venerdì 11 gennaio 2008

Glaciale è il commento del presidente della Camera Bertinotti: «Se il pontefice parla di Roma, ne parla come un suo abitante. E va ascoltato come qualsiasi altro abitante».

Fausto Bertinotti, il presidente della Camera e "lider maximo" del Prc, dall´America latina dov´è in viaggio, lancia l´allarme anti-referendum: «L´esito del referendum sarebbe nocivo per il paese quanto l´attuale legge, il "porcellum". Sarebbe uno smacco se la riforma non fosse condivisa».

l’Unità 11.1.08
Le parole della laicità
di Adriano Guerra


Giancarlo Bosetti ha invitato su La Repubblica di lunedì scorso coloro che si occupano del dialogo fra non credenti e credenti a registrare gli orologi sul tempo presente lasciando da parte Togliatti e De Gasperi. Lo si può certo fare, a condizione però di mettere, dopo l’intervento del cardinale Bertone, qualche puntino sulle i. Perché il cardinale non ha dimenticato soltanto, come gli è stato ricordato, che negli anni di Togliatti, un dialogo fra comunisti e cattolici vi è stato effettivamente, ma che esso si è svolto in una prima fase, e a lungo, dopo il voto favorevole del Pci all’articolo 7, fra comunisti scomunicati e cattolici scomunicandi o scomunicati. C’è anche dell’altro. Il cardinale, infatti, mettendo al vivo vuoti di memoria ancora più gravi - perché quel che venivano ignorati erano qui, insieme alle motivazioni che hanno spinto i comunisti, soprattutto con Berlinguer, alla politica del dialogo, anche i mutamenti intervenuti nelle posizioni della Chiesa - ha colpito a fondo le basi stesse sulle quali, oggi come ieri, il dialogo può essere fondato.
Quelle basi che Giancarlo Bosetti ha riconosciuto valide affermando di far proprio il principio di «eguale rispetto» da parte dello Stato nei confronti delle varie posizioni religiose e anche nei confronti della non-religione. Il «non preferenzialismo» dunque, o anche, più semplicemente, la tolleranza: (è significativo che il Corriere parlando dell’ultimo libro di Papa Ratzinger abbia messo in rilievo il riferimento alla fede «universale ma non intollerante»). Qui c’è qualcosa del passato che va salvaguardato e per molti aspetti - anzi - recuperato. Penso ad esempio a Berlinguer che nella famosa risposta dell’ottobre 1977 al vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi ha parlato del Partito comunista italiano come di un partito «laico e democratico», e come tale «non teista, non ateista e non antiteista», impegnato a dar vita ad «uno Stato laico e democratico..., non teista, non ateista, non antiteista».
Un cittadino insomma può essere teista o ateo (e non vedo proprio perché Odifreddi non possa essere definito laico allo stesso titolo di Bosetti) ma lo Stato non può essere che «laico e democratico», e cioè di tutti: di coloro che pensano che il matrimonio sia un sacramento religioso ma anche degli altri. «Chi desidera sinceramente la ripresa, e la pratica effettiva di quella distinzione fondamentale tra cattolici in quanto appartenenti alla comunità ecclesiale e cattolici in quanto cittadini della repubblica - ha scritto ancora Berlinguer nei giorni del referendum sul divorzio - deve adoperarsi per dare scacco alle attuali scelte politiche dei dirigenti democristiani». Ma anche nel momento dello scontro - ha aggiunto - «la linea della collaborazione e dell’intesa coi movimenti politici e sociali dei cattolici» deve essere ribadita e riaffermata.
Questo è Berlinguer. Per quel che riguarda i cattolici mi limiterò a citare le parole - riprendendole dalla rubrica del Corriere di Sergio Romano - con le quali Alcide De Gasperi nel 1952 ha risposto a Pio XII che, ma invano, aveva esercitato pressioni sulla Dc per indurla a dar vita a Roma, contro la sinistra, ad una coalizione coi monarchici e i neofascisti. Per punire e umiliare il Presidente del Consiglio italiano, il papa gli aveva negato un’udienza in Vaticano. Ed ecco la risposta di De Gasperi: «Come cristiano accetto l’umiliazione benché non sappia come giustificarla; come Presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, la dignità e l’autorità che rappresento, e di cui non mi posso spogliare anche nei rapporti privati, m’impone di esprimere stupore per un rifiuto così eccezionale e di riservarmi di provocare dalla Segreteria di Stato un chiarimento». Il Papa insomma era per De Gasperi oltre che il Capo della Chiesa cattolica anche il capo di uno Stato straniero. Di uno Stato che aveva tentato di ingerirsi nelle vicende italiane rendendo così inevitabile, in risposta, un vero e proprio atto diplomatico.
I comunisti, la Dc e il Vaticano di Pio XII. Ma poi anche la Chiesa che con altri papi imboccò la via del dialogo aprendosi al mondo moderno. Non solo operando dei distinguo fra le dottrine filosofiche e i movimenti storici reali ma affermando, come si può leggere nella Pacem in Terris, che «gli incontri e le intese nei vari settori dell’ordine temporale fra credenti e quanti non credono o credono in modo non adeguato, perché aderiscono ad errori, possono essere occasione per scoprire la verità e renderle omaggio».
Né si è trattato soltanto di parole perché, dopo avere conquistato l’assenso oltreché degli Stati Uniti anche - tramite Andreotti, secondo una testimonianza, un poco sibillina seppure del tutto verosimile, di quest’ultimo - del Vaticano, il Pci e la Dc hanno potuto stringere accordi per il governo del paese.
Certo guai a non vedere, pensando al passato, i segni pesanti di un secolo che non si può certo definire come «il secolo del dialogo». E anche a non vedere i limiti, di ieri ma anche di oggi della cultura di sinistra che, nello stesso momento in cui è chiamata a individuare soluzioni adeguate ai problemi aperti dagli spazi impressionanti ma anche, per certi versi agghiaccianti, conquistati e conquistabili dal progresso scientifico, deve fare i conti con la tante questioni irrisolte del passato (non è forse vero che anche oggi c’è a sinistra chi pensa ad esempio che «difendere la famiglia» significhi negare che anche la famiglia sia una costruzione della storia e nella storia, e che dunque vi possono essere, vi sono, tante e diverse «famiglie naturali», tutte da difendere?).
Tuttavia, se è giusto respingere, perché del tutto contrastante con la realtà, il modo curiosamente nostalgico col quale il cardinale Bertone ha parlato del dialogo avviato da comunisti e cattolici negli anni della guerra fredda, è bene anche ricordare che, e proprio sui temi della «modernità», da quel dialogo sono nate importanti leggi dello Stato. Leggi che vanno difese, contro un’offensiva diretta non solo, e non tanto, contro i non credenti e gli atei (che avranno tutte le colpe di questo mondo, non certo quella però di battersi perché le loro opinioni diventino leggi dello Stato) ma in primo luogo contro i cattolici democratici.
Cercando ad esempio di raggiungere uno per uno persino nelle aule parlamentari quei deputati cattolici che nei giorni del dibattito sui Dico avevano detto in sostanza, che essi avrebbero votato non già per imporre a tutti i cittadini, come legge dello Stato, i valori che condividevano con la Chiesa, ma, all’opposto, per permettere a tutti i cittadini di vedere rispettati dalle leggi dello Stato, i propri valori e la propria morale quando beninteso non vengano lesi valori e morale di altri.
Penso che la sinistra - quella, intendo, che si arricchisce nell’incontro con le altre culture senza perdere e senza rubare, rincorrendo il mito del «pensiero unico», autonomia e indipendenza - nel momento in cui è chiamata ormai quotidianamente a genufflettersi dovrebbe sostenere quei cattolici che guardano allo Stato come a un istituto che non può essere né teista, né ateista, né antiteista.

Repubblica 11.1.08
Il Pd e la laicità
di Piergiorgio Odifreddi


Caro direttore, diciamoci la verità: nei loro dibattiti i filosofi e i politici si comportano spesso come i marinai di una volta, che quando incontravano una balena le gettavano una botte vuota affinché, divertendocisi, essa evitasse di far violenza alla nave. Lo stratagemma fu usato scherzosamente da Jonathan Swift nella Storia di una botte, ma ora sembra essere stato riesumato seriamente dagli estensori del Manifesto dei Valori del Partito Democratico, che hanno gettato in mare una poetica e astratta discussione sulla laicità per evitare di affrontare il tema dei più prosaici e concreti rapporti fra Stato e Chiesa. Seguiamoli dunque su questo terreno, o su queste acque, senza dimenticare però che si sta parlando al sacrestano o alla perpetua affinché il prete intenda.
Per iniziare, prenderei le mosse dall´articolo di Giancarlo Bosetti «Ma laicità e ateismo pari non sono» su la Repubblica del 7 gennaio, che rispondeva al mio «Il Pd, la laicità e la vergogna» del 30 dicembre. Come già annuncia il titolo, Bosetti sostiene che «laicità e ateismo non sono affatto la stessa cosa», e ci mancherebbe che su questo non fossimo d´accordo! Se non altro perché, altrimenti, tanto varrebbe usare una sola parola invece che due.
Lui però pensa che io non condivida, e il suo equivoco nasce dalla mia affermazione che «laicità e ateismo costituiscono una sorta di nudità teologica». Ora, il fatto che le abbia accostate non significa che io non sappia distinguere in teoria, e non distingua in pratica, le due posizioni: tanto per essere precisi, per me ateismo significa non credere nel trascendente, cioè non avere una fede religiosa, e laicismo non mescolare il trascendente col contingente, e più specificamente la fede con la politica.
Naturalmente, si può avere una pratica religiosa senza avere una fede trascendente: l´esempio più tipico di «religione atea» è il buddismo, come il Dalai Lama ripete continuamente nei suoi libri e nei suoi discorsi, e ha ribadito pubblicamente, non più tardi del 16 dicembre scorso, in una sua conferenza a Torino. Altrettanto naturalmente, si può avere una fede trascendente senza permettere che essa interferisca con le proprie azioni contingenti: in fondo, la prima riguarda l´aldilà e le seconde l´aldiqua, e l´uno e l´altro possono benissimo essere tenuti separati, visto che lo sono.
Di cosa stiamo parlando, allora? Del fatto che quando da noi si dice religione, si intende il cattolicesimo: cioè, una fede in un dio trascendente incarnato e in una rivelazione mediata da una Chiesa. Dunque, una religione che per sua stessa natura non può essere non solo atea, ma neppure laica: e non può proprio perché la dottrina dell´incarnazione immette il trascendente nel contingente, e rende difficile separare i due ambiti dell´aldilà e dell´aldiqua, che diventano poi inseparabili quando la Chiesa stessa si configura come uno Stato a se stante. Il problema è dunque filosofico o teologico, prima e più ancora che politico: una sorta di contraddizione originale interna che rende sicuramente difficile, e forse impossibile, a un cattolico l´essere veramente laico.
Ma proprio per questo, la politica italiana deve tutelarsi dalle naturali tentazioni all´ingerenza dei cattolici individuali da un lato, e delle gerarchie ecclesiastiche dall´altro, sapendo già in anticipo che la natura della loro fede tenderà inevitabilmente a sconfinare dall´ambito religioso e teologico per invadere terreni che sono propriamente sociali e politici. Anzi, che tenderà a farlo con tanta più convinzione e forza, quanto più è forte e salda la fede: come nel caso dei cattolici che definiamo teodem, ma che se fossero islamici chiameremmo semplicemente fondamentalisti o taliban. L´ultima delle ingerenze ecclesiastiche, e più in generale religiose, in questioni sociali e politiche è la faccenda della moratoria sull´aborto proposta, in ordine di esternazione, dal cardinal Camillo Ruini, dal giornalista Giuliano Ferrara e dal papa Benedetto XVI. La seconda persona di questa improbabile trinità ha tirato in ballo pure me, chiamandomi «estremista dell´ateismo di Stato e difensore peloso di Bacone», nel suo editoriale «Fate l´amore, non l´aborto» su Panorama del 4 gennaio, benché io non abbia mai espresso pubblicamente alcuna posizione al riguardo. Colgo dunque l´occasione per farlo adesso, e per dire apertamente che l´intera faccenda suona estremamente pretestuosa, vista appunto con gli occhi di un laico.
Anzitutto, perché si potrebbe facilmente ribattere a Ferrara che sarebbe meglio dire «fate l´amore col preservativo o la pillola, e non farete l´aborto»: cosa alla quale si oppongono invece con ostinazione Ruini e Benedetto XVI, reiterando le disposizioni dell´enciclica Humanae Vitae che Paolo VI promulgò nel 1968, benché solo quattro (!) dei settantacinque membri della commissione di studio istituita da Giovanni XXIII, e da lui stesso confermata, avessero dato parere negativo agli anticoncezionali. Oggi, poi, con il flagello dell´Aids, chiunque istighi a non usare il preservativo nelle nazioni da esso infestate è difficilmente credibile in qualunque sua «difesa della vita dal concepimento alla morte».
Altrettanto facilmente si potrebbe ribattere a Ferrara che il motto suo e della sua parte politica è in realtà «fate la guerra, non l´aborto». E poiché la guerra è da sempre la maggiore responsabile delle morti procurate dall´uomo all´uomo, non è credibile chiunque sia contrario all´aborto ma favorevole ad essa: come coloro che, e non solo da destra, in questi anni hanno plaudito ai nostri interventi in Jugoslavia nel 1999, Afghanistan nel 2001 e Iraq nel 2003. Non parliamo poi di quelli che accettano la pena di morte: direttamente, come i fondamentalisti cristiani degli Stati Uniti, a partire dal presidente Bush, o indirettamente, nella forma della legittima difesa individuale o nazionale, come facciamo quasi tutti in Occidente.
Tutto questo per dire che un conto è il rispettabilissimo rifiuto buddista della violenza in tutte le sue manifestazioni, coniugato a una rispettabilissima difesa della sua vita in tutte le sue forme: da quelle attuali, umane e animali, a quelle potenziali. Un altro conto è invece il sospettosissimo rifiuto cattolico dell´aborto, unito alla sospettosissima accettazione, più o meno condizionale e selettiva, della legittima difesa e addirittura della pena di morte, come fa espressamente il nuovo Compendio del Catechismo agli articoli 467 e 469 (tra parentesi, il Vaticano ha abolito ufficialmente la pena di morte soltanto nel 1969).
E discussioni analoghe si potrebbero fare per tutti gli argomenti che stanno a cuore alla Chiesa, dal ruolo della famiglia tradizionale alla distribuzione delle risorse economiche: argomenti sui quali il papa non ha avuto pudore a strigliare, oggi stesso in Vaticano, gli amministratori della città e della provincia di Roma, e della regione Lazio. Ecco, se il Manifesto dei Valori del Partito Democratico, invece di ribadire nella sua ultima bozza «la rilevanza nella sfera pubblica, e non solo privata, delle religioni», proclamasse che i politici, in quanto tali, non devono inginocchiarsi di fronte al papa, né letteralmente né metaforicamente, farebbe qualcosa di meritorio non solo per la laicità, ma anche per l´indipendenza del nostro paese. In fondo, Zapatero fa già cosí: perché non dovremmo chiedere di farlo anche a Veltroni?

