, la stagione «felice e breve» del femminismo italiano può essere scandita in quattro fasi: la nascita (1968-1972), i collettivi (1972-1974), il movimento di massa (1974-1976), la crisi (1977-1979). E dalla crisi il movimento uscirà rifugiandosi nel lavoro culturale, nella pratica «intraducibile» dell´autocoscienza, fondando librerie, associazioni, riviste, circoli tra cui il famosissimo Virginia Woolf di Roma. Sarà il terrorismo, ha ragione la Rossi Doria, a chiudere, in modo drammatico, la disordinata ma felice stagione dei movimenti. Di tutti i movimenti, compreso quello dei giovani e degli operai. Ma il femminismo ostenta, come ci riferisce in una sua lontana ma importante ricerca Anna Maria Mori, la sua indifferenza rispetto al terrorismo. L´appello di quelle settimane al senso dello Stato e alla pietà per le vittime non raggiunge le donne che partecipano a quel movimento, non le riguarda.
La storia del femminismo (che è, evidentemente, cosa diversa dalla storia della donne) è ancora comunque tutta da scrivere, per metterne in luce limiti successi e paradossi. Il primo dei quali, scrive l´autrice, è quello per cui «le elaborazioni femministe che hanno prevalso negli anni Ottanta e Novanta, legate alla impostazione filosofica del pensiero della differenza hanno costruito e trasmesso una visione per cui proprio il femminismo italiano, che aveva avuto un carattere di massa superiore a quello di ogni altro paese, è stato invece rappresentato come un percorso di piccoli gruppi o singole pensatrici, sia pure grandi, Carla Lonzi su tutte». Una contraddizione, certamente. Confermata dal fatto che in generale il femminismo italiano, molto critico nei confronti del movimento di emancipazione che aveva contrassegnato tutta la storia del dopoguerra, si disinteressò alla elaborazione e alla conquista di leggi che pure hanno segnato un reale avanzamento della condizione delle donne nel nostro paese. Basti ricordare a questo proposito la legge sul divorzio e quella sull´aborto (confermate dai successivi referendum), quella sui consultori, sul nuovo diritto di famiglia, sulla parità. Leggi peraltro rivendicate da un vasto movimento di donne e salutate da quel movimento e dalla opinione pubblica democratica come uno storico successo.
In questa contraddizione (o in questo sovrapporsi) tra un vasto movimento di massa e il percorso ideologico di piccoli gruppi sta forse il mistero o il fascino del femminismo italiano. E la difficoltà di ricostruirne una storia completa, che tenga insieme le due anime o le due vicende: quella del movimento di massa e quello dei piccoli gruppi e di singole teoriche del «pensiero della differenza».
Ma sta qui anche, probabilmente, la radice del misterioso ma felice sopravvivere del movimento, nonostante gli anni che ci separano da allora e da quel dibattito culturale. Vanno ricercate probabilmente in quelle lontane contaminazioni (tra movimenti di massa e spinte culturali) e in quelle contraddizioni la capacità «carsica» del movimento, il suo improvviso o imprevisto riemergere, quasi a sorpresa, come è accaduto recentemente prima nel corso della manifestazione milanese a difesa della legge 194, poi nel corso della manifestazione romana contro la violenza.

Corriere della Sera 9.1.08
Un'ipotesi sulla vera patria del poeta
L'aedo Omero sui lidi albanesi
di Giovanni Mariotti


Virgilio racconta nel terzo canto dell'«Eneide» la nascita di una Ilio «piccola e simulata»