Repubblica 11.1.08
Quando il successo non basta
Mark Rothko e l‘arte di moda
di Alfred Jensen


Anticipazione/ Alfred Jensen anche lui pittore registrò e trascrisse una serie di conversazioni col grande artista
"La morte è assurda. Sembra infantile doverla affrontare, ma è sempre con noi"
"Qui a New York chiunque, una volta nella vita, diventa famoso, è capitato anche a me"

Un libro quasi rubato

Mark Rothko non sapeva che le sue parole sarebbero finite nero su bianco sopra un taccuino. Eppure fu così. Il collega Alfred Jensen, che frequentò spesso l´atelier newyorchese del grande maestro del colore, cominciò presto ad annotare le conversazioni avute con lui. Riflessioni sulla pittura classica, ma anche su Monet, Cézanne, Picasso, Mondrian, Matisse e sull´ambiente artistico contemporaneo che oggi vengono pubblicate da Donzelli in un piccolo libro. Conversazioni con Rothko (Donzelli, pagg. 112, euro 13) - di cui anticipiamo un capitolo - raccoglie il contenuto di tredici incontri avvenuti tra il 1953 e il 1956. Rothko è raccontato anche nei suoi stati d´animo, le passioni («mi attira l´idea dell´uomo del Rinascimento che identificava l´Io con l´universo»), i giudizi sui colleghi («Jackson Pollock quando è sobrio è una persona assai generosa ma può diventare pericoloso e aggressivo quando è ubriaco»). Quanto ad Alfred Jensen, scomparso nel 1981, non ha mai avuto la fortuna del suo compagno di riflessioni: «Non riesci ad esporre con le gallerie commerciali di New York perché sono tutte alla ricerca della stessa immediatezza tipica di de Kooning, Pollock e Kline», gli diceva Rothko.

7 dicembre 1955
Rothko oggi era in uno stato di prostrazione e anche io, essendomi raffreddato, non mi sentivo un granché.
Ho visitato il suo nuovo atelier per la prima volta. Poiché non aveva portato a termine alcun nuovo lavoro, abbiamo passato gran parte del tempo a ricapitolare.
Per citare Rothko: «Ebbene, Jensen, è da un po´ che ci frequentiamo. Sono interessato a sapere qualcosa riguardo alle lezioni di filosofia; in quanto artisti non possiamo comunque affidarci alle spiegazioni basate sulle corrispondenze. In quanto artista, sono interessato al tragico; la vita è tragica. Riguardo al libero arbitrio, cosa possiamo fare se non agire in conformità a quanto sentiamo più sicuro per noi? Ci comportiamo onestamente o viviamo per pagare il nostro debito. Ci sforziamo di fare agli altri quello che vorremo fosse fatto a noi, ma se l´altro non si comporta come facciamo noi nei suoi confronti non possiamo davvero condannarlo. Ammiriamo i gangster non perché non temono di essere cattivi ma perché hanno l´audacia di compiere qualsiasi azione di loro ufficio senza alcuno scrupolo riguardo alla propria incolumità. In questa vita ci troviamo in effetti in una situazione precaria, perché quello che desideravamo trent´anni fa in quanto progressisti è oggi realtà. Perché allora si dovrebbe desiderare quanto già possediamo e di cui ci rendiamo conto che, alla fine, possiamo fare a meno? Il mistero della vita è che non abbiamo alcuna risposta al riguardo e dobbiamo così riconoscere che il tragico ci accompagna dalla nascita alla morte. La morte stessa è assurda. Sembra veramente infantile doverla affrontare costantemente, ma è sempre con noi. E non possiamo rinnegare lei né le sue tragiche implicazioni.
«Mi sfugge quello che Ad Reinhardt e Ray Parker provano veramente per l´arte. Conosco Ad da molti anni. In verità, si è impossessato di molte mie nozioni estetiche e ha attinto a man bassa anche da Barney Newman. Newman ha fatto da padre ad Ad per anni, quando questi era letteralmente un poppante di Papà Newman. I ringraziamenti che abbiamo ottenuto al riguardo consistono in un attacco ingiurioso firmato dalla sua penna maligna che, in un articolo pubblicato sul College Art Journal, denuncia molti di noi. Per quanto mi riguarda, sono ormai abituato ad attacchi simili da parte di Ad così non li prendo troppo sul serio, ma Newman si è risentito e ha intentato una causa contro il Journal e contro Ad, citandoli per cento dollari di danni.
«Qui a New York quasi chiunque, una volta nella vita, diventa alla moda. Pochi anni fa ero io alla ribalta e, di conseguenza, tutti pensavano che fossi una persona autorevole, eppure con molti di noi questo apprezzamento ha vita breve. Oggi de Kooning è tenuto agli onori, forse con lui durerà di più. Nel caso di Avery, vi è un riconoscimento troppo superficiale del suo lavoro e questa è la tragedia di Milton, perché in questo modo viene isolato dalle sue stesse forze creative. Un´ammirazione fin troppo dozzinale indebolisce il suo lavoro. Ora, prendi uno come Earl Kerkam: non ha mai goduto del favore del pubblico, una situazione assurda e immeritata. Kerkam ha cambiato solo di recente, all´inizio dipingeva teste composte di frammenti che strutturava con grande abilità. Improvvisamente deve essersi detto: "Adesso dimostro a questi ragazzi Yin e Yang che, se lo desidero, sono capace anche di realizzare opere astratte", e guarda i fallimenti miserabili che il povero Earl ha realizzato quest´ultimo anno.
«Ho l´impressione che Sam Francis non abbia compreso Clyfford Still e che, per la stessa ragione, non abbia capito neanche il mio lavoro. In qualche modo si è riappropriato da entrambi del concetto di quadro ininterrotto ma, da quanto posso osservare, non lo sviluppa in nessuna direzione. Ogni porzione scorre sopra e al di là del piano pittorico, niente è ritenuto. Il moto trattenuto di Still all´interno del piano è invece tale da dar corpo al concetto, che si solidifica e resta sulla superficie del dipinto. Il processo creativo entra in crisi quando l´intensità dell´artista stesso si cristallizza in un´esperienza inequivocabile. In un dipinto di Sam Francis, la superficie appare come una tenda merlettata con nient´altro che una sottile e instabile traccia di colore, e questi colori non si richiamano l´un l´altro all´interno della composizione. Ora, simili dipinti li considero imitazioni illustrative. Non mi sembra che finora Sam Francis abbia apportato alcunché di nuovo né che il suo lavoro abbia a che vedere, da un punto di vista creativo, con il mio o con quello di Still. Di imitatori ne abbiamo in abbondanza, ma pochi sono in grado di comprendere realmente cosa abbiamo in mente. Ti prego di non riferire ad altri la mia posizione su Sam Francis, visto che in seguito potrei cambiare opinione.
«Ad ogni modo, quando osservo il tuo lavoro, Jensen, vi rintraccio ancora alcune qualità relazionali e corrispondenze sebbene, in un modo o nell´altro, sembrano attraversate da una crisi. Il tragico diventa manifesto nei tuoi dipinti e l´aspetto relazionale è assorbito dalla profondità del tuo messaggio specifico. Ho trovato la tua mostra eccellente.
«Vedi, Jensen, la situazione artistica sulla West Coast mi ha insegnato qualcosa. Da quelle parti gli artisti si accontentano della pittura di, poniamo, de Kooning, Pollock o Tomlin. Questa gente non ha intenzione di rifinire la sua visione e non vuole apprendere altro che il procedimento di realizzazione di un dipinto. Non è interessata a sviluppare una visione nuova ed è come se dicesse: "Non avvicinarti a noi con il tuo punto di vista individualistico o con l´intenzione di difendere la causa dell´arte". Sono perplesso e in difficoltà. Ignoro dove conduca tale compiacenza, né ho intenzione di prestarmi a tale attitudine stantia e disimpegnata. In altri termini, non voglio suonare la lira per gli altri ed essere poco più che un imbonitore».

Repubblica 11.1.08
Esce una raccolta di saggi sull'opera dell’analista cileno
Matte Blanco l'inconscio è infinito
di Luciana Sica


Per i curatori del libro, Alessandra Ginzburg e Riccardo Lombardi, le sue teorie non hanno ancora lo spazio che meritano nel pensiero psicoanalitico contemporaneo

Non ha ancora la collocazione che merita, nel pensiero psicoanalitico contemporaneo e nella clinica, Ignacio Matte Blanco - il grande analista cileno, romano d´adozione dal lontano aprile del 1966 al gennaio del ‘95, anno della sua scomparsa. Approdata ai territori della filosofia, soprattutto presocratica, e della logica matematica, la sua ricerca è considerata spesso troppo "difficile", sofisticata, astratta, eppure ha avuto straordinarie applicazioni: ad esempio, nel mondo della critica letteraria - da Orlando a Paduano, ad Agosti. Comunque sia, Matte Blanco rimarrà l´autore di due libri fondamentali usciti da Einaudi: il saggio sulla bi-logica L´inconscio come insiemi infiniti (1981) e Pensare sentire essere (1995). La lettura di queste opere restituisce pienamente la vertiginosa originalità di un modello di funzionamento della mente che l´analista sudamericano amava riassumere in una frase solo all´apparenza semplice: "L´inconscio: un infinito dentro di noi".
L´emozione come esperienza infinita (sottotitolo "Matte Blanco e la psicoanalisi contemporanea", FrancoAngeli, pagg. 311, euro 26,50): Alessandra Ginzburg e Riccardo Lombardi hanno curato una raccolta di saggi su quello che considerano - e che è, senza dubbio - un teorico estremamente innovativo e dalla singolare qualità umana. «Era la persona meno autoritaria, meno sgarbata, meno presuntuosa, meno di potere che si possa immaginare», così lo definiva - in un´intervista a Repubblica - Francesco Orlando che ora, in questo libro collettaneo, firma un saggio molto denso, "Le unità di un testo letterario e le classi di Matte Blanco" (tra i molti altri autori: Pietro Bria, James Grotstein, Antonio Di Benedetto, Salomon Resnik e Mauro Mancia, l´analista appassionato di neuroscienze scomparso l´estate scorsa).
La Ginzburg, come Lombardi, ha avuto un rapporto stretto con il maestro cileno, a lungo suo analista negli anni Settanta. È lei a parlare dell´infinitizzazione dei pensieri specifici che insorgono da ogni intensa esperienza emotiva, con tutta la refrattarietà ai canoni della "ragione" abituata a muoversi nei confini dello spazio e del tempo. Dice la Ginzburg: «Anche se restano dimensioni distinte, in Matte Blanco inconscio ed emozione sono in buona parte sovrapponibili, rovesciando i presupposti su cui il nostro pensiero è abituato a poggiare, primo fra tutti l´incompatibilità dei contrari. Se per Freud l´inconscio è innanzitutto rimosso, vietato dalle censure e dai conflitti, per Matte Blanco è invece simmetrico - con l´abolizione di ogni differenza tra le relazioni che diventano tutte ugualmente reversibili. Seguono le stesse regole di funzionamento dell´inconscio le esperienze che caratterizzano il versante conoscitivo dell´emozione».
Matte Blanco rivisita dunque il cuore del sistema freudiano, amplia notevolmente la nozione d´inconscio che non è più solo l´oscura cantina della nostra psiche - da illuminare con un sapiente lavoro di scavo e di ricostruzione di un passato remoto - e in più riscatta l´emozione spesso confinata nell´irrazionale. La sua concezione della bi-logica significa che abbiamo bisogno della ragione assolutista degli affetti quanto di quel pensiero razionale che Aristotele ha vincolato al principio di non contraddizione. L´inconscio come le emozioni diventa allora un sostegno strutturale della coscienza, e dello stesso pensiero logico. Ed è proprio dalla loro costante interazione che scongiuriamo il malessere mentale.
«Ciò che sappiamo - è ancora la Ginzburg a parlare - non corrisponde affatto, in moltissimi casi, a ciò che sentiamo. Eppure è proprio questo abisso apparentemente incolmabile a determinare la ricchezza dell´esperienza umana, è l´immersione in questa profondità a veicolare una molteplicità di diversi e nuovi significati per la nostra vita».
Non esita a definirla una rivoluzione concettuale, Riccardo Lombardi, allievo del maestro cileno, per molti anni in analisi con la moglie di Matte Blanco, Luciana Bon de Matte (a cui il libro è dedicato "con gratitudine"). Non a caso ha voluto intitolare "Il mio tempo verrà" il suo saggio di apertura, citando Gustav Mahler, le cui sinfonie hanno dovuto attendere cinquant´anni dalla morte del compositore viennese per essere riconosciute. Dice Lombardi: «L´opera di Matte Blanco avrà bisogno di tempo per essere pienamente assunta dal pensiero psicoanalitico ufficiale, appartiene ancora all´ambito dei cantieri sperimentali, anche se con un sempre maggior numero di laboratori in diversi luoghi del pianeta e da parte di analisti della più diversa estrazione».
La rivoluzione concettuale di Matte Blanco sta intanto nella messa in discussione del dominio della ragione: «È l´emozione a diventare la madre del pensiero, a generarlo e a sovrastarlo. In assenza di emozioni, il pensiero è sterile, controllante, una forma di razionalità che coglie solo la superficie della realtà interna. Del resto non siamo computer, siamo esseri biologici, "bi-logici": prima ancora che pensiero siamo carne, e molto spesso all´origine del pensiero c´è una turbolenza che nasce come disordine. È centrale quella sua idea dell´inconscio come struttura collegata al funzionamento delle emozioni: un connotato che lo rende presente e accessibile all´elaborazione cosciente e che appare costantemente in stanza d´analisi».
Con un certo sarcasmo, era Lacan a dire ai suoi allievi "voi siete lacaniani, io sono freudiano". Anche pensando a questa celebre boutade, viene da chiedersi se Matte Blanco rimanga o no un freudiano. Certamente l´analista cileno deve aver sofferto di una certa diffidenza nei suoi confronti, tanto da pensare alla creatività nella comunità psicoanalitica come a un pericolo mortale. La citazione è testuale: non una minaccia, ma proprio un pericolo mortale. «Senz´altro - dice Lombardi - Matte Blanco ha reinventato la rivoluzione di Freud, il suo modo di essere freudiano è stato quello di operare un deicidio, di uccidere il maestro per scoprirlo vivo dentro di sé. Era affascinato dall´aspetto contraddittorio e inafferrabile della ricerca freudiana, dalle aperture dialettiche di quel pensiero». Per la Ginzburg, «Matte Blanco è stato estremamente fedele al primo Freud, al grande pioniere dell´Interpretazione dei sogni. Ma quello che oggi importa - ed è questo anche il senso complessivo del nostro libro - è cogliere finalmente l´importanza del suo modello nell´applicazione clinica».