Come ha ricordato Luciano Canfora sul Corriere della Sera di sabato scorso, Omero non era, a detta di Vico, un singolo individuo, bensì un intero popolo; per il romanziere inglese Samuel Butler era una donna (ipotesi simpatica e anche credibile: i giapponesi hanno davvero, all'origine della loro letteratura, un Omero femmina, la Murasaki); e nelle ultime settimane l'austriaco Raoul Schrott ha formulato l'ipotesi che si trattasse di uno scriba della Cilicia al servizio degli Assiri. «Inventare Omero è un gioco innocente», ha scritto Canfora. La prendo come un'autorizzazione a giocare. Dopotutto il fatto che si tratti un gioco «innocente» non comporta che sia del tutto privo di significato. Attribuire una patria e un'identità a Omero vuol dire, per un occidentale, indicare la scaturigine della poesia... il luogo in cui, miticamente, si udì per la prima volta la musica dei versi. Io ho una mia ipotesi. Credo di sapere dove nacque Omero. Sette città greche si disputavano l'onore di avergli dato i natali... ma la città dove Omero nacque veramente non appartiene a quel novero.
Secondo una tradizione, ripresa da Virgilio nel terzo canto dell'Eneide, due esuli da Troia, la vedova di Ettore, Andromaca, e il mite e scolorito indovino Eleno, avevano fondato sulla Riviera albanese, dopo una vita travagliata, una sorta di piccola Troia anastatica uguale in tutto e per tutto a quella che avevano abbandonato. Una «Troia Miniatur ». Perché l'avevano fondata? Non certo per iniziare una nuova storia, con nuovi assedi e nuove battaglie e nuove flotte che avrebbero attraversato i mari, ma per sigillare le loro storie, che erano alla fine.
Lì, a Butroto (così era stata chiamata quella Ilio che Virgilio avrebbe definito «piccola e simulata»), in quelle case e in quelle vie che non erano tanto quelle di una «vera» città, quanto l'immagine, o la reminiscenza, o la rappresentazione di un'altra, nacque Omero. Forse furono proprio Andromaca ed Eleno, o perlomeno qualche Troiano o qualche Troiana che ne avevano condiviso il destino, a nominare per la prima volta davanti a quel ragazzino, a volte attento e a volte stranamente distratto e lontano, certi personaggi... o a raccontare episodi che sarebbero entrati a far parte, come tessere di un mosaico, dei suoi poemi. L'arido ruscello lungo il quale camminava si chiamava Xanto, ma non era il «vero» Xanto... e le porte sotto cui passava ogni giorno venivano chiamate Scee, ma non erano le «vere» porte Scee.
In quei luoghi Omero trascorse la giovinezza. Dalla riva del mare o da un'altura avrà osservato il profilo di un'isola i cui contorni si andavano via via dissolvendo, sino a diventare nuvola (si trattava di Corfù, dove più tardi avrebbe collocato Nausicaa, Alcinoo, la corte dei Feaci, e se stesso nelle vesti di Demodoco, l'aedo cieco...), e a partire da quel profilo sempre un po' velato... giacché gli occhi si andavano spegnendo... aveva immaginato un altrove fluttuante, porti e navi e isole ed eserciti e mostri che sarebbero esistiti soltanto in virtù dei suoi versi. Non sapeva se le storie che di continuo udiva raccontare (non si faceva altro, a Butroto, città di vecchi: non solo le voci, ma anche le pietre erano racconti) fossero accadute realmente oppure no, ma le sue parole non avevano bisogno della cosiddetta «realtà». Una copia che la evocasse, magari in modo infedele, una simulazione, un colore, una nuvola sul punto di disfarsi, nomi di isole e popoli sconosciuti che affioravano all'improvviso in mezzo al discorso, come profezie ed enigmi: era quanto bastava a muovere il suo canto. Niente accadeva a Butroto, perché tutto era già accaduto. Omero crebbe avvolto da uno strano senso di irrealtà. Via via che cresceva, il fruscio e il calpestio delle sillabe gli sarà sembrato più reale di qualsiasi altra cosa. Diventato aedo, ebbe a dire che gli dei avevano filato «la rovina per gli uomini perché avessero i posteri il canto». Memorabile esempio di cinismo professionale.
Da lì a qualche secolo il severo Platone avrebbe definito la poesia «mimesi di mimesi », imitazione di un'imitazione. Se avesse potuto ascoltarlo, è quasi certo che Omero... la cui patria era l'imitazione di un'altra... avrebbe gravemente assentito.

Il manifesto 9.1.08
Veltroni sale sull'elefantino: moratoria, parliamone
Il leader del Pd difende la 194 ma apre il «dialogo» con il direttore del Foglio. Livia Turco annuncia tra le polemiche l'arrivo in Italia della Ru486
di Eleonora Martini

(domani qui)

Il manifesto 8.1.08
lettera aperta
Unire la sinistra e fare presto
di Francesco Indovina
Agli onorevoli Oliviero Diliberto, Franco Giordano, Alfonso Pecoraro Scanio e Frabio Mussi


Cari compagni e cari amici,
gli Stati generali di dicembre avevano fatto sperare, almeno per le parole pronunziate da alcuni di voi in quella stessa riunione, in un processo di unificazione rapido e fortemente voluto.
Ad una sorta di stato di necessità è sembrato sostituirsi la consapevolezza che il passato di divisioni stava alle spalle e che era possibile costituire un soggetto politico nuovo e unitario.
Un soggetto politico che garantisse voce al lavoro, in tutte le sue articolazioni, e ne difendesse e migliorasse le condizioni; che si ponesse l'obiettivo non tanto di conservare lo «stato sociale» ma di costruirlo, il compianto Federico Caffè questo ci ricordava costantemente, tenuto conto delle nuove esigenze e dei mutamenti intervenuti nella società e nella struttura demografica (non minor stato sociale, ma migliore e più adeguato); che si facesse portatrice della ricostruzione della legalità in tutto il paese; che sapesse individuare una politica industriale in grado di garantire crescita, ammodernamento e rispetto per l'ambiente; che sapesse ampliare i diritti di cittadinanza compresi quelli all'informazione e alla partecipazione; che impegnasse il governo ad una politica estera di pace.
Gli Stati generali ormai sono dell'anno scorso, ma il nuovo anno non ci porta niente di buono. Mi si potrebbe dire che la «gatta frettolosa fa i gattini ciechi» ma un parto troppo prolungato può uccidere madre e neonato e ... fa stancare e addormentare i parenti e amici.
Era sembrato che l'invito a «far presto» che insistentemente Pietro Ingrao ci ha fatto, anzi vi ha fatto, non sia stato colto per il suo contenuto politico, ma attribuito all'esigenza di chi ha poco tempo.
Non deve essere difficile, almeno per tre delle quattro formazioni, mettersi insieme; sono unite da una tradizione che sebbene vissuta e ripensata in modo diverso, ha radici profonde e sicure. Si capisce che per i Verdi la questione è più complicata, ma se non hanno consapevolezza che solo nel nuovo soggetto politico le loro esigenze possono trovare un collocazione vitale, non è possibile ... morire (politicamente) con e per loro.
Fra pochi giorni ci sarà la verifica (che si spera non sia infausta), ma il «nuovo» soggetto politico parlerà ... a quattro voci. Così come per la riforma elettorale, dove chi difende i piccoli partiti non lo fa per affermare un principio democratico ma per un riflesso soggettivo, il che non depone a favore dell'unificazione dato che La sinistra l'arcobaleno non sarà, se sarà, un piccolo partito.
Non solo non c'è tempo, ma il tempo lavora contro. La nuova formazione ha bisogno di entusiasmo, di mobilitazione, di attenzione, non di sfilacciamento, di temporeggiamento, questo lavora contro nella società e dentro di ciascuno. Di questo non vi occupate, ma cosa credete che i compagni aspettano?
La sola idea di costruzione di una sinistra unita aveva acceso gli entusiasmi e aveva richiamato all'impegno molti. Ma il tempo passa e gli entusiasmi si affievoliscono e l'impegno non si sa dove collocarlo.
Tutti sappiamo che è complicato e difficile, che unirsi è molto più oneroso che dividersi, ma presuntuosamente si può dire che la società italiana di questa unione ha bisogno e ne sente l'esigenza. Fuori dal teatrino politico dentro i problemi.
Non ho altro titolo per scrivervi se non quello dell'entusiasmo che l'idea di un nuovo soggetto politico di sinistra mi ha sollecitato. Non potete mortificare me e tantissimi come me, anche perché la mortificazione della mia carne ricadrà su di voi.
Non faccio circolare questa lettera per chiedere adesioni, ma siate certi che potrei raccogliere centinaia di firme sotto l'esigenza del far presto.
Auguri e saluti.