Corriere della Sera 11.1.08
Il «Manifesto dei valori» del Pd. Un tuffo nel passato
di Piero Ostellino


La lettura dell' odierno «Manifesto dei valori» del Partito democratico, redatto da Alfredo Reichlin, (ri)suscita nello studioso di filosofia e di scienza politica un irrefrenabile moto di ammirazione per il «Manifesto del partito comunista » di Karl Marx (e Friedrich Engels) del 1848. Tanto gli strumenti concettuali utilizzati da Marx erano la punta più avanzata della cultura della sua epoca, quanto quelli utilizzati da Reichlin appaiono la retroguardia della cultura di oggi. Più che il frutto del pensiero filosofico e politico contemporaneo, il Manifesto del Pd sembra il risultato di uno scavo archeologico nel socialismo utopistico, ieri degenerato storicamente nel comunismo, oggi parzialmente mitigato dalle «dure repliche della storia », la vittoria della democrazia liberale, del capitalismo e dell'economia di mercato.
Il Pd, «un partito aperto », «un laboratorio di idee e di progetti», nasce dalla necessità di «interpretare i processi storici e culturali in atto». Parrebbe una riedizione, per quanto tarda, del socialismo scientifico del giovane Marx del Manifesto del 1848, come «sociologia del capitalismo». Invece, è filosofia della storia, provvidenzialismo, modello teologico, nella (hegeliana) convinzione che la storia proceda verso un fine ultimo e che compito della politica sia quello di prevederne il cammino e di gestirlo, mentre la storia procede secondo la regola della «prova e dell' errore». Esigenza primaria del nuovo partito è, dunque, «il governo delle conoscenze». Negazione, questa, del concetto di «dispersione delle conoscenze » che è alla base della sociologia moderna (Max Weber), dell'individualismo metodologico (Friedrich von Hayek) e della società aperta (Karl Popper), cioè del processo attraverso il quale gli uomini, nella libertà, producono «inconsapevolmente » benefici pubblici attraverso comportamenti individuali non prevedibili e programmabili.
Per il Pd, «la libertà deve essere sostanziale e non puramente formale ». È l'anacronistica riedizione della convinzione dei marxisti che solo con l'abolizione dei rapporti di produzione capitalistici e la sconfitta della democrazia liberale sarebbe nata la piena libertà. In che cosa, poi, consisterebbe tale libertà «sostanziale » il Manifesto del Pd non lo dice chiaramente. Sembra di capire si tratti (genericamente) della libertà cosiddetta sociale di cui già Isaiah Berlin ha fatto giustizia nel saggio
Le due libertà. Quella negativa (liberale), come «non impedimento» per l'Individuo; quella positiva (democratica), come interferenza collettiva nella vita degli individui, con le sue ricadute totalitarie. In realtà, l'aggettivo «formale» certifica la superiorità della libertà borghese rispetto ai regimi che hanno preceduto la democrazia liberale e a quelli comunisti che le sono succeduti. Un processo politico è descrivibile solo se individua momenti in cui le regole del gioco sono formalizzate. In caso contrario, non si può parlare di evoluzione del processo, ma di «stato di natura» (ciascuno fa quello che gli pare e vince il più forte). Il «Principe » cioè, oggi, lo Stato e chi lo controlla, è legibus solutus, non è esso stesso sottoposto a regole del gioco (pre)definite.
«L'individuo, lasciato al suo isolamento — dice a questo punto il Manifesto del Pd — non potrebbe più fare appello a quella straordinaria capacità creativa che viene non dal semplice scambio economico, ma dalla memoria condivisa, dall'intelligenza e dalla solidarietà, dai progetti di domani». E ancora: «Noi vogliamo non una crescita indifferenziata dei consumi e dei prodotti, ma uno sviluppo umano della persona, orientato alla qualità della produzione e della vita». Qui siamo alla traduzione dell'etica in politica, anticamera della dittatura. Poiché in Marx non c'è una vera teoria dello Stato, questa volta è Lenin di Stato e rivoluzione a venire in soccorso dei redattori del Manifesto del Pd. Che pasticcio... Potrei continuare. Ma mi fermo qui. Non perché quello del Manifesto sia un programma pericoloso. Figuriamoci. Solo perché a me pare unicamente il frutto di una memoria politicamente ripudiata, ma culturalmente non ancora dimenticata.

Corriere della Sera 11.1.08
L'impennata Nel 2006 sono aumentati quanto negli ultimi dieci anni messi insieme: quindicimila in più
Il business Gli studi legali fatturano da 500 milioni di euro al miliardo. Se si litiga, la spesa è senza tetto
Divorzi, l'anno dei record. Cresciuti del 25%. È allarme costi
di Alessandra Arachi


ROMA — C'è lo studio dove soltanto per sederti devi già staccare un assegno e scriverci sopra cifre a quattro zeri. E poi pregare. Sperare. Che la pagina triste del tuo matrimonio infranto non si trasformi in una sanguinosa guerra dei Roses: in questo caso aggiungere uno zero a quell'assegno sarebbe davvero un attimo. Perché ci sono studi legali dove sembra proprio che ci godano nel buttare benzina sui fuochi dei divorzi. Meglio: ci lucrano. Semplicemente.
È un business difficilmente quantificabile quello delle operazioni legali per lo scioglimento del vincolo del matrimonio. Perché è la causa stessa del divorzio che, di per sé, ha un valore indeterminabile (si dice proprio così in termini tecnici). Ma che sia un business è decisamente innegabile.
Stiamo parlando di un giro d'affari che ogni anno fattura dai 500 milioni al miliardo di euro, in media. E questo secondo una stima che forse è un po' approssimativa, ma sicuramente attendibile. O, magari, calcolata addirittura lievemente in difetto. Perlomeno a giudicare dal numero dei divorzi che in Italia non ha mai smesso di crescere. E che lo scorso anno ha raggiunto un picco davvero senza precedenti: oltre il 25% di divorzi in più, in soli dodici mesi. In numeri assoluti, soltanto dal 2005 al 2006 i divorzi sono aumentati tanto quanto negli ultimi dieci anni, più o meno. Oltre quindicimila in più, contro i ventimila del decennio.
Per capire, nei dettagli: dal 1995 al 2005 il numero dei divorzi in Italia è cresciuto sempre. In una lenta ma inesorabile progressione: due, tre, quattro, cinquemila unità in più da un anno all'altro. Erano poco più di 27 mila nel 1995, sono arrivati a poco più di 47 mila nel 2005. Fino all'ultimo boom: sono stati oltre 60 mila i divorzi nel 2006 (61.153, per la precisione, secondo le cifre del ministero della Giustizia). Ed ecco che i conti del giro d'affari sono fatti. Non presto, certo, bisogna prima ragionarci un poco su.
E dividere quindi i divorzi in due categorie: quelli congiunti e quelli giudiziali. Ovvero: quelli dove l'ex marito e la ex moglie sono d'accordo, in generale. E quelli dove, in un'iperbole senza fine, si può invece arrivare agli insulti, ai coltelli, agli investigatori, alle perizie, al Dna. Nel 2006 i divorzi giudiziali sono stati la metà di quelli congiunti (19 mila 659 contro 41 mila 494).
A tutto questo, poi, bisogna aggiungerci la straordinaria lentezza dei nostri tribunali che in materia di giustizia civile è davvero indescrivibile: ci vogliono oltre 670 giorni, in media, per concludere un divorzio giudiziale. E ben 130 persino per un divorzio congiunto, che non vorrebbe avere discussioni. Ma poi ci sono i picchi: si raggiungono tranquillamente anche i dieci o anche i quindici anni per mettere la parola fine su un pezzo di carta della nostra giustizia. Picchi che hanno spinto un magistrato come Francesco Greco, procuratore aggiunto di Milano, a sentenziare che in Italia si fa prima ad uccidere il coniuge piuttosto che a divorziare.
È un percorso lungo, conflittuale, decisamente faticoso. E, appunto, costoso. Soltanto se parliamo di divorzi congiunti ha un qualche senso tirar fuori un tariffario legale (quasi) ortodosso. E stabilire così una cifra minima ed una massima abbastanza quantificabile: si va dai 1000-2000 ai 10-15 mila euro. Ovviamente dipende dagli studi dove si decide di andare.
Come dire? Sono rari gli studi legali dove per un divorzio che vede i coniugi d'accordo
Tempi infiniti
La media per concludere un divorzio giudiziale è di 670 giorni. Se si trova un accordo, i giorni scendono a 130 Ma restano i «picchi» praticamente su ogni cosa (magari senza nemmeno la delicatissima questione relativa all'affidamento dei figli) si devono sborsare le cifre a quattro zeri. Ma ci sono. Sono gli stessi studi legali dove volano cifre leggendarie per scioglimenti di matrimoni che definire semplicemente conflittuali non può rendere l'idea, talvolta.
I divorzi conflittuali sono, per definizione legale, senza tetto. Perché infinite sono le variabili che legano l'assistito al proprio avvocato. Qualche volta l'assistenza del legale diventa anche giornaliera. O, magari, richiede interventi extra e di emergenza, come l'accompagnamento in un pronto soccorso o in un ospedale. Oppure stiamo parlando di casi di coppie che, oltre che unite in matrimonio, si erano unite anche in affari societari. E di avvocati che invece di placare e sedare, fomentano gli animi turbolenti degli ex mariti e delle ex mogli.
Maretta Scoca, legale matrimonialista, scuote la testa: «Non ha senso alimentare i conflitti. L'attività più importante di un avvocato che si occupa di temi delicati come le separazioni e i divorzi è proprio quella di cercare di tranquillizzare i due coniugi. Che quando arrivano al divorzio spesso hanno una conflittualità così forte da avere un serio bisogno dell'aiuto esterno per essere sedata e poter così raggiungere un accordo».
È sperimentato: la conflittualità fra moglie e marito non dipende dall'entità dei patrimoni. I due coniugi sono capaci di scannarsi alla stessa maniera per 50 euro come per 50 milioni. La differenza la farà soltanto la parcella finale dell'avvocato.
Dieci, quindici, venti, centomila e chissà più quanti euro: le cifre delle tariffe per un divorzio giudiziale (più o meno complicato) non hanno davvero tetto. E anche se sono pochi (e tutti molto famosi) gli studi legali dove soltanto per sedersi si deve staccare un assegno a quattro zeri, è anche frequente che in questi studi si arrivi a cumulare spese per tariffe che di zeri ne hanno dietro cinque.
Sembrano favole ma sono la triste e dura realtà: parcelle di divorzi che sono arrivate a centomila, duecentomila euro (il resto è alla vostra immaginazione) pagate senza battere ciglio. Fantomatiche come le somme sborsate dal coniuge agiato per raggiungere l'intesa economica.
In Italia non abbiamo mai raggiunto il picco americano del giocatore di basket Michael Jordan che per sciogliere il suo vincolo di matrimonio dalla moglie Juanita ha dovuto lasciare sul tavolo 150 milioni di euro (del resto questo è anche il divorzio più caro del mondo, secondo la classifica pubblicata dalla rivista Forbes). Da noi, però, ancora ci risuonano nelle orecchie le liti furibonde e le carte bollate del divorzio che vide contrapposti Giorgio Falck e Rosanna Schiaffino: il re dell'acciaio lasciò parecchio alla moglie per scrivere la parola fine al suo matrimonio. Oltre 4 miliardi di lire, l'attico di Milano, la casa di Cortina, la collezione di quadri, i mobili...

il Riformista 11.1.08
Riforme. Più vicino l'accordo tra Rifondazione e Pd
La legge elettorale divide la Cosa arcobaleno
Tensioni su capigruppo, simbolo e leadership
di Alessandro De Angelis


Uno spettro si è aggirato per il vertice di maggioranza di ieri: quello della legge elettorale. E con esso anche quello della Cosa rossa. Certo, la sinistra dell'Unione ha incassato da Prodi due impegni che ricalcano ciò che non da oggi sostiene Rifondazione: «Tutto ciò che sarà recuperato dall'evasione fiscale o da altre forme di extragettito dovrà essere indirizzato alla riduzione del carico fiscale dei lavoratori e delle famiglie». E ancora: «È difficile continuare con un sistema in cui lavoro e impresa sono tassati più delle rendite finanziarie», ha detto ieri il premier che ha proposto di uniformare le aliquote sulle rendite finanziare al 20 per cento». Praticamente musica per le orecchie della sinistra-sinistra. Fin qui tutto bene. È chiaro che ora si dovrà passare dal "che cosa" al "come" e che il cammino presenterà qualche ostacolo, ma, per la Cosa rossa, non è su questo fronte che si annidano i problemi. I quali hanno principalmente un nome: legge elettorale. Che il dossier stia diventando tra i più difficili da gestire lo mostra una palpabile tensione tra i quattro partiti che martedì incontreranno Prodi per consegnargli - formalmente - un documento in cui sono indicate le priorità di governo a partire dalle questioni economiche. Ma quella sarà l'occasione anche per un confronto sulla legge elettorale.
Il punto è che ad oggi non c'è nessuna possibile intesa sulla legge elettorale tra i partiti della sinistra arcobaleno, proprio nessuna. Rifondazione è pronta all'accordo col Pd di Veltroni a partire dalla bozza Bianco (vai alla voce: «premietto» di maggioranza in cambio del recupero nazionale resti). Verdi e Pdci non ci stanno: il Prc vuole fare un'alleanza con una legge che ci costringe a scioglierci, dicono, ormai neanche tanto a microfoni spenti. E chiedono asilo politico a Prodi. Conseguenza: la Cosa rossa è a rischio. Di qui, appunto una serie di tensioni che, ad oggi, paralizzano anche la discussione su una road map comune. Argomento gruppi parlamentari: l'accordo raggiunto prevede che nei momenti più significativi parli uno a nome di tutti, ma la discussione sui gruppi unici è ferma a causa dei veti incrociati. Non solo: il nome di Cesare Salvi, indicato anche da Rifondazione come capogruppo del futuro soggetto unitario, sarebbe stato bloccato dal veto di Verdi e Pdci. Argomento amministrative: la presentazione di un simbolo comune sta registrando più di una resistenza. Su tutte si profila il caso Roma dove, per ora, non c'è accordo sulla lista, e i Verdi sono sempre più intenzionati ad andare da soli. Per non parlare del simbolo, su cui la discussione è rimasta ferma al momento in cui fu definito un «segno grafico» e non un simbolo politico. Argomento leadership: le tensioni interne a Rifondazione complicano assai le cose in vista del prossimo congresso, che infatti è stato rimandato. Ferrero spinge per la federazione della sinistra perché vorrebbe fare il segretario di Rifondazione, Giordano è al bivio: se accelera sulla linea Bertinotti di fatto rinuncia alla leadership, ma se frena salta tutto. E Vendola? Un sondaggio del Sole-24Ore di qualche giorno fa che lo dava in calo di popolarità come presidente della sua Regione è diventato, dentro Rifondazione, una delle armi brandite da chi lavora contro l'ipotesi della sua leadership.
In questo quadro, è proprio la legge elettorale lo spartiacque della Cosa rossa. E non è un caso che ieri lo spettro che si aggirava nel vertice lo abbia materializzato, dall'America Latina, Fausto Bertinotti, che ha sbattuto il tema (e la politica) sul tavolo. Il presidente della Camera, parlando di quello che succederebbe in caso di referendum e di vittoria del sì l'ha messa giù dura: «Ne uscirebbe una legge che è il contrario di tutto ciò che le forze politiche impegnate nel dibattito sulla riforma elettorale hanno finora detto. Si potrebbero produrre una, due, tre, mille organizzazioni politiche in cui la frammentazione diventerebbe la regola e sarebbero incentivate rendite di posizione». E ha aggiunto: «Quell'esito sarebbe nocivo per la democrazia del paese quanto il sistema elettorale oggi in vigore. Il rischio è quello di una crisi comparabile con quella della Quarta Repubblica francese». Ma soprattutto ha affermato: «Le regole devono essere condivise, è uno smacco se non lo sono. Poi, siccome ci devono essere, qualche volta possono essere decise anche con maggioranze non esaltanti. Ma devono essere condivise in modo tale che la competizione avvenga senza che nessuno pensi che l'altro ha la volpe sotto l'ascella». Chiosano i suoi: per Bertinotti, ottenuti i correttivi minimi alla bozza Bianco, il testo si può votare anche col Pd e Forza Italia. E la Cosa rossa? Con chi ci sta.