Il manifesto 8.1.08
Vi ricorrono donne immigrate e giovanissime italiane, soprattutto nel sud. Parlano Buscaglia, Flamigni, Viale
Trent'anni dopo le mammane usano i farmaci
di Eleonora Martini


Esiste ancora in Italia l'aborto clandestino? La risposta, inaspettata forse, è sì. Non si muore più, per fortuna, perché si ricorre più ai farmaci che alla chirurgia, e le mammane rimangono solo un brutto ricordo del mondo precivilizzato. Ma il problema esiste ancora e riguarda sempre più donne immigrate e anche giovanissime italiane. Dati certi, ovviamente, non ce ne sono ma le ultime stime ottenute con differenti metodologie parlano di circa 15 mila casi l'anno, troppo pochi per essere presi in considerazione dalla relazione annuale dell'Iss. Nel 1998 erano invece circa 27 mila.
Che la legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza abbia funzionato in maniera eccellente, è, come ha ricordato ieri il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, un dato «ampiamente noto e incontrovertibilmente dimostrato, avendo ridotto il numero di aborti di circa il 56%» dal 1980 ad oggi. Il sottosegretario si riferisce a quelli legali, secondo il ginecologo Silvio Viale del Sant'Anna di Torino: «La 194 ha ridotto dell'80% gli aborti clandestini che nel 1982 erano circa 130 mila». Una pratica non debellata, dunque, e anzi a quanto pare perfino un po' in ripresa negli ultimi anni soprattutto tra le donne immigrate. Le quali, come ha sottolineato Manconi ricorrono all'aborto volontario e legale 3-4 volte di più delle italiane, arrivando a incidere per il 29,6% del totale nazionale. «La metà delle richieste di aborto da parte delle donne straniere - spiega il professor Mario Buscaglia, primario del San Carlo di Milano che ha studiato a lungo il tasso di abortività delle immigrate - avviene nel primo anno di permanenza in Italia e nel 25% dei casi nei primi tre mesi». Sono soprattutto le donne sudamericane e dei paesi dell'est europeo a ricorrere più facilmente all'aborto: «Dipende - aggiunge Buscaglia - dalla non conoscenza dei metodi contraccettivi e dalle gravi difficoltà economiche e di solitudine in cui spesso si trovano». A volte poi si aggiunge la paura, la mancanza di conoscenza e di fiducia nei servizi italiani, e così le donne preferiscono risolvere da sé. Il metodo più usato è l'assunzione di Citotec, un farmaco gastroprotettore per le ulcere e quindi prescrivibile dal medico (anche se con alcune restrizioni, introdotte ultimamente dell'Iss proprio per combattere questo tipo di utilizzo) ma che, come tutte le prostaglandine, viene venduto in molti paesi del mondo come farmaco abortivo. «L'Oms lo promuove al secondo posto dopo la Ru486», spiega il radicale Silvio Viale. «I cinesi invece, che usano la Ru486 dal 1988, spesso se la portano dietro clandestinamente - aggiunge Viale - Ma il fatto che sia illegale non vuol dire che questo tipo di aborto è anche insicuro, come è invece quello chirurgico a cui ancora alcune donne, soprattutto al sud, continuano a ricorrere clandestinamente. Il problema è che usano questi farmaci in modo errato». Viale racconta poi anche di donne italiane che «hanno vergogna e rifuggono il lungo iter stabilito dalla legge che le costringe a venire a contatto con decine di persone sconosciute». Oppure donne che si rivolgono al medico sbagliato: fanno la trafila, attendono l'appuntamento e solo dopo molti giorni, magari quando è troppo tardi, scoprono che si tratta di un obiettore di coscienza. «Provengono soprattutto dal sud Italia o da feudi del movimento per la vita come Pavia dove i medici sono praticamente tutti obiettori, ma abbiamo avuto notizie anche da donne incappate nel medico sbagliato perfino alla Mangiagalli di Milano». Viale ricorda che l'obiezione viene scelta ormai dai medici «solo per convenienza, o per stanchezza: non siamo tutelati dal sistema, per noi non ci sono indennità e abbiamo invece la responsabilità della vita della donna, al contrario di quanto avviene per chi lavora con le tossicodipendenze».
«Il problema è che in Italia esistono almeno due sistemi sanitari diversi: - aggiunge Carlo Flamigni, ordinario di Ginecologia di Bologna - quello del sud è pieno di medici obiettori e con poche strutture, mentre bisognerebbe investire sui consultori, agevolarne l'accesso, e far crescere la cultura del controllo della fertilità, come si faceva negli anni '70 quando si andava nelle fabbriche, nelle scuole, e le donne del movimento parlavano con i medici». La chiesa, conclude Flamigni, «allora era molto più invadente e aggressiva di oggi». «Negli anni '60 era proibito perfino parlare di anticoncezionali. Oggi è solo in difesa, munita non di un potere vero, personale, ma di un potere concesso dai politici».

Liberazione 8.1.08
Il giurista: agli antiabortisti non interessa la sopravvivenza dei feti, bensì imporre giuridicamente
un principio morale, senza curarsi dei suoi effetti drammatici. E' la fine della civiltà giuridica moderna Luigi Ferrajoli: «Immorale e fanatico
paragonare l'aborto alla pena di morte»
di Romina Velchi


Le tesi degli antiabortisti? Immorali. La moratoria sull'aborto? Vergognosa. Luigi Ferrajoli, docente Teoria Generale del Diritto all'Università Roma3, non esita a parlare di «fanatismo» a proposito della proposta di Giuliano Ferrara, subito raccolta e fatta propria dalle gerarchie cattoliche, di fare una moratoria sull'aborto dopo quella sulla pena di morte. Dice infatti il giurista, che ha appena dato alle stampe "Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia" (2 voll. - Laterza): «Pretendere la consacrazione giuridica di un prinicipio morale, accompagnata dalla totale indifferenza per i costi incalcolabili che l'affermazione giuridica di quel principio comporta per migliaia di persone, ha un nome specifico: fanatismo».

Professor Ferrajoli, cosa c'entra la moratoria sulla pena di morte con l'aborto?
Direi nulla. La pena di morte è la morte inflitta dallo stato ad una persona già nata; mentre l'aborto è la non nascita come persona. La prima è decisa dallo stato sul corpo di un cittadino; l'aborto è deciso dalla donna sul proprio corpo. Ma al di là di questo, la tesi di Ferrara (come tutte le tesi antiabortiste) dà per scontato che l'embrione sia una persona. E questa non è una tesi empirica, descrittiva, ma una tesi morale, che consiste in un giudizio di valore e come tale né vero né falso. Gli antiabortisti pretendono in realtà di imporre una propria concezione morale attraverso il diritto, contraddicendo la laicità dello stato.

Può spiegare meglio?
Il diritto non può decidere di questioni morali. Ciò che il diritto può fare è semplicemente stabilire un termine oltre il quale la questione cessa di essere morale e diventa giuridica. Il termine stabilito dalla legislazione italiana (tre mesi) è un termine convenzionale: è il tempo necessario e sufficiente alla madre per decidere. Ciò che è meritevole di tutela non è l'embrione in quanto tale, ma in quanto concepito, appunto, voluto come persona dalla madre. La messa al mondo di un figlio non è semplicemente un fatto materiale ma un atto di volontà.