il Riformista 11.1.08
Perché serve un nuovo patto tra laici e cattolici
di Claudia Mancina


A distanza di alcune settimane dal lancio dell’iniziativa detta di “moratoria dell’aborto”, vale forse la pena di interrogarsi sul suo sorprendente successo, che ha coinvolto perfino il papa, e che nel mondo laico suscita sconcerto, provocando divisioni, reazioni indispettite, chiusure difensive o aperture spregiudicate, che tutte testimoniano una certa difficoltà di risposta (con poche eccezioni, tra le quali l’articolo di Mariella Gramaglia su questo giornale).
La chiave di questo successo sta, a mio parere, proprio nella paradossalità del termine moratoria, applicato all’aborto. Perché, come molti hanno già detto, si può parlare di moratoria di un atto statale, ma non di una scelta individuale: a meno che si intenda proporre la sospensione della legge che ne regola l’attuazione. Giuliano Ferrara lo esclude, sostenendo invece di voler fare solo una battaglia culturale. Perché allora l’uso di quel termine? Con esso si ottengono due risultati: si afferma il collegamento con la pena di morte, trasmettendo in modo più efficace di qualunque discorso l’equiparazione tra l’aborto legale e l’uccisione legale; e si nega quello che finora è stato, nel mondo pro-choice, il marchio del progresso: l’aborto-conquista-di-civiltà diventa invece, come la pena di morte, qualcosa che la vera civiltà dei diritti umani deve superare. E infatti non a caso l’iniziativa ha il suo culmine nella richiesta di emendamento della Dichiarazione dei diritti dell’Onu. Una richiesta che ha poca possibilità di essere accolta, ma che serve a dare la misura della rottura culturale a cui aspira il direttore del Foglio.
Si tratta dunque di un rovesciamento del discorso, che per sua natura rende difficile la controargomentazione. Una provocazione così audace e così spiazzante non sembra avere lo scopo di discutere seriamente con chi dissente, ma quello di suscitare un diluvio di consensi. Ed è ciò che sta avvenendo; però Ferrara dovrebbe riflettere su quanto poco confronto di merito stia venendo fuori. Se davvero la sua volontà di discussione è sincera, dovrebbe chiedersi se non abbia dato alla discussione stessa dei confini troppo rigidi. Se infatti il dialogo deve partire dall’assunto che l’aborto è l’omicidio di un bambino, allora nessun dialogo è possibile. La clamorosa provocazione si rivelerebbe - e anche questo è un paradosso - un’occasione sprecata.
Forte ed evidente è invece la ricaduta politica della campagna del Foglio, soprattutto nel Partito democratico. Dove i laici troppo spesso tacciono, stretti dalla ragion politica che in questo momento determina il protagonismo dei cattolici integralisti; o talvolta anche esprimono una laicità difensiva e ideologica. Lo stesso Ferrara, e ieri Panebianco sul Corriere della sera, si sono chiesti se e come possano convivere nel Pd posizioni etiche radicalmente diverse. Apparentemente il problema non è nuovo. Già nei partiti tradizionali si riscontrava un pluralismo etico: la posizione del Pci sul divorzio o sull’aborto non era certo monolitica. Anche allora, come oggi, c’era una ampia maggioranza laica, e agguerrite minoranze religiose. Se oggi il Pd trova difficile definire una nuova sintesi sul tema della laicità, è perché problemi nuovi e nuove sensibilità agitano l’orizzonte; ma anche perché è cambiata la ragione d’essere politica della laicità. Questa per prima chiede una ridefinizione, meno ideologica e più dialogante con la coscienza religiosa, meno statalista e più liberale.
Non basta affermare la laicità dello Stato (che nessuno può mettere in discussione, a meno di cambiare la costituzione); si tratta di assumere la laicità come rispetto del pluralismo e della autonomia dei cittadini nelle scelte che riguardano la loro vita e la loro morte. Per quanto pluralista possa essere un partito, questo aggancio alla laicità non può non essere il suo terreno comune. Per garantire la libertà di tutti i suoi aderenti, ma soprattutto per garantire la sua funzione di rappresentanza di un paese che è anch’esso per primo segnato dal pluralismo etico.
Il Pd ha bisogno, per nascere, che laici e cattolici stringano un patto non solo di rispetto reciproco, ma di reciproco riconoscimento e di collaborazione. Questo patto deve consistere in una comune assunzione di laicità rinnovata: un esito che non è affatto fuori delle possibilità di questo partito. Del resto, i teodem si contano sulle dita di una mano. La loro sovraesposizione politica e mediatica è l’effetto perverso di un sistema politico malato e distorto, che fa sì che al Senato ci siano due voti di maggioranza. In un sistema politico sano, il loro dissenso sarebbe fisiologico, e potrebbe essere regolato pacificamente. E verrebbe meno la loro funesta capacità di ricatto sui cattolici laici.
Panebianco osserva poi che la vera difficoltà del Pd è quella di realizzare l’incontro tra la tradizione postcomunista e quella del cattolicesimo democratico, perché ambedue logorate e non più sufficienti a costituire la “ragione sociale” del partito. Che quindi dovrebbe cambiarla. Ma il progetto del Pd non è questo, sebbene così sia talvolta presentato, per una sorta di pigrizia mentale, dai suoi stessi dirigenti. Se quelle due tradizioni fossero ancora vive, non avrebbero bisogno di unirsi in un partito. Il progetto del Pd è invece quello di un partito del XXI secolo, un partito che nasce precisamente dalla presa d’atto che quelle due tradizioni politiche e culturali sono arrivate al capolinea. Non sappiamo se andrà in porto. Ma se ci riuscirà, sarà solo come un partito capace di disegnare una identità politica nuova, della quale sia parte essenziale una ridefinizione della laicità.

Liberazione 11.1.08
Riforma elettorale, Bertinotti chiede che sia condivisa. Martedì minivertice del centrosinistra


Invocata, sempre più autorevolmente invocata, ma sempre in salita. Naturalmente si parla di nuova legge elettorale. Che ci sia la necessità di una riforma, nessun dubbio. L'ha ricordato dal Sud America, anche il Presidente della Camera, Bertinotti. Che torna a sostenere la necessità che le nuove norme siano le più condivise possibili. «Siccome le regole ci devono essere qualche volta possono essere decise anche con maggioranze non esaltanti. Ma quando va così è uno smacco, perché le regole devono essere condivise in modo tale che poi la competizione avvenga senza che nessuno pensi che l'altro ha la volpe sotto l'ascella». Bisogna fare la riforma, insomma. Ma non è così semplice. Lo scenario cambia quasi ogni giorno. E ieri, è stato il giorno delle difficoltà. All'interno dei due schieramenti. Nel centrosinistra, innanzitutto. Dove lo Sdi, i verdi, il Pdci e Mastella - poco prima che iniziasse il vertice di maggioranza dedicato ai temi economici - hanno chiesto che si discutesse di riforma elettorale. Spiegando la loro opposizione al progetto contenuto nella "bozza Bianco". Lunghe trattative e alla fine s'è deciso che dell'argomento si discuterà in una apposita riunione. Si farà martedì mattina, col ministro Chiti (Prodi, che aveva accetttato di buon grado l'idea del vertice sul tema, ha spiegato che era meglio evitare la sua presenza, visto che si tratta di un argomento di stretta pertinenza parlamentare). La riunione si farà, dunque. Ma i mugugni restano. Anche perchè Veltroni ieri è stato piuttosto esplicito: «Ben vengano le riunioni nella maggioranza. Ma non possimo pensare di essere d'accordo su tutto. Anche perché non si può andare al confronto con l'opposizione con un testo blindato».
Musi lunghi anche fra le fila della destra. Ieri, in un dibattito, Fini ha spiegato che esistono differenze profonde fra la sua impostazione e quella di Berlusconi. «Noi siamo bipolari, ho la sensazione che Fi invece voglia archiviare questa tagione». E allora «se non c'è nella coalizione una posizione comune su questo, la coalizione è archiviata».

Liberazione 11.1.08
Pd, la riscossa dei laici parte dai diritti civili
L'appello di Pollastrini e Cuperlo: «Sarebbe sbagliato confonderli con i temi etici»
Finocchiaro: «La libertà di coscienza non sia un'interdizione perpetua dell'attività politica»
di Romina Velchi


Come sempre il troppo stroppia. E così, dopo un iniziale stordimento con conseguente afonia, seguito alla proposta-choc di Giuliano Ferrara di una moratoria sull'aborto, le anime laiche, ancorché cattoliche, del Pd hanno cominciato a muoversi. Anche perché la «provocazione giornalistica» del direttore del Foglio non è che l'ultima di una serie. Un'escalation che «inquieta» dentro il Pd, tanto che in molti si domandano come mai «dopo un anno e mezzo di legislatura non abbiamo portato a casa un solo risultato legislativo sul fronte dei diritti civili». Già, come mai?
Una risposta prova a darla l'appello «per un nuovo civismo» promosso da Gianni Cuperlo e Barbara Pollastrini, già sottoscritto da decine di esponenti democratici anche cattolici. «Il punto è che si scambia di frequente la richiesta di legittimi diritti civili per tematiche etiche. L'effetto è che l'estensione arbitraria (...) della sfera eticamente sensibile rende più confusa la discussione e la ricerca di un approdo condiviso anche dentro il centrosinistra». «Brutalmente - spiega Cuperlo - si tratta di dare alla libertà di coscienza quello che è della libertà di coscienza e alla politica quello che è della politica. La difficoltà non è nel trovare un equilibrio dentro il Pd, sono certo che si troverà, ma elaborare un'agenda condivisa, chiara, senza sovrapposizione di temi».
Il fatto è che anche nel dibattito sulla laicità non sono estranee le dinamiche interne al Pd, in queste ore in pieno travaglio per la nascita più o meno ufficiale delle correnti. E infatti, ecco che Peppino Caldarola nel suo blog prende di mira l'appello, chiedendo polemicamente «che senso ha questa differenziazione? Chi non sta con Cuperlo è forse meno laico? Ci sarebbe una corrente laica se invece di Walter a guidare il Pd ci fosse un altro, che magari è andato a celebrare a piazza san Pietro Escrivà de Balaguer?» (cioè D'Alema).
D'altra parte, non è ai tempi della giunta veltroniana che il comune di Roma ha respinto la proposta della sinistra di un registro delle unioni civili? Non per nulla, una dura presa di posizione viene anche da un'altra dalemiana di ferro, la presidente dei senatori democratici Anna Finocchiaro, la quale insiste che bisogna distinguere «tra diritti e temi eticamente sensibili. Soltanto così si potrà affermare che, ad esempio, quello delle coppie di fatto è un tema relativo ai diritti e non a ciò che è eticamente sensibile. La libertà di coscienza - aggiunge Finocchiaro - è addirittura fisiologica su alcuni temi, ma questo non può tradursi in una interdizione perpetua dell'attività politica. In parlamento non si sta da liberi pensatori e basta. Nel Pd si troveranno modi e forme per riflettere su questo - conclude la senatrice - Con un'unica avvertenza: non nutrire alcun complesso di inferiorità, come se i valori fossero tutti soltanto da una parte».
E' sicuramente veltroniano, invece, Giorgio Merlo, uno dei firmatari del "documento dei sessanta" sull'autonomia dei cattolici in politica, che l'altro giorno ha invitato i «cattolici democratici a uscire allo scoperto». Perché, dice, «la tradizione cattolico democratica continua ad essere il vero antidoto contro la deriva laicista da un lato e la tentazione integralista dall'altro». E per Francesco Garofani, che quel documento l'ha scritto, «la laicità deve essere considerata come una garanzia di libertà per tutti». Finora in ritirata («Siamo a disagio - ammette Garofani - di fronte a queste provocazioni giornalistiche. E' una questione di identità politica, non religiosa»), gli ex popolari hanno rotto gli indugi: avranno la loro corrente e apriranno pure una sede.
Correnti a parte, resta che esagerare non conviene. Lo hanno capito gli stessi teodem. Binetti, per esempio, si era schierata entusiasta con la mozione di Sandro Bondi (FI) per una revisione della 194, salvo poi tornare sui propri passi. Ci ha pensato l'accorto Enzo Carra a richiamare tutti all'ordine, in una riunione convocata per fare il punto. «Della mozione Bondi non ne abbiamo parlato, è prematuro. La nostra prima missione è svolgere bene il ruolo di parlamentari, perciò abbiamo fatto un'analisi politica della situazione a tutto campo. Quanto ai temi che ci sono cari, noi vogliamo aprire il dialogo, non chiuderlo». Così, paradossalmente, sono proprio i teodem a mettere un freno al "soldato" Ferrara: «E' un amico, ma serve moderazione». Dunque, meglio per ora non parlare di modifiche alla 194; casomai insistere perché sia «pienamente applicata».
I teodem fanno buon viso a cattivo gioco anche per quanto riguarda la carta dei valori del Pd, che sabato dovrebbe trovare la sua stesura definitiva. La bozza, frutto della mediazione tra Alfredo Reichlin e Mauro Cerruti, è pronta: vi si legge che «la laicità dello stato e delle sue istituzioni è un valore essenziale dell'impegno politico e sociale del Pd»; quanto alla religione è «un elemento vitale della democrazia», ma insieme con altre «esperienze culturali e spirituali». «Una buona base di partenza» è il freddo commento di Binetti, che avverte: i giochi sono ancora aperti.
Chi, comunque, è sicuro che si arriverà ad un equilibrio è il senatore cattolico, molto vicino a Veltroni, Giorgio Tonini. «Il passaggio sulla laicità nel manifesto è efficace e chiaro. E' un testo che aiuta a fare passi avanti». E tende una mano anche ai laici: l'appello «è un contributo importante, non ci vedo elementi di dissenso». Certo, ammette, «esiste un problema di linguaggio comune su questioni come queste», ma preferisce vedere il «lato buono» di tutta la polemica: «La 194 esce rafforzata, perché ora sono tutti d'accordo che non va modificata; la legge è attrezzata anche ad affrontare le novità delle scoperte scientifiche».
Tutto bene, dunque? Forse no, se una «provocazione giornalistica» ha creato tutto questo scompiglio in un partito, ancorché in formazione. «Non temo la mescolanza e neanche la fatica del dialogo - osserva infatti Cuperlo - Temo l'arretramento culturale. Se un esponente del mio partito dice che i gay vanno curati penso che si tratti di una boutade, ma è un segnale. Vuol dire che si sta abbassando la soglia anche nel pudore del dire».

il manifesto 11.1.08
Il Pd alla ricerca dell'accordo tra caste
di Marco Bascetta


Di ogni «manifesto dei valori» conviene sempre diffidare. Non solo e non tanto perchè sovente coincide con la penosa costruzione di identità fittizie, con la via burocratica all'istituzione di un preteso senso comune. Ma soprattutto perchè dietro la dilagante retorica dei valori si cela una meschina contrattazione politica, la definizione di equilibri e rapporti di forza, nonché il più spregiudicato gioco degli opportunismi e delle astuzie lessicali. In breve, ruvide questioni di potere. Di tutto questo la bozza presentata da Alfredo Reichlin e Mario Ceruti ai cento saggi incaricati di compilare il nuovo catechismo del Pd, è un esempio prezioso. Limitiamoci a esaminare un solo punto, quello che i cattolici (certi cattolici) celebrano come una luminosa vittoria sui troppo decisi sostenitori della laicità. Il passo in questione afferma che la laicità dello stato deve essere intesa «come rispetto e valorizzazione degli orientamenti culturali, e quindi come riconoscimento della rilevanza nella sfera pubblica, e non solo privata delle religioni». In quel termine, «sfera pubblica» si annida l'inganno.
Che le religioni non costituiscano un fatto privato, una inclinazione della coscienza individuale, ma un legame sociale, un insieme di abitudini e pratiche collettive, una condivisione di sensibilità anche politiche, nessuna persona dotata di senno si sognerebbe di negarlo. Da sempre molte comunità religiose operano nella «sfera pubblica», in genere senza bisogno di alcuna «carta dei valori» e sovente in polemica con le rispettive gerarchie ecclesiatiche. Fatto sta che nella testa dei politici non esiste «sfera pubblica» che non sia statale e istituzionale, così come in quella delle gerarchie ecclesiastiche non esiste comunità religiosa che non si adegui pienamente alle direttive del vertice e ai suoi orientamenti politici. Dunque il passaggio della bozza di Reichlin e Ceruti andrebbe letto correttamente così : «riconoscimento della rilevanza nella sfera statale e non solo privata delle religioni». Decisamente suonerebbe assai più problematico per chi asserisca la laicità dello stato. Rivelando, inoltre, il carattere bassamente «politicante» del discorso sui cosìddetti valori. In buona sostanza un compromesso tra due «caste», un misurarsi e riconoscersi tra poteri costituiti, un concordato tra gerarchie all'interno di un partito. E che significa poi «riconoscimento della rilevanza nella sfera statale» se non il diritto a condizionare, con leggi e istituzioni, la condotta di tutti, credenti e non credenti?
Di questo dirigismo morale, assunto in pieno dal partito democratico, anche il passo che fa della famiglia «il primo luogo relazionale, affettivo e formativo dove si sviluppa l'identità, l'inserimento sociale e la dignità della persona» è un esempio inequivocabile. Oltre a togliere «dignità» alle molte diffuse situazioni affettive e relazionali diverse che popolano la «sfera pubblica» non statale, quel «primo luogo relazionale» significa in realtà l'unico luogo tutelato e promosso dallo stato, almeno in senso pieno. Ben consapevole di questo contesto, nel suo colloquio di ieri con Veltroni e Marrazzo, in particolare sul tema della famiglia, papa Ratzinger non teme di trattare le istituzioni, quelle locali nel caso specifico, come una sorta di braccio secolare della dottrina cattolica. I «valori» non contemplano le libere scelte di vita di tanti cittadini, ma solo l'equilibrio tra codici morali calati dall'alto e tra le filiere del potere che vi si richiamano. Non c'è da stupirsene. La chiesa, nella sua dottrina sociale, respinge senza mezzi termini il principio della sovranità popolare e la politica ne ha fatto un puro e semplice dispositivo di autoriproduzione, nonché un vuoto simulacro. Che sia questo il terreno comune, se non il «valore» condiviso?

il manifesto 11.1.08
L'unità della sinistra è l'unica via possibile
di Marcello Cini


Trovo poco soddisfacente la breve risposta che Valentino Parlato ha dato alle tre lettere di domenica scorsa (Roberto Pizzuti, Felice e Liliana Piersanti e Moreno Biagini) che - condividendo in tutto o in parte le critiche avanzate nelle ultime settimane alla linea del giornale da parte di Francesco Indovina, Luciana Castellina e Massimo Serafini - invitavano il manifesto con più o meno garbo, a smettere di «arricciare il naso» verso il tentativo in corso di costruzione di un soggetto unitario della sinistra, esortandolo a contribuire maggiormente al suo, indubbiamente molto problematico, successo. Dobbiamo «afferrare Proteo», ha risposto Valentino Parlato, non correre dietro a aggregazioni di vertice nella sfera della politica. Così formulato l'obiettivo appare suggestivo, anche se vago. Il sugo è tuttavia un altro: arrangiatevi - ha detto - noi manteniamo la nostra autonomia di «quotidiano comunista».
Cerco allora di spiegare perché considero questa strategia autolesionista e disperatamente perdente. Il nodo è secondo me, la riaffermazione dell'etichetta programmatica di «quotidiano comunista», che Marco D'Eramo con la sua garbata arguzia, qualche tempo fa equiparava a una «foglia di fico». Questa foglia, tuttavia non mi sembra nascondere sotto di sé, come di solito accade, qualcosa di vigoroso e vitale, ma soltanto una lapide funeraria. Una lapide che, come il giornale stesso con le sue figurine ha documentato, copre le tombe più svariate, da quelle dei più profondi pensatori e dei leader politici più carismatici e coraggiosi fino a quelle dei profeti più visionari e sanguinari della storia degli ultimi due secoli, ma che è di scarso aiuto nel cogliere l'essenza delle molteplici forme che Proteo sta assumendo all'inizio del XXI.
Abbandonare questa lapide per sostituirla con un richiamo ai valori di fondo che fin dalla Rivoluzione francese contrappongono la sinistra nelle sue variegate manifestazioni alla destra - anch'essa variegata ma saldamente tenuta insieme da un'ideologia storicamente arroccata sulla difesa dei privilegi e del potere delle classi dominanti - non sarebbe certo tradire la memoria dei padri fondatori del movimento operaio né quella dei milioni di donne e uomini che hanno sacrificato la vita in nome dei suoi ideali. Significherebbe al contrario presentarsi alle generazioni che del comunismo hanno solo sentito parlare come fonte di errori e di orrori, con parole che rappresentino i nuovi valori di una società capace di non farsi travolgere dalla mercificazione totale in ogni aspetto della vita individuale e collettiva, e di opporsi alle drammatiche conseguenze dell'assunzione del mercato come regolatore unico e supremo dello sviluppo globale.
Parlo, in estrema sintesi, del rifiuto della guerra e della violenza anche se giustificati come strumenti di emancipazione e di liberazione; dell'impegno nell'opera di salvataggio dell'ecosistema dal suo degrado irreversibile: dell'assunzione della diversità come ricchezza collettiva che deve accompagnarsi alla solidarietà con i poveri e i diseredati del mondo; del riconoscimento dei saperi e delle sensibilità femminili come componenti indispensabili per affrontare i problemi strettamente intrecciati dell'ipersviluppo e del sottosviluppo; del perseguimento della condivisione della conoscenza come bene comune da tutti fruibile; dell'affermazione dei diritti umani in generale e di quelli del lavoro in particolare nei confronti del capitale. Altri ancora se ne potrebbero aggiungere ma, a parte quest'ultimo, si tratta di valori sui quali la tradizione novecentesca del comunismo non ha molto da dire. Sia ben chiaro: non mi dissocio affatto dall'essermi identificato con essa nel contesto storico dei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, ma mi sembra indispensabile sottolinearne oggi i limiti alla luce delle svolte epocali che il capitalismo sta attraversando nel passaggio al nuovo secolo con il processo di globalizzazione.
L'attaccamento alla «denominazione di origine controllata» blocca dunque in partenza la stessa proposta, di Parlato, di «concentrarci sull'analisi dello stato di cose presente». Che analisi si può fare se non si sa dove si vuole andare e quali strumenti usare? L'attuale eclettismo del giornale sulle questioni che ho appena accennato (e mi riferisco in particolare alla questione ambientale), che ospita contributi di indubbio valore e interesse accanto a altri secondo me discutibili ma soprattutto incoerenti con i precedenti, non serve a fondare su basi più solide un processo futuro di unificazione della sinistra. Anzi, priva il faticoso e difficile cammino che questo processo ha oggi di fronte di un supporto autonomo che potrebbe giocare un ruolo importante. Come scrive Indovina nel suo allarmato appello di martedì ai quattro segretari della cosa che per ora si chiama «La Sinistra/l'Arcobaleno», non solo non c'è tempo, ma il tempo lavora contro. «La nuova formazione - aggiunge - ha bisogno di entusiasmo, di mobilitazione, di attenzione, non di sfilacciamento, di temporeggiamento. Questo lavora contro nella società e dentro ciascuno di noi».
Non capisco come voi del manifesto possiate non preoccuparvi della prospettiva possibile di un aborto della nuova formazione. Temo che se scomparirà la parola «sinistra» dal vocabolario politico italiano non sarà il vostro «quotidiano comunista» a tenere accesa quella fiammella che ha scaldato il cuore a me come a Valentino Parlato fin da quando avevamo vent'anni.

giovedì 10 gennaio 2008

l’Unità 10.1.08
Aborto, verità e menzogne
di Carlo Flamigni


La 194 è una legge che ha dato ottima
prova di sé: ha diminuito drasticamente
il numero di aborti con un tasso
di abortività tra i più bassi nel mondo
Quante altre leggi dello Stato
hanno funzionato altrettanto bene?

In questi giorni il Cardinale Ruini ha riaperto il problema della legge 194, quella sulla interruzione volontaria di gravidanza, affermando che i grandi progressi acquisiti nel campo dell’assistenza intensiva neonatale ne impongono una revisione. Alla sua dichiarazione hanno inevitabilmente fatto eco molti parlamentari cattolici e un gran numero di cattolici «della curva nord», quelli che si divertono a fare il tifo anche se non hanno mai dato un calcio al pallone e che comunque si distinguono sempre per aggressività, violenza e maleducazione (oltre, naturalmente, per la volgarità delle motivazioni che li ispirano). A dare ancor maggior rilievo a questa iniziativa è poi arrivato l’appoggio del Pontefice, che ha inneggiato alla proposta di una moratoria sull’aborto ottenendo nuovi consensi e nuove genuflessioni.
Questa ipotesi di una moratoria da imporre a un problema che rappresenta una tragedia personale per molte migliaia di donne mi sembra così offensiva che vivo ancora nella speranza che il Papa non abbia capito perfettamente il significato della parola, la lingua italiana ha le sue trappole. Ma «sospendere a tempo indeterminato» l’interruzione volontaria delle gravidanze, avrebbe un senso se si potesse contemporaneamente sospendere la violenza carnale, il disagio economico, la malattia, la cattiva abitudine di alcuni feti di nascere malformati, dite voi. Se questo è possibile, giuro, mi associo, faccio mia la proposta; se non è così, si tratta di un tale sberleffo alla sofferenza umana che vorrei proprio evitare di dare giudizi.
Immagino che, a provocare questi interventi, ci siano due ragioni: la prima, riconoscibile in alcuni eventi recenti (un feto è sopravvissuto dopo una interruzione volontaria di gravidanza) e nella attuale polemica (che ha investito anche il Comitato Nazionale per la Bioetica) che riguarda la rianimazione dei bambini nati con un peso particolarmente basso. Il secondo motivo è squisitamente politico e non poteva essere diversamente, date le propensioni (appunto, squisitamente politiche) del Cardinale Ruini: in effetti, da questo punto di vista, non c’era momento migliore per sollevare la questione, considerata la condizione di straordinaria difficoltà in cui versa il nuovo Partito democratico, pervaso dai soliti venti di guerra tra laici e cattolici e in trepida attesa di qualche nuovo intervento divino capace di modificare i già precari equilibri parlamentari.
Non credo sia possibile immaginare un momento migliore per confondere ulteriormente le idee di questi miei poveri compagni e non credo che sarebbe possibile immaginare un argomento più velenoso. Non ho nessuna simpatia per l’astuzia, un disvalore che dovremmo imparare a disprezzare, ma so riconoscere il merito.
Non mi è ancora ben chiaro se è in ballo una vera e propria modifica della legge o se si tratta più semplicemente di un tentativo di elaborare alcune linee guida che pongano dei limiti di tempo all’interruzione, quella regolata dall’articolo 6 che riguarda l’aborto dopo il 90° giorno. Secondo me la legge 194, che è tutto sommato una legge saggia, è già in grado di evitare questa sorta di problemi, basta leggerla - e attuarla - con attenzione. L’articolo 6, infatti, stabilisce che:
-l’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi 90 giorni, può essere praticata;
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Ma all’articolo 7, dopo una premessa che riguarda gli accertamenti sulla normalità del feto troviamo che:
-quando l’interruzione di gravidanza si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna, l’intervento può essere praticato anche senza le procedure previste…..Qualora sussista la possibilità di vita autonoma del feto l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso della lettera a) dell’articolo 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.
Dunque, nel caso in cui il medico riconosca al feto capacità di vita autonoma, la scelta di interrompere la gravidanza potrà essere fatta solo nel caso che lo stesso medico identifichi, nel proseguimento della gestazione, un grave pericolo per la vita della donna.
Ciò ci riconduce alla prassi in uso prima del varo della legge 194, quando l’interruzione della gravidanza poteva essere eseguita legalmente solo se si creavano le condizioni di uno stato di necessità (quando cioè il feto diviene «l’assassino di sua madre» - espressione utilizzata molti anni or sono da un rabbino - e non intervenire pur essendo consapevoli del grave pericolo al quale è esposta la vita della donna, significa assumersi la responsabilità della sua morte), in presenza del quale le altre norme debbono tacere.
Il problema vero, l’unico che mi sembra di scorgere in questo momento, riguarda il momento della gravidanza nel quale può essere identificato l’inizio della possibilità di vita autonoma.
Su questo punto c’è attualmente una discussione: è vero infatti che nessun feto sopravvive se costretto a nascere entro le 22 settimane di gestazione, ma è anche vero che nessun feto nato alla ventiquattresima settimana sopravvive se la madre lo partorisce in una remota località di montagna, o se è portatore di una grave malformazione per la quale deve essere sottoposto a intervento chirurgico; ed è altresì vero che esistono spesso problemi quando si deve datare una gestazione, che la prognosi è diversa se il parto è spontaneo o operativo e così via. D’altra parte stiamo parlando di eventi assai poco frequenti e che sarebbe possibile evitare del tutto stabilendo un unico principio: che tutte le indagini relative al benessere e alla normalità del feto si debbono concludere in tempo utile perché una eventuale interruzione della gravidanza possa essere eseguita entro la ventiduesima settimana.
Sul problema della sopravvivenza dei feti nati dopo la 22ma settimana vorrei intervenire in un altro momento, il tema è complesso (ne sta discutendo il Comitato Nazionale per la Bioetica) è ha bisogno di spazio. Anticipo solo i punti sui quali la discussione è più calda: è giusto intervenire sempre, sottoponendo il feto a cure intensive, o piuttosto è opportuno valutare caso per caso le probabilità di sopravvivenza e i rischi di handicap? E quale ruolo hanno i genitori: hanno il diritto di essere consultati (e di chiedere di veder rispettata la propria decisione) o sono realmente, come qualcuno afferma, confusi, disorientati e disinformati e vanno tenuti, affettuosamente, fuori dalle scatole? E cosa mi dite delle cure che debbono essere considerate sperimentali (che sono tantissime), non sarà che, almeno in questi casi il parere dei genitori è determinante? Problemi, come vedete, seri e concreti, certamente più seri e concreti delle baggianate sulle moratorie .
Non è però detto che le richieste di modificare la legge 194 si fermino qui. Francesco D’Agostino, in un confronto che abbiamo avuto su una radio romana, ha richiamato la mia attenzione sull’articolo 4 della stessa legge, nella parte nella quale si stabiliscono i motivi di una eventuale interruzione che possono essere considerati accettabili. Secondo D’Agostino la legge affida la decisione al medico, l’unica persona competente in grado di verificare l’esistenza di «circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua (della donna) salute fisica o psichica...». Per D’Agostino sarebbe dunque sufficiente, per una corretta attuazione della norma e per una lettura coerente del suo spirito, affidare realmente e completamente al medico la valutazione dell’esistenza di questo «serio pericolo».
A mio avviso questa interpretazione è del tutto sbagliata, e per due ragioni: la prima perché continuando nella lettura dell’articolo 4 si legge come questo pericolo deve essere valutato «in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali, o familiari, o alle circostanze in cui è avvento il concepimento, o a previsioni di malformazioni o anomalie del concepito» ed è chiaro che in quasi tutti di questi ambiti il medico non ha né competenza né capacità di intervento. Se poi si continua la lettura della legge si scopre, e questo è il secondo motivo del mio dissenso, che in tutto l’articolo 5 è delineato il percorso che la donna dovrà seguire, nei casi in cui esiste e in quelli in cui non esiste una urgenza, percorso che ha come unico impedimento un periodo di 7 giorni in cui è invitata a soprassedere.
Il compito del medico è dunque quello di valutare le circostanze che inducono la donna a chiedere l’interruzione della gravidanza, di informarla in merito ai suoi diritti e sugli interventi di carattere sociale ai quali può fare ricorso e di verificare l’esistenza di un carattere di urgenza. Al termine di tutto ciò egli può solo consegnarle un certificato nel quale sono attestate le sue intenzioni e chiederle di attendere per sette giorni: ma al termine di questi sette giorni, e quale che sia la personale opinione del medico, la donna può presentarsi a una delle sedi autorizzate e chiedere l’interruzione di gravidanza sulla base di quel documento, un documento che il medico deve consegnarle per forza.
C’è in molti, anche come conseguenza di una sottile opera di propaganda, la convinzione che i medici non facciano il loro dovere, che i consultori siano degli abortifici, che la legge 194 venga utilizzata come strumento di controllo delle nascite. In realtà, i medici hanno saputo interpretare correttamente la legge, i consultori fanno una straordinaria opera di sostegno e di informazione e le donne che hanno utilizzato l’interruzione di gravidanza alla stregua di un mezzo anticoncezionale non dovrebbero superare, secondo le valutazioni dell’Istituto Superiore di Sanità. l’1,6%. Insomma, la 194 è una legge che ha dato buona prova di sé, che ha diminuito il numero di aborti in modo significativo (erano 234.000 nel 1982, sono stati 129.000 nel 2005) con un tasso di abortività tra i più bassi nel mondo. Quante altre leggi dello stato hanno funzionato altrettanto bene?