Ma queste cose si sono già dette trent'anni fa, ai tempi del referendum. Perché, secondo lei, siamo di nuovo qui a ripeterle? In fondo la 194 ha funzionato, riducendo del 40% il numero delle interruzioni di gravidanza.
Penso che si tratti fondamentalmente di una questione di potere, nei confronti dello stato e nei confronti delle donne. Il fatto che la 194 abbia prodotto il crollo degli aborti dimostra che ciò che sta a cuore agli antiabortisti non è la sopravvivenza dei feti. Se questo fosse il loro problema, allora dovrebbero essere i primi difensori della legge 194. Ciò che gli sta a cuore invece è l'imposizione giuridica di un principio morale. E questo è immorale, perché l'affermazione di un principio viene sostenuta nell'indifferenza dei suoi effetti drammatici per le donne e gli stessi nascituri. Aggiungo che nella penalizzazione dell'aborto c'è una contraddizione con i principi consolidati del costituzionalismo democratico, della tradizione liberale e della stessa tradizione dell'etica laica.

Cioè?
E' uno dei principi classici della morale laica, e direi della morale in generale, la seconda massima kantiana: nessuna persona può essere trattata come un mezzo, come uno strumento per fini non suoi. Qui parliamo, viceversa, di imposizione alla donna di un comportamento e non semplicemente di un divieto: non si vieta solo alla donna di abortire, ma la si obbliga anche a diventare madre. Le si impone un comportamento, per altro, che significa uno stravolgimento di vita.

Vale la pena sottolineare che gli stessi che sono contro l'aborto sono anche contrari ai metodi contraccettivi che non siano "naturali".
Appunto considero immorali queste tesi, perché ledono la dignità della donna come persona, la sua libertà personale. C'è un classico principio di Stuart Mill: sul proprio corpo e sulla propria mente ciascuno è sovrano. Per questo considero vergognoso il paragone tra la pena di morte e l'aborto. Quella di Ferrara non è soltanto una provocazione, ma un'offesa al buonsenso e alla logica.

Eppure Ferrara dice di richiamarsi alla «luce della ragione», all'illuminismo, in pratica.
Per carità. Molti principi fondamentali dell'illuminismo vengono lesi dalla punizione dell'aborto. Citerò il primo, quello di offensività: non è giustificato punire se non condotte che il diritto penale è in grado di prevenire. Ne deriva il carattere costituzionalmente abnorme di qualunque norma penale contro l'aborto. Se è vero che, come abbiamo detto, gli aborti sono crollati, la legge che li punisce non ha alcuna funzione preventiva, nessuna capacità di intervento, qualunqua cosa si pensi dell'aborto. Quindi si tratterebbe di una norma che avrebbe l'unica funzione di imporre una determinata morale. Con il che si mette in discussione l'autenticità del diritto, ma anche quella della morale: una morale autentica non ha bisogno del sostegno armato del diritto. Aggiungo che dopo l'abolizione delle corvées e delle servitù personali, non è più concesso al diritto penale d'imporre un "fare"; il diritto penale può solo imporre un "non fare".

Il peccato, in altre parole, non può diventare un reato.
E' una pretesa in contrasto non solo con il principio di laicità ma col processo di secolarizzazione dello stato, che risale per l'appunto all'illuminismo. La convenzionalità del diritto è necessaria proprio per far convivere la pluralità delle morali. Quella di Ferrara è una proposta che contraddice proprio quel processo di separazione tra diritto e morale su cui si basa la civiltà giuridica moderna.