l’Unità 10.1.08
Il Pd: «Riconoscimento pubblico delle religioni»
La bozza del manifesto dei valori: laicità essenziale basta discriminazioni sessuali. Stop alle maxi-coalizioni
di Andrea Carugati


«UNA DEMOCRAZIA FORTE, in grado di decidere», perché la crisi italiana «non è un destino inevitabile». Un «bipolarismo maturo», con al centro i valori della Costituzione e il «rispetto degli avversari», non più indicati come nemici. Il manifesto del Pd, nella bozza (ancora provvisoria) elaborata dal presidente della commissione Alfredo Reichlin e dal relatore Mauro Ceruti, parte da qui: dall’idea di fare «un’Italia nuova», dalla «vocazione maggioritaria» che fa del Pd non il rappresentante «parziale» di segmenti della società, ma una forza in grado di «dare riposte adeguate di problemi concreti» dell’Italia nel suo insieme. Per questo punta moltissimo sull’idea di una «democrazia governante» e sul concetto di «alleanze per il governo» e non più «coalizioni eterogenee».
Il manifesto torna a più riprese sul tema della globalizzazione, e su come rispondere ai tanti interrogativi che essa produce, a partire dalle domande di senso delle nuove generazioni. Per questo nasce il Pd, dove «confluiscono grandi tradizioni, le esperienze e le culture migliori del riformismo italiano», consapevoli che da sole sarebbero inadeguate allo sforzo. L’Europa è uno dei punti di riferimento: un modello di «identità nella diversità» che il Pd vuole «realizzare al suo interno» (è l’unico riferimento al tema delle correnti, ndr) e promuovere «nell’intero paese». Dove si collocherà il Pd in Europa? Stringerà «stretti rapporti con tutte le forze europeiste del campo riformista e democratico». Quanto alla laicità, altro tema caldissimo, il testo spiega che essa è «un valore essenziale» del Pd. Come «garanzia di uno spazio pubblico e condiviso di libero confronto e decisione, autonomo rispetto a qualunque condizionamento mirante a imporre una visione culturale, ideologica o religiosa, agli individui, alla società e alle istituzioni democratiche». «Noi concepiamo la laicità non come il luogo di una presunta e illusoria neutralità, ma come rispetto e valorizzazione degli orientamenti, e quindi anche come riconoscimento nella sfera pubblica, e non solo privata, delle religioni, dei convincimenti filosofici ed etici, delle diverse forme di spiritualità». Energie morali che, «quando riconoscono il valore del pluralismo e del dialogo rappresentano un elemento vitale della democrazia». Grande spazio anche alla «libertà della ricerca scientifica», che il Pd sostiene «fermamente». E tuttavia, rispetto agli «inediti interrogativi di natura etica» sollevati dal progresso scientifico, il Pd sottolinea che «non tutto ciò che è realizzabile tecnicamente è eticamente accettabile, nè utile».
Si parla anche del ruolo della scuola come sistema «pubblico integrato» (che comprende anche le private), del ruolo della famiglia che va «incoraggiata con adeguate politiche di sostegno pubblico». E ancora: l’immigrazione non come «difficoltà da affrontare con politiche meramente restrittive», ma come opportunità»; la «dignità del lavoro» e la sua sicurezza: «Nessun riformismo può essere fondato su lavori “precari” e su “vite di scarto”»; la sicurezza e la legalità; la salvaguardia dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile. Molto soddisfatto Reichlin, che parla di «un grande passo avanti rispetto al manifesto dei saggi elaborato un anno fa. Il tema della laicità è affrontato in modo netto: da Habermas in poi è ovvio che le religioni abbiano diritto di parola nello spazio pubblico, ma lo Stato laico non accetta verità ultime». Soddisfatta anche l’ala sinistra, che in questa nuova bozza vede sottolineati a dovere i temi del lavoro e dell’ambiente e anche una nuova versione, «meno restrittiva», del passaggio sui limiti della ricerca. Resta irrisolto il tema della collocazione europea del Pd, e del rapporto con il Pse, che Sergio Gentili solleverà sabato alla riunione della commissione dei 100 per discutere la bozza. Interverrà anche Andrea Benedino, del gruppone laico guidato da Pollastrini e Cuperlo, per proporre emendamenti sulla laicità, nel senso di una più chiara esplicitazione dell’«autonomia della politica», e sulla definizione di famiglia «nella pluralità delle forme in cui si manifesta». Benedino festeggia anche un’altra novità: l’inserimento tra le cause di dicriminazione che il Pd intende combattere anche quelle fondate sull’orientamento sessuale. «È un risultato importante - spiega- maturato dopo le polemiche sul voto della senatrice Binetti in Senato».

l’Unità 10.1.08
Centinaia le adesioni in difesa della laicità


Sono giunte a 150 le adesioni al manifesto per la laicità nel Pd lanciato dal ministro Barbara Pollastrini e pubblicato ieri sull’Unità. Oltre a esponenti della società civile, il testo ha ricevuto l’adesione di diversi parlamentari. Gianni Cuperlo, lo ha inviato via e-mail a molti esponenti ex Ds chiedendo loro di firmarlo.
Il Manifesto ricorda i dibattiti sulla laicità e su specifici temi (Dico, testamento biologico, omofobia) degli ultimi mesi e sottolinea che tutta la discussione «accompagna, e per certi versi scandisce, la nascita del Pd, ne interroga scelte e cultura politica». Il manifesto si conclude preannunciando su questi temi un’iniziativa, lasciandosi un margine di scelta, anche se si è orientati per un seminario da svolgere già nelle prossime settimane, mentre oggi, forse domani, potrebbe essere attivo un blog attraverso il quale aderire all’appello. r i primi di marzo. Tra le adesioni arrivate ieri anche quelle dei professori Giorgio Marinucci o Giovanni Del Rio).

Repubblica 10.1.08
Il presidente della Camera incontra a La Paz il presidente Morales: "Qui soffia il vento del rinascimento politico"
Strappo di Bertinotti in Sud America: ecco la via "india" al socialismo
"Sotto questo tetto c´è posto per tante cose, che possono andare nella stessa direzione"
di Umberto Rosso


LA PAZ - La via "india" al socialismo. Forse, socialismo. L´ultimo strappo di Fausto Bertinotti si consuma nel palazzo del governo boliviano, dove trova appunto il primo presidente indio nella storia di quel paese. Ed è proprio nell´incontro con Evo Morales, clima quasi da rimpatriata fra amici dopo la recente visita a Roma del leader boliviano, nelle parole e nelle seduzioni del presidente con il maglione che promette la rivoluzione dolce, che Bertinotti scopre che è ormai tempo di un altro passo avanti, di liberarsi di un altro pezzo del vecchio bagaglio. «Morales? Personaggio straordinario, che sta cambiando faccia al paese in nome dell´indigenismo, dei diritti della sua gente, e non del socialismo. Penso che dobbiamo ripartire da qui». E "qui" vuol dire anche America latina dove, ha constatato Bertinotti, soffia il vento del «rinascimento politico», mentre l´Europa si dibatte in preda «a una fortissima crisi politica». Il cuore del cambiamento allora adesso batte da queste parti, fra i Caraibi e le Ande (e non a caso l´ex leader del Prc giusto pochi mesi aveva mandato in soffitta il progetto della Sinistra europea, il fronte dei partiti comunisti). A giorni ne parlerà a Caracas con l´altra grande stella del firmamento rivoluzionario latino, il comandante Chavez. E anche, con tutte le differenze politiche del caso, con i leader moderati del Perù Garcia e dell´Ecuador Correa. Addio dunque vecchia Europa e l´idea stessa di socialismo, che ancora poco tempo fa il presidente della Camera ha provato a riverniciare con l´etichetta "del XXI secolo", sembra uscire malconcia dall´impatto sudamericano. Dove appunto vince il modello indio e non quello caro alla tradizione dei partiti socialisti. «Qui non ragionano in termini destra-sinistra, ma la cifra è andina, ed hanno ragione». E giù allora picconate. «Guardando a queste esperienze, anche chi si pensa comunista o socialista deve liberarsi dell´idea dell´universalità, perché sotto questo tetto c´è posto per tante cose, che possono andare nella stessa direzione». Tradotto: de profundis per qualunque forma di internazionalismo, il cemento del socialismo "planetario". E conversando con Morales e i suoi, Bertinotti ha notato che il linguaggio stesso è diverso. «Io dicevo giustizia e loro parlano di armonia. Io di progetto politico e loro di vivere bene. Io di superamento del capitalismo e loro partono dalle esigenze concrete, il petrolio, il gas, l´acqua, e non dallo schema ideologico». Ognuno deve fare da sé.
«E vuoi vedere - scherza ma fino ad un certo punto il presidente della Camera - che a va a finire che il socialismo ce lo teniamo solo noi?». E così, mentre in Italia dentro la Cosa rossa si litiga ancora su simboli aggettivi e famiglie di appartenenza, Bertinotti lancia il suo messaggio che, decrittato in versione più politica, dice: sono battaglie passatiste, acceleriamo il nuovo soggetto e andiamo oltre il socialismo. E magari in questa chiave ritaglia per sé un ruolo sempre più ampio e da spendere lontano dai vecchi schemi di appartenza.
A Caracas incontrerà la madre di Ingrid Betancourt, da sei anni nella mani delle Farc («un gruppo che è finito per diventare una isolata ridotta militare»), alla quale offrirà solidarietà («non posso fare più di tanto, visto che perfino Chavez non riesce nell´impresa»), spiegando che sempre solo nel dialogo fra le parti c´è la via d´uscita. Come con i tanti che, profetizza Fausto, sono o stanno per diventare gli indigeni di casa nostra, perché una questione "indio" scoppierà anche in Europa. È già successo, spiega: la rivolta nelle banlieu parigine. E in Italia «ce ne accorgeremo presto, già se ne vedono i segnali». Il pensiero corre alla rivolta dell´immodizia a Napoli.

Corriere della Sera 10.1.08
Incontro con Morales «In Italia sistema da sbloccare, qui è rinascimento»
Bertinotti: socialismo? Basta Oggi credo nell'«indigenismo»
«Nelle banlieue gli esclusi d'Europa. Presto anche da noi»
«La democrazia rappresentativa va integrata al più presto con processi di partecipazione e convivenza»
di Andrea Garibaldi


«Siamo tutti un po' meticci»

LA PAZ (Bolivia) — Fausto Bertinotti è studioso di San Paolo e si potrebbe usare per lui un'espressione legata a San Paolo, «folgorato». Esce, Bertinotti, folgorato dagli incontri con il presidente boliviano Evo Morales (che lo ha insignito della Gran Croce dell'Ordine del Merito Civil del Libertador Simon Bolivar) e con il viceministro degli Esteri Hugo Fernandez, al Salon Olaneta del ministero. Esce con una domanda così: «Per la trasformazione della società e dell'uomo ci sono altre possibilità oltre il socialismo? Se la risposta è sì, la questione diventa per noi amara...». Prosegue: «Chi, in Europa, si pensa socialista e comunista deve smettere le sue pretese universali, togliere gli occhiali con cui guarda ogni evento. Ci sono, sotto il cielo, tante cose diverse».
Per Bertinotti, presidente della Camera, ritorno in Sudamerica, secondo viaggio, un anno esatto dopo il primo. Trasferte così lontane, così apparentemente periferiche, vanno giustificate, spiegate. Non si tratta di insegnamenti diretti da prendere. Oggi in Italia «il problema è lo sblocco del sistema politico, con una nuova legge elettorale, il superamento del bicameralismo perfetto e la riforma dei regolamenti parlamentari». L'America latina, invece, è «in pieno rinascimento politico: «Le sinistre latinoamericane si sono divise e uccise per decenni. Alla fine, si sono forse date degli anticorpi. Hanno scelto il senso di appartenenza a un destino comune. Vedi il Frente amplio uruguayano che va dagli ex guerriglieri tupamaros alla Democrazia cristiana e ha vinto». Ed ecco il linguaggio particolare che Bertinotti ha ascoltato nelle stanze del potere a La Paz, dove governa Morales, nato da una famiglia contadina di indios aymara. Racconta Bertinotti: «Mi hanno detto: voi parlate di "giustizia", noi di "armonia", voi dite di voler "vivere meglio", noi siamo per cercare di "vivere bene"».
Non è dunque necessario partire dalla critica del sistema, dall'esecrazione dell'attuale organizzazione del mondo, si può piuttosto muovere da ciò che genera sofferenze. L'idea che Bertinotti distilla è che «puoi sempre ricavare elementi riformisti da tutto ciò che vive», e cita il tentativo di Morales di restituire petrolio, gas e acqua che si trovano in Bolivia ai boliviani, di restituire i redditi delle terre agli indios che le abitano. Non mirando alla causa ma all'effetto, e questo è un bel passo indietro per una cultura che ha sempre combattuto per un mutamento strutturale. Il socialismo nasceva come internazionalista, ora ogni esperienza è storia a sé. Fa perfino una battuta, il fondatore di Rifondazione comunista: «Andrà a finire che il socialismo ce lo terremo solo noi in Italia! ».
In tale nuovo quadro pragmatico si tengono assieme l'esperimento moderato della Bachelet in Cile, il sindacal- riformismo di Lula in Brasile, perfino il neo peronismo dei Kirchner in Argentina. Il socialismo (però «del XXI secolo») di Chavez in Venezuela e infine l'ardito sforzo dell'indio Morales, qui. Il partito del presidente si chiama Mas, Movimento al socialismo, ma più di una volta — nei colloqui— la parola «socialismo» viene superata. Preferendo l'«indigenismo ». Spiega Bertinotti: «Significa far partecipare chi è escluso, dialogare con chi è diverso, cioè con più del 50 per cento della popolazione, con gli eredi degli abitanti di queste terre prima della conquista spagnola». E da noi, chi sono gli indigeni? «In Europa gli indigeni si trovano di certo nelle "banlieue" parigine. Da noi è più complicato, ma forse non dovremo aspettare molto per scoprirli...». Quelli di Pianura, i reietti dei rifiuti? Bertinotti consuma un altro salto ideologico, cerca di navigare in un mare sempre più aperto. Ne parla per tre volte nello stesso giorno, al Museo Nacional de Arte, all'Università Umsa e all'ambasciata italiana. Non è solo il socialismo in discussione. Anche la democrazia rappresentativa come la conosciamo «non basta più, va integrata con processi di partecipazione, convivenza. Non è questione di sentimentalismo, ma di sopravvivenza. Bisogna fare presto...».

Corriere della Sera 10.1.08
Campagna contro l’aborto, purché la faccia lo Stato
di Sergio Romano


Non vi è dubbio che sui temi etici vi siano strumentalizzazioni ideologiche in entrambi gli schieramenti. Ma se Ferrara o Ruini sostengono che l'aborto è diventato una pratica di controllo delle nascite e di selezione genetica (in Cina spesso non si fanno nascere le femmine) dicono una verità che tutti conosciamo. È altrettanto vero che in Italia la legge 194 non è applicata nella sua interezza perché l'art.1 che prevede attività di sostegno psicologico e sociale alle madri in difficoltà e offerta di alternative all'aborto, non è applicato nella maggior parte dei consultori che si limitano a rilasciare certificati per l'interruzione della gravidanza. E a rimetterci sono tante donne che rimangono traumatizzate per tutta la vita. Con buona pace di qualche obsoleta femminista e di Pannella.
Lorella Groten
oite41@yahoo.it
La tesi delle donne, delle femministe in particolare, è questa: è la donna che partorisce e deve quindi essere libera di decidere.
Giustissimo. La questione è: quando deve decidere?
Ci sono in commercio una quantità di contraccettivi, pillole, profilattici, spirali, spermicidi. Prima di far sesso, la donna può decidere se vuole o non vuole restare incinta. Ma la sua libertà di decidere non può tradursi in diritto di vita o di morte di un altro essere vivente.
Cinque milioni di aborti stanno a dimostrare quanto meno leggerezza.
Le leggi non sono neutrali, di fatto finiscono per favorire l'ecatombe di feti, assolvono la donna da ogni responsabilità. È vero che i principi etici sono diventati nelle nostre società marginali, ma questo non deve servire da pretesto per alimentare il degrado.
Francesco Bergamini
qoeref@netscape.net

Cari lettori,
L' interruzione di gravidanza fu approvata dalle Camere nella primavera del 1978 e venne confermata dal fallimento del referendum abrogativo del maggio 1981. La legge fu salutata come la conquista di un diritto e parve importante per due ragioni. In primo luogo perché permetteva alla donna di programmare la propria vita ed era quindi una conquista del movimento femminile; in secondo luogo perché fu considerata una terapia efficace contro la piaga degli aborti clandestini. Anche i dubbiosi e gli incerti dovettero piegarsi di fronte a questi due fattori. È bene ricordare, a scanso di equivoci, che gli italiani contrari all'abrogazione della legge furono 21.505.323 e rappresentarono il 68% degli elettori. Sarà difficile, e forse inopportuno, tentare di modificare una norma in cui la grande maggioranza degli italiani vide allora la conquista di un diritto.
È vero, tuttavia, che la legge sta producendo risultati sconcertanti e che il suo uso eugenetico rafforza dubbi e riserve. Francesco Bergamini ha ragione quando osserva che la donna dispone oggi di altri mezzi per sottrarsi alla prospettiva della gravidanza. Lorella Groten ha ragione quando constata che l'aborto non viene utilizzato soltanto per evitare la maternità, ma anche e soprattutto per «selezionare » il figlio desiderato. Non è necessario riconoscere il magistero della Chiesa cattolica per provare un forte disagio morale di fronte all'uccisione di creature viventi, spesso eliminate per scartare il «prodotto guasto». Può darsi che la modifica della legge n. 194 sia oggi, nell'attuale stato confusionale della politica italiana, un esercizio inutilmente rischioso. Ma questo non esclude la possibilità di una forte campagna anti-abortista.
Questa campagna, tuttavia, deve essere ispirata dagli interessi e dagli obblighi dello Stato, non dai precetti della Chiesa. Lo Stato non può predicare la virtù della castità e della continenza, non può erigersi a maestro di comportamenti morali, non può ignorare le richieste di una parte importante dei suoi cittadini. Deve limitarsi a constatare che l'età dell'attività sessuale si è fortemente abbassata e che il fenomeno dell'immigrazione crea un sottoproletariato promiscuo in cui la maternità è spesso il frutto casuale dell'ignoranza, della negligenza e della violenza. Se vogliamo ridurre drasticamente il numero degli aborti, dobbiamo accettare che l'educazione sessuale diventi, a partire dai tredici anni, una delle principali materie del programma scolastico e prevedere la distribuzione gratuita dei contraccettivi nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle borgate. La Chiesa è contraria a ciò che implicitamente giustifica la violazione dei suoi precetti. Ma uno Stato democratico e laico ha altre responsabilità e deve renderne conto ai propri cittadini, non alla Conferenza episcopale.


il Riformista 10.1.08
Caro Veltroni, ma perché sull'aborto
come interlocutore hai scelto Ferrara?
Le forze clericali vogliono mettere le mani sulla legge 194
di Andrea Benedino


Forse sono l'ultimo a dover parlare. Non sono donna, non sono padre e non sono neppure eterosessuale, e di conseguenza non vengo considerato come naturalmente predisposto alla procreazione. Però l'idea che il segretario del mio partito scelga come interlocutore per discutere di aborto Giuliano Ferrara (che peraltro non ha molti titoli più di me a questo riguardo) mi urta nel profondo, perché va di fatto a riconoscere una patente di legittimità alle posizioni di chi, con la sua proposta di «moratoria», ha equiparato di fatto quelle donne che abortiscono a delle assassine, o peggio a dei «boia». Certo, Veltroni nella sua lettera al Foglio difende la 194, e certo, difende pure a spada tratta la posizione della ministra Turco, e certo, essendo noi tutti dei veri e autentici democratici, a un sano dibattito non diciamo mai di no, ma perché proprio Ferrara?
L'ho già scritto altre volte: reputo Walter Veltroni troppo intelligente e troppo attento all'importanza della comunicazione per non comprendere come il valore simbolico della sua disponibilità a incontrare Giuliano Ferrara per discutere della moratoria dell'aborto sia infinitamente superiore al contenuto della posizione politica da lui espressa nella sua lettera al Foglio . Perché rischia di rappresentare la prima vera breccia in quel muro che da decenni impedisce alle forze clericali di questo paese di mettere le mani sulla 194, che poi significa mettere le mani sul corpo delle donne, sulla loro libertà di scelta e di autodeterminazione e più in generale sul valore di uno Stato laico che si rifiuta di trasformarsi in Stato etico. Perché era assolutamente logico pensare che nella folle strategia di conquista di un consenso egemonico nella società da parte delle gerarchie ecclesiastiche, dopo il risultato che è sotto gli occhi di tutti di aver impedito qualsiasi nuova legge che ampliasse i diritti civili dei nostri cittadini (dalla procreazione assistita, al testamento biologico, al divorzio breve, alle unioni civili) il passo successivo sarebbe stato quello di provare a mettere le mani, magari servendosi dell'aiuto di qualche ateo devoto, su quella legge - la 194 - che nell'immaginario collettivo di questo paese ha rappresentato e ancora rappresenta, assieme alla legge sul divorzio e al nuovo diritto di famiglia, quel complesso di leggi che hanno emancipato l'Italia dal condizionamento eccessivo della Chiesa cattolica nella vita dei cittadini.
Viene quindi da pensare che il senso di questo gesto apparentemente folle se non "contro natura" di Veltroni stia proprio lì: nel segnare un passo avanti verso l'apertura di un dialogo che possa consentire a quelle forze di provare a piantare con forza una bandierina, seppur piccola, sulla cima della 194, magari nella speranza che possa col tempo provocare quella valanga da essi auspicata in grado di trasformare per sempre il valore che quella legge rappresenta per le donne italiane, e più in generale per i laici di questo paese. Nel rendere palese all'opinione pubblica che nemmeno la 194, per quanto difesa e sostenuta a parole, può più rappresentare quel santuario inviolabile che finora è stata per le donne e i laici di questo paese, perché della sua riforma si può e si deve discutere, addirittura con i peggiori interlocutori.
Di questo stiamo discutendo in realtà, non di altro. Di come attraverso una serie di gesti simbolici - il voto contro il registro delle unioni civili a Roma e appunto il dialogo con Ferrara sulla moratoria degli aborti - la nuova stagione inaugurata da Veltroni stia mutando nel profondo il Dna della sinistra democratica e laica di questo paese.
Bene ha fatto quindi il presidente nazionale dell'Arcigay Aurelio Mancuso nei giorni scorsi, in un articolo scritto con perfida e sapiente ironia, a chiedere anch'egli un confronto alla pari di Ferrara con la Commissione che sta scrivendo il Manifesto dei Valori del Pd. Bene farebbero a chiedere un confronto serrato con Veltroni il movimento delle donne, gli scienziati, i medici, i ricercatori. Perché da troppo tempo questo partito (e anche quelli che l'hanno preceduto) non parla più coi movimenti e non si confronta con la realtà della vita delle persone, troppo chiuso com'è nella sua fortezza assediata. Perché il rischio che corriamo è che questo Pd dialoghi e interloquisca solo con chi alza la voce con prepotenza, con chi non si fa scrupolo di strumentalizzare il dramma delle donne che abortiscono pur di affermare il proprio dominio sull'agenda politica del paese. Perché ha ragione Mariella Gramaglia quando afferma che «la ragione per cui la moratoria dell'aborto sta nell'agenda politica è che la signoria dell'immaginario collettivo e dei canali attraverso cui si struttura è saldamente nelle mani degli uomini».
È un bene quindi che i laici del Pd - come annunciato nell'appello promosso da Barbara Pollastrini, Salvatore Veca, Gianni Cuperlo, Miriam Mafai e tanti altri tra cui chi scrive - stiano finalmente iniziando a organizzarsi, a esprimere con forza le loro preoccupazioni per questa fase confusa che stiamo attraversando. Non si tratta affatto di rinchiudersi in un recinto identitario, ma piuttosto di ridare una voce chiara e forte a quelle tante e a quei tanti che in questi mesi una voce non l'hanno avuta, che non capiscono più cosa sta succedendo, e che rischierebbero di trovarsi presto senza un partito di riferimento se nel Pd non venissero fissati paletti chiari su diritti civili, laicità ed etica. Perché è proprio l'assenza di questa voce che consente a chi urla più forte di farsi ascoltare e di divenire l'unico vero interlocutore. Perché è importante che Veltroni sappia, quando incontrerà l'orco Ferrara, che saranno in tante e tanti in quel momento nel Pd a pensare, come io penso, «not in my name».
componente commissione nazionale Manifesto dei Valori del Pd

il Riformista 10.1.08
Incontri. oggi il sindaco di Roma in udienza
L'esordio vaticano da leader del Pd
Veltroni ascolta l'agenda di Ratzinger
Tempo fa il caos in Campidoglio sul registro delle unioni civili
di Paolo Rogari


Walter Veltroni, negli anni passati, già aveva partecipato in qualità di sindaco di Roma alle udienze che, come vuole la tradizione, il Papa concede ai rappresentanti degli enti locali del Lazio al finire delle festività natalizie: un incontro storicamente speciale visti i vincoli profondi e antichi che uniscono il successore di Pietro alla città di Roma. Ma l'udienza del 2008 in programma quest'oggi nella sala Clementina del Vaticano - la terza del pontificato di Ratzinger, la terza a cui partecipano, oltre a Veltroni, Enrico Gasbarra e Piero Marrazzo - ha un sapore differente, visto che è la prima volta che vi prende parte da leader del Partito democratico: un progetto politico osservato con attenzione dalla Santa Sede anche a motivo dell'eterogeneità delle forze (cattoliche e laiche) che ne fanno parte.
Come negli appuntamenti precedenti, il Pontefice si premunirà di offrire ai tre amministratori alcuni spunti di riflessione per una politica territoriale consona all'idea di società propria della dottrina sociale della Chiesa. Spunti di riflessione, dunque - e non diktat -, spunti che, dal punto di vista del Vaticano, si inseriscono in un naturale terreno di collaborazione tra la Chiesa e le istituzioni e servono da base per un confronto che continuerà nei mesi a venire e che, per quanto riguarda Veltroni, non potrà non avere una sua eco anche nelle scelte che il neo costituito Pd dovrà prendere in futuro.
Il discorso di oggi di Benedetto XVI, come quelli passati pronunciati agli enti locali del Lazio, contnerrà molto probabilmente una parte dedicata alla necessità di valorizzare la famiglia fondata sul matrimonio e alla preoccupazione per le proposte che vogliono legalizzare le unioni di fatto. Su questo punto Veltroni ha dovuto gestire una situazione difficile qualche settimana fa, quando c'era all'ordine del giorno in Campidoglio, su iniziativa della sinistra, l'istituzione di un registro per le unioni civili. Ed è ovviamente in situazioni come questa che la Santa Sede si fa sentire, e scruta con particolare attenzione e preoccupazione l'operato del leader del Pd.
In occasione degli appuntamenti pubblici con il Papa, Veltroni ha sempre tenuto un comportamento che in Vaticano giudicano impeccabile: seduto con reverenza in prima fila, al momento dei saluti (a differenza di molti dei suoi collaboratori) si è sempre inchinato a baciare l'anello papale. Ma nonostante la forma resti importante, è ovviamente sulla sostanza che la Santa Sede lo aspetta al varco. E, in particolare, è sulle temi eticamente sensibili che il Vaticano si aspetta prese di posizione aperte, che consentano (sempre dal punto di vista della Chiesa) un confronto serio, magari serrato, ma non ideologico.
In merito alle proposte di moratoria dell'interruzione volontaria della gravidanza, per le gerarchie ecclesiastiche già si sono espressi direttamente il cardinale vicario di Roma Camillo Ruini e il presidente della Cei Angelo Bagnasco. Mentre il Papa, tre giorni fa, di fronte al corpo diplomatico, ha chiesto un impegno della comunità internazionale nella difesa della sacralità della vita. Parole che hanno ripreso altri precedenti interventi del Pontefice volti a ricordare la necessità di difendere la vita dal suo concepimento al suo naturale tramonto. Su questo tema, anche in passato, il Papa si era espresso in modo chiaro e ulteriori eventuali interventi non dovrebbero andare oltre il già detto.
Accanto ai temi etici, verranno affrontati anche quelli sociali, a partire dalle politiche di integrazione che negli ultimi mesi, soprattutto a Roma, hanno mostrato, a giudizio del Vaticano, parecchie crepe. Anche nell'udienza dello scorso anno c'erano stati importanti accenni in merito: Senza la capacità di gestire i flussi migratori, e senza offrire agli stranieri concrete possibilità di integrazione, non è possibile governare una situazione che rischia sempre più di degenerare. In questo senso non erano mancate, prima di Natale, prese di posizione critiche da parte di alcuni esponenti della Santa Sede anche per il cosiddetto suk di via della Conciliazione, che chiedevano agli amministratori locali politiche d'integrazione incentrate sì sulla comprensione, ma anche sull'equilibrio. Alla cosa potrebbe essere fare qualche accenno anche oggi il Pontefice.