Liberazione 9.1.08
L'Ordine degli Psicologi condanna Cantelmi
Omosessualità una variante naturale della sessualità
di Aurelio Mancuso (Presidente Arcigay)


La presa di posizione dell'Ordine Nazionale degli Psicologi, che con chiarezza dichiara che uno psicologo non può prestarsi ad alcuna "terapia riparativa" dell'orientamento sessuale di una persona, segna finalmente un punto a favore del buon senso e del ripristino delle regole deontologiche e scientifiche. Ce n'era un gran bisogno in un paese dove l'aggressione fanatica del cattolicesimo integralista si fa sentire con sempre più grande virulenza, accreditando convinzioni religiose come pratiche terapeutiche.
Il richiamo del presidente dell'Ordine, Giuseppe Luigi Palma al Codice Deontologico che non può essere derogato in base a principi e convinzioni personali dello psicologico, pone ora questioni di tipo politico e sociale di grande importanza. Per esempio com'è possibile che circolino indisturbate sui mass media opinioni di psicologi e psichiatri che sostengono la possibile guarigione dall'omosessualità senza che alcun organismo di controllo, anche d'altri ordini professionali, intervenga? Perché solamente dopo il bel reportage di Davide Varì su Liberazione è stato possibile scoperchiare una realtà fatta di gruppi e confraternite che tentano di indurre le persone a percepire la propria sessualità come sbagliata, portatrice di conflitti, sofferenze, deviazioni? Da qualche anno denunciamo come associazioni lgbt la diffusione di una campagna di propaganda portata avanti da diversi medici e psicologi come con la fede, la disciplina, la volontà sia possibile redimere i fratelli e le sorelle omosessuali e lesbiche. La letteratura scientifica sul tema è vasta e ben argomentata anche in Italia, dove psichiatri come Paolo Rigliano e Vittorio Lingiardi o psicologi come Margherita Graglia e Luca Pietrantoni da tempo pubblicano testi tradotti anche in varie lingue, guidano corsi di formazione e d'informazione in tutto il paese.
Ora, con più forza, vogliamo sapere. Chiediamo a chi sa, a chi ha coperto, a chi ha subito, di parlare, di denunciare attività che sono illecite, che vanno contro le direttive degli ordini professionali, perché come afferma giustamente Palma: " i principi del Codice sono intimamente e inestricabilmente connessi con la cultura, il sapere e il saper fare dello psicologo. "Lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell'esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri…." e quindi "nell'esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all'autodeterminazione ed all'autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall'imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio/economico, sesso d'appartenenza, orientamento sessuale, disabilità".
Non ci interessano scontri frontali, feroci polemiche, il nostro primo compito è quello di tutelare la dignità e l'integrità psico fisica delle persone lgbt, per questo siamo alla ricerca di risposte concrete. Alcune mancano ancora. Per esempio cosa attende l'Ordine dei Medici a pronunciarsi così come ha fatto quello degli Psicologi? Tanti di questi fanatici mediconi che si aggirano indisturbati nelle riparate e silenziose stanze delle associazioni cattoliche, parrocchie, studi professionali privati (chissà se anche in quelli pubblici?) sono psichiatri, medici generici, immunologi, e così via. Non c'è nulla da dire? Come mai questo silenzio? E il ministro alla Salute non ha nulla da eccepire?
Oggi registriamo questo primo evidente successo del nostro paziente lavoro culturale e sociale, cui Davide con il suo reportage ha dato una decisiva mano. Il professor Cantelmi, su questo giornale e anche in successive dichiarazioni pubbliche ha invitato tutti noi ad un confronto pacato, a conoscere meglio e senza pregiudizi il suo lavoro. In una nota mi ha persino personalmente invitato a visitare il suo studio e a rendermi conto di persona delle attività che svolge il suo staff. Io pongo una domanda definitiva sono disposti Cantelmi, i suoi collaboratori, tutti gli altri psicologi e psichiatri cattolici sparsi in Italia che operano facendo riferimento alle teorie del fanatico americano Nicolosi, a dire con chiarezza che l'omosessualità è una variante naturale della sessualità e, che quindi, non deve essere curata?
Tutto il resto sono disgustosi giri di parole, che non ci interessano!