Aprile on line 10.1.08
La laicità perduta...
di Carla Ronga


Correva l'anno 2007: i mass media s'interrogano intere settimane sul gabinetto più consono per un transessuale; di P.A.C.S. o di D.I.C.O., dopo tante promesse, neppure l'ombra. Al contrario, il centrosinistra si spacca sul Family day mentre la controffensiva laica stenta a riempire piazza Navona; si scrivono leggi speciali contro gli immigrati violenti mentre le donne subiscono violenza da mariti e compagni al motto "i panni sporchi si lavano in famiglia!"; il Pd inciampa a Roma sul registro delle coppie di fatto dopo l'appello vaticano ai consiglieri comunali cattolici: "sarebbe un offesa al carattere sacro della città".
Corre l'anno 2008, anno importante in quanto segna il quarantennale del '68: i diritti civili vengono bollati come temi "eticamente sensibili", una sorta di "politically correct" che provoca, nel migliore dei casi, l'immobilismo e, nel peggiore, una regressione integralista che appare in tutto il suo "peso" quando il papa si scaglia contro l'aborto, e il suo fedele scudiero Ferrara orrendamente equipara la pena di morte con l'interruzione volontaria di gravidanza.
Voi che ne dite: noi laici, dove abbiamo sbagliato?

il manifesto 10.1.08
Ratzinger arriva alla Sapienza
Il Papa all'inaugurazione dell'Anno accademico della prima università romana
Dopo le proteste, l'ingresso in Aula Magna è previsto subito dopo la cerimonia d'apertura del Rettore. Docenti e studenti preparano la «difesa della Minerva»
di Eleonora Martini


Faranno quadrato attorno alla Minerva, dea del conflitto e della conoscenza, per difenderla dal «Papa inquisitore». Molti studenti e docenti dell'università romana La Sapienza sono già in agitazione all'idea di quale sarà la «riflessione» che Benedetto XVI offrirà alla comunità universitaria il 17 gennaio prossimo, quando per la prima volta varcherà la soglia di un ateneo italiano e lo farà, nel più grande d'Europa, in occasione dell'inaugurazione del 705esimo Anno accademico. La giornata è dedicata quest'anno alla moratoria sulla pena di morte e il tema sarà al centro di ogni intervento previsto. Ed è molto probabile che Ratzinger, il quale pronuncerà il suo discorso alla presenza del segretario del Pd Walter Veltroni e del ministro Fabio Mussi, uno dei quattro segretari della Sinistra arcobaleno, non perderà l'occasione per proporre di nuovo ai giovani aspiranti laureati italiani il parallelo tra l'aborto e la pena di morte.
Ma il Papa farà il suo ingresso nell'Aula Magna solo pochi minuti dopo che si sarà conclusa la tradizionale cerimonia accademica, come aveva già precisato il rettorato rispondendo al professore emerito Marcello Cini che dalle colonne di questo giornale aveva inoltrato la propria lettera di protesta sottoscritta poi da molti altri docenti italiani. Il Santo padre cioè sarà accolto solo dal rettore Renato Guarini e da uno studente, scelto probabilmente con una certa ironia per il nome: Christian Bonafede. A Veltroni e Mussi invece solo la possibilità di un saluto privato - trasmesso come tutto il resto della giornata in diretta su Rai Uno - assieme alle altre autorità accreditate. Subito dopo Ratzinger si recherà a fare visita ai gesuiti della Cappella universitaria e di fatto, senza mai uscire dalla città universitaria, sarà di nuovo in territorio vaticano.
Ovviamente ci saranno anche molti studenti e docenti che lo accoglieranno felici, ma sono tanti coloro che trovano a dir poco sconveniente che l'apertura dei lavori universitari veda la presenza di un pontefice neo tradizionalista come Benedetto XVI, «un teologo la cui lectio magistralis di Ratisbona sollevò dure reazioni in tutto il mondo islamico e che oggi si appresta a dare avvio ad una nuova crociata contro le donne e gli omosessuali», come dice uno studente appartenente a uno dei tanti collettivi in ebollizione. «Tradizione e innovazione: ci sono slogan che riescono a catturare la realtà, o il suo triste vuoto. Questo è tutto ciò che possiamo riconoscere allo slogan scelto dalla Sapienza per autocelebrare un simulacro, cioè le macerie del "tempio della conoscenza"», scrive la Rete per l'Autoformazione (Rpa) nell'appello con il quale si indice un'assemblea pubblica di discussione per martedì 15 gennaio. Ovviamente nel mirino ci sono soprattutto i due esponenti del centrosinistra: «Chi meglio di Veltroni può interpretare lo slogan: tradizione, "ma anche" innovazione? Chi più di Mussi, ministro senza qualità, ha bisogno della forza della reazione per poter mettere piede in un'università che ne ha subito l'assenza e la debolezza?», attaccano gli studenti. Che, insieme ai Collettivi studenteschi stanno organizzando la protesta anche perché quel giorno La Sapienza verrà chiusa, militarizzata come tutto il quartiere con una presenza massiccia di polizia e carabinieri. «È indegno che quel giorno si impedisca l'ingresso degli studenti all'università - accusa Francesco della Rpa, che insieme ai Collettivi studenteschi sta preparando le manifestazioni di protesta - per questo facciamo appello a tutta la società laica di venire a difendere simbolicamente la Minerva, la potenza dei saperi di parte e del conflitto». Nel pomeriggio invece Facciamo Breccia prepara un'ironica via crucis dentro la città universitaria giocando sul travestitismo dei preti e puntando il dito contro l'omofobia e la misoginia della Chiesa. Una tappa verso la manifestazione nazionale No Vat del 9 febbraio prossimo.
Non è la prima volta che un Papa entra nel tempio delle scienze: per rimanere solo alla storia recente La Sapienza venne visitata da Paolo VI nel '64 e da Wojtyla nel '91. Il quale poi inaugurò l'anno accademico di Roma Tre nel 2002 alla presenza di Letizia Moratti e Claudio Scajola. Ma allora la maggior parte del centrosinistra e anche del Pd erano dall'altra parte della «barricata».

il manifesto 10.1.08
Il Pd è laico per statuto, ma famiglia e religione sono tanto importanti
Pronta la bozza per il partito di Veltroni, ma parte lo scontro tra appelli contrapposti. E si organizzano le correnti. Quelli di Letta: se il segretario perde le elezioni si dimetta
di Mi. B.


La bozza del Manifesto dei valori del Pd è pronta, ieri è stata consegnata ai cento componenti della commissione dai suoi estensori - il presidente della stessa commissione Alfredo Reichlin e Mario Ceruti - e sabato sarà discussa. Nove pagine in cui si afferma che «la laicità dello stato e delle istituzioni è un valore essenziale dell'impegno politico e sociale» del partito, aggiungendo però che essa va intesa «come rispetto e valorizzazione degli orientamenti culturali, e quindi come riconoscimento della rilevanza nella sfera pubblica, e non solo privata delle religioni». Un successo rivendicato tra gli altri da Giorgio Merlo che proprio ieri chiariva che «i cattolici sono determinanti» e che «non trova spazio il tentativo, patrocinato da qualche esponente del Pd, di ridurre il sentimento religioso a un fatto meramente privato». E così è.
Nella bozza il Pd viene presentato come «un partito aperto» in cui «le diverse storie politiche, culturali e umane che sono venute a formarlo sono fattore di arricchimento e fecondazione reciproca». La laicità, è scritto ancora, consiste nella garanzia di uno spazio pubblico e condiviso di libero confronto e decisione, autonomo rispetto a qualunque condizionamento mirante a imporre una visione (di ordine culturale, ideologico, religioso), agli individui, alla società e alle istituzioni». Ma qui i cattolici incassano la «rilevanza nella sfera pubblica» della religione. Nella bozza è scritto poi che la famiglia, «il primo luogo relazionale, affettivo e formativo dove si sviluppa l'identità, l'inserimento sociale e la dignità della persona», va incoraggiata con « politiche di sostegno pubblico». Per quanto riguarda la scuola, si parla del «sistema scolastico pubblico integrato» caro al ministro Fioroni.
Sabato la discussione, dunque. Di fatto già aperta insieme allo stesso cantiere del Pd. E recentemente scaldata da questioni come il registro delle unioni civili che il comune di Roma non ha potuto istituire (proprio per la contrarietà del sindaco Veltroni) e dal nuovo scontro sulla legge 194. Insomma, quello della laicità è un nodo irrisolto, lamentano i laici del partito che hanno firmato un appello «per un nuovo civismo» pubblicato ieri dall'Unità. Un documento che ha raccolto 150 adesioni promosso dalla ministra Barbara Pollastrini e da Gianni Cuperlo e firmato tra gli altri da Miriam Mafai (che su Repubblica aveva parlato di sconfitta del Pd a proposito del registro delle coppie di fatto). Nell'appello si segnala come nella «inevitabile» discussione su Dico, testamento biologico, fecondazione assistita, aborto, rispetto dell'orientamento sessuale si scorga una «sovrapposizione di concetti che preoccupa» perché «si scambia di frequente la richiesta di legittimi diritti civili per tematiche etiche». Il che «rende più confusa la discussione e la ricerca di un approdo condiviso». I firmatari, che annunciano per i primi di marzo un incontro pubblico, manifestano «inquietudine» sia per le posizioni «che restituiscono all'omosessualità una patente di malattia da curare» (leggi Paola Binetti), e più in generale per «la difficoltà del nuovo partito di elaborare sul terreno della cittadinanza, dei diritti e delle responsabilità del singolo, una chiave indispensabile della propria identità».
Nel frattempo nel «partito aperto» di Veltroni, non solo su questi temi, si moltiplicano iniziative di gruppi (ma non si chiamino «correnti»...). Ieri il «gruppo dei 60», i cattolici democratici ex Ppi di Franceschini e Fioroni che promossero il manifesto contro le ingerenze dell'episcopato sulle unioni civili, ha rilanciato la sua associazione «Quarta fase» che aprirà a fine febbraio una sede a Roma. Per un altro verso si fanno avanti anche i «lettiani»: con un emendamento alla bozza statuto chiedono che in caso di sconfitta alle elezioni il segretario del Pd si dimetta.

il manifesto 10.1.08
Cosa rossa. Sinistra al palo, si aspetta la Corte
Lo sfogo di Salvi «Unità? A un mese dagli stati generali siamo allo stallo». Il Pdci ai compagni del Prc: il modello finto tedesco è un golpe. Noi non lo voteremo mai»
di Daniela Preziosi


E' ferma al palo la sinistra unita sotto la troppo variopinta insegna dell'arcobaleno. Per Cesare Salvi «a un mese dagli stati generali, non riusciamo a trovare una posizione unitaria. Lo vediamo sulla legge elettorale». Se va avanti così l'unità resterà una chimera. Si sfoga, il capogruppo di Sinistra democratica al senato. Si sfoga, si «preoccupa» e si «rammarica» per lo stato dei rapporti a sinistra. Le divisioni a palazzo Madama sulla bozza Bianco sono profonde, almeno per ora. Rifondazione è possibilista sulla bozza Bianco, almeno a certe condizioni (Giovanni Russo Spena snocciola tre no: no a un sistema maggioritario, no al referendum e no a un sistema bipartitico). Sd, Pdci e Verdi la bocciano, anche se con sfumature diverse. Differenze che non promettono niente di buono.
Troppo inclemente la diagnosi di Salvi? In teoria le cose non starebbero così. Ieri, alla camera, su un altro tavolo, i quattro dell'arcobaleno ( in realtà erano tre, Giordano, Pecoraro Scanio e Mussi, Diliberto mancava a causa di un'influenza, ma poi c'erano i ministro Paolo Ferrero e Alessandro Bianchi) hanno raggiunto una posizione unitaria sui salari, da portare oggi al primo round della verifica con il governo. Ma per il secondo round, quello sulla legge elettorale, previsto per il 20 gennaio, al momento non c'è nessuna possibilità di un'orientamento unitario. Primo, tutto dipende dalla decisione della Consulta sull'ammissibilità del referendum. Da cui, secondo, discenderanno gli orientamenti definitivi della discussione sulla legge elettorale.
E siccome l'unità sulla legge elettorale è come dire l'unità sulle prospettive - nel caso lo sbarramento al 5 per cento sarebbe un argomento convincente per sollecitare i quattro partiti verso un'unità praticata, oltreché dichiarata - ha ragione Salvi quando dice che la sinistra unita per ora è in alto mare. A un mese dalla celebrazione degli stati generali alla nuova Fiera di Roma, con tanto di scenografie, simbolo e bella ciao. Da allora il progetto è allo stallo, «non si sono fatti passi in avanti», insiste Salvi, «noi crediamo in quel progetto ma rischia di essere dissolto dalle controversie dei ceti dirigenti e politici».
Ma al momento, di una legge elettorale condivisa neanche a parlarne. Letteralmente. Un tabù: lo riferiva ieri Manuela Palermi del Pdci all'uscita del vertice della sinistra al senato: «Non ne abbiamo parlato perché siamo divisi. Non possiamo farci la guerra tra di noi. Per me la bozza Bianco è un colpo di Stato». Un golpe, quindi, non una proposta ma «una provocazione», dice la senatrice, «un evidente frutto dell'accordo tra Berlusconi e Veltroni. Entrambi la utilizzano per arrivare al referendum evitando che il parlamento lavori ad una proposta seria». Ed è «imbarazzante» che il presidente Bianco «insista a voler votare martedì la bozza, quando la stragrande maggioranza della Commissione (Pdci, Verdi, Sd, An, Udc, Costituente socialista, ndr) si è espressa in modo contrario». Parla a suocera perché nuora intenda. Dove la nuora, Rifondazione, a detta di Pier Ferdinando Casini, è propensa se non vicina all'accordo con Pd, Forza Italia e la stessa Udc sul sistema tedesco. Sistema tedesco, poi? Per il Pdci la bozza Bianco non ha niente a che vedere con la Germania. Ieri i comunisti italiani hanno diffuso uno studio commissionato per simulare gli effetti di un'eventuale riforma secondo i criteri della 'bozza Bianco', almeno quelli noti. Risultato: un massacro per i piccoli, dalla rossa Umbria sarebbe proibitivo per il Pdci far eleggere un senatore. Difficile anche per il Prc. La sentenza di Palermi: «Una riforma suicida, non la voteremo mai, in nessuno delle sue possibili versioni».