Liberazione 9.1.08
Dopo l'inchiesta pubblicata da Liberazione arriva il duro altolà
di Luigi Palma, presidente nazionale dell'ordine degli psicologi
«No alle terapie riparative per gay»
di Beatrice Macchia


Qualcosa si muove. Dopo l'inchiesta di Liberazione che ha smascherato un gruppo di noti psichiatri e psicologi che applicano la cosiddetta «terapia riparativa» per "guarire" dall'omosessualità, l'ordine nazionale degli psicologi prende posizione e per la prima volta bacchetta chi pensa che l'omosessualità possa essere ri-orientata verso l'eterosessualità.
Del resto il presidente dell'ordine, Giuseppe Luigi Palma, è fin troppo chiaro e duro: «In relazione alle polemiche innescate dal reportage di Davide Varì pubblicato su Liberazione - scrive in una nota il dottor Palma - lo psicologo non deroga mai ai principi del codice deontologico. Nessuna ragione nè di natura culturale nè di natura religiosa, di classe o economica può spingere uno psicologo a comportamenti o ad interventi professionali non conformi a tali principi». Ed ancora: «Lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell'esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri e quindi nell'esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all'autodeterminazione ed all'autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall'imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio/economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità». In conclusione, «è evidente quindi che lo psicologo non può prestarsi ad alcuna "terapia riparativa" dell'orientamento sessuale di una persona».
Immediata la reazione del deputato socialista, e psicologo, Franco Grillini, che accoglie «con soddisfazione il primo pronunciamento in assoluto sulla questione dell'Ordine degli psicologi». «Le parole del presidente Giuseppe Luigi Palma, che si richiama al codice deontologico - afferma Grillini - sono inequivocabili». Grillini rende inoltre noto di aver presentato un'interrogazione al ministro della Salute Turco «affinchè il Governo intervenga immediatamente e perchè anche l'ordine dei medici, in relazione agli psichiatri che sottopongono i propri pazienti alla conversione, prenda una netta posizione. Chiediamo altresì ad entrambi gli ordini di svolgere accurate indagini interne per stabilire quali e quanti psicologi e psichiatri non abbiano un comportamento deontologicamente corretto».
Grande soddisfazione la esprime anche Anna Paola Concia, del coordinamento politico nazionale del piddì: «Finalmente anche l'ordine degli Psicologi prende posizione sulle presunte terapie riparative adottate dal professor Cantelmi per guarire dall'omosessualità - dichiara Concia- E' un fatto importantissimo e di questo ringraziamo il presidente Giuseppe Luigi Palma. Una presa di posizione che avevo chiesto per arginare e fare luce su queste indegne e vergognose terapie adottate da alcuni psicologi cattolici contro gli omosessuali».
«L'omosessualità - prosegue la Concia - è una condizione umana, come l'eterosessualità. Una presa di posizione, quella del presidente dell'ordine degli psicologi, che dimostra chiaramente che Cantelmi è fuori dal codice deontologico della sua professione. La questione coinvolge non solo il mondo degli psicologi e dei psicoterapeuti, è coinvolta tutta la società. E questa presa di posizione deve far riflettere tutti quei politici e quei personaggi pubblici, come la Binetti e Volontè, che continuano a sostenere non solo Cantelmi, ma una campagna razzista contro l'omosessualità che tanti danni fa e tante vite mette a rischio».
«Il silenzio per loro ora è d'obbligo e chiedano scusa. Mi auguro invece che parlino coloro che hanno a cuore davvero l'equilibrio di tante e tanti giovani, e che - conclude Anna Paola Concia - nell'esercizio della loro professione sostengono e aiutano tanti omosessuali a vivere serenamente e trovare la loro dimensione di vita come è diritto di tutti i cittadini di un paese civile».